• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • IA : demain, tous chômeurs ?

    […] Une récente étude de l’université de Stanford et du MIT a estimé que l’IA allait augmenter la productivité des travailleurs de 14 % en moyenne et que ceux qui n’utilisent pas ces outils seraient « remplacés » par ceux qui savent s’en servir.

    Spéculation ? Hélas, non : les conséquences concrètes commencent à se manifester. Début mai, IBM a suspendu ses embauches. Environ 30 % des fonctions, soit 7.800 emplois, pourraient être remplacées par des IA en cinq ans, a estimé le patron de l’entreprise. Au Royaume-Uni, l’opérateur British Telecom vient d’annoncer qu’il visait la suppression de 55.000 postes d’ici à 2030, environ 10.000 de ces derniers étant remplacés par l’IA. […]

    L’IA s’annonce ainsi, à l’image de l’imprimerie, la machine à vapeur ou l’informatique, comme une innovation de rupture appelée à toucher tous les secteurs d’activité et induire des effets encore insoupçonnés. Face à cela, l’humanité se retrouve, à nouveau, condamnée à avancer à l’aveugle en remettant son destin dans les mains d’un progrès technique dont elle ne mesurera l’impact qu’a posteriori. Le professeur d’économie au MIT Daron Acemoglu l’a résumé lors d’une intervention à la Brookings Institution : « Notre avenir est en train d’être déterminé par environ 200 ou 300 personnes réunies dans une douzaine d’entreprises. »

    […] Pas de doute : la menace est réelle pour les humains qui vont devoir, face à un si redoutable concurrent, faire la démonstration de leur « valeur ajoutée ». Et admettre que certaines de leurs compétences sont en passe d’être ringardisées.

    Premier exemple avec la médecine. Une récente étude californienne a soumis des praticiens généralistes à une série de questions médicales parmi les plus fréquentes sur un forum en ligne. Leurs réponses ont été comparées à celles de ChatGPT. Le bilan est douloureux : non seulement le robot s’est avéré plus précis dans ses réponses, mais il a démontré, dans ce travail à l’écrit, une plus grande empathie. Philippe Coucke, un radiothérapeute belge auteur de deux livres sur l’IA, constate que les médecins, le plus souvent, font l’autruche. « Ils n’ont guère envie de se pencher sur l’intelligence artificielle car elle remet partiellement en question leur raison d’être, voire leur gagne-pain ». « Toutes les tâches hautement spécialisées sont appelées à être remplacées par les machines », assure-t-il, évoquant les éléments de diagnostic comme les actes médicaux (coronarographie, coloscopie, chirurgie). Une inéluctable révolution pour le monde médical impliquant de repenser en profondeur la formation des praticiens « qui se fait encore comme au siècle dernier ». « Les médecins qui n’utiliseront pas l’IA à l’avenir, ajoute le radiothérapeute, vont disparaître comme des dinosaures, et les autres vont être fortement secoués. »

    Autre expertise que les machines vont concurrencer : la finance. Après avoir fait ses armes pendant près de trois décennies dans la valorisation de sociétés, Yann Magnan a fondé 73 Strings, une entreprise qui cherche à accélérer radicalement ce métier. Les heures de lecture de documents sur une entreprise ou un secteur d’activité, la synthèse de ces informations, la mise en forme du travail final ? Autant de tâches « ingrates et qui ne nécessitent pas d’avoir fait de hautes études », dont la machine peut se charger. « Plus de la moitié du travail d’un analyste junior peut ainsi être automatisée », estime Yann Magnan qui constate que chez ses clients, « ce qui se faisait en un mois environ prend désormais une semaine, voire moins ». Un financier aguerri lâche un cri d’enthousiasme : « ce serait fou ! » rêve-t-il à l’idée d’un monde « où on ferait en une journée ce qu’on passe aujourd’hui deux semaines à produire en nocturne ». Les « juniors » et les stagiaires ? Comme souvent, ce sont leurs fonctions qui semblent le plus immédiatement menacées.

    Dans l’informatique, même accélération. « Sur le plan logique, les programmes tels que #ChatGPT ne font pas de réelle distinction entre l’anglais, le français ou les langages informatiques », explique Eric de la Clergerie, chercheur en charge du traitement informatique des langues à l’Institut national de recherche en sciences et technologies du numérique (Inria). Fortes de leur capacité à repérer des structures répétitives puis à adapter ces dernières à un contexte, les IA se nourrissent de l’immense littérature informatique disponible en ligne pour générer du code - elles se servent en cela des commentaires que les informaticiens ajoutent en marge de leurs écrits informatiques. « Quand je cherche à retrouver une fonction précise et à l’utiliser dans un programme, il me faut un quart d’heure, là où ChatGPT va tout faire en une minute à condition de savoir lui expliquer précisément ce qu’on veut », estime-t-il. On imagine le nombre d’emplois qui pourront être supprimés si cette pratique devient la norme.

    Quant à ce directeur artistique d’une entreprise de luxe, il s’avoue bluffé par les capacités du logiciel Midjourney qui produit des images à la demande. « En quelques mois, l’outil a beaucoup progressé et s’avère capable de générer des images dont même les éventuelles incohérences peuvent être intéressantes dans la phase de recherche d’idées », résume-t-il. C’est un enrichissement puisque le logiciel est capable de produire jusqu’à 200 visuels dans une journée. Mais il avoue s’inquiéter « pour les gens qui vivent aujourd’hui de leurs compétences techniques dans le traitement de l’image ». Plus que les professionnels de Photoshop menacés d’obsolescence accélérée, pronostique-t-il, « ce sont les ceintures noires en Midjourney qui vont valoir cher sur le marché ». Egalement directrice associée au Boston Consulting Group, Vinciane Beauchene résume la situation : « l’#IA générative est en train de déplacer la frontière entre l’humain et la machine. » Pas une industrie ne sera épargnée par cette lame de fond. Pour écrire, récolter et synthétiser des idées voire, en un sens, créer, il va falloir s’habituer à cette vertigineuse nouvelle donne : les robots peuvent rivaliser. Nicolas de Bellefonds estime ainsi que les sociétés de services professionnels, notamment d’études de marché, vont voir leur modèle économique « totalement bouleversé dans la mesure où une grande partie de leur chiffre d’affaires provient de la production de rapports et d’analyses ». Même tsunami dans les fonctions juridiques, les ressources humaines ou le marketing, dont la productivité pourrait être multipliée par 5 ou 10. […]

    (Les Échos)

    #capitalisme #gâchis #chômage

    • 23. Le choix auquel nous devons faire face est dramatique : soit un post-capitalisme globalisé, soit une lente fragmentation vers le primitivisme, la crise perpétuelle et l’effondrement écologique planétaire.

      Le choix, en d’autres termes (plus politiques) : soit la liquidation du capitalisme (la collectivisation des moyens de production par les producteurs eux-mêmes > le communisme), soit la barbarie et la désintégration.

      On gagnerait du temps à comprendre qu’il n’y a pas d’autres alternatives.

      C’est uniquement en se plaçant sur ce terrain communiste qu’il est possible d’envisager avec confiance un avenir dans lequel l’humanité prendra consciemment son sort en main et se débarrassera des entraves de la concurrence entre capitalistes, collectivisera leurs usines, leurs banques et leurs serveurs informatiques et les mettra au service des besoins de tous. Un avenir où ces algorithmes, qui n’ont d’intelligent que le nom, associés aux formidables forces productives existantes, permettront au cerveau humain de se libérer de la routine abrutissante du travail productif et de se concentrer sur des activités véritablement intelligentes. En libérant la masse des exploités de l’obligation de consacrer le meilleur d’eux-mêmes à la survie quotidienne, ils pourront leur permettre de se cultiver, de profiter des loisirs, des sciences, des arts, qui aujourd’hui sont le privilège d’une petite minorité. En généralisant cet épanouissement intellectuel, en libérant les relations sociales de la prison de la misère matérielle et morale, l’humanité pourra enfin révéler son plein potentiel  : combien d’Archimède, de Mozart et de Marie Curie découvrira-t-on alors  ? Pour reprendre les termes de Trotsky  : «  Le socialisme signifiera un saut du règne de la nécessité dans le règne de la liberté, aussi en ce sens que l’homme d’aujourd’hui, plein de contradictions et sans harmonie, fraiera la voie à une nouvelle race plus heureuse.  »

      https://mensuel.lutte-ouvriere.org//2023/05/14/intelligence-artificielle-remplacer-lintelligence-humaine-ou

    • Mon désaccord avec Multitudes ne porte pas tant sur le diagnostic concernant l’état du monde, y compris sur ce point 23, que sur les conséquences stratégiques induites par leur positionnement accélérationniste.

      Concernant le diagnostic, nous serions nombreux (y compris, toi, @recriweb, me semble-t-il) à toujours l’exprimer aujourd’hui en reprenant peu ou prou la célèbre formule de Rosa Luxemburg, selon laquelle il n’y a guère d’alternative à la barbarie que dans le socialisme (pris au sens étymologique).

      Mon désaccord avec Multitudes porte en particulier sur les points suivants :

      5. Les accélérationnistes veulent libérer les forces productives latentes. Au sein de ce programme, la plateforme matérielle du néolibéralisme n’a pas besoin d’être détruite. Elle demande à être réorientée vers des finalités communes. L’infrastructure actuellement existante ne constitue pas les tréteaux capitalistes d’une scène à abattre, mais un tremplin sur lequel s’élancer vers une société post-capitaliste.

      6. Étant donné l’asservissement de la technoscience aux objectifs du capitalisme (particulièrement depuis la fin des années 1970), nul ne peut certes déterminer ce que peut faire un corps technosocial moderne. Qui parmi nous peut se faire une idée claire des potentiels inexplorés des technologies qui ont déjà été développées ? Nous faisons le pari que les potentiels véritablement transformateurs de beaucoup de nos découvertes techniques et scientifiques restent encore inexploités, pleins de caractéristiques (ou de pré-adaptations) aujourd’hui redondantes qui, par la réorientation d’un socius capitaliste à courte vue, peuvent contribuer à des changements décisifs.

      7. Nous voulons accélérer le processus d’évolution technologique. Mais nous ne promouvons nullement une forme de techno-utopisme. Ne croyons jamais que la technologie suffira à nous sauver. Elle est certes nécessaire, mais jamais suffisante en l’absence d’action sociopolitique. La technologie et le social sont intimement liés, et les transformations de l’un rendent possibles et renforcent les transformations de l’autre. Alors que les techno-utopistes promeuvent l’accélération parce qu’elle supplanterait automatiquement les conflits sociaux, nous estimons que la technologie devrait être accélérée afin de nous aider à gagner ces conflits sociaux.

      9. Pour ce faire, la gauche doit tirer parti de toute avancée scientifique et technologique rendue possible par la société capitaliste. Nous déclarons que la quantification n’est pas un mal à éliminer, mais un outil à utiliser de la façon la plus efficace possible. Les modélisations économiques sont nécessaires à rendre intelligible un monde complexe. La crise financière de 2008 révèle les risques liés à une foi aveugle accordée à certains modèles mathématiques, mais ceci est un problème relatif à leur autorité illégitime, non à leur nature mathématique. Les outils développés dans le champ de l’étude des réseaux sociaux, de la modélisation des comportements, de l’analyse des big data et des modèles économiques non équilibrés, constituent des médiations nécessaires pour qui veut comprendre des systèmes aussi complexes que l’économie moderne. La gauche accélérationniste doit s’alphabétiser dans ces domaines techniques.

      En quelques sortes, il suffirait d’aller plus vite dans l’état de décomposition du monde pour que vienne, à partir des mêmes moyens que ceux qui auraient provoqué sa perte, la construction d’un « au-delà du capitalisme » (peu importe comment on l’appelle communisme, communisme libertaire, etc.)

      On reprend les outils (infrastructure) capitalistes pour les pousser à leur plus ultime conséquences, c’est à dire, pour entraîner leurs créateurs à leur propre perte et le tour est joué, puisque les capitalistes ne seront plus là.

      Sauf que se livrer avec tant d’enthousiasme à ce petit jeu pourrait non seulement entraîner la perte de la classe capitaliste mais aussi celle du genre humain et bien d’autres espèces.

      Plus fondamentalement, cette forme de confiance béate en un progrès forcément émancipateur et dénuée de tout propos critique sur la prétendue neutralité technologique est consternante, d’autant qu’aucune modalité pratique n’est formulée en matière de stratégie de lutte, si ce n’est la dénonciation (pas toujours fausse) de ce qui existe aujourd’hui du côté des mouvements sociaux depuis les années 90, dans la lignée des mouvements altermondialistes (horizontalité obsessionnelle, nombrilisme, etc.). On constate que les luttes sociales salariales classiques sont tout simplement ignorées, même si « la technologie devrait être accélérée afin de nous aider à gagner ces conflits sociaux. »

      Bref, sauf à attendre que les choses s’accélèrent, on ne sait pas vraiment ce qu’il faudrait faire. L’accélérationnisme serait donc, partant de ce manifeste, un truc de purs intellos, comme l’était d’ailleurs Camarades, la filiation politique de Multitudes, dans les années 70.

      Dans ces conditions, on se demande en quoi l’accélérationnisme, dans les faits (et non dans la théorie) ne se résume pas à ces gens dont il est question, dans l’article des Echos. Une classe de technocrates, proches du pouvoir, qui construisent réellement l’accélération technologique à partir, notamment, de l’IA et qui la commentent de l’intérieur, avec plus ou moins d’inquiétude et d’enthousiasme.

  • La lune de la grande démission, le doigt de la valeur-travail, par Yann Moulier Boutang
    https://www.multitudes.net/wp-content/uploads/2023/02/multitudes90-AChaud-Grande-demission-7fev.pdf

    Le sociologue Nicolas Roux, dans un article d’AOC du 8 janvier 2023, Le « refus du travail » : une idée reçue qui fait diversion, balaie d’un revers de la main la « grande démission » apparue aux États-Unis dans le sillage immé-diat de la pandémie de Covid1. Ce qu’il reproche à ce « pseudo constat », de « pénurie de main-d’œuvre », c’est de faire diversion sur la cause profonde du malaise dans le marché du travail, l’instauration d’un précariat généra-lisé qui dégrade l’emploi. Cela revient à passer sous silence la question du sens écologique de l’emploi comme de la croissance. On n’a pas l’impression que notre sociologue a vraiment écouté les retentissantes déclarations des élèves des grandes écoles d’ingénieurs lors des remises de leurs diplômes.Le paradoxe de la « grande démission » (Great Resignation) américaine Aux États-Unis, sur l’année 2021, 47 millions d’Américains ont donné leur démission2. Le phénomène n’a entamé une décélération qu’au printemps 2022. On s’attendait dès la fin 2020 à une crispation dans leurs emplois des salariés peu enclins à grossir les effectifs des chômeurs à un si mauvais moment. Or, on a assisté à une vague sans précédent de démissions, y com-pris pour des catégories d’emplois qui n’appartenaient pas aux cadres supé-rieurs chez qui le taux de mobilité est bien plus fort que dans les emplois peu ou moyennement qualifiés. 47 millions d’Américains ont donc quitté volontairement leur emploi, soit pour changer de travail immédiatement, soit pour s’inscrire au chômage et rechercher un autre emploi, soit, enfin, pour se retirer carrément du marché du travail pour une retraite anticipée ou devenir inactif en attendant des jours meilleurs. Actuellement, avec un taux de chômage de 5,8 % , les États-Unis réalisent le moins mauvais score des pays de l’OCDE. Il n’empêche, 47 mil-lions de démissions en un an et encore plus de 20 en 2022, c’est tout à fait impressionnant. Le taux de démission a atteint 3 % par mois fin 2021, son plus haut niveau depuis l’an 2000. Mais dans l’industrie manufacturière, le taux de démission est actuellement similaire à celui atteint au début des années 1950, puis dans les années 1960 et 19703.

    (...)Le pari de Margaret Thatcher et de Milton Friedman était de contourner les luttes du salariat par la généralisation du mécanisme de rente des actions, de l’épargne, en vue d’une capitalisation des retraites, des biens immobiliers, par la consommation sur l’ensemble du cycle de vie (le revenu permanent). Il a été largement gagné, marginalisant l’impact du coût du travail. Mais ce coût du travail, chassé par la porte, est revenu par la fenêtre de la société financiarisée. Partout, y compris dans les pays les plus « libéraux », la part de la dépense publique dans le PIB a franchi la barre des 40 %17 et monte à 51 % dans l’ensemble des pays de l’Union européenne. Ces transformations majeures font que la contractualisation du coût de la population est globale, des vieux mécanismes syndicaux à l’ensemble des mécanismes de l’État-Providence dont les contours se modifient de jour en jour jusqu’au soutien de l’économie sous toute ses formes. Cela correspond strictement à la transformation effective de l’économie qui n’est plus sim-plement un output de facteurs (dont celui du « travail » mesuré par la popu-lation active) mais un résultat global, un outcome. Il faudra bientôt ajouter, dans ce calcul, le prix du futur représenté par le degré d’endettement. Là aussi, alors que la taille de la dette publique et privée a grandi, l’imbécile néolibéral qui ne comprend rien à la finance (à la masse monétaire comme lien avec le futur) réclame l’équilibre des finances publiques et la gestion de « bon père de famille ». Et ce, à un moment où le prix du futur exige des taux d’endettement de guerre (deux ou trois fois le montant du PIB) pour faire face aux investissements dans la transition écologique.

    #travail #refus_du_travail #grande_démission #écologie #greatresignation #QuietQuitting #hikikomori #tangping

  • Décolonial, vous avez dit « décolonial » ? par Yann Moulier Boutang et Laugier Sandra
    https://www.multitudes.net/decolonial-vous-avez-dit-decolonial

    Contrairement au gloubi-boulga servi par quelques médias de droite, papiers, télévisuels ou numériques, ne mélangeons pas tout. Il n’en va pas du « #décolonial » comme de « #l’islamo-gauchisme ». Le premier, qui se dit en anglais subaltern ou post-colonial studies, est un véritable paradigme naissant de la pensée contemporaine, qui concerne les « minorités », femmes, queer, black, Amérindiens. Leurs concepts ont été forgés dans et par de nouveaux mouvements sociaux, exclus des anciennes analyses fondées sur les classes sociales, ou bien rabotés pour rentrer dans le lit de Procuste de l’orthodoxie politique de gauche comme de droite. Les sujets subjectifs de ces mouvements sortent de l’invisibilité et revendiquent une place, comme le fit le Tiers État. Le fait qu’ils deviennent des sujets de conversation, matières à débats ou à controverses scientifiques, n’implique pas de passer sous silence leur origine subjective. À la controverse qui accuse les recherches liées à ces mouvements d’être la trace d’un militantisme malséant, on a envie de répondre que c’est le jeu et la vie de la pensée. L’histoire des sciences, l’histoire tout court, la culture, la mémoire sont toujours un champ d’affrontements. Les débats que voudraient provoquer de façon récurrente les extrémistes de la République Une et Indivisible, face aux Démocrates anglo-saxons et aux multiculturalismes, sur l’usage du terme de race, de genre, d’#intersectionalité, en révèlent plus sur ceux qui les lancent que sur le sujet dont ils s’emparent. Il y a de tout dans cette querelle qui s’annonce, du symptomatique intéressant et sincère comme le dernier livre d’#Elisabeth_Roudinesco comme du prurit d’une intolérance maladive et ravageuse dans les multiples interventions médiatiques de Nathalie Heinich...

    [ Elisabeth Roudinesco, Soi-même comme un roi , Seuil, 2021.]

    ... L’universel est une exigence éthique et politique, toujours à construire, pas une rente de situation, ni l’attribution d’un strapontin tardif à ceux et celles que l’on a traités comme des domestiques pendant des siècles et que l’on continue d’exploiter dans d’autres formes de servitude.

    Voilà pourquoi #l’universel ne peut se satisfaire des vieilles catégories d’ « ouvrier », de « prolétaire », quand cela exclut les enfants (nombreux encore au travail dans le monde), les considérations de genre ou d’appartenance communautaire – qu’elle soit de couleur attribuée et assignée mais aussi vécue dans la chair -, de religion, de culture, de langue.

    Certes, il ne faut jamais perdre de vue les questions de classes sociales, de niveau économique, mais si les sociologues les plus avertis ont été contraints d’aborder les questions du racisme ou de la « racialisation », du genre (sous toutes ses formes, y compris donc la transsexualité), de l’ethnie, de la religion, des communautés et des langues, c’est parce qu’elles constituaient autant de biais délibérément utilisés comme instruments de division particulièrement efficaces ; c’est parce qu’une classe ouvrière unifiée par la grâce de la sociologie n’existe plus depuis belle lurette si tant est qu’elle ait jamais existé dans l’histoire. Si le chercheur en sciences sociales n’a pas recours à ces autres catégories à côté des vénérables distinguos de Marx et de Durkheim, il ne verra plus rien dans ses lunettes et en sera réduit à faire de la paléontologie de la classe ouvrière mâle, blanche, adulte, acculturée et assimilée, et bien plus subalternisée que le lumpen-prolétariat ou que la classe ouvrière des générations passées. Comme le disait très bien Rose-Marie Lagrave : « Le genre fait quelque chose à la classe sociale et la classe sociale fait quelque chose au genre, le souligner en ces temps délétères où l’intersectionnalité est mise en cause n’est pas un luxe ».

    C’est pourquoi le reproche que font Gérard Noiriel et Stéphane Beaud aux études de genre, de « race » et à l’intersectionnalité d’oublier la culture de classe tombe à plat. On ne peut en retenir qu’une seule vérité, reconnue de tous les chercheurs du champ : ériger en hypostases substantielles, indépendantes, le genre, la race, la religion, l’appartenance communautaire, c’est en fait pousser directement celles et ceux que cela intéresse au séparatisme qu’on leur reproche.

    « Un article d’actualité remarquable de Sandra Laugier et Yann Moulier, conte une vision rabougrie et trumpienne de la religion républicaine, soyons toutes et tous des "islamo-gauchistes décoloniaux et écoféministes transgenres » !


    • Le déboulonnage des statues au nom de la lutte contre le racisme déconcerte. La violence avec laquelle la détestation des hommes s’affiche au cœur du combat féministe interroge. Que s’est-il donc passé pour que les engagements émancipateurs d’autrefois, les luttes anticoloniales et féministes notamment, opèrent un tel repli sur soi ?
      Le phénomène d’« assignation identitaire » monte en puissance depuis une vingtaine d’années, au point d’impliquer la société tout entière. En témoignent l’évolution de la notion de genre et les métamorphoses de l’idée de race. Dans les deux cas, des instruments de pensée d’une formidable richesse – issus des œuvres de Sartre, Beauvoir, Lacan, Césaire, Said, Fanon, Foucault, Deleuze ou Derrida – ont été réinterprétés jusqu’à l’outrance afin de conforter les idéaux d’un nouveau conformisme dont on trouve la trace autant chez certains adeptes du transgenrisme queer que du côté des Indigènes de la République et autres mouvements immergés dans la quête d’une politique racisée.
      Mais parallèlement, la notion d’identité nationale a fait retour dans le discours des polémistes de l’extrême droite française, habités par la terreur du « grand remplacement » de soi par une altérité diabolisée : le migrant, le musulman, mai 68, etc. Ce discours valorise ce que les identitaires de l’autre bord récusent : l’identité blanche, masculine, virile, colonialiste, occidentale.

      Identité contre identité, donc.
      Un point commun entre toutes ces dérives : l’essentialisation de la différence et de l’universel. Élisabeth Roudinesco propose, en conclusion, quelques pistes pour échapper à cet enfer.

  • Au-delà du retour à zéro | Félix Guattari, Toni Negri, Futur antérieur n° 4, Hiver 1990
    https://www.multitudes.net/Au-dela-du-retour-a-zero

    La subjectivité capitalistique implique une binarisation et une déqualification systémique de tous les « messages ». Elle couronne le règne d’un équivaloir généralisé qui a, par ailleurs, déployé ses coordonnées dans les domaines de l’Espace, du Temps, de l’Energie, du Capital, du Signifiant, de l’Etre… Il s’agit à la fois d’un horizon historique, dont le surgissement est daté, et d’un vertige axiologique qui remonte à la nuit des temps. Partout, toujours il y a eu menace d’abolition par l’intérieur de la complexité qualifiée. Le chaos habite le complexe ; le complexe habite le chaos. Ce qui implique que ce dernier soit composé d’entités animées à vitesse absolue – quitte à ce que la science « ralentisse » ces vitesses avec des constantes telles que c, h (constante de Planck), l’instant zéro du big bang, le zéro absolu etc… Ce qui légitime une perspective de « révolution moléculaire » c’est que cette entropie capitalistique de la subjectivité s’instaure à toutes les échelles et renaît constamment de ses cendres. Une périodisation comme celle qui enchaîne le passage des sociétés de souveraineté aux sociétés disciplinaires pour aboutir aux sociétés de contrôle est à la fois généalogique et ontogénétique. Tous ces régimes de territorialisation du pouvoir, du savoir et de la subjectivité se décomposent et se recomposent dans la subjectivité contemporaine. Ce qui fait, par exemple, qu’on ne peut pas parler aujourd’hui, avec la montée des intégrismes et des racismes de « régression archaïque » mais plutôt de progressisme fasciste ou, à la rigueur, de néo-archaïsme étant entendu qu’ils réinventent de toutes pièces des formes d’intelligence et de sensibilité du monde contemporain. Recommencer l’histoire par le début ou la tendre vers des finalités progressistes ce n’est vraiment plus le problème ! Il s’agit plutôt de recomposer, sur d’autres bases, les agencements de subjectivation et, à cette occasion, de recréer d’une façon pathique les diverses figures de la subjectivation historique, dont la subjectivité capitalistique est la plus vertigineuse par son vide, sa banalité, sa vulgarité, son état des choses à ras des marguerites. (...)

    Relayée comme elle l’est par les mass-médias, les sondages, la publicité, les conseils en communication, la démocratie politique devient non seulement de plus en plus formelle, de plus en plus coupée des réalités, mais aussi de plus en plus délirante. Ce qui ne signifie pas qu’elle perde toute prise sur la subjectivité capitalistique. Les leaders politiques rivalisent avec les présentateurs de la télé pour pénétrer toujours plus avant dans la pseudo-intimité des foyers. C’est le règne du Bébête Show relayé par le Psycho-show. Ce qui est vertigineux, à travers tout ça, c’est la capacité de ce type de production de subjectivité de capturer toute immnence processuelle, toute mutation moléculaire. Existe-t-il cependant une épreuve de vérité qui soit discriminante à l’égard du leurre, de la grimace, du simulacre puisque ceux-ci peuvent aussi devenir le siège d’une authentique territorialisation existentielle ? Voir par exemple la gestuelle stéréotypée du star system de la culture rock, dont les traits sont néanmoins objets de réappropriation par des enfants et des adolescents à des moments cruciaux de leur existence. Mais l’épreuve de vérité ne trompe pas ; elle est d’ordre pathique ; c’est elle qui entraîne une sorte d’adhésion existentielle qui crée l’événement.
    Il n’est que trop vrai que tous ces foyers de résistance moléculaire contre la sérialité de la subjectivité capitalistique ne s’incarnent, le plus souvent, que dans des retours à la transcendance, au mysticisme, au culte du « naturel ». Ça me dérange moins que toi. Je me dis que Dieu y retrouvera les siens ! Il y a quelque chose de tellement artificiel dans ces néo-archaïsmes. Ils n’engagent jamais qu’une strate parmi d’autres des formations de subjectivité. On sait bien que les intégristes boivent la coupe et regardent des films pornos en cachette. Ce qui n’excuse rien ! Bref, le micro-fascisme est toujours renaissant mais pas forcément le macro-fascisme.

    #Félix_Guattari #micro-fascisme #subjectivité #progressisme_fasciste #néo-archaïsme ...

  • Fin
    https://www.cairn.info/revue-vacarme-2019-4-page-1.htm

    Vacarme a été portée pendant près de vingt-cinq ans par un comité de rédaction soucieux de repenser les catégories politiques à partir des expériences minoritaires, dans des textes poétiques ou polémiques, de fiction ou de réflexion, en donnant la parole à d’autres manières d’être, d’agir, de percevoir. Nous avons mené ce programme éditorial en cherchant à ouvrir un espace particulier aux arts et aux formes esthétiques avec lesquels notre réel se construit, comme à d’autres façons d’écrire les sciences sociales, l’histoire, la philosophie… Source : Vacarme

  • Performing the law / LE #BUREAU_DES_DEPOSITIONS

    Comment qualifier le bureau des dépositions sans passer à côté des causes (déterminées) et des fins (encore inconnues) de ce collectif dont les performances ne sont ni des représentations ni des manifestations mais du “droit en train de se faire”… Nous retrouvons les lignes directrices du Labex performing the law mais dans une dimension encore plus aboutie. Il ne s’agit pas de dire que la #performance en elle-même est plus travaillée mais de souligner ici que la #fabrique_du_droit est encore plus essentielle, intrinsèque au projet.

    Un projet qui correspond parfaitement à une publication sur un carnet de recherches car on avance ici de brouillon en brouillon, l’œuvre collective évoluant au fur et à mesure des rencontres visibles et publiques mais aussi des événements quotidiens qui affectent les différents intervenants. Car la frontière entre vie privée et scène publique se veut ici poreuse puisque nous sommes aux marges de toutes les catégories : privé et public, fiction et réalité, matériel et immatériel, théorie et pratique…

    Le “Bureau des dépositions” est en effet le nom que s’est attribué un groupe d’hommes et de femmes pour rendre compte et désigner l’#œuvre_immatérielle constituée par la #co-présence des #co-auteurs et des co-autrices à un moment donné et en un lieu déterminé. La performance n’est donc pas la représentation d’une œuvre qui préexiste mais bien la réalisation concrète à l’instant-t de l’œuvre dont il est question et dont on pourra par la suite défendre l’#intégrité. Une œuvre qui tend à faire #justice, alors même que les principes brandis par notre pays, clamés haut et fort au titre des gloires nationales, se révèlent insuffisants pour venir en aide concrètement aux migrants. Ici, les migrants sont avant tout des co-auteurs et des co-autrices dont la présence est essentielle à l’intégrité d’une œuvre immatérielle. Le droit d’auteur, le #droit_des_obligations seront ici privilégiés, instruments d’action pour faire valoir non pas la reconnaissance de #droits_fondamentaux à des hommes pressentis nus parce que non élevés au rang de concitoyens mais les droits d’auteurs et d’autrices, inscrits dans des liens d’obligations… Expulser cet auteur, c’est atteindre l’œuvre et entraver sa réalisation et les performances prévues, c’est impliquer les co-auteurs, les co-autrices mais aussi les diverses institutions qui s’impliquent en signant des contrats avec les “#performeurs”.

    Ainsi, le Bureau des dépositions n’est pas né d’une interrogation théorique mais d’une urgence pratique et il s’agit alors de ne jamais perdre de vue que la représentation n’est jamais à entendre dans le sens classique d’un spectacle ou d’une performance artistique mais dans le cadre d’une difficulté à résoudre.

    La performance par la coprésence est une #action, dans le sens juridique du terme, une action qui relève de la capacité à obtenir justice, de la volonté de faire reconnaître un #droit et non d’un mouvement esthétique sans lendemain. Bien sûr, la démarche suppose, pour être visible, de se fondre dans une mise en scène mais il ne s’agit que d’un moyen et pas d’une fin. Pour ouvrir une scène publique qui a deux vocations : avancer en commun par le partage des problèmes et le recueil de solutions et constituer l’objet même de la démarche juridique : l’œuvre immatérielle.

    Être ensemble sur une scène, s’exprimer à la radio… voilà autant de concrétisations qui constituent un cheminement dont nous allons rendre compte, et dans un certaine mesure qui est encore difficile à déterminer, accompagner voire nourrir.

    Le premier plateau-radio d’octobre 2019 :


    https://r22.fr/focus/oeuvrer-les-limites-du-droit-deuxieme-session

    https://imaj.hypotheses.org/2420

    #audio

    #droit_d'auteur #droit_des_étrangers #asile #migrations #réfugiés

    Une initiative de #Sarah_Mekdjian et #Marie_Moreau

    ping @karine4 @isskein

    • A Grenoble, le Bureau des dépositions ne veut plus être empêché de créer

      Le collectif d’artistes projette de saisir la justice contre les procédures d’expulsion qui menacent certains de ses membres, demandeurs d’asile. Avec une arme : le statut de co-auteur.

      Dans leurs contrats figure une clause « d’indivision » qui prévoit l’annulation de la représentation en cas d’absence contrainte de l’un des coauteurs en raison de sa situation administrative. Un paragraphe tout sauf anodin pour Mamadou, Sarah, Ben, Sâa Raphaël, Marie, Pathé, Ousmane, Mamy, Aliou et Elhadj Sory, depuis que le Bureau des dépositions, le collectif d’artistes qu’ils ont fondé il y a un an, a cru voir son élan brisé par l’expulsion de deux membres.

      En mai 2019, deux mesures d’éloignement préfectorales ont mis entre parenthèses le travail artistique engagé par ces dix « auteurs-performeurs », dont la collaboration s’était scellée quatre mois plus tôt, autour d’ateliers d’écriture de lettres sur les violences des politiques migratoires. Trois mois après leur transfert respectif vers l’Espagne et l’Allemagne, Mamadou et Elhadj Sory ont à nouveau franchi la frontière, permettant ainsi au Bureau des dépositions de renouer avec ses ambitions.

      « On s’est dit qu’il fallait faire quelque chose pour se protéger », se souvient Ousmane, l’un des huit demandeurs d’asile originaires de Guinée-Conakry qui ont participé à la création du collectif. « L’agent actif de nos œuvres, c’est-à-dire la nécessaire présence physique des uns et des autres lors des temps de création pour échanger et faire œuvre, a été mis en péril », abonde Marie, coautrice au sein du groupe.
      Notion de coauteur

      À l’exception d’Ousmane, les autres exilés du collectif, âgés de 20 à 29 ans, vivent sous le coup d’une Obligation de quitter le territoire français (OQTF) ou d’un transfert, dit « Dublin », vers le premier pays de l’Europe où leurs empreintes digitales ont été enregistrées. Chaque soir, ils dorment aux côtés d’une soixantaine d’autres demandeurs d’asile au « Patio », un local désaffecté du campus de Grenoble ouvert dans l’urgence au début de l’hiver 2017 pour les abriter.

      https://www.lemonde.fr/culture/article/2020/02/19/a-grenoble-le-bureau-des-depositions-ne-veut-plus-etre-empeche-de-creer_6030

    • œuvrer une justice spéculative

      Bureau des dépositions. Exercice de justice spéculative est fondé sur une conception pragmatique du droit, à partir de celui déjà existant et de ses limites, à distance du régime moral et compassionnel de la plainte. L’œuvre s’inspire du droit de la propriété intellectuelle, infléchi par les pratiques du logiciel libre, afin d’attaquer le contentieux du droit des étrangers et du droit d’asile. Le fac-similé de la procédure est suivi d’un texte de Sarah Mekdjian et Marie Moreau retraçant les pratiques de cette œuvre signée en co-auctorialité, initiée depuis janvier 2019 au Patio solidaire sur le campus de l’université Grenoble Alpes, et au Magasin, centre national d’art contemporain à Grenoble. Il s’agit d’une création, immatérielle et processuelle, signée par dix auteur·trice·s.

      https://vacarme.org/article3283.html

    • #Bureau_des_dépositions. #Expulsions, #œuvres-milieux et recours au #droit

      Dix personnes, qui forment le Bureau des dépositions, créent des performances à Grenoble depuis 2018. En s’adressant les un·es aux autres et à un public, en ré-agençant les (im)-possibilités de paroles depuis la mise à découvert d’injustices légalement produites, elles, ils élaborent des conditions de trans-formations : langagières, sensibles, politiques. Dans le même temps, plusieurs performeurs sont inquiétés par le contentieux du droit des étrangers et du droit d’asile, expulsés légalement ou encore menacés d’expulsion. Des réponses se formulent auprès des tribunaux : alors que les performances requièrent la co-présence physique de chacun·e, les absences forcées portent atteinte à un milieu de création. Le droit d’auteur et de la propriété intellectuelle est ici convoqué et réinterprété dans le contexte d’expulsions légales et d’œuvres-milieux.

      https://www.multitudes.net/bureau-des-depositions-expulsions-oeuvres-milieux-et-recours-au-droit

  • #LesInrocks - Alain #Damasio : “C’est tout le rapport de l’Occident à l’activité qu’il faut repenser”
    https://www.lesinrocks.com/2018/01/24/actualite/alain-damasio-cest-tout-le-rapport-de-loccident-lactivite-quil-faut-repe

    Alain Damasio : “C’est tout le rapport de l’Occident à l’activité qu’il faut repenser”
    24/01/18 18h15
    PAR
    Mathieu Dejean
    Samedi 27 janvier, une journée de débats est organisée à la Bourse du #Travail de Paris sous le titre : “Tout le monde déteste le travail”. Alain Damasio, écrivain de science-fiction engagé, auteur de “La Horde du Contrevent” (2004), nous en dit plus sur cet événement qu’il a co-organisé.
    Au milieu des années 1950, l’Internationale lettriste regroupée autour de Guy Debord annonçait l’esprit de Mai 68 avec un célèbre graffiti : “Ne travaillez jamais”. Cinquante ans après les “événements” de mai, un collectif souffle sur les mêmes braises réfractaires, et organise le 27 janvier à la Bourse du Travail de Paris une journée de débats et de création artistique sous le titre : “Tout le monde déteste le travail - Rencontres pour qui en a, en cherche, l’évite, s’organise au-delà...”.

    Annoncé sur le site lundimatin, proche du #Comité_invisible, l’événement rassemble la fine fleure de la pensée critique dans ce domaine – la sociologue Danièle #Linhart, le professeur de droit Emmanuel #Dockès, l’économiste Frédéric #Lordon, ou encore le journaliste indépendant Olivier #Cyran (auteur de Boulots de merde ! Enquête sur l’utilité et la nuisance sociales des métiers, 2016) -, mais aussi des syndicalistes, des zadistes et des écrivains (le programme complet est ici).

    Le collectif à son origine est aussi celui qui avait organisé la “chasse aux DRH” le 12 octobre dernier, pour empêcher la venue de Muriel Pénicaud au Congrès des DRH. Alain Damasio, écrivain de science-fiction engagé, auteur de La Zone du dehors et de La Horde du Contrevent, qui a co-organisé ce rassemblement, nous en dit plus.

    Quel est l’objectif de cette journée ?

    Alain Damasio – Lors d’une rencontre sur le plateau de Millevaches (Limousin) fin août avec des gens qui gravitent autour du Comité invisible, des artistes, Frédéric Lordon ou encore Julien #Coupat, on s’est dit qu’il fallait lancer une série d’actions pour lutter contre la deuxième loi travail. La première action, c’était la “#chasse_aux_DRH”. La deuxième, c’est cette journée au cours de laquelle nous allons essayer de déployer nos idées, nos visions, de proposer des choses. L’objectif, c’est de répondre à ces questions qui nous traversent tous : Comment dépasser le travail ? Comment sortir de cette fabrique du travailleur comme figure essentielle ?

    Ces rencontres sont réunies sous l’intitulé “Tout le monde déteste le travail”. Ça vous semble si évident que ça ?

    Le titre est une référence au slogan “Tout le monde déteste la police”, il fait la continuité avec les manifestations contre la loi travail. Il a aussi un côté affectif. Frédéric Lordon explique très bien que les mouvements politiques se déploient lorsqu’ils ont un affect commun. En l’occurrence, nous éprouvons la sensation qu’une majorité de gens souffrent au travail, subissent des conditions d’exploitation de plus en plus subtiles, que la pression du chômage les oblige à accepter. C’est pourquoi nous avons décidé de taper sur le travail, conçu comme une activité soumise à salaire et à un système de contrainte très fort.

    C’est aussi une provocation. Des gens vont lire l’affiche et se dire : “C’est pas possible, moi j’aime mon travail !” En fait, on pousse les gens à s’auto-convaincre qu’ils aiment ce qu’ils font. Quand tu subis une exploitation forte, dans un cadre très contraint car tu dois gagner ta vie, c’est une réaction naturelle. Intérieurement tu souffres et tu détestes ce que tu fais, mais tu as aussi une injonction à être à l’aise, à aimer ce travail. C’est aussi contre ce néo-management que nous nous érigeons.

    “Nous avons décidé de taper sur le travail, conçu comme une activité soumise à salaire et à un système de contrainte très fort”

    Nos vies vous semblent-elles de plus en plus réduites à cette seule activité : le travail ?

    J’ai le sentiment qu’on continue en tout cas à nous faire croire que l’horizon peut être le plein-emploi, qu’il suffit d’y mettre le fric, ou de “libérer” le travail pour qu’on recrée de l’emploi. Je suis convaincu qu’il faut au contraire définitivement enterrer cette idée. Pour moi, l’avenir du travail réside peut-être dans le revenu universel, même si le capital peut s’en accommoder. Cette idée ne fait d’ailleurs pas consensus entre nous.

    En effet il y a une version néolibérale du revenu universel... Comment en faire une mesure vraiment émancipatrice ?

    Les positions des participants à cette journée divergent à ce sujet. Ariel Kyrou, que j’ai fait inviter, a énormément défendu le revenu universel dans le cadre de la revue Multitudes. Pour moi, c’est un plancher minimal à partir duquel tu peux te débarrasser de la nécessité de travailler. Je pense que ça peut libérer énormément d’énergie pour créer, militer, organiser un autre type de vie. Ça ouvre la porte à des alternatives. Beaucoup de gens se moquent d’avoir un statut social. C’est ce que j’ai vu à la ZAD de Notre-Dame-des-Landes. De quoi vivent-ils ? Ils vivent souvent d’un RSA, et de l’autoproduction. En l’occurrence, le plancher du RSA leur permet de faire des choses fabuleuses localement.

    Entendez-vous revaloriser la paresse, l’oisiveté ?

    Je n’aime pas l’idée de paresse, car elle s’articule comme une négativité par rapport au travail. Par contre, étymologiquement, l’oisiveté vient du terme latin otium. Nier l’otium, ça donne le mot negotium, le "négoce", le commerce, et finalement, ce monde capitaliste dans lequel on est. Nietzsche l’écrivait très bien aux alentours de 1870, avant l’arrivée du marxisme, qui a été très pro-travail : pourquoi prôner le travail, alors que la noblesse spirituelle de l’époque était fondée sur une valorisation absolue de la disponibilité, de l’oisiveté, de la présence au monde, de la contemplation ? On a réussit à inverser cette hiérarchie des valeurs pour faire du travail quelque chose d’indispensable, le nec plus ultra.

    “C’est tout un rapport de l’Occident à l’activité en elle-même qu’il faut repenser”

    L’oisiveté, ce rapport au temps libéré, cette disponibilité au monde, à la nature et aux autres m’intéresse. Prendre ce temps me paraît fondamental. C’est tout un rapport de l’Occident à l’activité en elle-même qu’il faut repenser. En écrivant le texte du programme de cette journée avec Julien Coupat, on s’est posé la question du sens de l’activité. On a une telle compulsion au productivisme ! Moi-même, je n’arrive pas à passer à un rapport à l’activité qui ne soit pas auto-aliénant.

    Les technologies numériques semblent contribuer à accentuer l’emprise du travail sur nous, alors qu’on croyait qu’elles allaient nous en libérer. Pensez-vous qu’on peut mieux les maîtriser ?

    Je pense qu’on est dans un état d’adolescence par rapport aux technologies numériques. Il faudra encore une génération pour atteindre un bon niveau de recul, de maîtrise. Je vois très peu de parents capables d’éduquer leurs gamins aux jeux vidéo. Or s’il n’y a pas de transmission sur ce média, d’école pour éduquer aux jeux vidéo, comment voulez-vous que les gamins ne soient pas bouffés, vampirisés par des jeux addictifs ? C’est pareil pour les réseaux sociaux, les mails, etc. On peut passer des journées seulement en interactions avec des interfaces. Ça, c’est flippant.

    “La liberté est un feu : tout le monde a envie de se mettre autour, mais personne ne va prendre le risque de sauter dedans, d’assumer ce qu’être libre veut dire”

    J’ai l’impression qu’il y a un mécanisme humain de fermeture au monde, de régression fusionnelle avec les outils technologiques. Cela crée des effets de bulle. Le psychanalyste Miguel #Benasayag l’a très bien expliqué dans Plus jamais seul. Les gens veulent rester dans un continuum affectif permanent avec leurs proches, ils ne supportent plus le moment où le lien se coupe, et où on se retrouve seul. Pourtant c’est dans l’absence, dans la rupture du continuum que le désir de l’autre se construit.

    On a réussi à faire de la technologie un magnifique vecteur d’auto-aliénation. C’est ce dont je parle dans La Zone du dehors : on est très forts pour le liberticide. La liberté, c’est un feu : tout le monde a envie de s’en approcher, de se mettre autour, mais personne ne va prendre le risque de sauter dedans, d’assumer ce qu’être libre veut dire, parce que ça brûle, ça crame.

    Quelle #philosophie_du_travail défendez-vous collectivement ?

    Un de nos modèles, c’est la ZAD. La manière dont les zadistes conçoivent quotidiennement l’activité est différente. Elle est auto-générée. Pour construire un bâtiment avec du bois de la ZAD, ils constituent un collectif qui réapprend à faire les charpentes, ils réapprennent un artisanat et retrouvent une continuité naturelle avec la forêt. Il y a une autodétermination de bout en bout, corrélée à un territoire. On passe ainsi d’un statut d’ouvrier à un statut d’œuvrier. L’œuvrier décide lui-même de ce qu’il a envie de faire, du projet qu’il a envie de porter, et le fait avec des gens qu’il a choisis. C’est notre vision générale du travail.