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  • Milano e i migranti dall’Unità a oggi

    Milano città d’immigrazione, polo d’attrazione per chi è alla ricerca di nuove opportunità di vita. Un fenomeno per nulla nuovo che affonda le sue radici nel passato, si definisce e acquista nuove forme nel corso del tempo, cambia il volto di una città attenta e pragmatica, che ha sempre cercato un dialogo con chi ha scelto di farne la sua nuova casa, per superare le inevitabili tensioni e asprezze della quotidianità e insieme ottenere il meglio dall’indispensabile immigrante.
    Ricostruire storicamente le vicende dell’immigrazione milanese non è quindi un esercizio ozioso, né un mero, per quanto doveroso, omaggio reso a donne e uomini che si sono spesi per elaborare soluzioni concrete alle più disparate urgenze sociali scaturite dall’incontro con genti nuove e diverse, ma è soprattutto un’occasione per riannodare le fila di questo dialogo e preparare risposte inclusive adeguate al presente.

    L’indispensabile immigrante. Così uno dei più grandi storici del secolo scorso, il francese Fernand Braudel, nella sua famosa thèse del 1949 dedicata al Mediterraneo nell’età di Filippo II introduce il tema del rapporto tra la città e l’immigrazione. La questione ritornerà nel 1967 nel volume Capitalismo e civiltà materiale: “Le città sono come dei trasformatori elettrici: esse aumentano le tensioni, precipitano gli scambi, rimescolano all’infinito la vita degli uomini”. Ma sono anche dei magneti che attirano incessantemente gente nuova dal contado, talvolta da località più remote e non sempre solo dalla campagna. “Il reclutamento è forzato, ininterrotto”. Per una ragione molto semplice: “Biologicamente, prima del secolo XVIII la città quasi non conosce eccedenze di nascite sui decessi. […] Se aumenta, non può farlo da sola”. Anche socialmente, “lascia i lavori più umili e pesanti ai nuovi arrivati: le occorrono, come nelle nostre economie survoltate d’oggi, il nordafricano o il portoricano di servizio, un proletariato che si consuma rapidamente per essa e dev’essere rapidamente rinnovato. L’esistenza di questo basso proletariato miserabile è il tratto dominante di ogni grande città”. Attenzione, aggiunge Braudel: “Questi indispensabili migranti non sempre sono uomini di fatica o di qualità mediocre: spesso recano tecniche nuove, tecniche non meno indispensabili alla vita urbana delle loro persone. […] Tutto serve per costruire un mondo urbano, anche i ricchi. La città li attira quanto i proletari, sebbene per altre ragioni”. In conclusione: “Probabilmente una città cesserebbe di vivere se non si assicurasse un rifornimento di uomini nuovi”.

    Milano. Ho voluto richiamare in apertura queste osservazioni perché credo che solo uno sguardo diacronico permetta di distinguere e storicizzare un fenomeno come l’immigrazione, che altrimenti rischia di rimanere confinato in una lettura fenomenologica, inevitabilmente condizionata dalla cronaca, spesso drammatica, di condizioni di esasperato disagio sociale. In queste note non si parlerà però dell’oggi e dei termini nuovi in cui si pongono i problemi dell’emigrazione. Questione di bruciante attualità. Come storici possiamo sottolineare come l’immigrazione sia un fenomeno nuovo, nei termini in cui si presenta oggi, e insieme antico. Se teniamo presente quanto ci ricorda Braudel, non stupirà rilevare che ancor prima di diventare un centro industriale Milano fosse un “porto di mare” frequentato da genti diverse.
    A metà Ottocento, Milano, ancora racchiusa nel circuito delle mura spagnola, era una città di circa 150.000 abitanti. Di questi quasi il 10% era formato dalla cosiddetta popolazione fluttuante, “gente povera, rozza, importuna, non civilmente educata”. Gente che intratteneva con la città un rapporto stagionale, vivendo spesso nei suoi immediati sobborghi, fino al 1873 Comune separato, dormendo in alloggi di fortuna quando non in semplici fienili. In città, allora come in seguito, era più facile trovare lavoro che una stabile residenza.
    Nei decenni successivi all’Unità non si registrano. sotto questo profilo, novità di rilievo. La città cresce, cambia, si dilata continuando a richiamare gente da fuori. Più numerosa di un tempo, ma spinta sempre dalla ricerca di una prospettiva di vita migliore per sé e i propri figli.

    Nell’intervallo 1881-1911, periodo segnato da una sensibile crescita del tessuto industriale, il numero dei residenti passa da 321.839 a 599.200 abitanti. Superata la Grande guerra la popolazione continua a crescere. Nel 1921 gli abitanti superano i 700.000 per portarsi alle soglie del milione dieci anni più tardi, grazie anche all’aggregazione di undici piccoli comuni della cintura metropolitana. Come in passato, il contributo maggiore all’attivo demografico era dato dall’immigrazione. Ma ora erano nuove le dimensioni – si trattava di migliaia d’individui ogni anno – e le caratteristiche. Era infatti cambiato il destino occupazionale di molti dei nuovi arrivati: accanto ai servizi vari e all’edilizia, naturale approdo per lavoratori della terra senza qualifica, le fabbriche erano diventate un polo di attrazione molto forte. Ora “gens de peine” non significava come in passato servitori, facchini e “giornalieri” dai mille mestieri, ma sempre più spesso operai di fabbrica.
    1910. Una donna con sei bambini appena sbarcati a New York (da “Storia dell’emigrazione italiana”, Donzelli 2001)

    L’industrializzazione del capoluogo, la presenza di grandi fabbriche con migliaia di dipendenti (Pirelli, Breda, De Angeli, Officine Meccaniche ecc.) la crescita di una nuova periferia industriale riproponevano in termini nuovi la questione delle abitazioni operaie e di un mercato immobiliare poco interessato a soddisfarne le necessità. Nei primi anni del Novecento, il problema delle condizioni di vita e di alloggio dei ceti popolari aveva trovato a Milano una classe dirigente attenta e capace di ascolto, come attesta l’impegno del Comune nel settore dell’edilizia popolare, ancora prima che il Parlamento approvasse la legge sulla municipalizzazione dei pubblici servizi. Si trattava naturalmente d’interventi largamente inferiori al bisogno, ma indicativi di una volontà politica d’intervento nel governo della città e delle sue contraddizioni. A quest’orientamento contribuirono un vasto arco di forze, in prima linea quelli riconducibili al grande alveo del socialismo, e l’azione di organismi quali la Camera del Lavoro e la Società Umanitaria, il cui Ufficio del lavoro svolse un’opera preziosa d’indagine sociale, di cui resta notevole esempio il volume sulle Condizioni generali della classe operaia in Milano pubblicato nel 1907. Da essa, così come dalla precedente indagine di Giovanni Montemartini sulla Questione delle case operaie a Milano (1903) erano emerse tanto le dimensioni del fenomeno migratorio, quanto le sue interne sfaccettature. Notevole, ad esempio, il rilievo della componente cosiddetta “borghese”, che mostrava la tendenza a farsi più consistente, non solo in termini proporzionali. Un segno della complessità dei fenomeni migratori, che sarebbe semplicistico immaginare come originati unicamente dall’arretratezza e dalla povertà delle campagne italiane. Accanto a questo, che rimaneva pur sempre l’elemento principale, esisteva un’emigrazione dei talenti e della ricchezza che sceglieva Milano come luogo per realizzare al meglio le proprie aspirazioni di vita e di lavoro. Una tendenza, questa, che confermava la natura dirompente della grande industria che anziché semplificare la composizione sociale della città, polarizzandola, la arricchiva e articolava con l’offerta di nuovi servizi e professioni. Non meno interessante era la constatazione che l’emigrazione era un fenomeno a due facce: alle correnti in entrata si contrapponevano quelle in uscita. Milano attraeva migliaia di persone ogni anno, ma ne respingeva un numero assai cospicuo. Purtroppo Montemartini non ritenne di approfondire i termini di questo processo di selezione e ricambio della popolazione urbana, come non si pose il problema di dove andassero ad abitare quanti a vario titolo decidevano di abbandonare la città.

    Qualche indizio in proposito è offerto però da un articolo di Francesco Coletti sul “Corriere economico” di Roma del 14 giugno 1917. In esso, sulla base delle risultanze censuarie del 1911, lo studioso dava conto dell’”addensarsi rapido ed ingente di tutta una popolazione nuova, mista, grigia nella vasta periferia della città”, evidenziando come in parallelo alla crescita del capoluogo si era registrata, con cadenze ancora più marcate, quella di alcuni borghi limitrofi come Turro, Greco, Lambrate, Crescenzago, oramai appendici esterne della città, così come si avviava a divenirlo la stessa Sesto San Giovanni, dove avevano portato i loro impianti alcune della maggiore imprese milanesi come Breda, Marelli e Falck.
    Studioso antiveggente e aggiornato, Coletti segnalava il formarsi di quella che poi si sarebbe chiamata l’area metropolitana milanese. “Sotto il dilagare possente della marea dei nuovi venuti”, scriveva, i confini comunali, “della grande metropoli come dei comuni minori”, tendono quasi a scomparire, originando un tessuto urbano uniforme simile a quello delle banlieu francesi, dell’outer ring di Londra o dei Vororte delle città tedesche. Si veniva disegnando una città nuova, “incarnazione di cemento della struttura di classe” avrebbe detto Ottieri alcuni decenni più tardi, annotando nei suoi taccuini: “intorno al nocciolo centrale di Milano, con cerchi concentrici, si allargano circonvallazioni sempre più vaste, segnano fasce di redditi e di anime”. Prima di lui Coletti aveva rilevato, con il corredo delle cifre, come passando dal “centro urbano alla zona rurale, il reddito accertato per abitante ai fini dell’imp. di famiglia più che scemare precipita (da L. 872 a 77)”, mentre crescevano il numero di inquilini per locale e “raddoppia il numero dei figli per 100 censiti (da 1,59 a 3,09)”.La tendenza centrifuga di popolazione e industrie si sarebbe rafforzata nel periodo tra le due guerre quando l’intreccio tra politiche antiurbane e gentrificazione e terziarizzazione del centro storico avrebbero determinato un’accelerazione del processo di formazione dell’area metropolitana, accentuando lo sviluppo demografico dei comuni a nord-nordest del capoluogo.

    Nel corso degli anni Cinquanta, superata l’emergenza dell’immediato dopoguerra, i flussi migratori in direzione di Milano e più in generale delle città del triangolo industriale ripresero con forte intensità. Le tradizionali motivazioni di tutte le migrazioni – le condizioni di endemica povertà di molte campagne e la ricerca di un diverso stile di vita – erano amplificate da un’offerta di lavoro da parte dell’industria che sembrava inesauribile. Arrivando a Milano trovare un lavoro non era difficile. Ruggero C. raccontava così, nel suo italiano stentato, il primo incontro con la città: “Quando sono arrivato, il viaggio sbadato, non sapere dove poggiare perché andavo così senza nessun appoggio, senza niente, perché ho venuto qui e arrivai con le valigie in mano. Arrivai a Milano e poi mi recai a Sesto perché sapevo che il centro era Sesto per la siderurgia. A Sesto c’erano quelle fabbriche erano famose, c’era la Breda, la Falck e io cercai di intrufolarmi, poi c’era il Laminatoio Nazionale. Però io riuscii a occuparmi presso la ditta Breda”. Spesso la fabbrica era l’approdo di una trafila di esperienze lavorative grazie al passaparola dei paesani o di famigliari già immigrati, alla mediazione dei caporali, al filtro dell’edilizia. Racconta a Franco Alasia un immigrato giunto in città dal Polesine: “L’è sta il 18 gennaio ‘55, e son arrivà a Milano con vento e neve, e ho cominciato a cercà lavoro con vento e neve. Ho fatto 5 o 6 imprese e tutti mi hanno detto di ripassare tra 15 giorni (…) Comunque, dopo, al terzo giorno lavoro sotto la ditta Ing. R. di Milano; e qua tutto a posto, in regola come che marcia el mondo (…). Dopo le otto ore diceva ‘Volete lavorare a contratto?’ ‘Sicuro’ tanto io ero abituato a lavorare dalla mattina alla sera”.
    Trainata dalla domanda, interna e internazionale, e favorita dal basso costo del lavoro l’economia italiana stava allora vivendo i suoi “trent’anni gloriosi”, mentre il settore agricolo conosceva un drammatico ridimensionamento. Un fenomeno verificatosi anche “in altri paesi di più antica civiltà industriale, però mai con tanto affanno e disordine”, rilevava nel 1963 Giorgio Bocca, registrando l’improvviso smottamento del mondo contadino e l’avvio di processi migratori di grande intensità. “Intanto le continue correnti di migrazione interna scuotono e arano l’Italia”, annota Ottieri.

    Tra il 1951 e il 1971 sono oltre 9 milioni gli italiani coinvolti nei processi di migrazione interregionale. Nello stesso intervallo, si registra una generalizzata riduzione degli occupati in agricoltura. Nel decennio 1951-1961, a fronte di un aumento complessivo della popolazione attiva, al Nord l’agricoltura perde ovunque addetti: 165.000 in Piemonte, 230.000 in Lombardia, 300.000 in Emilia e 320.000 nel Veneto. Era l’esito inevitabile di un processo di marginalizzazione del settore primario avviato da tempo nelle province di più antica tradizione industriale del Nordovest, mentre in Veneto e in Emilia gli addetti all’industria superavano, per la prima volta, quelli occupati in agricoltura.

    Dal 1951 al 1961 arrivano a Milano circa 300.00 immigrati, con cadenze che tendono a farsi più intense avvicinandosi agli anni Sessanta: 32.619 nel 1955, 36.970 nel 1956, 41.416 nel 1957, 55.860 nel 1958, 58.856 nel 1959, 66.930 nel 1960. Nel 1962 gli immigrati (ma il dato andrebbe depurato dalle registazioni di quanti erano già a Milano ma avevano atteso l’abolizione della vecchia legge sulla residenza per regolarizzare la loro posizione) furono oltre centomila. La popolazione del capoluogo in vent’anni anni (1951-1971) aumenta di oltre 450.000 unità, passando da 1.275.726 a 1.733.490 abitanti. Incrementi ancora più marcati avevano fatto registrare molti centri della cintura industriale, tanto che nel suo insieme la provincia era passata da 2.505.153 a 3.903.685 residenti nello stesso intervallo.

    Si è parlato in anni recenti di “megalopoli padana” o di “città infinita” per indicare un processo di crescita e di saturazione del territorio urbanizzato che non sembra conoscere soste e fratture. Un fenomeno che per quanto riguarda Milano si era venuto evidenziando già nei primi anni Sessanta. Sempre Giorgio Bocca a proposito della “nuova periferia industriale” nel 1963 scriveva: “Qui nel Milanese sta nascendo qualcosa di sconosciuto in Italia, la prima regione industriale vera e propria; fabbriche per decine e decine di chilometri; una sola città fino alle Prealpi”. E aggiungeva: “La grande città industriale liquida le ultime differenze del sangue; i discendenti dei longobardi, liguri, galli, romani, sabelli, svevi, normanni, greci, arabi, etruschi, giunti da ogni contada, vi creano, in rapida mescolanza, il milanese nuovo”. Parole da rileggere e ricordare oggi, in tempi di rivendicazione di identità.
    A inizio Novecento, oltre un terzo di quanti erano emigrati a Milano proveniva dalla stessa provincia e una buona parte del rimanente era originario delle altre province lombarde. In seguito il raggio di attrazione della città si era ampliato ad altre regioni. I flussi interregionali dapprima si erano mossi prevalentemente in direzione nordest-nordovest: tra gli anni Trenta e i Cinquanta oltre due terzi degli immigrati a Milano provengono dalle regioni settentrionali. Poi si evidenzieranno in misura sempre più marcata gli spostamenti lungo la direttrice sud-nord, con un’incidenza percentuale sul totale, per l’area milanese, che passa dal 17% del periodo 1952-1957, a un massimo vicino al 30% circa degli anni 1958-1963. Saranno questi flussi, all’inizio degli anni Sessanta, a connotare in termini radicalmente nuovi gli spostamenti della popolazione, sia per le dimensioni assunte dal fenomeno sia per i problemi d’integrazione e inserimento che questo determina sulle strutture urbane e sul mercato del lavoro. Va tenuto comunque presente che contrariamente a una percezione diffusa, e ripresa dai media, gran parte degli immigrati non veniva dal Sud. Evidentemente, come spesso accade, la percezione del fenomeno è più forte della realtà delle cifre.

    Precedentemente all’arrivo, negli anni Ottanta, dei primi flussi di cittadini extracomunitari, ricorda Gianfranco Petrillo, dire immigrati equivaleva a dire meridionali, e questo in virtù della loro “diversità: somatica, etica, culturale”. Una diversità che anche quando non si presentava nelle forme del rifiuto esplicito suscitava comunque una certa diffidenza. “I meridionali non sono malvisti, sono loro che a volte si mettono in condizioni tali da essere malvisti: non sanno trattare con la gente”.
    Nelle parole raccolte da Leone Diena nel corso della sua indagine su Cologno Monzese del 1962, par di risentire quel parroco milanese che cento anni prima parlava degli immigrati come di “gente povera, rozza, importuna, non civilmente educata”. Con l’aggiunta però di un nuovo elemento: “sono nati per lamentarsi sempre senza mai essere riconoscenti per quel che si fa per loro. Vengono qua con le valige vuote, senza soldi […] qui i meridionali hanno trovato la superamerica”.
    Stereotipi e atteggiamenti che si ritrovavano perfino all’interno dei luoghi di lavoro, anche se la fabbrica è stato un formidabile veicolo di integrazione. Tuttavia gli inizi erano difficili per chi vi entrava senza avere alle spalle tradizione e cultura operaia. Ripensando ai suoi primi giorni in Pirelli, Mario Mosca ha voluto “smitizzare un po’ la classe operaia”, ricordando di aver sentito proprio in fabbrica “i discorsi più reazionari, razzisti e qualunquisti”. “Del meridionale, disponibile a fare tutto, a fare più degli altri, si diceva – Va a ca’ tua terun…”.
    Del resto non vi è dubbio che, strappati agli affetti e alle abitudini domestiche, per gli emigrati l’arrivo nelle città dell’industria fosse un’esperienza traumatica, dolorosa, talvolta fonte di umiliazione, comunque segnata da ristrettezze economiche, ansia e fatica. Come sempre, erano la casa e l’assenza di legami comunitari il grande problema dei nuovi arrivati, costretti a vivere spesso in condizioni di grave sovraffollamento all’interno del vecchio tessuto edilizio o, più spesso, in anonimi caseggiati periferici, nelle coree dell’hinterland, in cascinali se non addirittura sul luogo di lavoro. “Per dormire dormivo in cantina nelle case in costruzione – ricorda Vito – L’impresa mi dava il permesso, e per mangiare mi facevo da mangiare con una macchinetta a spirito, così da solo”.
    Secondo molti, in particolare a sinistra, l’immigrazione era figlia da un lato della gracilità del capitalismo italiano, incapace di garantire un equilibrato sviluppo alle regioni del Mezzogiorno, e dall’altro della rapacità di una “borghesia monopolistica industriale” ad aumentare la produttività attraverso “un maggiore sfruttamento del lavoro” e la compressione dei salari. Una interpretazione viziata da un’evidente fraintendimento della natura delle trasformazioni in atto nel paese e della vitalità di un capitalismo caratterizzato da una molteplicità di attori e da un fortissimo legame tra famiglie e imprese, a dispetto del peso dei monopoli e dello stretto intreccio tra finanza e grande industria. Ma che soprattutto non aveva colto fino in fondo la portata liberatoria della fuoriuscita da una condizione rurale che per molti era sinonimo di povertà e per tutti di estraneità da un sogno di modernità che, seppure in maniera confusa e contraddittoria, si stava appalesando. A spingere le persone verso le città non era solo l’evidenza di condizioni di vita meno disagiate. “Questa gente mangiava molto più bene delle nostre abitudini, che noi mangiavamo pane e pomodoro o pane e catalogna. Invece qui il mangiare era tutto differente perché quello che là lo mangiavamo una volta all’anno qua lo mangiavano tutti i giorni”.
    Nelle parole di Ruggero C. si avverte la meraviglia per una realtà che pareva inimmaginabile vivendo al paese. Atteggiamento non dissimile da quello di Gijkola Pellumb, un giovane emigrante giunto in Italia nel marzo 1991, che alla domanda “Che cosa ti piace di Milano?”, rispondeva senza esitazione “Macchine, case alte, negozi, puoi trovare tutte cose e fare bela vita come voi”. Dove per “bela vita” bisognava intendere anche una vita più libera, meno soggetta all’autorità della famiglia e al controllo della comunità. In fondo cos’altro era quella “disperata smania di assimilazione” alla quale facevano riferimento due giovani sociologi dell’Università Cattolica, Francesco Alberoni e Guido Baglioni, vedendovi la spiegazione della rapida integrazione dei nuovi arrivati? Ora senza voler entrare in una questione scivolosa come quella dell’integrazione, mi sembra che gli studi più recenti e avvertiti sul fenomeno migratorio – penso ai lavori di Gianfranco Petrillo e di John Foot – abbiano confermato, rimodulando un antico detto tedesco, che “l’aria di città rende liberi”, liberi quantomeno di cercare di inventarsi un futuro diverso da quello delle generazioni precedenti. Essere miserabili in campagna significava condannare sé e i propri figli a rimanere tali. Rompere con quel mondo, se nell’immediato aggiungeva alla fatica di vivere il dolore dalla lacerazione dagli affetti e dai luoghi, offriva però una prospettiva di cambiamento. Il miraggio – che per molti si sarebbe fatto concreto – di raggiungere un giorno un modesto benessere. Perciò nessun ripensamento: “Se tornassi giù, io morirei ormai ho visto come è diverso Milano”.
    Non si trattava solo di lasciarsi alle spalle il ricordo della fame – un tema che ritorna spesso nelle storie di vita degli immigrati. Vivere in città, grazie al contatto con quell’“ordine inferiore d’instituzioni” che innervava la società industriale: parrocchie, cooperative, sindacati, partiti, significava acquisire una diversa consapevolezza dei propri diritti. È anche grazie all’azione di queste agenzie se gli immigrati hanno potuto inserirsi nel nuovo ambiente in un numero relativamente breve di anni.

    Vi è infine da osservare come parlando di immigrazione l’accento in genere finisca per cadere sulla durezza delle condizioni di vita dei nuovi arrivati in città, trascurando un aspetto che penso vada tenuto invece presente se si vuole avere una immagine complessiva del fenomeno.
    Di fronte a un processo giunto a scaricare a Milano negli anni di massima espansione del fenomeno anche 100.000 persone in un anno era inevitabile che si registrasse una tensione intollerabile sul fronte della casa e più in generale della domanda di servizi per una popolazione priva di adeguati mezzi di sostentamento. Appare dunque evidente che la lettura del fenomeno dell’immigrazione è fortemente influenzata dalla scala temporale che si assume. I bisogni delle persone vivono nell’urgenza del presente, ma le risposte non possono che avere un respiro diverso. Una discrasia che può essere drammatica per chi la sperimenta sulla propria pelle, ma difficilmente evitabile. L’aver privilegiato il primo aspetto, per la sua valenza politica e per il suo più forte impatto emotivo, ha fatto sì che siano diventate memoria comune le immagini del dolore e della protesta, mentre poco o nulla viene ricordato a proposito delle politiche urbane e sociali allora adottate, che pur con limiti e lacune furono in grado di avviare a soluzione, in un arco di anni relativamente breve, un problema altrimenti destinato a esplodere con ben più drammatica virulenza. Per questo auspico una maggiore consapevolezza dell’importante ruolo giocato nella storia della città dalle politiche di welfare che il Comune, rifacendosi a una tradizione che come detto risaliva almeno ai primi del Novecento ha messo in campo tanto sul piano dell’edilizia popolare, agendo attraverso lo Iacp, quanto su quello della scuola, della sanità e dei servizi sociali. Penso sarebbe un doveroso riconoscimento alle competenze tecniche ed amministrative capaci, per un tempo breve, di cooperare con politiche inclusive all’obiettivo di rendere sostanziali i diritti sanciti dalla Costituzione. Una lezione da non lasciar cadere.

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