• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • Mario Tronti : I am defeated | communists in situ
    https://cominsitu.wordpress.com/2015/03/08/mario-tronti-i-am-defeated

    Nostalgia for revolutions?
    No, if anything the twentieth century was the century of revolutions. But not only that. Where are the grand ideas, the great literature, the grand politics or the great art? I don’t seen anything like what the first half of the twentieth century produced.

    When did the explosion of creativity end ?
    In the 60s.

    Your golden years ?
    That’s the irony of history. There was a great twentieth century, and a small twentieth century built out of an awareness that it is no longer able to reflect on itself.

    Is this a farewell to the idea of progress ?
    These days Progressivism is the thing furthest from myself. I reject the idea that whatever is new is always better and more advanced than what was there before.

    It was one of the inviolable creeds of Marxism .
    It was the false security of thinking that the defeat was only an episode. Because meanwhile, we thought, history was on our side.

    And now ?
    We saw how it went, didn’t we ?

    Do you feel like you’ve been defeated, or you’ve failed ?
    I am defeated, not a victor. The victories are never final. But we have lost – not a battle – but the war of the twentieth century.

    And who has triumphed ?
    Capitalism. But without class struggle, without an adversary, it has lost its vitality. It has become something of a monstrosity.

    Do you recognise in yourself a certain amount of intellectual pride ?
    I recognise it, but it’s not such a bad thing. Pride offers clarity, distance, it gives you the force to intervene in things. Better anyway than the renunciation of thought. In all this chaos I would like to protect the ‘point of view’.

    The ‘point of view’ ?
    Yes, I cannot position myself on the level of general interest. I was and remain a partisan thinker.

    When did you discover your party ?
    I was very young. Some people attribute to my Operaismo in the 60s. I think it was during my time as a student that my path was fixed.

    In a book about you by Franco Milanesi – unsurprisingly titled In the Twentieth Century – he describes your thought. When was it born ?
    Even before Operaismo I was a communist. A Stalinist father, a large family, the wealthier suburbs of the city. These are my roots.

    In what area of Rome were you born ?
    Ostiense, which was a bit of Testaccio. I remember the market. The cassisti who worked there. They weren’t working class, but common [popolo]. I was part of that story. Then came intellectual reflection.

    What were the points of references? What opened your eyes ?
    I say it often: we are a generation without masters [maestri].

    #Mario_Tronti #marxisme #opéraïsme

    • You’re alluding to the 70s?

      They started the small twentieth century. This is where the drift started.

      It was a great misinterpretation?

      Let’s face it: it was a generational thing, anti-patriarchal and libertarian. I’ve never been a libertarian.

      Ça fait partie des grands malentendus. Un peu comme Lou Reed qui conchie les punks anglais.

    • je savais pas pour Lou Reed (que j’aime beaucoup, dont j’ignorais qu’il avait cette position et dont je ne sais rien des arguments)

      pour Tronti, c’est là because il est mort
      https://seenthis.net/messages/1012583

      Et lui, c’est tout autre chose !
      Tronti a longtemps exalté une figure ouvrière distincte du prolétariat et de ses révoltes, une figure productive centrale qui depuis ce rôle productif était mise en avant comme plus apte à en finir avec la production et non plus à se la réapproprier (≠ socialisme). Comme chez SouB, la critique du socialisme réel est passée par l’opéraïsme.
      C’était avant de devenir le « révolutionnaire conservateur », mémoriel, ce mélancolique du « grand siècle » (≠Hosbawm, non pas depuis sa durée sur laquelle il aurait pu être d’accord mais sur sa radicalité quant aux enjeux communistes), de la « grande politique ». Lui philosophait à coup de marteau, loin de la mélasse des nietzschéens actuels.

      c’était vrai là, et diablement puissant ( c’est un pdf, zapper la préface des 2 marxologues, et lâcher les a priori sur le Moulier d’hier, ou pire, d’aujourd’hui), dans Ouvriers et capital
      https://entremonde.net/IMG/pdf/entremonde-ouvriers_et_capital-tronti-livre-2-2.pdf

      ce livre, dont La ligne de conduite et L’usine et la société [ou Lutte contre le travail https://www.cip-idf.org/spip.php?article8094 ], pour ma part, oui, ça a été décisif, sans que la suite y soit subordonnée, du moins en fut-elle informée.

      et, bien plus tard, là
      http://www.lyber-eclat.net/auteurs/mario-tronti

      florilège de citations au hasard du net
      https://www.babelio.com/auteur/Mario-Tronti/442068/citations

      il est par ailleurs revenu régulièrement sur sa manière de parler (mal) de l’après cadlo autunno, en particulier à propos du mouvement des femmes. pas de l’autonomie ou des autonomes en revanche, ne rechignant pourtant pas ces dernières années à intervenir devant ce qui aujourd’hui en tient lieu à France ( fortement teinté d’appellisme).

      bref, à propos de Tronti, la question, malgré le « retour » au PCI de la fin des 60’s, elle est pas vite répondue.

    • Marx avait prévu une prolétarisation croissante. Nous avons connu une bourgeoisification croissante. Ce ne fut pas une erreur scientifique, ce fut une erreur politique. Marx cherchait une force, non pas pour contester le capitalisme, encore moins pour l’améliorer, mais pour l’abattre. Il la voyait dans la multitude prolétaire, dont l’industrialisation aurait fait grossir les rangs, la transformant, après avoir neutralisé l’armée de réserve, en une classe organisée, hégémonique/dominante. La Révolution industrielle – l’industrialisation accélérée – crée l’illusion d’optique de conditions toujours plus proches de la révolution politique. Dans les années soixante du vingtième siècle, notre opéraïsme a commis la même erreur politique. Mais ce sont des erreurs bénéfiques, parce qu’elles mobilisent l’intelligence des événements pour comprendre politiquement les processus structurels. Ensuite, l’analyse scientifique peut repartir, non pas comme froide analyse de cas, mais comme découverte des nouvelles conditions du conflit.

      Il nous a été donné de vivre le passage de l’ouvrier-masse au bourgeois-masse. J’insiste sur ce point, au risque de répéter ce que j’ai déjà dit. Nous sommes face à une composition sociale formée de petits, moyens et grands bourgeois, avec une tendance, venant du haut et du bas, vers le milieu, avec des zones de marginalisation et d’exclusion, minoritaires en Occident, majoritaires dans le reste du monde. Mais avec une forte propension, de masse, à s’inclure plutôt qu’à se disloquer contre le dehors. Voilà ce que nous dit l’approche réaliste, non idéologique. Le processus trouve encore ici devant lui le chemin tout tracé de l’absence d’opposition politique, qui dénonce l’état de choses, décrit la situation réelle, identifie l’ennemi à combattre et élabore les moyens, les formes pour le vaincre. Exactement ce que faisait Marx. En l’absence de cela, la condition domine la personne.

      Voyons alors ce qui s’est passé. Ce qui s’est passé, c’est que le bourgeois a dévoré le citoyen, le privé a dévoré le public, l’économie a dévoré la politique, la finance a dévoré l’économie, et donc l’argent a dévoré l’État, la monnaie a dévoré l’Europe, la mondialisation dévore le monde. Je propose la formule suivante, et j’invite quiconque à la démentir : les démocraties occidentales sont aujourd’hui les plus parfaites dictatures de l’argent. Tel est le point, délicat et stratégique, où la bataille des idées devient – peut devenir – une lutte politique.
      L’esprit libre, Mario Tronti

      [aux couleurs d’une imaginaire gauche du parti démocrate, ex PCI]

      edit

      Le tout dernier Tronti n’a pas toujours échappé au risque de ces conjurations consolatrices, notamment dans un ouvrage comme De l’esprit libre[3], où le recours à des figures mythologiques et à des expressions chiffrées devient parfois vertigineux. Mais il a su éviter de réduire son discours au pur ésotérisme grâce à son sens aigu des réalités politiques et sociales, qui a chez lui des racines à la fois marxistes et chrétiennes. L’esprit libre trontien ne saurait faire l’économie de toute incarnation.
      https://www.contretemps.eu/mario-tronti-operaisme-italie-marxisme-trajectoire-politique

    • La politique au crépuscule, Mario Tronti (pdf en ligne)
      http://www.lyber-eclat.net/lyber/tronti/politique_au_crepuscule.html

      On ne veut pas clarifier, « illuminer », on veut comprendre, « saisir ». Ce temps est un temps politique sans connaissance de soi : une stèle posée sur la tombe du passé, et comme futur, celui, seulement, que le présent t’accorde. Impossible pour nous.

      Si, depuis la fin du vingtième siècle, tu regardes le temps de la politique que tu as traversé, il t’apparaît comme une faillite historique. Les prétentions n’étaient pas trop élevées, mais c’étaient les instruments qui étaient inadéquats, comme étaient pauvres les idées, les sujets faibles, médiocres les protagonistes. Et à un certain moment l’histoire n’était plus là : ne restait plus qu’une chronique. Pas d’époque : des jours, et puis encore des jours. Le misérabilisme de l’adversaire a refermé le cercle. Il n’y a pas de grande politique sans grandeur de ton adversaire.

      Aujourd’hui le critère du politique fait peur. Mais l’ami/ennemi ne doit pas être supprimé, il doit être civilisé. Civilisation/culture dans le conflit. Lutte politique sans la guerre : noblesse de l’esprit humain. Il y a donc un message. Dans la bouteille de cette allusive symphonie de psaumes.

      7 octobre 1998.

    • La politique et le destin
      https://legrandcontinent.eu/fr/2022/04/11/la-politique-et-le-destin
      #politique

      Nous publions les bonnes feuilles de l’essai séminal de Mario Tronti « Politique et destin » traduit en français dans l’ouvrage consacré à ce fondateur de l’opéraïsme aux éditions Amsterdam : Le démon de la politique.

      Politique et destin deviennent ici la même chose que liberté et destin. D’où une déclinaison de la politique comme liberté à l’égard de l’histoire, politique qui est certes conditionnée, déterminée, soumise à la nécessité par l’histoire, mais qui ne se remet pas, ne se rend pas, ni à cette déterminité4 ni à ces conditionnements. La politique ne reflète rien, mais produit, elle ne décrit rien, mais crée, et elle produit et crée depuis la cage d’acier de l’histoire, de ce qui est et de ce qui a été. C’est cela, la grandeur, dirais-je, la beauté de la politique, quand elle s’élève, quand elle est contrainte de s’élever, jusqu’à la grande histoire.

      edit

      il faudra arracher Tronti non seulement à la frivolité des salons mondains et des colloques universitaires, mais aussi à la fausse profondeur des chapelles gnostiques cultivant en serre les mythes de la révolte ou de la contemplation, de l’« autonomie » ou de la « destitution », en évitant ainsi le supplément d’âme « radical » que peut toujours fournir le recours à des symboles évocateurs et à des terminologies allusives. [...]

      Un bon exemple de cet usage du dernier Tronti est l’article de Gerardo Muñoz « Un aventurier révolutionnaire dans l’interrègne. Mario Tronti (1931-2023) » de paru sur le site Le Grand Continent le 8 août 2023, qui mobilise presque toutes les catégories de la #droite « gnostique » : l’élite, la communauté, l’aventurier, le salut intérieur par le retrait contemplatif. Ce vocabulaire allusif, qui rappelle le kitsch ineffable dont Ernst Jünger est le maître absolu, a circulé en Italie dans les années 1980, lorsque des anciens proches de Tronti, tels que Massimo Cacciari, ont entrepris une légitimation de la « haute » culture de droite afin de l’incorporer à l’aggiornamento de la vision du monde du PCI.
      https://www.contretemps.eu/mario-tronti-operaisme-italie-marxisme-trajectoire-politique

    • introduction

      la ligne de conduite

      Prévenons le lecteur : avec ce livre nous n’en sommes qu’à un « prologue dans les nuages ». Il ne s’agit pas de présenter une recherche achevée. Laissons les systèmes aux grands improvisateurs et les analyses fignolées et aveugles aux pédants.
      Ne nous intéresse nous que ce qui possède en soi la force de grandir et de se développer, et par conséquent d’affirmer qu’aujourd’hui cette force est presque exclusivement l’apanage de la pensée ouvrière. Presque exclusivement, car la décadence actuelle du point de vue des capitalistes sur leur propre société ne signifie pas encore la mort de la pensée bourgeoise. Des lueurs de sagesse pratique nous arrivent, nous arriveront encore de ce long coucher de soleil auquel est condamnée la science des patrons. Plus le point de vue ouvrier progressera, et pour son propre compte, plus cette condamnation historique sera rapidement réalisée. L’une de nos tâches politiques aujourd’hui c’est donc de partir des traces ouvertes par les expériences et les découvertes de la recherche pour frayer une nouvelle direction et une nouvelle forme de chemin. Et de donner à ce chemin l’allure d’un processus. Ce n’est pas le concept de science, mais celui du développement de la science que l’adversaire capitaliste doit bientôt ne plus être capable de maîtriser. Du seul fait qu’elle déclenche son propre mécanisme de croissance, la pensée de l’un des partenaires, c’est-à-dire d’une seule classe, ne laisse plus de place au développement d’un autre point de vue scientifique, quel qu’il soit ; elle le condamne à se répéter lui-même et ne lui laisse pour seule perspective que de contempler les dogmes de sa propre tradition.

      C’est ce qui s’est produit historiquement quand, après Marx, les théories du capital ont repris le dessus : les marges offertes au développement de la pensée ouvrière se sont réduites au minimum et ont presque disparu. Il a fallu l’initiative léniniste de rupture pratique en un point, pour remettre aux mains des révolutionnaires la maîtrise théorique du monde contemporain. Cela n’a duré qu’un moment. Tout le monde sait que, par la suite, seul le capital a été à même de recueillir la portée scientifique de la révolution d’Octobre. D’où la longue léthargie dans laquelle est tombée notre pensée. Le rapport entre les deux classes est tel que le vainqueur est celui qui a l’initiative. Sur le terrain de la science comme sur celui de la pratique, la force des deux parties est inversement proportionnelle : si l’une croît et se développe, l’autre stagne et donc recule. La renaissance théorique du point de vue ouvrier, ce sont les nécessités mêmes de la lutte qui l’imposent aujourd’hui. Recommencer à marcher, cela veut dire immobiliser l’adversaire pour mieux le frapper. Désormais la classe ouvrière est arrivée à un tel degré de maturité que, sur le terrain de l’affrontement matériel, elle n’accepte pas l’aventure politique ; cela par principe et dans les faits. En revanche sur le terrain de la lutte théorique, toutes les conditions semblent opportunément réunies pour lui insuffler un esprit nouveau, aventureux et avide de décou- vertes. Face à la vieillesse de la pensée bourgeoise émoussée, le point de vue ouvrier peut, sans doute, vivre maintenant l’époque féconde de sa robuste jeunesse. Pour cela, il lui faut rompre violemment avec son propre passé immédiat, refuser le rôle traditionnel qui lui est attribué officiellement, surprendre l’ennemi de classe par l’initiative d’un développement théorique improvisé, imprévu et non contrôlé. Cela vaut la peine de contribuer personnellement à ce nouveau genre et à cette forme moderne de travail politique.

      Si l’on nous demande à juste titre : par quel biais ? avec quels moyens ? nous refuserons cependant un discours méthodologique. Essayons de ne donner à personne l’occasion d’éviter les durs contenus pratiques de la recherche ouvrière, pour se tourner vers les belles formes de la méthodologie des sciences sociales. Le rapport à établir avec ces dernières n’est pas différent de celui qu’on peut entretenir avec le monde unitaire du savoir humain accumulé jusqu’ici, et qui se résume pour nous à la somme des connaissances techniquement nécessaires pour posséder le fonctionnement objectif de la société actuelle. Nous le faisons déjà, chacun pour notre compte ; mais c’est tous ensemble que nous devons parvenir à utiliser ce qu’on appelle la culture, comme on se sert d’un clou et d’un marteau pour fixer un tableau au mur. Certes les grandes choses se font par sauts brusques. Et les découvertes qui comptent coupent toujours le fil de la continuité. Et on les reconnaît à ce trait : idées d’hommes simples, elles semblent folies pour les savants. En ce sens, la place de Marx n’a pas été pleinement évaluée, même dans le domaine où cela était le plus facile, c’est-à-dire sur le simple terrain de la pensée théorique. Aujourd’hui, on entend parler de révolution copernicienne à propos de gens qui se sont contentés de déplacer leur table de travail d’un angle à l’autre d’une même pièce. Mais de Marx, qui a bouleversé un savoir social qui durait depuis des millénaires, on s’est borné à dire : il a renversé la dialectique hégélienne. Pourtant, à son époque, ce ne sont pas les exemples qui manquaient d’un retournement analogue, purement critique, du point de vue d’une science millénaire. Est-il possible que tout doive se réduire à l’addition banale du niveau d’un cours élémentaire, entre le matérialisme de Feuerbach et l’histoire de Hegel ? Et la découverte de la géométrie non euclidienne, par Gauss, Lobatchevsky, Bolyai et Riemann, qui fait de l’unicité de l’axiome rien moins qu’une pluralité d’hypothèses ? Et celle du concept de champ dans l’électromagnétique, qui, à partir de Faraday, Maxwell et Hertz, envoie promener toute la physique mécaniste ? Tout cela ne semble-t-il pas plus proche du sens, de l’esprit et de la portée de la découverte de Marx ? Le nouveau cadre de l’espace et du temps introduit par la relativité ne naît-il pas de cette théorie révolutionnaire, de la même façon que l’Octobre léniniste fraye sa route à partir des pages du Capital ? D’ailleurs vous le savez bien. Tout intellectuel qui a lu plus d’une dizaine de livres, outre ceux qu’on lui a fait acheter à l’école, est prêt à considérer Lénine comme un chien crevé dans le domaine de la science. Pourtant quiconque veut prêter attention à la société et comprendre ses lois ne peut pas plus le faire sans Lénine, que qui- conque veut étudier la nature et comprendre ses processus, ne peut le faire sans Einstein. En cela, il n’y a rien d’étonnant. Il ne s’agit pas de l’unicité de l’esprit humain qui progresserait de la même façon dans tous les domaines, mais d’une affaire plus sérieuse. Il s’agit du pouvoir unifiant qui donne aux structures du capital la maîtrise du monde entier, et qui peut être, à son tour, maîtrisé par le seul travail ouvrier. Marx attribuait à Benjamin Franklin, cet homme du nouveau monde, la première analyse consciente de la valeur d’échange comme temps de travail, et donc la première réduction délibérée de la valeur au travail. Et c’est ce même homme qui avait conçu les phénomènes électriques comme provoqués par une seule substance très subtile qui animerait l’univers entier. Avant que son camp ne se soit transformé en classe sous la pression ouvrière, le cerveau bourgeois a plus d’une fois trouvé en lui-même la force d’unifier sous un seul concept la multiplicité des données de l’expérience. Ensuite, les besoins immédiats de la lutte se sont mis précisément à commander la production même des idées. L’époque de l’analyse, l’âge de la division sociale du travail intellectuel avaient commencé. Et personne ne sait plus rien sur la totalité. Demandons-nous si une nouvelle synthèse est possible, et si elle est nécessaire.
      La science bourgeoise porte en son sein l’idéologie, comme le rapport de production capitaliste porte en lui la lutte de classe. Du point de vue de l’intérêt du capital c’est l’idéologie qui a fondé la science : c’est pour cette raison qu’il l’a fondée comme science sociale générale. Ce qui n’était d’abord que discours sur l’homme, sur le monde humain, c’est-à-dire sur la société et l’État, avec la croissance des niveaux de lutte, est devenu de plus en plus mécanisme de fonctionnement objectif de la machine économique. La science sociale d’aujourd’hui est semblable à l’appareil productif de la société moderne : tous y sont impliqués et en font usage, mais seuls les patrons en tirent profit.

      Ouvriers et capital, recueil de textes paru en 1966.

      Reppublica, RIP, etc
      https://seenthis.net/messages/1012583

    • Superbe compilation !

      L‘association entre Lou Reed et Tronti s’est imposée à moi quand j’ai lu son commentaire désabusé sur le mouvement autonome des années 70 (dont j’ai été contemporain).

      Dans les deux cas, on affaire à de fortes personnalités qui ont chacune inspiré une forme de continuité ou de filiation dans lesquelles elles ne se reconnaissaient pas en totalité, voir pas du tout, pour des raisons différentes, bien entendu.

      Là s’arrête la comparaison, totalement anecdotique.

    • La trajectoire théorique et politique de Mario Tronti, Davide Gallo Lassere (2018)
      http://revueperiode.net/la-trajectoire-theorique-et-politique-de-mario-tronti

      Pour Mario Tronti en guerre avec le monde, Gigi Roggero (2023)
      https://tousdehors.net/Pour-Mario-Tronti-en-guerre-avec-le-monde

      Et, quelqu’un disait, les chemins politiques ne se déroulent jamais dans la régularité de la perspective Nevski. Il y a des courbes mystérieuses et des lignes droites à suivre. Nous le savons. Nous pouvons discuter de ses virages et différents cheminements, notamment dans certains passages tragiques et cruciaux. Dans une certaine mesure, nous devons en discuter, bien sûr. Ajoutons que ce n’est pas que cela n’ait pas été fait. Ce qui, pour nous, ne peut être discuté, c’est la fermeté de son point de vue, de sa volonté de marcher sur cette foutue ligne droite. Ceux qui regardent de l’extérieur, c’est-à-dire du tribunal de l’idéologie (qui est toujours un tribunal bourgeois), verront beaucoup de contradictions, des contradictions retentissantes, cinglantes. Ceux qui replacent ces contradictions dans son histoire seront en mesure de les comprendre non pas pour justifier, mais aussi pour évaluer les égarements politiques. Là-dessus, Mario ne s’est jamais caché ni dérobé. Il a revendiqué chaque pas et chaque erreur, il ne s’est repenti de rien.

      Mario Tronti, itinéraire d’un intellectuel organique, Julien Allavena (2023)
      https://laviedesidees.fr/Mario-Tronti-itineraire-d-un-intellectuel-organique

      Au début des années 1970, cette réflexion, enrichie par un travail plus classique sur l’histoire de la philosophie, aboutit à un nouveau paradigme qui ne cesse de modeler les propositions trontiennes futures : celui de l’« autonomie du politique ». Au fond, comme le relève Jamila Mascat, ce paradigme constitue une forme de retour aux sources, à ceci près que Tronti se place cette fois du côté opposé à celui qu’il occupait quand il formulait pour la première fois le principe fondateur de l’opéraïsme : le parti est assurément autonome vis-à-vis de la classe, mais cela équivaut à une chance quand la classe n’est pas parvenue à prendre le pouvoir – car peut-être alors le parti le peut-il encore.

      Ce qui a tout d’un pacte faustien dans le domaine de la théorie va de pair avec une incarnation pratique. En parallèle de ces développements théoriques, le communiste en exil a en effet été admis à retourner en sa terre natale : Tronti peut reprendre la carte du PCI en 1972. Il y évolue dès lors entre l’aile gauche historique de Pietro Ingrao et la majorité menée par Berlinguer, pouvant accéder au comité central du parti à partir de 1983 et au secrétariat de la fédération romaine en 1985. Autrement dit, trente ans après ses débuts en politique, Tronti est enfin devenu ce qu’il était (...).

      Après la chute des formations épigones du #PCI, contraintes (Tronti avec) de s’associer au centre pour gouverner (et à terme de voter le « Jobs Act » de Matteo Renzi), c’est cette « ligne de conduite » quelque peu brisée qui pousse enfin le Tronti le plus tardif dans les bras des horizons théologico-politiques, de saint Paul à Ratzinger en passant par les Pères du désert, à la recherche de derniers éclairages sur ce qu’il analysait alors comme sa propre défaite autant que celle de tout un camp, voire de la politique même.

      #autonomie_du_politique

    • Mario Tronti, un intellectuel et sa conjoncture, Andrea Cavazzini
      https://www.contretemps.eu/mario-tronti-operaisme-italie-marxisme-trajectoire-politique

      La trajectoire de Mario Tronti, que la mort vient arrêter au terme d’une longue vie le 7 juillet dernier, n’est pas facile à interpréter de manière univoque. Le goût douteux de l’époque pour les appréciations émotionnelles et hâtives rend d’autant plus nécessaire de dresser un bilan d’une œuvre et d’une activité qui ont rencontré certains des moments politiques les plus incandescents de la deuxième moitié du 20e siècle. Non pas pour noyer les prises de position dans l’océan de la « complexité ». Mais, bien au contraire, parce que, comme Mario Tronti l’aurait rappelé, la prise de position, la « décision », pour parler comme Carl Schmitt, ou la confrontation au « cas décisif » (Ernstfall, qui veut dire littéralement « le cas sérieux »), pour parler comme le théologien catholique Hans Urs von Balthasar, sont des gestes difficiles, qui demandent une rigueur et une discipline rares, refusant toute complaisance à l’égard des approximations vagues et des jugements précipités.

      De ce bilan, nous ne pourrons pas nous acquitter ici ; il s’agira uniquement de rappeler certains jalons d’un trajet singulier qui pourraient marquer autant de points critiques, sur lesquels donc des questionnements devraient être ouverts ou réouverts. Dans une intervention qui a suivi la mort de Tronti, Sergio Bologna, un autre vétéran de l’opéraïsme, dont le parcours a été assez éloigné de celui de l’auteur d’Ouvriers et capital, a rappelé que le risque principal pour un mort aujourd’hui est de recevoir des applaudissements lors de son enterrement, comme un chanteur pop ou une vedette de la télévision[1], et que Tronti a eu le chance d’être salué dans le silence.

      [...]

      il convient d’accueillir l’invitation de Sergio Bologna https://centroriformastato.it/strappiamo-tronti-dalle-grinfie-dei-salotti-buoni à ne pas oublier la « scène originaire » de l’activité de Tronti, celle des #luttes_ouvrières du début des années 1960, dans le « triangle industriel » de l’Italie du Nord, à Milan, à Turin, à Gênes. Tronti ne devient pas Tronti en étudiant les classiques de la pensée politique, ni en auscultant les signes des temps ou les Nouvelles Révélations de l’Être et ce, bien qu’il ait pu céder lui-même à la tentation d’effacer sa propre généalogie, en rattachant fréquemment l’essor et le développement de sa réflexion à la seule irruption tellurique de l’insubordination ouvrière.

      edit

      Le différend ne porte pas uniquement sur les « outils » au sens organisationnel du terme, Panzieri et son groupe refusant de définir une seule forme idéale d’expression politique des luttes et donc une seule ligne à adopter vis-à-vis des organisations politiques et syndicales historiques ; l’enjeu de la rupture touche aussi à la vision des luttes ouvrières et de la classe. Pour Panzieri, en effet, la radicalisation de la conflictualité ouvrière à Fiat « n’autorise guère à croire que la lutte de classe telle qu’elle se développe chez Fiat est généralisable de manière immédiate »[13]. Comme les rapports aux organisations ne peuvent être unifiés immédiatement par un modèle dominant, les expériences de la lutte ouvrière restent plurielles et à apprécier chacune dans son contexte, ses limites et ses possibilités concrètes de généralisation. En revanche, malgré le primat affiché de l’expérience des luttes, la démarche de classe operaia et notamment de Tronti procède de manière axiomatique, en faisant de la description d’une dynamique locale la garantie immédiate d’une nécessité théorique :

      Cette classe ouvrière est déjà un fait social, une masse sociale ; lorsque nous parlons de son caractère politique, nous visons d’emblée cette socialisation, ce fait global au niveau social de la classe, de cette absence totale de divisions au sein de la classe, par laquelle les ouvriers naissent tous avec les mêmes intérêts[14].

      Panzieri et son groupe semblent plus sensibles aux surdéterminations et aux sous-déterminations tant des formes d’organisation que de la composition sociologique et politique des ouvriers. Ils sont conscients du fait que les processus politiquement féconds, ainsi que les synthèses théoriques, ne surgissent pas comme des fulgurations événementielles, mais présupposent un travail long et patient de construction, déconstruction et reconstruction, dans lequel il s’agit de recommencer à chaque fois le travail de dépassement de la passivité ouvrière, de blocage de la reproduction de l’idéologie, de mise à l’épreuve des mots d’ordre et des analyses toujours situés et partiels, de tissage de liens et de contacts entre expériences, langages et histoires profondément hétérogènes… C’est le travail de l’intervention comme analyse interminable, plutôt que comme irruption et comme rupture immédiatement décisives.

      #Raniero_Panzieri (mort en 1964)

      edit
      « L’histoire, c’est eux. Nous, c’est la politique ». Entretien avec Mario Tronti
      https://www.contretemps.eu/mario-tronti-marxisme-operaisme

      Mario Tronti, Michel Valensi
      https://www.cairn.info/revue-lignes-2013-2-page-143.htm

      L’AUTONOMIE DU POLITIQUE CHEZ TRONTI, Toni Negri
      http://www.euronomade.info/?p=11938

      addendum le texte de Sergio Bologna dont l’url est cité plus haut par Cavazzini a été traduit en français

      Arrachons Tronti des griffes des salons mondains !
      https://www.contretemps.eu/mario-tronti-operaisme-bologna-classe-ouvriere

      ... quand on parle d’opéraïsme, donc forcément de lui, ce ne sont pas les chaires universitaires, les séminaires, les colloques, les tables rondes, les auditeurs sagement assis ou les revues qui viennent à l’esprit, mais les assemblées ouvrières, les piquets de grève, les bousculades même entre camarades, les chants de joie, les inculpations, les emprisonnements, les veillées nocturnes devant des feux improvisés, les discussions passionnées, la production d’idées. Il me vient à l’esprit que quelqu’un veut toujours nous mettre à genoux pour qu’on fasse et qu’on vive comme qu’il le dit. On pense au désir de liberté, au refus de baisser la tête.

    • MARIO TRONTI, IN MEMORIAM
      La politique au crépuscule
      https://lundi.am/Mario-Tronti-In-Memoriam

      Le 7 août dernier disparaissait Mario Tronti (Rome, 1931), dont il a quelquefois été question dans ces pages et qui fut, avec quelques autres, l’inventeur de l’opéraïsme italien, tout en restant toutefois et malgré tout pour la gauche italienne une ‘énigme’ (Negri) qu’il faudra encore bien des années pour la pouvoir résoudre. N’est-ce pas lui qui, en 2017, prononça au Sénat italien (dont il était membre) un discours sur la révolution d’octobre, qui commençait en évoquant un mot de Chou En Lai à qui l’on demandait ce qu’il pensait de la révolution française de 1789 et qui répondit : « il est encore trop tôt pour se prononcer ».

      Espérons toutefois que le temps viendra plus vite où l’on pourra se prononcer sur les apports théoriques de Tronti dans leur globalité et complexité, depuis Ouvriers et capital (1966) jusqu’à la Sagesse de la lutte (2021), que nous avions fait paraître en français l’année dernière « dans le silence le plus tendu ». Nous avons appris la mort de Tronti, alors que nous devions envoyer à l’imprimeur la réédition dans L’éclat/poche de La politique au crépuscule, paru une première fois dans la collection « Premier secours », en septembre 2000. La traduction était de Michel Valensi. Tronti avait été ravi de cette réédition « vingt ans après » et l’attendait d’autant que l’édition italienne chez Einaudi était épuisée et que l’éditeur n’avait pas l’intention de la republier. Elle paraîtra augmentée d’une Note de l’éditeur, que nous avions envoyée à Tronti et sur laquelle il n’a pas pu nous répondre, mais des amis communs nous ont confirmé son nihil obstat. Lundimatin a bien voulu la publier ici en "bonnes feuilles" d’un livre à paraître à la toute fin du mois de septembre. La couverture fleurie de Patricia Farazzi s’était imposée aussi pour donner à ce titre tous ses sens possibles.

      à mario tronti, in memoriam

      Dans un récent entretien accordé à un magazine italien, Mario Tronti (1931-2023) évoque « une extraordinaire page de Lukács dans la préface de 1962 à sa Théorie du roman, écrite en 1914-1915 : La voici : “Dans la mesure où, à cette époque, je tentais de porter à un plus haut niveau de conscience mes prises de position émotionnelles, j’en étais arrivé à la conclusion suivante : les empires du centre l’emporteront probablement sur la Russie, ce qui devrait conduire à l’écroulement du tsarisme et cela me convient parfaitement. Reste aussi la possibilité que l’Occident l’emporte sur l’Allemagne, ce qui entraînera la chute des Hohenzollern et des Habsbourg, et cela me convient tout aussi parfaitement. Mais, parvenu à ce point, demeure la question : Qui nous sauvera de la civilisation occidentale ?” ».

      Et Tronti poursuit : « À y repenser, je ne peux ajouter à cela que cette seule observation : cette question impertinente que l’on pouvait encore poser librement aux débuts de l’obscur vingtième siècle, peut-on encore la poser tout aussi librement aux débuts de ce brillant vingt et unième siècle sans se faire crucifier ? »

      edit Mario Tronti et l’opéraïsme politique des années soixante, Michele Filippini
      https://journals.openedition.org/grm/227

      .... noyau dur dans la pensée comme dans l’action du groupe né dans les Quaderni Rossi et passé ensuite dans classe operaia (...) la tentative de concevoir un radicalisme qui serait à l’opposé de tout velléitarisme...

    • La sagesse de la lutte suivi de «Peuple», Mario Tronti
      http://www.lyber-eclat.net/livres/la-sagesse-de-la-lutte

      À l’occasion de son quatre-vingt-dixième anniversaire, Mario Tronti livre ici, avec son style “scandé, ciselé, combatif, constant, agressif et lucide”, un profil auto­biographique, dans lequel il reparcourt les étapes les plus importantes de sa formation politique et théorique. À travers l’évocation de tant de camarades qui ont partagé avec lui ces années de combat, Tronti donne sa propre interprétation du vingtième siècle et des conditions de la politique et de l’histoire qui l’ont traversé. En s’appuyant sur les auteurs qui ont été ses maîtres de vie et de pensée, Tronti s’interroge sur cette sagesse de la lutte, les aventures de son surgissement, les formes de son déclin, la possibilité de sa résurgence.

      Le texte est suivi d’un essai sur la notion de ‘peuple’ et sur le populisme actuel qui hante la politique européenne, depuis — c’est son analyse — “qu’il n’y a plus de peuple”.

      #politique #théorie #lutte #populisme #peuple #livre

  • RIP Mario Tronti
    https://www.repubblica.it/politica/2023/08/07/news/mario_tronti_morto_politico_92_anni-410335343

    È morto a 92 anni Mario Tronti, politico e filosofo, una vita a sinistra. Già militante del Partito comunista italiano, Tronti è stato anche parlamentare. Eletto la prima volta al Senato nel 1992 con il Pds e, successivamente, nel 2013 con il Partito democratico. È scomparso questa mattina intorno alle 10 e 30 a Ferentillo, in provincia di Terni, conferma il dem umbro Pierluigi Spinelli.

    Si definiva un “rivoluzionario conservatore”, ma da alcuni anni si era allontanato dai riflettori della politica: «Sono in ritiro spirituale, nel monastero di Poppi, nel Casentino, retto dalle monache camaldolesi. Mercoledì compio 90 anni e questo passaggio bisogna farlo bene, sentirlo interiormente», disse a Repubblica in occasione del suo novantesimo compleanno. “La morte? L’attendo con serenità”, aggiunse. “Ho vissuto abbastanza. Spero tuttavia che sia un passaggio facile. Per dirla con Montaigne confido che la fine mi colga mentre sto coltivando le mie rape nell’orto".

    • Connaît vraiment celui qui hait vraiment. L’usine et la société, Mario Tronti, 1962.

      Mario Tronti, Michel Valensi
      https://www.cairn.info/revue-lignes-2013-2-page-143.htm

      La question du « populisme » hante la politique italienne (et européenne) depuis – et c’est l’analyse de Mario Tronti – « qu’il n’y a plus de peuple ». À quel moment ce concept-réalité s’est-il désagrégé et se peut-il qu’il se réagrège dans une société où la classe est devenue une catégorie sociologique ? « Je n’ai jamais plus oublié la leçon de vie apprise aux grilles des usines, quand nous débarquions avec nos tracts prétentieux qui invitaient à la lutte générale anticapitaliste, et la réponse, toujours la même, des mains de ceux qui prenaient ces bouts de papier et disaient en riant : “c’est quoi ? c’est du pognon ?” Telle était la “rude race païenne” », écrit Mario Tronti dans Nous opéraïstes. Le “roman de formation” des années soixante en Italie, Paris, Éditions de l’éclat, 2013, p. 24. « Peuple », parce qu’il y eut un « peuple communiste », dont l’Italie a témoigné, peut-être plus durablement qu’ailleurs en Europe, et dont la voix de Mario Tronti témoigne à son tour. Issu des milieux populaires romains, il sera l’une des figures les plus importantes de l’opéraïsme italien, au sein duquel s’est forgé ce style « scandé, ciselé, combatif, constant, agressif et lucide » (ibid., p. 19) dont il est l’héritier et qui donne à ses écrits une dimension quasi unique dans la prose politique du xx-xxi e siècle. Ce texte est une contribution à une discussion sur la question du « populisme » organisée par le Centro per la Riforma dello Stato. L’original italien a été publié dans la revue Democrazia e diritto, n° 3-4/2010.

      #Mario_Tronti #operaïsme

    • L’AUTONOMIE DU POLITIQUE CHEZ TRONTI, Toni Negri
      http://www.euronomade.info/?p=11938

      C’est à cette figure-là de l’histoire moderne, bien différente de la sienne, que j’étais, moi, profondément lié ; et je l’avais précisément appris d’Ouvriers et capital : il fallait suivre « l’histoire interne de la classe ouvrière », c’est-à-dire l’histoire de sa subjectivation progressive. Ce que je tentais de mettre en pratique, c’était le développement de l’intuition trontienne qui insistait sur la nécessité d’évaluer le degré de maturité auquel était arrivée la subjectivation de la force de travail, au point de – je cite Ouvriers et capital« compter vraiment deux fois dans le système de capital : une fois comme force qui produit le capital, et une autre fois comme force qui refuse de le produire ; une fois dans le capital, une fois contre le capital ».

      Ouvriers et capital, Mario Tronti (pdf)
      https://entremonde.net/IMG/pdf/entremonde-ouvriers_et_capital-tronti-livre-2-2.pdf

      #refus_du_travail #subjectivation #classe_ouvrière

    • "History has become small"
      Mario Tronti: I am defeated
      https://cominsitu.wordpress.com/2015/03/08/mario-tronti-i-am-defeated

      Under the soles of his shoes, you can still recognise the dirt of history. “This is all that remains. A mix of straw and shit by which we delude ourselves into erecting cathedrals to the worker’s dream.” Here’s a man, I say to myself, imbued with a consistency that bursts through in a total melancholy. It’s Mario Tronti, the most celebrated of the theorists of Operaismo. He has only recently finished writing a book on this subject: the origins of his thought, how it has changed and what it is today. I don’t know who will publish it (I would guess a decent publisher). I read a profound sense of despair. Like a chronicle of defeat articulated through the long agony of a past that has not yet passed at all, that refuses to die, but is no longer wanted.

      [...]

      How did your interest in Tai Chi start?

      Thanks to my daughter who loves and practices oriental culture. She would have wanted to become a nun, so she chose the same profound consistency in this world that I’ve only touched.

      Is there an element of unpredictability with children?
      Always: with individuals, just like with history.

      Did you expect that the story – I mean yours – would end this way?
      I always expect the best. Then come the knocks. Coming up against facts without an airbag can do you damage. I was a communist, marxist, operaista. Some things end. Some things last. I have learnt and applied the lesson of political realism: you can’t ignore the facts.

      And the facts today are indicative of a great crisis?

      Great and long. It concerns all of us a little, at many diverse levels. It’s lasted at least seven years and still nobody is able to tell us how to get out of it. We’re living in a time without epoch.

      What does it mean?
      It is our time, however it lacks an epoch: this period that has arisen and will continue into the future. History has become small, the daily report has prevalence: gossip, complaints, platitudes.

      #défaite #mélancolie_théorique (≠rien) #histoire #communisme

    • Partialité, initiative, organisation : les usages de Lénine par Tronti
      https://www.contretemps.eu/lenine-tronti

      Dans cette intervention, nous voudrons tenter un examen critique des usages de Lénine dans l’œuvre de Mario Tronti, en nous focalisant essentiellement sur les textes réunis dans Ouvriers et capital (1966), ouvrage central de l’expérience opéraïste classique telle qu’elle a été définie et délimitée par Tronti lui-même. Nous partons de l’idée que l’un des aspects les plus intéressants, sinon l’originalité principale de ce marxisme, a consisté dans l’affirmation de la centralité politique du travail. Affirmation théorique, mais qui est ancrée dans une situation sociale concrète : c’est au contact des jeunes générations ouvrières des années 60 et de leurs pratiques spécifiques d’insubordination que la pensée opéraïste découvre une subjectivité politique radicale à même le rapport social de production.

    • Un aventurier révolutionnaire dans l’interrègne. Mario Tronti (1931-2023)
      https://legrandcontinent.eu/fr/2023/08/08/un-aventurier-revolutionnaire-dans-linterregne-mario-tronti-1931-20

      Il est difficile de penser à une autre intelligence européenne qui soit passée de la culture du parti communiste et de l’horizon de la politique révolutionnaire — il était le cofondateur de l’influente revue Classe Operaia — à la participation parlementaire — en tant que sénateur du Partito Democratico — pour finir par un engagement profond dans la grammaire théologico-politique du christianisme occidental — allant jusqu’à professer une admiration univoque pour le pontificat de Benoît XVI, attitude théologique d’une gauche qu’on a pu qualifier de « marxiste ratzingerienne ». La pensée et l’activité politique de Tronti pourraient très bien être placées sous le signe de la figure de l’aventurier, c’est-à-dire de quelqu’un qui s’engage à prendre des risques, envers et contre toutes les mains tendues par le sens commun. Tronti gravitait en fait à cheval entre l’ethos de deux figures distinctes : l’aventurier preneur de risques et l’homme politique par vocation. Mais au fond de lui-même, il était convaincu que seule la première pouvait permettre à un homme politique passionné de s’acquitter véritablement de sa tâche.

      « Chez le Tronti tardif, la passion révolutionnaire devient une révocation de la politique moderne, sans pour autant renoncer au schisme contre la vie sociale comme condition préalable à la sérénité existentielle. » Gerardo Muñoz

    • « L’histoire, c’est eux, nous, c’est la politique ». Entretien avec Mario Tronti

      Mario Tronti (1931-2023), figure centrale de la culture marxiste de la seconde moitié du 20e siècle, est décédé le 7 août dernier. Dans cet entretien de 2016, inédit en français, il revient sur sa trajectoire militante et intellectuelle 👇

      https://www.contretemps.eu/mario-tronti-marxisme-operaisme

      Cet entretien a été conduit par Martin Cortes à Rome en février 2016 et fait partie de l’édition espagnole de La autonomía de lo político [L’autonomie du politique] (Buenos Aires, Prometeo, 2018). Il a été repris dans Jacobin America Latina le 8 août 2023. La traduction et les intertitres sont de Contretemps.

      https://twitter.com/SRContretemps/status/1690273066092244992

  • Il «#Recovery_fund» per salvare le vite dei migranti

    C’è la tendenza, da parte dei media e del sistema politico, a trattare quanto avviene nel Mediterraneo, e più in generale la questione delle migrazioni, come un tema a sé, di solito rubricandolo come un’emergenza (securitaria o umanitaria, poco cambia rispetto alla logica del discorso). A nessuno viene in mente, ad esempio, di collegare questo tema con il “recovery fund”, di cui si discute con tutt’altro linguaggio e tono.

    A me pare, tuttavia, che questo atteggiamento sia profondamente fuorviante. Se il “recovery fund” segna un salto di qualità nel processo di integrazione europea (in direzioni che rimangono tutte da indagare, naturalmente), nel Mediterraneo si giocano partite essenziali per la definizione dei confini di quell’Europa che si intende riqualificare – e dunque sia per la qualità della sua cittadinanza sia per i suoi rapporti con l’esterno, in primo luogo con i Paesi della sponda sud, con il grande Medio Oriente e con la stessa Africa subsahariana nel suo complesso.

    La vergogna del campo di Moria e quella dei campi di detenzione in Libia sono i vertici maggiormente visibili di un regime di controllo del confine marittimo che è a tutti gli effetti un regime europeo (senza, sia chiaro, che questo esoneri dalle loro responsabilità i singoli governi nazionali, a partire da quello italiano).

    Ma certo, quello che è accaduto alla petroliera #Etienne, di proprietà del colosso danese #Maersk, è un altro tassello emblematico dell’intreccio di responsabilità nazionali ed europee in un mare che è da tempo attraversato dal confine più letale al mondo. Indifferenza, cinismo, spregio per l’elementare dovere di salvare vite in mare, corpi lasciati per settimane in disfacimento, senza alcuna assistenza: è questa l’Europa che intende riqualificarsi con il “recovery fund” dopo lo shock della pandemia? Sembrerebbe di sì, tanto più se teniamo presente che ad agire nel Mediterraneo non sono oggi i «sovranisti», ma governi come quello italiano e la Commissione di Ursula von der Leyen.

    Da questo punto di vista, acquisisce un significato particolarmente importante l’intervento di venerdì della nave #Mare_Jonio, della piattaforma Mediterranea. Molto semplicemente, i volontari di Mediterranea hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare le autorità maltesi ed europee: sono saliti a bordo, hanno prestato una prima assistenza medica ai ventisette profughi e migranti soccorsi dalla nave danese e hanno immediatamente constatato una situazione insostenibile. Di qui la decisione di trasferire i ventisette sulla Mare Jonio.

    Ma non può sfuggire, più in generale, che l’intervento di Mediterranea ha prefigurato una diversa modalità di gestire il confine marittimo nel Mediterraneo, aprendo dal basso un «corridoio umanitario» e alludendo potentemente alla costruzione di un’altra Europa attraverso l’attivismo in mare e sui confini.

    Questo attivismo si è del resto consolidato negli ultimi mesi e si è al tempo stesso almeno parzialmente trasformato. La costruzione di una vera e propria «flotta civile», che ha in Alarm Phone il suo centro di coordinamento per i soccorsi (verso la costruzione di un vero «civil MRCC» – Marittime Rescue Coordination Centre), ha determinato un approfondimento della dimensione immediatamente europea delle operazioni in mare, mentre in particolare in Germania – lo raccontava venerdì Sebastiano Canetta su queste pagine – è cresciuto un movimento che accompagna quelle operazioni in terra, coinvolgendo attori profondamente eterogenei (dalle Chiese ai Comuni come quello di Berlino e ad alcuni Länder).

    In gioco è sempre più chiaramente oggi, per l’attivismo in mare, la lotta per un’Europa diversa da quella della vergogna di Moria, della Libia e della Etienne, a partire da una nuova maniera di raccontare le migrazioni e di collegarle alle mobilitazioni sociali che si stanno producendo nel contesto della pandemia. Anche per via della grande impressione determinata dalle iniziative di Black Lives Matter negli Usa, che stanno cambiando anche in Europa la grammatica dell’antirazzismo, i linguaggi tradizionali dell’umanitarismo sono spiazzati o comunque largamente modificati. Il riconoscimento del protagonismo e delle lotte di profughi e migranti, anche in condizioni durissime come quelle dell’attraversamento del confine marittimo nel Mediterraneo, è in particolare sempre più un tratto che caratterizza l’attivismo in mare.

    La maturità della cooperazione tra diversi attori all’interno della «flotta civile» costituisce uno straordinario esempio di azione sul terreno immediatamente europeo che altri movimenti potrebbero riprendere e sviluppare. Le risonanze tra l’attivismo nel Mediterraneo e le mobilitazioni negli Stati Uniti sono un ulteriore aspetto che varrebbe senz’altro la pena di approfondire.

    Più in generale, l’attivismo in mare ci propone oggi in termini parzialmente nuovi l’attualità di una politica radicale dei confini e della migrazione senza la quale è davvero difficile riprendere la riflessione e l’iniziativa sulla questione europea. Mediterranea, con l’operazione di venerdì, ha dato una buona esemplificazione di questa politica radicale, a partire dalla necessità elementare di prestare assistenza a ventisette profughi e migranti abbandonati dall’Europa.

    http://www.euronomade.info/?p=13827
    #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Sandro_Mezzadra #sauvetage

  • Una politica delle lotte in tempi di pandemia | Sandro Mezzadra, EuroNomade
    http://www.euronomade.info/?p=13085

    Un’attesa prolungata in farmacia, una fila per entrare in un supermercato: sono sufficienti esperienze come queste, divenute normali in questi giorni, per avere un’idea di come la diffusione del coronavirus stia trasformando la nostra società. Per molti aspetti, a dire il vero, sono tendenze ormai di lungo periodo a essere esasperate dall’epidemia e dalle misure assunte dal governo: decenni di politica della paura hanno lasciato il segno, evidente nella fobia del contatto, negli sguardi diffidenti che presidiano la “distanza di sicurezza” tra le persone. L’ansia del controllo rafforza indubbiamente i poteri che dominano le nostre vite, ed è bene ricordare che, una volta assunte, misure come quelle di queste settimane rimangono nell’arsenale di ciò che è politicamente possibile. D’altro canto, ci sono immagini di segno profondamente diverso: i sorrisi che molti si scambiano per strada, la musica dai balconi, la solidarietà da cui sono circondati non soltanto medici e infermieri ma anche gli operai in sciopero per difendere la sicurezza delle proprie condizioni di lavoro.

    La discussione di questi giorni, all’interno del variegato mondo dei movimenti sociali e della sinistra, sembra appuntarsi in modo privilegiato sul primo aspetto, ovvero sull’affinamento nell’emergenza di dispositivi di controllo. Anche prescindendo dalle posizioni di affermati filosofi che si improvvisano virologi ed epidemiologi, in molti interventi sembra prevalere una sorta di scetticismo rispetto al COVID-19 e alla sua effettiva pericolosità. A me pare che questo atteggiamento sia decisamente fuorviante. Il dato da cui la discussione dovrebbe partire è al contrario, per dirla in modo molto semplice, che la diffusione del coronavirus rappresenta non soltanto una minaccia per la salute e per la vita di milioni di persone (anziani e soggetti a rischio in primo luogo), ma anche per la tenuta dei sistemi sanitari. Non mi pare che possa esservi dubbio alcuno su questo punto. Ma se così stanno le cose, il coronavirus rappresenta una minaccia per qualcosa di essenziale di ciò che nel nostro dibattito abbiamo definito il “comune”. Del comune (così come delle nostre vite) l’epidemia in corso mostra tutta la fragilità e la precarietà, l’esigenza di “cura” che in particolare il dibattito femminista degli ultimi anni ha sottolineato. Senza dimenticare il tema del controllo, vorrei assumere questo essenziale punto di vista per ragionare su quanto sta accadendo in Italia, in Europa, nel mondo.

    Gli effetti economici del coronavirus sono letteralmente inauditi. Per la prima volta dopo decenni, una crisi che ha la propria origine nell’“economia reale” investe violentemente i mercati finanziari globali, provocando perdite senza precedenti. La metafora che meglio si presta a illustrare la situazione del capitalismo globale in questo momento è quella dell’“ostruzione”. La crisi riflette come in uno specchio l’immagine rovesciata di un capitalismo i cui circuiti di valorizzazione e accumulazione dipendono interamente da un movimento senza sosta di capitali, di merci, di persone. Le supply chains, le catene di fornitura che costituiscono lo scheletro logistico e infrastrutturale della globalizzazione capitalistica sembrano oggi essere in buona misura bloccate. L’andamento delle borse, che ha a lungo guidato l’estensione delle supply chains e del connesso reticolo di corridoi, zone speciali e hub è oggi costretto a registrare questo blocco.

    Non è fuori luogo affermare che la pandemia in corso segna un punto di non ritorno nello sviluppo del capitalismo globale. Non sto in alcun modo indulgendo a immaginari “crollisti” e apocalittici. Esisterà senz’altro un capitalismo dopo il coronavirus, ma sarà un capitalismo profondamente diverso da quello che abbiamo conosciuto negli ultimi anni (pur con i radicali cambiamenti che già la crisi finanziaria del 2007/8 ha indotto). A me pare che si debba partire da questa constatazione riferita al livello globale anche per ragionare su quello che avviene in Italia, che indubbiamente in questo momento torna ad avere caratteri di “laboratorio” anche se in termini profondamente diversi rispetto a un passato non troppo lontano. A rischio di semplificare, direi che si sta delineando in questo momento una precisa alternativa: da una parte c’è una linea che potremmo definire malthusiana (o ispirata da un essenziale darwinismo sociale), ben esemplificata dall’asse Johnson-Trump-Bolsonaro; dall’altra parte c’è una linea che punta alla riqualificazione della sanità pubblica come strumento fondamentale per affrontare l’emergenza (e qui gli esempi, diversissimi, possono essere la Cina, la Corea del Sud e l’Italia). Nel primo caso si mettono nel conto di una selezione naturale della popolazione migliaia di morti; nel secondo caso, per ragioni in buona misura contingenti, si punta a “difendere la società”, con gradi variabili di autoritarismo e di controllo sociale.

    Vorrei essere chiaro: non sto in alcun modo “promuovendo” le misure assunte dal governo italiano. Mi limito a dire che in questo momento – a livello globale – è in atto uno scontro durissimo che avrà conseguenze essenziali non solo per il futuro del capitalismo ma anche (in fondo è la stessa cosa) per le nostre vite. Questo scontro attraversa anche Paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Brasile, i cui governi promuovono la soluzione che ho definito malthusiana: sono tenaci e radicate le resistenze a livello sociale e politico! Ma lo scontro attraversa anche il nostro Paese, e ha trovato un’espressione esemplare nel rifiuto operaio di accettare le scelte di Confindustria e di sacrificarsi al primato della produzione. Più in generale, la gestione del coronavirus appare un essenziale campo di conflitto; e soltanto l’intensificazione delle lotte sociali (ora e nei prossimi mesi) può aprire spazi di democrazia e di “cura” del comune. Questo vale in Italia non meno che negli Stati Uniti.

    Vediamo alcune condizioni che consentono di delineare scenari per il prossimo futuro. Il valore essenziale del sistema sanitario pubblico (il che significa del diritto sociale alla salute) è oggi un dato che risulta difficile mettere in discussione. Questo significa che almeno per un periodo risulterà difficile proporre ulteriori tagli, e si potrà aprire una nuova stagione di investimenti – anche sotto la spinta dei lavoratori e delle lavoratrici della salute. È auspicabile che questo possa avvenire anche nel mondo dell’istruzione, per quanto indubbiamente sarà necessario fronteggiare tentativi di rendere irreversibili alcuni mutamenti avvenuti in queste settimane (a partire dall’uso della didattica online). Nella crisi, il lavoro di cura continua a essere essenzialmente scaricato sulle donne, ma anche questa circostanza apre scenari di nuove lotte e di nuove negoziazioni. Gli scioperi operai, già richiamati, indicano la possibilità di inediti orizzonti di sindacalismo anche sociale e della rivendicazione di un “reddito di quarantena”. Pur pagando un prezzo altissimo, le rivolte nelle carceri hanno determinato una rinnovata visibilità in un mondo che negli ultimi anni era divenuto fondamentalmente opaco (e hanno anche ottenuto alcuni significativi per quanto parziali risultati). Sia pure con tempi diversi, questo sta avvenendo anche nei CPR, dove il coronavirus ha determinato un blocco di fatto dei rimpatri, anche se non del trattenimento.

    Ripeto: si tratta di scenari che indicano essenziali terreni di lotta e non certo lineari evoluzioni governamentali. Ma dal punto di vista del metodo mi sembra importante partire da qui. Il virus, poi, ha beffardamente mostrato il carattere del tutto illusorio del sovranismo e del suo feticismo dei confini. È una buona condizione per riaprire un ragionamento sull’Europa. Certo, fin qui l’Unione Europea ha fatto ben poco, si è mossa in modo contraddittorio e talvolta perfino controproducente. Ma come non vedere che sta finalmente saltando l’austerity, con il dogma del pareggio di bilancio? E formidabili sono le tensioni “oggettive” che si stanno scaricando sulla Banca Centrale Europea perché assuma il ruolo di prestatore di ultima istanza. Sono tendenze “oggettive”, appunto, nel senso che prescindono da un’intenzionalità politica: ma definiscono le condizioni per una ripresa delle lotte sul terreno europeo (o forse meglio: per una ricaduta sul piano europeo delle lotte che si svilupperanno in molte parti del continente).

    In conclusione, penso che il punto di vista qui proposto ci consenta di guardare alla pandemia in corso ponendo l’attenzione sugli spazi che si aprono per i movimenti, per le lotte sociali e per la stessa sinistra. Non sottovaluto, come ho già detto, la questione del controllo, dell’espansione dei poteri dello Stato e dell’ulteriore promozione di una politica della paura. Si tratta di aspetti chiaramente presenti nello scenario attuale. Ma come contrastarli? La mia convinzione è che si debba partire da quella “cura” del comune di cui ho parlato all’inizio per rovesciare il senso attuale del “laboratorio italiano”; e che si debbano cogliere nella situazione attuale le occasioni che ci sono per una più generale politica delle lotte in tempi di pandemia.

    (Posté en entier pour disposer de la trad automatique)

  • Fin
    https://www.cairn.info/revue-vacarme-2019-4-page-1.htm

    Vacarme a été portée pendant près de vingt-cinq ans par un comité de rédaction soucieux de repenser les catégories politiques à partir des expériences minoritaires, dans des textes poétiques ou polémiques, de fiction ou de réflexion, en donnant la parole à d’autres manières d’être, d’agir, de percevoir. Nous avons mené ce programme éditorial en cherchant à ouvrir un espace particulier aux arts et aux formes esthétiques avec lesquels notre réel se construit, comme à d’autres façons d’écrire les sciences sociales, l’histoire, la philosophie… Source : Vacarme

  • Italian government pressures #Panama to stop #Aquarius rescues on world’s deadliest maritime route

    Central Mediterranean– SOS MEDITERRANEE and Médecins Sans Frontières (MSF) are reeling from the announcement by the Panama Maritime Authority (PMA) that it has been forced to revoke the registration of the search and rescue ship Aquarius, under blatant economic and political pressure from the Italian government. This announcement condemns hundreds of men, women and children who are desperate to reach safety to a watery grave, and deals a major blow to the life-saving humanitarian mission of the Aquarius, the only remaining non-governmental search and rescue vessel in the Central Mediterranean. Both organisations demand that European governments allow the Aquarius to continue its mission, by affirming to the Panamanian authorities that threats made by the Italian government are unfounded, or by immediately issuing a new flag under which the vessel can sail.

    On Saturday, 22 September, the Aquarius team was shocked to learn of an official communication from the Panamanian authorities stating that the Italian authorities had urged the PMA to take “immediate action” against the Aquarius. The PMA message explained that, “unfortunately, it is necessary that [the Aquarius] be excluded from our registry, because it implies a political problem against the Panamanian government and the Panamanian fleet that arrive to European port.” The message came despite the fact that Aquarius meets all maritime standards and is in full compliance with rigorous technical specifications as required under the Panama flag.

    SOS MEDITERRANEE and MSF strongly denounce the actions as further proof of the extent to which the Italian government is willing to go to, knowing that the only consequence is that people will continue to die at sea and that no witnesses will be present to count the dead.

    “European leaders appear to have no qualms implementing increasingly abusive and vicious tactics that serve their own political interests at the expense of human lives,” said Karline Kleijer, MSF’s Head of Emergencies. “For the past two years, European leaders have claimed that people should not die at sea, but at the same time they have pursued dangerous and ill-informed policies that have brought the humanitarian crisis in the Central Mediterranean and in Libya to new lows. This tragedy has to end, but that can only happen if EU governments allow the Aquarius and other search and rescue vessels to continue providing lifesaving assistance and bearing witness where it is so desperately needed.”

    Since the beginning of the year, more than 1,250 people have drowned while attempting to cross the Central Mediterranean. Those that attempt the crossing are three times more likely to drown than those who made the same journey in 2015. The real number of deaths is likely much higher, as not all drownings are witnessed or recorded by authorities or U.N. agencies. This underreporting is represented in shipwrecks like the one in early September in which it is estimated that at least 100 people drowned.

    Meanwhile, the European-sponsored Libyan coastguard continues to make an increasing number of interceptions in international waters between Italy, Malta and Libya, while denying survivors their right to disembark in a place of safety as required by International Maritime and Refugee Law. Instead, these vulnerable people are returned to appalling conditions in Libyan detention centres, several of which are now affected by heavy fighting in Tripoli’s conflict zones.

    “Five years after the Lampedusa tragedy, when European leaders said ‘never again’ and Italy launched its first large scale search and rescue operation, people are still risking their lives to escape from Libya while the death rate on the Central Mediterranean is skyrocketing” said Sophie Beau, vice president of SOS MEDITERRANEE international. “Europe cannot afford to renounce its fundamental values.”

    News from the PMA arrived at the Aquarius while the team was engaged in an active search and rescue operation in the Central Mediterranean. Over the past three days, Aquarius has assisted two boats in distress and now has 58 survivors on board, several of whom are psychologically distressed and fatigued from their journeys at sea and experiences in Libya, and who must be disembarked urgently in a place of safety in accordance with international maritime law. Throughout its current operation and during all previous rescue operations, the Aquarius has maintained full transparency while operating under the instructions of all maritime coordination centres and following international maritime conventions.

    SOS MEDITERRANEE and MSF demand that European governments allow the Aquarius to continue its rescue mission by reassuring the Panama authorities that the threats made by the Government of Italy are unfounded, or by immediately issuing a new flag under which the vessel can sail.

    https://www.msf.org/italian-government-pressures-panama-stop-aquarius-rescues-worlds-deadliest-mari
    #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #ONG #sauvetage #pavillon

    • Le gouvernement italien fait pression sur le Panama pour stopper les opérations de sauvetage de l’Aquarius

      Les autorités maritimes du Panama ont annoncé à SOS Méditerranée et Médecins Sans Frontières (MSF) avoir été forcées de révoquer l’enregistrement du navire de secours en mer Aquarius. Cette révocation résulte de la pression économique et politique flagrante exercée par le gouvernement italien et condamne des centaines d’hommes, de femmes et d’enfants en fuite à rejoindre le cimetière marin qu’est devenu la Méditerranée. Elle porte un coup violent à la mission humanitaire vitale de l’Aquarius, le seul navire de recherche et de sauvetage non gouvernemental encore présent en Méditerranée centrale. Nos deux organisations demandent aux gouvernements européens d’autoriser l’Aquarius à poursuivre sa mission en intercédant auprès des autorités panaméennes et en réaffirmant que les menaces de rétorsion formulées à leur égard par les autorités italiennes sont infondées, ou en lui délivrant immédiatement un nouveau pavillon sous lequel naviguer.

      Le samedi 22 septembre, l’équipe de l’Aquarius a été choquée d’apprendre qu’une communication officielle émanant des autorités panaméennes, indiquait que le gouvernement italien les avait exhorté à prendre des « mesures immédiates » contre l’Aquarius. Le message des autorités maritimes du Panama expliquait alors que « malheureusement, il faut qu’il [l’Aquarius] soit exclu de notre registre, car maintenir ce pavillon impliquerait de sérieuses difficultés politiques pour le gouvernement panaméen et pour la flotte panaméenne qui travaille dans les ports européens ». Cela intervient en dépit du fait que l’Aquarius répond à toutes les normes maritimes en vigueur et qu’il respecte scrupuleusement les spécifications techniques exigées par les autorités du Panama.

      Les deux organisations humanitaires dénoncent ces actions comme une preuve supplémentaire du jusqu’au-boutisme du gouvernement italien qui choisit sciemment de laisser les gens se noyer en mer Méditerranée, et cherche à se débarrasser des derniers témoins de ces naufrages.

      "Les dirigeants européens semblent n’avoir aucun scrupule à mettre en œuvre des tactiques de plus en plus violentes et sordides qui servent leurs propres intérêts politiques au détriment des vies humaines", a déclaré Karline Kleijer, responsable des urgences chez MSF. « Au cours des deux dernières années, les dirigeants européens ont affirmé que plus personne ne devait mourir en mer, mais elles ont parallèlement mis en place des politiques dangereuses qui n’ont fait que renforcer la crise humanitaire en Méditerranée et en Libye. Cette tragédie doit cesser, et pour cela, il faut que les gouvernements de l’Union européenne autorisent l’Aquarius et d’autres navires de recherche et de sauvetage à continuer à fournir une assistance, là où elle est nécessaire, pour sauver des vies et témoigner de ce qu’il se passe. »

      Depuis le début de l’année, plus de 1 250 personnes se sont noyées alors qu’elles essayaient de traverser la Méditerranée centrale. Ceux qui tentent la traversée à présent ont trois fois plus de risque de se noyer que ceux qui ont fait le même trajet en 2015. Le nombre réel de décès est probablement beaucoup plus élevé, les autorités ou les agences des Nations unies n’étant pas témoins de toutes les noyades. Cela a été clairement mis en évidence lors du naufrage survenu au début du mois de septembre au large des côtes libyennes, où plus de 100 personnes se sont noyées.

      Pendant ce temps, les garde-côtes libyens, soutenus par l’Europe, continuent d’intercepter dans les eaux internationales entre l’Italie, Malte et la Libye un nombre croissant de personnes fuyant la Libye, les privant de leur droit à débarquer dans un lieu sûr, comme l’exige le droit international maritime et le droit international relatif aux réfugiés. Ces personnes vulnérables sont renvoyées dans un dangereux système de détention en Libye, où plusieurs centres de détention sont d’ailleurs actuellement touchés par les violents combats qui se déroulent à Tripoli, la capitale.

      "Cinq ans après la tragédie de Lampedusa, lorsque les dirigeants européens ont déclaré ‘plus jamais ça’ et que l’Italie a lancé sa première opération de recherche et de sauvetage à grande échelle, les gens risquent toujours leur vie pour fuir la Libye tandis que le taux de mortalité en mer Méditerranée grimpe en flèche », a tancé Francis Vallat, président de SOS MEDITERRANEE France.

      L’annonce des autorités maritimes du Panama est parvenue à l’Aquarius alors que ses équipes étaient engagées dans une opération active de recherche et de sauvetage en Méditerranée. Au cours des trois derniers jours, l’Aquarius a porté assistance aux passagers de deux bateaux en détresse et compte maintenant 58 rescapés à son bord. Plusieurs d’entre eux sont dans un état de détresse psychologique, épuisés par les expériences traumatisantes vécues en mer et en Libye Ces rescapés doivent être rapidement débarqués dans un port sûr conformément au droit international maritime.

      Tout au long de son opération de sauvetage actuelle et au cours de toutes les opérations précédentes, l’Aquarius a maintenu une transparence totale sur ses actions, intervenant sous les instructions des centres de coordination maritimes et respectant les conventions maritimes internationales en vigueur.

      SOS Méditerranée et MSF insistent de nouveau sur le fait que l’Aquarius doit être autorisé à poursuivre sa mission de secours humanitaire. Elles exigent que les gouvernements européens lui attribuent un nouveau pavillon ou qu’ils intercèdent auprès des autorités panaméennes, leur confirmant que les menaces de rétorsion formulées par le gouvernement italien sont infondées.

      http://www.sosmediterranee.fr/journal-de-bord/CP23-09-2018-Panama

    • Migranti, Panama blocca la nave #Aquarius_2. Msf e Sos Méditerranée: «Pressioni dal governo italiano»

      Le autorità panamensi hanno revocato l’iscrizione dai propri registri navali, informando il proprietario della richiesta italiana di «azioni immediate». Il Viminale nega ogni intervento. Salvini: «Nessun Paese vuole essere identificato con una nave che intralcia i soccorsi in mare e attacca governi democratici»

      https://www.repubblica.it/cronaca/2018/09/23/news/aquarius2-207151404

    • Pressioni italiane su Panama che cancellerà Aquarius dai registri navali, l’accusa è per non aver restituito alla Libia i migranti salvati

      SOS Méditerranée e Medici Senza Frontiere sono «sconvolte dall’annuncio dell’Autorità marittima di Panama di essere stata costretta a revocare l’iscrizione dell’Aquarius dal proprio registro navale sotto l’evidente pressione economica e politica delle autorità italiane.

      Questo provvedimento condanna centinaia di uomini, donne e bambini, alla disperata ricerca di sicurezza, ad annegare in mare e infligge un duro colpo alla missione umanitaria di Aquarius». Così in una nota le due organizzazioni umanitarie.

      SOS Mediterrannee e MSF chiedono all’Europa di permettere all’Aquarius di poter continuare ad operare nel Mediterraneo centrale e di far sapere alle autorità panamensi che «le minacce del governo italiano sono infondate o di garantire immediatamente una nuova bandiera per poter continuare a navigare».

      E’ quanto chiedono le due Ong in una nota nella quale è riportata anche una dichiarazione di Karline Kleijer, responsabile delle emergenze per Msf. «I leader europei - afferma Kleijer - sembrano non avere scrupoli nell’attuare tattiche sempre più offensive e crudeli che servono i propri interessi politici a scapito delle vite umane. Negli ultimi due anni, i leader europei hanno affermato che le persone non dovrebbero morire in mare, ma allo stesso tempo hanno perseguito politiche pericolose e male informate che hanno portato a nuovi minimi la crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale e in Libia. Questa tragedia deve finire, ma ciò può accadere solo se i governi dell’Ue permetteranno all’Aquarius e alle altre navi di ricerca e soccorso di continuare a fornire assistenza».

      Salvini,denuncerò ong che aiutano scafisti - «Denuncerò per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina chi aiuta gli scafisti». Lo afferma il Ministro dell’Interno Matteo Salvini che aggiunge: «Nelle ultime ore i trafficanti hanno ripreso a lavorare, riempiendo barchini e approfittando della collaborazione di qualche Ong. Tra queste c’è Aquarius 2, che poco fa ha recuperato 50 persone al largo di Zuara. Altri due gommoni, con a bordo 100 immigrati ciascuno, sarebbero in navigazione».

      Aquarius 2 recupera 50 persone,altre 100 in arrivo - Aquarius 2 ha recuperato 50 persone al largo della Libia, più precisamente al largo della città di Zuara. A renderlo noto è il Ministro dell’Interno Matteo Salvini.
      Salvini riferisce anche che Aquarius 2 sta per essere cancellata dai registri navali di Panama. La notizia era stata pubblicata due giorni fa dal quotidiano panamense La Prensa.

      "Per aver disatteso le procedure internazionali in materia di immigranti e rifugiati assistiti al largo delle coste nel Mediterraneo - si legge nell’articolo - l’amministrazione marittima panamense ha avviato l’iter per annullare d’ufficio la registrazione della nave «Aquarius 2», ex «Acquarius», con numero IMO 7600574. Questa nave ha registrato la prima immatricolazione in Germania e circa un mese fa è arrivata a Panama".

      «L’autorità marittima di Panama - riporta ancora la Prensa - ha riferito che la denuncia principale proviene dalle autorità italiane, che hanno riferito che il capitano della nave si è rifiutato di restituire gli immigranti e i rifugiati assistiti al loro luogo di origine».

      Nell’articolo si ricorda inoltre che già «l’amministrazione marittima di Gibilterra aveva negato il permesso di ’Aquarius’ di agire come un battello di emergenza e anche nel mese di giugno e luglio di quest’anno, ha chiesto formalmente che ’sospenda le sue operazioni’ e ritorni al suo stato di registrazione originale come ’nave oceanografica’».

      Galantino, strano parlare di migranti in dl sicurezza - «A me sembra strano che si parli di immigrati all’interno del decreto sicurezza. Inserirlo lì dentro significa giudicare già l’immigrato per una sua condizione», «per il suo essere immigrato e non per i comportamenti che può avere. E’ un brutto segnale sul piano culturale, perché si tratta di un tema sociale che va affrontato nel rispetto della legalità ma non possiamo considerare la condizione degli immigrati come una condizione di delinquenza». Lo ha detto a «Stanze Vaticane» di Tgcom24, Mons. Nunzio Galantino, Segretario Generale Cei.

      https://dirittiumani1.blogspot.com/2018/09/pressioni-italiane-su-panama-che.html

    • The Aquarius : Migrant rescue ship has registration revoked

      A rescue vessel operating in the central Mediterranean Sea has had its registration revoked, leaving its future operations in jeopardy.

      When the Aquarius next docks, it will have to remove its Panama maritime flag and cannot set sail without a new one.

      It is the last private rescue ship operating in the area used for crossings from Libya to Europe.

      The charities who run the vessel accuse the Italian government of pressuring Panama into deflagging the Aquarius.

      The two groups who lease it, Médecins Sans Frontières (MSF) and SOS Mediterranée, say they were notified of the decision by the Panama Maritime Authority (PMA) on Saturday.

      The authority is said to have described the ship as a “political problem” for the country’s government, and said Italian authorities had urged them to take “immediate action” against them, according to SOS Mediterranée.

      Italy’s Interior Minister Matteo Salvini, who has previously described the aid boats as a “taxi service” for migrants, denies his country put pressure on Panama.

      On Sunday, he tweeted he “didn’t even know” what prefix Panama has for telephone calls.

      https://www.bbc.com/news/world-europe-45622431

    • Dopo le accuse alle ong da oggi Mediterraneo senza presidi umanitari

      Oggi, 20 settembre 2018, uno degli obiettivi politici di molti governi europei sembra pienamente raggiunto: il Mediterraneo centrale è privo di presidi umanitari, di imbarcazioni destinate a prestare soccorso, di mezzi attrezzati e personale formato al fine di salvare vite umane.

      Dunque, con la sola eccezione della nave Aquarius, dove opera Medici Senza Frontiere, il Mediterraneo è stato, per così dire, sgomberato dalla presenza di tutti i soccorritori e i volontari. E di tutti gli operatori umanitari (medici, psicologi, mediatori e interpreti) – a partire dal 2015 – hanno realizzato centinaia di missioni e centinaia di salvataggi, risparmiando migliaia e migliaia di vittime, offrendo riparo e protezione ai fuggiaschi di tante guerre e di tante miserie. E riducendo il numero delle stragi che, non da ieri ma dai primi anni novanta (attenzione: dai primi anni novanta), si ripetono in quel tratto di mare. Ora lì operano, quando operano, solo navi e organismi degli stati europei, in genere indirizzati verso la difesa delle frontiere piuttosto che verso il soccorso dei naufraghi.

      E alcune guardie costiere prive di indirizzi politici univoci e le motovedette della Libia (meglio sarebbe dire: delle diverse milizie libiche). È ciò che alcuni governi europei, compreso quello italiano, si sono proposti da tempo: cancellare, o comunque ridurre al minimo, il ruolo delle organizzazioni non governative finalizzate al soccorso per lasciare campo libero all’attività di respingimento di migranti e profughi attraverso il blocco del Mediterraneo con la chiusura di porti, vie d’accesso, canali di fuga e rotte alternative. L’obiettivo è chiarissimo: attraverso l’esclusione delle Ong si persegue la mortificazione, fino all’annullamento, del diritto/dovere al soccorso.

      E per ottenere quest’ultimo scopo, nel corso degli ultimi due anni si è attuata una sequenza micidiale: prima una campagna di delegittimazione delle Ong tramite lo sfregio della loro identità e della loro immagine e l’indecente assimilazione dei soccorritori ai criminali («Le ong complici degli scafisti»); poi una successione di iniziative giudiziarie tendenti ad assimilare l’attività di soccorso a una fattispecie penale: ovvero il salvataggio come reato. Infine, un attacco politico fondato sulla rappresentazione di migranti e richiedenti asilo come nemici della stabilità e della sicurezza dell’Europa – e in particolare dell’Italia – e delle ong come loro complici e sicari.

      Oggi, a distanza di qualche anno da quando questa manovra politica è iniziata, sul piano giudiziario non c’è stato nemmeno un rinvio a giudizio per un solo membro di una sola ong e, all’opposto, si sono avute ordinanze e sentenze che riconoscevano la loro attività come fondamentale e pienamente rispettosa delle leggi e del diritto internazionale. Tuttavia, come si è detto, oggi nel Mar Mediterraneo i presidi umanitari sono ridotti al lumicino e le conseguenze materiali e il relativo carico di sofferenze è stato onerosissimo. Le navi delle Ong hanno dovuto percorrere molte miglia in più durante ciascuna missione e sono rimaste in mare per giorni senza l’indicazione di un porto di approdo sicuro – costringendo donne, uomini e bambini, già provati fisicamente e psicologicamente, ad affrontare lunghissime traversate, spesso in condizioni meteorologiche avverse. Non solo, quindi, le recenti politiche nazionali e internazionali hanno messo in pericolo la loro incolumità e quella degli equipaggi delle Ong, ma perfino la Guardia Costiera italiana, come è noto, ha dovuto attendere dieci giorni prima di poter sbarcare a Catania le persone salvate.

      Eppure la partita è tutt’altro che conclusa. I flussi di migranti e profughi continuano e le morti non si arrestano. E la riduzione delle cifre relative agli sbarchi corrisponde, in una certa misura, all’incremento del numero di quanti vengono rinchiusi nei centri di detenzione in Libia, e lì torturati, stuprati, uccisi. L’assenza di presidi umanitari nel Mediterraneo fa sì che sempre meno si sappia di quanto lì accade: ma se è vero, come è vero, che appena qualche giorno fa ben 184 persone sono sbarcate a Lampedusa, ciò significa che le fughe continuano ma che si sono fatte meno visibili e meno controllabili.

      Per tutte queste ragioni, ieri si è tenuta una conferenza stampa alla Camera dei Deputati dove Sandro Veronesi, i rappresentanti di Proactiva Open Arms, Sea Watch e Medici Senza Frontiere, Eleonora Forenza, Riccardo Magi e chi scrive, hanno ragionato intorno al tema «Mediterraneo. Mare loro». Si è ricordato che Proactiva Open Arms ha deciso di trasferire le sue missioni nel Mediterraneo Occidentale, in attesa di tornare il prima possibile a fare il suo lavoro: salvare vite umane. Altrettanto intendono fare Sea Watch e Medici Senza Frontiere, come hanno affermato Giorgia Linardi e Marco Bertotto, convinti che il diritto/dovere al soccorso costituisca una prerogativa fondamentale della civiltà umana.

      https://ilmanifesto.it/dopo-le-accuse-alle-ong-da-oggi-mediterraneo-senza-presidi-umanitari

      #ONG #Méditerranée #asile #migrations #Méditerranée_centrale #sauvetage #réfugiés

    • Le Panama retire son pavillon à l’“Aquarius 2”, le dernier bateau d’ONG en Méditerranée

      Les autorités panaméennes ont annoncé leur intention de retirer son pavillon au bateau Aquarius 2. SOS Méditerranée et Médecins sans frontières, qui affrètent le bateau, dénoncent des pressions du gouvernement italien.


      https://www.courrierinternational.com/article/le-panama-retire-son-pavillon-laquarius-2-le-dernier-bateau-d

    • L’Aquarius demande à accoster en France, Paris préfère une « solution européenne »

      Bientôt privé de pavillon, le navire humanitaire Aquarius était lundi « en route vers Marseille » après avoir demandé « à titre exceptionnel » à la France de pouvoir y débarquer les 58 migrants secourus à son bord. Mais Paris y semblait peu favorable, évoquant plutôt une « solution européenne ».

      « Aujourd’hui, nous faisons la demande solennelle et officielle aux autorités françaises » de donner, « de manière humanitaire, l’autorisation de débarquer » les rescapés, parmi lesquels 17 femmes et 18 mineurs, a indiqué le directeur des opérations de SOS Méditerranée, Frédéric Penard.

      Il est pour l’instant impossible de prévoir « quand le navire arrivera » sur les côtes françaises, a souligné M. Penard lors d’une conférence de presse à Paris, l’Aquarius étant « toujours susceptible d’être mobilisé » pour une opération de sauvetage.

      Mais il faudrait « environ quatre jours » au navire, qui se trouve actuellement au large de la Libye, pour gagner Marseille, a précisé Francis Vallat, le président de l’ONG en France.

      Depuis le début de la crise provoquée cet été par la fermeture des ports italiens aux migrants, la France n’a jamais accepté de laisser débarquer les navires humanitaires, arguant qu’en vertu du droit maritime les naufragés doivent être débarqués dans le « port sûr » le plus proche.

      « Nous avons alerté d’autres pays mais nous avons du mal à imaginer que la France puisse refuser, compte tenu de la situation humanitaire », a ajouté M. Vallat. Sans préjuger de la réponse, il a assuré qu’à aucun moment les autorités, qui ont été prévenues en amont, « ne nous ont dissuadés de monter vers Marseille ».

      Mais Paris semblait dans la soirée peu favorable à cette hypothèse. Contacté par l’AFP, Matignon a d’abord indiqué chercher « une solution européenne » selon le principe du « port sûr le plus proche ». « Et en l’occurrence ce n’est pas Marseille », a ensuite précisé le porte-parole du gouvernement, Benjamin Griveaux, sur Canal+.

      Pour SOS Méditerranée et Médecins sans frontières (MSF), qui ont affrété le navire, la situation est également « extrêmement critique » parce que le navire risque de perdre le pavillon du Panama au moment de toucher terre, a fait valoir M. Penard. Regagner Marseille, port d’attache du navire et siège de SOS Méditerranée, est donc crucial pour « mener ce combat, qui va être difficile, pour repavilloner l’Aquarius ».

      – « Du jamais vu » -

      Les autorités maritimes panaméennes ont annoncé samedi qu’elles allaient retirer son pavillon à l’Aquarius, déjà privé en août de pavillon par Gibraltar, pour « non-respect » des « procédures juridiques internationales » concernant le sauvetage de migrants en mer Méditerranée.

      « Du jamais vu et en soi un scandale », selon M. Vallat, qui a demandé au Panama « de revenir sur sa décision » et sinon aux Etats européens de fournir un pavillon à l’Aquarius. « Nous ne voulons pas nous arrêter, nous ne cèderons qu’à la force ou à la contrainte », a-t-il lancé.

      Les deux ONG avaient précédemment dénoncé « la pression économique et politique flagrante exercée par le gouvernement italien » sur les autorités panaméennes — allégation contestée par le ministre italien de l’Intérieur Matteo Salvini.

      Aujourd’hui « l’Aquarius est le seul navire civil en Méditerranée centrale, qui est la route maritime la plus mortelle du monde », a fait valoir SOS Méditerranée, avec « plus de 1.250 noyés » depuis le début de l’année.

      Les autres navires humanitaires, qui étaient encore une dizaine il y a un peu plus d’un an au large de la Libye, ont quitté la zone pour des raisons diverses. Le Lifeline est bloqué à La Valette où les autorités ont ouvert une enquête administrative, tandis que le Iuventa, soupçonné de collusion avec des passeurs, a été saisi par les autorités italiennes en août 2017.

      « Non seulement les Européens ne mettent pas en place de mécanisme de sauvetage pérenne, mais ils essaient de détruire la capacité de la société civile à répondre à cette crise en Méditerranée », s’est indignée AssiBa Hadj-Sahraoui de MSF.

      Même si on est loin du pic des arrivées de 2015, la question migratoire divise encore profondément l’Europe, qui cherche à empêcher les départs clandestins.

      En juin, l’Aquarius avait déjà été au cœur d’une crise diplomatique, après avoir récupéré 630 migrants au large de la Libye, débarqués en Espagne après le refus de l’Italie et de Malte de les accepter. Le scénario s’était répété en août pour 141 migrants débarqués à Malte.

      https://www.liberation.fr/planete/2018/09/24/l-aquarius-demande-a-accoster-en-france-paris-prefere-une-solution-europe

    • La marine royale ouvre le feu sur un go-fast et fait 1 mort et 3 blessés

      Les personnes à bord étaient toutes marocaines, à l’exception du pilote, espagnol.

      Un bateau qui naviguait dans les eaux marocaines de la Méditerranée, a été, ce mardi 25 septembre, la cible de tirs d’une unité de la marine royale, annonce un communiqué de la préfecture de M’diq-Fnideq. L’embarcation avait refusé de se conformer aux avertissements qui lui avaient été adressés, poursuit le communiqué.

      Le bateau rapide de type “Go fast”, qui a été arrêté, était piloté par un citoyen espagnol et transportait des candidats à l’immigration clandestine, selon les données initiales rapportées par la préfecture. Les migrants à bord seraient quant à eux de nationalité marocaine, rapportent 2M.ma.

      La #fusillade a causé 4 blessés qui ont été transférés à l’hôpital régional de Fnideq pour recevoir les traitements nécessaires.

      Une première information rapportée par nos confrères de 2M, citant une source hospitalière dans un post sur Twitter, indiquait qu’une femme parmi les blessés avait succombé à ses blessures à l’hôpital. Ce post a été supprimé dans la soirée, avant de repartager l’info après 22h.

      https://www.huffpostmaghreb.com/entry/la-marine-royale-ouvre-le-feu-sur-un-go-fast-et-fait-un-mort-et-tro
      #Maroc

      Une des victimes:
      Una joven, víctima de los disparos de la Marina Real de Marruecos cuando huía a España


      https://elpais.com/politica/2018/09/26/actualidad/1537984724_391033.html?id_externo_rsoc=TW_CC

    • L’"Aquarius", un bateau pirate ? Quatre questions sur l’imbroglio juridique qui menace le navire humanitaire

      Le Panama a décidé de retirer le pavillon accordé cet été au bateau géré par l’ONG SOS Méditerranée, remettant en cause sa mission de sauvetage de migrants récupérés au large de la Libye.

      Les obstacles à la navigation de l’Aquarius s’accumulent. Le Panama a annoncé, samedi 22 septembre, qu’il allait retirer son pavillon au navire humanitaire, alors que celui-ci cherche un port pour débarquer 58 naufragés secourus au large de la Libye. L’Aquarius avait repris ses activités de sauvetage la semaine dernière après une escale forcée de 19 jours, faute de pavillon, et a annoncé qu’il faisait désormais route vers Marseille. Franceinfo fait le point sur cette décision et ses conséquences pour le navire humanitaire.

      Comment le Panama justifie-t-il cette décision ?

      Les autorités maritimes du Panama se sont fendues d’une explication de quelques lignes dans un communiqué diffusé sur leur site. « L’administration maritime panaméenne a entamé une procédure d’annulation officielle de l’immatriculation du navire Aquarius 2, ex-Aquarius (...) après la réception de rapports internationaux indiquant que le navire ne respecte pas les procédures juridiques internationales concernant les migrants et les réfugiés pris en charge sur les côtes de la mer Méditerranée », établit ce communiqué.

      Le Panama évoque également le fait que le navire s’est déjà vu retirer son pavillon par Gibraltar. En août, le gouvernement de Gibraltar avait révoqué le pavillon de l’Aquarius après lui avoir demandé de suspendre ses activités de sauvetage pour lesquelles il n’est pas enregistré dans le territoire britannique. Le bateau s’était alors tourné vers le Panama.

      L’"Aquarius" a-t-il enfreint le droit international ?

      A quelles « procédures juridiques internationales » le Panama fait-il référence ? L’Etat d’Amérique centrale indique que la principale plainte émane des autorités italiennes, selon lesquelles « le capitaine du navire a refusé de renvoyer des migrants et réfugiés pris en charge vers leur lieu d’origine ».

      Une référence, ici, au refus du navire de ramener en Libye des naufragés qui avaient pris la mer depuis les côtes libyennes, selon Alina Miron, professeure de droit international à l’université d’Angers et spécialisée dans le droit maritime, « puisque tous les naufragés secourus par l’Aquarius, depuis qu’il bat le pavillon panaméen, venaient de Libye », souligne-t-elle à franceinfo.

      Et « de ce point de vue-là, l’Aquarius ne contrevient nullement au droit international », explique Alina Miron. « L’Aquarius a surtout l’obligation de ne pas les ramener en Libye », fait-elle valoir. En effet, les conventions maritimes internationales prévoient que toute personne secourue en mer, quels que soient son statut et sa nationalité, soit débarquée dans un lieu sûr. Or, la Libye n’est pas considérée comme un lieu sûr de débarquement, comme l’a rappelé le Haut-Commissariat pour les réfugiés des Nations unies (HCR) en septembre.

      Quel est le rôle de l’Italie dans cette décision ?

      « Cette révocation résulte de la pression économique et politique flagrante exercée par le gouvernement italien » sur le Panama, ont déclaré les ONG Médecins sans frontières et SOS Méditerrannée, qui gèrent l’Aquarius, dans un communiqué.

      « Le communiqué du Panama établit que les autorités ont pris cette décision suite à une communication avec l’Italie. Cela veut bien dire que le Panama n’a pas pris cette décision de son propre chef, d’autant plus qu’il avait pris le temps de vérifier la situation de l’Aquarius avant de lui accorder son pavillon cet été », souligne de son côté Alina Miron.

      Le communiqué du Panama précise par ailleurs que « l’exécution d’actes portant atteinte aux intérêts nationaux constitue une cause de radiation d’office de l’immatriculation des navires ».

      Cela illustre les pressions de l’Italie qui ont conduit le Panama à prendre cette décision.Alina Miron, spécialiste du droit maritimeà franceinfo

      Qu’est-ce que cela change pour l’"Aquarius" ?

      Le retrait du pavillon panaméen n’est pas effectif immédiatement. Les conventions internationales établissent qu’aucun changement de pavillon ne peut intervenir au cours d’un voyage ou d’une escale. L’Aquarius conserve donc son pavillon pendant toute la durée de son voyage, jusqu’à ce qu’il rejoigne son port d’attache au Panama ou qu’il fasse une longue escale technique.

      « Ça, c’est en théorie, détaille Alina Miron, mais le Panama a créé une situation de confusion et certaines marines nationales, notamment la marine libyenne, vont utiliser cette confusion pour considérer l’Aquarius comme un navire sans nationalité. » Or, les marines nationales peuvent exercer des pouvoirs de police sur des navires sans nationalité en haute mer, ce qui est impossible sur un navire qui bat pavillon, développe la juriste. « Le risque le plus immédiat, pour l’Aquarius, c’est que la marine libyenne monte à bord pour opérer des vérifications, même sans accord du capitaine », explique Alina Miron.

      Face à cette situation, SOS Mediterrannée et Médecins sans frontières « demandent aux gouvernements européens d’autoriser l’Aquarius à poursuivre sa mission, en intercédant auprès des autorités panaméennes et en réaffirmant que les menaces de rétorsion formulées à leur égard par les autorités italiennes sont infondées, ou en lui délivrant immédiatement un nouveau pavillon sous lequel naviguer ».

      https://mobile.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/aquarius/l-aquarius-un-bateau-pirate-quatre-questions-sur-l-imbroglio-juridique-qui-menace-le-navire-humanitaire_2954663.html#xtref=http://m.facebook.com

    • Aquarius, "Stati Ue concedano bandiera”. E spunta l’ipotesi Vaticano

      Dopo le pressioni Panama cancella Aquarius II dal suo registro. Penard (Sos Mediterranée): “Stati che dicono di aderire a solidarietà propongano soluzione”. Lodesani (Msf): “Stanchi di menzogne e attacchi, nostro obiettivo salvare vite, a bordo anche famiglie libiche che scappano da inferno”

      Un appello a tutti gli Stati europei, in particolare a quelli che “ripetono di aderire a valori di solidarietà” perché consentano l’iscrizione della bandiera della nave Aquarius II, in uno dei loro registri nazionali. “L’unico gesto concreto per rendere ancora possibile il salvataggio in mare di persone in difficoltà all’ultima nave di ong rimasta nel Mediterraneo”. Lo hanno ribadito in una conferenza stampa oggi a Roma Frederic Penard, direttore delle operazioni Sos Mediterranee e Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere.

      Il caso politico diplomatico è noto: dopo gli ultimi salvataggi in mare operati da Aquarius II, a largo della Libia, e il rifiuto di riconsegnare le persone alla cosiddetta guardia costiera libica, Panama ha comunicato di voler ritirare la sua bandiera alla nave, per evitare di avere “problemi politici” con l’Italia. Ma l’assenza di una bandiera vuol dire di fatto fermare la nave. “Per noi è stato uno shock - spiega Penard - In questo momento siamo l’ultima nave a fare ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Per l’iscrizione al registro di Panama abbiamo fornito oltre 70 certificazioni alle autorità, siamo perfettamente in regola e abbiamo sempre agito nella legalità - aggiunge il responsabile di Sos Mediterranèe -. Abbiamo chiesto spiegazioni, anche per capire il perché di questo passo indietro”. Le due ong spiegano che in una nota riservata dell’autorità marittima panamense inviata all’ armatore di Aquarius, si dice esplicitamente che la nave deve essere esclusa dal registro perché la sua permanenza provocherebbe un “problema politico” con l’Italia. L’armatore di Aquarius ha parlato esplicitamente di “pressioni politiche” sul governo panamense.

      “La nostra richiesta è che Panama torni indietro sulla sua decisione, riconsiderandola - aggiunge Penard -. Inoltre chiediamo agli Stati europei di proporre una soluzione per Aquarius, e alla società civile di fare pressione sui propri governi per sostenere il nostro lavoro, il soccorso in mare non può essere criminalizzato”. In queste ore alcuni parlamentari si sono mossi in Svizzera per chiedere che il governo elvetico conceda la propria bandiera.

      Un appello dal basso, che inizia a circolare anche sui social, chiama in causa anche il Vaticano: “Non so se sia possibile, ma se lo fosse, sarebbe bello che il Vaticano offrisse la propria bandiera alla nave Aquarius - sottolinea don Luca Favarin, parroco di Padova su Facebook-. Una chiesa in acqua non farà mai acqua. Così limpidamente e semplicemente schierata dalla parte degli ultimi, sbilanciata sui diritti dei poveri”. Penard ha spiegato di non aver contattato direttamente nessuno stato, e che l’appello vale per tutti quindi semmai fosse offerto il registro Vaticano sarebbe accettato con favore, anche se “probabilmente quel registro, che esiste, non viene usato da secoli”.

      Intanto, le due organizzazioni non nascondono il malumore per i continui attacchi politici, e mediatici, nei confronti del loro operato. "Siamo stanchi di menzogne, attacchi e intimidazioni, di essere additati come quelli che violano le norme internazionali. È il momento di accusare chi sono i veri responsabili del business degli scafisti: le scellerate politiche europee” sottolinea Claudia Lodesani. “Siamo stati chiamati noi vicescafisti - aggiunge - ma oggi gli Stati europei non prendono neanche in considerazione l’ipotesi di pensare a vie legali di ingresso. Sono queste politiche che aiutano gli scafisti, non certo noi. Il nostro obiettivo è la salvaguardia della vita umana e in nome di questo operiamo salvataggi in mare”. Lodesani ricorda che dall’inizio dell’anno, pur a fronte di una diminuzione di arrivi dell’80 per cento, ci sono già stati 1260 morti in mare. “Siamo passati da 1 morto ogni 32 a 1 morto ogni 18 - Ostacolare il soccorso e l’azione umanitaria vuol dire solo eliminare testimoni scomodi dal Mediterraneo. La vita delle persone non è più al centro delle politiche, ma ora le persone sono usate come ostaggio dalla politica - aggiunge - . Questa situazione è responsabilità è di tutti i paesi europei, anche perché parlando di poche persone. Inoltre, bisogna ricordare che il salvataggio in mare va distinto dall’accoglienza ed è governato da leggi internazionali. Va assicurato il porto più sicuro e più vicino di sbarco. Poi - continua - come sempre abbiamo fatto, chiediamo la solidarietà europea nell’accoglienza”.

      Tra le 58 persone tratte in salvo da Aquarius II nel Mediterraneo ci sono anche 37 libici: “ si tratta di famiglie che scappano dall’Inferno della Libia, un paese attualmente in guerra. E che quindi non può essere considerato un luogo sicuro, le persone non possono essere respinte in Libia. Ci chiediamo se riportarle in quell’inferno sia etico e se sia legale”. “Tra le altre persone a bordo - aggiunge Mathilde Auvillain, di Sos Mediterranée, ci sono 18 minori, 17 donne, di cui una incinta. Ci siamo rifiutati di fare il trasbordo di queste persone sulle motovedette libiche, perché riportarle indietro è illegale”. Lo sbarco, dopo il rifiuto dell’Italia dovrebbe avvenire nei prossimi giorni a Malta, ma non si sa ancora quando. I migranti saranno poi accolti in 4 paesi: Francia, Portogallo, Spagna e Germania.

      “Il soccorso in mare è regolato da principi fondamentali e regole precise - spiega Lorenzo Trucco, presidente di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) - In particolare, dalla Convenzione Soas sulla salvaguardia in mare, dalla Convenzione Sar e dalla Convenzione europea sul soccorso in mare. Tutte queste convenzioni sono state ratificate con leggi in Italia e tutte dicono che il principio primario è la salvaguardia della persona, che va salvata e portata in un luogo sicuro. Per questo la questione libica non è un’opinione, è certificato che non si tratti un luogo sicuro, quello che accade nei centri di detenzione è stato denunciato a settembre anche da Unhcr. Il respingimento di persone in Libia è grave - afferma - La questione del soccorso non è solo diritto ma un obbligo sanzionato da tutte le nazioni. E’ paradossale, quindi, quello che sta succedendo”.

      Duro il commento anche di Filippo Miraglia di Arci sulle pressioni dell’Italia verso il governo panamense: “Msf e Sos Medierranée in questo momento rappresentano tutti noi in mare, mi fa accapponare la pelle pensare che il governo italiano abbia intimidito in maniera mafiosa il governo panamense - afferma - E’ un gesta che fa venire i brividi, come fa venire i brividi il combinato disposto tra la chiusura dei porti e il decreto Salvini. C’è da vergognarsi”.

      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/598417/Aquarius-Stati-Ue-concedano-bandiera-E-spunta-l-ipotesi-Vaticano
      #Vatican

    • Appel à donner le pavillon suisse à l’Aquarius : interview de Guillaume Barazzone

      Le Conseil fédéral doit accorder un pavillon suisse à l’Aquarius, ont demandé mercredi trois parlementaires. Depuis trois jours, ce navire qui porte secours aux migrants en mer Méditerranée, n’a plus de drapeau. Interview de Guillaume Barazzone (PDC/GE), l’un des auteurs de cette interpellation.

      https://www.rts.ch/play/radio/forum/audio/appel-a-donner-le-pavillon-suisse-a-laquarius-interview-de-guillaume-barazzone?i

    • Vive émotion au Maroc après les tirs meurtriers de la marine sur un bateau de migrants

      La jeune femme tuée tentait d’atteindre l’Espagne. Un trajet de plus en plus emprunté, sur fond de tension migratoire accrue dans le royaume.

      L’émotion était vive au Maroc, mercredi 26 septembre, au lendemain de la mort d’une femme de 22 ans, originaire de la ville de Tétouan, tuée alors qu’elle tentait d’émigrer vers l’Espagne. Selon les autorités locales, la marine a été « contrainte » d’ouvrir le feu alors qu’un « go fast » (une puissante embarcation à moteur) piloté par un Espagnol « refusait d’obtempérer » dans les eaux marocaines au large de M’diq-Fnideq (nord). Outre la jeune Marocaine décédée, trois autres migrants ont été blessés, a confirmé une source officielle à l’AFP.

      Le drame s’est produit dans un contexte de tension migratoire au Maroc, confronté à une forte hausse des tentatives d’émigration depuis ses côtes et autour des enclaves espagnoles de Ceuta et Melilla. Rabat a ainsi indiqué avoir empêché 54 000 tentatives de passage vers l’Union européenne depuis janvier. De son côté, le Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) chiffre le nombre d’arrivées en Espagne à quelque 40 000 personnes depuis le début de l’année (contre 28 000 en 2017 et 14 000 en 2016).

      Rafles et éloignements forcés

      La route migratoire Maroc-Espagne, qui était très utilisée il y a une dizaine d’années, a connu une nouvelle hausse d’activité depuis le renforcement des contrôles sur la Libye et les témoignages d’extrême violence contre les migrants par les réseaux de passeurs dans ce pays. Mais le Maroc voit également augmenter le nombre de ses nationaux candidats au départ, poussés par l’absence de perspectives dans un pays où 27,5 % des 15-24 ans sont hors du système scolaire et sans emploi. Selon le HCR, les Marocains représentaient 17,4 % des arrivées en Espagne en 2017, la première nationalité devant les Guinéens et les Algériens.

      Depuis 2015, le palais royal avait mis en avant une nouvelle politique migratoire avec deux campagnes de régularisation de 50 000 clandestins, principalement des Subsahariens. Mais ces derniers mois, le royaume a considérablement durci ses pratiques, multipliant les rafles et les éloignements forcés. Selon le Groupe antiraciste de défense et d’accompagnement des étrangers et migrants, une association marocaine, 6 500 personnes ont ainsi été arrêtées et déplacées du nord du pays vers des villes reculées du centre et du sud entre juillet et septembre.

      Le gouvernement a eu beau plaider que ces déplacements se font dans le « respect de la loi », les associations dénoncent des violences et l’absence de cadre légal concernant ces pratiques. Mi-août, deux migrants sont morts après avoir sauté du bus qui les éloignait de Tanger. Amnesty International a souligné une « répression choquante », « à la fois cruelle et illégale ». « Depuis fin juillet, la police marocaine ainsi que la gendarmerie royale et les forces auxiliaires procèdent à des raids majeurs dans les quartiers de plusieurs villes où vivent les réfugiés et les migrants, d’une intensité particulière dans les provinces du nord du pays de Tanger, Nador et Tétouan, qui bordent la frontière espagnole », écrit l’ONG. Les zones entourant les deux enclaves espagnoles en terre africaine, Ceuta et Melilla, sont traditionnellement le lieu de regroupement des migrants qui veulent tenter de rejoindre l’Europe.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2018/09/27/vive-emotion-au-maroc-apres-les-tirs-meurtriers-de-la-marine-sur-un-bateau-d

    • Migranti, la sfida delle associazioni italiane: una imbarcazione nel Mediterraneo per salvarli

      Ong e Onlus hanno organizzato un’imbarcazione battente la bandiera del nostro Paese per «un’azione di disobbedienza morale contro gli slogan delle destre nazionaliste e di obbedienza alle leggi del mare, del diritto internazionale e della Costituzione»

      A BORDO DELLA NAVE APPOGGIO BURLESQUE - Il rimorchiatore battente bandiera italiana “Mare Ionio” è partito nella notte di mercoledì dal porto di Augusta alla volta della costa Libica. Si tratta della prima missione in acque internazionali completamente organizzata in Italia ed è stata ribattezzata “Mediterranea”.
      Il progetto, promosso da varie associazioni (tra cui Arci nazionale, Ya Basta di Bologna, la Ong Sea-Watch, il magazine online I Diavoli e l’impresa sociale Moltivolti di Palermo) e sostenuto politicamente e finanziariamente da Nichi Vendola e tre parlamentari di Leu (Nicola Fratoianni, Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni). E’ stato avviato nello scorso luglio ed ha preso corpo nei mesi successivi. L’attività del “Mar Ionio” sarà ufficialmente circoscritta di “monitoraggio, testimonianza e denuncia”, spiegano gli organizzatori. Tuttavia tra le dotazioni a disposizione del “Mare Ionio” ci sono anche gli equipaggiamenti per il Sar, l’attività di search and rescue per la quale però non è abilitato.

      Nelle prossime ore l’imbarcazione, seguita dalla barca appoggio Burlesque (uno sloop Bavaria 50 battente bandiera spagnola con a bordo giornalisti nazionali e internazionali, attivisti e mediatori culturali), entrerà in azione nella stessa zona in cui da qualche giorno incrocia il veliero Astral dell’ong spagnola Open Arms, più volte definita dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, un “taxi del mare”.

      “Non potevamo più stare a guardare – dicono da bordo gli attivisti - bisognava agire e trovare il modo di contrastare il declino culturale e morale che abbiamo davanti. Quella di Mediterranea è un’azione di disobbedienza morale ed al contempo di obbedienza civile. Disobbediamo al prevalente del discorso pubblico delle destre nazionaliste obbedendo alle leggi del mare, del diritto internazionale e della nostra Costituzione che prevedono l’obbligatorietà del salvataggio di chi si trova in condizioni di pericolo”.


      https://www.repubblica.it/cronaca/2018/10/04/news/migranti_una_nave_delle_ong_italiane_nel_mediterraneo_per_salvarli-208134

      –-> reçu par la mailing-list Migreurop, en commentaire de l’article italien:

      FR : Plusieurs ONG ont organisé un bateau battant le drapeau de l’Italie comme une « action de désobéissance morale contre les slogans des droites nationalistes et d’obéissance aux droits de la mer, au droit international et à la Constitution »
      Le remorqueur battant le drapeau italien « #Mare_Ionio » est parti dans la nuit de mercredi du port d’Auguste (Sicile) vers les côtes libyennes. C’est la première mission en eaux internationales entièrement organisée en Italie et a été nommée « #Mediterranea ».
      Le projet, à l’initiative de diverses associations (dont Arci, Ya Basta de Bologne, l’ONG Sea-Watch, la revue en ligne I Diavoli et Moltivolti de Palerme) est politiquement soutenue et financée par Nichi Velonda et trois autres parlementaires LeU (Nicola Fratoianni, Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni).
      Le projet a commencée en juillet dernier et a pris forme dans les mois suivants. L’activité de « Mare Ionio » sera officiellement circonscrite à celles de la « surveillance, le témoignage et la dénonciation », expliquent les organisateurs. Cependant, parmi les équipements et les dispositifs du « Mare Ionio », on retrouve des équipements Sar, l’activité de Search and Rescue pour laquelle il ne dispose pas d’habilitation.
      Dans les prochaines heures, l’embarcation, suivie par le bateau Burlesque (un voilier Bavaria 50 battant le drapeau espagnol, avec à bord des journalistes nationaux et internationaux, des activistes et des médiateurs culturels), entrera en action dans la même zone que le voilier Astral de l’ONG espagnole Open Arms, défini à plusieurs reprises comme un « taxi de la mer » par le ministre de l’Intérieur Matteo Salvini.

    • New Italian-flagged migrant rescue ship heads into Mediterranean

      A new Italian-flagged migrant rescue ship was headed for the waters off Libya on Thursday, one of the aid groups running the boat said, after similar vessels were prevented from operating.

      “The #MareJonio is on its way!” Sea-Watch tweeted. “In cooperation with #Mediterranea we are back at sea, to keep a sharp lookout and to challenge the European policy of letting people drown.”

      The announcement came on the same day that the Aquarius rescue ship sailed into Marseille harbour and an uncertain fate after Panama pulled its flag, meaning it cannot leave port without a new flag.

      The Mare Jonio is a tug flying the Italian flag that left Augusta in Sicily on Wednesday evening, headed south, maritime tracking websites said. The 37-metre vessel – around half the length of the Aquarius – is not intended to rescue migrants and bring them to a safe port, but to spot and secure migrant-carrying boats that are in distress.

      It will also provide a civilian presence in an area where they say the Libyan coastguard and international military vessels are failing to rescue people, despite several shipwrecks in September. Spanish NGO Proactiva Open Arms sent the Astral sailboat to the area on a similar mission a few days ago.

      The Astral was off the coast of Lampedusa on Wednesday to commemorate the fifth anniversary of a shipwreck there in which 366 migrants died in 2013. The disaster pushed Italy to launch its Mare Nostrum military operation to rescue migrants making the perilous journey from North Africa to Europe.

      Since then European Union and NGO boats have joined in, although most of the aid group boats have now stopped work, some because of what they say are trumped-up administrative charges.

      The International Organisation for Migration says that around 15,000 migrants have drowned in the central Mediterranean since the Lampedusa disaster. During the same period Italy has received around 600,000 migrants on its coast, while other European nations have closed their borders.

      Italy’s former centre-left government tried to stem the flow of migrants by working with the Libyan authorities and limiting the NGO effort. Anti-immigrant Deputy Prime Minister Matteo Salvini, who came to power as part of a populist government in June, has since then closed Italian ports to civilian and military boats that have rescued migrants, saying Italy bears an unfair share of the migrant burden.


      https://www.thelocal.it/20181004/new-italian-flagged-migrant-rescue-ship-heads-into-mediterranean
      #Mare_Jonio

    • Tweet de Matteo Villa:

      Tutto sbagliato nella missione di #Mediterranea. Un disastro pronto per succedere, sotto tutti i punti di vista: tecnico, logistico, politico. Non è così che si fa salvataggio in mare. E non è così che si fa azione politica.
      Il problema è molteplice. Non si va in mare: (a) con gente impreparata; (b) con navi scassate e che contengono a malapena l’equipaggio; (c) con intenti solo politici, senza possibilità di salvare vite; (d) con lo scopo di forzare, portando violenza dove dovrebbe esserci soccorso.

      https://twitter.com/emmevilla/status/1047886597071548416

    • Italian-flagged migrant rescue boat defies anti immigration minister

      Vessel Mare Jonio sets out towards Libya despite Matteo Salvini clampdown on rescued migrants entering Italian ports

      The first non-military, Italian-flagged, rescue boat to operate in the Mediterranean since the migration crisis began has left for waters off Libya, in a direct challenge to Italy’s far-right interior minister, Matteo Salvini.

      NGO rescue boats have all but disappeared from the main migration routes since Salvini announced soon after taking office this summer that he was closing Italian ports to non-Italian rescue vessels.

      The Italian flag on the 38-metre Mare Jonio will make it harder for Salvini to prevent it from docking, though he could still move to prevent people from disembarking. The boat has been bought and equipped by a coalition of leftwing politicians, anti-racist associations, intellectuals and figures in the arts, under the supervision of two NGOs. Its mission has been called Mediterranea.
      “We want to affirm a principle of humanity that rightwing policies seem to have forgotten,” Erasmo Palazzotto from the leftwing LeU (Free and Equal) party said.

      Anti-immigration policies by the Maltese and Italian governments, which have closed their ports to rescue vessels, have driven a sharp decrease in rescue missions. People seeking asylum are still attempting the risky crossing. But without the rescue boats, shipwrecks are likely to rise dramatically.
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      In August, Salvini refused a landing to 177 people saved in the central Mediterranean by an Italian coastguard ship. The vessel was authorised to dock at the port of Catania but the people on board were forced to remain on board for almost a week.

      ‘‘Should we expect Salvini to close the ports to us too? We are an Italian boat, flying the Italian flag. They will have to answer to this,” Palazzotto said. “If they then attempt to refuse to let the migrants disembark we will not remain silent and will give voice to them from the ship.”

      The ship has received support from the Spanish NGO Pro-Activa and the aid group Seawatch, as well as the writer Elena Stancanelli and the film director Paolo Virzì.

      “This is a moral disobedience mission but also a civil obedience one,” the Mediterranea mission’s press office said in a statement. “We will disobey nationalism and xenophobia. Instead we will obey our constitution, international law and the law of the sea, which includes saving lives.”

      The death toll in the central Mediterranean has fallen in the past year, but the number of those drowning as a proportion of arrivals in Italy has risen sharply in the past few months, with the possibility of dying during the crossing now three times higher. So far in 2018, 21,041 people have made the crossing and 1,260 have died.

      https://www.theguardian.com/world/2018/oct/04/italian-flagged-migrant-rescue-boat-mare-jonio-sets-sail-in-challenge-t

    • Giovedì 4 ottobre – ore 16.25 – Salvini: “Nave Mediterranea? In Italia non ci arrivate”. “Ho saputo che c’è una nave dei centri sociali che vaga per il Mediterraneo per una missione umanitaria e proverà a sbarcare migranti in Italia. Fate quello che volete, prendete il pedalò. Andate in Tunisia, Libia o Egitto, ma in Italia nisba”. Lo ha detto il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini in una diretta Facebook con riferimento alla nave italiana Mediterranea, salpata oggi per svolgere un’attività di monitoraggio, testimonianza e denuncia della situazione nel Mediterraneo.

      “Potete raccogliere chi volete però in Italia non ci arrivate”, ha aggiunto Salvini.

      https://www.tpi.it/2018/10/05/governo-ultime-news

    • *Perché la missione umanitaria «Mediterranea» rischia di diventare un boomerang*

      Mezzi inadeguati, personale non preparato, ricerca dello scontro diplomatico. «Politicizzare i salvataggi in mare rischia di non portare benefici», dice Matteo Villa dell’Ispi.

      Una piccola missione umanitaria nel Canale di Sicilia rischia di compromettere le operazioni di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, già rese complesse dalla politica dei respingimenti adottata dal governo italiano. Nella notte tra mercoledì e giovedì il piccolo rimorchiatore Mare Jonio è salpato dal porto di Augusta per dirigersi verso le acque sar (search and rescue) della Libia, nell’ambito dell’operazione denominata “Mediterranea”. La missione è stata preparata in gran segreto durante gli ultimi mesi e coinvolge ong (Sea Watch), associazioni (Ya Basta Bologna e Arci), e politici (Fratoianni, Palazzotto, Vendola e Muroni) che hanno raccolto i finanziamenti necessari. L’obiettivo – spiega il sito di “Mediterranea” – è quello di svolgere l’“essenziale funzione di testimonianza, documentazione e denuncia di ciò che accade in quelle acque, e che oggi nessuno è più messo nelle condizioni di svolgere”. Quasi un assist per il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che l’ha subito definita una «nave di scalcagnati dei centri sociali che va a prendere tre merluzzetti». «E’ una sentinella civica, benvenga», ha commentato invece l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, ribadendo la scarsa condivisione di vedute con la Lega in tema di immigrazione.

      Mare Jonio è un’imbarcazione datata – varata nel 1972 – e rimessa a nuovo per l’occasione, ma soprattutto piccola, con appena 35 metri di lunghezza e 9 di larghezza. E’ coadiuvata dal veliero Astral dell’ong Proactiva Open Arms, l’unica nave umanitaria ancora attiva nel Mediterraneo centrale (anch’essa con soli compiti di osservazione) e da una goletta con a bordo giornalisti e mediatori culturali. Degli 11 membri dell’equipaggio a bordo del Mare Jonio, fatta eccezione per due operatori dell’ong Sea Watch, nessuno ha esperienze di operazioni sar in mare. La nave è dotata di un solo Rhib (la sigla sta per Rigid Inflatable boats), uno dei piccoli motoscafi adatti a svolgere salvataggi, anche in condizioni difficili. Un container è stato invece adattato a ospedale di bordo, pronto a prestare soccorso in caso di emergenza.

      Nonostante la missione voglia essere una risposta delle ong alla campagna anti-migranti voluta dal governo gialloverde, le criticità sono diverse. “L’idea di fondo, quella di aumentare l’attenzione generale nel Mediterraneo, è giusta. Ma politicizzare i salvataggi in mare rischia di non portare benefici, soprattutto nel lungo periodo”, spiega al Foglio Matteo Villa dell’Ispi. Secondo il ricercatore, che da anni studia i flussi migratori attraverso il Mediterraneo, gli strumenti a disposizione di “Mediterranea” sono inadeguati rispetto all’obiettivo della missione: “Pensare di pattugliare una zona tanto vasta con una sola imbarcazione non ha senso, oltre a comportare un esborso eccessivo tra carburante e strumentazione. Se davvero l’attività principale è quella di monitorare, è molto più efficace usare gli aerei, come succede già con i ’Piloti volontari’, attivi con ottimi risultati da maggio”.

      Ma l’aspetto ancora più preoccupante riguarda i rischi cui saranno sottoposti sia i migranti sia l’equipaggio di “Mediterranea”. Dice Villa: “Le perplessità sono tante e sono condivise anche da molti altri operatori umanitari che con professionalità compiono attività sar. Sotto diversi punti di vista, sia logistici sia politici, la missione è pronta a trasformarsi in un disastro a causa della notevole approssimazione con cui è organizzata, dice il ricercatore dell’Ispi. Nella migliore delle ipotesi l’operazione potrebbe risolversi in una magra figura, come già successo un anno fa con ’Defend Europe’, la nave anti-ong partita per ostacolare le missioni umanitarie e poi finita in avaria”. Ma potrebbero crearsi anche circostanze più complesse. “In caso di identificazione di un barcone in emergenza non è chiaro come si comporterà Mare Jonio. Sulla base di quanto avviene già adesso, è probabile che contatterà il comando Mrcc di Roma che coordina le operazioni di salvataggio e che, a sua volta, contatterà le autorità libiche. Nel caso di intervento delle motovedette di Tripoli potrebbe succedere di tutto: il rimorchiatore come intende agire? Interverrà? Segnalerà l’emergenza e basta?”, si chiede Villa. Per non parlare delle difficoltà logistiche: “In quei momenti concitati i migranti, soprattutto alla vista delle motovedette libiche, sono presi dal panico, molti si gettano in acqua per paura di essere riportati indietro. A bordo del rimorchiatore pare possano essere raccolte poche persone, e certo non per lunghi periodi di tempo”. Andare a cercare lo scontro aperto o l’incidente diplomatico per riaccendere l’attenzione dei governi sui salvataggi in mare può trasformarsi in un boomerang per le ong. La mobilitazione è figlia senza dubbio della politica migratoria più stringente adottata dal governo italiano. “Ma affidare a gruppi antagonisti le operazioni di salvataggio, senza una preparazione e una visione di lungo periodo – conclude Villa – rischia di essere controproducente per chi ritiene i salvataggi in mare una questione molto seria”.

      https://www.ilfoglio.it/cronache/2018/10/05/news/perche-la-missione-umanitaria-mediterranea-rischia-di-diventare-un-boomeran

    • « On doit veiller à ce que ces gens ne se noient pas »

      L’Aquarius vient de perdre pour la deuxième fois son pavillon. Le navire de sauvetage fait route vers Malte avec 58 migrants à son bord. Sans pavillon, il devrait interrompre sa mission. Des parlementaires demandent qu’on lui donne le pavillon suisse.

      Avec les organisations d’entraide Médecins sans frontières (MSFLien externe) et SOS MéditerranéeLien externe, l’Aquarius sauve des migrants en détresse. Il est le dernier navire de sauvetage non gouvernemental en Méditerranée centrale. Depuis que l’Italie a fermé ses ports aux bateaux humanitaires, toutes les ONG se sont retirées du secteur.

      Le week-end dernier, le Panama a annoncé qu’il retirerait son pavillon à l’Aquarius, car celui-ci n’aurait pas respecté le droit international de la mer. En août, Gibraltar avait déjà biffé le navire de son registre maritime. Sans pavillon, l’Aquarius ne peut plus remplir ses missions de sauvetage.

      Cette semaine, trois parlementaires suisses ont demandé, par voie d’interpellation, un geste humanitaire de la Suisse, afin qu’elle accorde son pavillon à l’Aquarius. L’un d’eux est #Kurt_Fluri, conseiller national du Parti libéral-radical et maire de la ville de Soleure. Interview.

      swissinfo.ch : Vous avez la réputation d’être un politicien réaliste. Cette idée humanitaire a-t-elle des chances de passer ?

      Kurt Fluri : Ce qui nous émeut, ce sont les tragédies qui se jouent en Méditerranée. Et c’est peut-être une solution possible pour atténuer le problème. Je ne sais pas si c’est une illusion. C’est pourquoi nous posons la question au gouvernement.
      La Suisse n’a qu’une petite flotte marchande de 30 navires. Pourquoi devrait-elle précisément accorder son pavillon à un bateau de sauvetage ?

      Nous sommes tous d’accord qu’il s’agit d’une situation tout à fait exceptionnelle. Pour moi, cela ne change rien au fait que l’on devrait faire en sorte que ces gens n’essaient même pas de traverser la Méditerranée. Mais s’ils le font quand même, on doit veiller à ce qu’ils ne se noient pas et à ce qu’ils soient admis en Europe.
      Selon la loi, le pavillon suisse est réservé aux navires de commerce. S’il faut modifier la loi pour répondre à votre demande, cela va prendre beaucoup de temps pour que l’Aquarius puisse hisser le pavillon suisse. Or, il a besoin d’une solution rapide…

      Le sens de notre interpellation, c’est de clarifier à quelles conditions il serait possible d’arriver à quelque chose. Ce que nous allons faire concrètement dépendra de la réponse du gouvernement.
      Si l’Aquarius battait pavillon suisse, est-ce qu’il n’en résulterait pas automatiquement l’exigence que les migrants qu’il sauve soient conduits en Suisse ?

      Ici comme ailleurs, c’est le système de Dublin qui s’applique. Il définit quel pays est en charge de l’examen de la demande d’asile. Les requérants doivent demander l’asile dans le premier pays de l’UE ou pays signataire de l’accord, comme la Suisse, où ils arrivent. La répartition se fait ensuite.

      Toutefois, l’UE est invitée à décider d’une répartition plus équitable, afin de soulager le plus vite possible les pays méditerranéens, l’Italie, la Grèce et l’Espagne, des réfugiés qui arrivent chez eux.
      Avez-vous pleine confiance en les responsables de ce navire de sauvetage, auquel vous voulez accorder le pavillon suisse ?

      Oui, je fais confiance à ces responsables.
      Le Panama leur a pourtant retiré son pavillon au prétexte qu’ils auraient violé le droit maritime international…

      D’après moi, c’était pour se protéger. Le Panama veut se débarrasser de ce devoir, qui est apparemment devenu un fardeau pour lui.
      MSF et SOS Méditerranée disent que le Panama a retiré son pavillon sur pression de l’Italie. Ça vous paraît possible ?

      Il y a certainement eu des tentatives de pression.
      Cette pression ne pourrait-t-elle pas s’exercer sur la Suisse, si elle intervient ?

      C’est possible. Nous soutenons l’appel lancé à l’UE pour qu’elle décide d’une répartition plus équitable des réfugiés. L’Italie serait alors également satisfaite. Malheureusement, l’UE n’y arrive pas.

      https://www.swissinfo.ch/fre/pavillon-suisse-pour-l-aquarius-_-on-doit-veiller-%C3%A0-ce-que-ces-gens-ne-se-noient-pas-/44434264

    • Nous avons un navire !

      Dans un texte confié à Mediapart, le sociologue et activiste italien #Sandro_Mezzadra revient sur la mise à l’eau du « Mare-Ionio », ce navire battant pavillon italien, affrété jeudi par des activistes de la gauche italienne pour secourir des migrants en Méditerranée, en opposition aux politiques de l’extrême droite au pouvoir à Rome.

      Les noms des victimes résonnent les uns après les autres, des noms sans corps qui racontent une multitude de vies et d’histoires, brisées sur les frontières de l’Europe : le court-métrage de Dagmawi Yimer s’intitule Asmat-Nomi, une des œuvres les plus puissantes et évocatrices sur le naufrage du 3 octobre 2013 [visible ici : https://vimeo.com/114343040]

      . Au fond, l’anonymat est une des caractéristiques qui définissent les femmes, les hommes et les enfants en transit dans la mer Méditerranée — comme dans de nombreux autres espaces frontaliers. Réhabiliter la singularité irréductible d’une existence est le geste extrême de résistance que nous propose Asmat-Noms.

      Cinq ans après ce naufrage, alors que l’on continue de mourir en Méditerranée, nous avons mis un navire à la mer, le Mare-Ionio. Nous l’avons fait après un été marqué par un gouvernement italien qui a déclaré la guerre contre les migrations et contre les organisations non gouvernementales, en fermant les ports et en séquestrant sur un navire de la Garde côtière des dizaines de réfugié.e.s et de migrant.e.s. La criminalisation des opérations « humanitaires » a vidé la Méditerranée des présences gênantes, a repoussé les témoins et a réaffirmé l’anonymat de femmes et d’hommes en transit : à l’abri des regards indiscrets, la Garde côtière libyenne a pu renvoyer aux centres de détention, c’est-à-dire à la torture, à la violence et à l’esclavage, des centaines de personnes, tandis que d’autres ont fait naufrage. Et certains se réjouissent de cela, en criant victoire...

      Cela n’a pas été facile de réaliser la mise à l’eau du Mare-Ionio. La plateforme qui s’est appelée très simplement Operazione Mediterranea n’est pas une ONG : celles et ceux qui ont travaillé à la recherche et à la préparation de l’embarcation ces dernières semaines n’avaient aucune expérience de ce monde associatif. Mais sur les docks de nombreux ports, nous avons rencontré des gens qui nous ont aidé.e.s sur la base de rapports professionnels, mais aussi guidé.e.s par une solidarité instinctive et par l’élan de refus de plus en plus partagé par les gens de la mer, une réponse au mépris de la vie et du droit international — en particulier après l’affaire du navire Diciotti.

      L’expérience et la collaboration de diverses ONG actives ces dernières années dans la Méditerranée ont joué un rôle décisif dans la réalisation de notre projet. L’une d’entre elles (Sea-Watch) fait partie de la plateforme, tandis qu’Open Arms coordonnera ses activités avec les nôtres. D’autre part, l’opération que nous avons lancé affronte ouvertement la criminalisation actuelle des interventions « humanitaires ». Ils sont loin les jours où la « raison humanitaire » pouvait être analysée comme un élément appartenant à un système de gouvernance (des migrations, notamment) bien plus large. Le défi ne peut être que radicalement politique. Il s’agit d’investir en particulier cela : l’affirmation pratique du droit d’un ensemble de sujets non étatiques à intervenir politiquement dans une zone où les « autorités compétentes » violent de manière flagrante le devoir de préserver la vie des gens en transit.

      C’est autour de ce point que la plateforme Operazione Mediterranea : une plateforme ouverte à l’adhésion et à la participation de celles et ceux qui voudront nous soutenir dans les semaines à venir (notamment via un crowdfunding, ce qui est vraiment essentiel pour assurer la réalisation d’un projet ambitieux et prenant). Cet aspect est évidemment fondamental. Mais l’objectif est plus général : il s’agit d’ouvrir, à travers une pratique, un espace de débat, d’action et de conflit à propos des migrations en Italie et en Europe.

      Nous voudrions que notre navire fende la mer, comme la terre des mobilisations qui, sur la question migratoire, se sont déployées ces derniers mois, de Vintimille aux Pouilles, de Catane à Milan ; nous voudrions que le Mare-Ionio devienne une sorte de forum, que des milliers de femmes et d’hommes se l’approprient, qu’il soit présent sur les places et dans les rues, que de lui se propagent des récits d’une migration radicalement différente de celle incarnée par les menaces et les décrets de Salvini : nous voudrions que le navire soit un instrument pour proposer une Italie et une Europe autres.

      Nous ne sous-évaluons pas la difficulté de cette période. Nous savons que nous agissons en tant que minorité, que nous devons affronter une hégémonie qui nous est hostile concernant la migration ; nous savons que ces derniers mois l’équation entre le migrant et l’ennemi (à laquelle même des forces politiques qui ne se définissent pas de droite ont donné une contribution essentielle) a été exacerbée, autorisant et promouvant la diffusion en Italie d’un racisme de plus en plus agressif. Mais nous savons aussi que cette hégémonie peut et doit être renversée, en assumant les risques et le hasard qui sont inévitables. L’opération qui a commencé ce 3 octobre, date chargée d’une valeur symbolique, est une contribution qui va dans ce sens.

      Un navire, comme le disait C.L.R. James dans son grand livre sur Melville (écrit en 1952 dans une cellule d’Ellis Island, en attendant son expulsion des États-Unis pour « activité anti-américaine »), n’est au fond qu’un ensemble divers et varié des travaux et des activités à bord, qui littéralement le constituent. Voilà, notre navire ne serait rien sans la passion et l’engagement de centaines de femmes et d’hommes qui ont travaillé et qui travaillent pour le faire naviguer, mais aussi pour construire et démultiplier de nouvelles passerelles entre mer et terre. Un navire, comme le rajoutait James, « est une miniature du monde dans lequel nous vivons ». Dans notre cas, c’est une miniature du monde que nous nous engageons à construire. Et nous sommes certain.e.s que nous serons bientôt des milliers à partager cet engagement.

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/061018/nous-avons-un-navire

    • L’Aquarius, sous pavillon suisse ? Carlo Sommaruga face à Hugues Hiltpod

      Trois parlementaires suisses - Ada Marra (PS/VD) Guillaume Barrazone (PDC/GE) et Kurt Fluri (PLR/SO) - ont déposé à Berne une interpellation pour que notre pays octroie le pavillon national à l’Aquarius. Le navire affrété par SOS Méditerranée, qui est en mer depuis 2016, a recueilli quelque 30 000 personnes en danger de mort. Sur change.org, près de 20 000 personnes ont signé une pétition dans ce sens. Carlo Sommaruga, conseiller national socialiste et Hugues Hiltpold, conseiller national PLR exposent leurs point de vue.

      Pour un pavillon suisse humanitaire

      Carlo Sommaruga, conseiller national socialiste

      La Suisse doit accorder le pavillon à l’Aquarius, le bateau humanitaire affrété par SOS Méditerranée, pour secourir les migrants en perdition en pleine mer. C’est une nécessité humanitaire destinée à sauver des milliers de vies. Un geste qui s’inscrit dans la tradition humanitaire de la Suisse. En cohérence tant avec la générosité de la population suisse pour les populations en difficulté qu’avec la position défendue jusqu’à aujourd’hui par notre pays sur la scène politique et diplomatique internationale. Le dernier rapport de l’Organisation internationale des migrations montre que les traversées de la Méditerranée par des hommes et des femmes de tout âge, accompagnés de leurs enfants, voire de nouveau-nés, ont commencé dès les années 70.

      La cause en est la fermeture progressive de la migration légale par les pays européens, qui ont rejeté les migrants sur les routes clandestines et dangereuses, notamment la Méditerranée. Or, ceux qui depuis des décennies empruntent ces routes ne le font pas par plaisir ou par goût de l’aventure. Comme les Suisses du XIXe siècle dont plus de 500 000 rejoignirent les USA ou les 29 millions d’Italiens qui quittèrent leur pays de 1860 à nos jours, les migrants d’aujourd’hui se mettent en marche pour les mêmes raisons. La croissance démographique et le manque d’opportunités de travail dans les campagnes et dans les villes.

      Aujourd’hui s’ajoutent les affres des dictatures, comme en Érythrée, des conflits civils, comme en Libye, et des guerres internationales, comme en Syrie. En 2013, suite au naufrage de 366 migrants au large des côtes italiennes, le premier ministre Enrico Letta lançait l’opération Mare Nostrum. La marine italienne sauvait plus de 150 000 êtres humains de la noyade en Méditerranée. L’opération fut close en raison de la lâcheté des pays européens qui refusaient de venir en appui à l’Italie. L’Union européenne remplaça le dispositif de sauvetage par un dispositif de défense des frontières géré par Frontex. Depuis lors, ce sont les organisations humanitaires et leurs bateaux qui assument l’immense et courageuse tâche de sauver les naufragés en Méditerranée.

      Les bateaux se nomment Sea-eye, Lifeline, Aquarius et, depuis peu, le Mare Jonio. Au cours des deux dernières années SOS Méditerranée, organisation créée et soutenue par des citoyens européens, par son navire l’Aquarius, a sauvé 29 600 personnes, soit l’équivalent de la population de Lancy. L’Aquarius comme les autres bateaux humanitaires doivent poursuivre leur mission aussi longtemps que les États se défaussent de leurs responsabilités.

      Il est inacceptable que l’Aquarius reste à quai sans pavillon alors que des personnes meurent en pleine Méditerranée. La Suisse neutre doit rester fidèle à ses engagements humanitaires, qu’elle a poursuivi en soutenant le CICR, le HCR et bien d’autres organisations. Elle doit accorder le pavillon. La loi le permet et cela ne coûte rien. Il faut saluer l’intervention de parlementaires du PLR, PDC, Verts et PS dans ce sens, tout comme la lettre adressée ce jour par des personnalités au Conseil fédéral. Refuser le pavillon à l’Aquarius, c’est un choix politique. Celui de mépris de la vie et du rejet de la solidarité humaine. Il faut tous espérer que Conseil fédéral ne s’inscrive pas dans cette logique.

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      Aquarius : le respect de la loi avant tout !

      Hugues Hiltpold, conseiller national PLR

      La crise des migrants en Méditerranée est terrible, personne ne peut le contester. Bon nombre de personnes sont attirées par l’Europe et se livrent à la merci de passeurs peu scrupuleux, avec à la clé de nombreux et épouvantables drames humains. Durant deux ans, le navire humanitaire Aquarius, ancien navire des gardes-côtes allemands battant pavillon panaméen, a secouru près de 30 000 personnes en détresse. Avec un certain succès il faut le reconnaître. Puis, sous pression internationale, il a cessé de battre pavillon panaméen, errant en mer quelque temps à la recherche d’un port d’accueil voulant bien l’accueillir.

      Ayant mouillé l’ancre aujourd’hui à Marseille, il attend de pouvoir naviguer à nouveau, mais a besoin pour ce faire qu’un pays accepte qu’il puisse battre son pavillon. Certains élus fédéraux estiment que ce navire humanitaire devrait battre pavillon suisse. Or, la loi suisse ne le permet tout simplement pas. L’article 3 de la loi fédérale sur la navigation maritime sous pavillon suisse stipule qu’un pavillon suisse ne peut être arboré que par des navires suisses. L’article 35 de cette même loi précise, s’agissant de la navigation non professionnelle, que des exceptions peuvent être autorisées par le Département fédéral des affaires étrangères pour inscrire, dans le registre des navires suisses, un bâtiment exploité par une société suisse ou ayant son siège en Suisse, à des fins notamment humanitaires.

      Cette dérogation doit faire l’objet d’une enquête minutieuse permettant de fixer les conditions de la dérogation, notamment eu égard aux intérêts pour la Suisse de justifier cette dérogation. Il convient de noter qu’une telle dérogation est exceptionnelle. On constate que la situation actuelle du navire humanitaire Aquarius n’est pas conforme à la loi.

      Il n’est pas contesté que l’association SOS Méditerranée, qui exploite l’Aquarius, n’est pas suisse, n’a pas son siège en Suisse et n’a aucune relation particulière avec notre pays.

      Dès lors, permettre à l’Aquarius de battre pavillon suisse reviendrait purement et simplement à bafouer la loi ! Ce faisant, nous violerions de surcroît les accords de Schengen et Dublin qui nous lient avec l’Union européenne, au respect desquels ceux qui voudraient accorder le pavillon Suisse à l’Aquarius sont notoirement attachés. Aussi terrible que soit cette catastrophe humanitaire, elle ne doit pas conduire notre pays à bafouer notre État de droit et le droit international. Il en va de notre crédibilité et du respect de nos institutions.

      https://www.tdg.ch/blog-wch/standard/aquarius-pavillon-suisse-carlo-sommaruga-face-hugues-hiltpod/story/31191020

    • Migrants : le hold-up de la Libye sur les sauvetages en mer

      Cet été, en Méditerranée, la Libye a créé en toute discrétion sa propre « zone de recherche et de secours », où ses garde-côtes sont devenus responsables de la coordination de tous les sauvetages, au grand dam de l’Aquarius et des ONG. Enquête sur une décision soutenue par l’Union européenne qui jette toujours plus de confusion en mer.

      Vu de loin, c’est un « détail ». Un simple ajout sur une carte maritime. Cet été, la Libye a tracé une ligne en travers de la Méditerranée, à 200 kilomètres environ au nord de Tripoli. En dessous, désormais, c’est sa zone SAR (dans le jargon), sa « zone de recherche et de secours ». Traduction ? À l’intérieur de ce gigantesque secteur, les garde-côtes libyens sont devenus responsables de l’organisation et de la coordination des secours – en lieu et place des Italiens.

      Pour les navires humanitaires, la création de cette « SAR » libyenne, opérée en toute discrétion, est tout sauf un « détail ». Il n’est pas un sauveteur de l’Aquarius, pas un soutier du Mare Jonio ni de l’Astral (partis relayer sur place le bateau de SOS Méditerranée) qui ne l’ait découvert avec stupeur. Car non seulement les garde-côtes libyens jettent leurs « rescapés » en détention dès qu’ils touchent la terre ferme, mais certaines de leurs unités sont soupçonnées de complicité avec des trafiquants et leurs violences sont régulièrement dénoncées.

      Pour les migrants qui s’élancent en rafiot de Sabratha ou Zaouïa, ce « détail » est surtout une trahison supplémentaire : l’Union européenne a budgété plus de 8 millions d’euros en 2017 pour aider Tripoli à créer cette zone « SAR » bien à elle. Alors que les vingt-huit ministres de l’intérieur doivent discuter vendredi 12 octobre du renforcement des frontières de l’UE, Mediapart a enquêté sur ces trois petites lettres qui mettent les humanitaires en colère et jettent la confusion en mer.

      Pour comprendre, il faut d’abord savoir que la Libye, comme n’importe quel État côtier, est souveraine dans ses « eaux territoriales ». Sur cette bande de 19 kilomètres, les garde-côtes de Tripoli ont toujours joué à domicile et jamais l’Aquarius n’y aventurerait sa quille. Mais au-delà, la Méditerranée se complique, elle se découpe en zones SAR : celle de l’Italie ici, celle de la Grèce là-bas, celles de Malte ou encore de l’Égypte, toutes déclarées auprès de l’Organisation maritime internationale (OMI), chacune associée à un « centre de coordination des secours » national (ou MRCC), qui reçoit l’ensemble des signaux de détresse émis dans sa zone, de même que les appels des navires humanitaires qui repèrent des migrants aux jumelles.

      Selon les conventions internationales, chaque MRCC, celui de Rome par exemple, a ensuite la responsabilité d’organiser les secours dans son secteur, de solliciter les navires les mieux placés (tankers et militaires compris), de dépêcher ses propres garde-côtes si nécessaire.

      Jusqu’ici, au large de ses eaux territoriales, la Libye n’avait pas déclaré de zone SAR, faute d’une flotte suffisante et surtout d’un « centre de coordination » en état de marche, capable de communiquer avec la haute mer par exemple. Pour éviter un « triangle des Bermudes » des secours, les Italiens s’y étaient donc collés ces dernières années, élargissant de fait – sinon en droit – leur champ d’activité. Puis le 28 juin dernier, sans prévenir, Tripoli a déclaré sa zone « SAR » et son « centre de coordination » auprès de l’OMI, officialisés du jour au lendemain. Les Italiens ont passé la main. Changement de régime.

      Depuis, dans l’esprit des Libyens, « aucun navire étranger n’a le droit d’accéder [à leur SAR] sauf demande expresse [de leur part] ». C’est ainsi, en tout cas, que le commandant de la base navale de Tripoli, Abdelhakim Bouhaliya, interprétait les choses en 2017 – quand les autorités avaient esquissé une première SAR avant de se rétracter. Dans leur viseur : « les ONG qui prétendent vouloir sauver les migrants clandestins et mener des actions humanitaires », selon les mots sans fard du général Ayoub Kacem, l’un des porte-parole de la marine à l’époque. Un an plus tard, la SAR est bel et bien là. Et il devient urgent que les garde-côtes ouvrent un manuel de droit.

      Car en principe, « la navigation dans leur SAR reste libre, décrypte Kiara Neri, spécialiste de droit maritime et maîtresse de conférences à l’université Jean-Moulin-Lyon-III. Ils n’ont absolument pas le pouvoir d’interdire leur SAR aux navires humanitaires, ce n’est pas devenu leur chasse gardée ». Dans les faits, pourtant, « ils font comme s’ils étaient souverains, s’indigne Nicola Stalla, coordinateur des sauvetages sur l’Aquarius. Ils étaient déjà agressifs avant, mais ils se comportent de plus en plus comme s’ils étaient dans leurs eaux territoriales. Ils ordonnent aux ONG de s’éloigner, ils menacent, par le passé ils ont déjà ouvert le feu plusieurs fois ».

      Concrètement, depuis cet été, « ce n’est plus Rome mais le MRCC de Tripoli qui reçoit les signaux d’alerte et désigne le navire le plus proche pour intervenir », insiste Kiara Neri. À supposer qu’ils répondent aux appels, déjà. « Le MRCC de Rome, lui, était efficace, regrette Nicola Stalla. Quand j’appelais, il y avait toujours un officier à qui parler. Là c’est tout le contraire : les garde-côtes libyens ne répondent pas, ou ne parlent pas bien anglais, ou ne répercutent pas les infos à tous les navires présents sur la zone… » Il y a quelques jours, l’association Pilotes volontaires, qui scrute la mer depuis le ciel à bord de son petit Colibri, s’est aussi arraché les cheveux. « On a repéré une embarcation avec une vingtaine de migrants, raconte un bénévole. On a vite appelé Rome, qui nous a renvoyés automatiquement sur Tripoli, qui n’a jamais répondu. » Ils ont fini par contacter, en direct, un tanker qui croisait à proximité. Du bricolage impensable jusqu’à cet été.

      À supposer qu’ils réagissent correctement, les Libyens peuvent aussi être tentés d’ignorer les humanitaires, de « privilégier » leurs garde-côtes pour les sauvetages, voire des navires marchands. Car ces derniers acceptent parfois de remettre aux Libyens les migrants qu’ils « repêchent », de les transborder en pleine mer pour s’en débarrasser sans trop se dérouter, sans égard pour le droit international qui impose de débarquer ses rescapés dans un « port sûr » où les droits de l’homme sont respectés – ce que la Libye n’est certainement pas, de l’avis même du HCR, l’agence des Nations unies pour les réfugiés. « Sans ONG pour témoigner, ces personnes sont perdues dans la narration », dénonce l’Italien Nicola Stalla, d’une formule presque poétique.

      Et si les humanitaires repèrent un pneumatique par eux-mêmes, peuvent-ils désormais être interdits de sauvetage ? « Il y a une subtilité, répond Kiara Neri. Dans leur SAR, les Libyens ont compétence pour coordonner les opérations. Donc s’ils approchent d’une embarcation en détresse [en même temps que l’Aquarius par exemple – ndlr], ils peuvent toujours dire : “On s’en occupe.” Mais ils n’ont certainement pas le droit de monter à bord, aucun pouvoir de police… » Dans les faits, la confusion est à son maximum.

      Ainsi, le 23 septembre, l’Aquarius et les garde-côtes libyens se sont disputés quarante-sept vies en pleine nuit, pendant des heures. Directement alerté par Alarm Phone (une sorte de « central téléphonique » associatif à disposition des migrants qui tentent la traversée), l’Aquarius a foncé vers le secteur indiqué tout en contactant le MRCC de Tripoli, conformément à ses obligations. Au début, pas de réponse. Puis un accord de principe. Puis un patrouilleur libyen arrivé sur le tard a voulu stopper le sauvetage entamé (des femmes et des enfants d’abord), pour reprendre l’affaire en mains. « Quittez la zone ! », ont hurlé les garde-côtes à la radio, selon une journaliste du Monde à bord. « Vous connaissez Tripoli ? Vous voulez venir faire une petite visite ? (…) Vous allez avoir de gros problèmes, on ne veut plus coopérer avec vous parce que vous nous désobéissez. » Le capitaine a tenu bon, mais l’Aquarius a quitté la zone à l’issue de l’opération – sa dernière à ce jour, puisque le Panama l’a privé de pavillon.

      « Le comble du cynisme »

      « Si nous trouvons une embarcation en détresse dans la SAR libyenne, nous ferons le sauvetage même si les garde-côtes demandent de ne pas intervenir », annonce aussi l’équipe de l’Aita Mari, un chalutier basque espagnol sur le point de prendre la route de la Méditerranée centrale, à l’initiative de deux ONG (Salvamento maritimo humanitario et Proem-Aid) soutenues par le gouvernement régional de centre-droit (qui a déboursé 400 000 euros), ainsi que de petites communes basques et andalouses. « La loi, c’est celle du port sûr. Peu importe que l’OMI ait dit “Oui” à la Libye », résume Daniel Rivas Pacheco, porte-parole du projet.

      D’ailleurs, comment une telle zone de « secours » a-t-elle pu être créée ? La Libye, membre de l’OMI (institution des Nations unies) et signataire des conventions internationales sur le secours en mer, a simplement déclaré les coordonnées géographiques de sa zone et de son MRCC. En fait, l’OMI ne « reconnaît » pas les SAR, elle les enregistre, sans audit préalable. N’a-t-elle pas le pouvoir de rejeter l’initiative d’un pays dénué de « port sûr » ? « L’OMI n’a pas le droit de décider si tel ou tel pays est un lieu sûr », nous répondent ses services. Elle peut toujours intervenir en cas de « coordonnée non valide » ou d’« erreur typographique ». Pour le reste…

      Ce processus de déclaration suppose tout de même une coordination préalable avec les pays voisins et des discussions préparatoires (Mediapart a retrouvé un point d’étape soumis à l’OMI en décembre 2017 par l’Italie, qui évoque le soutien de l’UE). Rome et l’Europe ont bien encouragé Tripoli à prendre ses « responsabilités ».

      Pour s’en convaincre, il faut se plonger dans les détails d’un vaste programme européen de soutien à la Libye datant de 2017, doté de 46 millions d’euros, qui vise tout à la fois le renforcement de ses frontières, la lutte contre son immigration illégale et l’amélioration de ses opérations de sauvetage en mer. On y découvre que l’UE a budgété plus de 6 millions d’euros, sur plusieurs années, rien que pour aider Tripoli à créer sa propre SAR et son MRCC « maison » – auxquels s’est ajouté 1,8 million via le Fonds pour la sécurité intérieure de l’Union.

      Les activités programmées ne peuvent être plus claires : « Assister les autorités libyennes pour qu’elles soient en capacité de déclarer une zone SAR », « Évaluations techniques pour la conception d’un véritable MRCC », « Formation pour le personnel opérationnel du MRCC », « Aider les garde-côtes à organiser leur unité SAR » ou encore « à développer des procédures SAR standard », etc.

      Jusqu’ici, on avait surtout entendu parler des fonds européens engagés pour former les garde-côtes (au droit international, au droit des réfugiés, etc.) ou de la fourniture d’équipements censés améliorer la qualité et l’efficacité de leurs opérations de « secours » (voir ici notre précédent article). Les ONG s’en étaient indignées, moult fois. Mais c’est encore autre chose que d’aider les Libyens à élargir leur périmètre d’action, à endosser la responsabilité des opérations au-delà même de leurs eaux territoriales.

      « L’idée n’est évidemment pas de les mettre en compétition avec les ONG et les autres acteurs, plaide-t-on à la Commission. C’est de lutter contre les trafiquants et de sauver des vies. » L’UE n’en démord pas.

      Les services de la Commission tiennent tout de même à préciser qu’à ce stade, sur les quelque 8 millions d’euros budgétés, seul 1,8 million a effectivement été déboursé pour une « étude de faisabilité » de la SAR libyenne. Rien d’autre n’aurait été mis en place avant que la Libye ne dégaine le 28 juin, plus vite que son ombre, aiguillonnée par l’Italie de Matteo Salvini.

      « Le secours n’est absolument pas la priorité de l’Union européenne, dénonce Charles Heller, chercheur associé à l’agence Forensic Architecture, collectif basé à l’université londonienne de Goldsmiths qui enquête sur les violations des droits humains, notamment en Méditerranée. Ce que font les garde-côtes libyens, ce sont des interceptions, de pures opérations de contrôle des frontières pour le compte de l’UE. »

      En 2012, rappelle-t-il, la Cour européenne des droits de l’homme avait condamné l’Italie pour ses pratiques de « refoulement direct » de migrants, après qu’un vaisseau de la marine nationale avait récupéré à son bord (soit sur le sol italien juridiquement) des Somaliens et des Érythréens, raccompagnés illico à Tripoli sans qu’ils aient pu exercer leur droit fondamental à demander l’asile. La nouvelle politique consiste donc « à opérer des “refoulements indirects”, à externaliser auprès des Libyens le contrôle de nos frontières », analyse Charles Heller. « Après une phase de criminalisation des ONG, après l’aide au rétablissement d’une institution de garde-côtes à peu près fonctionnelle, la déclaration d’une SAR libyenne était fondamentale pour donner à ces opérations un vernis humanitaire. Il fallait que les garde-côtes libyens aient tous les attributs : une SAR, un MRCC, etc. C’est la consécration d’un processus. Sachant que ces opérations de “secours” ont pour effet de ramener des gens sur un territoire où leurs droits sont systématiquement violés, c’est le comble du cynisme. »

      Sauvé le 21 juin dernier par le Lifeline, un exilé du Darfour a confié à Mediapart qu’il avait été intercepté trois fois en mer par les garde-côtes libyens, et ramené trois fois dans des centres de détention officiels où les gardiens « frappent tout le monde, tout le temps, avec des bâtons ». « On nettoyait, on lavait le linge, on faisait de la peinture sans être jamais payés », raconte Abazer, aujourd’hui réfugié en France, évoquant une forme d’« esclavage ». Ça, un port sûr ?

      « L’UE fait décidément preuve d’un grand courage, grince Patrick Chaumette, professeur de droit à l’université de Nantes. On laisse les Libyens menacer les ONG, tirer en l’air, confondre leur SAR avec leurs eaux territoriales, dire : “Vous devez nous obéir !”… On a des politiques qui trouvent des prétextes fallacieux pour poursuivre leur véritable objectif : aider la Libye à empêcher les départs en mer. Comme si le droit ne servait plus à rien. Pour nous, universitaires, c’est terrifiant. »

      D’après des chiffres provisoires compilés par Matteo Villa, chercheur pour un think tank italien (l’ISPI), 1 072 migrants se seraient lancés depuis la Libye en septembre, 713 auraient été interceptés, 125 auraient posé le pied en Europe, 234 auraient disparu. Soit un taux de mortalité de plus de 21 %, treize fois plus élevé qu’il y a un an, jamais atteint depuis des années.


      https://www.mediapart.fr/journal/international/111018/migrants-le-hold-de-la-libye-sur-les-sauvetages-en-mer
      #SAR #zone_SAR #cartographie #visualisation

    • Barcone in avaria con 70 persone al largo di Lampedusa: l’Italia prima dice no, poi interviene

      Dopo il braccio di ferro con la nave «Mare Jonio» che ha raccolto l’sos e si è diretta sul posto. E con Malta che non aveva mezzi per i soccorsi. Soddisfatti gli attivisti del progetto umanitario Mediterranea: «Siamo felici che tutti siano in salvo»

      Un barcone con 70 migranti partito dalla Libia venerdì mattina è stato scortato dalle motovedette della Guardia Costiera italiana fino al porto di Lampedusa dove ha attraccato in banchina intorno alle tre del mattino. Di lì a poco, è iniziato lo sbarco dei suoi passeggeri. E questa, già di per sé, è una notizia in epoca di porti chiusi, respingimenti e frontiere blindate. Ma lo è ancora di più se si considera che il gesto della Guardia Costiera è stato solo l’atto finale, la resa, di una lunga partita a scacchi giocata sin dalle sette del pomeriggio dal rimorchiatore Mare Jonio – la nave del progetto Mediterranea – contro le autorità, maltesi prima, e italiane poi.

      La Mare Jonio, giunta al suo ultimo giorno di missione nelle acque libiche, stava lentamente tornando verso l’Italia quando, poco dopo il tramonto, è stata raggiunta da un Navtext, un messaggio di allerta, inviato dalle autorità di La Valletta (l’Mrcc, maritime rescue coordination center): nel testo si segnalava “un gommone in avaria con 70 persone a bordo in acque maltesi”. L’imbarcazione, stando alle coordinate messe nero su bianco nel messaggio, si trovava sì in una zona di competenza maltese ma molto vicino all’isola di Lampedusa. Praticamente al confine. Il messaggio non dava altri elementi.

      La Mare Jonio si trovava, in quel momento, a 40 miglia di distanza dal gommone. Ci sarebbero volute almeno quattro ore buone. Dopo aver modificato la rotta, la plancia del rimorchiatore italiano ha così deciso di mettersi in contatto con Mrcc Malta per avere eventuali altre informazioni o, quanto meno, capire la fonte di quella notizia. I maltesi, però, non avevano altri elementi utili. E soprattutto non avevano mezzi a disposizione per arrivare “fino là” a vedere che cosa era capitato al gommone. Quanto alla fonte, era l’Alarmphone: un servizio dedicato che smista allarmi raccolti dalle varie imbarcazioni che incrociano nel Mediterraneo.

      La Mare Jonio ha così provato a tirare quel filo, ha chiamato Alarmphone e ha chiesto informazioni, scoprendo che di quell’allarme, loro, non sapevano nulla. Malta, dunque, aveva mentito.Mentre il rimorchiatore procedeva verso le coordinate impostate subito dopo l’arrivo del Navtext, gli italiani hanno quindi chiamato l’Mrcc di Roma. E’ vero che l’imbarcazione era in zona di competenza maltese, ma è vero anche che era in avaria e che, stando alle informazioni, la corrente la stava spingendo verso le acque italiane. E poi Malta aveva dichiaratamente rinunciato a intervenire. Il naufragio di quelle settanta anime, insomma, era un rischio più che concreto. La risposta delle autorità italiane è però stata piuttosto rigida. Burocratica. “In acque di competenza maltese coordina Malta. Non è un problema nostro, quando verranno in acque italiane, vedremo”.

      La situazione agli occhi degli attivisti cominciava a farsi preoccupante. Né La Valletta né Roma volevano intervenire e la Mar Jonio era a quattro ore di distanza. E’ cominciata così una lunga serie di telefonate tra il parlamentare di Sinistra Italiana, Erasmo Palazzotto – uno degli ideatori della Missione Mediterranea – la Guardia Costiera e il ministero delle Infrastrutture. Danilo Toninelli aveva il telefono staccato, e dunque il dossier era gestito dal capo di Gabinetto, Gino Scaccia. Il quale però non ha voluto andare oltre il concetto iniziale: “Acque maltesi-problema maltese”.

      Il comandante della Guardia Costiera di fronte alle insistenze di Palazzotto, “siamo una nave italiana e le segnaliamo un problema a due miglia dalle acque italiane”, ha spiegato che “nessuna nave italiana quando ha un problema in Brasile si sogna di chiamare la Guardia Costiera italiana”. Il resto della triangolazione è stato utile solamente per capire tre cose. Uno quello che inizialmente doveva essere un gommone era in realtà un barcone di legno. Due, l’avevano trovato due pescherecci tunisini (il Fauzi e l’Adamir) che però dopo aver dato l’allarme se ne erano andati. Tre, a distanza di quattro ore, il Mare Jonio continuava ad essere l’unica imbarcazione che si stava dirigendo verso il barcone per cercare di trarre in salvo le settanta persone che erano a bordo.

      Era l’una del mattino, ormai. E il rimorchiatore era quasi arrivato alla zona indicata dal primo allarme. Ma in mare non c’era nessuno. Dalla plancia hanno ricontattato sia Roma che La Valletta per avere coordinate più precise. Ma dai due Mrcc sono arrivate le indicazioni di due punti diversi. A distanza di dodici miglia l’uno dall’altro, più di un’ora di navigazione: mentre i maltesi davano l’imbarcazione in acque italiane, molto vicino a Lampedusa, secondo gli italiani il barcone si trovava ancora nel mare di Malta.

      A quel punto il rimorchiatore ha smesso di contare sugli aiuti via radio delle autorità che evidentemente stavano giocando a nascondere la barca più che a fargliela trovare e hanno cominciato a perlustrare la zona, partendo dalle coordinate fornite dall’Mrcc italiano. Dopo nemmeno mezz’ora, via radio, l’ultima comunicazione della nottata: “La Guardia Costiera italiana ha intercettato il barcone a 2,7 miglia da Lampedusa. E l’ha scortato in porto. I migranti stanno tutti bene”. Festeggiano quelli di Mediterranea: “Siamo felici di apprendere che dopo una notte di monitoraggi e segnalazioni queste persone siano in salvo, in Italia”.


      https://www.repubblica.it/cronaca/2018/10/12/news/gommone_con_70_persone_in_avaria_davanti_a_lampedusa_mare_jonio_chiede_in

    • Un jeune migrant marocain de 16 ans blessé par balles par la #Marine_royale

      La Marine royale a encore tiré à balles réelles sur des migrants. Après la mort de #Hayat, c’est cette fois-ci un jeune de 16 ans qui est blessé par balles à l’épaule lors de l’interception d’une barque transportant 50 migrants, tous marocains, qui tentaient de rejoindre illégalement l’Europe, selon 2M.ma citant une source sécuritaire et précisant sur Twitter qu’il s’agissait « de tirs de sommations d’usage en direction de l’embarcation ». L’adolescent blessé a d’ores et déjà été transporté vers l’hôpital de Tanger, précise la même source. L’embarcation interceptée tôt ce matin se trouvait entre Assilah et Larache, sur la façade Atlantique des côtes marocaines. Contactée par Le Desk, une source militaire autorisée confirme l’information précisant qu’un communiqué officiel est en cours de préparation.

      https://ledesk.ma/encontinu/un-jeune-migrant-marocain-de-16-ans-blesse-par-balles-par-la-marine-royale

    • Au Maroc, deux ans de prison pour avoir dénoncé sur #Facebook la mort d’une migrante

      La jeune femme originaire de Tétouan a été tuée fin septembre par des tirs de la marine royale alors qu’elle tentait de rejoindre clandestinement les côtes espagnoles.

      Un Marocain a été condamné à deux ans de prison ferme pour avoir protesté sur les réseaux sociaux contre la mort d’une jeune migrante tuée fin septembre par des tirs de la marine marocaine, a-t-on appris jeudi 18 octobre auprès de son avocat.

      #Soufiane_Al-Nguad, 32 ans, a été condamné dans la nuit de mercredi à jeudi par le tribunal de Tétouan, ville du nord du Maroc, pour « #outrage_au_drapeau_national », « #propagation_de_la_haine » et « #appel_à_l’insurrection_civile », selon son avocat Jabir Baba. Il avait été interpellé début octobre, après des troubles lors d’un match de football le 30 septembre à Tétouan.

      Selon son avocat, avant ce match, M. Al-Nguad avait appelé, à travers des publications sur sa page Facebook, le groupe des ultras Los Matadores du club de football local à « manifester et à porter des habits noirs de deuil » pour protester contre le décès de #Hayat_Belkacem.

      La mort de cette étudiante de 22 ans, tuée le 25 septembre par la marine marocaine alors qu’elle tentait de gagner clandestinement les côtes espagnoles en bateau, avait suscité la colère dans le pays. Les autorités marocaines avaient dit avoir visé l’embarcation en raison de ses « manœuvres hostiles ».

      « Venger Hayat »

      Dix-neuf supporters âgés de 14 à 23 ans sont également jugés à Tétouan pour « outrage au drapeau national », « manifestation non autorisée » et « destruction de biens publics et privés », pour avoir manifesté le soir du même match.

      Ces supporters avaient été arrêtés peu après pour avoir brandi des drapeaux espagnols et crié des slogans comme « Viva España » (« Vive l’Espagne ») lors du match. Ils avaient aussi manifesté sur le chemin du stade en appelant à « #venger_Hayat ».

      Ces dernières semaines, des dizaines de vidéos montrant des jeunes Marocains en route vers l’Espagne à bord de bateaux pneumatiques sont devenues virales sur les réseaux sociaux, dans un pays marqué par de grandes inégalités sociales sur fond de chômage élevé chez les jeunes.

      Depuis le début de l’année, l’Espagne est devenue la première porte d’entrée vers l’Europe, avec près de 43 000 arrivées par voie maritime et terrestre, selon l’Organisation internationale pour les migrations (OIM).

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2018/10/18/au-maroc-deux-ans-de-prison-pour-avoir-denonce-sur-facebook-la-mort-d-une-mi
      #réseaux_sociaux #délit_de_solidarité #condamnation #résistance #manifestation

    • Avec l’équipage du « Mare Ionio », les anti-Salvini retrouvent de la voix en Italie

      Le Mare Ionio, parti des côtes italiennes le 4 octobre, sillonne la Méditerranée pour une mission de surveillance et de contrôle. Dans un pays gouverné par l’extrême droite, une myriade d’acteurs de la société civile a imaginé cette aventure, humanitaire mais aussi très politique.

      Palerme (Italie), correspondance.- Sur le mur de la cour du centre Santa Chiara, en plein cœur de la Palerme populaire, cinq visages s’affichent, vidéo-projetés dans l’obscurité. Tee-shirts blancs siglés du logo bleu et rouge de la plateforme civile Mediterranea, traits fatigués, les membre de l’équipage du Mare Ionio s’apprêtent à dresser un bilan de leur première semaine en mer.

      « Regardez, on peut dire qu’il y a du monde ce soir, vous les voyez ? » interroge Alessandra Sciurba, face aux mines circonspectes de l’équipage. Au moins 200 personnes sont venues écouter les cinq hommes. « Ça fait plaisir, on se sent parfois très seuls en mer », sourit Luca Casarini, un activiste italien connu pour sa participation au mouvement de désobéissance civile Tute Bianche (« Les Blouses blanches »), particulièrement actif de 1994 à 2001.

      Malgré la connexion parfois hésitante de l’équipage, qui se trouve à 35 miles de Khoms et de la côte libyenne, Erasmo Palazzotto se lance, en direct sur Skype : « Le climat est surréaliste ici. On n’a croisé personne d’autre, la radio est silencieuse. C’est comme si la mer était déserte. » Copropriétaire du bateau Mare Ionio, député palermitain de la Sinistra italiana (« Gauche italienne », à la gauche des sociaux-démocrates), il se réjouit : « On ne sait pas si c’est parce que nous sommes présents en mer mais Malte a effectué un sauvetage de deux embarcations de migrants. Ça faisait près d’un an que ce n’était pas arrivé. »

      La remarque sur le sauvetage de 220 personnes les 6 et 7 octobre au large des eaux maltaises n’est pas anodine. Depuis la formation du nouveau gouvernement italien et la nomination de Matteo Salvini au ministère de l’intérieur en juin, la Méditerranée centrale est devenue le terrain d’une véritable bataille navale. Les ONG évincées, les cartes sont redistribuées entre gardes-côtes italiens, maltais et libyens.

      Battant pavillon italien, composé d’un équipage italien, le Mare Ionio s’est donné pour mission de surveiller, contrôler et témoigner de ce qui se passe en Méditerranée centrale, dans ce tronçon de mer emprunté par les migrants pour rejoindre les côtes italiennes et déserté par les bateaux des ONG depuis quelques semaines. Il ne s’agit donc pas d’un bateau de sauvetage, même si l’équipage est paré à cette éventualité.

      Matteo Salvini a bien compris la portée politique de cette aventure. Quelques heures après l’annonce du départ de l’embarcation, le 4 octobre, il avait offert à ses sympathisants un direct Facebook plus exalté qu’à son habitude. « Prenez un pédalo, faites ce que vous voulez », a-t-il ironisé, mais hors de question d’amener des migrants en Italie, a-t-il poursuivi, ricanant au sujet de ce « bateau des centres sociaux qui erre en Méditerranée ».

      Parmi les protagonistes de la plateforme civile Mediterranea, personne ne s’aventure sur le terrain de la politique partisane. Comme si, d’une certaine manière, le paysage politique italien n’était pas à la hauteur des enjeux. « Attention, on n’est pas là pour reconstruire la gauche italienne », met en garde Fausto Melluso de l’Arci Porco Rosso, un local associatif particulièrement impliqué dans l’aide aux migrants.

      Même le député de Gauche italienne évite les joutes politiques et élude : « Je représente des milliers de personnes indignées par ce qui se passe et qui n’ont peut-être pas voté pour moi mais avaient besoin de savoir qu’une partie des institutions italiennes se trouve ici, au milieu de cette bataille historique entre barbarie et civilisation. » Une indignation qu’ils ont voulu « transformer en action », ajoute-t-il.

      « On discute de politique à terre, pas en mer. En mer, on ne laisse personne mourir, on amène les gens dans un port sûr et ensuite on discute de ce que vous voulez », tranche Giorgia Linardi, porte-parole en Italie de l’ONG allemande Sea Watch, qui est associée au projet Mediterranea.

      « C’est une mission d’obéissance civile et de désobéissance morale. On ne pouvait pas se résoudre à se dire que c’était la seule société possible », résume Alessandra Sciurba, l’une des membres de la plateforme Mediterranea et chercheuse à l’université de Palerme. Tous répètent à l’envi cette formule, énoncée par Marta Pastor, jeune diplômée de 26 ans qui s’est embarquée sur le bateau comme bénévole : « L’important, pour nous, c’est aussi de nous sauver nous-mêmes, de nous sauver des saletés qui se passent tous les jours sous nos yeux. »

      Pour Alessandra Sciurba, ce défi va bien au-delà de l’Italie : « Dans le débat politique, tout un monde n’est plus représenté, entre l’Europe démocratico-progressiste qui a accepté les plans économiques de la Troïka [FMI, BCE et Commission européenne – ndlr] et joué avec les politiques migratoires, et l’Europe de Visegrad [Hongrie, Pologne, Slovaquie, République tchèque – ndlr], souverainiste et nationaliste. Nous sommes convaincus qu’il existe une troisième Europe, et c’est surréaliste qu’il faille aller en mer pour lui redonner de la voix. »

      Ce projet européen doit « partir de la société civile, des citoyens et surtout des villes », défend l’équipage. Ce n’est pas un hasard, expliquent les membres de Mediterranea, si les deux drapeaux hissés sur le mât sont celui de l’Union européenne et celui de la ville de Palerme. Dans son habituel costume noir, entouré par quelques journalistes et par les membres de Mediterranea, Leoluca Orlando, le maire de la ville, a profité de la première escale technique du Mare Ionio sur le quai trapézoïdal de Palerme pour marteler, une fois encore, ce discours si singulier dans le reste de l’Italie : « Le port de Palerme sera toujours ouvert ! »

      Sur le pont du bateau, Claudio Arrestivo a moins l’habitude de ces raouts que son voisin. Il représente le Moltivolti, un espace de restauration et de coworking au cœur de Palerme, qui a rejoint la plateforme Mediterranea dès ses débuts, en juin : « On prend plus de risques à ne pas s’embarquer qu’à faire partie du projet. » Les entrepreneurs rêvent désormais de faire des émules à travers le reste du pays.

      C’est le défi majeur de la plateforme civile : réussir, à terre, à susciter l’adhésion. « Dans tout le pays, nous allons organiser une “via terra”, un parcours sur terre de Mediterranea en organisant des événements culturels qui nous permettront de recueillir des fonds », explique Evelina Santangelo, écrivaine palermitaine à la tête d’un groupement national d’artistes, écrivains et acteurs du monde de la culture qui soutiennent l’initiative.

      La tâche est grande : près de 195 000 euros ont déjà été récoltés grâce à une cagnotte participative soutenue par 1 892 personnes, sur un budget total estimé à 700 000 euros pour deux mois de mission en mer.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/221018/avec-l-equipage-du-mare-ionio-les-anti-salvini-retrouvent-de-la-voix-en-it

    • Migrant campaign ship confronts Italy in the Mediterranean

      A Mediterranean coalition of campaigners against Italy’s hardline migration policies have bought a ship in a crowdfunding appeal to shame authorities into rescuing stranded migrants off the North African coast.

      The group, Mediterranea Saving Humans, raised more than 250,000 euros in three weeks, to buy and launch the Italian-flagged Mare Jonio to raise the alarm about migrant boats in distress in the Mediterranean Sea.

      Its first mission launched on October 4 from the southern Italian island of Sicily and succeeded in pressuring the Italian Coast guard into rescuing 70 people aboard a dinghy eight days later, according to the group.

      “The presence of Mediterranea was fundamental in raising attention to what is really happening in the waters south of Sicily and to prevent our governments from turning their backs to tragedies that call upon human compassion,” the group wrote on its website.

      https://www.thenational.ae/world/europe/migrant-campaign-ship-confronts-italy-in-the-mediterranean-1.787355

    • E infine restò solo la Mediterranea a salvare le vite in mare

      Ormai, quelli della Mediterranea sono rimasti i soli a cercare di rendere meno amaro il bilancio delle morti di migranti in mare in questo terrificante 2018. Soltanto nel mese di settembre, il 20 per cento di chi è partito dalla Libia risulta morto o disperso. Si tratta di uno degli anni peggiori di sempre, da questo punto di vista. E poco importa che in Italia siano diminuiti gli sbarchi se ciò coincide con un tasso di mortalità maggiore nelle acque internazionali.

      Dopo le 13 di oggi, la nave è salpata dal porto di Palermo per la seconda missione di monitoraggio e denuncia nelle acque internazionali tra le coste italiane e la Libia. C’era stata, nei mesi scorsi, l’avvio della missione, iniziata lo scorso 4 ottobre e durata 12 giorni, aiutata anche dal parlamentare di Liberi e Uguali Erasmo Palazzotto.
      Mediterranea, il suo ruolo in mare per sorvegliare una frontiera letale

      In questi ultimi giorni, la nave italiana della piattaforma Mediterranea era all’ancora nel porto siciliano per una sosta tecnica e di rifornimento: si tratta dell’unica nave in navigazione nel Mediterraneo centrale con l’essenziale funzione di testimonianza e pronta a intervenire, qualora fosse necessario, in soccorso di imbarcazioni in difficoltà. Un vero e proprio baluardo ultimo per evitare quella che può a buon diritto essere considerata una tragedia del nostro secolo.

      Il fatto che non ci siano più imbarcazioni a monitorare le rotte dei migranti è una diretta conseguenza della campagna di criminalizzazione delle ONG e delle politiche di chiusura dei confini, portata avanti in maniera risoluta dalla Lega e dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Non dobbiamo dimenticarci, che il Mediterraneo è considerato la frontiera più letale al mondo e che nello scorso mese di settembre ha registrato il numero drammatico di una persona morta o dispersa su cinque, tra coloro che hanno tentato la traversata.
      L’importanza di Mediterranea nei giorni scorsi

      Il 12 ottobre scorso, la nave Mediterranea ha avuto un ruolo determinante nel sollecitare il salvataggio tempestivo di settanta persone in pericolo al largo di Lampedusa, dopo il rimpallo di responsabilità tra Malta e Italia. Non solo: ha tenuto accesa l’attenzione dell’opinione pubblica su quanto realmente accade nelle acque a sud della Sicilia.

      Alla missione iniziata oggi parteciperà anche Riccardo Gatti di Proactiva Open Arms e un team di soccorso in mare della Ong tedesca Sea-Watch partner del progetto.


      https://www.giornalettismo.com/archives/2682517/mediterranea-unica-nave-mare-migranti

    • Trois ONG lancent une opération de sauvetage au large de la Libye

      Plus aucun bateau d’ONG ne menait d’opération de sauvetage dans la zone depuis celle menée fin septembre par l’« Aquarius ».
      Trois ONG ont lancé une mission de sauvetage de migrants au large de la Libye, où il n’y avait plus de bateaux humanitaires depuis fin septembre. Les trois navires engagés dans cette mission, l’#Open-Arms de l’ONG espagnole Proactiva Open Arms, le #Sea-Watch3 de l’ONG allemande Sea-Watch et le Mare-Jonio de l’ONG italienne Mediterranea, naviguent depuis vendredi dans les eaux internationales entre l’Italie et la Libye.

      Le Mare-Jonio était déjà parti début octobre patrouiller dans la zone pour témoigner du drame des migrants. Plus aucun bateau d’ONG ne menait d’opération de sauvetage dans la zone depuis celle menée fin septembre par l’Aquarius. Ce navire, affrété par Médecins sans frontières et SOS Méditerranée, est à quai à Marseille dans l’attente d’un pavillon lui permettant de naviguer, après le retrait de ceux de Gibraltar puis du Panama. La justice italienne a par ailleurs demandé mardi son placement sous séquestre pour une affaire de traitement illégal de déchets.

      La mission n’avait pas été annoncée en amont pour « ne pas se retrouver bloquée par une quelconque ruse, comme cela a été le cas pour l’Aquarius », a dit le fondateur de Proactiva Open Arms, Oscar Camps. Plongée dans le chaos depuis la chute du dictateur Mouammar Kadhafi dans une insurrection soutenue par l’OTAN en 2011, la Libye est l’un des principaux pays de transit pour les migrants subsahariens tentant de rejoindre l’Europe à partir de ses côtes. L’Espagne est devenue cette année la première porte d’entrée des migrants en Europe devant l’Italie mais la route de la Méditerranée centrale reste la plus dangereuse avec 1 277 des 2 075 morts recensés cette année par l’Organisation internationale pour les migrations.

      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/11/23/trois-ong-lancent-une-operation-de-sauvetage-au-large-de-la-libye_5387774_32

    • What It Means for Migrants When Europe Blocks Sea Rescues

      With no NGO vessels to rescue migrants crossing the central Mediterranean, people are drowning. Dr. David Beversluis, physician onboard one of the last rescue ships in the Mediterranean, looks at what it means when Europe turns its back.

      There is no more tragic place to witness the consequences of populist politics and anti-immigrant fears than the central Mediterranean Sea, where people are dying trying to reach safety in Europe.

      Many flee violence and poverty in forgotten places across Africa and beyond, before being kidnapped by traffickers and horribly abused in Libya. In a final bid for freedom, they board crowded, flimsy rafts that launch from the Libyan shore into Mediterranean waters.

      This year alone, more than 1,200 men, women and children have died trying to make this journey to Europe, according to the International Organization for Migration’s Missing Migrants project. These are just the deaths we know about.

      This summer I served as the physician onboard the Aquarius, a search and rescue ship operated by the aid organizations Doctors Without Borders and SOS Mediterranee that has assisted nearly 30,000 people since it launched in 2016. It was one of the ship’s last missions before the Italian government pressured Panama to revoke its registration after months of blocking rescue ships from Italian ports. In its current predicament, the Aquarius is unable to conduct search and rescue operations. Currently, there are no NGO aid vessels to rescue people crossing the central Mediterranean, and because of this people are drowning.

      On missions, we rescue people from boats in distress, we pull drowning people from the water, and we give food, water and lifesaving medical care. After we stabilize our patients, we sit and talk to people and hear their stories.

      I spoke with a young man who told me his brothers were targeted and killed last year during a violent conflict in Cameroon. He decided to leave his wife and young son behind because he was being threatened himself, and he was hopeful that if he made it to Europe he could eventually build a better life for his child. I could feel the pain in his words; he had no choice but to leave his loved ones behind.

      Several Somali boys told me of the months they spent traveling from country to country, first across the sea to Yemen, then to Sudan and eventually through the Sahara to Libya. Each step was a gamble for a better life. Along the way they faced extortion, imprisonment and death.

      An Eritrean boy told me he was kidnapped in Sudan and spent more than a year in captivity in Libya, where countless men and women are imprisoned by human traffickers and subjected to torture, rape and death. Another soberly described how his brother was shot in the head next to him, his body left behind in the desert.

      Each person has horrific stories of their time in Libya. They pause and shake their heads as they remember, deciding how to replay their experiences for somebody who can’t even imagine. One Nigerian man told me, “My mouth can’t form the words to describe what happened to me in Libya.”

      But he slowly opened up about his months spent in captivity. He described extreme sexual violence – rapes and genital mutilation – stories we hear repeatedly from both men and women who are trafficked in Libya.

      A Somali teenager said he was held in Libya for seven months inside a small room with more than 300 people where they had one latrine, were never able to shower or change clothes and were given meager food and water.

      And they were lined up every day, beaten with sticks and shouted at for money they didn’t have. He showed me scars on his back and arms as he mimicked the daily beating motion. The violence he lived through is written permanently in these scars on his body.

      Libya is simply not a safe place for refugees and migrants. But instead of responding humanely through a dedicated search and rescue system in the Mediterranean, or by creating safe and legal ways to apply for asylum, the European Union has poured money into building up the Libyan coast guard, which intercepts thousands of migrants and refugees as they attempt to flee. They are returned to Libya and held in official detention centers in atrocious, inhumane conditions. And as conflict erupts again between warring militias in the capital, Tripoli, many of them are directly in the line of fire.

      The stories we hear on the Aquarius highlight how people are repeatedly stripped of their humanity and dignity. And while they also have flashes of hope for a brighter future, each person understands that their difficult journey is far from over.

      In today’s political climate, Doctors Without Borders and other organizations have had to fight to disembark each rescued person in a safe place where their human rights will be respected. We’ve had to take people as far away as Spain after closer countries such as Italy have repeatedly closed their ports and European governments have refused to find sustainable and humane solutions.

      These difficulties grow as narratives of fear and hate toward migrants and refugees are repeated over and over, from Europe to America and elsewhere around the world. People are being treated as pawns by politicians unwilling to take responsibility for human lives. Borders close, walls are built and people are left to suffer and die.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/11/19/what-it-means-for-migrants-when-europe-blocks-sea-rescues

    • Italy orders seizure of migrant rescue ship over ’HIV-contaminated’ clothes

      Prosecutors allege garments on Aquarius should have been labelled as ‘toxic waste’.

      Italian authorities have ordered the seizure of the migrant rescue ship Aquarius after claiming that discarded clothes worn by the migrants on their voyage from Libya to Italy could have been contaminated by HIV, meningitis and tuberculosis.

      Prosecutors from Catania, eastern Sicily, alleged that the waste was illegally labelled by the ship’s crew as “special waste” rather than “toxic waste”.

      The Aquarius is currently docked in Marseilles, France, where so far it is beyond the reach of the Italian authorities.

      The ship is operated by the charity Médecins Sans Frontières (MSF) and SOS Méditerranée. Prosecutors in Catania said: “If Aquarius would disembark to Italy, it will be immediately put under seizure.”

      Nevertheless, the Italian authorities have placed 24 people under investigation for ‘‘trafficking and the illegal management of waste,” including the captain of the Aquarius, Evgenii Talanin, and Michele Trainiti, deputy head of the Italy mission of MSF Belgium. The Sicilian prosecutors also fined MSF a total of €460,000 (£409,000) and froze some of its bank accounts based in Italy.

      A total of 24 tonnes of discarded material – including leftover food and medical materials as well as clothes – was being investigated.

      Aids campaigners criticised the prosecutors’ claims that clothing could have been contaminated with HIV. “Clothing categorically is not, and has never been, an HIV transmission risk,” said Deborah Gold, chief executive of the National AIDS Trust.

      “This would have stood out as ridiculous even amongst the misinformation of the 1980s, never mind in 2018. Migrants and people seeking asylum have historically been attacked using myths about HIV and infectious conditions, and we condemn this both for its stigmatising of people living with HIV and of migrants fleeing hardship.”

      The Aquarius has been stuck in Marseilles since the Panamanian authorities revoked its flag, after “complaints by the Italian authorities”. But the ship seemed to have reached an agreement with a country that would offer the NGO its flag and was ready to leave the French port in few days to reach the waters of Libya.

      Matteo Salvini, Italy’s far-right deputy prime minister, hailed the seizure order for the Aquarius, tweeting: “It seems I did well to close the Italian ports to the NGOs.”

      NGO rescue boats have almost all disappeared from the central Mediterranean since Salvini announced soon after taking office that he was closing Italian ports to non-Italian rescue vessels.

      The chief prosecutor of Catania, Carmelo Zuccaro, who is leading the investigation against the Aquarius and who is known for having launched several investigations against the rescue boats operated by aid groups, has recently dropped the charges for illegal detention and kidnapping against Salvini, after the minister of the interior was placed under investigation for preventing the disembarkation of migrants from the coastguard ship Ubaldo Diciotti, last August.

      In a statement released on Tuesday, MSF described the allegations against the Aquarius crew as “disproportionate and unfounded, purely aimed at further criminalising lifesaving medical-humanitarian action at sea’’.

      “After two years of defamatory and unfounded allegations of collusion with human traffickers against our humanitarian work, we are now accused of organised crime aimed at illicit waste trafficking. This latest attempt by the Italian authorities to stop humanitarian lifesaving search and rescue capacity at any cost is sinister” says Karline Kleijer, MSF’s head of emergencies.

      “This is another strike in the series of attacks criminalising humanitarian aid at sea. The tragic current situation is leading to an absence of humanitarian search and rescue vessels operating in the central Mediterranean, while the mortality rate is on the rise,” said Frédéric Penard, SOS Méditerranée’s head of operations.

      People seeking asylum are still attempting the risky crossing but, without the rescue boats, the number of shipwrecks is likely to rise dramatically.

      The death toll in the Mediterranean has fallen in the past year, but the number of those drowning as a proportion of arrivals in Italy has risen sharply in the past few months, with the possibility of dying during the crossing now three times higher.

      According to the International Organization for Migration, so far in 2018 more than 21,000 people have made the crossing and 2,054 have died.

      https://www.theguardian.com/world/2018/nov/20/italy-orders-seizure-aquarius-migrant-rescue-ship-hiv-clothes
      #maladies #contamination

      La réponse de MSF:
      Sequestro nave Aquarius. Inquietante e strumentale attacco per bloccare azione salvavita in mare
      https://www.medicisenzafrontiere.it/news-e-storie/news/sequestro-nave-aquarius-inquietante-e-strumentale-attacco-per-b

      v. aussi:
      https://seenthis.net/messages/740369

    • L’Italie demande la mise sous séquestre de l’« Aquarius » à Marseille

      La justice italienne a demandé le placement sous séquestre de l’Aquarius, actuellement bloqué à Marseille, a annoncé, mardi 20 novembre, l’ONG Médecins sans frontières (MSF). Des comptes bancaires en Italie de MSF ont également été placés sous séquestre.

      Le navire humanitaire affrété par les ONG SOS Méditerranée et MSF pour secourir les migrants au large de la Libye est soupçonné d’avoir fait passer vingt-quatre tonnes de déchets potentiellement toxiques pour des déchets classiques.

      L’enquête, coordonnée par le parquet de Catane (Sicile), porte sur le traitement des déchets à bord – restes alimentaires, vêtements des personnes secourues, déchets issus des activités médicales – dans les ports italiens où l’Aquarius débarque des milliers de migrants secourus en mer.

      « Empêcher les actions médicales et humanitaires »

      « Les opérations portuaires de nos navires de secours en mer ont toujours suivi les normes en vigueur, s’est défendu MSF dans un communiqué. Les autorités compétentes n’ont jamais questionné nos procédures ni identifié un quelconque risque pour la santé publique depuis que MSF a commencé ses opérations de secours. »

      La mise sous séquestre de l’Aquarius est « mise en œuvre dans l’unique but d’empêcher les actions médicales et humanitaires pour sauver des vies en mer en les criminalisant encore davantage », dénonce l’ONG.

      Depuis que le Panama a annoncé sa décision de retirer au bateau humanitaire son pavillon à la fin de septembre pour « non-respect » des « procédures juridiques internationales » concernant le sauvetage des migrants en mer, l’Aquarius est bloqué dans le port de Marseille.

      L’Aquarius est le dernier navire humanitaire à parcourir la Méditerranée pour secourir des migrants qui tentent la traversée clandestine vers l’Europe, fait valoir l’association. Depuis quatre ans, plus de 15 000 personnes sont mortes noyées en Méditerranée en tentant la traversée sur des embarcations de fortune, selon l’ONG. En deux ans et demi, SOS Méditerranée dit avoir secouru 29 523 personnes dont 23 % sont des mineurs.

      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/11/20/l-italie-demande-la-mise-sous-sequestre-de-l-aquarius-a-marseille_5385916_32

    • Migrants : la justice italienne demande la mise sous séquestre à Marseille de l’Aquarius

      La justice italienne a demandé le placement sous séquestre du navire humanitaire Aquarius à Marseille pour une affaire de traitement illégal de déchets, un nouveau coup dur pour les ONG qui se portent au secours des migrants en mer.

      L’ONG Médecins sans frontières (MSF), qui affrète l’Aquarius avec SOS Méditerranée depuis 2016, a réfuté toute malversation et dénoncé « une mesure disproportionnée et instrumentale, visant à criminaliser pour la énième fois l’action médico-humanitaire en mer ».

      A la demande du parquet de Catane (Sicile), la justice italienne « a ordonné le placement sous séquestre » du navire et de comptes bancaires de MSF, selon un communiqué du parquet. Mais MSF a annoncé son intention de faire appel.

      Interrogé par l’AFP, le procureur de la République de Marseille, Xavier Tarabeux, a déclaré n’avoir reçu « à ce jour » aucune demande des autorités italiennes concernant l’Aquarius.

      La mesure ne change de toute façon pas la donne au large de la Libye, où les ONG ont secouru plus de 120.000 migrants depuis 2014 mais sont désormais quasi-absentes après 18 mois d’incessantes attaques politiques — de gauche comme de droite —, judiciaires et administratives.

      Plusieurs ONG ont suspendu ou déplacé leurs activités, tandis que d’autres voient leur navire bloqué en Italie, à Malte ou en France, comme c’est le cas de l’Aquarius.

      L’Aquarius est amarré à Marseille depuis début octobre dans l’attente d’un pavillon lui permettant de naviguer après le retrait de ceux de Gibraltar puis du Panama.

      « J’ai bien fait de bloquer les navires des ONG », a réagi Matteo Salvini (extrême droite), ministre italien de l’Intérieur depuis juin. « J’ai arrêté non seulement le trafic des immigrés clandestins mais aussi celui des déchets toxiques ».

      Selon le parquet, l’Aquarius et le Vos Prudence, un autre navire affrété par MSF en 2017, sont soupçonnés d’avoir fait passer pour des déchets classiques un total de 24 tonnes de déchets présentant un risque sanitaire, économisant au total 460.000 euros.

      – « Aucune mise en garde » -

      L’enquête porte sur le traitement des vêtements trempés et souillés abandonnés par les migrants à bord, ainsi que des restes alimentaires et déchets sanitaires, que les deux navires ont confiés aux services des ordures des ports où ils débarquaient les migrants secourus en mer.

      Or, les équipes médicales de MSF à bord ont signalé parmi les migrants de nombreux cas de gale, HIV, méningites ou infections respiratoires comme la tuberculose et ne pouvaient ignorer le risque de transmission de virus ou d’agents pathogènes via leurs vieux vêtements, selon le parquet.

      « Nous avons suivi les procédures qui nous étaient indiquées. La preuve en est qu’en trois ans d’activité, dans un contexte très surveillé, nous n’avons reçu aucune mise en garde, aucune amende, aucune forme d’alerte préventive de la part des autorités », a déclaré Marco Bertotto, un responsable de MSF, lors d’une conférence de presse.

      « En ce moment, nos équipes travaillent avec le virus Ebola au Congo, le choléra au Congo également et dans d’autres pays d’Afrique Centrale. Donc le fait d’être accusés de comportement irresponsable (...) est ridicule », a dénoncé Gianfranco de Maio, médecin de MSF.

      En Italie, des voix se sont également élevées pour demander comment avaient été traités les déchets similaires sur les navires de la marine ou des garde-côtes italiens, qui ont secouru plus de 300.000 migrants depuis 2014.

      Pour l’instant, plusieurs comptes bancaires de MSF ont été placés sous séquestre dans le cadre de cette enquête, qui concerne aussi deux agents maritimes qui faisaient l’interface avec les autorités portuaires, les capitaines des navires et plusieurs responsables de MSF à bord.

      Mais pour Gabriele Eminente, directeur général de MSF en Italie, le « seul crime que nous voyons aujourd’hui en Méditerranée est le démantèlement total du système de recherches et de secours ».

      Grâce à des accords controversés conclus en Libye par le précédent gouvernement de centre gauche pour empêcher les migrants de prendre la mer, puis à la politique des ports fermés de M. Salvini, l’Italie a vu le nombre d’arrivées sur ses côtes chuter drastiquement à partir de l’été 2017.

      Cette année, l’Italie a enregistré 22.500 arrivées sur ses côtes, soit une baisse de plus de 80% par rapport aux années précédentes. Mais selon l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), faute de navires de secours, la traversée depuis la Libye a coûté la vie à au moins 1.267 migrants cette année.


      https://www.la-croix.com/Monde/Migrants-justice-italienne-demande-mise-sequestre-Marseille-Aquarius-2018-

    • How the Debate Over Flags Sidelined Europe’s Migrant-Rescue Ships

      Europe’s aggressive migration policy has seen Italy dive into the obscure world of national shipping flags to sabotage rescue missions. Researcher Hannah Markay argues that such moves undermine the international legal requirement to save human lives at sea.

      To deter migrants crossing the Mediterranean Sea, European authorities have seized upon a seemingly innocuous bit of international maritime law to block NGO-run rescue ships from their lifesaving work: the requirement that every vessel with seaward ambitions – from search-and-rescue vessel to pleasure boat – carry a national flag.

      The debate over whether NGO boats that rescue migrants are lifelines or “taxis of the sea” is old news. Lately, Italy and other European states have pursued a similar tactic to the one used by the United States in 1931 when it caught gangster Al Capone on charges of tax fraud: Unable to find legal issues with actual rescue missions, authorities are trying to sideline NGO vessels by diving into the minutiae of ships’ national registrations. Italian prosecutors got even more creative this week when they ordered the seizure of the rescue ship Aquarius, operated by Doctors Without Borders, over “illegal waste disposal.”

      Thus, debates over bureaucratic details have eclipsed another requirement of international law: the duty to save human lives at sea.

      Another way in which Italy has used bureaucracy to sabotage NGOs’ rescue missions is by asking them to sign a “code of conduct.” The 11-point code – aimed at stopping what Italy viewed as the groups’ facilitation of people-smuggling across the sea – barred them from entering Libyan territorial waters to undertake rescues; banned them from making calls or sending up flares to signal their location to migrant boats in distress; and threatened to bar access to Italian ports if groups did not sign or comply. Several NGO vessels refused to sign. In retaliation, Italy ordered some of them to be seized.

      These disputes have prevented ships with hundreds of just-rescued, vulnerable people aboard from disembarking in Europe. This happened recently with the Aquarius, the Lifeline and even the Diciotti, an Italian coast-guard ship barred from disembarking 177 refugees and migrants in Italy’s port of Catania for several days.

      Humanitarian groups have found ways around Europe’s bureaucratic obstacles. When Italian deputy prime minister Matteo Salvini threatened to close Italian ports to rescue vessels not bearing the country’s flag, a coalition of activists launched the first-ever Italian-flagged rescue ship, Mare Jonio, to conduct missions off Libya earlier this fall.

      But more often bureaucracy wins. Desperate migrants do not have the luxury of waiting for courts to rule on the legality of states’ actions. The bureaucratic games are directly responsible for the rising rate of deaths in the Mediterranean.
      A Game of Migrant ‘Hot Potato’

      Under international maritime law, every state must require any ship flying its flag – whether it’s a civilian, military or humanitarian vessel – to assist persons in distress at sea, without endangering the ship or crew. Coastal states must also render assistance in areas identified as their search-and-rescue (SAR) zones.

      In theory, the duty to assist applies to any ship able to hear a distress signal. Maritime rescue coordination centers around the world coordinate rescue missions in their respective zones and determine the national authority responsible for responding.

      But in reality this resembles a game of hot potato in the central Mediterranean, in which states quickly delegate or refuse responsibility.

      This was evident when Malta recently gave life-vests, petrol and a compass to a migrant boat in its SAR zone, then directed it to the shores of Lampedusa. European ships within reach of the distress signal are starting to preemptively avoid the waters near Libya altogether or are (illegally) turning around before acknowledging a migrant boat’s mayday signals.

      In this political climate, the few still-operational NGO rescue vessels are more important than ever. In their absence, rescues coordinated by European authorities end with migrants being returned to Libya, which may breach international laws around non-refoulement. With its ongoing civil war and record of detaining migrants, Libya is hardly a safe haven.

      This was the fate of 92 rescued refugees and migrants aboard a cargo ship docked in Libya’s port of Misrata who defiantly claimed they would rather die than return to Libya. The 10-day standoff ended when Libyan authorities used rubber bullets and tear gas to force disembarkation.

      Meanwhile, Libya is also playing the bureaucratic game. Under international law, territorial waters consist of the 12 nautical miles (13.8 miles/22.2km) off the coast of any state, but last year Libya declared its own SAR zone of 74 nautical miles. There is no legal basis for this expansion. Libyan authorities warned NGOs to stay out. Three European NGOs stopped sea rescue missions after Libya’s threats of violence.

      Martin Taminiau, a volunteer with the NGO vessel Sea-Watch, which Malta detained for months over its national registration, said NGO ships must weigh bureaucratic roadblocks against the need to help migrants in distress.

      “We have the right to enter these waters to save lives, but we also want to be able to operate long term,” he said.
      Responsibility to Save Lives ‘Lost at Sea’

      The legal and moral responsibility to save lives has been lost at sea, overshadowed by the technical debates over national flags, zones of responsibility, territorial waters and waste-disposal procedures.

      Watchdog and humanitarian groups must maintain pressure on the European Union to respond promptly to distress calls in their SAR zones and to communicate transparently with any boats prepared to make the rescue, in accordance with international law.

      The 1979 Search and Rescue Convention clearly designates areas of responsibility for responding to distress calls. This must translate into true responsibility and life-saving.

      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/11/22/how-the-debate-over-flags-sidelined-europes-migrant-rescue-ships

    • Che cosa può una nave?

      Si può fare!

      Era la metà di giugno quando ha cominciato a prendere forma quella che sarebbe poi divenuta la piattaforma “Mediterranea”. Salvini aveva da poco chiuso i porti italiani alla nave Aquarius, di “Medici Senza Frontiere” e “Sos Méditerranée”, definendo una “crociera” la lunga traversata che avrebbe portato in Spagna gli oltre novecento profughi e migranti che si trovavano a bordo. Era il coronamento di una vera e propria guerra alle ONG, avviata nell’aprile del 2017 dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro e poi proseguita dal ministro Minniti – il coronamento e al tempo stesso un’intensificazione senza precedenti: se negli anni scorsi molti di noi avevano analizzato criticamente la svolta governamentale della “ragione umanitaria”, cioè l’incorporazione delle ONG nei dispositivi di governo dei confini e delle migrazioni, era evidente che ci trovavamo davanti a una brutale soluzione di continuità. L’intervento umanitario era ora direttamente criminalizzato, azzerando quelle reti di soccorso volontario che negli anni precedenti, spesso integrate con le operazioni SAR delle diverse guardie costiere e delle forze armate, erano state comunque dispiegate nel Mediterraneo.

      Che fare di fronte a questa svolta, evidentemente sintomatica di un atteggiamento destinato a improntare l’azione del governo per mare e per terra nei mesi successivi? La domanda non poteva essere aggirata, e ha cominciato a risuonare con insistenza nelle conversazioni tra compagni e compagne. La resistenza, certo: la denuncia di quanto stava accadendo, i presìdi di protesta, le iniziative di pressione per la riapertura dei porti. E il tentativo di comprendere il significato più profondo di quanto stava accadendo, di anticipare le mosse successive del governo definendo un quadro interpretativo generale della “fase”. Ma ci sembrava che tutto questo non fosse sufficiente, che si dovesse e si potesse fare di più: che fosse necessario mettere in campo una pratica, capace di determinare spiazzamento e quantomeno di alludere a una mossa “offensiva”, al di là del carattere necessariamente difensivo della resistenza – e per riqualificare il terreno su cui quest’ultima si determina. E allora, perché non agire direttamente nel vivo delle contraddizioni del dispositivo retorico e politico della campagna governativa? Perché non comprare e mettere in mare una nave? Una nave battente bandiera italiana, in modo che nessun governo potesse chiuderle i porti del nostro Paese…

      Nei mesi successivi abbiamo misurato a pieno il carattere quasi donchisciottesco dell’impresa in cui avevamo deciso – letteralmente – di imbarcarci: una scommessa, un azzardo in qualche modo al buio. Qualche compagno, con conoscenza professionale dei mondi che ruotano attorno alle navi, ci ha aiutato a orientarci. Per un po’ abbiamo accantonato la filosofia e la teoria politica, cercando di farci almeno un’idea del diritto della navigazione, dell’ingegneria navale e della scienza logistica applicata. Mentre la ricerca della nave proseguiva, abbiamo trovato molti complici e sodali, a volte inaspettati e spesso proprio in quei mondi dello shipping dove il principio per cui “ogni singola vita a rischio in mare deve essere messa al sicuro” appare profondamente radicato e viene ritenuto intangibile. E abbiamo incontrato la disponibilità di Banca Etica a sostenere il progetto dal punto di vista finanziario, aprendo una linea di credito dedicata.

      Dentro e contro i mondi della logistica e della finanza ha dunque cominciato a prendere corpo “Mediterranea”, mentre un insieme di soggetti collettivi di diversa provenienza e natura si aggregava a prefigurare un’originale piattaforma sociale e politica. Quando infine abbiamo trovato e siamo riusciti ad acquistare la nave (la “Mare Jonio”), abbiamo subito capito che il lavoro più importante – costruire la nostra nave – cominciava allora: si trattava intanto, letteralmente, di adeguarla alle operazioni di “ricerca e salvataggio” (un compito a cui si sono dedicati con entusiasmo decine di compagne e compagni, con l’essenziale collaborazione della ONG tedesca Sea Watch); e poi di preparare gli equipaggi e di tessere le reti di terra che avrebbero sostenuto e reso possibile l’azione in mare della “Mare Jonio”. Questo lavoro di costruzione collettiva è ben lungi dall’essere terminato. E tuttavia, nella notte tra il 3 e il 4 ottobre, la nostra nave è salpata per la sua prima missione. Senza alcuna supponenza abbiamo pensato che un primo obiettivo era stato raggiunto. Avevamo dimostrato che si può fare.

      Per mare …

      Tra il 4 ottobre e il 4 dicembre scorsi la “Mare Jonio” ha percorso in tre distinte missioni più di 4.800 miglia marine, più o meno la distanza che separava i migranti italiani tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dall’agognato approdo a Ellis Island. Ci siamo mossi all’interno di quello che viene chiamato il Mediterraneo Centrale, entro un mare solcato e striato da tensioni geopolitiche che si traducono in confini elusivi, ma non per questo meno cogenti. Il caleidoscopio composto da acque territoriali, zone contigue, zone economiche esclusive, aree SAR (Search And Rescue) è come tagliato trasversalmente dalle linee di attrito tra Grecia e Turchia (che solcano il Mediterraneo Orientale), tra Marocco e Spagna (il Mediterraneo Occidentale) e tra Italia e Libia (appunto il Mediterraneo Centrale), con altri Paesi costieri a fare ciascuno il proprio gioco (dalla Tunisia a Malta, dall’Algeria all’Egitto).

      Non è affatto casuale che le aree marittime appena menzionate corrispondano anche alle tre principali “rotte” seguite dai flussi migratori verso l’Europa e che la maggiore o minore pressione lungo ciascuno di questi corridoi di transito rinvii, di volta in volta, a cangianti condizioni economiche, sociali e politiche nei Paesi di partenza e di arrivo; alle spinte soggettive che caratterizzano la propensione a migrare di questa o quella composizione; alle differenti e articolate strategie di gestione dei flussi, prima fra tutte la progressiva esternalizzazione dei confini dell’Unione Europea stessa, in un gioco di continui ridislocamenti che sembra ben lungi dall’aver trovato un suo punto di equilibrio. Basti pensare al ruolo che il Marocco si sta oggi preparando (nuovamente) a giocare sul terreno – mercantile! – degli accordi per il contenimento e il respingimento, entro un quadro in cui l’accordo tra UE e Turchia e i patti stretti da diversi governi italiani con tribù e milizie libiche hanno fatto, negli ultimi tre anni, da apripista. O, in quest’ultimo quadrante, ai tentativi di spostare più a sud, alla frontiera tra Niger e Libia, il “lavoro sporco” svolto in questi anni da apparati “formali e informali” in Tripolitania e Cirenaica.

      In questa cornice, di cui abbiamo potuto registrare le continue modificazioni perfino nel corso delle otto settimane delle nostre prime tre missioni, la presenza e l’attività della “Mare Jonio” hanno messo in tensione il regime SAR, costringendo più volte imbarcazioni della Guardia Costiera maltese e italiana a muoversi in soccorso dei migranti, e hanno svolto una rilevante funzione di inchiesta, facendo luce là dove si pretendeva (obiettivo essenziale dell’attacco alle ONG) che non ci fossero più testimoni attenti e consapevoli. L’Operazione Mediterranea ha conteso con successo alle “autorità competenti” il diritto a intervenire in aree di crisi e ha così aperto un campo in cui sono divenute visibili le trasformazioni già intervenute e in atto nel regime SAR, le cui aree di competenza funzionale sono state via via interpretate come veri e propri spazi di esercizio di sovranità nazionali, sostituendo nei fatti la logica del primato della concreta efficacia nel salvataggio in mare con quella mortifera della sclerotizzazione burocratica dei protocolli operativi nella gestione di rigide “frontiere” acquee. Abbiamo così disvelato e misurato nei fatti la ormai costitutiva inadeguatezza dell’attuale regime SAR a esercitare funzioni di soccorso in mare, ma anche una serie di elementi di cruciale importanza: il fatto che dalla Libia, al contrario di quanto affermato dalla propaganda del governo italiano, si continui a partire, seppure con modalità diverse rispetto al passato; le mutate geografie, i nuovi assetti logistici, la composizione variabile degli attraversamenti del Mediterraneo; la dipendenza dell’intervento sui flussi a monte, cioè sul territorio libico, dalla contingenza di complessi e tutt’altro che trasparenti giochi di potere, economico e politico (come si è visto in coincidenza con lo svolgimento a Palermo, nel novembre scorso, della Conferenza Internazionale sulla Libia); la continuità dell’intervento della “Guardia Costiera” libica (le virgolette sono d’obbligo, visto che al suo interno operano, sotto diretta supervisione del Viminale, soggetti che fino a pochi mesi fa sarebbero stati considerati “trafficanti di esseri umani”) nell’agire dentro e fuori le acque territoriali del Paese africano per operare veri e propri respingimenti collettivi; la resistenza, la formidabile determinazione delle donne e degli uomini in fuga dai campi di detenzione libici a non farsi ricondurre in quei luoghi di violenza e di sfruttamento (le due vicende della nave “Nivin” e del peschereccio “Nuestra Madre de Loreto” sono da questo punto di vista esemplari).

      A metà novembre il ministro dell’Interno italiano ha annunciato trionfalmente che il Mediterraneo era stato infine liberato dalla presenza delle navi delle ONG. “Mediterranea”, con la sua azione, ha al contrario determinato le condizioni di possibilità di un’alleanza transnazionale senza precedenti tra diverse ONG: nel corso di quella che è stata per noi la terza missione ci siamo coalizzati con Open Arms e Sea Watch, dando vita a United4Med e mettendo in mare un piccola flotta, sostenuta dal cielo da due velivoli da ricognizione. Indipendentemente dagli esiti di questa missione (caratterizzata dall’intervento a sostegno del peschereccio “Nuestra Madre de Loreto”), sono state poste le condizioni per un coordinamento operativo destinato a durare nel tempo e per ulteriori nuove alleanze nei prossimi mesi. Ma un momento di significativa importanza è stata anche la sosta di diversi giorni nel porto di Zarzis, in Tunisia, dove l’incontro con le associazioni dei pescatori – da sempre impegnati nelle operazioni di soccorso in mare, e per questo criminalizzati in Italia – e con gli attivisti del “Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali”, ci ha consentito di cominciare a gettare ponti con la terra non solo verso Nord, ma anche verso Sud.

      … e per terra.

      La costruzione di una forte e strutturale connessione tra “terra e mare” è stata per noi fin dall’inizio, del resto, uno degli obiettivi essenziali di “Mediterranea”. Abbiamo spesso affermato che non siamo una ONG, senza per questo mancare di riconoscere l’importanza fondamentale, per il nostro progetto, della collaborazione con Sea Watch e Open Arms, la straordinaria passione che anima molte volontarie e molti volontari delle ONG, e i risultati concreti ottenuti negli anni da queste ultime, in termini di vite umane strappate a morte certa. Quest’affermazione significa piuttosto che non consideriamo il nostro intervento semplicemente limitato ai luoghi in cui si produce l’emergenza “umanitaria”; che ne enfatizziamo il carattere politico e non semplicemente “tecnico” o “neutrale”; che rivendichiamo la possibilità di agire, laddove se ne determinino le condizioni, al di fuori dei quadri giuridici stabiliti, per alludere semmai alla fondazione conflittuale di nuovi diritti.

      È su queste basi che valutiamo l’indubbio successo che “Mediterranea” ha raccolto in terra (tra l’altro per i risultati, inediti per il contesto italiano, del crowdfunding, con quasi quattrocentomila euro raccolti in poco più di due mesi). Tanto nel corso delle iniziative organizzate da un gruppo di donne e uomini di cultura e spettacolo (la “Via di Terra”), quanto nelle decine e decine di assemblee che si sono tenute in tutta Italia (e in qualche città europea) abbiamo fatto esperienza di un entusiasmo e di una passione, di una partecipazione anche emotiva, di una curiosità e di un’adesione che da tempo non ricordavamo. Si badi: queste “tonalità emotive” non corrispondono in alcun modo a un’omogeneità politica. La nostra nave è stata appropriata e in qualche modo reinventata dalle posizioni più diverse, all’interno di centri sociali così come di parrocchie, di università e di scuole, di piccoli circoli di Paese e di assemblee metropolitane; mentre il 24 novembre, ci piace ricordarlo, sulla “Mare Jonio” la bandiera di “Mediterranea” ha sventolato accanto a quella del movimento più forte e radicale dei nostri giorni, “Non Una di Meno”. Ma è proprio questa eccedenza di significati attribuiti a “Mediterranea”, anche al di là delle intenzioni iniziali di questo progetto, a rappresentare per noi il dato più significativo. E a costituire la potenzialità più rilevante per l’immediato futuro.

      La situazione “in terra” è del resto anch’essa cambiata nei due mesi in cui la “Mare Jonio” ha effettuato le sue missioni nel Mediterraneo. Il consolidamento dell’egemonia di Salvini all’interno del governo “giallo-verde” e l’indubbio consenso che circonda la sua azione si sono coniugati con la conversione in legge del cosiddetto “Decreto sicurezza” (mentre un discorso a parte meriterebbe la vicenda della legge di Bilancio e lo “scontro” con la Commissione Europea). Non è questo il luogo per un’analisi nel dettaglio delle disposizioni di legge in esso contenute. Basti dire che il drastico ridimensionamento del sistema SPRAR punta a radicare ulteriormente nel tessuto sociale una logica emergenziale, producendo “illegalità” e rendendo sempre più fragile e insicura la condizione di migliaia di profughi e migranti. Mentre il sostanziale smantellamento della “protezione umanitaria” colpisce tra l’altro duramente, e in modo selettivo, le donne migranti, in particolare quelle in fuga da condizioni di violenza. Al tempo stesso, l’inasprimento delle sanzioni penali per blocchi stradali e occupazioni abitative colpisce in primo luogo ancora i e le migranti, protagonisti in questi anni di straordinarie lotte sul lavoro (si pensi ai blocchi dei magazzini della logistica) e per la casa.

      Siamo di fronte a un tendenziale azzeramento delle mediazioni, che si manifesta prima di tutto sul terreno della migrazione, ma che si indirizza selettivamente contro un insieme più ampio di soggetti. Come agire di fronte a questa rottura? “Mediterranea” non ha certo lezioni da impartire a chi quotidianamente pratica la resistenza. Ha forse però, a partire dalla sua parziale esperienza, almeno due indicazioni da proporre.

      In primo luogo, mostra l’importanza di accompagnare all’azione di resistenza la messa in campo di pratiche capaci di intervenire direttamente sui problemi che si presentano. Si può pensare che oggi queste pratiche possano e debbano dispiegarsi anche sul terreno della costruzione di infrastrutture, materiali e immateriali, una costruzione aperta e in divenire, come aperta e in divenire è stata ed è la costruzione della nostra nave. Proviamo a immaginare un’azione che combini, in modo aperto ed espansivo, la resistenza allo smantellamento del sistema SPRAR e della protezione umanitaria con la costruzione di infrastrutture alternative per l’ “accoglienza”, coinvolgendo il mondo degli operatori e delle operatrici e facendo tesoro dell’esperienza dei centri anti-violenza e delle case rifugio all’interno del movimento femminista. Non ne risulterebbe straordinariamente più forte la stessa resistenza?

      In secondo luogo, “Mediterranea” può offrire l’esperienza di quella che vorremmo chiamare una politica del diritto, ovvero di un tentativo di affermare (ancora una volta: con una pratica) la legittimità e la legalità di qualcosa di tanto elementare quanto il dovere di salvare i naufraghi in mare. In questo tentativo, ha “testato” l’intreccio tra molteplici sistemi giuridici (quelli nazionali, quello europeo, il “diritto internazionale del mare”), tentando di allargare le tensioni all’interno e tra di essi, aprendo varchi e scontrandosi con limiti. È un tentativo che bisogna continuare a fare (per mare così come per terra) con maggiore determinazione. E con la necessaria spregiudicatezza e radicalità, perché siamo convinti che di fronte ai limiti occorra forzare, sia cioè indispensabile praticare, dal nostro punto di vista, la rottura.

      To be continued.

      Che cosa può dunque una nave? Va da sé che c’è un tratto ironico in questa variazione sul tema di una celebre domanda deleuziana. Pur non disdegnando imprese donchisciottesche, cerchiamo di mantenere una qualche sobrietà. Indubbiamente, la nostra nave ha dimostrato di poter intervenire operativamente nel Mediterraneo, svolgendo tra le altre cose un’efficace funzione di inchiesta e denuncia sulle trasformazioni del regime SAR e delle dinamiche di attraversamento e rafforzamento del confine marittimo. Ha messo in collegamento le due sponde del Mediterraneo e ha prodotto straordinari effetti di risonanza in terra, aprendo spazi nuovi attraverso una molteplicità di incontri imprevisti. Ma una nave può essere soltanto uno dei molti dispositivi di cui dobbiamo dotarci nella lotta per costruire un mondo in cui sia possibile, tanto per cominciare, respirare più liberamente.

      In ogni caso, la nostra nave – lo abbiamo detto più volte – è in costruzione, ed è in fondo questo ininterrotto processo di costruzione collettiva che ci sembra prezioso. Che cosa diventerà “Mediterranea” nei prossimi mesi? È una domanda che deve rimanere aperta nelle sue linee generali. Certamente, proseguiremo le operazioni marittime. Questo richiederà un’ulteriore “professionalizzazione” del lavoro, un salto di qualità nella strutturazione dell’ “impresa per fare l’impresa”, una rinnovata cura per gli aspetti logistici e finanziari, la formazione di attivisti e attiviste auspicabilmente nel quadro di una cooperazione rafforzata con diverse ONG. È questo un aspetto fondamentale di “Mediterranea”, nata da un patto tra soggetti diversi che si sono riconosciuti uguali nella condivisione dell’urgenza dell’intervento di soccorso in mare.

      Al tempo stesso, sarà necessario riaffermare e riqualificare il significato della nostra affermazione secondo cui “non siamo una ONG”. Si tratterà cioè di riprendere gli elementi essenziali che abbiamo indicato in precedenza: il carattere politico del progetto, la moltiplicazione di ponti tra il mare e la terra, una “politica del diritto” certo consapevole dei quadri ordinamentali dati (e delle forzate interpretazioni consuetudinarie che i più recenti rapporti di forza politici hanno orientato), ma anche determinata nella capacità di praticare rotture. E occorrerà farlo allargando le relazioni e approfondendo il lavoro tanto sul piano sociale quanto nello spazio europeo, puntando in primo luogo al coinvolgimento delle tante città che si sono costituite, esplicitamente o implicitamente, come “città rifugio” negli ultimi anni.

      Sono questioni attorno a cui è aperto il confronto tra tutti coloro che partecipano al progetto. La nostra proposta è quella di lavorare – da qui alla primavera – alla costruzione di una sorta di “stati generali” di “Mediterranea”: non un evento, ma l’esito di un percorso di inchiesta e di discussione, che riprenda i fili delle molte risposte che “Mediterranea” ha raccolto e che ci permetta di avanzare sul terreno della costruzione collettiva. Ripartire dai territori in cui si sono svolte (e continuano a svolgersi) le iniziative di sostegno al progetto, valorizzare gli “incontri imprevisti” per quel che riguarda tanto eterogenee aree politiche e culturali quanto i diversi “mondi” che abbiamo attraversato in questi mesi (da quelli dello shipping ai medici e agli operatori del diritto con cui abbiamo collaborato, per fare solo qualche esempio particolarmente importante): questo ci sembra possa essere il metodo da seguire, per continuare a essere là dove è necessario essere e agire – per mare e per terra.


      http://www.euronomade.info/?p=11437

  • Attivarsi ovunque contro le frontiere assassine

    Guido Viale, presidente dell’#Osservatorio_solidarietà della #Carta_di_Milano, ha aperto i lavori della conferenza Solidarietà attraverso i confini, il 25 marzo a Fa’ la cosa giusta, illustrando semplicemente che la viva voce dei tanti protagonisti presenti avrebbe dato il senso dell’iniziativa oggi ancora più importante dopo il sequestro della nave di Proactivia Openarms operato in dispregio delle leggi italiane e internazionali come atto intimidatorio contro chi nel pieno rispetto delle leggi e dei Diritti umani è impegnato per salvare vite umane che i governi della Fortezza Europa, Italia in testa, vorrebbero si concludessero senza clamore in fondo al mare nostrum. Dopo una sintetica illustrazione di Daniela Padoan delle attività dell’Osservatorio solidarietà e una poesia di Ahmed, letta da Denise Rogers, una ragazza argentina che ha dato voce ai tanti migranti morti, si sono susseguite le testimonianze da Ventimiglia, Bolzano, Lesbo, Atene, Como formando un quadro tragico della situazione ma dimostrando anche che c’è un’Europa della solidarietà e dei diritti che lotta contro leggi e governi custodi implacabili di frontiere assassine.

    https://ecoinformazioni.wordpress.com/2018/03/25/attivarsi-ovunque-contro-le-frntiere-assassine

    #solidarité #mer #terre #Méditerranée #Alpes #frontière_sud-alpine #criminalisation_de_la_solidarité #délit_de_solidarité #sauvetage

    J’aimerais ici reprendre les propos de Charles Heller, qui ont été publié dans une interview dans Libé :

    Ceux qui ont imposé le contrôle des frontières de l’espace européen utilisent le terme de #integrated_border_management, la « #gestion_intégrée_des_frontières » : il ne suffit pas de contrôler la limite de la frontière territoriale, il faut contrôler avant, sur et après la frontière. La violence du contrôle s’exerce sur toute la trajectoire des migrants. De la même manière, les pratiques de solidarité, plus ou moins politisées, s’exercent sur l’ensemble de leur trajectoire. On pourrait imaginer une « #solidarité_intégrée », qui n’est pas chapeautée par une organisation mais qui de fait opère, petit bout par petit bout, sur les trajectoires.

    https://www.pacte-grenoble.fr/sites/pacte/files/files/liberation_20171215_15-12-2017-extrait.pdf
    cc @isskein

    • Crimes of solidarity. Migration and containment through rescue

      ‘Solidarity is not a crime.’ This is a slogan that has circulated widely across Europe in response to legal prosecutions and municipal decrees, which, especially in Italy and France, have been intended to act against citizens who provide logistical and humanitarian support to transiting migrants. Such criminalisation of individual acts of solidarity and coordinated platforms of refugee support is undertaken both in the name of national and European laws, in opposition to the facilitation of irregular entries, and through arbitrary police measures. In Calais on the French coast, for example, locals have been prohibited from allowing migrants to take showers in their homes or to recharge their mobile phones, while in the Roya Valley at the Italian-French border, many locals have been placed on trial, including the now famous ploughman Cedric Herrou. Responding to accusations that he has been one of the main facilitators along the French-Italian underground migrant route, Herrou has replied that ‘it is the State that is acting illegally, not me’, referring to the French State’s own human rights violations. 1

      ‘Crimes of solidarity’, to use the expression employed by activists and human rights organisations, are defined and prosecuted according to the 2002 EU Directive which prevents and penalises ‘the facilitation of unauthorised entry, transit and residence’ of migrants. In both Italy and France there are national laws that criminalise the facilitation and the support of ‘irregular’ migration; what in France activists call ‘délit de solidarité’. Notably, citizens who help migrants to cross national borders are prosecuted in Italy under the same law that punishes smugglers who take money from migrants. In France, the ‘humanitarian clause’, which exempts from sanctions citizens who support migrants whose life, dignity and physical integrity is at risk, is often disregarded. Nonetheless, the expression ‘crimes of solidarity’ should not lead us to overstate the legal dimension of what is at stake in this. Indeed, the ‘crime’ that is posited here goes well beyond the legal boundaries of European law, as well as national ones, and acquires an ethical and political dimension. In particular, the criminalisation of individuals and groups who are facilitating the crossing of migrants, without making a profit from doing so, opens up the critical question of exactly ‘who is a smuggler?’ today. Significantly, the very definition of ‘smuggling’ in European and international documents is a fairly slippery one, as the boundaries between supporting migrants for one’s own financial benefit or for ‘humanitarian’ reasons are consistently blurred. 2

      In a 1979 interview, Michel Foucault stressed the potential strategic role that might be played by ‘rights’ to ‘mark out for a government its limit’. 3 In this way, Foucault gestured towards an extralegal conceptualisation and use of rights as actual limits to be set against governments. In the case of crimes of solidarity, we are confronted less, however, with the mobilisation of rights as limits to states’ action than with what Foucault calls ‘infra-legal illegalisms’; 4 namely, with practices of an active refusal of states’ arbitrary measures that are taken in the name of migration containment, regardless of whether or not the latter are legally grounded or in violation of the law.

      NGOs and independent organisations that undertake search and rescue activities to save migrants in the Mediterranean have also been under attack, accused of collaborating with smuggling networks, of constituting a pull-factor for migrants, and of ferrying them to Europe. Three years after the end of the military-humanitarian operation Mare Nostrum, which was deployed by the Italian Navy to save migrant lives at sea, the Mediterranean has become the site of a sort of naval battle in which the obligation to rescue migrants in distress is no longer the priority. The fight against smugglers and traffickers has taken central stage, and the figure of the shipwrecked refugee has consequently vanished little by little. Today, the war on smugglers is presented as the primary goal and, at the same time, as a strategy to protect migrants from ‘traffickers’. The criminalisation of NGOs, like Doctors without Borders, Save the Children and SOS Mediterranee, and of independent actors, including Sea-Eye, Sea-Watch, Jugend-Rettet and Arms Pro-Activa, who conduct search and rescue operations, started with the simultaneous implementation of the Libyan mobile sea-barrier, which charges the Libyan Coast Guard with responsibility for intercepting migrant vessels and bringing them back to Libya. As a consequence of this agreement, being rescued means being captured and contained.

      Following the signing of a new bilateral agreement between Libya and Italy in March 2017, in July, the Italian government put pressure on one of the three Libyan governments (the one led by Fayez al-Serraj) demanding better cooperation in intercepting and returning migrants who head to Europe by sea. In order to accelerate this process, Italy sent two Navy ships into Libyan national waters, with the purpose of ‘strengthening Libyan sovereignty by helping the country to keep control of its national waters’. 5

      Far from being a smooth negotiation, however, the Libyan government led by General Khalifa Haftar threatened to shoot in the direction of the Italian ships if they were to violate Libya’s sovereignty by entering their national territory. 6

      Overall, the ‘migration deal’ has been made by the EU and Italy in the context of different asymmetric relationships: on the one hand, with a ‘rogue state’ such as Libya, characterised by a fragmented sovereignty, and on the other, with non-state actors, and more precisely with the same smugglers that Europe has supposedly declared war on. Indeed, as various journalistic investigations have proved, Italy has paid Libyan militias and smuggling networks to block migrants’ departures temporarily in exchange for fewer controls on other smuggling channels, specifically those involving drugs and weapons. In this way, smugglers have been incorporated into a politics of migration containment. Governing migration through and with smugglers has become fully part of the EU’s political agenda. As such, a critical appraisal of the criminalisation of migrant smuggling requires undoing the existing narrative of a war on smugglers, as well as challenging those analyses that simply posit smugglers as the straightforward enemies of society.

      The naval battle in the Mediterranean has not been an exclusive affair of Italy and Libya. On the contrary, it is within this type of geopolitical context that the escalating criminalisation of sea rescue is more broadly taking place. 7 On July 31, at the request of the European Commission, the Italian Home Office released a ‘Code of Conduct’ that NGOs have been asked to sign if they want to continue search and rescue activities. Given that the code of conduct imposes on NGOs the obligation to have armed judicial police on board, 8 some organisations, including Doctors without Borders, Sea Watch and Jugend Rettet, have refused to sign, arguing that through the enforcement of the Code of Conduct, and under pressure from the European Commission, Italy has turned towards a militarisation of humanitarianism and of independent actors. As a consequence of the refusal to sign, their ships have been prevented from docking in Italian ports and the rescuers of the Jugend Rettet are currently on trial, accused of collaborating with Libyan smugglers. On August 11, Libya traced new virtual restrictive sea borders for NGOs, declaring that search and rescue ships will not be allowed to get closer than one hundred miles from the Libyan coast. The humanitarian scene of rescue has been shrunk.

      In such a political context, two interrelated aspects emerging from the multiplication of attacks against refugee support activities and against search and rescue operations are worth considering. The first concerns a need to unpack what is now meant by the very expression ‘crime of solidarity’ within the framework of this shift towards the priority of fighting smugglers over saving migrants. This requires an engagement with the biopolitical predicaments that sustain a debate centered on the question of to what extent, and up to which point, rescuing migrants at sea is deemed legitimate. The second, related point concerns the modes of containment through rescue that are currently at work in the Mediterranean. One consequence of this is that the reframing of the debate around migrant deaths at sea has lowered the level of critique of a contemporary politics of migration more generally: the fight against smugglers has become the unquestioned and unyielding point of agreement, supported across more or less the entire European political arena.

      The criminalisation of NGOs, accused of ferrying migrants to Europe, should be read in partial continuity with the attack against other forms of support given to migrants in many European countries. The use of the term ‘solidarity’ is helpful in this context insofar as it helps to highlight both actions undertaken by citizens in support of refugees and, more importantly, the transversal alliances between migrants and non-migrants. In fact, acting in solidarity entails supporting migrant struggles – for example, as struggles for movement or struggles to stay in a certain place – more than it does acting in order to save or bring help to them. 9 As Chandra Mohanty argues, practices of solidarity are predicated upon the recognition of ‘common differences’, 10 and in this sense they entail a certain shared political space and the awareness of being governed by the same mechanisms of precaritisation and exploitation. 11 In other words, solidarity does not at all imply a simple politics of identity, but requires building transversal alliances and networks in support of certain struggles. The reduction of migrants to bodies to be fished out of the water, simultaneous with the vanishing of the figure of the refugee, preemptively denies the possibility of establishing a common ground in struggling for freedom of movement and equal access to mobility.

      Despite the many continuities and similarities between the criminalisation of refugee support activities on the mainland and at sea, if we shift the attention to the Mediterranean Sea, what is specifically at stake here is a biopolitics of rescuing or ‘letting drown’. Under attack in the Mediterranean scene of rescue and drowning are what could be termed crimes of humanitarianism; or, that is, crimes of rescue. Humanitarianism as such, precisely in its acts of taking migrants out of the sea through independent search and rescue operations that exercise an active refusal of the geographical restrictions imposed by nation states, has become an uncomfortable and unbearable mode of intervention in the Mediterranean.
      Geographies of ungrievability

      The criminalisation of alliances and initiatives in support of migrants’ transit should not lead us to imagine a stark opposition between ‘good humanitarians’, on the one side, and bad military actors or national authorities, on the other. On the contrary, it is important to keep in mind the many entanglements between military and humanitarian measures, as well as the role played by military actors, such as the Navy, in performing tasks like rescuing migrants at sea that could fall under the category of what Cuttitta terms ‘military-humanitarianism’. 12 Moreover, the Code of Conduct enforced by the Italian government actually strengthens the divide between ‘good’ NGOs and ‘treacherous’ humanitarian actors. Thus, far from building a cohesive front, the obligation to sign the Code of Conduct produced a split among those NGOs involved in search and rescue operations.

      In the meantime, the figure of the refugee at sea has arguably faded away: sea rescue operations are in fact currently deployed with the twofold task of not letting migrants drown and of fighting smugglers, which de facto entails undermining the only effective channels of sea passage for migrants across the Mediterranean. From a military-humanitarian approach that, under Mare Nostrum, considered refugees at sea as shipwrecked lives, the unconditionality of rescue is now subjected to the aim of dismantling the migrants’ logistics of crossing. At the same time, the migrant drowning at sea is ultimately not seen any longer as a refugee, i.e. as a subject of rights who is seeking protection, but as a life to be rescued in the technical sense of being fished out of the sea. In other words, the migrant at sea is the subject who eventually needs to be rescued, but not thereby placed into safety by granting them protection and refuge in Europe. What happens ‘after landing’ is something not considered within the framework of a biopolitics of rescuing and of letting drown. 13 Indeed, the latter is not only about saving (or not saving) migrants at sea, but also, in a more proactive way, about aiming at human targets. In manhunting, Gregoire Chamayou explains, ‘the combat zone tends to be reduced to the body of the enemy’. 14 Yet who is the human target of migrant hunts in the Mediterranean? It is not only the migrant in distress at sea, who in fact is rescued and captured at the same time; rather, migrants and smugglers are both considered the ‘prey’ of contemporary military-humanitarianism.

      Public debate in Europe about the criminalisation of NGOs and sea rescue is characterised by a polarisation between those who posit the non-negotiable obligation to rescue migrants and those who want to limit rescue operations in the name of regaining control over migrant arrivals, stemming the flows and keeping them in Libya. What remains outside the order of this discourse is the shrinking and disappearing figure of the refugee, who is superseded by the figure of the migrant to be taken out of the sea.

      Relatedly, the exclusive focus on the Mediterranean Sea itself contributes to strengthening geographies of ungrievability. By this I mean those produced hierarchies of migrant deaths that are essentially dependent on their more or less consistent geographic distance from Europe’s spotlight and, at the same time, on the assumption of shipwrecked migrants as the most embodied refugee subjectivities. More precisely, the recent multiplication of bilateral agreements between EU member states and African countries has moved back deadly frontiers from the Mediterranean Sea to the Libyan and Niger desert. As a consequence, migrants who do not die at sea but who manage to arrive in Libya are kept in Libyan prisons.
      Containment through rescue

      On 12 August 2017, Doctors without Borders decided to stop search and rescue operations in the Mediterranean after Libya enforced its sea-barrier by forbidding NGOs to go closer than about one hundred miles from the Libyan coast, and threatening to shoot at those ships that sought to violate the ban. In the space of two days, even Save the Children and the independent German organisation Sea-Eye declared that they would also suspend search and rescue activities. The NGOs’ Mediterranean exit has been presented by humanitarian actors as a refusal to be coopted into the EU-Libyan enforcement of a sea barrier against migrants. Yet, in truth, both the Italian government and the EU have been rather obviously pleased by the humanitarians’ withdrawal from the Mediterranean scene of drown and rescue.

      Should we therefore understand the ongoing criminalisation of NGOs as the attempt to fully block migrant flows? Does it indicate a return from the staging of a ‘good scene of rescue’ back to an overt militarisation of the Mediterranean? The problem is that such an analytical angle risks, first, corroborating the misleading opposition between military intervention and humanitarianism in the field of migration governmentality. Second, it re-instantiates the image of a Fortress Europe, while disregarding the huge ‘migration industry’ that is flourishing both in Libya, with the smuggling-and-detention market, and on the Northern shore of the Mediterranean. 15 With the empty space left by the NGOs at sea, the biopolitics of rescuing or letting drown has been reshaped by new modes of containment through rescue: migrants who manage to leave the Libyan coast are ‘rescued’ – that is, intercepted and blocked – by the Libyan Coast Guard and taken back to Libya. Yet containment should not be confused with detention nor with a total blockage of migrants’ movements and departures. Rather, by ‘containment’ I refer to the substantial disruptions and decelerations of migrant movements, as well as to the effects of more or less temporary spatial confinement. Modes of containment through rescue were already in place, to some extent, when migrants used to be ‘ferried’ to Italy in a smoother way, by the Navy or by NGOs. Indeed, from the moment of rescue onward, migrants were transferred and channelled into the Hotspot System, where many were denied international protection and, thus, rendered ‘illegal’ and constructed as deportable subjects. 16 The distinction between intercepting vessels sailing to Europe and saving migrants in distress has become blurred: with the enforcement of the Libyan sea barrier, rescue and capture can hardly be separated any longer. In this sense, visibility can be a trap: if images taken by drones or radars are sent to Italian authorities before migrants enter international waters, the Italian Coast Guard has to inform Libyan authorities who are in charge of rescuing migrants and thus taking them back to Libya.

      This entails a spatial rerouting of military-humanitarianism, in which migrants are paradoxically rescued to Libya. Rather than vanishing from the Mediterranean scene, the politics of rescue, conceived in terms of not letting people die, has been reshaped as a technique of capture. At the same time, the geographic orientation of humanitarianism has been inverted: migrants are ‘saved’ and dropped in Libya. Despite the fact that various journalistic investigations and UN reports have shown that after being intercepted, rescued and taken back to Libya, migrants are kept in detention in abysmal conditions and are blackmailed by smugglers, 17 the public discussion remains substantially polarised around the questions of deaths at sea. Should migrants be saved unconditionally? Or, should rescue be secondary to measures against smugglers and balanced against the risk of ‘migrant invasion’? A hierarchy of the spaces of death and confinement is in part determined by the criterion of geographical proximity, which contributes to the sidelining of mechanisms of exploitation and of a politics of letting die that takes place beyond the geopolitical borders of Europe. The biopolitical hold over migrants becomes apparent at sea: practices of solidarity are transformed into a relationship between rescuers and drowned. 18

      The criminalisation of refugee support activities cannot be separated from the increasing criminalisation of refugees as such: not only those who are labelled and declared illegal as ‘economic migrants’, but also those people who are accorded the status of refugees. Both are targets of restrictive and racialised measures of control. The migrant at sea is presented as part of a continuum of ‘tricky subjectivities’ 19 – which include the smuggler, the potential terrorist and the refugee – and as both a ‘risky subject’ and a ‘subject at risk’ at the same time. 20 In this regard, it is noticeable that the criminalisation of refugees as such has been achieved precisely through the major role played by the figure of the smuggler. In the EU’s declared fight against smuggling networks, migrants at sea are seen not only as shipwrecked lives to be rescued but also as potential fake refugees, as concealed terrorists or as traffickers. At the same time, the fight against smugglers has been used to enact a further shift in the criminalisation of refugees, which goes beyond the alleged dangerousness of migrants. Indeed, in the name of the war against the ‘illegal’ smuggling economy, as a shared priority of both left- and right-wing political parties in Europe, the strategy of letting migrants drown comes, in the end, to be justified. As Doctors without Borders have pointed out, ‘by declaring Libya a safe country, European governments are ultimately pushing forward the humanitarianisation of what appears at the threshold of the inhuman.’ 21

      The migrant at sea, who is the subject of humanitarianism par excellence, is no longer an individual to be saved at all costs, but rather the object of thorny calculations about the tolerated number of migrant arrivals and the migrant-money exchange with Libya. Who is (in) danger(ous)? The legal prosecutions and the political condemnation of ‘crimes of rescue’ and of ‘crimes of solidarity’ bring to the fore the undesirability of refugees as refugees. This does not depend so much on a logic of social dangerousness as such, but, rather, on the practices of spatial disobedience that they enact, against the restrictions imposed by the European Union. Thus, it is precisely the irreducibility of migrants to lives to be rescued that makes the refugee the main figure of a continuum of tricky subjectivities in a time of economic crisis. Yet, a critical engagement with the biopolitics of rescuing and drowning cannot stick to a North-South gaze on Mediterranean migrations. In order not to fall into a Eurocentric (or EU-centric) perspective on asylum, analyses of crimes of solidarity should also be articulated through an inquiry into the Libyan economy of migration and the modes of commodification of migrant bodies, considering what Brett Neilson calls ‘migration as a currency’; 22 that is, as an entity of exchange and as a source of value extraction.

      Crimes of solidarity put in place critical infrastructures to support migrants’ acts of spatial disobedience. These infra-legal crimes shed light on the inadequacy of human rights claims and of the legal framework in a time of hyper-visible and escalating border violence. Crimes of solidarity consist of individual and collective active refusals of states’ interventions, which are specifically carried out at the very edges of the law. In this way, crimes of solidarity manage to undo the biopolitics of rescuing and letting drown by acting beyond the existing scripts of ‘crisis’ and ‘security’. Rather than being ‘rescued’ from the sea or ‘saved’ from smugglers, migrants are supported in their unbearable practices of freedom, unsettling the contemporary hierarchies of lives and populations.
      Notes

      See the interview with Herrou in l’Humanité, accessed 30 September 2017, https://www.humanite.fr/cedric-herrou-cest-letat-qui-est-dans-lillegalite-pas-moi-629732. ^

      Economic profit is an essential dimension of ‘smuggling’, as it is defined by the United Nations Conventions against Transnational Organised Crime (2000). However, it is not in the 2002 EU Council Directive defining the facilitation of unauthorised entry, transit and residence. ^

      Michel Foucault, ‘There can’t be societies without uprisings’, trans. Farès Sassine, in Foucault and the Making of Subjects, ed. Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini and Martina Tazzioli (London: Rowman & Littlefield, 2016), 40. ^

      See Michel Foucault, The Punitive Society: Lectures at the Collège de France, 1972-1973, trans. Graham Burchell (Houndmills and New York: Palgrave, 2015). ^

      See ‘Il governo vara la missione navale, prima nave italiana in Libia’, La Stampa, 18 July 2017, http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2017/07/28/ASBvqlaI-parlamento_missione_italiana.shtml. ^

      See, for example, the report in Al Arabiya, 3 August 2017, http://english.alarabiya.net/en/News/middle-east/2017/08/03/Haftar-instructs-bombing-Italian-warships-requested-by-Fayez-al-S ^

      See Liz Fekete, ‘Europe: crimes of solidarity’, Race & Class 50:4 (2009), 83 – 97; and Eric Fassin, ‘Le procès politique de la solidarité (3/4): les ONG en Méditerranée’ (2017), Mediapart, accessed 30 September 2017, https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/170817/le-proces-politique-de-la-solidarite-34-les-ong-en-mediterranee ^

      The Code of Conduct can be found at: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/codice_condotta_ong.pdf; see also the transcript by Euronews, 3 August 2017, http://www.euronews.com/2017/08/03/text-of-italys-code-of-conduct-for-ngos-involved-in-migrant-rescue ^

      Sandro Mezzadra and Mario Neumann, ‘Al di la dell’opposizione tra interesse e identità. Per una politica di classe all’altezza dei tempi’ (2017), Euronomade, accessed September 30 2017, http://www.euronomade.info/?p=9402 ^

      Chandra Mohanty, “‘Under western eyes’’ revisited: feminist solidarity through anticapitalist struggles’, in Signs: Journal of Women in Culture and Society 28:2 (2003), 499-–535. ^

      As Foucault puts it, ‘In the end, we are all governed, and in this sense we all act in solidarity’. Michel Foucault, ‘Face aux gouvernement, les droits de l’homme’, in Dits et Ecrits II (Paris: Gallimard, 2000), 1526. ^

      P. Cuttitta, ‘From the Cap Anamur to Mare Nostrum: Humanitarianism and migration controls at the EU’s Maritime borders’, in The Common European Asylum System and Human Rights: Enhancing Protection in Times of Emergency, ed. Claudio Matera and Amanda Taylor (The Hague: Asser Institute, 2014), 21–-38. See also Martina Tazzioli, ‘The desultory politics of mobility and the humanitarian-military border in the Mediterranean: Mare Nostrum beyond the sea’, REMHU: Revista Interdisciplinar da Mobilidade Humana 23:44 (2015), 61-–82. ^

      See Lucia Ciabarri and Barbara Pinelli, eds, Dopo l’Approdo: Un racconto per immagini e parole sui richiedenti asilo in Italia (Firenze: Editpress, 2016). ^

      Gregoire Chamayou, ‘The Manhunt Doctrine’, Radical Philosophy 169 (2011), 3. ^

      As a matter of fact, the vessels of the EU naval operation EU Navfor Med and the vessels of the Frontex operation ‘Triton’ were increased in number a few days after the pull-out of the NGOs. ^

      Nicholas De Genova, ‘Spectacles of migrant “illegality”: the scene of exclusion, the obscene of inclusion’, Ethnic and Racial Studies 36:7 (2013), 1180-–1198. ^

      See, for instance, the UN Report on Libya (2017), accessed 30 September 2017,http://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/N1711623.pdf. ^

      Tugba Basaran, ‘The saved and the drowned: Governing indifference in the name of security’, Security Dialogue 46:3 (2015), 205 – 220. ^

      Glenda Garelli and Martina Tazzioli, ‘The Biopolitical Warfare on Migrants: EU Naval Force and NATO Operations of migration government in the Mediterranean’, in Critical Military Studies, forthcoming 2017. ^

      Claudia Aradau, ‘The perverse politics of four-letter words: risk and pity in the securitisation of human trafficking’, Millennium 33:2 (2004), 251-–277. ^

      Interview with Doctors without Borders, Rome, 21 August 2017. ^

      Brett Neilson, ‘The Currency of Migration’, in South Atlantic Quarterly, forthcoming 2018.

      https://www.radicalphilosophy.com/commentary/crimes-of-solidarity

      signalé par @isskein sur FB

  • Bonjour à tout·es.

    Craignant qu’un jour, peut-être, qui sait, on ne sait jamais dans la vie, mes commentaires au post de @ninachani vont disparaître car elle décide d’effacer son message... J’ai décidé, aujourd’hui, de copier-coller ici tous les message (yes, je suis folle !) et d’alimenter donc un post qui est le mien et que je peux donc mieux « contrôler ».
    Cela ouvre évidemment le débat (qui probablement est déjà en cours) sur l’archivage et le stockage, les sauvegardes possibles des informations qui circulent sur @seenthis.

    Il s’agit de la longue compilation sur #Briançon et les #réfugiés, que pas mal de seenthisiens suivent.

    J’alimenterais désormais cet argument à partir de ce post.
    A bon entendeur... pour celles et ceux qui aimerait continuer à suivre la situation de cette portion de la #frontière_sud-alpine.

    • « Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige » - Libération

      De 1 500 à 2 000 migrants arrivés d’Italie ont tenté une dangereuse traversée des Alpes depuis trois mois. Traqués par les autorités, ils voient les villageois s’organiser pour leur venir en aide.
      Col de Montgenèvre, à 1 850 mètres d’altitude sur la frontière franco-italienne, samedi soir. Le thermomètre affiche -8 degrés sous abri, il y a près de 80 centimètres de neige fraîche. Joël (1), accompagnateur en montagne, court aux quatre coins de la station de ski située sur le côté français du col. Il croise deux migrants, des jeunes Africains égarés dans une rue, les met au chaud dans son minibus, puis repart. Dans la nuit, un hélicoptère tourne sans discontinuer au-dessus du col : la police de l’air et des frontières ? Depuis des mois, les forces de l’ordre sont à cran sur les cols des Hautes-Alpes. Elles tentent d’intercepter les migrants afin de les reconduire à la frontière où, majeurs ou non, ils sont déposés sur le bord de la route quelles que soient les conditions climatiques.
      Joël trouve trois autres migrants planqués dans la neige, apeurés, grelottant, baskets légères et jeans trempés raidis par le gel, puis sept autres encore, dont plusieurs frigorifiés. La « maraude » du montagnard lui aura permis ce soir de récupérer onze jeunes Africains. Peu loquaces, hébétés, ils disent avoir marché plusieurs heures depuis l’Italie pour contourner le poste frontière de Montgenèvre. Ils arrivent du Sénégal, du Cameroun ou du Mali, tous sont passés par la Libye et ont traversé la Méditerranée.

      Miraculé.
      Joël les descend dans la vallée, à Briançon, sous-préfecture située à 10 kilomètres de là. Ils sont pris en charge par les bénévoles du centre d’hébergement d’urgence géré par l’association Collectif refuge solidarité : bains d’eau chaude pour les pieds, vêtements secs, soupe fumante… Autour de ce refuge, où se succèdent jour après jour des dizaines de migrants, gravitent une centaine de bénévoles, citoyens de la vallée, qui se relaient auprès de ces jeunes hommes, africains dans leur immense majorité. Ces trois derniers mois, ils sont sans doute de 1 500 à 2 000 à avoir transité par Briançon, tous arrivés par la montagne, estime Marie Dorléans, du collectif local Tous migrants.

      Si ce samedi soir tout s’est passé sans drame au col de Montgenèvre (qui reste ouvert tout l’hiver), ce n’est pas le cas dimanche matin du côté du col frontalier de l’Echelle, à quelques kilomètres de là (fermé tout l’hiver en raison de la neige). D’autres maraudeurs, membres comme Joël, du même réseau informel d’une quarantaine de montagnards professionnels et amateurs, découvrent sous le col un jeune Africain originaire de Guinée-Conakry, Moussa. Il est à bout de forces, affalé dans la neige à près de 1 700 mètres d’altitude. Il a perdu ses chaussures : ses pieds sont insensibles, gelés. Il a quitté l’Italie avant l’aube. C’est un miraculé. Les maraudeurs appellent le secours en montagne qui l’héliporte très vite vers l’hôpital de Briançon. Anne Moutte, l’une des accompagnatrices du réseau, multiplie les maraudes depuis un an : « Les soirs où nous ne sortons pas, nous ne dormons pas bien. Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige. Ces jeunes n’ont aucune idée des risques de la montagne, des effets du froid. Ils ne font pas demi-tour. »

      Cache-cache.
      A Névache, le premier village au pied du col de l’Echelle, il y a des mois que l’on vit au rythme de l’arrivée des migrants. Lucie (1) fait partie d’un groupe d’une trentaine de villageois qui se sont organisés spontanément pour les accueillir, en toute discrétion et avec une efficacité remarquable. D’une voix décidée, elle explique : « Ils arrivent en pleine nuit au village, affamés, frigorifiés, épuisés, blessés parfois. On ne va pas les laisser repartir dans la nuit et le froid à travers la montagne ! On les nourrit, on les réchauffe, on leur donne un lit. C’est du simple bon sens, ça coule de source. Notre seul but, c’est qu’il n’y ait pas de morts ni de gelés près de chez nous. »

      Les migrants redoutent les gendarmes qui les reconduisent en Italie. Alors, Lucie et le réseau névachais les gardent le temps qu’ils se retapent et les aident ensuite à gagner la vallée. A pied, en voiture, un cache-cache stressant avec les gendarmes, avec lesquels les rapports sont très tendus. A Névache comme à Briançon, les fouilles de véhicules sont devenues ces derniers mois la règle et les bénévoles surpris avec des migrants à bord de leur voiture sont convoqués pour des auditions, sous la charge « d’aide à la circulation de personnes en situation irrégulière ». Anne Moutte, l’accompagnatrice maraudeuse, s’emporte : « C’est l’Etat, le préfet et les forces de l’ordre qui se rendent coupables de non-assistance à personne en danger ! »

      A lire aussi Migrants : de plus en plus dur

      « Cimetière ».
      Ce week-end, le collectif Tous migrants organisait à Briancon des « états généraux des migrants ». Des débats, des échanges avec le journaliste Edwy Plenel, l’agriculteur activiste de la Roya Cédric Herrou, des chercheurs, des élus, des militants. Marie Dorléans, présidente de Tous migrants, résume : « Nous voulons nourrir le débat sur notre devoir d’hospitalité, sur une autre politique migratoire, mais nous avons aussi un devoir face à une urgence humanitaire. Nous avons tous peur d’un drame sur nos cols. La militarisation massive de la frontière conduit les migrants à des prises de risques inconsidérées. » Ce sont les professionnels de la montagne, accompagnateurs, guides, pisteurs, moniteurs qui ont porté ce dernier message.

      Constitués en un collectif « SOS Alpes solidaires », ils ont regroupé 300 personnes symboliquement encordées sur les pentes du col de l’Echelle dimanche pour lancer un appel solennel : « La Méditerranée ne stoppe pas des personnes qui fuient leur pays. La montagne ne les stoppera pas non plus, surtout qu’ils en ignorent les dangers. Nous refusons que les Alpes deviennent leur cimetière. » Stéphanie Besson, l’un des piliers de l’appel, enfonce le clou : « Nous demandons à l’Etat de nous laisser faire notre devoir de citoyens. Qu’il cesse de nous empêcher de venir au secours de personnes en danger. Que nos cols soient démilitarisés si l’on ne veut pas y laisser mourir ou geler les migrants. » Quelques minutes plus tard, l’hélicoptère du secours en montagne survole la manifestation avec à son bord le jeune Moussa miraculé du jour. Sauvé par des montagnards solidaires et déterminés.

      (1) Les prénoms ont été changés.

      https://www.liberation.fr/france/2017/12/17/peut-etre-qu-au-printemps-on-retrouvera-des-corps-sous-la-neige_1617327/?redirected=1

    • Dans les Alpes, auprès des migrants, «  on va redescendre des cadavres, un de ces jours  »

      Au #col_de_l'Echelle, des habitants viennent en aide aux migrants qui traversent la frontière enneigée au péril de leur vie. Maryline Baumard

      A Névache, la lumière reste allumée longtemps dans les chalets. Les nuits sans lune, elle guide le voyageur vers la maison des veilleurs qui, pour être sûrs de ne pas rater le bruit des coups sur la porte, ne dorment que d’un oeil. Nichée au pied du col de l’Echelle, dans les Hautes-Alpes, à 1 700 mètres d’altitude, cette bourgade de quelque 360 âmes est comme un phare pour le voyageur qui débarque de Bardonnèche, la petite ville italienne de l’autre côté du massif. Ceux que Bernard Leger, 82 ans, appelle « les visiteurs inattendus » .

      Tout au fond, la vallée de la Clarée, aux confins de la France, on est un peu comme sur une île. Autour, l’océan n’est pas bleu mais blanc ; pas liquide, mais neigeux. Mais pour « Jean Gab » (Jean-Gabriel Ravary) ou les autres, « tout ça c’est pareil » , la vague de neige est la soeur de celle qui engloutit les canots de la Méditerranée ; le montagnard, le frère du marin. « On a le même devoir de sauvetage chevillé au corps » , affirme ce guide de haute montagne. Alors, avec une vingtaine d’hommes et de femmes, il recueille les naufragés de la frontière. Gelés, choqués.

      « On leur donne des vêtements, de l’eau, de la nourriture et un lit au chaud, ajoute Bernard Leger. Le lendemain, ils sont encore en état de choc, muets de fatigue. » Avec son « commando humanitaire », cet ancien commandant d’un régiment de chasseurs alpins prépare ensuite la descente vers Briançon, pour rallier la base arrière et « faire de la place aux suivants » . Avec plus de 2 000 migrants accueillis dans la ville depuis juillet, le col de l’Echelle a retrouvé sa vocation séculaire de point de passage entre l’Italie et la France.

      « La mort a tourné autour de nous »

      De plus en plus souvent, ça se gâte avant d’atteindre Névache pour ces jeunes Africains ignorants de la montagne. Chef des urgences de l’hôpital de Briançon, un service qui en a déjà soigné 300 depuis l’été, Yann Fillet est monté deux fois au col le 10 décembre avec le peloton de gendarmerie de haute montagne (PGHM). La seconde fois, en pleine nuit, le médecin a cru halluciner quand il a aperçu « un des gamins pieds nus dehors alors que le thermomètre affichait - 10° » .

      Désormais, cela ne fait plus de doute pour lui, « on va redescendre des cadavres un de ces jours » . D’autres estiment qu’il y en a déjà sous la neige. Des morts de froid et d’épuisement. En ce lundi matin 11 décembre, la salle de surveillance des urgences sur laquelle M. Fillet veille compte six rescapés. Choqués mais saufs. « La mort a tourné autour de nous. Ça ne se raconte même pas, mais j’en ai encore froid dans le dos », susurre Madou, le regard vide. « Sans le villageois venu à notre secours, on ne serait plus là » , complète celui qui dit avoir prié pour cette venue, « et comme dans le canot sur la Méditerranée, Dieu nous a entendus » .

      Pour ceux que les dieux n’entendraient pas, des « virées » secondent la veille des Névachais. C’est Alain Mouchet, accompagnateur en montagne, qui en gère le planning.

      « J’ai trente-cinq bénévoles, explique-t-il. On monte le soir et on attend en silence, cachés, en faisant tout pour que les exilés ne nous prennent pas pour des gendarmes. »

      Le 19 août, Moussa et Ibrahim, deux jeunes Guinéens, sont tombés dans le ravin pour fuir les forces de l’ordre. Une chute de quarante mètres pour Ibrahim, évacué alors à l’hôpital de Grenoble, et désormais en rééducation à Briançon. Lundi, sur son lit de rééducation, l’exilé était triste. Sa voix est tellement affectée par son traumatisme crânien que sa mère venait de pleurer au téléphone, inquiète de ce que l’Europe avait fait de son fils.

      Le jeu du chat et de la souris

      En vertu des accords bilatéraux signés avec l’Italie, les majeurs se voient notifié un refus d’admission sur le territoire. En dépit de la Convention internationale des droits de l’enfant, de nombreux mineurs sont aussi remis de l’autre côté. Avant de recommencer le passage, au risque de se perdre, parce qu’en haut le panneau France a été enlevé, ce qui conduit un certain nombre de migrants vers d’autres passages plus élevés que le col de l’Echelle. Plus dangereux.

      « L’un d’eux a passé cinq jours dans la montagne. Aujourd’hui encore, il est traumatisé de ce qu’il y a vécu, mais ne raconte toujours pas », résume Léna Carlier, bénévole de 18 ans en parallèle de son service civique à la maison des jeunes et de la culture (MJC).

      A-t-il subi des violences policières ? Tout le monde se le demande, car « ici, il y a deux catégories de forces de l’ordre. Ceux qui secourent en montagne et qui sont avant tout montagnards, et ceux qui font du zèle », disent les bénévoles.

      Ici, les citoyens solidaires sont nombreux à avoir été entendus par la gendarmerie pour avoir descendu un migrant de la montagne, l’avoir aidé à continuer sa route. Pourtant, tous s’estiment dans la légalité puisqu’ « ils transportent des demandeurs d’asile qui en plus sont très souvent mineurs » .

      Entre ces centaines de bénévoles et les forces de l’ordre, c’est pourtant le jeu du chat et de la souris, « alors qu’on devrait travailler la main dans la main » , regrette Alain Mouchet. Un sujet dont Bernard Leger et Jean-Gabriel Ravary aimeraient bien parler avec la nouvelle préfète, tout juste nommée.

      « Pas question de laisser qui que ce soit à la rue »

      Cette pression n’empêche pas 150 foyers de s’être portés volontaires pour héberger les plus fragiles. Moussa, le copain d’Ibrahim, vit depuis l’été chez un « couple solidaire » en attendant que son ami remarche. C’était sa seule solution puisque le conseil départemental l’a, comme bien d’autres, décrété majeur - un recours a été déposé. Les moins affectés, ceux pour qui quelques jours de répit suffisent, sont installés à la maison commune du Collectif réfugiés solidaires, la CRS, avant d’acheter un billet de train ou de profiter d’un covoiturage solidaire pour continuer leur route. A la CRS, on est nourri, soigné, vêtu et écouté.

      C’est la municipalité qui a ouvert ce lieu, estimant qu’il n’était « pas question de laisser qui que ce soit à la rue » , comme le rappelle l’ex-PS Gérard Fromm, maire de Briançon, qui a su convaincre la communauté de commune et son conseil municipal. Désormais, sur la toile cirée de la pièce commune, on se réhydrate à coups de thé brûlant, en jouant ou en devisant.

      Francine Daerden, la soixantaine, ne fait que passer mardi soir 12 décembre pour déposer des gâteaux et mélanger la marmite du dîner du soir, qui réchauffe doucement, préparée par une autre citoyenne. « Ici, chacun participe selon ses envies et ses compétences », indique Michel Rousseau, membre de l’association Tous migrants. Il dispose d’une liste de 450 bénévoles impliqués dans cet accueil qui prolonge en bas ce qui est fait au nom de l’urgence sur les cimes. Car à Briançon aussi règne l’« esprit veilleur » et Michel, Béatrice ou Alain accompagnent les exilés dans leurs premiers pas en France.

      Mercredi 13 décembre, à la CRS, Fofana cherchait un pull au vestiaire des dons, avant de rejoindre Chez Marcel, le squat communautaire installé par des jeunes du coin pour permettre un hébergement de plus longue durée. C’est là que Justin va attendre d’être autorisé à déposer sa demande d’asile en France. Un lieu à l’esprit un peu différent, aux relents plus anarchistes, sans doute, mais qui complète bien la Briançon solidaire.

      Un énorme mouvement citoyen

      Dans cette ville de 12 000 habitants, la MJC, qui jouxte la CRS, est pour quelque chose dans le pullulement des solidarités. C’est sans doute la seule de France à avoir géré un centre pour les exilés venus de la « jungle » de Calais. Luc Marchello, son directeur, a compris dès la première heure la nécessité d’un accueil citoyen. Dès l’automne 2015, il lançait un appel qui, plusieurs mois après, a éclos en un énorme mouvement citoyen.

      Parce qu’à Briançon, où se côtoient 35 nationalités, on s’occupe de l’étranger depuis des décennies. En montagnard peut-être, en humain tout simplement puisque la Mission d’accueil des personnes étrangères (MAPEmonde) de la MJC existe depuis quinze ans. Et pour certainement longtemps encore.

      De l’autre côté de la frontière, en effet, dans la petite gare de Bardonnèche, ils étaient quatre, mardi matin, à se réchauffer, avec la France pour horizon. Ibrahim a poussé sa valise jaune dans un recoin et rajuste sa chemise blanche sous sa petite veste noire d’été. Alfa somnole, avachi sur le radiateur, pieds nus dans ses chaussures. En Italie depuis quatre mois, mis dehors de son centre pour migrants près de Rome pour n’avoir pas pointé, il a pris le bus pour Paris, et en a été descendu tôt le matin à la frontière par la police française. Une grande fatigue règne sur la petite gare. Une rage aussi. Celle d’être si près de la France.

      http://www.lemonde.fr/immigration-et-diversite/article/2017/12/16/dans-les-alpes-on-va-redescendre-des-cadavres-un-de-ces-jours_5230716_165420

    • Migrants : « On ne peut pas accepter qu’il y ait des gens qui meurent dans nos montagnes »

      Parce qu’ils ne veulent pas laisser des personnes mourir de froid en traversant la frontière franco-italienne, collectifs et associations, dont « Tous Migrants », ont organisé ce week-end une cordée solidaire. Lors de cette cordée symbolique, ils ont secouru un jeune homme transi de froid, bloqué dans un couloir d’avalanche. #Etienne_Trautmann, qui a appelé les secours et filmé l’hélitreuillage raconte à « l’Obs » comment il a réussi porter secours à Moussa, 22 ans. Tout en insistant : « Je ne me sens pas le héros de ce secours, pour moi le vrai héros c’est Moussa, qui a bravé tous les dangers pour trouver une terre d’accueil plus hospitalière ». Voici son témoignage.

      http://tempsreel.nouvelobs.com/videos/vlz5k3.DGT/migrants-on-ne-peut-pas-accepter-qu-il-y-ait-des-gens-qui-meure

      Transcription d’une partie de l’interview de Etienne Trautmann :

      Etienne Trautmann (dans la vidéo son affiliation est la suivante "Collectif citoyens solidaires professionnels de la montagne) :
      « Nous on ne peut pas accepter qu’il y ait des gens qui meurent dans nos montagnes. Actuellement l’Etat, et je pèse mes mots, essaie de faire en sorte que la solidarité soit un délit. Nous, professionnels de la montagne on dit qu’on ne peut pas accepter cela. On essaie de nous mettre hors-la-loi en arrêtant des gens qui vont faire preuve de solidarité en prenant par exemple en stop des jeunes qui sont frigorifiés, qui ont besoin d’aide, et ça, nous, on ne peut pas l’accepter. Il y a des gendarmes qui interviennent, notamment dans la Vallée de la Clarée, et qui sont clairement là pour attraper les migrants. Il y a 2-3 semaines quand je suis passé, ils étaient dans une petite piste à la sortie d’un pont, et ils essaient d’attraper les jeunes à ce moment-là. Les informations tournent vite. D’une part ils passent par des cols extrêmement dangereux et par exemple ils traversent les rivières, non pas par les ponts, ils traversent avec leurs chaussures… Les pieds mouillés comme cela, je leur donne un quart d’heure avant que les gelures apparaissent et qu’on arrive après à l’amputation. C’est pas possible. »
      Sur le secours de Moussa : "J’ai essayé de lui dire qu’il était en sécurité là où il était, qu’il était pris en charge, qu’il allait pouvoir manger, qu’on allait pouvoir s’occuper de lui. Quand je vous en parle, c’est pas évident, parce qu’en disant cela je sais que je mentais, parce que clairement, car aujourd’hui pour un réfugié, et notamment de 22 ans, majeur, pour lui le parcours de l’enfer, il continue. Il vient de Guinée-Conakry, j’imagine qu’il a dû être confronté à toutes les horreurs qu’on peut trouver en Libye, certainement emprisonné, travailleur de force, la traversée de la Méditerranée certainement dans de mauvaises conditions… Et son parcours de l’enfer il continue ici en France, aujourd’hui. Et il va continuer. On est confronté à une valeur d’humanité, de fraternité, c’est des valeurs qu’en allant à l’école… c’est ces valeurs républicaines qu’on m’a transmises. Et aujourd’hui on me dit « non », mais mes enfants sont à l’école et devant le fronton de la mairie juste à côté c’est ces valeurs qui sont marquées : liberté, égalité, fraternité."

    • Sulle Alpi, da Bardonecchia alla Francia: la marcia drammatica dei migranti per superare il confine

      –-> avec vidéo:

      Per impervi sentieri di montagna, con abiti poco adatti. La pericolosa impresa tentata da tanti ragazzi africani.

      L’accesso alla Francia passa sempre di più da Bardonecchia: con i riflettori puntati su Ventimiglia, e sul Brennero, il viaggio della disperazione dei migranti passa anche tra i monti del Piemonte dove, anche col il gelo, tentano una drammatica marcia verso lo stato transalpino giungendo in valle da Torino e avventurandosi per impervi sentieri che li portino al di là delle Alpi.

      Minute 2’43, témoignage d’un migrant:

      «Quando vai alla frontiera, è impossibile. Non puoi passare. Né a Chiasso né a Ventimiglia. Tutto è impossibile.»


      http://www.corriere.it/video-articoli/2017/12/23/nel-gelo-alpi-la-francia-marcia-drammatica-migranti-superare-confine/afd9df66-e7ff-11e7-ac5e-f4b084532223.shtml

    • Posté par Valerio Cataldi sur FB :

      Bubbaka ha 17 anni e corre come un fulmine.
      Corre nella neve che gli arriva alla vita e gli strappa le scarpe da ginnastica dai piedi. Quando cade chiede aiuto a sua madre, poi si rialza e riparte.
      Bubbaka viene dal Mali. Vuole andare in Francia e nessuno lo potrà fermare. Non lo hanno fermato il deserto, i miliziani libici, il mediterraneo. Neanche la Gendarmerie che lo riporta indietro a Bardonecchia, in Italia.
      Non lo ferma neanche la neve.

      https://www.facebook.com/valerio.cataldi.35/posts/10214953897031357?comment_id=10214954554047782&notif_id=1514213178803818&n

      Lien vers le reportage sur le site de la télé italienne :
      http://www.tg2.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d37b0006-8998-4c51-8222-bf1e31179170-tg2.html

    • Dall’Italia alla Francia. Oltre il muro di neve, in fuga dalla Gendarmerie

      Profughi e attivisti superano a piedi i passi di montagna sfidando le autorità francesi. Almeno 1.500 persone sono già transitate da Bardonecchia.

      Laurent ha un nome francese, un passaporto in lingua francese, si è formato alla scuola statale con libri francesi, ha la erre moscia dei francesi, per anni è stato sfruttato da un datore di lavoro francese, è cristiano, anzi «catholique», ma non può mettere piede in Francia. Perché non è francese. «E perché sono nero», dice mentre dall’alto del suo metro e novanta lancia la sfida agli ultimi ostacoli: le gallerie scavate a picconate cento anni fa e che preannunciano l’abitato di Nevache, 349 abitanti, due metri di neve, e una certa allergia tutta transalpina per i gendarmi che vanno a caccia di migranti da rispedire in Italia.

      La solidarietà dei montanari

      I montanari hanno costruito una rete informale di solidarietà che coinvolge più di 1.300 persone in tutta la regione di Briançon. Cattolici, protestanti, attivisti sociali, militanti No Tav di Italia e Francia. Da queste parti la gente guarda con rispetto a chi se la cava tra i monti, con la stessa ammirazione con cui si osserverebbe un Ulisse sopravvissuto a mille trappole. Scampato ai negrieri del deserto, ai torturatori libici, al gommone che si sgonfiava mentre il Mediterraneo si prendeva i suoi compagni di viaggio, Laurent è in fondo un Ulisse nero. Uno dei molti. Ma il gigante africano adesso trema perché le carezze della neve gli stanno facendo più male delle tempeste di sabbia. È ivoriano Laurent, di quell’Africa dove quella di Parigi è l’unica lingua ufficiale, ma che Parigi vuole tenere alla larga risarcendo anni di colonialismo importando caffé a buon mercato.

      Già passati in più di 1.500

      Dall’inizio dell’anno, secondo diverse associazioni di volontariato francesi, sono passate più di 1.500 persone, soprattutto uomini originari del Mali, della Guinea e della Costa d’Avorio. Molti i minorenni. Da Bardonecchia i ragazzi del Soccorso alpino hanno battuto una parte del tracciato dopo la grande nevicata di due settimane fa. La carrozzabile che d’inverno viene chiusa, è praticabile per i primi chilometri. Poi, in territorio francese, cominciano i perigli.

      Qualche giorno fa ne hanno tratti in salvo sei. Si erano smarriti nei boschi. «Quando hanno capito che li stavamo riportando in Italia – spiegano i soccorritori – non ne hanno voluto sapere, allora li abbiamo seguiti fino alla galleria, in territorio francese, dove ad attenderli c’era già la gendarmeria nazionale». Una scorta che farebbe andare fuori dai gangheri la polizia d’Oltralpe.

      Alla media di una decina al giorno, Natale compreso, arrivano tutti a Bardonecchia. Ogni sera alle 23,20 la campanellina della stazione ferroviaria più occidentale d’Italia annuncia l’ultimo convoglio regionale da Torino. I volontari lo aspettano come sempre sul primo binario. Ci sono gli operatori di «Rainbow4Africa» e i volontari del soccorso alpino, che hanno messo a disposizione una stanza, coperte, un bagno, cibo e soprattutto tutte le avvertenze per convincerli a desistere.

      Tutti in marcia alle 2 del mattino

      Come seguissero una tabella di marcia non scritta, quasi tutti, dalle due del mattino provano a inoltrarsi lungo il sentiero per il Col de l’Échelle, quel Colle della Scala che già dal nome dovrebbe invitare a girare i tacchi in giorni di neve. Altri preferiscono rischiare di più salendo l’impervia via del Monginevro, scarsamente presidiata dai gendarmi di montagna.

      Con scarponi e gambe buone si potrebbe leggere il primo cartello di «Bienvenue en France» dopo due ore al massimo di cammino. I dieci chilometri di salita sono difficili, ma non da arrampicata, poi altri quattro di discesa in Francia. Il termometro di notte a meno 8 e l’equipaggiamento più da traversata verso Lampedusa in estate che da sci di fondo, sono il nemico più insidioso.

      La prima ora di ascesa passa di solito tra denti che battono e caviglie che si piegano scivolando sulla salita ghiacciata. Poi, dove neanche le motoslitte arrivano, ogni passo è un calvario. Centottanta centimetri di neve vuol dire affondarci dentro. Risucchiati dalla paura e da una coltre che di amichevole ha solo l’aspetto.

      «Mi stavo nascondendo dietro a un cespuglio, ma i francesi mi hanno preso», racconta Shabir mentre dichiara la resa. Il pachistano dalla lingua sciolta dice che è finita. A lui la montagna non fa paura, e neanche la neve. Era abituato agli spietati inverni delle Torri di Trango, nel Baltistan, «a quattro ore di cammino dal K2». Il tempo di un panino al burro, un thé caldo, e i francesi lo hanno ricacciato dalla parte del traforo con il tricolore che voleva lasciarsi alle spalle. Gli sarebbe piaciuto vedere Parigi prima di tentare l’ultima impresa. «Non arriverò mai a Liverpool. Non ce l’ho fatta». E c’è una sola spiegazione: «Allah, vuole che io resti in Italia». Non ha la faccia stanca e non trema di freddo. Se ne andrà ad Ancona, dov’era sbarcato da un traghetto greco nascosto sotto al container di un rimorchio. «A Senigallia ho un amico che mi ha offerto un buon lavoro: 10 euro al giorno per distribuire volantini pubblicitari, e di notte venderò fiori oppure farò il guardiano».
      Tanti sogni infranti a un passo dal traguardo

      Altri due pachistani sono sfuggiti ai gendarmi che aspettano in fondo al pendio, dietro al costone che segna l’ultimo ostacolo naturale prima del traguardo. Non tutti, in verità, hanno in mente di fermarsi in Francia. Non i due iraniani, respinti al Brennero e a Ventimiglia e diretti in Germania. Non l’iracheno, che con il suo sguardo torvo non riesce a impietosire i doganieri neanche quando finge d’essere un profugo siriano. Lui vuole andare in Spagna dove sua sorella è alle ultime settimane di gravidanza. Laurent, intanto, guarda in fondo all’ultima galleria. Prima di lui erano partiti dall’Italia nove ragazzi. Avranno avuto mezz’ora di vantaggio. «Se la polizia li ha presi – riflette – allora saranno impegnati con loro e magari non mi vedranno. Se non li ha presi, allora potrebbero vedere me, oppure potrei avere fortuna come loro». Aspettare, però, vorrebbe dire stramazzare a terra. Un giovane della Guinea Conakry qualche giorno fa è stato ritrovato in un canalone senza scarpe. Non fosse stato per i montanari di Nevache sarebbe morto proprio a un passo dal traguardo.

      Laurent lo ha saputo dal passaparola via Whatsapp. «Piuttosto che tornare indietro, meglio finire arrestato dai francesi», dice sollevando il braccio nel segno dell’addio. Se in Costa d’Avorio esistesse un club di alpinismo, Laurent oggi sarebbe un eroe nazionale. A mani nude, con delle Adidas di pezza ai piedi, jeans e un piumino di un paio di taglie più piccolo, ha scavallato la dorsale che sfiora quota duemila ed è sceso giù in Francia in una notte sola. Un’impresa che dalle sue parti passerebbe alla storia: «Ma non sfamerebbe i miei bambini».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/oltre-il-muro-di-neve-in-fuga-dalla-gendarmerie

    • Il 7 gennaio camminata da Claviere a Montgenèvre

      Il gruppo Briser les Frontières ha organizzato per domenica 7 gennaio una camminata da Claviere a Montgenèvre dal titolo Marcher pour Briser les Frontières

      Camminata contro le frontiere, per muoversi liberamente!
      Da Claviere a Montgenèvre.

      Domenica 7 gennaio alle ore 11.00
      Appuntamento al parcheggio di via Nazionale a Claviere.
      Con abbigliamento adeguato per una camminata sulla neve.

      Le frontiere non esistono in natura,
      sono un sistema di controllo.
      Non proteggono le persone, le mettono una contro l’altra.
      Non favoriscono l’incontro, ma generano rancore.
      Le frontiere non dividono un mondo da un altro,
      c’è un solo mondo e le frontiere lo stanno lacerando!

      L’indifferenza è complicità!

      Per Info: +39 3485542295

      (In caso di maltempo l’iniziativa si farà la domenica successiva)


      https://rbe.it/2017/12/28/camminata-7-gennaio

    • ON Y VA’ - alcune storie dalla Val di Susa di confine

      Alcune interviste fatte tra le montagne della Valle di Susa. Dove da mesi moltissime persone che vogliono oltrepassare il confine verso la Francia sono costrette a farlo rischiando la vita.

      https://www.facebook.com/briserlesfeontieres/videos/1537002486391870
      #vidéo #témoignages #parcours_migratoires #itinéraire_migratoire
      Une personne dit avoir essayé déjà une fois d’aller en France (il a remonté l’Italie depuis #Crotone), mais avoir été renvoyée. Renvoyée à #Taranto, puis à #Roccasecca
      #migrerrance

    • Bilan des états généraux pour les migrants : entre inquiétudes et espoirs

      Entre tables ronde et chaîne humaine au col de l’Échelle, le week-end consacré aux migrants et aux migrations a rassemblé beaucoup de monde, près de 1000 personnes au total dont plus de 300 dans la neige et le froid du col de l’Échelle. Une conférence de presse, ouverte au public, a conclu ces deux journées. Le bilan par #Marie_Dorléans, du mouvement citoyen Tous Migrants.

      https://vimeo.com/247766714?ref=tw-share

    • #solidarité_montagnarde à #Névache... une chanson :

      La fin de la #chanson :

      "Et pourtant, là-bas, là-haut
      là où vient de se passer mais où tout se passe
      comme souvent dans des interstices du monde
      dans les Alpes
      des hommes et des femmes ont arrêté ce tran-tran quotidien
      à Névache, à La Roya
      des enfants qui passaient, sans chaussettes
      allant de nulle part à nulle part sans destin
      sans espoir
      on leur a ouvert, le meilleur de Névache
      solidarité montagnarde, ça s’appelle
      c’est beau comme mot.
      Il a dit : « Bhein, vous êtes là, bhein restez dormir »
      Pas militant, pas combattant
      juste quotidien
      le quotidien qui change tout.
      C’est là-bas, c’est à Névache
      au-dessus du Briançonnais
      Allez-y, ça a l’air bien."

      https://twitter.com/laRadioNova/status/932499508767977472

      sur youtube :
      https://www.youtube.com/watch?v=-JraQ2DiVYI

    • Capolinea Bardonecchia?

      Reportage dalla frontiera tra Italia e Francia, dove i migranti sono bloccati a causa del regolamento di Dublino e dove la popolazione si sta attivando per fornire loro un aiuto.

      Le Alpi occidentali sono uno storico luogo di passaggio. Senza scomodare Annibale e i suoi elefanti più di duemila anni fa, si può dire che il “confine naturale” rappresentato dalle montagne sia stato più spesso motivo di unione che di separazione tra gli abitanti dei due versanti.

      Eppure, per le migrazioni contemporanee le montagne sono più simili a un muro. Da Ventimiglia a Como, sono ritornate le frontiere tra l’Italia e la Francia, almeno per i migranti. Non fa eccezione Bardonecchia, il comune più occidentale d’Italia, diventato nell’ultimo anno un luogo di transito sempre più rilevante.

      In estate, passare da Bardonecchia a Nevache attraverso il Colle della Scala non è né difficile né lungo, e da lì procedere poi verso Briançon e via via in direzione delle città più grandi, ma durante l’inverno tutto si complica: il colle, infatti, rimane chiuso per tutta la stagione a causa delle condizioni meteo. Nonostante questo, in questi primi mesi freddi il transito di richiedenti asilo attraverso Bardonecchia non si è azzerato, ma al contrario i numeri sono decisamente superiori rispetto allo scorso anno. Di conseguenza, anche gli incidenti dovuti alle difficoltà del clima sono in aumento.

      Mentre per il sindaco di Oulx «i migranti nelle stazioni non sono affatto un problema», è chiaro che la situazione non può che essere provvisoria, né può essere trattata soltanto come una questione di ordine pubblico. Alla base di tutto, rimane l’inefficienza del regolamento di Dublino, che affida la competenza dell’esame della richiesta d’asilo al Paese di primo ingresso, incentivando quindi tutti gli altri, Francia compresa, a chiudere le proprie frontiere e a rimandare indietro chiunque riesca ad attraversarle.

      http://riforma.it/it/articolo/2017/12/15/capolinea-bardonecchia

      Citations:
      Marta (militante Briser les frontières), à partir de la minute 0’35:

      «Il passaggio per la Francia qui dalla Val di Susa è iniziato ad essere utilizzato dopo la chiusura della frontiera di Ventimiglia. Dopo la militarizzazione di quel passaggio lì, le persone si sono informate e si sono spinte fino a questo passaggio del Colle della Scala e del Monginevro. Abbiamo notizie di alcuni passaggi già l’inverno scorso che però non riusciamo molto a quantificare perché erano ancora abbatanza discreti. E poi dall’estate scorsa abbiamo notizia di 40-50 arrivi al giorno e altrettanti passaggi durante la giornata sui sentieri.»

      Voix off:
      «Il territorio ha risposto con una rete di accoglienza spontanea che fornisce supporti di diverso genere.»

      Marta: «La rete è nata da un’esigenza di singole persone che si sono avvicinate a questo punto di frontiera, che hanno verificato che le condizioni dei ragazzi che arrivavano erano sicuramente difficili, per cui abbiamo deciso di organizzarci in rete per avere una possibilità maggiore di dare un supporto. Abbiamo iniziato ad operare più formalmente da un paio di mesi. Le cose che sono state fino adesso è una presenza più o meno costante in stazione a Bardonecchia e poi portiamo su i vestiti. Cerchiamo di risolvere quelle che sono le prime esigenze e distribuire cibo, tè caldo, ecc.»

      Voix off:
      «Recentemente ha fatto notizia la chiusura della stazioni ferroviarie che ha portato anche all’intervento del prefetto di Torino per farle riaprire»

      Marta: «Loro l’hanno giustificata con una ragione di sicurezza e ordine pubblico nelle stazioni, cosa che non è giustificata perché non ci sono mai stati problemi di ordine pubblico. Dopo questa notizia, sia le amministrazioni sia diverse persone hanno fatto pressione perché si riaprissero le sale d’attesa. E alla fine, con l’intervento del prefetto, sono state riaperte, anche se in realtà sono aperte soltanto di giorno. Di notte, la sala di Bardonecchia chiude alle 21 e quella di Oulx continua a chiudere alle 22h30, cosa che in teoria non dovrebbe succedere perché è una stazione internazionale».

      #Diego_Cantonati, responsabile Soccorso Alpino Guardia di Finanza di Bardonecchia autour des tentatives de dissuasion de faire la traversée (à partir min 2’50):

      «E’ una domanda che ci poniamo anche noi, quella di lanciare un messaggio in modo da fargli capire che è pericoloso fare quello che vogliono fare. Purtroppo non riusciamo a convincerli. Ci sono diverse associazioni che danno appoggio a questi migranti, probabilmente sono quelle più influenti sulle loro scelte, dovrebbero incidere e far capire che in determinate condizioni corrono dei rischi veramente troppo elevati e rischiano anche proprio di morire»

      Marta (min. 3’32):

      «Loro hanno già attraversato delle situazione estremamente difficili per cui la neve non li spaventa più di tanto, la descrizione dei possibili problemi di ipotermia e addirittura i racconti di persone che già hanno subito amputazioni dei piedi... nonostante questi racconti loro ci dicono che un tentativo lo devono fare perché è la loro unica possibilità.»

      #Simone_Bobbio, addetto stampa Soccorso Alpino e Speleologico Piemontese (min. 4’51):

      "E’ una differenza quantitativa, dei numeri. A livello qualitativo, si porta soccorso a chi ne ha bisogno, indipendentemente da chi sia. E’ per questo che spesso nei rapporti di intervento non compare il fatto che sia stato portato soccorso a un migrante piuttosto che a un turista, perché si soccorre la persona e basta. A livello comunicativo c’è un certo tipo di remora a comunicare tutti questi interventi anche per un poco il timore che possono essere strumentalizzati. Perché c’è il rischio che qualcuno inizia chiedere... la classica domanda è: ’Chi paga per questo intervento?’. Quindi cerchiamo di affrontarli con una certa cautela.

      #Gianfranco_Schiavone, vice-président ASGI sur le cadre juridique:

      «Il pilastro su cui si regge politicamente l’attuale regolamento Dublino 3 e anche le sue versioni precedenti è il vincolo che lega il richiedente asilo al primo paese dell’Europa nel quale mette piede, perché lì si radica la competenza delle domande. E quello che avviene è che le persone che cercano di evitare in tutti i modi questa situazione è di trasferirsi in maniera irregolare in un altro paese nel quale vogliono andare.»

      Intervista a #Cristina_Alpe del Soccorso Alpino di Bardonecchia

      La sede di Bardonecchia del #Corpo_Nazionale_Soccorso_Alpino_e_Speleologico ha avviato nelle ultime ore tre operazioni di ricerca per altrettanti gruppi di migranti che tentavano di valicare verso la Francia, nonostante l’abbigliamento inadatto e le condizioni meteo avverse.

      –-> citation:

      Cristina Alpe: Questi interventi si verificano già da alcuni mesi, diciamo che è dalla primavera/estate che continuiamo ad avere chiamate di soccorso. In realtà il grosso problema si è rivelato adesso, con il maltempo e la neve, perché i valichi verso la Francia non sono praticabili né a piedi né in auto. Adesso gli interventi sono aumentati e queste persone hanno veramente bisogno di aiuto. Nella giornata di ieri (10.12.2017), tra ieri e stamattina, ci sono stati 2-3 interventi. Uno con esito positivo verso le 5h20 di questa mattina, in collaborazione con il Pelotone de la gendarmerie francese (PGHM), che ci ha contattati per due migranti che erano verso il Colle della Scala, su territorio francese, però su versante italiano. E una nostra squadra mista con il Soccorso Alpino della finanza sono riusciti a recuperarli verso le 6h45. Non avevano scarpe adatte, uno aveva addirittura perso le scarpe, comunque sono stati recuperati e riportati a Bardonecchia. Negli altri due interventi, le ricerche nella nottata sono state sospese, anche perché immediatamente dopo le 18h pare che ci sia stata una chiamata di queste persone che avevano chiesto soccorso che erano in salvo a fondovalle in Francia e quindi non avevano più bisogno. La cosa che mi viene da dire è che comunque quando chiamano, le notizie sono sempre un po’ sommarie, un po’ vaghe e quindi è sempre difficile riuscire a localizzare e dare il giusto aiuto a queste persone.
      Giornalista: chi chiama?
      Cristina Alpe: In queste ultime chiamate ci è parso di capire che fossero i migranti stessi, nel senso che comunque hanno un telefono e in alcuni casi poi dopo la chiamata riusciamo anche a contattarli, poi bisogna vedere se non è qualcuno che li lascia lì. Questo non lo sappiamo, nel senso che a volte ci chiamano, lasciano un numero di telefono e poi provi a richiamare e non risponde più nessuno. Altre volte invece ti rispondono di nuovo e quindi la localizzazione è più facile. Dipende un po’ da dove riescono a chiamare, a volte aggancia la cella italiana, a volte aggancia la cella francese. Comunque se sono su Bardonecchia, in linea di massima sono su territorio francese, perché sul territorio italiano il posto è un po’ meno pericoloso, perché dove inizia la salita verso il Colle della Scala poi è già territorio francese dove è più pericoloso.
      Giornalista: non si tratta di emergenza singola, ma...
      Cristina Alpe: E’ un problema allargato. Infatti credo che in questi giorni si muoveranno altre forze in campo, prefettura e comune, perché comunque se nell’estate è una cosa gestibile perché la maggior parte di quelli che cerca di svalicare riesce, in questo periodo qua assolutamente no. Son pochi quelli che riescono a passare di là. Oltretutto con il brutto tempo così. Il Colle della Scala d’inverno è impraticabile, soprattutto con calzature non adatte, poco vestiti. Infatti ci sono anche operazioni della Croce Rossa, ci sono altre associazioni di volontariato che si stanno muovendo per dare assistenza a queste persone.

      https://rbe.it/2017/12/11/intervista-cristina-alpe-del-soccorso-alpino-bardonecchia

    • Bardonecchia. Cattolici e protestanti insieme per i profughi a piedi sulle Alpi

      Parrocchie cattoliche, comunità protestanti, associazioni, volontari del soccorso alpino italiano e francese, da settimane cercano di portare al riparo i migranti che si avventurano verso la Francia.

      L’ecumenismo dei ramponi e del vin brulée a duemila metri di quota è una questione di vita o di morte. Parrocchie cattoliche, comunità protestanti, associazioni, volontari del soccorso alpino italiano e francese, da settimane affrontano dai due versanti delle Alpi il grande freddo, cercando di portare al caldo i migranti che si avventurano verso la Francia.

      Sono i profughi che tentano di aprire nuove piste lungo la novella Via Francigena della speranza. Equipaggiati come peggio non si dovrebbe, affrontano i sentieri più impervi affondando le gambe dentro a una coltre da loro mai vista prima. Scarpe da ginnastica ai piedi, pantaloni di cotone leggero, giacche a vento buone a malapena per affrontare il mare in bonaccia. Guardano i costoni sperando di trovare dall’altra parte la discesa verso la valle transalpina. Invece no, dopo un tornante ce n’è un altro che risale.

      Le mobilitazioni delle oltre 430 associazioni coinvolte negli “Stati Generali delle migrazioni in Francia” e dei valligiani sul versante italiano non si fermano. Gente di montagna che non ha bisogno di teologismi per sapere cos’è l’ecumenismo della solidarietà. Riforma, lo storico organo di informazione delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia, segue in tempo reale l’evolversi della “rotta bianca”, rilanciando i messaggi della Chiesa cattolica francese, e specialmente del Secourse Catholique, la Caritas di Francia che insieme a “Entraide Protestante”, la diaconia delle chiese riformate francesi, hanno protestato per iscritto con il presidente Macron, denunciando «tutte le storture del sistema di accoglienza francese e con la volontà di denunciare - spiega Riforma - l’ulteriore inasprimento di controlli e modalità di espulsione che le nuove leggi su immigrazione e sicurezza stanno delineando».

      «Attenzione, pericolo di morte», recitano in arabo, francese e inglese alcuni cartelli a Bardonecchia e a Oulx, i comuni da cui i migranti partono per la traversata. Loro guardano, e passano oltre. «La montagna è pericolosa d’inverno. Si rischia il congelamento a causa del freddo estremo - si legge -. Ci si potrebbe perdere e morire per sfinimento. Per favore non tentate, potrebbe esserci un metro e mezzo di neve». L’hanno vista neanche sul Kilimangiaro, e dopo essere sopravvissuti agli aguzzini libici e ai marosi del Mediterraneo, non hanno paura di quello che non conoscono. Alcuni cascano nella trappola di improvvisati contrabbandieri di uomini.

      Il 30 novembre un ventenne originario del Kosovo è stato fermato dagli agenti del commissariato di Bardonecchia, sul confine tra Italia e Francia. Alla guida di una Lancia Ypsilon, l’uomo era diretto Oltralpe con a bordo quattro connazionali tra i 18 e i 30 anni. Il passeur è stato arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre gli altri quattro kosovari sono stati espulsi. Con gli africani, «la situazione migranti a Bardonecchia - afferma Luca Giaj Arcota, presidente del Soccorso alpino piemontese - ha raggiunto il livello d’emergenza. Negli ultimi mesi la nostra stazione locale, insieme alla Guardia di Finanza è stata chiamata in numerosi interventi per migranti dispersi o infortunati. Queste persone tentano di passare il confine nonostante le condizioni proibitive e il lavoro di dissuasione che la nostra e altre associazioni porta avanti. Non possiamo impedire loro di affrontare i sentieri innevati, ma è necessario prevenire altre partenze prima di incidenti più gravi». Neanche il maltempo li ferma. Figurarsi un cartello. La neve non però, è tutto più complicato.

      Perché un nero, da quelle parti, non è un turista in cerca di emozioni tra le vette. Molti tra quelli intercettati dalla Gendarmerie e rispediti in Italia, si nascondono prima di poter essere aiutati. Sfuggire agli agenti tra Bardonecchia e Briançon è ora quasi impossibile, così tentano la strada del Monginevro. Due giorni fa ne hanno salvati una decina. Si erano perduti tra i pendii. Hanno accettato una bevanda calda e vestiti asciutti. Poi sono ripartiti, sognando finalmente la discesa e qualcuno che gli dica che ce l’hanno fatta: «Bienvenue en France».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lecumenismo-solidale-lungo-la-rotta-bianca

    • Nella neve e nel ghiaccio la marcia dei migranti attraverso le Alpi

      In tre mesi almeno in duemila hanno passato il confine tra Italia e Francia. Spesso sono minori non accompagnati e si ritrovano spaesati in mezzo al freddo. Una rete di montanari volontari li aiuta anche se poi la polizia francese li rispedisce indietro.

      A decine ci provano ogni settimana, quando la temperatura scende a meno venti. Dall’Italia alla Francia. Senza equipaggiamento e nel bianco abbagliante. Senza nemmeno un paio di stivali. Ma l’anno scorso, come in questo nuovo anno, si mettono in cammino verso una nuova vita (https://www.aljazeera.com/videos/2018/1/1/migrants-in-europe-desperate-journeys-across-mountains). Al gelo, affondando i piedi nel ghiaccio che copre quasi tutto, a quasi duemila metri d’altezza, lungo il passo alpino che separa il suolo francese da quello italiano: i migranti sono in marcia (https://www.thetimes.co.uk/article/barefoot-migrants-die-trying-to-cross-alps-in-deepest-winter-zpvb82nrr).

      Da Ventimiglia al Brennero, poi le Alpi: la prima città da raggiungere nella terra francese è Briançon, dove è stato aperto un rifugio per la notte. I locali, che sanno quanto pericolose siano le loro montagne, hanno deciso di aiutarli e raccontano che la maggior parte dei profughi in arrivo sono minori non accompagnati, che tentano di raggiungere suolo francese. La rete dei volontari conta 1300 persone dei villaggi circostanti: dal bucato al sostegno giuridico, dalle ronde per i dispersi a chi distribuisce cibo, in mille sulle Alpi tendono la mano (www.meltingpot.org/Sulle-Alpi-francesi-i-montanari-che-salvano-i-migranti-dal.html#.WkqawSOh2fU).

      Quando cala dall’alto, la guardano per la prima volta nella loro vita: gli africani vedono lassù per la prima volta la neve. Dalla caldissima Africa, i rifugiati affrontano temperature gelate. Accendono il fuoco di notte, si dividono il cibo. Sperano. Ricordano i Paesi d’origine: Mali, Guinea, Costa d’Avorio. Dormono e all’alba, un passo dopo l’altro, continuano ad andare verso nord.

      In tre mesi in millecinquecento almeno, quasi duemila rifugiati ce l’hanno fatta, ma il percorso è arduo, quasi impossibile senza preparazione e abiti caldi, di cui i migranti sono sforniti. Gli alpini che pattugliano la zona dicono di aver paura di trovare i cadaveri in primavera, quando la neve si scioglierà. Alberto Rabino, a capo degli alpini di Bardonecchia, dice di aver ricevuto decine di chiamate dai migranti negli ultimi giorni. Si perdono nei boschi, nella neve, nel buio e quando i soccorritori arrivano li trovano in condizioni pericolosissime, a volte senza nemmeno le scarpe, a volte gravemente feriti. Joel Pruvot fa il volontario nel rifugio e anche lui racconta di aver trovato rifugiati senza scarpe nella neve: “gli africani non hanno idea di quanto sia pericolosa la montagna”.

      Quando riescono a scampare alla morte per congelamento, a volte si imbattono nella polizia francese che li rispedisce indietro. Vicino a Bardonecchia, mentre il 2017 diventava 2018, un gruppo di migranti ha tentato di arrivare a Col de l’Echelle. Lì l’altezza sfiora i duemila metri. Erano in sei ed erano arrivati in Italia a luglio. Quasi tutti, come la maggior parte dei migranti che hanno la forza di compiere il percorso, erano minorenni. Tutti con negli occhi un sogno: una nuova vita oltre le Alpi.

      https://left.it/2018/01/02/nella-neve-e-nel-ghiaccio-la-marcia-dei-migranti-attraverso-le-alpi

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      Migrants in Europe: Desperate journeys across mountains

      Over the last three months, at least 1500 migrants have embarked on a dangerous journey over the Alps, crossing from Italy into France, defying freezing temperatures and heavy snow.

      Over the last three months, at least 1500 migrants have embarked on a dangerous journey over the Alps, crossing from Italy into France, defying freezing temperatures and heavy snow.

      Rescuers in the Alps say they’re concerned about the number of refugees and migrants trying to cross the snow-covered mountains of Europe.

      Half of those making the journey are thought to be children or teenagers.

      https://www.aljazeera.com/videos/2018/1/1/migrants-in-europe-desperate-journeys-across-mountains

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      Barefoot migrants die trying to cross Alps in deepest winter

      Rescue workers say they expect to discover the bodies of African migrants who have died crossing the Alps when the snows melt in the spring.

      Dozens try to cross the border between Italy and France every week, some barefoot, despite heavy snow and temperatures as low as minus 20C. One African man died last week when he fell from the clifftop cabin where he had been sheltering onto the A8 motorway at Roquebrune-Cap-Martin on the French side of the border.

      (#paywall)

      https://www.thetimes.co.uk/article/barefoot-migrants-die-trying-to-cross-alps-in-deepest-winter-zpvb82nrr

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      Sulle Alpi francesi: i montanari che salvano i migranti dal gelo
      >> di Luisa Nannipieri - Radio Popolare, 18 dicembre 2017

      Più di un metro di neve fresca e polverosa, temperature che scendono fino a – 20°C e raffiche potenti che spazzano la montagna sotto al limpido cielo invernale. Siamo a 1.700 metri d’altezza, vicino al Col de l’échelle, piccolo passo alpino che separa la Francia dall’Italia. A meno di 10 chilometri da qui, c’è già chi scia sulle piste di Bardonecchia, in val di Susa. Questa è, ormai da più di un anno, la nuova strada dei migranti che vogliono lasciare l’Italia.

      Bloccati a Ventimiglia e al Brennero, arrivano in treno fino a Bardonecchia o Oulx e si incamminano sulle montagne a piccoli gruppi per raggiungere Briançon. Come cartina, un cellulare che spesso non prende; ai piedi, se va bene, delle scarpe da ginnastica di tela e delle calze. Per evitare le pattuglie di gendarmi lungo la strada, non esitano a lasciare i sentieri battuti, finendo per perdersi o ferirsi anche gravemente. Dall’inizio dell’anno sono passate più di 1.500 persone, soprattutto uomini originari del Mali, della Guinea e della Costa d’Avorio. Moltissimi sono minorenni. E la neve non basta a scoraggiarli: ogni giorno arriva una decina di persone in valle, nonostante il gelo e il rischio di valanghe sul versante italiano.

      Per far fronte alla situazione, in mancanza di una risposta che non sia la militarizzazione della frontiera da parte dello Stato francese, i montanari hanno creato una rete di solidarietà che coinvolge più di 1.300 persone in tutta la regione di Briançon. Non tutti sono favorevoli ai migranti ma nessuno riesce a rimanere indifferente, figurarsi abbandonare qualcuno sui monti conoscendo i rischi che si corrono. Cosi’ c’è chi li accoglie, chi li cura, chi li aiuta a fare il bucato, chi offre sostegno giuridico e chi organizza, ogni sera, ronde per cercare i dispersi in montagna. Alcuni hanno dato i loro numeri di cellulare e ricevono spesso richieste d’aiuto da ragazzi che non sanno minimamente orientarsi sulle Alpi. E tutti si chiedono non se, ma quanti corpi verranno ritrovati questa primavera, al disgelo.

      Domenica scorsa, dalla valle francese della Clarée sono saliti in 250: valligiani, guide alpine, qualche giornalista e qualche personaggio noto hanno formato una cordata solidale per denunciare una situazione sempre più pericolosa e il silenzio dello Stato. Sarebbe dovuta essere una semplice azione dimostrativa ma si è trasformata in un’operazione di salvataggio. Un giovane della Guinea Conakry è stato ritrovato in un canalone di valanga senza scarpe. Aveva iniziato a salire verso il passo dell’Echelle alle 5 del mattino. Ecco il video:


      https://twitter.com/la_regledor/status/941699971828604928

      https://www.meltingpot.org/2017/12/sulle-alpi-francesi-i-montanari-che-salvano-i-migranti-dal-gelo

    • Bardonecchia, migrante in fuga verso la Francia sommerso da un metro e mezzo di neve: salvato in extremis

      Tragedia sfiorata. Recuperato dal soccorso alpino francese avvisato dalla moglie che con i due figli lo attendeva a Briancon. Attivisti francesi aiuteranno i migranti costreuendo un igloo di protezione.

      Un Capodanno di solidarietà in cima al Colle della Scala dopo l’ennesimo salvataggio di un migrante in ipotermia sopra Bardonecchia. Sua moglie e i suoi figli, di 2 anni e di 5 mesi, erano riusciti a raggiungere la Francia senza problemi, mentre lui stava finendo assiderato nella neve dell’alta Valsusa. Un cittadino ghanese è stato salvato dal soccorso alpino francese mentre si trovava sotto un metro e mezzo di neve sul Colle della Scala al confine con l’Italia. Per lui, uno dei tanti migranti che da mesi tenta l’attraversata dalle Alpi, è stato provvidenziale proprio l’intervento della moglie con cui si erano dati appuntamento a Briançon, ma che non vedendolo arrivare ha dato l’allarme. La donna infatti era stata accolta da una coppia di attivisti francesi dopo essere arrivata in autobus passando dal Monginevro e riuscendo a eludere i controlli della gendarmerie, ma suo marito ha scelto la via più difficile ma anche quella considerata meno battuta dai migranti l’ascesa a piedi dal Colle della Scala. «Non lo vedeva arrivare e l’angoscia saliva anche perché era in corso una copiosa nevicata» raccontato gli attivisti di Tous migrant. Dopo ore di ricerche i soccorritori sono riusciti a individuare l’uomo e portarlo al sicuro con un elicottero. All’ospedale è arrivato in ipotermia e dopo le cure ha potuto riabbracciare la sua famiglia.

      Quella di questa notte è solo l’ultima tragedia sfiorata tra Bardonecchia e Nevache e anche per questo oggi un gruppo di attivisti francesi ha raggiunto il colle della Scala per portare aiuto ai migranti che anche nella notte di Capodanno tenteranno, sempre senza vestiti ed equipaggiamento adatto, l’ascesa. «Saliremo tutti insieme al Col de l’Echelle e costruiremo degli igloo necessari per accogliere chi verrà con noi - racconta Yann Borgnet, uno degli organizzatori - Questa sera prepariamo una grande zuppa e passiamo la serata lì. L’idea di un’azione del genere è per discutere di come i governi stanno gestendo le migrazioni, ma anche essere lì per aiutare i migranti in pericolo. Domani, se il tempo lo permette, è possibile che i più motivati ??facciano un viaggio di ritorno a Bardonecchia con gli sci, per fare al contrario il percorso dei migranti e mostrare a tutti quanto è dura la loro strada».

      https://torino.repubblica.it/cronaca/2017/12/31/news/bardonecchia_migrante_in_fuga_verso_la_francia_sommerso_da_un_metr

    • Valsusa, un’altra tragica frontiera dell’Europa dei muri

      Nel silenzio complice della stampa mainstream, un’altra drammatica situazione sta colpendo la popolazione migrante che attraversa il nostro paese. Un’attivista valsusina ci racconta gli ultimi mesi alla frontiera di Bardonecchia.

      Ci puoi raccontare cosa sta succedendo ai migranti alla frontiera di Bardonecchia?

      Da tempo ormai, vista la situazione a Ventimiglia con la frontiera sempre più sigillata, molti migranti arrivano in treno a Bardonecchia e attraversano il confine con la Francia a piedi passando per le montagne. Bardonecchia è una località transfrontaliera a 1312 metri di altezza. Con l’arrivo dell’inverno i migranti hanno iniziato ad avere grosse difficoltà con le temperature, con gravi problemi di assideramento durante le notti all’aperto.

      Era già accaduto in passato?

      Da sempre la Valle è stata un luogo di passaggio di migranti, lo ricordo fin da piccola anche per esperienze vissute in prima persona. Nell’ultimo anno questo fenomeno è sicuramente aumentato. Con l’inverno, e con la necessità di rifugiarsi in luoghi caldi, sta diventando evidente un fenomeno prima più invisibile.

      Cosa stanno facendo le autorità?

      Il primo provvedimento preso è stato chiudere le stazioni di Bardonecchia e poi di Oulx per impedire a chi migra di rifugiarsi nelle sale di attesa. Per un certo periodo hanno addirittura tolto il servizio di apertura anche di giorno, e quindi paradossalmente chiunque attendesse un treno doveva farlo al freddo.

      Dal lato francese l’arrivo dei migranti è monitorato da droni, motoslitte, pattuglie della gendarmerie e vengono riportati subito a Bardonecchia.

      Molte di queste persone hanno un permesso di soggiorno temporaneo in Italia e una volta riportati oltreconfine vengono lasciati a loro stessi.

      Il comune si è disinteressato così come le altre istituzioni fino a quando hanno iniziato ad avere pressioni più consistenti.

      Gli enti locali stanno intervenendo e prestando servizi di emergenza o è tutto gestito dalle forze dell’ordine?

      Per un lungo periodo le pressioni della società civile non sono servite a nulla.

      L’ong Rainbow for Africa ha poi iniziato ad avere delle interlocuzioni, ed è riuscita a far aprire una piccola stanzetta di 20 metri quadri nell’edificio della stazione, solo durante gli orari notturni. In principio questa stanzetta era gestita dalla polizia. Nel frattempo l’ong ha ottenuto le chiavi e la possibilità di mettere a disposizione personale medico e paramedico negli spazi del soccorso alpino adiacente. Il personale presta soccorso quando arrivano migranti che hanno sintomi da congelamento. Caritas e Croce Rossa hanno fornito servizi parziali.

      Cosa significa il supporto del movimento NOTAV a questa situazione?

      Se volevano una dimostrazione in più che il movimento NOTAV non è un movimento nimby, eccola pronta. Di sicuro la lotta contro il TAV ha permesso di diventare una comunità che cura il territorio e coltiva valori quali l’antirazzismo e l’accoglienza.

      Poi c’è da dire che far parte del movimento ha permesso di crescere a livello di organizzazione interna e per prestare soccorso ai migranti questo è stato fondamentale.

      Se poi vogliamo fare connessioni con il discorso TAV, è stato pubblicato da poco il comunicato ufficiale della posizione dei NO TAV in solidarietà nei confronti della questione migranti, poiché vengono spesi miliardi per far passare merci e persone bianche con i soldi attraverso le frontiere, mentre i migranti rimangono intrappolati. Una dimostrazione in più del fatto che le frontiere sono aperte o chiuse solo in virtù di interessi politici ed economici.

      La resistenza al TAV ha permesso contaminazioni viste le tante altre esperienze che sono state raccontate da chi è passato in Valle, queste hanno permesso di comprendere di più anche la questione migrazioni.

      La rete che si è formata è stata chiamata “Briser les frontières” (sbriciolare le frontiere), ha organizzato una prima serata benefit con 200 persone a mangiare per sostenere l’acquisto di cibo e beni di prima necessità, raccolte abiti invernali.

      È un grosso impegno, siamo una quarantina di attivisti pronti ad intervenire, ma molti di più disponibili ad aiutare, la risposta in Valle è stata più che buona.

      Quali difficoltà avete incontrato in questa esperienza?

      Sulla questione i francesi sono più avanti di noi, sono riusciti ad aprire una casa di accoglienza e altre attività di supporto, come ronde nei sentieri. Addirittura la casa l’hanno ottenuta dal comune di Briançon, che si è in un certo modo opposto alle leggi attuali che obbligano a rimandare in Italia i migranti.

      A Bardonecchia all’inizio non è stato facile a livello relazionale creare l’approccio giusto con i migranti, trovare una lingua comune è fondamentale.

      Da mesi ogni sera il soccorso alpino esce alla ricerca di dispersi nella montagna. Non c’è ancora stato il morto, ma un ragazzo ha avuto i piedi amputati per congelamento. Molti ragazzi, bruciati da esperienze del passato, hanno difficoltà a fidarsi ed accettare l’aiuto da parte della rete, anche solo prendere un paio di calzettoni asciutti o un piatto di minestra calda.

      La collaborazione da parte della Valle che appoggia la lotta al TAV è buona, in tanti hanno offerto sostegno e appoggio logistico.

      Noi diamo tutte le informazioni utili per conoscere la situazione della montagna, poi sono loro che decidono cosa fare. Sono arrivati anche minorenni e contrariamente a quello che dicono le leggi internazionali, vengono riportati in Italia a Bardonecchia dalla Gendarmerie.

      In molti dicono “piuttosto che vivere qui senza prospettive tento la libertà”, poi capiscono che la Francia non è il paradiso, e alcuni poi ritornano in Italia.

      I prossimi appuntamenti?

      Per denunciare quello che sta accadendo abbiamo deciso di organizzare una marcia transfrontaliera da Claviere a Montgenèvre il 7 gennaio, per ribadire che le frontiere non esistono in natura, ma sono un sistema di controllo. Non proteggono le persone, le mettono una contro l’altra, non favoriscono l’incontro ma generano rancore. Le frontiere non dividono un mondo da un altro, c’è un solo mondo e le frontiere lo stanno lacerando.

      https://www.dinamopress.it/news/bardonecchia-unaltra-tragica-frontiera-delleuropa-dei-muri

    • «Non abbiamo paura della neve». Con i migranti lungo la rotta alpina

      Siamo a stati Bardonecchia, l’ultima città italiana al confine con la Francia, in Alta #Valsusa. Da dove partono decine di migranti ogni giorno alla ricerca di una nuova vita.

      Camminare nella neve è difficile, servono forza e allenamento fisico. Se non sei abituato e ben equipaggiato ti butta giù. Soprattutto se sei a tremila metri d’altezza. Perché la montagna è come il mare: se non la conosci, non ti perdona.

      Samba, gambe esili, il mare lo ha conosciuto attraversandolo a 15 anni su un barcone. È appena arrivato alla stazione ferroviaria di Bardonecchia, in Piemonte. Qui parte la «rotta alpina» attraversata dai migranti**, l’ultimo miglio che li separa dalla Francia e dal Nord Europa, dove le temperature scendono anche fino ai 15 gradi sotto lo zero, e dove si rischiano assideramento e ipotermia.

      L’obiettivo è superare le Alpi. Ci provano in media 30 persone al giorno, secondo quanto riferisce il Soccorso Alpino, 900 al mese. C’è chi ha tentato di farlo camminando lungo i binari della ferrovia, ma alcuni tratti sono troppo stretti per permettere a un uomo e al treno di passare entrambi. Alcuni hanno perso la vita.

      È la neve, con il rischio di precipitare giù, che bisogna affrontare. Raggiungere Nevache, il primo piccolo centro abitato francese dopo il confine, trovare un rifugio e rimettersi in forze. Poi di nuovo in marcia verso la seconda città sulla strada, la più popolata, Briancon. E se la gendarmeria non li intercetta, proseguire verso i centri principali.

      Samba indossa un paio di jeans, un piumino, sulle spalle uno zainetto semi vuoto. È originario del Sudan, ma gli ultimi mesi li ha trascorsi in una prigione in Libia, lì dove le Ong spesso non riescono a entrare. Racconta di mani e piedi legati, botte e compagni trascinati per strada. «Poi una mattina ci hanno portato su una barca - ricorda - non sapevamo niente di dove stessimo andando e solo dopo diverse ore una nave ci ha rintracciati. Ci hanno detto che saremmo sbarcati in Italia». In Libia Samba era insieme a suo fratello, ma è stato separato da lui in prigione. Da quel giorno non si sono più parlati.

      Anche se i volontari che accolgono i migranti a Bardonecchia ripetono che è molto pericoloso tentare di raggiungere la Francia a piedi, lui è determinato a riuscirci. Si prova un paio di scarpe da trekking portate da una volontaria. Sono troppo grandi, forse, come i jeans che indossa, le gambe sembrano stuzzicadenti. «Vorrei giocare a calcio - confessa - e in Francia ho un amico che potrebbe aiutarmi a farlo. Voglio arrivare lì e rimettermi in contatto con la mia famiglia per aiutarli».

      Alla stazione di Bardonecchia ci sono una decina di migranti ogni giorno. Arrivano da Uganda, Mali, Sudan, ma c’è anche un ragazzo egiziano, Hamza. Lui aveva già raggiunto Lione, ma la polizia lo ha intercettato e riportato indietro. Accade anche mentre parliamo con Samba, davanti alla stazione si ferma un camioncino della gendarmeria francese, si apre lo sportello e un ragazzo con una sacca di pelle esce con il viso cupo. È albanese, lo hanno riportato da Briancon.

      Quando iniziano a cadere i primi fiocchi di neve, l’aria diventa tagliente. Fernanda, responsabile dell’associazione Il Pulmino verde, che ogni sera assiste con pasti caldi e vestiti i migranti che sostano alla stazione, apre la sala d’aspetto messa a loro disposizione per trascorrere la notte al caldo.

      Samba la neve non l’aveva mai vista. «È la prima volta che mi trovo faccia a faccia con lei. Sapevo com’era solo grazie alle foto. Sembra bella ma è troppo gelida. Per me è un problema perché mi impedisce di partire». Arrivano altri indumenti dai volontari, Samba trova una tuta da sci della sua taglia, la indossa, ci mette sopra anche il piumino, poi una sciarpa di lana rosa e un cappello di lana bordeaux.

      «In Africa non esiste il freddo», racconta Ahmed, 17 anni, arrivato da un giorno, un paio di Converse ai piedi. «Non sono abituato a questa temperatura. Qui è tutto un problema». È questa l’unica parola italiana che conosce, «problema, problema» ripete, buttando la testa all’indietro. Ahmed è minorenne, non è riuscito a ottenere i documenti nei tempi che sperava, anche lui è stato rinchiuso in una prigione in Libia. «Tutti i giorni ci picchiavano e venivano a chiederci se avevamo soldi per uscire. Io non ne avevo e sono scappato facendo zig zag. Non trovo altre parole per spiegare come ci sono riuscito. Zig zag rende l’idea?». Poi la barca, l’arrivo in Sicilia e l’autobus verso Nord. Fino qui, in Alta Valsusa.

      «La mia famiglia è in Sudan, in Francia ho degli amici. Aspetto un segnale dal cielo per andarmene da qui». Ahmed è salito sul treno diretto in Francia per tre volte. La polizia lo ha sempre bloccato e riportato indietro. Con i suoi occhi grandi e spalancati nel vuoto, Ahmad racconta di essere stanco di vivere come un fuggiasco. Vorrebbe un po’ di normalità, una vita semplice. Una ragazza gli offre un tè caldo e una sigaretta, le accetta entrambe ma da come appoggia la sigaretta alla bocca si vede che non ha mai fumato.

      Aspira, inizia a tossire poi scoppia a ridere. C’è lo spazio di distrarsi per un secondo tra le mura gelide della stazione.

      Quando torniamo alla stazione di Bardonecchia è mattina presto, la neve continua a cadere copiosa. Samba guarda le previsioni meteo nel suo cellulare, Ahmad non c’è più. «È partito», spiega Mohammed, 32 anni, il più grande del gruppo. «Non voleva stare qui, ha tentato il destino. Se nevica così forte tornerà indietro. Io non mi muovo, aspetto domani, dovrebbe esserci il sole». Mohammed è originario della Guinea e spera di raggiungere la Francia per riunirsi a sua sorella. Non la vede da due anni, vorrebbe conoscere il suo nipotino appena nato. «Non so se resterò in Francia ma voglio arrivarci anche se significa mettere in pericolo la mia vita. L’ho già fatto attraversando il deserto e il mare. Ho vissuto qui un anno, non trovo lavoro».

      Insieme a Samba c’è un nuovo ragazzo, è arrivato nella notte. «Ho sedici anni e sono partito dalla Costa d’Avorio. È la terza volta che tento di passare il confine. Con l’aiuto di Dio, questa sarà l’ultima». Sulle pareti che circondano la stazione, i volontari dell’associazione Il Pulmino Blu e della Croce Rossa Italiana hanno appeso diversi volantini in tutte le lingue.

      «Non partite a piedi, pericolo di vita», si legge accanto al numero telefonico dei soccorsi. Ma chi è arrivato qui, nell’ultima città sul suolo italiano, non ha intenzione di fermarsi. Il gelo e la neve fanno paura ma non abbastanza.

      «Quando li vedi partire è impressionante», racconta Carlo Florindi, presidente della Croce Rossa di Bardonecchia. «S’incamminano dalla stazione, in fila indiana con i loro zainetti e lo stradario. Arrivano al Colle della Scala e lì inizia la salita non asfaltata, su un sentiero battuto solo dalle loro orme che si stringe e diventa largo appena sessanta centimetri».

      Nelle ultime settimane diversi migranti sono stati soccorsi con i piedi quasi congelati, altri sono stati raggiunti dal soccorso alpino ma hanno scelto di continuare la scalata verso la Francia. «Salgono fino a duemila metri, attraverso un valico chiuso d’inverno proprio perché è pericoloso, a rischio caduta massi. Lì la neve è fresca e si sprofonda».

      Prima della seconda guerra mondiale il tragitto percorso dai migranti era italiano. Erano i nostri parenti a percorrerlo per raggiungere la Francia e tentare la fortuna. Il movimento dei popoli non si è mai fermato e ora, a solcare lo stesso sentiero impervio, sono uomini nati soprattutto in Nord Africa. Sono arrivati fino a qui, dove i migranti sembravano «un problema» appartenente solo al Sud del Mondo. «Nessuno immaginava di vederli in mezzo alla neve», sospira una signora al bar.

      «Bardonecchia nel 1947 era un paese di passeurs», racconta Florindi. «Per molti era un secondo stipendio. La notte li facevano dormire nelle stalle e all’alba li portavano a destinazione».

      E i primi passeurs sono tornati. C’è già qualcuno che cerca di cavalcare la disperazione di chi è disposto a tutto per arrivare in Francia e in cambio di denaro offre un passaggio. «Ma spesso non li porta nemmeno a destinazione, si ferma prima e li lascia per strada, dicendo che sono quasi arrivati ma non è così», racconta Fernanda.

      La storia si ripete davvero, gli eventi lo raccontano da sempre. «Noi gli facciamo anche vedere le foto di chi è finito in ospedale quasi assiderato, a un ragazzo hanno amputato una gamba poco tempo fa. Ma loro sono decisi a tentare la traversata».

      Si sentono senza alternative e rinchiusi in una bolla in cui il tempo sembra non curarsi di loro e delle loro vite.

      «I ragazzi giovani che incontro ogni giorno - continua Mohammed, il più grande - sono molto più arrabbiati dei loro padri migranti. Loro vogliono vivere, vogliono avere una possibilità e fanno di tutto per prendersela». Anche se vette così alte e innevate non le hanno mai viste, ma restare senza nemmeno un sogno da realizzare fa più paura della morte.

      È così che si chiude il 2017 europeo, l’anno in cui le Ong che prestavano soccorso in mare sono state messe sotto accusa e l’Italia ha stretto accordi con la Libia. Qui a Bardonecchia gli abitanti dicono che «gli stranieri a loro non danno fastidio. Fino a quando si comportano bene. Fino a quando non diventano troppi».

      https://www.vanityfair.it/news/approfondimenti/2017/12/28/migranti-bardonecchia-rotta-alpina

    • Briançon : le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre ouverte au chef de l’État

      Au lendemain des États généraux de la migration qui se sont tenus à Briançon les 16 et 17 décembre, le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre à Monsieur Emmanuel Macron, président de la République :

      "À Névache, dans les Hautes-Alpes, la neige tombe depuis plusieurs jours, la Lombarde est parfois brutale ! Les températures nocturnes passent maintenant entre 10 et 15 degrés sous zéro, mais les migrants venant d’Italie continuent d’arriver... Jeunes, souvent mineurs, ils tentent le passage du Col de l’Échelle (1 700 m) pour rejoindre ensuite Briançon ; 20 km à pieds si aucun automobiliste ne veut ou ne peut les prendre en charge. À moins qu’un fourgon de gendarmerie ne les intercepte pour les reconduire à la frontière, de jour comme de nuit, sans tenir compte de la réglementation concernant les mineurs isolés ou les demandeurs d’asile. Ils ont des ordres, disent-ils ! Des ordres pour ne pas respecter la réglementation ? Ces migrants, d’Afrique subsaharienne et le plus souvent francophones, sont pourtant prêts à tout pour rejoindre notre pays et y rester pour reconstruire dignement leur vie en travaillant. Nous devrions en être fiers. Dans les conditions actuelles, nous les accueillons comme des terroristes en leur appliquant une législation antiterroriste qui n’a pas été faite pour eux ! La lecture du code Schengen des frontières est, à cet égard, très claire. Vous avez, nous dit-on, découvert récemment, à la suite d’un reportage de CNN, l’horreur des marchés aux esclaves de Tripoli. Quelques contacts directs avec les Névachais ou les Briançonnais vous en auraient appris bien davantage, depuis deux ans au moins. Ancien officier formé à Saint ?Cyr, je m’interroge sur ce que pouvaient bien faire nos services de renseignement !? Pourtant, mais vous n’avez pas abordé cette question en nous parlant des marchés de Tripoli, l’Union Européenne (dont l’Italie et la France) paît les gardes ?côtes libyens pour récupérer en mer un maximum de migrants et les renvoyer en Libye ; où ils les revendent peut ?être, une deuxième fois ?

      L’Union Européenne et notre pays (qui revendiquent leurs racines chrétiennes quand cela les arrange) contribuent ainsi au bon fonctionnement d’un commerce que l’on croyait à jamais disparu. Bilan de ce long voyage : lorsqu’il parvient sur notre territoire, un migrant a souvent perdu le tiers de ses compagnons de route entre le Sahara, la Libye, la Mer Méditerranée et la France. Aujourd’hui, l’hôpital de Briançon en ampute certains qui ont « pris froid » dans la montagne au péril de leur vie. Devons nous attendre des morts pour que nos institutions réagissent humainement ?
      On comprend que, pensant arriver dans la commune de Névache au terme d’un voyage qui aura souvent duré deux ans, rien ne les empêchera de s’engager dans la traversée du col de l’Échelle, quelles que soient les conditions. Pour nous, Névachais, l’impératif humanitaire s’impose même si les forces de l’ordre s’efforcent de nous en dissuader. Il faut les retrouver si possible, les recevoir, les remettre en forme, les soigner puis les conduire à Briançon où ils pourront commencer à traiter leurs problèmes administratifs avec les associations en charge de ces questions.

      Au cours du mois de décembre, nous avons dû, à six reprises au moins, faire appel au « Secours en Montagne » pour leur éviter la mort, non sans éviter gelures et traumatisme divers. Pas encore de morts reconnus, mais cela viendra, Monsieur le Président. Et tout cela avec des bénévoles non seulement sans aide de l’État mais au contraire sous la menace des forces de maintien de l’ordre. À vouloir faire oeuvre humanitaire, nous Névachais et Briançonnais, sommes traités comme des délinquants ! On nous interdit de prendre un Africain en stop, quelles que soit la température et l’heure !
      Briançon : le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre ouverte au chef de l’État - 2

      Depuis quand l’automobiliste devrait-il refuser un passager au seul vu de sa couleur ? Dans la Clarée, Monsieur le Président, nous refusons l’apartheid ! Quelles que soient les menaces, nous ne pouvons refuser l’action humanitaire, à commencer par le secours à personnes en danger, lorsque les pouvoirs publics abandonnent cette mission. Les ordres reçus ne sont pas de pratiquer une action dignement humaine mais de renvoyer en Italie un maximum de migrants au mépris de leurs droits. Où est la solidarité européenne, Monsieur le Président ?

      Monsieur le Président, je sais que nous ne sommes pas les seuls français dans cette situation. Vous vous trouvez dans une position qui durera aussi longtemps que l’on ne prendra pas le mal à ses sources, réchauffement climatique, sous développement de nos anciennes « colonies » et autres. Vous savez vendre des avions, pour tuer ! Pouvez-vous prendre en considération la misère de ces migrants, comme le Pape François y invite nos contemporains ?

      Les Névachais et les Briançonnais, respectueux de la loi, sont prêts à travailler avec les services de l’État pour trouver des solutions, à condition que l’État accepte de les entendre, ce qui n’a pas encore été le cas, et de les entendre sans vouloir en faire des auxiliaires de police ! Nous pourrons alors retrouver la fierté de nos cimes et redonner à notre pays l’honneur qu’il est en train de perdre et que nous perdons tous avec lui.

      Souvenons-nous de ces milliers d’Africains morts pour la France au cours des deux dernières guerres mondiales. Ce sont leurs petits-enfants que nous devrions laisser mourir dans la neige ? Pour l’ancien Saint-Cyrien que je suis, dont la promotion porte le nom d’un colonel Géorgien mort au combat, de telles perspectives sont insupportables, Monsieur le Président. Nous comptons encore sur vous mais le temps presse."

      Bernard Ligier - citoyen de Névache

      http://www.laprovence.com/article/societe/4774520/briancon-le-collectif-citoyen-de-nevache-adresse-une-lettre-ouverte-au-c

    • Histoires de frontières #1, sur Radio Canut

      Mardi 9 janvier à 20h, Radio Canut (102.2FM à Lyon ou en streaming n’importe où ailleurs) diffuse deux documentaires sur les parcours des migrantEs dans les Alpes, la militarisation des frontières, mais aussi sur les luttes et solidarités en cours.

      Deux reportages de 30min chacun sont au programme :

      Un entretien réalisé fin décembre au squat Chez Marcel à Briançon qui permet de revenir sur l’aventure de ce lieu d’accueil, la situation à la frontière italienne dans les Hautes-Alpes mais aussi sur les enjeux et les perspectives des luttes actuelles.

      Un montage de différentes interventions lors de la soirée de soutien et d’information qui a eu lieu à Lyon le 14 décembre dernier. Prise de paroles de migrants et témoignages sur la situation à Ventimiglia (Italie), Briançon et Lyon.

      En direct, mardi 9 janvier à 20h sur Radio Canut (102.2FM en région lyonnaise ou en streaming via ce lien de n’importe où ailleurs).

      Les deux reportages seront ensuite disponibles en podcast sur les sites suivants :
      https://blogs.radiocanut.org/sav
      http://www.internationale-utopiste.org

      https://rebellyon.info/HISTOIRES-DE-FRONTIERES-1-sur-Radio-Canut-18562

    • Da Bardonecchia a Briançon, in viaggio con i migranti sulle Alpi

      Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.

      Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.

      Il grande cartello blu con la scritta bianca indica il nome della stazione: Bardonecchia. La cittadina piemontese a 1.312 metri d’altitudine gli è stata indicata da alcuni amici in una chat su Whatsapp. Da qui parte la rotta alpina, un sentiero che arriva in Francia dopo sei ore di cammino attraverso il valico del colle della Scala. Traoré annuisce: è arrivato.

      Con le prime luci del giorno proverà ad attraversare le Alpi, nonostante la neve. È il suo secondo tentativo di superare il confine: il giorno precedente ha già provato in treno, ma alla stazione di Modane è stato fermato dalla gendarmeria francese, tenuto qualche ora in un commissariato e poi accompagnato sul treno per l’Italia insieme ad altri cinque ragazzi.

      Pericolo
      Alle nove di sera ci sono undici gradi sottozero. Traoré non ha mai visto la neve in vita sua ed è proprio come se l’era immaginata: una distesa bianca sulla strada che scricchiola sotto i piedi. Il ragazzo, arrivato in Italia dalla Libia a luglio del 2017, ha le gambe sottili e muscolose, e saltella sulle scale del sottopassaggio della piccola stazione ferroviaria per cacciare i brividi. “Pericolo”, c’è scritto in inglese, francese, arabo e tigrino su un cartello nella bacheca della stazione, in cui si spiega che attraversare le Alpi nel pieno dell’inverno può costare la vita.

      A quest’ora la sala d’attesa è chiusa, a causa di un’ordinanza del sindaco e delle ferrovie dello stato del 1 febbraio 2017. I migranti arrivati qui per tentare di attraversare le Alpi aspettano che i volontari dell’associazione Rainbow for Africa aprano il piccolo locale accanto alla stazione: due stanze e un bagno nell’ex dogana, rimessi a posto dal Soccorso alpino.

      Il rifugio notturno non si può aprire prima delle 23, sempre per volere dell’amministrazione locale. Il sindaco teme che offrire servizi strutturati ai migranti possa rappresentare un fattore di attrazione, un pull factor. La stessa accusa era stata rivolta alle organizzazioni non governative (ong) che fanno operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale durante l’estate scorsa. E nel 2017 è stata usata in molte città italiane – da Roma a Ventimiglia – per criminalizzare chi offre pasti caldi, coperte e assistenza ai migranti in transito che dormono per strada.

      Nonostante tutto a Bardonecchia ogni sera, quando chiude la sala d’attesa della stazione, una decina di richiedenti asilo si rifugia nel sottopassaggio, aspettando di entrare nel ricovero notturno. Ad assisterli arrivano a turno dalla val di Susa e da Torino i volontari che si sono riuniti nella rete Briser les frontières, “sbriciolare le frontiere”. Portano bevande calde, pasti, vestiti, scarponi, giacche a vento, guanti. “Il nostro compito principale è informare le persone dei rischi a cui vanno incontro”, spiega Daniele Brait, attivista di Bussoleno. “Se uno guarda una cartina sembra che la distanza tra l’Italia e la Francia sia molto piccola, mentre in realtà in questa stagione andare in montagna senza equipaggiamento potrebbe significare non arrivare mai”.

      Molti volontari sono anche attivisti No Tav e spiegano che la battaglia contro l’alta velocità ha molto in comune con quella per la libertà di movimento delle persone. “I No Tav vogliono evitare che le montagne siano devastate per far passare un treno merci, in un sistema che permette alle merci di passare liberamente e lo impedisce alle persone”, afferma Brait.

      Dal Mediterraneo alle Alpi
      I volontari distribuiscono un piatto di lenticchie, del tè e alcuni indumenti. Mohammed Traoré prende una sciarpa e due cappelli. “Aquarius”, esclama quando mi vede. È come se fosse una parola magica. È il nome della nave di Sos Méditerranée e Msf che lo ha soccorso al largo della Libia e su cui ci siamo incontrati. Mi abbraccia. Ricorda il buio della notte quando era sul gommone, la paura di morire e la stanchezza che spossa dopo ore di navigazione sotto al sole. Mentre guardiamo le foto sul cellulare, ricorda i corpi stesi senza forze sul ponte della nave francese. Ricorda la gioia di aver visto le luci di “Pojallò”, del porto di Pozzallo, dal ponte dell’Aquarius per una notte intera prima dell’attracco, di aver pensato di essere finalmente arrivato in Europa.

      “Io credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso”. Dopo lo sbarco, Traoré è stato trasferito in un centro d’accoglienza a Cesena. Ma la risposta alla richiesta d’asilo non è arrivata. “Non ha funzionato, è stato il destino”, dice con una certa dolcezza. Per questo è scappato ed è finito a dormire per strada, quindi ha deciso di attraversare la frontiera.

      Alcuni amici, già arrivati a Tolosa, gli hanno suggerito il percorso. “Non ha senso per me rimanere in Italia anche se non è facile prendere la strada della montagna in pieno inverno”, dice in un francese lento e scandito. “Attraversare il deserto e il mar Mediterraneo è stato difficile, ma attraversare le montagne con tutta questa neve lo sarà ancora di più. Rischieremo di nuovo la vita, ma non abbiamo scelta”. Traoré non ha aspettative: “Potrò parlare il francese, che è la mia lingua. Tutto qui. Nessuna illusione”.

      A partire dalla fine di novembre, nonostante la neve e il freddo, il Soccorso alpino di Bardonecchia ha registrato il passaggio di migliaia di migranti dal valico del colle della Scala. “Abbiamo ricevuto molte chiamate, soprattutto di notte, e abbiamo trovato persone smarrite nei sentieri, alcune senza scarpe, tutte intirizzite e mal equipaggiate”, spiega Alberto Rabino, vicecapostazione del Soccorso alpino di Bardonecchia. Il 20 dicembre il Soccorso alpino è intervenuto in aiuto di sei migranti che erano rimasti bloccati nella neve: “Gli portiamo coperte termiche, indumenti caldi, ma una volta che si sono ripresi chiedono di continuare il percorso pur sapendo che dall’altra parte li aspetta la gendarmeria francese”.

      I respinti
      La notte Mohammed Traoré la passa steso a terra avvolto in un sacco a pelo rosso nel rifugio notturno del Soccorso alpino di Bardonecchia insieme ad altri – Adam, Aboubakr, Souleiman – con cui ha deciso di partire. Sono quasi tutti originari dell’Africa francofona, soprattutto della Guinea e della Costa d’Avorio. Carlino Dall’Orto, un medico di Vicenza di 69 anni, volontario di Rainbow for Africa, tenta inutilmente di convincerli che mettersi in cammino potrebbe essere pericoloso. “Arrivano a Bardonecchia con abiti non idonei al freddo e alla montagna, ma sono molto determinati”. Dall’Orto ha viaggiato per molti anni in diversi paesi dell’Africa e si rivolge ai ragazzi della stazione con un atteggiamento paterno cercando di convincerli a non partire.

      Il pomeriggio spesso arriva un pulmino bianco della gendarmeria francese, racconta Dall’Orto, si ferma davanti alla stazione e scarica i migranti irregolari fermati alla frontiera. A essere rimandati indietro dalla Francia non sono solo quelli che attraversano il valico alpino senza documenti, ma anche alcuni immigrati che risiedono in Italia e in Francia da molti anni e che non hanno tutti i documenti in regola dal punto di vista amministrativo. “C’è stato un ragazzo albanese giorni fa che aveva un problema con un visto e lo hanno riportato indietro”, dice Dall’Orto. Li costringono a scendere dal pullman o dal treno e li riportano a Bardonecchia o a Oulx alle ore più disparate del giorno e della notte.

      “Negli ultimi quindici giorni di dicembre dalla stazione di Bardonecchia sono passati circa cento migranti”, spiga Emanuel Garavello, operatore della diaconia valdese, che insieme ad altri colleghi ha aperto nelle ultime settimane una specie di sportello legale mobile. Il dato preoccupante, spiega Garavello, “è che molti fuggono dall’accoglienza molto prima di aver ricevuto una risposta alla domanda d’asilo. Decidono di lasciare i centri senza sapere che perderanno il diritto di starci e senza conoscere le opportunità di cui potrebbero beneficiare”. Da Bardonecchia, inoltre, passano tantissimi minorenni che non conoscono affatto i loro diritti e la loro situazione giuridica in Italia.

      La diaconia valdese, insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso di monitorare la situazione dei minori che transitano dalle Alpi e denunciare le violazioni quotidiane compiute dalla polizia francese, che li respinge alla frontiera nonostante abbia l’obbligo, soprattutto nel caso dei minori, di garantire loro protezione. “La polizia francese non fa alcuna distinzione tra adulti o minori, violando le norme internazionali”, spiega Elena Rozzi, avvocata dell’Asgi. “C’è stato un caso eclatante qualche mese fa: un ragazzino di 13 anni è stato abbandonato dalla polizia in piena notte, sotto la neve, subito dopo la frontiera. Per fortuna è stato trovato da una persona che passava in macchina”, racconta Rozzi.

      La traversata
      Mohammed Traoré apre gli occhi alle sette, nella stanza c’è un calore denso di corpi, un odore forte di aria consumata. Salta fuori dal sacco a pelo e comincia a vestirsi con cura: tre paia di pantaloni uno sopra all’altro, buste di plastica intorno ai piedi per evitare che la neve arrivi sulla pelle. Non ha scarponi, solo scarpe da ginnastica di pelle grigia. I volontari gli hanno regalato una giacca a vento. Con Adam, un ragazzo originario della Costa d’Avorio che vive in Italia da molti anni, riempie uno zainetto di biscotti e di bottigliette d’acqua.

      Poi fa colazione con gli altri, alcuni non se la sentono di partire subito, alla fine il gruppo accoglie un paio di ragazzi che sono appena arrivati alla stazione: prendono viale della Vittoria e poi la strada provinciale 216 che sale per quattro chilometri verso il pian del Colle, la località da cui parte il sentiero per la Francia. In fila indiana marciano sul bordo della strada tra gruppi di turisti con gli sci in mano che vanno verso gli impianti di risalita. Con andatura spedita passano davanti al villaggio olimpico costruito per i giochi invernali del 2006, poi attraversano le baite graziose della frazione di Les Arnauds. Ci vuole circa un’ora per raggiungere Melezet e poi il pian del Colle, dove parte una pista da sci di fondo che conduce al bivio per il Col de l’échelle, il colle della Scala, a 1.762 metri.

      Soffia un vento gelido, molto umido, ma è una bella giornata senza nuvole. I ragazzi si riposano dopo la prima ora di cammino alla base del sentiero, mangiano qualche biscotto, poi riprendono la camminata, piegati sulla salita, un passo avanti all’altro. Di fatto hanno già attraversato la frontiera, sono in territorio francese, ma in questo versante della montagna la polizia francese non si spinge. Si lasciano sulla destra una costruzione imponente e una diga, dopo qualche centinaia di metri c’è il primo bivio, la tentazione è di proseguire sulla pista da sci battuta, ma il sentiero da percorrere è quello fuori pista che svolta a sinistra.

      C’è un’indicazione per Briançon e Névache, qualcuno con il pennarello ci ha scritto sopra “Fight the borders, No Tav”. Comincia la parte più difficile della traversata: la neve è alta, in alcuni punti arriva a un metro. I piedi affondano e a un certo punto ci si ritrova immersi fino alle ginocchia. Sono tre ore lunghissime, i ragazzi sono concentrati, rimangono in silenzio mentre marciano sui tornanti. Aboubakr vuole scattare una foto ma gli altri gli dicono di muoversi. D’estate si sale in auto sulla strada asfaltata, mentre d’inverno la neve avvolge il paesaggio e nasconde tutto sotto due metri di neve. Il rischio è che dopo una nevicata si stacchino delle valanghe dalla cima, hanno detto quelli del Soccorso alpino.

      Quando mancano pochi metri al valico, Mohammed Traoré affonda nella neve. È preso dal panico, s’immobilizza, pensa che non ce la farà, che perderà l’uso dei piedi. Non li sente più per il freddo. I compagni si fermano, lo aiutano a rialzarsi, manca poco, gli dicono. Lo vedono sui navigatori dei cellulari che la destinazione è a pochi metri, c’è ancora da attraversare un paio di tunnel scavati nella roccia e poi comincerà la discesa nella valle della Clarée. Traoré si rialza, prova a concentrarsi su domani, sul futuro. “Pensavo che non ce l’avrei fatta”, dirà il giorno dopo, una volta arrivato. In effetti, come avevano detto i compagni, dopo i due tunnel è cominciata la discesa.

      Appena il tempo di riprendere fiato che arriva il timore d’incontrare la polizia. Adam è il più grande e anche il più lucido, ricorda agli altri ragazzi che si fermeranno al primo rifugio e aspetteranno che scenda il buio. Sono passate le 14, ma anche 14 chilometri e più di 500 metri di dislivello in mezzo alla neve. I passi s’incrociano per la stanchezza, ma i muscoli continuano ad andare. Mohammed Traoré ha una strana sensazione di calore. Nella prima casetta sulla strada ci sono dei ragazzi della valle, dei solidali, bénévoles si definiscono. Li invitano a entrare e a mangiare qualcosa. Sono abituati a incontri come questo. Scaldano il sugo su una macchina del gas. C’è un odore di pomodoro e umidità nel rifugio. I ragazzi aspetteranno che scenda il buio, più di due ore dopo, per riprendere la strada verso Névache.

      Briançon come Lampedusa
      Nevica quando Traoré e i suoi cinque compagni di viaggio arrivano a Briançon a bordo di una monovolume guidata da una coppia di turisti francesi. Sono stati intercettati sulla strada dai due, che hanno deciso di dargli un passaggio nonostante il rischio di essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Briançon dista venti chilometri da Névache, trenta minuti in macchina, e sono numerosi i valligiani che, oltre ad aprire le case ai migranti in transito, hanno cominciato a offrire passaggi fino alla città dove, da luglio del 2017, è stato aperto un centro di accoglienza nella vecchia caserma abbandonata del soccorso alpino.

      C’è un metro e mezzo di neve sul viale che porta all’ingresso, una decorazione di Natale è ancora appesa sulla porta di legno, sulla parete esterna un murale mostra una mano colorata che stringe in un pugno del filo spinato. È Adam il primo a entrare, poi gli altri. Una grande cucina si apre alla loro vista, intorno a un tavolo, alcuni ragazzi stanno mangiando un’insalata di avocado e pomodori, accompagnata da zuppa di fagioli e riso. Le pareti sono piene di bigliettini scritti dagli ospiti. “L’Italia e la Francia sono due cuori con uno stesso polmone: l’Italia mi salvato dal mare, la Francia mi dà la speranza di vivere”, ha scritto Mamadouba, un ragazzo della Guinea. Su un altro foglio sono riportati alcuni articoli della costituzione francese.

      I volontari si spostano da una stanza all’altra portando da mangiare. Nel centro di accoglienza autorganizzato ci sarebbe posto per 16 persone, ma in certi giorni nell’ex caserma hanno dormito anche settanta persone. Ora ce ne sono una quarantina. Alcuni si fermano poche ore, il tempo di mangiare, scaldarsi, altri qualche giorno. “Dipende dai soldi che hanno, alcuni partono subito. Altri vorrebbero restare più tempo, ma non possiamo ospitarli per più di un paio di giorni”, spiega Joel Pruvot, un maestro in pensione che fa il volontario nel centro, “perché a Briançon non c’è la prefettura e quindi non si può chiedere asilo”. Il posto più vicino per presentare la domanda è Gap, a novanta chilometri.

      Dall’inizio del 2017 sono passati dal centro di transito circa duemila migranti, nel cinquanta per cento dei casi minorenni. La maggior parte è originaria della Guinea e della Costa d’Avorio. Sono quasi tutti maschi, anche se ora nel centro ci sono due donne. Una è arrivata in autobus dal valico del Monginevro con i due figli e dorme su un materasso nella sala da pranzo del centro, per evitare la promiscuità con i maschi.

      “Nel migliore dei casi i migranti arrivano disidratati e stanchi, spesso presentano sintomi di assideramento”, racconta Pruvot. Briançon sembra l’unico posto in Europa in cui è ancora valido il motto: “Refugees welcome”, l’atmosfera è molto simile a quella di Lampedusa o di Lesbo all’inizio dell’ultima ondata migratoria. L’80 per cento degli abitanti della città è coinvolto nell’assistenza dei migranti, 51 volontari lavorano nel centro, i medici dell’ospedale passano ogni giorno per visitare i ragazzi, i negozi e i ristoranti donano frutta, verdura e altre cose da mangiare, alcune famiglie stanno ospitando i migranti in casa e le guide alpine pattugliano la montagna per assicurarsi che i migranti non si perdano.

      La regola della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo

      Il sindaco di Briançon, Gérard Fromm, ha appoggiato fin dall’inizio le attività dei volontari e ha concesso l’uso gratuito dell’ex caserma quando a metà dell’estate i volontari accoglievano i migranti in una tendopoli allestita in un parcheggio. “Questa è una cittadina di montagna e la regola della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo. Ecco perché tutti gli abitanti di Briançon sono coinvolti in questa impresa”, spiega Pruvot.

      In fondo, ammette, “stiamo facendo un lavoro che dovrebbe fare lo stato: impedire che ci siano degli incidenti in montagna, che ci siano dei morti”. Mentre parliamo, viene raggiunto da una telefonata. Dalla stazione di Bardonecchia avvertono che un minorenne del Sudan è partito da solo nel pomeriggio, vogliono assicurarsi che sia arrivato. Pruvot si alza e va a chiedere ad Ali, uno dei volontari, se nella lista dei nuovi arrivati risulti il nome del sudanese. C’è trambusto, Ali dice che dovrebbe essere arrivato in un altro centro insieme a due ragazzi, ma è meglio chiamare per essere sicuri. In cucina migranti e volontari giocano con Roland, uno dei due bambini del centro: è del Ghana e parla solo inglese come la madre Veronik. Ma gioca con tutti.

      Intanto Mohmmed Traoré si è seduto sulla panca in cucina e mangia un mandarino. “Sono un sopravvissuto”, dice. “Sono sopravvissuto al deserto e ho visto morire molte persone, sono sopravvissuto alle prigioni libiche e anche lì ho visto molte persone che non ce l’hanno fatta. Sono riuscito a sopravvivere alla traversata del Mediterraneo e ora anche alla neve delle Alpi. Ma ho come l’impressione che il viaggio non sia ancora finito”. È partito a quindici anni da Kankan, in Guinea, ha attraversato sette paesi e due continenti, si è lasciato alle spalle confini, pericoli e sofferenze. Ma ancora non sa che cosa lo aspetta e quale città finirà per chiamare casa.

      https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2018/01/09/bardonecchia-briancon-alpi-migranti

    • Une cordée solidaire au lieu d’une frontière

      La frontière n’a pas de pouvoir. La frontière ne tue pas. La frontière, en soi, n’existe pas. Toute frontière est le fruit de l’esprit d’hommes et de femmes qui ont le pouvoir de décider si elle est une ligne de contact, d’échange, de partage, ou un lieu de crispation, de frottement, de crise.

      https://www.lacite.info/hublot/cordee-solidaire-vs-frontiere

    • Col de l’Echelle : une quarantaine de bénévoles convoqués pour « délit de solidarité »

      « Une démission de l’Etat, contraire à ses valeurs républicaines, à laquelle répond un formidable élan de solidarité citoyenne » : c’est ainsi qu’Eric Piolle, le maire de Grenoble, résume la situation depuis le col de l’Échelle, où il s’est rendu mardi et mercredi, accompagné d’autres élus locaux parmi lesquels le sénateur de l’Isère, Guillaume Gontard. Ce col des Hautes-Alpes est considéré comme le passage à ciel ouvert le plus bas des Alpes occidentales (1762 mètres d’altitude). Depuis quelques semaines, il fait la Une de l’actualité en raison de la hausse importante des migrants qui l’empruntent, et par le fort mouvement de soutien qui se manifeste face à la situation – à l’image de la cordée solidaire du 17 décembre dernier.

      Sur le terrain, le collectif Tous Migrants a recensé plus de 1500 passages depuis le 1er septembre 2017 au sein de la structure d’hébergement d’urgence qu’il a ouvert à Briançon fin juillet. « 416 arrivées en septembre 2017, 445 en octobre, 335 en novembre et 231 en décembre », détaille Michel Rousseau, l’un des membres fondateurs de ce mouvement lancé en septembre 2015 et structuré en association depuis le 1er janvier 2017. Un chiffre qui ne prend pas en compte tous ceux qui sont interpellés par les forces de l’ordre au cours de leur tentative, ni ceux qui ne s’arrêtent pas au centre d’hébergement.

      « Il faut être un athlète pour entreprendre un tel parcours »

      Sans reconnaissance légale, celui-ci est installé dans une ancienne caserne de CRS de secours en montagne, établissement mis à disposition par la communauté de commune. Il témoigne des besoins grandissants en matière d’accueil : « Les passages quotidiens ont commencé en novembre 2016, mais depuis mai 2017, on voit arriver 10 à 30 personnes par jour », poursuit Michel Rousseau. Ces chiffres et cette tendance d’ensemble sont ainsi confirmés par la préfecture des Hautes-Alpes, contactée par Bastamag : « En 2017, près de 1900 étrangers en situation irrégulière ont fait l’objet d’une non-admission à la frontière franco-italienne dans les Hautes-Alpes. En 2016, 315 personnes étaient concernées par ce type de mesure. C’est depuis l’été 2017 que la pression à la frontière est devenue plus intense. On peut légitimement penser que les franchissements irréguliers de la frontière en 2017 sont supérieurs à 1900, dans la mesure où nous ne pouvons comptabiliser que les personnes interpellées, et pas celles qui réussissent à passer en France. »

      Après la vallée de la Roya et Vintimille au sud, le col de l’Échelle, qui permet de rejoindre Névache et la vallée de la Clarée en France depuis l’Italie, serait donc devenu le nouveau point chaud de la « crise migratoire » européenne. Sans que cela ne corresponde pour autant à un véritable déplacement des flux vers le nord : « Ceux qui tentent le passage ici ne sont pas représentatifs de la population de migrants en général, explique Michel Rousseau, qui en dresse le portrait détaillé. C’est une population jeune, de sexe masculin, principalement francophone – une majorité de Guinéens, notamment. Il faut de toute façon être un athlète pour entreprendre un tel parcours ».

      300 personnes évacuées vers les urgences à cause du froid

      Avec l’arrivée de l’hiver, les images nocturnes de ces migrants en sandales dans la neige ont fait le tour du monde, symboles des conditions extrêmes dans lesquelles sont entreprises ces traversées. Pour l’heure, aucun décès n’a été constaté sur place, « un petit miracle ». Mais ce sont plus de 300 personnes qui ont été évacuées vers les urgences de l’hôpital à leur arrivée à Briançon, selon les chiffres communiqués par Tous Migrants. Deux personnes ont du être amputées l’année dernière, victimes d’hypothermie, tandis que deux autres ont été grièvement blessés suite à une chute dans le ravin en tentant d’échapper à un contrôle policier, en août 2017.

      Car dans le même temps, les forces de police ont renforcé localement leur dispositif. Police au frontière, gendarmes et militaires sont présents sur place : « Il y a au moins 150 personnes mobilisées », estime Michel Rousseau, qui évoque sans détour une véritable « chasse aux migrants » depuis le printemps 2017. « Les effectifs locaux de la PAF à Montgenèvre et de la brigade de gendarmerie de Briançon positionnés à la frontière sont appuyés ponctuellement par des renforts de gendarmerie (une quinzaine actuellement) » indique ainsi le service de communication de la préfecture des Hautes-Alpes.

      « Le président Macron doit cesser d’avoir peur »

      Arrêtés dans leur expédition, les migrants interpellés seraient la plupart du temps remis en liberté un peu plus loin, côté italien. Une logique absurde : « Qui peut donc penser qu’ils vont rester dans le village italien alors qu’ils sont francophones et qu’ils ont traversé des milliers de kilomètres pour arriver là ? », pointe Eric Piolle, qui exhorte Emmanuel Macron « à adopter un regard humaniste et pragmatique car les exilés sont là. Le président doit cesser d’avoir peur : les murs ne seront jamais assez haut pour arrêter les hommes qui veulent vivre ».

      Quand ce ne sont pas les journalistes qui sont visés, les bénévoles locaux, engagés notamment dans les maraudes de soutien, sont les autres victimes de ces contrôles : une quarantaine de personnes aurait ainsi déjà été convoquée au titre de l’article L. 622-1 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, qui sanctionne l’aide à l’entrée, à la circulation et au séjour irréguliers d’un étranger en France – ce que l’on appelle plus communément le « délit de solidarité ». « Les bénévoles qui aident ne sont pas des délinquants, ce sont des héros » défend Eric Piolle. Une situation qui ne fait que confirmer le tour de vis anti-migratoire des politiques françaises en la matière, condamnées ce week-end pour « complicité de crime contre l’humanité » par le Tribunal permanent des peuples.

      https://www.bastamag.net/Col-de-l-Echelle-une-quarantaine-de-benevoles-convoques-pour-delit-de
      #délit_de_solidarité

    • #Val_Susa, No border in marcia sulla neve: “Migranti rischiano la vita qui sulle montagne, ospitalità è nostro dovere”

      Attivisti no borders italiani e francesi insieme, circa mille persone domenica 14 gennaio hanno marciato sulla neve, attraversando il confine italo-francese di Claviere. Un corteo che ha percorso la stessa strada dei migranti, organizzato per protestare contro la militarizzazione delle frontiere. Quella alpina, nonostante il gelo e il rischio di morire assiderati, è una rotta sempre più battuta da coloro che cercano di arrivare in Francia, soprattutto dopo la chiusura dei confini a Ventimiglia. “I migranti continuano ad arrivare rischiando la loro vita sulle montagne – raccontano gli attivisti della rete solidale Briser la frontier – e questo è il risultato delle politiche di chiusura delle frontiere a Ventimiglia e negli altri confini”

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/14/val-susa-no-border-in-marcia-sulla-neve-migranti-rischiano-la-vita-qui-sulle-montagne-ospitalita-e-nostro-dovere/4092370

    • #Migrants risk death crossing #Alps to reach #France

      It took Abdullhai (below) almost three years to get from his home in Guinea to a rocky, snow-covered Alpine mountain pass in the dead of winter, for what he hopes will be the final stage of his journey into France.

      The terrain is steep and dangerous and he and a group of five other migrants face risks ranging from losing their footing on steep drops, being struck by falling rocks or succumbing to the -9C (15°F) temperatures in clothing ill-suited to the terrain.


      https://widerimage.reuters.com/story/migrants-risk-death-crossing-alps-to-reach-france

    • Italy: March supporting migrants who make deadly Alps crossing

      Italian pro-migration activist group #Briser_les_frontières marched on the French-Italian mountain border near Claviere and Moginevro on Sunday to protest migration laws at borders preventing the sanctuary of refugees. The activists carried pro-migration banners as they travelled between the two mountains in a similar route which asylum seekers have been known to cross to get between countries often at great risk. Italian and French mountain police blocked their paths however for most of the protest, but activists eventually reached their destination by staying close to the ski slopes. Briser Les frontieres solidarity network member Daniele Brait explained: “In recent months there have been many attempts to cross the border into the Alps that seem to have become the new Mediterranean. People who have managed to survive the sea today risk their lives in these mountains.” Migrants are known to regularly attempt to traverse the Colle della Scala (Cole de l’Echelle in French) in freezing temperatures some 1800 metres above sea level between Italy and France, resulting in the death of many. SOT, Nicoletta Dosio, No-Tav movement spokesperson (Italian): “The motivations that bring us here today is to express solidarity and to reiterate that the World with the borders is a world that does not serve and we don’t want.” SOT, Nicoletta Dosio, No-Tav movement spokesperson (Italian): “This Europe, which is the Europe of Maastricht, is a fortress that exploits the countries of the South of the world with the war and does not allow the poor of the Earth, who have become poor because of this exploitation, to cross its borders.” SOT, Daniele Brait, Briser Les frontieres solidarity network member (Italian): “In recent months there have been many attempts to cross the border into the Alps that seem to have become the new Mediterranean. People who have managed to survive the sea today risk their lives in these mountains.” SOT, Daniele Brait, Briser Les frontieres solidarity network member (Italian): "One of the rules of the mountain, as well as one of the rules of the sea, is that people who need help, a warm place, a blanket, a jacket, even just something like a hot dish, are not abandoned.” SOT, Briser les frontieres Activist (Italian): “Italy has always done business with Libya where there are detention centers that are lager.” SOT, Briser les frontieres Activist (Italian): “It finances them with the excuse of fighting terrorism and managing migration flows. In these camps people are tortured and women raped.”

      https://www.youtube.com/watch?v=zxELo_bJG4c&feature=share

    • Quando non esisteranno più frontiere, nessuno morirà per attraversarle. Aggiornamenti dalla route des Alpes

      Domenica 14 gennaio la rete di solidarietà Briser les frontières (abbattere le frontiere) ha indetto una camminata lungo la frontiera con la Francia contro i confini e per la libera circolazione delle persone.

      Alla chiamata hanno risposto circa un migliaio di persone provenienti dalla Val Susa - le immancabili bandiere No Tav, stavolta insieme a quelle No Border, sventolavano tra la folla -, da Torino e dalla Francia. Una valle in cui la rete Briser les frontières non può fare a meno di sottolineare l’ipocrisia di politiche che mentre distruggono l’ambiente per far muovere liberamente merci e turisti lungo le linee ad Alta Velocità “chiudono tutti gli spazi a coloro che non gli rendono il giusto profitto, preparando il terreno di quello che rischiano di far diventare l’ennesimo cimitero a cielo aperto”, scrivono su un volantino.


      http://www.meltingpot.org/Quando-non-esisteranno-piu-frontiere-nessuno-morira-per.html

    • Autres montagnes, toujours froid et neige qui mettent les réfugiés en danger... mais là, c’est au #Liban :

      Des réfugiés, piégés par la neige, meurent de froid

      Une dizaine de réfugiés syriens — dont des femmes et des enfants — ont péri dans les montagnes libanaises enneigées.

      https://www.lematin.ch/monde/refugies-pieges-neige-meurent-froid/story/21301145

      Un ami syrien a posté sur FB cette photographie, apparemment de la famille dont parle l’article ci-dessus.

      Son commentaire :

      Cette famille syrienne est morte congelée aux frontière syro-libanaises, par l’interdiction des milices de Hozballah, ceux qu’ils échappent les bombardements les frontières les congèlent

      Le commentaire en arabe d’une autre personne, à l’origine du post sur FB :
      ماتوا بردا وألما في جبال لبنان الشرقية بالقرب من بلدة الصويري

      ...
      يارب إرحم السوريين فقد ضاقت بهم الدنيا وتسكرت أمامهم السبل .
      أردوا الدخول عبر الجبال تهريبا هربا من الموت
      فكان الموت إنتظارهم.

      La dernière partie de la citation en arabe devrait dire, si google translate fait bien son boulot :

      Ils voulaient entrer dans les montagnes pour échapper à la mort et la mort les attendait.

      Selon une brève recherche google pour essayer de trouver l’origine de l’image, voici ce qui semblerait être la première fois que cette image a été mise sur internet :
      http://www.mansheet.net/Akhbar-Aalmyh/1478462/%D9%85%D8%AC%D8%B2%D8%B1%D8%A9-%D9%84%D9%84%D8%A7%D8%AC%D8%A6%D9%8A%D9%86-

      Syria conflict : 15 refugees found frozen to death

      Fifteen Syrian refugees - some of them children - have been found frozen to death while trying to cross the mountainous border into Lebanon.

      http://www.bbc.com/news/world-middle-east-42758532

      Suite au commentaire de @ninachani, j’ai enlevé les images, que j’ai décidé tout de même de laisser sur seenthis, mais sur en faisant un billet à part :
      https://seenthis.net/messages/667555

    • Pierre, accompagnateur en montagne : « Nous ne sommes pas des passeurs »

      A la différence des guides de haute montagne, qui encadrent l’alpinisme, l’escalade ou le ski, l’activité des accompagnateurs en montagne se concentre sur la randonnée pédestre en été et en raquette l’hiver. Ils transmettent des connaissances sur le milieu montagnard, la faune, la flore, le patrimoine et l’histoire des territoires parcourus. Pierre, qui a préféré conserver l’anonymat, est accompagnateur en montagne depuis une dizaine d’années dans le Sud-Est de la France et habite dans le Briançonnais, dans le département des Hautes-Alpes. Il explique comment s’organise l’aide aux migrants qui traversent, au péril de leur vie, les cols de l’Echelle ou de Montgenèvre pour rallier la France.


      https://www.alternatives-economiques.fr/pierre-accompagnateur-montagne-ne-sommes-passeurs/00082620

    • Puntata 87 | #Briser_les_frontiers

      Domenica 14 gennaio Briser les frontiers, una marcia popolare sulla neve, si è portata al confine Italia Francia per accendere i riflettori su una frontiera (mobile per le merci ma sempre più ostica per gli umani) che racconta le nuove rotte migranti e l’inutilità del concetto stesso di confine.


      http://amonte.info/picchi-di-frequenza/puntata-87-briser-les-frontiers

    • Montagnes, migrants en péril

      Entretien depuis le Bus Cartouche à Genève avec Cristina Del Biaggio, maîtresse de conférence à l’Université de Grenoble et géographe spécialiste des questions de migration et des frontières.

      Le col de l’Échelle dans les Haute-Alpes, théâtre tragique du passage de personnes migrantes. Le froid implacable et le manque d’équipement à l’origine d’un drame humain dont on ne mesure pas encore l’étendue...

      http://audioblog.arteradio.com/post/3082548/montagnes__migrants_en_peril

    • Bardonecchia, le nouveau mur où échouent les espoirs des migrants

      « On n’a rien à perdre. Sans travail et sans argent, nous sommes prêts à prendre tous les risques pour parvenir à franchir cette frontière », assure un jeune Guinéen qui préfère ne pas donner son nom.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/bardonecchia-le-nouveau-mur-ou-echouent-les-espoirs-des-migra

    • Dodging Death Along the Alpine Migrant Passage

      Along the dangerous Alpine route from Italy to France, Annalisa Camilli of Internazionale meets young migrants desperate to reach northern Europe, and the local volunteers trying to make sure their villages are not another deadly stop on the migration trail.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2018/01/25/dodging-death-along-the-alpine-migrant-passage

    • Quand il s’agit d’une alpiniste française en difficulté dans l’Himalaya, des « secours hors normes » sont mis en place pour lui venir en aide, nous dit Ledauphine.com. Fort heureusement d’ailleurs.

      Mais s’il agit des personnes à la peau noire à la recherche d’un refuge en danger sur le Col de l’Echelle, alors là, ce ne sont pas les « secours mis en place » qui sont « hors norme », mais les forces de police, qui, au lieu de les secourir, les refoulent en Italie.

      Selon la nationalité, l’humanité n’a pas droit au même traitement.

    • GRAND FORMAT. Briançonnais, ce sont eux, les premiers de cordée solidaire !

      Plus d’un millier de Briançonnais se sont mobilisés pour parer aux urgences des migrants qui arrivaient à leurs portes dans les pires conditions. Une chaîne exceptionnelle portée par la fraternité. Rencontre avec ceux qui donnent sens à la dignité.

      https://www.humanite.fr/grand-format-brianconnais-ce-sont-eux-les-premiers-de-cordee-solidaire-6498

      signalé par @vanderling sur seenthis : https://seenthis.net/messages/665922

    • Nevica ancora sulla rotta di montagna

      Nevica ancora, sul passo del Colle della Scala, sulla rotta da Bardonecchia a Briançon, e su quella nuova che si è aperta sulla pista da sci di Claviere. I giovani migranti affrontano il cammino in scarpe da ginnastica tentando di arrivare in Francia. Lorenzo Sassi ed Emanuele Amighetti hanno passato un po’ di tempo con loro - e con gli abitanti del posto che si adoperano per aiutarli in armonia con la legge della montagna.

      Il Colle della Scala, a 1.762 metri di altezza, è il passaggio più basso delle Alpi occidentali. Da lì passa la cosiddetta “nuova rotta dei migranti” che va da Bardonecchia a Briançon. La stampa francese e quella locale italiana avevano già cominciato a parlarne sul finire dell’estate scorsa. Con l’arrivo dell’inverno, e il conseguente aumento dei rischi, l’attenzione si è riaccesa. La tratta di cui si è parlato parte da Melzet, una frazione di Bardonecchia che ospita anche un impianto sciistico, e arriva a Nevache, primo paesino oltre il confine. Tempo di percorrenza stimato: sei ore.

      Finché è rimasto aperto il passaggio di confine a Ventimiglia, che serviva da valvola di sfogo e canale di redistribuzione dei migranti, la tratta di Bardonecchia non ha impensierito nessuno. Il problema è arrivato dopo. Una volta blindata la frontiera a Ventimiglia, i migranti hanno fatto dietrofront fino a Torino. Da lì, una volta saputo di questo passo tra le montagne che conduce in Francia con relativa facilità, sono confluiti in massa verso l’agglomerato urbano che si frappone fra il Colle della Scala, il confine e, ovviamente, la Francia. Le città coinvolte sono cinque: Bardonecchia, che è la città di riferimento per tutti i giovani migranti perché lì si trova il centro di accoglienza gestito da Rainbow4Africa; Oulx, cittadina a circa 15 minuti da Bardonecchia, usata dai migranti come appoggio per evitare i controlli della polizia nelle città cardine; Clavière, cioè l’ultima località italiana prima del confine; Nevache, primo villaggio oltre la dogana; e infine Briançon, l’Eden sognato dai migranti, ovvero la città in cui la paura svanisce. Lì si è già ben lontani dal confine, al sicuro – in teoria.
      Sul versante italiano

      Per via dell’insistente via vai di giornalisti, fotografi e videomaker che ha in parte scombussolato l’ordine urbano di Bardonecchia e dintorni, gli abitanti sono un po’ restii a parlare, almeno all’inizio. A irrigidire gli animi è anche il freddo: le temperature arrivano fino a 10 sottozero e si vive intorno ai 1700 metri di altezza, dove tira un vento che congela anche lo stomaco.

      Colle della Scala è una vecchia mulattiera, quindi un facile passo di montagna che in estate viene battuto da famiglie e amatori, non solo da montanari esperti. A complicare le cose, tuttavia, è il clima. Nei giorni che hanno preceduto il nostro arrivo, una tormenta ha scaricato dai tre ai cinque metri di neve su strade, case e, ovviamente, il sentiero del Colle. L’impresa era già difficile per un migrante che camminasse in scarpe da ginnastica su un sentiero di montagna a gennaio, ma l’arrivo della bufera ha peggiorato le cose.

      A pochi passi dall’inizio del sentiero c’è una baita che offre rifugio a sciatori stanchi, passeggiatori occasionali e abitanti del posto. Il gestore della baita mi racconta che è ormai un anno e mezzo che ogni giorno vede passare davanti alle finestre del locale dieci o venti migranti. Tra di loro anche donne e bambini – “ma finché era estate, sai, non era un problema. La strada è relativamente facile. Il problema si pone ora, con tutta questa neve. È impossibile proseguire oltre i primi 500 metri”. Mi racconta di un ragazzo che, un paio di mesi fa, con delle semplici scarpe da corsa, si è fatto il Colle in solitaria: “è arrivato in Francia, ce l’ha fatta, però una volta arrivato gli hanno amputato i piedi”. L’ispettore capo di Bardonecchia Nigro Fulvio conferma la storia. Il ragazzo oggi vive a Briançon, in una delle case messe a disposizione dall’amministrazione comunale.

      Qui è anche molto difficile tentare un soccorso. Molti migranti tentano comunque il valico senza conoscere la natura volubile della montagna e le sue asperità, e spesso senza un abbigliamento adeguato. I più fortunati arrivano in Francia, altri vengono fermati dalla “gendarmerie” francese; molti, invece, rimangono intrappolati tra i boschi e la neve dopo aver smarrito il sentiero. Per la comunità locale e per il sindaco, Francesco Avato, il timore più grande – che giorno dopo giorno diventa certezza – è che, con l’arrivo della primavera, la neve sciolta riconsegni i corpi dei dispersi.
      Il lavoro dei volontari

      A Bardonecchia vengono accolti tutti i migranti che arrivano da Torino, che provano a passare il Colle e poi vengono rispediti indietro dalla polizia francese. All’inizio incontro soltanto i volontari di Rainbow4Africa che da tempo si occupano insieme alla Croce Rossa di dare aiuto ai migranti: un pasto caldo, assistenza medica (ogni notte un dottore volontario dell’associazione resta a vegliare il dormitorio) e assistenza legale – cioè altri volontari come Maurizio Cossa dell’Associazione Asgi. Il compito di Maurizio – e degli avvocati che, come lui, offrono questo tipo di prestazioni gratuite – non è tanto quello di riuscire a sbloccare procedimenti legali, quanto piuttosto quello di chiarire ai giovani migranti la loro “situazione legale”, perché molti di loro non sanno perché non possono andare in Francia, non sanno perché vogliono andarci e, il più delle volte, non sanno che, andando in Francia di nascosto, rischiano di perdere quei pochi diritti conquistati in Italia. Diritti che, per quanto scarni, restano comunque diritti.
      Il centro di Bardonecchia funziona a pieno regime, ospitando in media una ventina di ragazzi al giorno. Per ordinanza comunale, però, apre soltanto alle 22:30 – così da accogliere i migranti per la notte e rifocill