• L’agricoltura civica funziona. E batte coronavirus e modello intensivo

    L’approccio «alternativo» risolve molti limiti delle coltivazioni industriali ed è più resiliente nelle crisi. L’università di Firenze rivela: dove si pratica, i contagi calano del 60%

    Cosa ci vuole per uscire dalla crisi economica e sociale che l’emergenza sanitaria da coronavirus (Covid-19 o SARS-CoV-2, se preferite) ci sta imponendo? Una buona agricoltura multifunzionale, che si basa su legami di prossimità, solidarietà e sostenibilità, per esempio. Un’agricoltura lontana dal modello intensivo, industrializzato e standardizzato prediletto dalla grande distribuzione organizzata (la rete dei supermercati, per intenderci).

    La notizia positiva è che questa agricoltura esiste già. Potremmo chiamarla complessivamente agricoltura civica, anche se la formula – come ogni definizione – non riesce a essere esaustiva di un fenomeno articolato. Anche perché stiamo parlando di ciò che sembra un sistema di agricolture, a cui concorrono strumenti di supporto reciproco tra agricoltori e consumatori, e stili di consumo consapevole, abbracciando tante anime della cosiddetta economia civile. A vario titolo vi rientrano, infatti, le cooperative agricole e i soggetti dell’agricoltura sociale o le esperienze di CSA (community-supported agricolture); ne sono un pilastro i gruppi di acquisto solidale (i GAS) e le reti che li alimentano. Ma possono contribuirvi anche le poco note associazioni fondiarie.

    La notizia migliore ad ogni modo è un’altra. Guardando alla resistenza dell’agricoltura civica dimostrata durante le restrizioni imposte dalla pandemia, pensando alla fantomatica fase 2 e a un ipotetico rilancio economico territoriale, auspicando infine l’affermarsi di un modello di sviluppo sostenibile, questa agricoltura offre ottime garanzie – anche sanitarie e ambientali – e soluzioni replicabili.
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    Coronavirus: più contagi dove prevale l’agricoltura intensiva

    Ad oggi, ovviamente, l’aspetto che preoccupa di più è quello della diffusione dell”epidemia. Ecco perché risulta ancora più interessante un studio recente della Scuola di agraria dell’Università di Firenze che, in proposito, ha preso in esame quattro tipologie di aree coltivate. Il risultato? Una minor incidenza media di contagi all’area dove si pratica un modello di agricoltura tradizionale, quindi assai distante da quella industriale, ad esempio.

    «Considerato il dato medio nazionale della diffusione del coronavirus, pari a 47 casi ogni 100 kmq, nelle aree ad agricoltura intensiva l’intensità del contagio sale a 94 casi ogni 100 kmq, mentre nelle aree ad agricoltura non intensiva il dato scende a 32 casi ogni 100 kmq» spiega Mauro Agnoletti, coordinatore del gruppo di ricerca dell’ateneo toscano.

    La rilevazione punta particolarmente l’obiettivo sulla Pianura Padana, dove si concentra il 61% delle aree ad agricoltura intensiva del Paese, con il 70% dei casi di Covid-19: «nelle aree della Pianura Padana ad agricoltura intensiva si registrano 138 casi ogni 100 kmq, mentre in quelle ad agricoltura non intensiva la media scende a 90 casi ogni 100 kmq». Insomma “balla” un 53% in più di contagi a sfavore delle prime.

    Lo studio non indaga le cause specifiche di questa dinamica. Registra tuttavia che «le aree a media e bassa intensità energetica, dove sono concentrate il 68% delle superfici protette italiane, risultano invece meno colpite dal coronavirus SARS-CoV-2. Queste aree sono distribuite soprattutto nelle zone medio collinari, montane alpine ed appenniniche, caratterizzate da risorse paesaggistiche, naturalistiche ma anche culturali, storiche e produzioni tipiche legate a criteri qualitativi più che quantitativi». Tutte informazioni che potrebbero rivelarsi utili per la ricostruzione che ci aspetta.
    Gas e reti dell’economia solidale: resilienti e vicini

    Di fronte al rischio contagio, insomma, i territori segnati dalla piccola agricoltura tradizionale, e talvolta marginale, si comportano bene. E forse questo ha qualcosa a che fare con le intenzioni di consumo che, dai tempi del Covid-19, potrebbero confermarsi per il futuro.

    Del resto, Michele Russo del consorzio siciliano Le galline felici, realtà storica di quella che è oggi la Rete italiana dell’economia solidale (Ries), sostiene che «questa distanza forzata sta avvicinando le persone».

    Mentre l’economia solidale ragiona sulla pandemia pensando al futuro, rafforza le proprie peculiarità (rapidità di adattamento, relazione con l’utenza) sviluppando servizi, qualcosa accade anche a livello individuale. Si consolida, infatti, la consapevolezza che rifornirsi localmente e direttamente dai produttori garantisce un minore passaggio di mani della merce, confortando sul piano della salute. Questo pensiero, superando i limiti consueti della comunità che frequenta storicamente gli incontri della RIES e alimenta i GAS, spinge «anche quelli meno interessati all’etica» a puntare su produzione e distribuzione di prossimità dei beni alimentari.

    Stando ai produttori, insomma, un numero maggiore di persone riconosce il vantaggio di un sistema che promuove da sempre biologico, coltivazione rispettosa di clima e paesaggio, legalità nei rapporti di lavoro. Un sistema che unisce contadini e consumatori in una forma di sostegno sempre più reciproco, producendo impatti economici di rilievo sul territorio.

    Il consorzio Le Galline felici, per esempio, dà lavoro a 45 dipendenti e raduna 40 aziende agricole per un giro d’affari di circa 3 milioni e mezzo di euro l’anno. E di ciò traggono beneficio circa 500 persone direttamente, oltre alle piccole botteghe che vi si riforniscono, e le migliaia di famiglie che, in Italia e all’estero (soprattutto in Francia, Belgio e Lussemburgo), utilizzano i GAS affiliati per acquistare cibo.

    L’economia civile passa per cooperative e agricoltura sociale

    E se i soggetti dell’economia solidale, sostenitori di uno sviluppo sostenibile e perciò meno compromesso con la pandemia, sono parte di quell’agricoltura civica multifunzionale di cui stiamo trattando, di certo lo sono anche le cooperative del settore agroalimentare. Lo stesso vale per chi fa agricoltura sociale, che spesso rientra anche formalmente nella cooperazione, e affianca la produzione agricola (30% minimo del fatturato) con attività di welfare (inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, assistenza e cura delle persone, servizi educativi).

    Mondi ricchi di professionalità e di peso economico e occupazionale, che in questa fase non sono immuni dai contraccolpi delle restrizioni anti-coronavirus, ma si dimostrano, come già dopo il crollo del 2008, resilienti. «Il vantaggio competitivo di una parte del Terzo settore, cioè della cooperazione, è fatto che vive di stipendio» osserva Giuliano Ciano, portavoce del Forum nazionale dell’agricoltura sociale. «Questo si evidenzia specialmente nei momenti di crisi. Il secondo vantaggio è che il Terzo settoree chi fa assistenza alle persone, inclusa l’agricoltura sociale, in un momento di crisi è capace di mutare, e riesce a trovare sbocchi di natura differente dal punto di vista economico ma anche a modificare le proprie attività».

    Associando agricoltura e servizi socio-educativi, pur tra centinaia di persone oggi in cassa integrazione, le oltre 700 realtà economiche riconosciute per legge nell’agricoltura sociale, per ora, si reinventano e reggono. Ed è fondamentale anche pensando alla cooperazione agricola in generale, dal momento che, stando al Rapporto 2017 dell’Osservatorio della cooperazione agricola italiana, le circa 4700 cooperative agricole italiane registravano 35 miliardi di euro di fatturato (8,9 miliardi per il solo comparto ortofrutta).
    CSA e associazioni fondiarie: l’agricoltura si fa più civile

    Ma le modalità dell’agricoltura “alternativa” non sono finite qui. Ce ne sono almeno un altro paio. Innanzitutto le associazioni fondiarie, riconosciute nel 2016 dal Piemonte, prima tra le regioni italiane. Ancora poco diffuse, a causa della giovane età, le associazioni fondiarie consentono a gruppi di cittadini di acquisire “in prestito” dai proprietari micro-appezzamenti e terreni agricoli incolti o abbandonati, lavorarli e ripristinarli nel rispetto di obblighi paesaggistici, col vantaggio non secondario di prevenire i rischi idrogeologici e gli incendi.

    Ci sono poi le CSA, ovvero le comunità di agricoltori supportate dai cittadini, altra forma di sostegno biunivoco tra chi coltiva e chi consuma. Si tratta di un fenomeno di rilievo internazionale ma non sono ancora molte le community-supported agriculture italiane. Tra le principali ci sono senz’altro Arvaia, a Bologna, la romana Semi di comunità e Cumpanatico Sud in Campania.

    In generale si tratta di cooperative agricole nelle quali soci lavoratori e fruitori partecipano alle attività in campo e fuori, prefinanziando le produzioni orticole. Tuttavia, tra le CSA possiamo incontrare iniziative guidate dai contadini e altre in cui l’impresa è gestita direttamente dalla comunità attraverso la cooperazione. Troviamo accordi tra produttori e comunità, dove quest’ultima garantisce un approvvigionamento a lungo termine, e vere imprese agricole di comunità, che vendono i loro prodotti anche a chi socio non è.

    https://valori.it/agricoltura-civica-coronavirus

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    • Définition de #agriculture_civique sur wiki :

      Con il termine agricoltura civica (o civile) si fa riferimento ad un modello economico che pur mantenendo come finalità dell’attività la coltivazione di piante e l’allevamento di animali a fini alimentari, contestualmente persegue il bene comune che, secondo i principi dell’economia civile[1], è il risultato di tutti i livelli di benessere dei singoli individui di una collettività. Per questa ragione, l’agricoltura civica si fonda sul coinvolgimento delle comunità locali e dei cittadini, abbraccia sistemi di produzione e di commercializzazione innovativi, e rappresenta una visione della società fondata su pratiche sociali, economiche e ambientali sostenibili, sull’etica, sul senso di responsabilità, sulla reciprocità. Per tali caratteristiche gli impatti dell’agricoltura civica devono essere valutati attraverso moltiplicatori di tipo ambientale e sociale, oltre che economico.
      L’agricoltura civica fa riferimento a modelli di produzione agricola di piccola/media scala fortemente integrati nel sistema locale, alle comunità di persone ed alle risorse naturali della località. Le pratiche di agricoltura civica consentono di assicurare ai cittadini, oltre al cibo, infrastrutture vitali indispensabili per la vita quotidiana, siano esse di tipo naturale (paesaggi, gestione delle risorse naturali, biodiversità) o sociale (conoscenza del mondo agricolo e rurale, identità e vitalità delle comunità, benessere delle persone, servizi socio-educativi ed assistenziali).
      Le forme di agricoltura civica trovano traduzione concreta nelle pratiche di #community-supported_agriculture #CSA (in italiano, agricoltura sostenuta dalla comunità), dei gruppi di acquisto solidale (#GAS), nelle forme di agricoltura sociale[2][3][4] praticate dalle aziende agricole e dal mondo della cooperazione sociale, nei community gardens (in italiano, giardini condivisi), nella didattica aziendale e nella produzione di servizi alla persona, nelle forme di vendita diretta, in quelle pratiche di qualità economica, ambientale e sociale, che non si esauriscono in uno scambio mercantile, bensì, mantengono al loro interno valori di relazione durevoli e continuativi[5][6].
      Le pratiche di agricoltura civica coesistono con quelle proprie dell’agricoltura convenzionale ed assicurano risorse indispensabili per qualità della vita nei sistemi locali. Anche per questo la pianificazione territoriale guarda con progressivo interesse al modo in cui leggere le pratiche di agricoltura civica ed inserirle negli strumenti di piano.
      Il termine “#civic_agriculture” venne utilizzato per la prima volta da T.A. Lyson nel 1999 durante il Meeting Annuale della Rural Sociology Society[7].

      https://it.wikipedia.org/wiki/Agricoltura_civica
      #agriculture_sociale #commons #biens_communs #communs

    • Coronavirus, agricoltura tradizionale come modello per ripartire Lo studio dell’Università di Firenze

      Nel contesto della attuale emergenza, anche le componenti scientifiche e gli organi di governo del territorio rurale cercano di dare il loro rapporto alla migliore comprensione del fenomeno COVID-19 e alla definizione degli indirizzi post emergenza. In questo contesto, è nata l’idea di svolgere un’indagine congiunta fra l’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale (ONPR) del Ministero delle Politiche Agricole e il laboratorio CULTAB, della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze riguardo la diffusione dei contagi del Covid-19. L’indagine aveva l’intenzione di valutare la diffusione del virus nelle diverse zone rurali italiane, classificate in base alla intensità delle attività agricole, cercando di individuare la possibile correlazione fra i contagi e il diverso livello di sviluppo socioeconomico e il tipo di agricoltura praticata. Si intendeva usare un approccio diverso rispetto alla classificazione dei dati sui contagi per regione, valutando il numero dei contagi in base al modello di sviluppo rurale. L’analisi si colloca in un periodo particolarmente importante anche perché la discussione sul nuovo budget della UE ha contribuito a rimandare la partenza della nuova politica agricola comunitaria (PAC), offrendo la possibilità di reindirizzare le strategie e le azioni finanziate dalla PAC in vista della fase post emergenza.


      https://www.landscapeunifi.it/2020/04/15/coronavirus-agricoltura-tradizionale-come-modello-per-ripartire-lo-st
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