• Does Development Reduce Migration ?

    The most basic economic theory suggests that rising incomes in developing countries will deter emigration from those countries, an idea that captivates policymakers in international aid and trade diplomacy. A lengthy literature and recent data suggest something quite different: that over the course of a “mobility transition”, emigration generally rises with economic development until countries reach upper-middle income, and only thereafter falls. This note quantifies the shape of the mobility transition in every decade since 1960. It then briefly surveys 45 years of research, which has yielded six classes of theory to explain the mobility transition and numerous tests of its existence and characteristics in both macro- and micro-level data. The note concludes by suggesting five questions that require further study.


    http://www.iza.org/en/webcontent/publications/papers/viewAbstract?dp_id=8592

    #développement #migrations #émigration #statistiques
    cc @reka @isskein

    • Can Development Assistance Deter Emigration ?

      As waves of migrants have crossed the Mediterranean and the US Southwest border, development agencies have received a de facto mandate: to deter migration from poor countries. The European Union, for example, has pledged €3 billion in development assistance to address the “root causes” of migration from Africa. The United States has made deterring migration a centerpiece of its development assistance to Central America.

      Will it work? Here we review the evidence on whether foreign aid has been directed toward these “root causes” in the past, whether it has deterred migration from poor countries, and whether it can do so. Development aid can only deter migration if it causes specific large changes in the countries migrants come from, and those changes must cause fewer people to move.

      Key findings:

      Economic development in low-income countries typically raises migration. Evidence suggests that greater youth employment may deter migration in the short term for countries that remain poor. But such deterrence is overwhelmed when sustained overall development shapes income, education, aspirations, and demographic structure in ways that encourage emigration.

      This will continue for generations. Emigration tends to slow and then fall as countries develop past middle-income. But most of today’s low-income countries will not approach that point for several decades at any plausible rate of growth.

      Aid has an important role in positively shaping migration flows. Realizing that potential requires massive innovation. Because successful development goes hand in hand with greater migration, aid agencies seeking to affect migration must move beyond deterrence. They must invest in new tools to change the terms on which migration happens.


      https://www.cgdev.org/publication/can-development-assistance-deter-emigration

    • Quel lien entre migrations internationales et développement ?

      Le développement, la lutte contre la pauvreté, des freins migratoires ? Sans doute pas. Aux politiques d’être vigilants et d’assumer une réalité qui échappe malgré tout à la force des logiques économiques, à l’efficacité des contrôles frontaliers. Le Nord attire, il a besoin de main-d’œuvre. Comment concilier ses intérêts avec ceux du Sud, avec les droits de l’homme des migrants ?

      http://www.revue-projet.com/articles/2002-4-quel-lien-entre-migrations-internationales-et-developpement

    • #Root_Causes’ Development Aid: The False Panacea for Lower Migration

      Migration is a positive side effect of development, and aid should not be spent in pursuit of keeping people where they are. Development economist #Michael_Clemens sorts the evidence from the politics in conversation with Refugees Deeply.

      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/02/23/root-causes-development-aid-the-false-panacea-for-lower-migration
      #aide_du_développement

    • #Aiutiamoli_a_casa_loro”: è una strategia efficace?

      Ricerche recenti hanno dimostrato che c’è una relazione tra il livello di sviluppo economico di un paese e il suo tasso di emigrazione netta. Ma non sempre questa relazione va a sostegno di chi pensa che per arginare i flussi migratori basti aiutare i paesi più poveri a svilupparsi. Gli esperti parlano infatti di “gobba migratoria”: man mano che il PIL pro capite di un paese povero aumenta, il tasso di emigrazione dei suoi abitanti cresce, toccando un massimo nel momento in cui il paese raggiunge un reddito medio pro capite di circa 5.000 dollari annui (a parità di potere d’acquisto - PPA). Solo una volta superato quel livello di reddito, il tasso di emigrazione torna a scendere.

      Nel 2016 i paesi dell’Africa subsahariana avevano un reddito pro capite medio inferiore a 3.500 dollari annui PPA e, nonostante quest’ultimo sia cresciuto del 38% tra il 2003 e il 2014, negli ultimi anni questa crescita si è interrotta e rischia addirittura di invertirsi. I paesi dell’Africa subsahariana si trovano quindi ancora a un livello di sviluppo economico coerente con un tasso di emigrazione in crescita, ed è difficile immaginare che riusciranno a raggiungere (e superare) la “gobba” dei 5.000 dollari pro capite PPA nel futuro più prossimo.

      È tuttavia vero che, se si sviluppano insieme tutti i paesi africani, ciò potrebbe favorire una ripresa delle migrazioni intra-regionali, ovvero da paesi dell’Africa subsahariana verso altri paesi dell’area. Sarebbe un’inversione di tendenza rispetto a quanto verificatosi negli ultimi 25 anni, un periodo in cui le migrazioni extra-regionali (quindi verso Europa, Golfo, America del Nord, ecc.) sono quadruplicate.

      Infine va sottolineato che per “aiutarli a casa loro” attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415

      Dans cet article, on cite cette étude de Michael A. Clemens:
      Does Development Reduce Migration?
      http://ftp.iza.org/dp8592.pdf

    • Povertà, migrazioni, sviluppo: un nesso problematico

      È proprio vero che sono i più poveri a migrare? E cosa succede se prevale la visione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo come antidoto all’immigrazione? Il professor Maurizio Ambrosini mette a confronto la retorica dell’”aiutiamoli a casa loro” con i fatti.

      Uno dei luoghi comuni più inossidabili nel dibattito sulle migrazioni riguarda il rapporto tra immigrazione e povertà. Convergono sul punto sia i sostenitori della retorica dell’emergenza (“la povertà dell’Africa si riversa sulle nostre coste”), sia i paladini dell’accoglienza (“siamo responsabili della povertà del Terzo Mondo e dobbiamo farcene carico”). Il corollario più logico di questa visione patologica delle migrazioni è inevitabilmente lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”. Mi propongo di porre a confronto questa visione con una serie di dati, al fine di valutare la pertinenza dell’idea dell’aiuto allo sviluppo come alternativa all’immigrazione.
      Non la povertà, ma le disuguaglianze

      Come vedremo, la povertà in termini assoluti non ha un rapporto stretto con le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze. È vero invece che le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa. Questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.

      L’enfasi sulla povertà come molla scatenante delle migrazioni si scontra invece con un primo dato: nel complesso i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: secondo i dati più recenti contenuti nel Dossier statistico Idos 2017, intorno ai 247 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani, pari al 3,3 per cento. Se i numeri sono cresciuti (erano 175 milioni nel 2000), la percentuale rimane invece stabile da parecchi anni, essendo cresciuta anche la popolazione mondiale.

      Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87 per cento nel caso della mobilità dell’Africa sub-sahariana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. Per di più, dall’interno dell’Africa partono soprattutto persone istruite.

      Ne consegue un secondo importante assunto: la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. I migranti, come regola generale, non provengono dai paesi più poveri del mondo. La connessione diretta tra povertà e migrazioni non ha basi statistiche. Certo, i migranti partono soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Questo miglioramento però è appunto comparativo, e ha come base uno zoccolo di risorse di vario tipo.
      Chi è poverissimo non riesce a partire

      Le migrazioni sono processi intrinsecamente selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani di cui spesso non si conosce neanche la lingua, e di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Pertanto la popolazione in Africa potrà anche aumentare ma, senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non si vede come possa arrivare fino alle nostre coste.

      Se invece di fissare lo sguardo sugli sbarchi guardiamo ai dati sulle nazionalità degli immigrati che risiedono in Italia, ci accorgiamo che i grandi numeri non provengono dai paesi più derelitti dell’Africa. L’immigrazione insediata in Italia è prevalentemente europea, femminile, proveniente da paesi di tradizione culturale cristiana. La graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’Onu: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. Su scala globale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico, in Svizzera sono europei per oltre l’80 per cento, in Germania in due casi su tre.

      Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Raramente troviamo immigrati provenienti da molto lontano (cinesi, filippini, latino-americani…) nei dormitori per i senza dimora, nelle mense dei poveri, precariamente accampati sotto i portici, o anche in carcere. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.
      Mostra «La Terra Inquieta», Triennale di Milano, 2017 (foto: Marina Petrillo)

      La cattiva gestione dell’asilo ha in parte incrinato questa logica: i rischi sono tali che a volte arriva anche chi non ha niente da perdere e ha l’incoscienza di provare a partire. Se viene riconosciuto come rifugiato, in Italia il più delle volte viene lasciato in mezzo alla strada. Incontra severe difficoltà anche nello spostarsi verso altri paesi europei, come avveniva più agevolmente nel passato. In modo particolare, i beneficiari dell’Emergenza Nord Africa dell’ultimo governo Berlusconi sono stati gestiti con un approccio emergenziale che non ha favorito la loro integrazione socio-economica. Ma pur tenendo conto di questa variabile, la logica complessiva non cambia: le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze non sono un effetto della povertà, ma dell’accesso ad alcune risorse decisive.
      A proposito dei “migranti ambientali”

      Una valutazione analoga riguarda un altro tema oggi dibattuto, quello dei cosiddetti “rifugiati ambientali”. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. È una spiegazione affascinante della mobilità umana, e anche politicamente spendibile. Ora, è senz’altro vero che nel mondo si moltiplicano i problemi ambientali, direttamente indotti come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocati da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque.

      Tuttavia, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. Anzitutto, le migrazioni difficilmente hanno un’unica causa: i danni ambientali semmai aggravano altri fattori di fragilità, tanto che hanno un impatto diverso su gruppi diversi di popolazione che abitano negli stessi territori. Entrano in relazione con altri fattori, come per esempio l’insediamento in altri territori di parenti che si spera possano fornire una base di appoggio. È più probabile poi che eventualmente i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa, sempre per la ragione prima considerata: dove trovano le risorse per affrontare viaggi così lunghi e necessariamente costosi? Va inoltre ricordato che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50 per cento dell’occupazione complessiva. Neppure la Cina ci riesce, pur avendo trattato a lungo i contadini inurbati senza permesso alla stessa stregua degli immigrati stranieri considerati illegali nei nostri paesi, tanto che ha dovuto negli ultimi anni ammorbidire la sua politica in materia.
      Gli aiuti allo sviluppo non risolvono la questione

      Questa analisi ha inevitabili ripercussioni sull’idea della promozione dello sviluppo come alternativa all’emigrazione. Ossia l’idea sintetizzabile nel noto slogan “aiutiamoli a casa loro”.

      Si tratta di un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica, ma in realtà fallace. Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma abbiamo visto che questo è meno vero di quanto si pensi. Se gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi, i soggetti istruiti anziché i meno alfabetizzati, le classi medie anziché quelle più povere.

      In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che in una prima, non breve fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare. Cresce anzitutto il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere inoltre aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze, soprattutto agli inizi. Possiamo dire che lo sviluppo si lega ad altri fattori di cambiamento sociale, mette in movimento le società, semina speranze e sogni che spingono altre persone a partire. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che regioni e paesi in precedenza luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano meno sviluppati.

      Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita alla primazia di quelli in entrata. In tutti i casi fin qui conosciuti sono occorsi decenni di sviluppo prima di osservare un calo significativo dell’emigrazione.
      Le rimesse degli emigranti

      L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta.

      A livello macro, vari paesi hanno le rimesse come prima voce attiva negli scambi con l’estero, e 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10 per cento. A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi che pure non mancano. Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia. Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare tuttavia che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono. Il sostegno allo sviluppo dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, ma un simile effetto nel breve periodo è praticamente impossibile.

      Dunque le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari. Ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano oggi finanziare i governi dei paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro conto.

      Da ultimo, il presunto buon senso dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti. Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da scongiurare le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, più arretrati di quelli che attualmente ce le forniscono.

      Concludendo, il nesso diretto tra migrazioni, povertà e sviluppo è una delle tante semplificazioni di un dibattito che prescinde dai dati, si basa sulle percezioni e rifugge dalla fatica dell’approfondimento dei fenomeni.

      http://openmigration.org/analisi/poverta-migrazioni-sviluppo-un-nesso-problematico

    • #Codéveloppement : un marché de dupes

      Née du souci d’un partage équitable des richesses et d’une volonté de coopération entre la France et les pays d’émigration, la notion de codéveloppement a été rapidement dévoyée. Au lieu de considérer que migrations et développement sont deux phénomènes complémentaires, les unes apportant à l’autre l’aide la plus conséquente et la plus efficace, on assiste aujourd’hui, derrière un discours d’un cynisme affiché prétendant mener une politique qui répond aux intérêts de tous, à un contrôle accru et une diminution des migrations. À l’inverse des incantations officielles, cette politique ne bénéficie ni aux migrants, ni aux pays de destination, ni aux pays d’origine.


      https://www.gisti.org/spip.php?article1799

    • Immigration : l’échec de la méthode Sami Nair. Le « codéveloppement » du chevènementiste ne démarre pas.

      Les uns parlent de fiasco, rigolent en douce : « C’était couru

      d’avance. » Les autres maintiennent que l’idée est révolutionnaire. Au Quai d’Orsay, certains assurent que le codéveloppement est enterré. A Matignon, d’autres affirment que l’aventure ne fait que commencer. Ces divergences, même radicales, seraient banales s’il ne s’agissait pas d’une approche totalement différente de la gestion des flux migratoires. Mais, un an après le lancement de la délégation interministérielle au codéveloppement, le démarrage est poussif : aucune convention n’a encore été signée avec les trois pays concernés (Maroc, Mali, Sénégal), et le contrat de réinsertion dans le pays d’origine (CRPO), proposé aux immigrés, n’a attiré que 27 personnes. « Normal, c’est un projet à long terme », assure-t-on à l’Office des migrations internationales (OMI, rattaché au ministère de l’Emploi et de la Solidarité). Il n’empêche, les chiffres sont rudes : Sami Naïr, père du concept, ancien délégué au codéveloppement et nouveau député européen (MDC), tablait sur des milliers de demandes. « Le codéveloppement, ça marche », persiste-t-il. Ces résultats décevants, voire piteux, signent-ils la mort du projet ?

      Marotte. Au départ, il y a cette idée, séduisante comme une évidence : transformer les émigrés en acteurs mobiles du développement de leur pays. En pratique, il s’agit de proposer, sur place, des conditions suffisamment attrayantes pour garder et/ou faire revenir les immigrés. Et, in fine, de substituer des flux transitoires aux flux permanents d’immigration irrégulière.

      Le codéveloppement a toujours été la marotte de Sami Naïr. Universitaire, très proche de Chevènement, rencontré dans sa jeunesse belfortaine, Naïr séduit les uns, excède les autres. « C’est un faux-jeton », assurent ces derniers, l’accusant d’avoir troqué ses convictions et son passé de pourfendeur des lois Pasqua (1) contre un bureau de conseiller place Beauvau. D’autres vantent son enthousiasme, sa vision de l’immigration et des rapports Nord-Sud. « On croirait qu’il va déplacer des montagnes », expliquent ses adversaires pour justifier son influence.

      Signe du climat passionnel qui règne autour de Jean-Pierre Chevènement, les détracteurs et même les partisans préfèrent garder l’anonymat. Mais tous, ou presque, reconnaissent sa compétence en matière de flux migratoires. « Je ne crois pas à une Europe-forteresse, mais à une Europe forte, qui intègre et dynamise les flux migratoires », dit-il malgré son appartenance au MDC, qui n’en fait pas un européen convaincu.

      Jospin séduit. Fin 1997, Sami Naïr remet à Jospin son rapport sur le codéveloppement. « La France ne peut plus, dans le contexte actuel, accueillir de nouveaux flux migratoires. Le codéveloppement n’a pas pour but de favoriser le retour des immigrés chez eux s’ils n’en ont pas la volonté », mais de « favoriser la solidarité active avec les pays d’origine », lit-on dans ce rapport. Jospin est très séduit, comme Martine Aubry, ainsi, bien sûr, que Chevènement. Le ministère de la Coopération n’y croit pas, des spécialistes dénoncent « une vieille idée des années 50 » et jugent impossible de renvoyer des gens contre leur gré. « La coopération avec les pays du Sud est un acte de solidarité, la gestion des entrées sur le territoire relève de la police. On ne peut associer les deux », estime le président du groupe de travail Migrations-développement, structure de réflexion qui regroupe des représentants de l’Etat et des ONG.

      Habiller les restrictions. Mais le contexte politique sert Naïr. Alors que s’achève l’opération de régularisation des sans-papiers, qui laisse 60 000 irréguliers sur le carreau, le conseiller de Chevènement devient le premier délégué interministériel au codéveloppement et aux flux migratoires. « Il fallait que Chevènement habille sa politique restrictionniste, explique aujourd’hui un anti-Naïr de la première heure. Si Chevènement avait mis pour les sans-papiers 10% de l’énergie consacrée au projet de Sami Naïr, on n’en serait pas là. C’est les avions renifleurs de l’immigration. » Le jugement est sévère. Car la délégation, finalement installée boulevard Diderot à Paris dans un local appartenant aux Finances, est bien modeste et n’a quasiment aucun fonds propre.

      Le Quai accusé. Les négociations des décrets sont agitées. « C’était un dossier très chaud. La Coopération n’a pas voulu jouer le jeu. Ils n’étaient pas contents qu’on leur enlève des budgets », se souvient-on à Matignon où on loue, sans réserve, le « travail remarquable de Sami, compte tenu des difficultés ». « Faux. On était demandeurs », se défend un haut fonctionnaire du Quai d’Orsay, auquel le ministère de la Coopération est rattaché. En fait, les adversaires du projet sont divisés. Aux Affaires sociales, le cabinet refuse qu’on dépense de l’argent pour former des immigrés en situation irrégulière. « Je me suis battu comme un chien, et Martine Aubry m’a soutenu », rétorque Sami Naïr. A la Coopération et aux Affaires étrangères, on juge le projet trop imprégné du fantasme de l’immigration zéro cher à Pasqua, qui avait déjà tenté ­ sans suite ­ une politique de codéveloppement : « Ça marche si le type n’est pas encore parti. Parce qu’une fois qu’il a goûté à l’Occident, même dans une banlieue pauvre, il connaît vraiment la différence, et il faut payer très cher pour qu’il reparte. »

      « Politique réac ». L’échec du contrat de réinsertion dans le pays d’origine affecte moins Sami Naïr que les commentaires désobligeants qui l’accompagnent. « Le CRPO n’est qu’un petit dossier de la politique de codéveloppement et il n’a pas été pris en charge », explique-t-il, visant l’OMI, pourtant riche des 1 300 francs ponctionnés à chacun des 70 000 régularisés de la circulaire Chevènement (visite médicale plus « taxe de chancellerie »).

      Les détracteurs du codéveloppement ne désarment pas quand on en vient au principal volet, nettement plus complexe : les conventions proposées au Maroc, au Mali et au Sénégal, prévoyant des investissements français en échange d’une limitation des flux migratoires. Le Maroc refuse de signer la convention. Le Mali et le Sénégal, d’abord réticents, ont été convaincus par les arguments de Naïr, et les accords devraient être signés à la rentrée. « La gaugauche s’est fait avoir. C’est une politique très réac enrobée de tiers-mondisme. Le colonialisme et les quotas, c’est fini, on ne dispose plus des gens contre leur gré », s’énerve un spécialiste, pourtant proche de Chevènement, qui s’appuie sur vingt ans d’échecs répétés de tous les systèmes d’aide au retour des immigrés. Ailleurs, on reconnaît que ce genre de politique se juge sur le long terme. Encore faut-il y mettre des moyens et une volonté politique. Et si, effectivement, le codéveloppement a été seulement perçu comme un habillage de la politique d’immigration, il est très probable qu’on en restera là.

      (1) Sami Naïr est l’auteur de Contre les lois Pasqua (1997).

      http://www.liberation.fr/societe/1999/07/08/immigration-l-echec-de-la-methode-sami-nair-le-codeveloppement-du-chevene

    • Codéveloppement et flux migratoires

      Je crois que le mieux pour comprendre ce que j’ai essayé de faire en matière de codéveloppement lié aux flux migratoires à la fin des années 90, c’est encore de résumer, brièvement, comment cette idée de codéveloppement a été élaborée et pourquoi elle reste d’actualité. On pardonnera une implication plus personnelle du propos, mais il se trouve que grâce à Jean-Pierre Chevènement, ministre de l’Intérieur à partir de juin 1997, j’ai été associé à la politique gouvernementale en matière d’immigration.

      https://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=MIGRA_117_0071

    • Je transcris ici les propos de Murat Julian Alder, avocat, député au Grand Conseil genevois, prononcés lors d’un débat à Infrarouge (autour de la minute 53) :

      « Il est temps qu’on pose la question sur la table avec les pays d’émigration. Au PLR on a la conviction qu’on est en droit, en tant qu’Etat qui malheureusement subit une partie de cette migration, d’exiger une contre-partie des pays à qui nous versons chaque année des centaines de millions de francs au titre de l’#aide_au_développement. Lorsqu’on est au pouvoir dans un pays, on en défend ses intérêts. Et la défense des intérêts de notre pays implique que nos gouvernants explique aux pays d’émigration que cette aide au développement est à bien plaire, mais qu’on peut faire davantage pour autant qu’il y ait une contrepartie. Et cette contrepartie c’est la conclusion d’#accords_de_réadmission, c’est aussi une aide davantage ciblée sur place dans les pays d’émigration au lieu de la politique de l’arrosoir que nous connaissons actuellement »

      #accords_bilatéraux