• Les filles du bord de mer ... - [repost @albertocampiphoto]

    https://editions-sarbacane.com/bd/ama

    #Japon, fin des années 1960. Nagisa, jeune citadine tokyoïte aux manières policées et pudiques, débarque avec son paquetage sur #Hegura, petite île de pêcheurs reculée. Là, elle est adoptée par Isoé, la cheffe de la communauté des « Ama » qui gouverne l’île. Les #Ama, ces « femmes de la mer » brutes, fortes et sauvages qui plongent en apnée, nues, pour pêcher des coquillages… Choc intime et culturel, ce mode de vie rural et indépendant est progressivement investi par la timide Nagisa, qui fuit son passé.

    « Coup d’essai, coup de maîtresse dessinatrice. Un pur moment de poésie que l’on termine à regret. » — L’Humanité

    « Une BD toute de bien vêtue qui plaira autant aux adultes qu’aux plus jeunes. » — ELLE Belgique

    « Premier album de bande dessinée, signé de main de maître. » — dBD

    « Le trait - on pense à Davodeau - est en phase avec une existence aux gestes toujours recommencés. Les scènes de plongée fascinent. » — Case Mate

    #bd #pêche #féminisme #japon

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    https://seenthis.net/messages/938133#message938139

  • Remavano, allattavano e partorivano in barca: chi erano le donne pescatrici delle Eolie

    Donne siciliane e pescatrici. Esistite davvero ma che nessuno ricorda più. Dedite al lavoro e alla famiglia, con mani forti tiravano su le reti. Questa è loro storia...

    https://www.balarm.it/news/remavano-allattavano-e-partorivano-in-barca-chi-erano-le-donne-pescatrici-del

    Assistere alla vita di un bimbo che viene messo al mondo è in assoluto la scena più romantica, poetica e più intensa che ci possa essere e che scuote l’anima.

    Assistere alla stessa scena al largo delle Isole Eolie e a bordo di un gozzo antico mentre la donna protagonista sta pescando assume tratti spettacolari o inquietanti.

    La donna pescatrice fedele a questo universo mediterraneo non è una sola ma ne abbraccia tante ed enigmatiche.

    A queste abbiamo voluto interessarci con l’impeto necessario per catturare l’immagine di un mestiere che si scalfiva anche al femminile, sicuramente ai primi vagiti del Novecento, si fionda agli anni Sessanta a ritmi incessanti (e poi termina) e viene tracciato nello schizzo letterario più remoto di Boccaccio.

    Perché fino agli anni Sessanta? Lo stile socio - economico cambia, si va verso l’industrializzazione, si innesta il turismo anche più commerciale, si avvia il fenomeno dell’emigrazione verso il nord d’Italia e le mogli partono con i loro mariti mentre prima dovevano caricarsi di doveri in solitudine.

    Queste figure “quasi mitologiche” ed irriducibili per il loro valore non potevano certamente abbandonare i propri figli durante le loro faccende di sopravvivenza in regime di povertà prima e dopo la Guerra Mondiale e dovevano sopperire alla mancanza fisica dei loro consorti perché forse espatriati o chiamati alle armi.

    L’ultima pescatrice che vive ad Alicudi nasce nel 1946 e comincia a frequentare il mare a cinque anni. L’ultima delle pescatrici di Stromboli nata nel 1926 (e morta recentemente) ha immolato tutta la sua vita al mare portando al suo focolare ogni giorno 10-20 chili di pesce da vendere e ha cresciuto cinque figli a mare. Tramite la sua comare di San Giovanni, si viene a sapere che questa donna “qualche volta lo faceva anche a mare”.

    Altro flashback sconvolgente di vita è affidato all’ennesimo figlio di isolani di Lipari: sua madre partorisce la sua ottava creatura morta mentre tirava il ragno che è uno strumento pesante per le battute di pesca. C’era la fame e lei non poteva sottrarsi anche durante la fase finale della gestazione.

    Si deve entrare nell’idea di donne dedite al sacrificio, non come una vergogna ma bisogna guardare a loro come un faro illuminante che ha contribuito a tenere salda la famiglia: definiamole “ladies warriors” (signore guerriere) che partivano sole o con le vicine, hanno affrontato il mare in tutte le sue intemperie quando erano incinte, non sono mai scappate con i bambini in fasce, intrepide davanti al rischio e hanno sorretto la piccola economia.

    Il ricordo da bambino di un pescatore che si chiama Martino Dalla Chiesa, nato nel 1902, dirompe sul nostro palco narrativo e ci si culla con lui che osservava la mamma e la nonna suonare l’arte della caccia sul mare.

    A che età un altro uomo del 1909 conosce il mare?

    Questi risponde: «Mentre mia madre mi allattava e poi lavorava, come noi che eravamo figli». Restiamo incantati di fronte ad una nonna che pescava le tartarughe (se ne ha segnalazione dagli anni ‘30 ai ‘50, fin quando questa pratica è stata vietata per Legge nel 1965) sia per poter arricchire il brodo dei nipoti sia per regalarne una, non come animale domestico ma come bambola “simil pezza”, vestita di un minuscolo straccio che era la sottanina e nascondeva la corazza.

    La miseria straziante aleggiava anche nell’impossibilità di presentarsi con un giocattolo “normale” a casa per i propri piccoli che non vedevano l’ora di avere un compagnetto di svago.

    Per arraffare le testuggini che, a quel tempo, non si stavano estinguendo anzi se ne contavano parecchi esemplari, le signore della pesca erano in grado di buttarsi dalla barca a prescindere dal mare calmo o gonfio, di prendere le “Caretta Caretta” con le mani dalle zampette e con una certa rapidità capovolgerle o con un ampio retino detto “cuoppo”.

    Può far accapponare la pelle agli animalisti ma la presa delle tartarughe aveva i suoi cliché perché si applicava la tecnica e si effettuava a gennaio e febbraio, poteva rappresentare un pericolo per le fauci della testuggine che morde e la carne non si consumava tutta subito.

    Pare che qualche «Caretta Caretta» fosse lasciata in spiaggia volutamente per pasteggiare i residui delle maree quindi più fortunata di altre. Le «femmine» eoliane (in questo caso “femmine” per il requisito di non cedere neppure alla tenerezza di una tartaruga) si alternavano con destrezza agli uomini.

    C’era un modo in tutte le Isole (nessuna esclusa, persino le minori Alicudi e Filicudi) per distinguere l’approdo delle donne pescatrici in mare: loro arrivano di poppa piuttosto che di prua perché la manovra era più facile. A svelarlo è lo storico dell’800 Luigi Salvatore d’Austria che era anche un etnografo, geografo e botanico – naturalista che ha dedicato alle Eolie otto volumi (uno per ogni isola e poi un compendio generale).

    Il fatto che queste donne esistessero, fossero “Multitasking” già nel secolo scorso e facessero anche le contadine di giorno, prodigandosi di notte per la pesca trova la sua verità in una documentazione ricchissima dell’Ottocento, per concludere con un bellissimo girato del 1947 della Panaria Film, prodotto da Francesco Alliata di Villafranca che ne ha reso attuabile il restauro nel 2007, da parte della Cineteca del Comune di Bologna e dellaFilmoteca Regionale Siciliana (da cui siamo risaliti ad alcuni preziosissimi frames fotografici e che ringraziamo per la Collezione Alliata).

    Ma in mezzo ci sono le testimonianze più o meno dirette che con grossa difficoltà sono state reperite nell’arco di ben quarant’anni. Si tratta di beni immateriali che non si vedono sul territorio, di alcune tradizioni narrative che non si apprendono e non si possono ricavare da parte del visitatore, se non attraverso un libro o un reportage giornalistico come il nostro.

    Con il supporto della sagace Antropologa del Mare Marilena Maffei, di origine lucana, nonché autrice di ben sei volumi sulle “Sette Sorelle di Messina”, ci siamo calati nella storia delle pescatrici delle Isole Eolie che comincia da molto lontano.

    Quando Maffei è arrivata nel 1980 nell’Arcipelago, ha iniziato la sua ricerca e, da allora, i suoi testi sono stati adottati in cinque diversi Corsi di Laurea di famose università in Italia. Questa storia di respiro mediterraneo è stata occultata, camuffata. Il risultato “principe” è il libro “Donne di mare” del 2013, da cui nascono tante situazioni fuori dalle Eolie, dove paradossalmente nulla è nato dal punto di vista materiale.

    Unica scintilla meravigliosa ed inaspettata nella prima volta nella storia d’Italia e della Sicilia: nel 2018, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella conferisce il più prestigioso riconoscimento del Cavalierato alle ultime donne pescatrici per la vita che hanno trascorso. Questo è avvenuto “motu proprio” cioè “di propria iniziativa”, atto personale senza il supporto dell’istituzione.

    Ma il pressing che ha innescato l’operazione è stato offerto dal dossier dell’antropologa Maffei, depositato al Quirinale. La studiosa è stata invitata in tanti Atenei, come a Chioggia dove hanno commemorato le loro donne di mare, per riferire di questa storia.

    Le prime tre donne premiate sono di Lipari: Immacolata detta “Santina” Lo Presti nata nel 1929, Nicolina Mirabito nata nel 1933, Nicolina detta “Rosina” Mirabito nata nel 1935 e Rosina Taranto nata ad Alicudi nel 1946.

    «È terribile che per il resto questa categoria sia stata dimenticata - commenta -. L’Amministrazione di Malfa (comune di Salina), con la sua Sindaca Clara Rametta (non a caso donna), ha incaricato un artista di Messina Fabio Pilato di realizzare la scultura in ferro “Donne di mare”.

    Dopo tanto tribolare sarà una festa che fa tornare in vita queste figure, grazie alla mia fatica».

    Con l’onorificenza del Governo, è sorta anche l’associazione “Donne di Mare” che ha dato impulso ad altre e ha depennato il concetto che il mare appartenesse agli uomini e la terra alle donne. Vale la pena ricordare un pensiero di Rosina che non c’è più sottolineato da Maffei: «Quando andavo al mare. Non ho fatto nemmeno la terza elementare.

    Dopo il primo sonno, andavamo a pesca io, papà mio e mia sorella. Noi remavamo. Se eravamo assai, un remo per uno. Se eravamo pochi, una tutti e due remi». Generazioni di bambine a cui il mare ha tatuato le loro esistenze, il loro carattere, il loro focus di orizzonti e, nella loro immaginazione sul mare, non c’era altro se non il loro vissuto.

    Imbattersi nelle pescatrici eoliane non è un lavoro da poco e lo dobbiamo a questa dinamica antropologa che ama e ha amato queste Isole. Incontrarle per caso ai nostri giorni non è affatto più agevole, per quanto ci sia un ritorno agli antichi mestieri macomunque di eredità genitoriale. Se il comune denominatore era la pesca, la madre si cimentava insieme al suobambino che diveniva primo attore inconsapevole, con il padre o con il nonno.

    Lo spaccato che emerge con sano vigore rivela l’identità mediterranea della figura della donna con Fernand Braudel nel suo libro “Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni”: «Il pescatore era anche contadino e non avrebbe potuto vivere se non avesse esercitato entrambe le professioni”.

    Su attenta analisi di Maffei, queste donne sono coriacee come quella di Panarea: “Allora facevamo il giorno a terra e la notte a mare a pescare – sciorina la scrittrice in un passaggio del suo libro -. Che dovevamo fare per andare avanti? Eravamo una famiglia. Lavoravamo notte e giorno. In mare ne passammo tempeste, tempeste brutte. ‘A vistimo a’ morte con gli occhi… A 23 anni mi sono sposata e lo stesso andavo a mare. Facevamo una vita amara”.

    Il racconto si fa più pragmatico e ci mostra come fossimo con loro questo “andirivieni di sera verso le 7, per svolgere la prima pesca.

    Poi di mattina verso le 4 si procedeva con le reti e di sera pure. Di giorno si usavano le nasse e si pigliavano aragoste, scorfani, mostine e tanti altri pesci”. La donna marinaio per esempio rievocata a Salina aiuta il pescatore che non può permettersi il marinaio e quindi si muove con il marito in questo frangente.

    Qui, siamo in presenza di una donna che non è munita di autonomia però c’erano quelle che creavano equipaggi unicamente di gentil sesso ed uscivano tutte le sere. C’erano donne che si recavano da sole al mare e andavano a pesca di totani da un’isola all’altra con la fatica di remare tutto il giorno e vendevano i loro prodotti.

    Questo legame profondo tra il femminile ed il mare prima non veniva considerato e le pescatrici delle Eolie lo attestano. Oggi, c’è una evoluzione: dalle donne in Marina alle imprenditrici del turismo che esaltano quel bisogno di vivere il mare in armonia con esso (o con “lui”) e con il suo ambiente e farne una ricchezza per il circondario.

    All’epoca, c’era una parità di lavoro su cui si deve riflettere e non una parità di genere. La storia di Maria (nome fittizio) di Panarea ci sembra il modo più elegante per elogiare la devozione di queste donne alla propria terra e ai propri intimi affetti. Maria, nata nel 1929 (anche lei scomparsa), non ha mai conosciuto il padre perché si era trasferito in Argentina quando la madre era gravida, costruendosi per giunta un’altra famiglia all’Estero.

    Forse, adesso, non fa scandalo ma in quel periodo era una tragedia. La madre ha allevato la sua unica figlia con gli inconvenienti del caso e si faceva sostenere dalla propria madre quindi la nonna di Maria.

    La nonna, anche lei pescatrice, ogni tanto, nelle sue uscite marinare, ritornava con una tartaruga piccola per la sua nipotina, in sostituzione della bambola. Un gesto di tale potenza visiva, dettato dalle cicatrici dell’esperienza, non può essere spiegato ma abbiamo chiuso il cerchio risistemandoci allo Start.

    Solo che prima non vi avevamo descritto il dietro le quinte di Maria con sindrome d’abbandono. Un saluto va dedicato alla donna della “Rotta del Pane”, inclusa nel libro di Maffei. La consuetudine di questo personaggio di preferire la terraferma al mare è il perno, nonostante avesse un marito e
    dei figli pescatori.

    Ma questa caratteristica non la bloccava quando credeva che i suoi cari non avessero vivande sufficienti alla permanenza in mare tra Lipari e Vulcano, così partiva in barca e li andava a cercare remando fino a quando non li raggiungeva per consegnare il cibo avvolto nel “maccaturi” ovvero il fazzolettone contenitore di altri tempi. Il figlio ricordava che il padre si indispettiva per quel gesto ma nulla spostava la testardaggine e l’amore della donna di mare.

    #pêche #sicile #ÎlesÉoliennes #Genre #femme #mer #ama

  • The First Man to Reach the North Pole was an African American Desk Clerk the World Forgot

    “I think I’m the first man to sit on top of the world,” is not something many people can boast, especially if they lead perfectly normal lives, say, working a desk job in the city in relative anonymity. But for many years, that was the truth of #Matthew_Henson.

    In 1908, the unsung African American explorer was the first of a six-man team to reach the North Pole. He studied and spoke Inuktitut better than any other Westerner on the expedition, leading to successful trade and navigation relations with the local Inuit. He built Igloos, trained the dog sled crews, studied indigenous survival techniques, and mastered a lot of the painstaking, behind-the-scenes work that came with being the personal valet of a wealthy white explorer who had something to prove to the boys back home at the National Geographic Society. It’s easy to be floored by Henson’s accomplishments, which, aside from being achieved in -29 degree temperatures, show the breadth of what it takes to be an explorer. But it’s not so easy to understand how he spent decades following the expedition that should have changed his life forever, unrecognised and unrewarded. So as we conclude Black History Month, we’d like to raise a glass and share the story of our adventurer du jour…

    Matthew Henson and the man who’s officially credited with reaching the North Pole first – Robert Peary – met in a gentlemen’s clothing store in 1887, where a 21 year-old Henson was working at the time in Washington, D.C. As he waited on Peary, a Navy engineer with grand ambitions, the two men from very different backgrounds began talking. Peary would learn that Henson was born into a family of free sharecroppers in Maryland, but had to flee the state after his parents were targeted by the Klu Klux Klan. By the age of twelve, he had gone to sea as a cabin boy and travelled to ports as far as China, Japan, Africa, and the Russian Arctic seas. The merchant ship’s captain had taken the young African American under his wing and taught him to read and write.

    It’s safe to say that Henson had more experience than many of the aspiring explorers Robert Peary was used to meeting in the gentlemen’s lounge of the Nat Geo Society at the turn of the century. Peary (the guy pictured below on the far right with the walrus moustache) hired him on the spot.

    From that point forward, Henson went on every expedition Peary embarked on; trekking through the jungles of Nicaragua and, later, covering thousands of miles of ice in dog sleds to the North Pole.

    On a side note, this would be a good time to mention that Robert Peary’s wife, Josephine, AKA the “First Lady of the Arctic” and one of history’s bravest, corset-wearing ice queen explorers, was also a notable party member of Peary’s expeditions. She actually gave birth to their baby by the North Pole, and wrote a best-selling book, The Snow Baby:

    In short, Commodore Peary was rolling with a very intimate but diverse crew that included “22 Inuit men, 17 Inuit women, 10 children, 246 dogs, 70 tons (64 metric tons) of whale meat from Labrador, the meat and blubber of 50 walruses, hunting equipment, and tons of coal”.

    Henson was promoted to “first man” and field assistant. He was a skilled craftsman, often coming up with life-saving solutions for the team in the harshest of Arctic conditions. On the final stage of the journey toward the North Pole, it was just himself, Peary and four native Inuit assistants, Ootah, Egigingwah, Seegloo, and Ooqueah.

    As they approached the “Farthest North” point of any Arctic expedition until 1909, Robert grew more and more weary, suffering from exhaustion and frozen toes, unable to leave their camp, set up five miles from the pole. Henson scouted ahead on Peary’s orders. “I was in the lead that had overshot the mark a couple of miles,” Henson later recalled, “We went back then and I could see that my footprints were the first at the spot.”

    According to his account of their eighth attempt to reach the North Pole (which is now suspected to be off the mark by a wee bit, but who’s trimming inches), Henson revealed that it wasn’t Admiral Peary, the great explorer who would later receive many honours for leading the expedition, but he himself, who made it to the “top of the world” first.

    When Peary caught up with him, the sled-bound Admiral allegedly trudged up to plant the American flag in the ice – and yet, the only photograph of the historic moment shows a crew of faces that are distinctly not white.

    Was it Robert’s way of honouring the crew by allowing them to pose for the snap? Or was he still back at camp, unable to make it the last few miles, leaving his “first man” to plant the flag and take a self-portrait with the four Inuit team members? These may seem like minor details, but if it was you that had planted the first flag on the moon, wouldn’t you want history to know it?

    Here’s what Henson wrote about the moment they reached the North Pole in his autobiographical account, A Negro Explorer at the North Pole (1912):

    “[The flag] snapped and crackled with the wind, I felt a savage joy and exultation […] Another world’s accomplishment was done and finished, and as in the past, from the beginning of history, wherever the world’s work was done by a white man, he had been accompanied by a colored man. From the building of the pyramids and the journey to the Cross, to the discovery of the new world and the discovery of the North Pole, the Negro had been the faithful and constant companion of the Caucasian, and I felt all that it was possible for me to feel, that it was I, a lowly member of my race, who had been chosen by fate to represent it, at this, almost the last of the world’s great work.”
    – Matthew Henson, A Negro in the North Pole (1912)

    Despite some doubts about the accuracy of the data as well as a competing claim, the National Geographic Society credited Peary with reaching the North Pole and was recognised by Congress, which awarded him the Thanks of Congress by a special act in 1911.

    At the time, Henson’s contributions were largely ignored and, following the expedition, he returned to a very normal life, working as a clerk for 23 years on the 3rd floor of the U.S. Customs House in New York City, while Peary retired to Eagle Island. Without the reputation or financial backing to organise his own expeditions, Henson’s career as an explorer was over forever when Peary hung up his hat. In his books, Peary didn’t exactly give credit where credit was due.

    “This position I have given him primarily because of his adaptability and fitness for the work and secondly on account of his loyalty,” wrote Peary. “He is a better dog driver and can handle a sledge better than any man living, except some of the best Esquimo hunters themselves.”

    We can see in his own writing, that Henson struggled with the role of playing second fiddle to a man like Peary, which isn’t to say there’s not immense joy, and pride in his work with the Commodore – but there are major flashes of internalised racism in his self value. It’s complicated. It’s something I wish we talked about in high school World History classes.

    Henson did later gain some recognition in his lifetime, and nearly 30 years after the expedition, in 1937, he became the first African American to be made a life member of The Explorers Club, one of the world’s most pre-eminent societies for trailblazers, with Neil Armstrong and the real life Indiana Jones counted amongst its members. With some irony, in 1944, Henson was awarded the Peary Polar Expedition Medal, which was received at the White House by Truman and Eisenhower.

    Henson died in 1955 in the Bronx, NYC, and was transferred to Arlington National Cemetery to be buried beside Robert Peary in the 1980s. He had no children with his wife, but was survived in direct ancestry by an Inuit son, Anauakaq. Both Henson and Peary had children with Inuit women outside of marriage, and in the 1950s, a French explorer spending a year in Greenland was the first to report on their descendants. The explorers had never returned to see their children after 1908, but Henson actually has a great-great-grandaughter in actor Taraji Penda Henson, AKA Cookie Lyon from television’s Empire. It’s a small world after all.

    Thanks to an African American Harvard professor, Samuel Allen Counter Jr., making some noise about Henson’s story again in the 1990s, the explorer was posthumously awarded the National Geographic Society’s highest honour, the Hubbard Medal, nearly a century after Peary had been given the same award for their expedition in 1908. African American history has systematically been deprived of its own heroic explorers, but isn’t it about time someone called Hollywood and got Idris Elba in for a screen test?


    https://www.messynessychic.com/2020/02/28/the-first-man-to-reach-the-north-pole-was-an-african-american-desk-c
    #invisibilisation #historicisation #Noirs #explorations #histoire #explorateurs #explorateurs_noirs #Pôle_nord #arctique

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