• #Marco_Albino_Ferrari. Contro l’assalto alle Alpi

    I territori montani sono minacciati da modelli di sviluppo ormai superati. È tempo di un pensiero nuovo, consapevole e rispettoso, come racconta il giornalista e scrittore, responsabile del settore cultura del Club alpino italiano

    “Assalto alle Alpi”, l’ultimo libro di Marco Albino Ferrari, giornalista, direttore editoriale e responsabile del settore cultura del Club alpino italiano (Cai), si apre con il racconto di una storia dimenticata ma dalla grande portata simbolica, quella di Viola Saint Gréé: un piccolo Comune in provincia di Cuneo dove negli anni Sessanta del Novecento iniziarono i lavori per la costruzione di un moderno complesso sciistico, sul modello delle stazioni “sky total” allora di moda in Francia. Nel volgere di pochi anni furono costruiti alberghi, appartamenti e multiproprietà e un enorme complesso edilizio (la Porta delle Alpi) dove gli sciatori potevano trovare tutto il necessario per il soggiorno e lo svago: dai ristoranti ai minimarket, dalle sale convegni a quelle per gli spettacoli.

    Per alcuni anni fu un successo. Poi, a partire dalla fine degli anni Ottanta, le nevicate si fecero sempre meno frequenti e abbondanti e gli anni Novanta segnarono la fine dell’avventura del piccolo comprensorio piemontese. Mentre cammina all’interno degli enormi locali vuoti e ormai vandalizzati, Ferrari si chiede quante siano le Viola Saint Gréé che punteggiano le Alpi: “Quante avventure fallimentari esistono intorno a noi, sulle quali ci ostiniamo a puntare grosse partite di denaro pubblico?”.

    Ferrari invita però a non demonizzare l’industria dello sci: “In passato ha evitato lo spopolamento di molte vallate sulle Alpi, ridotto la povertà e portato sviluppo economico -dice ad Altreconomia-. Oggi però la situazione è radicalmente cambiata. Molte stazioni sciistiche, soprattutto a quelle a bassa quota, hanno dovuto chiudere per effetto dei cambiamenti climatici: solo in Piemonte quelle attive oggi sono 30 a fronte delle 46 del 2013. Abbiamo tante piccole realtà che chiedono risorse pubbliche per poter continuare a operare. E poi ci sono le grandi società che gestiscono i grandi complessi, che puntano a crescere sempre più”.

    Può farci qualche esempio?
    MAF Penso a Dolomiti Supersky, con i suoi 12 comprensori e 450 impianti di risalita, che si estende su un totale di 1.200 chilometri di piste: l’equivalente della distanza tra Milano e Cosenza. Una superficie enorme dove si fa largo uso dei cannoni per produrre neve artificiale, ma le giornate in cui la temperatura rimane costantemente sotto i meno due gradi (in gergo, i cosiddetti “giorni-neve”) sono sempre meno e in quel ristretto lasso di tempo va prodotta la maggior quantità di neve possibile. Questo richiede una grande disponibilità d’acqua, servono quindi più invasi artificiali per raccoglierla e conservarla. Tutte queste infrastrutture resteranno sul territorio per sempre: si tratta di azioni irreversibili. Ma questi grandi comprensori non chiedono di aumentare la propria capacità di offerta per adeguarsi alla domanda degli sciatori (provenienti soprattutto dall’estero e da Paesi non alpini) ma per battere la concorrenza, vantare un nuovo primato. Un po’ come avviene nelle città con i centri commerciali che diventano sempre più grandi senza che ci sia una reale domanda.

    È possibile trovare una sostenibilità per l’industria dello sci?
    MAF Sì, è possibile. Ma per prima cosa occorre interrompere quell’accanimento terapeutico che permette di mantenere in vita le piccole stazioni sciistiche situate in località dove la neve è destinata a scomparire. E bisogna dire basta all’aumento delle piste da sci: non c’è bisogno di nuove infrastrutture dal momento che il numero di praticanti di questa disciplina non sta aumentando. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta: ma lo sci è solo un mezzo per farlo. Dopo il Covid-19 abbiamo visto grandi affollamenti di turisti in molte località alpine, soprattutto quelle più famose e pubblicizzate.

    “L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta. Ma lo sci è solo uno dei mezzi per farlo”

    Vede il rischio di ripetere con il turismo estivo quello che è stato fatto con quello invernale?
    MAF Sì, questo pericolo c’è. Non si può impedire a nessuno di andare in montagna e se ha voglia di farlo è giusto che vada: però si può riflettere su dove andare. Oggi ci sono grandi concentrazioni e altrettanto grandi vuoti. Il Parco nazionale del Gran Paradiso o le Dolomiti, solo per fare due esempi, sono frequentati da milioni di persone, mentre appena al di fuori dai loro confini il numero di turisti ed escursionisti cala significativamente. Stiamo creando una geografia di luoghi “di serie A” certificati in diversi modi come eccellenze, come è successo alle Dolomiti con il riconoscimento di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco, e in questo modo tutti gli altri vengono automaticamente declassati a luoghi ordinari e “di serie B”.

    Come fare per cambiare questa situazione?
    MAF Indicando strade alternative, evitando l’eccessiva concentrazione di turisti sia nei luoghi sia nel tempo. Le Alpi si affollano nel mese di agosto, certamente chi ha le ferie in quel periodo dell’anno non può fare diversamente, ma l’autunno è una stagione meravigliosa per frequentare le montagne e oggi i rifugi alpini tendono a prolungare le aperture. Occorre passare da un modello “concentrato e grande” a uno “diffuso e più piccolo” attraverso un’operazione culturale che aiuti questo cambio di prospettiva. Anche noi che facciamo comunicazione dovremmo lavorare per sostenere questo cambiamento.

    In “Assalto alle Alpi”, pubblicato per Einaudi, lei scrive che l’unica via per arginare la cultura dell’eccesso è promuovere un senso diffuso della misura e le Alpi possono insegnarci molto da questo punto di vista. Di quale insegnamento si tratta?
    MAF Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione, che può offrire solo una quantità di risorse limitata. Le comunità alpine storiche hanno dovuto fare i conti con questa finitezza dei luoghi e di conseguenza hanno dovuto sempre tenere sott’occhio l’andamento demografico: se diminuiva non c’erano abbastanza braccia per i lavori collettivi, ma se invece le bocche da sfamare aumentavano era necessario emigrare, andarsene. Analogamente, anche il nostro Pianeta è un luogo finito, proprio come un fondovalle alpino. La mia vuole essere una provocazione, io non sono una persona che guarda al passato come a un luogo di verità: però questo rappresenta l’esempio lampante di come una crescita infinita, come quella che ci impone il moderno sistema capitalistico, sia impossibile. Così come il mito di una storia che punta sempre verso un progresso non reversibile.

    “Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione e che può offrire solo un quantità finita di risorse”

    Quali interventi sono necessari per costruire un nuovo rapporto, più proficuo e sostenibile, tra città e aree montane?
    MAF Innanzitutto ricordando che la montagna non è solo turismo, come dimostrano le esperienze delle tante famiglie giovani che tornano o scelgono di trasferirsi nelle terre alte. La montagna ha bisogno di una legge quadro: durante la scorsa legislatura il Consiglio dei ministri aveva approvato un testo che sarebbe dovuto poi andare alle Camere, ma poi con la caduta dell’esecutivo si è fermato tutto. Ora bisognerà ricominciare da capo. Servono diverse tipologie di interventi per incentivare il ritorno della vita in montagna, ad esempio favorire la ricomposizione fondiaria dei terreni che, nel passaggio di padre in figlio, si sono sempre più ridotti di dimensioni fino a ridursi a microparticelle che singolarmente non sono sufficienti per vivere. Occorre intervenire per favorire le aziende che nascono in montagna per iniziativa dei giovani, ma soprattutto una visione complessiva che metta insieme tutte queste azioni. Ovviamente questo intervento da solo non basta, ma è urgente agire. Tenendo conto che purtroppo le aree montane offrono pochissimi voti e quindi, spesso, la politica se ne dimentica.

    Dedica anche ampio spazio all’analisi degli stereotipi che riducono le Alpi a luoghi salvifici o a parco di divertimenti per le persone in fuga dalla città. Quando nascono?
    MAF Nascono nell’Ottocento e individuano le Alpi come luogo alternativo alle città che, negli anni della seconda rivoluzione industriale, diventano sempre più inquinate e invivibili. Le vette alpine e i suoi abitanti vengono idealizzati, diventano il luogo salvifico per antonomasia: un mondo in cui tutto è bene, pulito, buono e armonioso. Questa idea di alterità rispetto alla città, in cui in montagna rimane tutto fermo e uguale a sé stesso continua fino ai giorni nostri e provoca uno scollamento dalla realtà che però non fa bene né ai cittadini né a chi abita sulle Alpi.

    https://altreconomia.it/marco-albino-ferrari-contro-lassalto-alle-alpi
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  • L’oublieuse mémoire coloniale italienne

    Commencée avant le fascisme, galvanisée par Mussolini, la colonisation par l’Italie de la Libye, de la Somalie et de l’Ethiopie fut marquée par de nombreuses atrocités,loin du mythe d’une occupation douce. Longtemps refoulés, ces souvenirs commencent à ressurgir

    Tout commence dans le centre de Rome, sur l’Esquilin, la plus haute des sept collines antiques. Plus précisément dans la cage d’escalier d’un immeuble sans ascenseur, situé à deux pas de la piazza Vittorio. Dans ce quartier à deux pas de la gare Termini, les prix de l’immobilier sont beaucoup plus modestes que dans le reste du centre, si bien que l’Esquilin est devenu, depuis une vingtaine d’années, un lieu de concentration de l’immigration africaine et asiatique, ce qui n’est pas sans provoquer des tensions le squat, occupé depuis 2003 par les militants néofascistes de CasaPound, est juste à côté.

    C’est donc là, en rentrant chez elle, épuisée, dans la touffeur d’une après-midi de fin d’été 2010, qu’Ilaria Profeti se retrouve nez à nez avec un jeune homme arrivé d’Ethiopie par la route des migrants. Dans un italien presque sans accent, celui-ci lui assure, documents à l’appui, qu’il est le petit-fils de son père, Attilio, un homme de 95 ans qui est resté, sa longue vie durant, plus que discret sur ses jeunes années de « chemise noire » fasciste, en Abyssinie.

    Levons toute ambiguïté : la scène qui vient d’être décrite est tout à fait vraisemblable, mais elle est issue d’une oeuvre de fiction. Il s’agit en réalité des premières pages d’un roman, le superbe Tous, sauf moi (Sangue giusto), de Francesca Melandri (Gallimard, 2019), qui dépeint avec une infinie subtilité les angles morts de la mémoire coloniale italienne. Le fil conducteur de la narration est le parcours sinueux d’un vieil homme dont le destin finalement assez ordinaire a valeur d’archétype.

    Issu d’un milieu plutôt modeste, Attilio Profeti a su construire à sa famille une position plutôt enviable, en traversant le mieux possible les différents mouvements du XXe siècle. Fasciste durant sa jeunesse, comme l’immense majorité des Italiens de son âge, il est parti pour l’Ethiopie, au nom de la grandeur impériale. Après la chute de Mussolini et la fin de la guerre, il parviendra aisément à se faire une place au soleil dans l’Italie du miracle économique, jouant de son physique avantageux et de ses amitiés haut placées, et enfouissant au plus profond de sa mémoire le moindre souvenir de ses années africaines, les viols, les massacres, les attaques chimiques. C’est ce passé, refoulé avec une certaine désinvolture, qui revient hanter ses enfants, trois quarts de siècle plus tard, sous les traits d’un jeune homme d’une vingtaine d’années, arrivé à Rome après une interminable traversée.

    Comme l’héroïne de Tous, sauf moi, Francesca Melandri vit sur l’Esquilin, au dernier étage d’un immeuble à la population mélangée. Et à l’image d’Ilaria, c’est sur le tard qu’elle a découvert ce pan escamoté de l’histoire italienne. « Quand j’étais à l’école, on ne parlait pas du tout de ce sujet-là, confie-t-elle depuis sa terrasse dominant les toits de la ville. Aujourd’hui ça a changé, il y a eu une prise de conscience, et de nombreux travaux universitaires. Pourtant cette histoire n’est jamais rappelée par les médias. Lorsqu’on parle du dernier attentat à la bombe à Mogadiscio, qui se souvient des liens entre Italie et Somalie ? Quand des bateaux remplis de migrants érythréens sont secourus ou coulent avant d’être sauvés, qui rappelle que l’Erythrée, nous l’appelions "l’aînée des colonies" ? »

    Le plus étrange est qu’à Rome, les traces du passé colonial sont légion, sans que personne n’ait jamais pensé à les effacer. Des stèles près desquelles personne ne s’arrête, des bâtiments anonymes, des noms de rue... rien de tout cela n’est explicité, mais tout est à portée de main.

    Comprendre les raisons de cette occultation impose de revenir sur les conditions dans lesquelles l’ « Empire » italien s’est formé. Création récente et n’ayant achevé son unité qu’en 1870, alors que la plus grande partie du monde était déjà partagée en zones d’influence, le royaume d’Italie s’est lancé avec du retard dans la « course » coloniale. De plus, il ne disposait pas, comme l’Allemagne qui s’engage dans le mouvement à la même époque, d’une puissance industrielle et militaire susceptible d’appuyer ses prétentions.

    Visées impérialistes

    Malgré ces obstacles, l’entreprise coloniale est considérée par de nombreux responsables politiques comme une nécessité absolue, à même d’assurer une fois pour toutes à l’Italie un statut de grande puissance, tout en achevant le processus d’unification du pays nombre des principaux avocats de la colonisation viennent de la partie méridionale du pays. Les visées impérialistes se dirigent vers deux espaces différents, où la carte n’est pas encore tout à fait figée : la Méditerranée, qui faisait figure de champ naturel d’épanouissement de l’italianité, et la Corne de l’Afrique, plus lointaine et plus exotique.

    En Afrique du Nord, elle se heurta vite à l’influence française, déjà solidement établie en Algérie. Ses prétentions sur la Tunisie, fondées sur la proximité de la Sicile et la présence sur place d’une importante communauté italienne, n’empêcheront pas l’établissement d’un protectorat français, en 1881. Placé devant le fait accompli, le jeune royaume d’Italie considérera l’initiative française comme un véritable acte de guerre, et la décennie suivante sera marquée par une profonde hostilité entre Paris et Rome, qui poussera le royaume d’Italie à s’allier avec les grands empires centraux d’Allemagne et d’Autriche-Hongrie plutôt qu’avec sa « soeur latine .

    Sur les bords de la mer Rouge, en revanche, la concurrence est plus faible. La première tête de pont remonte à 1869, avec l’acquisition de la baie d’Assab (dans l’actuelle Erythrée) par un armateur privé, pour le compte de la couronne d’Italie. Cette présence s’accentue au cours des années 1880, à mesure du recul de l’influence égyptienne dans la zone. En 1889, est fondée la colonie d’Erythrée, tandis que se structure au même moment la Somalie italienne. Mais l’objectif ultime des Italiens est la conquête du my thique royaume d’Abyssinie, qui s’avère plus difficile que prévu.

    En 1887, à Dogali, plusieurs centaines de soldats italiens meurent dans une embuscade menée par un chef abyssin, le ras Alula Engida. Cette défaite marque les esprits, mais ce n’est rien à côté de la déconfiture des forces italiennes lors de la bataille d’Adoua, le 1er mars 1896, qui porte un coup d’arrêt durable aux tentatives italiennes de conquête.

    Seul pays africain indépendant (avec le Liberia), l’Ethiopie peut désormais se targuer de devoir sa liberté à une victoire militaire. Le négus Menelik II y gagne un prestige considérable. Côté italien, en revanche, cette défaite est un électrochoc. Ressentie comme une honte nationale, la déroute des troupes italiennes entraîne la chute du gouvernement Crispi et freine durablement l’im périalisme italien.

    Adoua est un tournant. L’historien et ancien sénateur de gauche Miguel Gotor est l’auteur d’une remarquable synthèse sur le XXe siècle italien, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (« L’Italie du XIXe siècle. De la défaite d’Adoua à la victoire d’Amazon » Einaudi, 2019, non traduit). Pour lui, c’est là-bas, sur les hauteurs de la région du Tigré, par cette humiliation retentissante, que le XXe siècle italien a commencé.

    L’aventure coloniale italienne s’est ouverte de façon peu concluante, mais l’aspiration à l’empire n’a pas disparu. La décomposition de l’Empire ottoman offrira à Rome une occasion en or, en lui permettant, en 1911-1912, de s’implanter solidement en Cyrénaïque et en Tripolitaine. « Souvent la conquête de ce qui allait devenir la Libye est évacuée un peu vite, mais c’est un moment très important. Pour l’armée italienne, c’est une répétition, un peu comme a pu l’être la guerre d’Espagne, juste avant la seconde guerre mondiale », souligne Miguel Gotor. Ainsi, le 1er novembre 1911, un aviateur italien lâche quatre grenades sur des soldats ottomans, réalisant ainsi le premier bombardement aérien de l’histoire mondiale.

    « La conquête des côtes d’Afrique du Nord est importante, certes, mais la Libye est juste en face de la Sicile, au fond c’est du "colonialisme frontalier". La colonie au sens le plus "pur", celle qui symboliserait le mieux l’idée d’empire, ça reste l’Abyssinie », souligne Miguel Gotor. Aussi les milieux nationalistes italiens, frustrés de ne pas avoir obtenu l’ensemble de leurs revendications territoriales au sortir de la première guerre mondiale, continueront à nourrir le rêve de venger l’humiliation d’Adoua.

    Le fascisme naissant ne se privera pas d’y faire référence, et d’entretenir le souvenir : les responsables locaux du parti se feront appeler « ras », comme les chefs éthiopiens. A partir de la fin des années 1920, une fois le pouvoir de Mussolini solidement établi, les prétentions coloniales deviendront un leitmotiv des discours officiels.

    Aussi la guerre de conquête déclenchée contre l’Ethiopie en 1935 est-elle massi vement soutenue. L’effort est considérable : plus de 500 000 hommes sont mobilisés. Face à un tel adversaire, le négus Haïlé Sélassié ne peut résister frontalement. Le 5 mai 1936, les soldats italiens entrent dans la capitale, Addis-Abeba, et hissent le drapeau tricolore. Quatre jours plus tard, à la nuit tombée, depuis le balcon du Palazzo Venezia, en plein coeur de Rome, Mussolini proclame « la réapparition de l’Empire sur les collines fatales de Rome » devant une foule de plusieurs centaines de milliers de personnes.

    « C’est bien simple, à ce moment-là, en Italie, il est à peu près impossible d’être anti fasciste », résume Miguel Gotor. Dans la foulée de ce succès, le roi Victor-Emmanuel III est proclamé empereur d’Ethiopie ; Benito Mussolini peut désormais se targuer d’avoir bâti un empire. La faillite d’Adoua avait été causée par un régime parle mentaire inefficace et désorganisé ? La victoire de 1936 est due, elle, aux vertus d’une Italie rajeunie et revigorée par le fascisme. La machine de propagande tourne à plein régime, l’assentiment populaire est à son sommet. « Ce moment-là est une sorte d’apogée, et à partir de là, la situation du pays se dégrade, analyse Miguel Gotor. Ar rivent les lois raciales, l’entrée en guerre... tout est réuni pour nourrir une certaine nostalgie de l’épopée éthiopienne. »

    Mécanisme de refoulement

    Le rêve impérial sera bref : il ne survivra pas à la défaite militaire et à la chute du fascisme. L’Ethiopie est perdue en 1941, la Libye quelques mois plus tard... Le traité de Paris, conclu en 1947, met officiellement un terme à une colonisation qui, dans les faits, avait déjà cessé d’exister depuis plusieurs années. Tandis que l’Ethiopie indépendante récupère l’Erythrée, la Libye est placée sous la tutelle de la France et du Royaume-Uni. Rome gardera seulement une vague tutelle sur la Somalie, de 1949 à 1960.

    Le projet d’empire colonial en Méditerranée et en Afrique, qui fut un des ciments de l’assentiment des Italiens à Mussolini, devient associé pour la plupart des Italiens au régime fasciste. L’un et l’autre feront l’objet du même mécanisme de refoulement dans l’Italie de l’après-guerre. Les dirigeants de l’Italie républicaine font rapidement le choix de tourner la page, et ce choix est l’objet d’un profond consensus qui couvre tout le spectre politique (le premier décret d’amnistie des condamnations de l’après-guerre remonte à 1946, et il porte le nom du dirigeant historique du Parti communiste italien Palmiro Togliatti). Les scènes de liesse de la Piazza Venezia ne seront plus évoquées, et avec elles les faces les plus sombres de l’aventure coloniale. Même la gauche transalpine, qui prendra fait et cause pour les mouvements anticoloniaux africains (notamment le FLN algérien) n’insistera jamais sur le versant italien de cette histoire.

    « Cela n’est pas étonnant, la mémoire est un phénomène sélectif, et on choisit toujours, consciemment ou non, ce qu’on va dire à ses enfants ou ses petits-enfants », remarque le jeune historien Olindo De Napoli (université de Naples-Frédéric-II), spécialiste de la période coloniale. « Durant l’immédiat après-guerre, ce sont les témoins qui parlent, ce sont eux qui publient », remarque l’his torien. Ainsi de la collection d’ouvrages L’Italia in Africa éditée sous l’égide du ministère des affaires étrangères, emblématique de la période. « Ces volumes sont passionnants, mais il y a certains oublis, qui vont vite poser des problèmes. »

    Parmi ces « oublis », la question la plus centrale, qui fera le plus couler d’encre, est celle des massacres de civils et de l’usage de gaz de combat, malgré leur interdiction par les conventions de Genève, lors de la guerre d’Ethiopie. Dans les années 1960, les études pionnières d’Angelo Del Boca et Giorgio Rochat mettront en lumière, documents officiels à la clé, ce pan occulté de la guerre de 1935-1936. Ils se heurteront à l’hostilité générale des milieux conservateurs.

    Un homme prendra la tête du mouvement de contestation des travaux de Del Bocaet Rochat : c’est Indro Montanelli (1909-2001), considéré dans les années 1960 comme le journaliste le plus important de sa géné ration. Plume du Corriere della Sera (qu’il quittera pour fonder Il Giornale en 1974), écrivain d’essais historiques à l’immense succès, Montanelli était une figure tutélaire pour toute la droite libérale.

    Comme tant d’autres, il avait été un fasciste convaincu, qui s’était porté volontaire pour l’Ethiopie, et il n’a pris ses distances avec Mussolini qu’en 1943, alors que la défaite était apparue comme certaine. Ra contant « sa » guerre à la tête d’une troupe de soldats indigènes, Montanelli la décrit comme « de longues et belles vacances », et qualifie à plusieurs reprises d’ « anti-Italiens » ceux qui font état de massacres de civils et d’usage de gaz de combat. La polémique durera des années, et le journaliste sera bien obligé d’admettre, à la fin de sa vie, que les atrocités décrites par Rochat et Del Bocaavaient bien eu lieu, et avaient même été expressément ordonnées par le Duce.

    A sa manière, Montanelli incarne parfaitement la rhétorique du « bon Italien » (« Italia brava gente »), qui sera, pour toute une génération, une façon de disculper l’homme de la rue de toute forme de culpabilité collective face au fascisme. Selon ce schéma, contrairement à son allié allemand, le soldat italien ne perd pas son humanité en endossant l’uniforme, et il est incapable d’actes de barbarie. Ce discours atténuant la dureté du régime s’étend jusqu’à la personne de Mussolini, dépeint sous les traits d’un chef un peu rude mais bienveillant, dont le principal tort aura été de s’allier avec les nazis.

    Ce discours trouve dans l’aventure coloniale un terrain particulièrement favorable. « Au fond, on a laissé s’installer l’idée d’une sorte de colonisation débonnaire, analyse Olindo De Napoli, et ce genre de représentation laisse des traces. Pourtant la colonisation italienne a été extrêmement brutale, avant même le fascisme. En Ethiopie, l’armée italienne a utilisé des soldats libyens chargés des basses oeuvres, on a dressé des Africains contre d’autres Africains. Et il ne faut pas oublier non plus que les premières lois raciales, préfigurant celles qui seront appliquées en 1938 en Italie, ont été écrites pour l’Ethiopie... Il ne s’agit pas de faire en sorte que des enfants de 16 ans se sentent coupables de ce qu’ont fait leurs arrière-grands-pères, il est seulement question de vérité historique. »

    Désinvolture déconcertante

    Malgré les acquis de la recherche, pour le grand public, la colonisation italienne reste souvent vue comme une occupation « douce », par un peuple de jeunes travailleurs prolétaires, moins racistes que les Anglais, qui se mélangeaient volontiers avec les populations locales, jusqu’à fonder des familles. L’archétype du colon italien tombant amoureux de la belle Abyssine, entretenu par les mémoires familiales, a lui aussi mal vieilli. Là encore, le parcours d’Indro Montanelli est plus qu’éclairant. Car aujourd’hui, si sa défense de l’armée italienne apparaît comme parfaitement discréditée, ce n’est plus, le concernant, cet aspect de sa vie qui fait scandale.

    En effet, on peut facilement trouver, sur Internet, plusieurs extraits d’entretiens télévisés remontant aux années 1970 et 1980, dans lesquelles le journaliste raconte avec une désinvolture déconcertante comment, en Ethiopie, il a « acheté régulièrement » à son père, pour 350 lires, une jeune fille de 12 ans pour en faire sa femme à plusieurs reprises, il la qualifie même de « petit animal docile », devant un auditoire silencieux et appliqué.

    Célébré comme une gloire nationale de son vivant, Indro Montanelli a eu l’honneur, à sa mort et malgré ces déclarations sulfureuses, de se voir dédié à Milan un jardin public, au milieu duquel trône une statue de lui. Au printemps 2019, cette statue a été recouverte d’un vernis de couleur rose par un collectif féministe, pour rappeler cet épisode, et en juin 2020, la statue a de nouveau été recouverte de peinture rouge, en lointain écho au mouvement Black Lives Matter (« les vies noires comptent ») venu des Etats-Unis.

    Indro Montanelli mérite-t-il une statue dans l’Italie de 2021 ? La question a agité les journaux italiens plusieurs jours, au début de l’été, avant que la polémique ne s’éteigne d’elle-même. Pour fondée qu’elle soit, la question semble presque dérisoire eu égard au nombre de témoignages du passé colonial, rarement explicités, qui subsistent un peu partout dans le pays.

    Cette situation n’est nulle part plus visible qu’à Rome, que Mussolini rêvait en capitale d’un empire africain. L’écrivaine italienne Igiaba Scego, née en 1974 de parents réfugiés somaliens, y a dédié un passionnant ouvrage, illustré par les photographies de Rino Bianchi (Roma negata, Ediesse, réédition 2020, non traduit).

    Passant par la stèle laissée à l’abandon de la piazza dei Cinquecento, face à la gare Termini, dont la plupart des Romains ignorent qu’elle a été baptisée ainsi en mémoire des 500 victimes italiennes de l’embuscade de Dogali, ou l’ancien cinéma Impero, aujourd’hui désaffecté, afin d’y évoquer l’architecture Art déco qui valut à la capitale érythréenne, Asmara, d’être classée au patrimoine de l’Unesco, la romancière fait une station prolongée devant le siège romain de la FAO (l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture), construit pour abriter le siège du puissant ministère de l’Afrique italienne.

    Devant ce bâtiment tout entier dédié à l’entreprise coloniale, Benito Mussolini avait fait ériger en 1937 un obélisque haut de 24 mètres et vieux d’environ seize siècles, ramassé sur site d’Axoum, en Ethiopie. Il s’agissait, rappelle Igiaba Scego, de faire de ce lieu « le centre de la liturgie impériale .

    La république née sur les ruines du fascisme s’était engagée à restituer cette prise de guerre à la suite des traités de 1947, mais après d’innombrables vicissitudes, le monument est resté en place jusqu’en 2003, où le gouvernement Berlusconi choisit de le démonter en trois morceaux avant de le renvoyer à Axoum, à ses frais.

    En 2009, la mairie de Rome a fait installer sur la même place, à deux pas de cet espace vide, une stèle commémorative afin « de ne pas oublier le passé . Mais curieusement, celle-ci a été dédiée... à la mémoire des attentats du 11-Septembre. Comme s’il fallait enfouir le plus profondément possible ce souvenir du rêve impérial et de la défaite, la ville a choisi de faire de ce lieu le symbole d’une autre tragédie. « Pourquoi remuer ces his toires horribles ? Pensons plutôt aux tragédies des autres. Le 11-Septembre était parfait », note, sarcastique, Igiaba Scego.

    A une quinzaine de kilomètres de là, dans le décor grandiose et écrasant du Musée de la civilisation romaine, en plein centre de ce quartier de l’EUR où la mémoire du fascisme est omniprésente, l’ethno-anthropologue Gaia Delpino est confrontée à un autre chantier sensible, où s’entrechoquent les mémoires. Depuis 2017, elle travaille à fusionner en un même lieu les collections du vieux musée ethnologique de Rome (Musée Pigorini) et du sulfureux Musée colonial inauguré en 1923, dont les collections dormaient dans des caisses depuis un demi-siècle.

    D’une fascinante complexité

    Lorsqu’on lui parle de l’odyssée de l’obélisque d’Axoum, elle nous arrête tout de suite : « C’est bien simple : ce qui a été réalisé là-bas, c’est exactement l’inverse de ce qu’on veut faire. » Restituer ces collections dans leur contexte historique tout en articulant un message pour l’Italie d’aujourd’hui, permettre à toutes les narrations et à toutes les représentations de s’exprimer dans leur diversité... L’entreprise est d’une fascinante complexité.

    « Les collections du MuséePigorini ont vieilli bien sûr, comme tous ces musées ethnographiques du XIXe siècle qui véhiculaient l’idée d’une supériorité de la civilisation occidentale. Le Musée colonial, lui, pose d’autres problèmes, plus singuliers. Il n’a jamais été pensé comme autre chose qu’un moyen de propagande, montrant à la fois les ressources coloniales et tout ce qu’on pourrait en tirer. Les objets qui constituent les collections n’ont pas vu leur origine enregistrée, et on a mis l’accent sur la quantité plus que sur la qualité des pièces », expliqueGaia Delpino.

    Sur des centaines de mètres de rayonnages, on croise pêle-mêle des maquettes de navires, des chaussures, des outils et des objets liturgiques... L’accumulation donne le vertige. « Et ce n’est pas fini, nous recevons tous les jours des appels de personnes qui veulent offrir des objets ayant appartenu à leur père ou à leur grand-père, qu’ils veulent nous confier comme une réparation ou pour faire un peu de place », admet l’anthropologue dans un sourire.

    Alors que le travail des historiens peine à se diffuser dans le grand public, où les représentations caricaturales du système colonial, parfois instrumentalisées par la politique, n’ont pas disparu, le futur musée, dont la date d’ouverture reste incertaine pour cause de pandémie, risque d’être investi d’un rôle crucial, d’autant qu’il s’adressera en premier lieu à un public scolaire. « Ce qu’il ne faut pas oublier, c’est que parallèlement à ce difficile travail de mémoire, la population change. Aujourd’hui, dans nos écoles, il y a aussi des descendants de victimes de la colonisation, italienne ou autre. Nous devons aussi penser à eux », précise Gaia Delpino.

    Retournons maintenant au centre de Rome. En 2022, à mi-chemin du Colisée et de la basilique Saint-Jean-de-Latran, une nouvelle station de métro doit ouvrir, dans le cadre du prolongement de la ligne C. Depuis le début du projet, il était prévu que celle-ci soit baptisée « Amba Aradam », du nom de la large artère qui en accueillera l’entrée, appelée ainsi en souvenir de la plus éclatante des victoires italiennes en Ethiopie.

    Ce nom était-il opportun, alors que les historiens ont établi que cette victoire écrasante de l’armée fasciste avait été obtenue au prix de 10 000 à 20 000 morts, dont de nombreux civils, et que les troupes italiennes avaient obtenu la victoire en faisant usage d’ypérite (gaz moutarde), interdit par les conventions de Genève ? Le 1er août 2020, la mairie a finalement fait savoir que la station serait dédiée à la mémoire de Giorgio Marincola.

    Pour le journaliste Massimiliano Coccia, qui a lancé cette proposition avec le soutien de collectifs se réclamant du mouvement Black Lives Matter, « revenir sur notre passé, ce n’est pas détruire ou incendier, mais enrichir historiquement notre cité . Et on peut choisir de célébrer la mémoire d’un résistant italo-somalien tué par les nazis plutôt que celle d’une des pages les plus sombres de l’histoire coloniale italienne.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/02/05/libye-somalie-ethiopie-l-oublieuse-memoire-coloniale-italienne_6068846_3232.

    #Italie #colonialisme #colonisation #Mussolini #fascisme #Libye #Somalie #Ethiopie #atrocités #occupation_douce #mémoire #mémoire_coloniale #occultation #impérialisme #Corne_de_l'Afrique #baie_d'Assab #royaume_d'Abyssinie #Alula_Engida #bataille_d'Adoua #Menelik_II #Crispi #Adoua #Tigré #Cyrénaïque #Tripolitaine #colonialisme_frontalier #Abyssinie #Haïlé_Sélassié #propagande #traité_de_Paris #refoulement #mémoire #massacres #gaz #Indro_Montanelli #gaz_de_combat #bon_Italien #Italia_brava_gente #barbarie #humanité #lois_raciales #vérité_historique #culpabilité #viol #culture_du_viol #passé_colonial #Igiaba_Scego #monuments #toponymie #toponymie_politique #Axoum #stèle #Musée_Pigorini #musée #Musée_colonial #Amba_Aradam #ypérite #gaz_moutarde #armes_chimiques #Giorgio_Marincola #Black_Lives_Matter

    L’article parle notamment du #livre de #Francesca_Melandri, « #sangue_giusto » (traduit en français par « Tous, sauf moi »
    https://seenthis.net/messages/883118

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @cede

  • Marginalità e #piccole_patrie in #Rigoni_Stern e oggi

    Ho passato l’estate a leggere romanzi contemporanei italiani (da Veronesi a Durastanti, Covacich, Perrella, Terranova, Vicari, Bazzi…), afroitaliani (Igiaba Scego) e americani (Whitehead, una mezza delusione nonostante il Pulitzer), ma nessuno mi ha dato l’emozione e la gioia di un vecchio libro di Rigoni Stern, regalatomi in agosto da un amico, un dolce amico avrebbero detto gli antichi latini. Si tratta di due racconti lunghi accomunati dall’argomento: contadini e montanari in una terra fra i monti, marginale e di confine, fra Italia e Austria: Storia di Tönle e L’anno della vittoria, il primo del 1978, il secondo del 1985, ma riuniti in volume unitario da Einaudi già nel 1993. E in effetti L’anno della vittoria, quello immediatamente successivo alla conclusione della prima guerra mondiale, sembra la continuazione ideale di Storia di Tönle, che termina con la morte del protagonista alla fine del 1918.

    Nei due racconti gli abitanti della piccola patria non parlano fra loro né italiano né veneto né tedesco, ma un’”antica lingua” (come vi si legge) più vicina al tedesco che all’italiano (ma con qualche influenza anche del ladino, se non erro). E tuttavia i protagonisti conoscono bene, e speditamente parlano, italiano, tedesco, veneto. E si capisce: il protagonista, per esempio, è italiano ma ha fatto il soldato nell’esercito dell’impero austroungarico agli ordini di un ufficiale certamente anche lui italiano, il maggiore Fabiani, e pratica il piccolo contrabbando di nascosto alla polizia di frontiera dei due stati, ma talora anche con il suo interessato accordo, e vive per alcuni anni facendo il venditore ambulante (vende stampe iconografiche, che diffondevano nel centro Europa la lezione dei grandi maestri della pittura italiana) in Boemia, Austria, Polonia, Ungheria mentre alcuni suoi amici e conterranei si spingono sino ai Carpazi, all’Ucraina e alla lontana Russia. Sono certo contadini e montanari, ma sanno leggere e scrivere e conoscono Vienna, Cracovia, Praga, Budapest, oltre naturalmente a Venezia, Belluno, Trento. La loro piccola patria non conosce confini: è il luogo della casa e della famiglia, dei parenti, degli amici e dei morti, a cui il protagonista sempre fa ritorno dopo ogni viaggio; ma è una patria aperta al mondo, senza angustie e senza limiti, una patria dove ancora le stagioni dell’anno scorrono con il ritmo della natura annunciato dal canto e dal volo degli uccelli, dal succedersi dei raccolti e dalla trasformazione delle piante. In questa terra l’unico vero nemico è la miseria contro cui lottano tenacemente in modo solidale tutte le famiglie.

    Su questa piccola patria si abbatte la grande guerra, che distrugge le case e le messi, una guerra incomprensibile e assurda che mette gli uni contro gli altri amici di vecchia data e persino membri della stessa famiglia. Il protagonista, che sa fare ogni mestiere (altre al contrabbandiere e al venditore ambulante, è stato contadino, muratore, allevatore di cavalli), si riduce a fare il pastore di un piccolo gregge che vaga per monti e valli cercando di evitare gli opposti eserciti e le cannonate che essi si scambiano, sinché, arrestato dai militari italiani e mandato verso Venezia, riesce a fuggire e muore per l’età e per gli stenti nel suo viaggio di ritorno alla vecchia casa, che nel frattempo i bombardamenti hanno distrutto.

    Quando uscì L’anno della vittoria Giulio Nascimbeni scrisse sul “Corriere della sera” che questo libro sarebbe dovuto diventare un testo di lettura per le nostre scuole, ma non ne spiegò bene i motivi. Disse solo che era “esemplare” (immagino dal punto di vista morale) e “poetico”. Mi azzardo a fornire qualche altra ragione.

    Una ragione, intanto, è di tipo storico. Quando si studia la prima guerra mondiale sembra che si contrappongano solo due posizioni: quella degli interventisti (non solo d’Annunzio ma la maggior parte degli intellettuali italiani) e quella dei neutralisti e pacifisti (nell’arco che va da Croce e Giolitti al papa cattolico che condannava “l’inutile strage”). Ma gli abitanti della piccola patria di cui qui si parla, come molti contadini mandati al fronte, non sono interventisti e nemmeno pacifisti o sostenitori della neutralità. Nella loro cultura la guerra è solo insensata perché oppone uomini abituati alla solidarietà nella lotta contro la miseria, il freddo, la fame, la febbre spagnola: nel mondo della piccola patria l’aiuto reciproco è necessario e indiscutibile. Per loro le frontiere non hanno ragione d’essere e sembrano esistere solo per essere superate con astuzia e abilità. Loro vivono fra le frontiere e nonostante le frontiere. La loro piccola patria è insomma una civiltà autonoma, diversa da quella italiana o austriaca o genericamente “occidentale”.

    Si dirà che proprio per questo sono condannati alla inessenzialità e alla marginalità. Ma siamo proprio sicuri che il centro in cui viviamo noi (il cosiddetto Occidente) sia portatore di una civiltà migliore?

    Una seconda ragione è, infatti, la straordinaria attualità della marginalità. Se oggi si intravede una qualche possibilità di cambiamento non viene proprio dai marginali (come sono, per esempio, gli esuli e gli emigrati, che spesso incontriamo fra di noi di nuovo come venditori ambulanti)? Gli stessi insegnanti, e la massa proletarizzata di quelli che un tempo si chiamavano intellettuali, non sono un esempio di marginalità? Non sono costretti a una sorta di contrabbando, a una vita difficile fra le frontiere e i muri con cui oggi si cerca di difendere patrie ormai prive di ideali, che non siano quelli economici, e costrette ad arroccarsi riesumando propagande a sfondo razzista e nazionalista? Non cerchiamo anche noi (noi intellettuali, noi insegnanti) di far passare di contrabbando valori di solidarietà che la nostra civiltà ormai ignora o addirittura combatte? La scuola stessa oggi non è una piccola patria assediata da una civiltà aliena?

    https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/1252-marginalit%C3%A0-e-piccole-patrie-in-rigoni-stern-e-oggi.html

    #petites_patries #petite_patrie #frontières #misère #faim #montagnards #paysans #patrie #nationalisme #identité #guerre #WWI #première_guerre_mondiale #entraide #marginalité