• Perché l’università delle piattaforme è la fine dell’università

    Un gruppo di docenti di alcune università italiane ha scritto una lettera aperta sulle conseguenze dell’uso di piattaforme digitali proprietarie nella didattica a distanza. Auspichiamo che si apra al più presto una discussione sul futuro dell’educazione e che gli investimenti di cui si discute in queste settimane vengano utilizzati per la creazione di un’infrastruttura digitale pubblica per scuole e università.

    Care colleghe e cari colleghi, care studentesse e cari studenti,

    come certamente sapete, le scuole e le università italiane, da quando è iniziata l’emergenza COVID, per ragioni inizialmente comprensibili, si sono affidate per la gestione della didattica a distanza (esami inclusi) a piattaforme e strumenti proprietari, appartenenti, perlopiù, alla galassia cosiddetta “GAFAM” (Google, Apple, Facebook, Microsoft e Amazon: https://gafam.info). Esistono poche eccezioni, come il Politecnico di Torino, che ha adottato soluzioni non-proprietarie (https://www.coronavirus.polito.it/didattica_online/supporto_tecnico_alla_didattica_online/linee_guida_e_vademecum_tecnici) e autoprodotte. Tuttavia, il 16 luglio 2020 la Corte di Giustizia Europea ha emanato una sentenza (https://www.garanteprivacy.it/documents/10160/0/FAQ+dell%27EDPB+sulla+sentenza+della+Corte+di+giustizia+dell%27Unione+europea+nella+causa+C-311_18.pdf/d2f928b2-ab57-ae7c-8f17-390664610d2c?version=3.0) molto importante, dove, in sintesi, si afferma che le imprese statunitensi non garantiscono la privacy degli utenti secondo il regolamento europeo sulla protezioni dei dati, conosciuto come #GDPR (#General_Data_Protection_Regulation: https://gdpr.eu/what-is-gdpr). Dunque allo stato tutti i trasferimenti di dati da UE a Stati Uniti devono essere considerati non conformi alla direttiva europea e perciò illegittimi.

    Sul tema è in corso un dibattito a livello comunitario e il Garante Europeo ha esplicitamente invitato “istituzioni, uffici, agenzie e organi dell’Unione europea a evitare trasferimenti di dati personali verso gli Stati Uniti per nuove operazioni di trattamento o in caso di nuovi contratti con fornitori di servizi” (https://www.key4biz.it/il-garante-privacy-europeo-non-usare-i-cloud-provider-usa-conformarsi-alla-sentenza-schrems-ii/328472). Mentre il garante irlandese ha direttamente vietato (https://www.politico.eu/article/facebook-privacy-data-us) i trasferimenti dei dati degli utenti Facebook verso gli Stati Uniti. Alcuni studi (http://copyrightblog.kluweriplaw.com/2020/06/04/emergency-remote-teaching-a-study-of-copyright-and-data-p) infine sottolineano come la maggioranza della piattaforme commerciali usate durante la “didattica emergenziale” (in primis G-Suite: https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/liberiamo-la-scuola-dai-servizi-cloud-usa-lettera-aperta-ai-presidi) pongano seri problemi legali e documentano una “sistematica violazione dei principi di trasparenza.”

    In questa difficile situazione, varie organizzazioni, tra cui (come diremo sotto) alcuni docenti universitari, stanno cercando di sensibilizzare scuole e università italiane ad adeguarsi alla sentenza, nell’interesse non solo di docenti e studenti, che hanno il diritto di studiare, insegnare e discutere senza essere sorvegliati (https://www.vox.com/recode/2020/5/4/21241062/schools-cheating-proctorio-artificial-intelligence), profilati e schedati, ma delle istituzioni stesse. I rischi legati a una didattica appaltata a multinazionali che fanno dei nostri dati ciò che vogliono non sono, infatti, solo economici e culturali, ma anche legali: chiunque, in questa situazione, potrebbe sporgere reclamo al garante della privacy a danno dell’istituzione in cui ci troviamo a lavorare.

    La questione va però al di là del diritto alla privatezza nostra e dei nostri studenti. Nella rinnovata emergenza COVID sappiamo che vi sono enormi interessi economici (https://www.roars.it/online/dematerializzazioni-algoritmi-e-profitti) in ballo e che le piattaforme digitali, che in questi mesi hanno moltiplicato i loro fatturati (si veda lo studio (https://www.mbres.it/sites/default/files/resources/rs_WebSoft2020_presentazione.pdf) pubblicato a ottobre da Mediobanca), hanno la forza e il potere per plasmare il futuro dell’educazione in tutto il mondo. Un esempio è quello che sta accadendo nella scuola con il progetto nazionale “#Smart_Class” (https://www.istruzione.it/pon), finanziato con fondi UE dal Ministero dell’Istruzione. Si tratta di un pacchetto preconfezionato di “didattica integrata” (https://www.youtube.com/watch?v=vPPhUL8MIPs&feature=youtu.be

    ) dove i contenuti (di tutte le materie) li mette Pearson, il software Google e l’hardware è Acer-Chrome Book. (Per inciso, Pearson è il secondo editore al mondo (https://www.publishersweekly.com/binary-data/Global502019.pdf), con un fatturato di oltre 4 miliardi e mezzo di euro nel 2018.) E per le scuole che aderiscono non è possibile acquistare altri prodotti…

    Infine, sebbene possa apparirci fantascienza, oltre a stabilizzare la teledidattica proprietaria (https://www.roars.it/online/teledidattica-proprietaria-e-privata-o-libera-e-pubblica) come “offerta”, si parla già (https://www.forbes.com/sites/forbestechcouncil/2020/06/08/artificial-intelligence-in-education-transformation) di intelligenze artificiali che “affiancheranno” i docenti nel loro lavoro.

    Per tutte queste ragioni un gruppo di docenti di varie università italiane ha deciso di reagire.

    La loro e nostra iniziativa non è al momento finalizzata a presentare un reclamo immediato al garante, ma ad evitarlo, permettendo a docenti e studenti di creare spazi di discussione e indurre a rettificare scelte che coinvolgono la loro libertà d’insegnamento e il loro diritto allo studio. Solo se la risposta istituzionale sarà insufficiente o assente, ricorreremo, come extrema ratio, al reclamo al garante della privacy. In tal caso il primo passo sarà sfruttare la “falla” aperta dalla sentenza della corte UE per spingere il garante italiano a intervenire (invero lo aveva già fatto #Antonello_Soro (https://www.key4biz.it/soro-al-parlamento-infrastruttura-cloud-pubblica-non-piu-eludibile-per-lindipendenza-dai-poteri-privati/311412), ma è rimasto inascoltato). Lo scopo di queste azioni non è certamente quello di “bloccare” le piattaforme che erogano la didattica a distanza e chi le usa, ma spingere il governo a investire finalmente nella creazione di un’infrastruttura pubblica e basata su software libero (https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/leuropa-post-privacy-shield-e-lopen-source-la-via-per-uscire-dal-colo) per la comunicazione scientifica e didattica. Esistono vari modelli (vedi quello proposto qui: https://infolet.it/files/2020/11/FACSIMILE-MODULO-DOCENTI-PRIVACY_pdf.pdf) ai quali ispirarsi, per esempio in Francia (http://apps.education.fr), ma anche in Spagna (https://cedec.intef.es/proyecto-edia), ecc. e la stessa UNESCO nel 2019 ha approvato una Raccomandazione (https://en.unesco.org/news/new-unesco-recommendation-will-promote-access-educational-resources-all) per l’uso di risorse e strumenti aperti in ambito educativo.

    Come dicevamo sopra, prima di arrivare al garante nazionale è necessario una tappa preliminare. Ciascuno deve scrivere al responsabile del trattamento dati richiedendo alcune informazioni (qui il fac-simile di modulo per docenti che abbiamo preparato: https://infolet.it/files/2020/11/FACSIMILE-MODULO-DOCENTI-PRIVACY_pdf.pdf). Se non si riceverà risposta entro trenta giorni, o se la risposta è considerata insoddisfacente, si potrà procedere col reclamo al garante nazionale. A quel punto, il discorso cambierà, perché il reclamo al garante potrà essere fatto non solo da singoli, ma da gruppi o associazioni. È importante sottolineare che, anche in questo evitabile scenario, la domanda al responsabile del trattamento dati non può essere assolutamente interpretata come una “protesta” contro il proprio ateneo, ma come un tentativo di renderlo, per tutti e tutte, un ambiente di lavoro e di studi migliore, adeguandosi alle norme europee.

    https://infolet.it/2020/11/10/perche-luniversita-delle-piattaforme-e-la-fine-delluniversita

    #université #enseignement_à_distance #gafa #vie_privée #protection_des_données #business #GAFAM #cour_de_justice_européenne #CJUE #enseignement #ESR #distanciel

    ping @etraces

    • Why basing universities on digital platforms will lead to their demise
      (All links removed. They can be found in the original post – English Translation by Desmond Schmidt)

      A group of professors from Italian universities have written an open letter on the consequences of using proprietary digital platforms in distance learning. They hope that a discussion on the future of education will begin as soon as possible and that the investments discussed in recent weeks will be used to create a public digital infrastructure for schools and universities.

      Dear colleagues and students,

      as you already know, since the COVID-19 emergency began, Italian schools and universities have relied on proprietary platforms and tools for distance learning (including exams), which are mostly produced by the “GAFAM” group of companies (Google, Apple, Facebook, Microsoft and Amazon). There are a few exceptions, such as the Politecnico di Torino, which has adopted instead its own custom-built solutions. However, on July 16, 2020 the European Court of Justice issued a very important ruling, which essentially says that US companies do not guarantee user privacy in accordance with the European General Data Protection Regulation (GDPR). As a result, all data transfers from the EU to the United States must be regarded as non-compliant with this regulation, and are therefore illegal.

      A debate on this issue is currently underway in the EU, and the European Authority has explicitly invited “institutions, offices, agencies and organizations of the European Union to avoid transfers of personal data to the United States for new procedures or when securing new contracts with service providers.” In fact the Irish Authority has explicitly banned the transfer of Facebook user data to the United States. Finally, some studies underline how the majority of commercial platforms used during the “educational emergency” (primarily G-Suite) pose serious legal problems and represent a “systematic violation of the principles of transparency.”

      In this difficult situation, various organizations, including (as stated below) some university professors, are trying to help Italian schools and universities comply with the ruling. They do so in the interests not only of the institutions themselves, but also of teachers and students, who have the right to study, teach and discuss without being surveilled, profiled and catalogued. The inherent risks in outsourcing teaching to multinational companies, who can do as they please with our data, are not only cultural or economic, but also legal: anyone, in this situation, could complain to the privacy authority to the detriment of the institution for which they are working.

      However, the question goes beyond our own right, or that of our students, to privacy. In the renewed COVID emergency we know that there are enormous economic interests at stake, and the digital platforms, which in recent months have increased their turnover (see the study published in October by Mediobanca), now have the power to shape the future of education around the world. An example is what is happening in Italian schools with the national “Smart Class” project, financed with EU funds by the Ministry of Education. This is a package of “integrated teaching” where Pearson contributes the content for all the subjects, Google provides the software, and the hardware is the Acer Chromebook. (Incidentally, Pearson is the second largest publisher in the world, with a turnover of more than 4.5 billion euros in 2018.) And for the schools that join, it is not possible to buy other products.

      Finally, although it may seem like science fiction, in addition to stabilizing proprietary distance learning as an “offer”, there is already talk of using artificial intelligence to “support” teachers in their work.

      For all these reasons, a group of professors from various Italian universities decided to take action. Our initiative is not currently aimed at presenting an immediate complaint to the data protection officer, but at avoiding it, by allowing teachers and students to create spaces for discussion and encourage them to make choices that combine their freedom of teaching with their right to study. Only if the institutional response is insufficient or absent, we will register, as a last resort, a complaint to the national privacy authority. In this case the first step will be to exploit the “flaw” opened by the EU court ruling to push the Italian privacy authority to intervene (indeed, the former President, Antonello Soro, had already done so, but received no response). The purpose of these actions is certainly not to “block” the platforms that provide distance learning and those who use them, but to push the government to finally invest in the creation of a public infrastructure based on free software for scientific communication and teaching (on the model of what is proposed here and
      which is already a reality for example in France, Spain and other European countries).

      As we said above, before appealing to the national authority, a preliminary stage is necessary. Everyone must write to the data protection officer (DPO) requesting some information (attached here is the facsimile of the form for teachers we have prepared). If no response is received within thirty days, or if the response is considered unsatisfactory, we can proceed with the complaint to the national authority. At that point, the conversation will change, because the complaint to the national authority can be made not only by individuals, but also by groups or associations. It is important to emphasize that, even in this avoidable scenario, the question to the data controller is not necessarily a “protest” against the institution, but an attempt to turn it into a better working and study environment for everyone, conforming to European standards.

      https://theoreti.ca/?p=7684

  • Un inverno caldo : chiamata per la mobilitazione per l’Università pubblica – 9 gennaio 2020

    Segnaliamo ai lettori il seguente comunicato del gruppo “Ricercatori Determinati”, di cui anche ADI fa parte.

    Il 25 dicembre il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca si è dimesso, in polemica con le scelte governative in materia di finanziamento dei suoi provvedimenti per la ricerca universitaria, a seguito dell’approvazione della Legge Finanziaria per il 2020. Per la prima volta, un titolare del MIUR rinuncia alla sua carica per il mancato ottenimento dei fondi richiesti per il rifinanziamento del comparto scolastico e universitario – una scelta che ha giustamente fatto fragore nell’opinione pubblica, e che ci consente di provare a fare il punto sullo stato del sistema dell’istruzione e della ricerca italiana. Per una volta, proviamo a farlo prendendo parola come personale di ricerca non strutturato, che non ha avuto voce in capitolo – come nessun’altra parte dei gradi più bassi della gerarchia accademica – in questa ennesima discussione sul rifinanziamento (pubblico) dell’Università (pubblica). A testimonianza di chi abbia titolarità sul discorso universitario e di quanta voglia ci sia di discuterne con i soggetti su cui si regge l’università, la crisi di governo è stata rapidamente riassorbita con la nomina di due nuovi ministri: Lucia Azzolina per l’istruzione, e Gaetano Manfredi all’Università e alla Ricerca. Crediamo che questo gioco non sia più accettabile e che non si possa rimandare il richiamo a una mobilitazione che coinvolga tutte le componenti universitarie inferiorizzate e messe regolarmente a tacere, come già si stanno attivando da anni altri settori lavorativi funestati dalle scelte politiche degli ultimi decenni.

    I dati della Legge di Bilancio 2020 sono effettivamente più che allarmanti. A partire dal 2008, l’investimento pubblico sull’Università ha perso 1,5 miliardi di euro. In questa situazione, i soldi stanziati con questa finanziaria suonano come una presa in giro: 5 milioni di euro per il rifinanziamento del Fondo di Finanziamento Ordinario per le università italiane; 31 milioni per il finanziamento delle borse di studio per gli studenti – soldi in grado di coprire un fabbisogno di circa il 10% della popolazione studentesca; 25 milioni per aprire una nuova agenzia (Agenzia Nazionale della Ricerca), chiamata a indirizzare, con modalità ancora per nulla chiare, le attività di ricerca nel nostro Paese. Ma a cosa servirebbe rifinanziare l’università? Su quale sistema attualmente esistente si innestano i provvedimenti previsti dalla finanziaria?

    Gli effetti delle politiche italiane per l’università avviate almeno a partire dal Bologna Process (1999), e proseguite con le successive riforme dell’Università compresa la Legge Gelmini del 2008, emergono chiaramente a partire dalla condizione del dottorato in Italia. Nell’immagine allegata sono mostrati i dati eloquenti dell’ultima Indagine ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia) relativi al numero di borse di dottorato in Italia.

    La situazione non migliora se si guarda alle proporzioni tra personale di ricerca strutturato e non strutturato (e quindi precario): si è verificata un’inversione storica tra la quantità di personale stabilizzato (nel quadro attuale, professori associati e ordinari) e di personale precario (assegni di ricerca, titolari di borse di studio, Rtd-A ed Rtd-B). Nel 2018 erano ben 68.428 le persone assunte a tempo determinato, contro solo le 47.561 a tempo indeterminato, il che vuol dire che l’Università italiana, in questo momento, si regge sul lavoro precario, non garantito in termini contrattuali, previdenziali e assistenziali. Né è possibile in questo momento invertire la tendenza: la totale mancanza di un sistema di reclutamento ordinario produce carriere discontinue, spesso intervallate da lunghi periodi di disoccupazione che sono solo in parte tutelati da ammortizzatori sociali come DIS-COLL. Si tratta di carriere soggette alla disponibilità o meno di risorse che vengono dai fondi di ricerca dei docenti strutturati (che quindi ne hanno il pieno controllo) o da finanziamenti europei per singoli progetti di ricerca. Questa carriera altalenante prosegue finché non vengono indetti concorsi per la stabilizzazione, irregolari e difficili da prevedere perché non esiste più un sistema concorsuale ordinario.

    La condizione contrattuale para-subordinata di chi lavora nella ricerca rende la posizione lavorativa del ricercatore molto più svantaggiata, sul piano assistenziale e previdenziale, rispetto a buona parte delle persone con un lavoro dipendente e subordinato (e basterebbe in questo senso pensare alle scarsissime tutele relative a maternità e malattia). Non avendo un vero “datore di lavoro” a cui rendere conto, salve le dinamiche baronali che determinano in linea di massima il finanziamento dei contratti e degli assegni per la sua posizione, le dinamiche del lavoro di ricerca appaiono invece piuttosto simili a quelle del lavoro autonomo, delle cooperative di servizi e dell’impiego di “finte partite IVA”, peraltro abbondanti nell’università dai servizi bibliotecari a quelli delle mense e del diritto allo studio universitario. Nel caso specifico del lavoro della ricerca, un’altra tara rende particolarmente difficili le condizioni del suo esercizio oltre alla para-subordinazione e al precariato: sono le modalità di valutazione della produzione scientifica da parte dell’ANVUR. Da queste ultime dipendono gli avanzamenti di carriera in senso più strettamente scientifico, e il criterio vigente è una valutazione tendenzialmente algoritmica dei prodotti scientifici, delle singole persone e dei dipartimenti. Questo meccanismo obbliga i ricercatori ad una “corsa alla pubblicazione”, con effetti disastrosi tanto sulla qualità dei contenuti quanto sul benessere personale. Nel privilegiare la quantità della ricerca sulla sua qualità, il sistema rivela tutta la sua inadeguatezza. La direzione dell’ANVUR è d’altronde in linea con i sistemi di valutazione internazionali, in ottemperanza all’integrazione sovranazionale dei sistemi di valutazione della ricerca che anni addietro venivano indicati come “aziendalizzazione” delle università. La differenza più evidente, anche senza voler mettere in discussione questo processo, è però che l’Italia investe complessivamente meno dell’1% del PIL sulla ricerca, rispetto alla media dell’1,5% dei paesi considerati dal rapporto Ocse “Education at Glance” del 2019.

    Come la qualità dell’insegnamento risente delle condizioni di lavoro del personale di ricerca non strutturato sul quale si regge l’università, anche il peggioramento della condizione studentesca ha ricadute pesanti sul reclutamento del personale di ricerca. Infatti non solo – in assenza di un adeguato finanziamento pubblico, il gettito delle tasse studentesche influisce sulla capacità o meno degli atenei di assumere, specialmente nei settori meno interessanti per il finanziamento privato. Va aggiunto che per di più solo l’11% degli studenti iscritti beneficia di una borsa di studio, rendendo l’università un posto sempre più inaccessibile anche a causa della spasmodica ricerca di risorse che viene fatta pesare sulle fasce più deboli della popolazione studentesca. Solo il 6% degli studenti fuorisede usufruisce di un posto alloggio e più di 25.000 studentesse e studenti (i dati riguardano solo alcune regioni) sono idonei non beneficiari di posto alloggio, con una carenza strutturale di residenze e posti letto che costringono tante e tanti a rivolgersi al mercato privato, al caro-affitti e alla speculazione immobiliare che sta erodendo troppe città.

    Dal punto di vista del lavoro di ricerca, il risultato è che sul totale degli assegnisti attualmente in servizio meno del 10% riuscirà, al termine di un lungo e frastagliato percorso, a divenire un professore di seconda fascia (professore associato), unica possibilità di stabilizzazione attualmente prevista per chi lavora nella ricerca. Detto in altri termini, oltre il 90% dell’attuale personale di ricerca verrà espulso dall’Università. Ci può forse stupire che negli ultimi anni il principale dibattito nazionale e internazionale relativo alla ricerca universitaria sia quello sul benessere psichico di chi lavora nella ricerca? La frammentazione delle relazioni sociali, frutto inevitabile della competizione; la mancanza, talvolta, di spazi fisici riconosciuti dove svolgere il proprio lavoro; l’obbligo all’internazionalizzazione (che si traduce in una lunga diaspora che conduce i ricercatori a cambiare non solo città ma Stato); l’assenza di un orizzonte di certezza lavorativo: sono solo alcuni dei fattori che maggiormente contribuiscono a generare una fragilità esistenziale, emotiva, psichica, ivi compresa la difficoltà a progettare la propria vita secondo i propri bisogni, aspirazioni e desideri e trovando continuamente in conflitto la propria realizzazione personale e collettiva con la propria realizzazione lavorativa. Lascia tutto e seguimi. In questo vediamo niente di più e niente di meno che lo stesso meccanismo che molti altri comparti del lavoro già in mobilitazione vivono quotidianamente: a loro va tutta la nostra solidarietà, che molt_ di noi esprimono già concretamente attraverso la mobilitazione attiva in loro vicinanza come in vicinanza delle altre lotte sociali e civili che in questo paese avvengono. Bisogna reagire immediatamente pretendendo il miglioramento delle condizioni di lavoro e di studio nel settore universitario almeno attraverso il rifinanziamento pubblico dell’università. Va pretesa una riforma immediata del reclutamento e del pre-ruolo, eliminando le forme di precariato e para-subordinazione. Il sistema attuale di valutazione della ricerca va radicalmente ripensato, a partire dalla soppressione dell’ANVUR. Occorre migliorare le condizioni di studio in Italia, aumentando il Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio di almeno 200 milioni di euro, senza che ciò abbia ricadute sulle altre componenti del mondo universitario e in particolare sul reclutamento del personale di ricerca.

    È anche sulla base di questo che chiamiamo tutte e tutti a mobilitarsi, il 9 gennaio 2020, per una giornata di lotta nella quale chiedere:
    – un rifinanziamento adeguato e strutturale del comparto università e ricerca, in misura tale da poter quantomeno ritornare, nei più brevi tempi possibili, ai livelli pre-crisi;
    – una riforma del reclutamento per Università ed Enti di ricerca, da effettuare con un concorso annuale ordinario, per invertire il trend che ha portato alla proliferazione sistematica della popolazione precarizzata e consentire, a ciascun lavoratore, una programmazione chiara della propria vita;
    – una riforma del pre-ruolo, eliminando i contratti para-subordinati in favore di forme lavorative e previdenziali dignitose e riducendo, se non eliminando, i lunghi periodi di disoccupazione che si moltiplicano fino a una ipotetica stabilizzazione;
    – la soppressione dell’ANVUR e un ripensamento radicale della valutazione della ricerca a partire da criteri qualitativi e non più quantitativi;
    – l’aumento per almeno 200 milioni del Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio, così da garantire borse di studio, alloggi e residenze.

    Riuniamoci in presidi e assemblee, pensiamo e costruiamo insieme l’alternativa con tutti i mezzi necessari: divisi siamo niente, uniti siamo tutto!

    Ricercatori Determinati – Pisa

    https://www.roars.it/online/un-inverno-caldo-chiamata-per-la-mobilitazione-per-luniversita-pubblica-9-genn
    #université #Italie #grève #résistance #universités #budget #finances #loi_finances

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    Ajouté à la métaliste sur les résistances dans le monde universitaire en Europe :
    https://seenthis.net/messages/824281

    • Disintossichiamoci-Sapere per il futuro

      Economics are the methods.The object is to change the soul”. Riferita alle politiche della conoscenza, istruzione e ricerca (ma non soltanto), questa formula di Margaret Thatcher ben riassume il processo che ha contraddistinto gli ultimi decenni.Il metodo economico, la penuria come condizione normale, al limite o al di sotto del limite della sopravvivenza, è visibile a tutti. Anche ben visibile, insieme a quello finanziario, è lo strangolamento burocratico. Meno visibile l’obiettivo. Il cambiamento degli animi è così profondo che non ci accorgiamonemmenopiù della distruzione compiutasi intorno e attraverso di noi: il paradosso della fine –nella “società della conoscenza” –di un mondo dedicato alle cose della conoscenza. Anche l’udito si è assuefatto a una programmatica devastazione linguistica, dove un impoverito gergo tecnico-gestionale e burocratico reitera espressioni dalla precisa valenza operativa, che però sembra essere difficile cogliere: miglioramento della qualità, eccellenza, competenza, trasparenza, prodotti della ricerca, erogazione della didattica... E autonomia, ovvero –per riprendere le parole di Thomas Piketty –l’impostura che ha avviato il processo di distruzione del modello europeo di università. Una distruzione che ha assunto come pretesto retorico alcuni mali –reali e no -della vecchia università, ma naturalmente senza porvi rimedio, perché non questo ma altro era il suo l’obbiettivo.A trenta anni appunto dall’introduzione dell’autonomia,a venti dal processo di Bologna,a dieci dalla “Legge Gelmini”, la letteratura critica su questa distruzione è sconfinata. Ricerca e insegnamento –è un fatto, eppure sembra un tabù esplicitarlo –da tempo non sono più liberi. Sottoposta a una insensata pressione che incalza a “produrre” ogni anno di più, a ogni giro (da noi VQR, ASN ecc) di più, la ricerca è in preda a una vera e propria bolla di titoli, che trasforma sempre più il già esiziale publish or perishin un rubbish or perish. Nello stesso tempo, è continua la pressione ad “erogare” una formazione interamente modellata sulle richieste del mondo produttivo. La modernizzazione che ha programmaticamente strappato l’università via da ogni “torre di avorio” –facendone“responsive”, “service university” –ha significato non altro che la via, la “terza via”, verso il mondo degli interessi privati. Svuotate del loro valore,istruzione e ricerca sono valutate, vale a dire “valorizzate” tramite il mercato e il quasi-mercato della valutazione, che, nella sua migliore veste istituzionale, non serve ad altro che «a favorire (...) l’effetto di controllo sociale e di sviluppo di positive logiche di mercato» (CRUI 2001).Proprio grazie all’imporsi di queste logiche di mercato, la libertà di ricerca e di insegnamento –sebbene tutelata dall’art. 33 della Costituzione –è ridotta oramaia libertà di impresa. Il modello al quale le è richiesto sottomettersi è un regime di produzione di conoscenze utili (utili anzitutto a incrementare il profitto privato), che comanda modi tempi e luoghi di questa produzione, secondo un management autoritario che arriva ad espropriare ricercatori e studiosi della loro stessa facoltà di giudizio, ora assoggettata a criteri privi di interna giustificazione contrabbandati per oggettivi. Si tratta di numeri e misure che di scientifico, lo sanno tutti, non hanno nulla e nulla garantiscono in termini valore e qualità della conoscenza. Predefinire percentuali di eccellenza e di inaccettabilità, dividere con mediane o prescrivere soglie, ordinare in classifiche, ripartire in rating le riviste, tutto questo, insieme alle più vessatorie pratiche di controllo sotto forma di certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni ecc., ha un’unica funzione: la messa in concorrenza forzata di individui gruppi o istituzioni all’interno dell’unica realtà cui oggi si attribuisce titolo per stabilire valori, ossia il mercato, in questo caso il mercato globale dell’istruzione e della ricerca, che è un’invenzione del tutto recente.

      Là dove infatti tradizionalmente i mercati non esistevano (istruzione e ricerca, ma anche sanità, sicurezza e così via), l’imperativo è stato quello di crearli o di simularne l’esistenza. La logica del mercato concorrenziale si è imposta come vero e proprio comando etico, opporsi al quale ha comportato, per i pochi che vi hanno provato, doversi difendere da accuse di inefficienza, irresponsabilità, spreco di danaro pubblico, difesa di privilegi corporativi e di casta. Tutt’altro che il trionfo del laissez faire: un “evaluative State” poliziesco ha operato affinché questa logica venisse interiorizzata nelle normali pratiche di studio e ricerca, operando una vera e propria deprofessionalizzazione, che ha trasformato studiosi impegnati nella loro ricerca in entrepreneurial researcher conformi ai diktat della corporate university. A gratificarli una precarietà economica ed esistenziale che va sotto il nome di eccellenza, la cornice oggi funzionale a un “darwinismo concorrenziale” esplicitamente teorizzato e, anche grazie alla copertura morale offerta dall’ideologia del merito, reso forzatamente normalità.Sono in molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia tossico e insostenibile a lungo termine. I dispositivi di misurazione delle performance e valutazione premiale convertono la ricerca scientifica (il chiedere per sapere) nella ricerca di vantaggi competitivi (il chiedere per ottenere), giungendo a mettere a rischio il senso e il ruolo del sapere per la società. Sempre più spesso oggi si scrive e si fa ricerca per raggiungereuna soglia di produttività piuttosto che per aggiungereuna conoscenza all’umanità: “mai prima nella storia dell’umanità tanti hanno scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi” (Alvesson et al., 2017). In questo modo la ricerca si condanna fatalmente all’irrilevanza, dissipando il riconoscimento sociale di cui finora ha goduto e generando una profonda crisi di fiducia. È giunto il momento di un cambiamento radicale,se si vuole scongiurare l’implosione del sistema della conoscenza nel suo complesso. La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale. Quel che serve oggi è quindi riaffermare i principi che stanno a tutela del diritto di tutta la società ad avere un sapere, uninsegnamento, una ricerca liberi –a tutela, cioè, del tessuto stesso di cui è fatta una democrazia –e per questo a tutela di chi si dedica alla conoscenza. Serve una scelta di campo, capace di rammagliare dal basso quello che resiste come forza critica,capacità di discriminare, distinguere quello che non si può tenere insieme: condivisione ed eccellenza, libertà di ricerca e neovalutazione, formazione di livello e rapida fornitura di forza lavoro a basso costo, accesso libero al sapere e monopoli del mercato.In questa direzione si delineano alcune tappe. La prima è una verifica dell’effettiva sussistenza e consistenza di questo campo. Un progetto non può avanzare se non si raggiunge una massa minima di persone disposte ad impegnarvisi. Se c’è un’adeguata adesione preliminare –diciamo in termini simbolici 100 persone per partire –organizziamo un incontro a breve per ragionare su politiche radicalmente alternative in fatto di valutazione, tempi e forme della produzione del sapere, reclutamento e organizzazione.In prospettiva, realizziamo a giugno un’iniziativa in concomitanza con la prossima conferenza ministeriale del processo di Bologna, che quest’anno si tiene a Roma, per avanzare con forza –in raccordo con altri movimenti europei di ricercatori e studiosi(già sussistono contatti in questo senso)–un ripensamento delle politiche della conoscenza.
      Valeria Pinto
      Davide Borrelli
      Maria Chiara Pievatolo
      Federico Bertoni

      https://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2020/02/Sapere-per-il-futuro-documento-1-2.pdf