Etiopia, i conti col passato: la strage di Addis Abeba del 1937
Sono passati 85 anni ma gli eccidi compiuti dagli invasori italiani - quello di Addis Abeba e quello successivo di Debre Libanòs, ai danni di centinaia di monaci cristiano-copti -, sembrano non avere lasciato traccia nella memoria comune italiana, come del resto tutto il nostro passato coloniale. In Etiopia, invece, il 19 febbraio rappresenta il momento del ricordo di una tragedia collettiva
È il 19 febbraio del 1937, nel calendario etiopico il 12 Yekatit 1929. Addis Abeba è in festa per celebrare davanti al Ghebì imperiale la nascita di Vittorio Emanuele, il figlio del re, del nuovo imperatore d’Etiopia. Otto granate esplodono alle spalle del viceré, il temutissimo Rodolfo Graziani, e provocano la morte di sette persone e circa cinquanta feriti. Sino al 21 febbraio la capitale etiopica sarà messa a ferro e fuoco, causando la morte e il ferimento di migliaia di civili.
Quella strage, “Il massacro di Addis Abeba” come è stata definita dallo storico Ian Campbell nel suo testo dedicato all’analisi degli eventi avvenuti nel febbraio 1937, rappresenta solo l’inizio di una carneficina che coinvolgerà anche il monastero cristiano-copto di Debre Libanòs. Luogo mistico situato nella regione Oromo, a nord di Addis Abeba, divenne teatro di una storica “vergogna italiana” (per riprendere il sottotitolo del testo di Campbell).
Paolo Borruso, nel suo testo Debre Libanòs 1937: il più grave crimine di guerra dell’Italia (edito da Laterza nel 2020), ricostruisce le inquietanti vicende che hanno contraddistinto una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Il convento di Debre Libanòs era considerato il luogo di ospitalità di alcuni degli attivisti della resistenza etiopica che avevano partecipato all’attentato contro il viceré, anche se dalle ricostruzioni di Borruso emerge che gli attentatori si fossero solo ritirati brevemente presso il monastero.
La strage, compiuta dalle truppe italiane guidate dal generale Pietro Maletti ai danni dei monaci, si consumò tra il 21 e il 29 maggio 1937, causando la morte di circa 450 monaci. Le spedizioni punitive elaborate dalla mente del generale Graziani (passato alla storia come il “macellaio del Fezzan”, per i metodi feroci utilizzati nella riconquista dell’area libica tra il 1929 e il 1930), sembra facessero parte di un piano ben dettagliato di violenza su vasta scala che aveva lo scopo di esibire la forza delle truppe coloniali italiane e costringere alla resa l’élite etiopica.
Sono passati 85 anni ma, sia la strage di Addis Abeba, sia il massacro di Debre Libanòs, sembrano non avere lasciato traccia nella memoria comune italiana, come del resto tutto il nostro passato coloniale. Tralasciando le meritorie ricostruzioni storiche di Angelo Del Boca, la storiografia italiana ha poco sottolineato la gravità dei crimini commessi durante l’occupazione italiana dell’Etiopia.
Nel 2006 alla Camera dei deputati fu presentato un progetto di legge recante il seguente titolo: Istituzione del «Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana». Nel preambolo della proposta di legge si riconosce l’importanza della strage e la si definisce come “giornata simbolo in memoria delle migliaia di civili africani etiopici, eritrei, libici e somali, morti nel corso delle conquiste coloniali”.
In Etiopia, invece, il 19 febbraio rappresenta il momento di condivisione di una tragedia collettiva. Nel 1955 un obelisco è stato eretto nella capitale per commemorare questa “inutile strage” e da allora, anche durante il governo socialista del Derg, ogni presidente ha reso omaggio alle vittime del colonialismo italiano. Se ancora parzialmente restano sul terreno le vestigia dell’architettura italiana in Etiopia (uno fra tanti il quartiere Incis, oggi Kazanchis), nella nostra memoria non vi sono neppure le macerie.
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