Reportage dai luoghi dove il governo italiano aveva assicurato l’apertura di hotspot e Cpr prima a fine maggio e poi a inizio agosto. I lavori, pur su turni sfiancanti, devono ancora terminare. I residenti intanto si interrogano sull’impatto su una comunità di 200 anime, che a volte è senz’acqua ed elettricità. Tra speranze di lavoro e disagio per il destino di migliaia di persone.
Nella città costiera di Shëngjin, in Albania, la stagione estiva è nel pieno. I resort e gli hotel adagiati lungo la costa stanno infatti vivendo il picco. Il Rafaelo Resort, una delle strutture ricettive più grandi e lussuose della città, è zeppo di persone che frequentano bar, ristoranti, centri benessere.
Il personale di sicurezza, ben visibile all’ingresso, è lì per garantire la sicurezza di tutti gli ospiti, compresi i rifugiati afghani che entrano ed escono dai cancelli del resort. Sono migliaia le persone che, in fuga dal regime dei Talebani, dall’agosto 2021, sono state ospitate temporaneamente nella struttura in attesa del rilascio dei visti per gli Stati Uniti.
Questo spirito di ospitalità nell’accogliere i rifugiati afghani non sarà riservato, invece, per quelli che verranno portati dalle autorità italiane nel centro di prima accoglienza per migranti, compresi minori, donne e persone vulnerabili, all’interno del porto di Shëngjin, che funzionerà da hotspot. Lì i migranti saranno sottoposti alle procedure di screening prima di essere caricati su furgoni e rinchiusi nei centri di detenzione di Gjadër, a venti chilometri da Shëngjin.
Da quando la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni ha inaugurato l’hotspot il 5 giugno 2024, ai giornalisti e ai non addetti ai lavori è severamente vietato entrare nel porto per visitarlo. Un muro di sette metri cinge le strutture prefabbricate della struttura per nasconderlo agli occhi di turisti e residenti mentre le telecamere installate ai bordi controllano quello che succede lungo il perimetro esterno. L’hotspot all’interno del porto è circondato da edifici residenziali e da un grande luna park sul lato sinistro.
Nelle scorse settimane, dopo gli annunci del governo italiano dell’imminente apertura, i titoli dei giornali si sono rincorsi con la notizia dell’apertura dell’hotspot il primo agosto, nonostante la costruzione dei centri di detenzione a Gjadër sia ancora lontana dall’essere terminata.
“Pensate davvero che gli italiani porteranno i migranti ora in mezzo a tutti i turisti? Nessuno arriverà qui fino alla fine della stagione estiva”, dice Altin, nome di fantasia di un anziano seduto in un bar accanto al porto. Ha ricevuto questa informazione da un amico ingegnere che lavorava a Gjadër.
“Ho sentito che stanno lavorando 24 ore su 24 per finire tutto in due o tre settimane. Le cabine sono situate nel porto di Shëngjin e hanno una capacità di 260 persone, ma chissà, forse questo accordo avrà lo stesso destino del piano Ruanda (del governo inglese, ndr)”, aggiunge.
A fine maggio il ministero dell’Interno italiano ha pubblicato una gara d’appalto da 13,5 milioni di euro per il noleggio di un’unità navale in grado di coprire la distanza “da 15/20 miglia nautiche a Sud/Sud-Ovest dall’isola di Lampedusa, al porto di Shëngjin in Albania”, a partire da metà settembre 2024.
“Un mio amico lavora vicino al porto -spiega un altro residente- e mi ha raccontato di una nave italiana ancorata lì, che sta misurando la distanza per trovare la rotta più adatta per le navi per far sbarcare i migranti”. Poi indica il Rafaelo Lake Resort, un hotel inaugurato a fine luglio, che dovrebbe ospitare il personale italiano e si trova un chilometro più a Sud del porto, insieme ad altri hotel vicino al lago Këndall.
L’uomo ci accompagna in un vecchio negozio vicino al porto per presentarci un’anziana signora che ha dei conoscenti che lavorano proprio a Gjadër. “Lo sposo sta lavorando lì, sta installando telecamere e internet, ma che cos’altro sappiamo? Chi ci dice niente?”, sospira facendo eco alla frustrazione di molti nella comunità.
Più tardi incontriamo Dorian Pali, avvocato e residente a Lezhë. Fa parte di un gruppo di attivisti che protesta contro l’accordo fin dal suo annuncio e ha espresso profonda preoccupazione per la privazione della libertà di tutti i migranti interessati dall’accordo. “Mi oppongo a questo accordo perché tutte le infrastrutture militari dovrebbero rimanere all’esercito e la base non può essere ceduta in questo modo per costruire centri di detenzione”, spiega.
La base aerea di Gjadër, considerata uno dei siti militari più segreti al mondo, è stata infatti costruita su una collina brulla a venti chilometri da Shëngjin, nel Nord dell’Albania, durante l’era comunista. All’inizio degli anni Novanta la Cia la usava per svolgere missioni di spionaggio nelle ex Repubbliche federali di Jugoslavia. L’ultimo jet è decollato da Gjadër nel 2004 e la base, con la sua ricca storia, è rimasta in gran parte inutilizzata dall’esercito albanese.
Per raggiungere Gjadër da Shëngjin è necessario noleggiare un’auto perché non ci sono mezzi pubblici. Prenotare un taxi costa circa venti euro per mezz’ora di viaggio. Quando ci avviciniamo alla strada dove si trova la base militare, all’orizzonte appaiono le strutture prefabbricate accatastate. Nonostante le temperature roventi, gli operai locali lavorano instancabilmente per terminare la costruzione. “Ci lavorano circa venti uomini di Gjadër”, dice un ragazzo che serve al bar del villaggio.
Una guardia di sicurezza di stanza al cantiere di Gjadër, che ha chiesto di rimanere anonima, racconta di come i lavori siano andati a rilento a causa dei disaccordi dell’esercito albanese con il protocollo. “La costruzione non è iniziata ed è rimasta ferma per un mese perché l’esercito non ha dato il permesso, poi concesso dopo molte difficoltà”.
In quest’area si stanno costruendo tre diverse strutture per i migranti in cui, secondo le promesse fatte dalla cooperativa sociale Medihospes, l’ente italiano che si è aggiudicato l’appalto da oltre 133 milioni di euro per gestire i centri, si svolgeranno numerose attività, laboratori, e sarà addirittura possibile guardare Sky e Dazn. La prima struttura, con 880 posti, dovrebbe ospitare i richiedenti asilo sottoposti alla procedura di frontiera, la cui detenzione dovrebbe durare al massimo 28 giorni. La seconda, con 144 posti, dovrebbe avere invece la funzione di Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr). La terza, con 20 posti, sarà di fatto un carcere e verrà utilizzato per l’applicazione di misure di custodia cautelare nei confronti di cittadini stranieri arrestati o detenuti.
L’esodo delle giovani generazioni in cerca di migliori opportunità ha trasformato Gjadër, che ora sconta l’inquietante silenzio di una città fantasma. Le strade e i parchi sono vuoti, con solo qualche uomo che passeggia o si siede al bar dell’ingresso.
“A volte esco per strada e questo silenzio mi fa venire i brividi. Una volta non era così, ma i giovani sono senza speranza e se ne vanno”, dice una signora che pulisce il tavolo in uno dei pochi bar della piccola cittadina. “Qui vivono solo 200 famiglie e la maggior parte degli abitanti rimasti sono anziani”, aggiunge Don Alberto Galimberti, parroco italiano che fa parte della missione cattolica di Blinisht e Gjadër.
Per coloro che sono rimasti nella comunità l’attenzione si è spostata sui centri per i migranti, visti come un’opportunità di lavoro. Alcuni aspettano aggiornamenti da settimane. “Delle donne della sartoria mi hanno detto che quando i centri apriranno, gli italiani cercheranno operatori sanitari. Il compenso offerto è di circa 1.200 euro”, spiega la commessa del mercato vicino all’ingresso della città. Racconta che, saputo dell’apertura dei centri, si è precipitata dall’amministratore del villaggio per dare il suo nome insieme al marito per lavorare lì, ma non hanno ricevuto risposta e nessuno li ha informati sulle procedure di assunzione.
Nelle scorse settimane sul sito di Medihospes, la “regina dell’accoglienza” in Italia con quasi 160 milioni di euro di fatturato nel 2023, sono apparse ben 379 posizioni lavorative aperte per i centri albanesi, tra cui mediatori, tecnici di laboratorio, medici, psicologi e assistenti sociali. Un esercito di persone ricercate anche tra i “locali”: gli annunci, infatti, sono scritti anche in albanese. Fa riflettere il fatto che la durata del contratto proposto sia di soli tre mesi.
Gimi, un residente locale seduto al bar, condivide il suo punto di vista sull’accordo. “Non ho paura dei migranti che verranno a Gjadër. Perché? Perché avere paura? Noi stessi abbiamo cercato rifugio e siamo stati picchiati e tenuti in prigione”. I pochi abitanti del bar hanno espresso le loro preoccupazioni per la mancanza di elettricità e di acqua nel villaggio, che deve far fronte a carenze quotidiane. Tuttavia c’è un barlume di speranza: alcuni credono che gli operai che installano le linee idriche e fognarie nei centri italiani potrebbero giovare anche al villaggio e risolvere la carenza di elettricità e acqua. “Spero che il centro non apra le porte -aggiunge Gimi poco prima di andarsene dal bar-. Sono prigioni e spero che nessuno venga trattenuto lì”.