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  • Morts à la frontière #Italie-#Suisse (#Côme - #Chiasso)

    #frontière_sud-alpine #montagne #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #décès #morts #frontières #frontières

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    Morire di confine a Como

    Dopo essere stati a Ventimiglia, dove i morti di confine sono stati 12 in pochi mesi, torniamo a Como, dove i migranti provano e riprovano ad attraversare la frontiera a loro preclusa con la Svizzera, ferendosi o perdendo la vita sui treni, con numeri consistenti sia nei tentativi che nei respingimenti.

    https://openmigration.org/analisi/morire-di-confine-a-como

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    Ajouté à cette métaliste :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Profughi sui treni merci, allarme in Germania

      Nascosti nei treni merci tra i pallets oppure addirittura aggrappati sul tetto di un vagone. Con l’intensificazione dei controlli su strada e sui treni passeggeri sempre più migranti tentano di raggiungere la Germania in questo modo.

      Spesso mettendo in questo viaggio della speranza a rischio la propria vita.

      L’allarme viene lanciato dalla polizia tedesca, che con il primo dicembre ha intensificato i controlli sulla linea ferroviaria Rosenheim-Monaco. Sono, infatti, 180 le persone intercettate su vagoni merci nei mesi di ottobre e novembre in Germania, molte delle quali in arrivo dall’Italia.

      La polizia tedesca spiega che i migranti non viaggiano solo all’interno, ma anche all’esterno dei vagoni, rischiando di cadere oppure di toccare la linea elettrica. I controlli vengono effettuati nella stazione di Raubling, dove si incontrano la linea ferroviaria che arriva dal Tirolo e dal Brennero e quella da Salisburgo. Monaco dista da qui solo più una sessantina di chilometri.

      I controlli sono stati concordati con la Deutsche Bahn e le altre società di trasporti merci su rotaia. Per motivi di sicurezza la linea ferroviaria viene interrotta per la durata dei controlli. Ritardi per i treni passeggeri - secondo la polizia - «probabilmente saranno inevitabili». Sono stati intensificati anche i pattugliamenti nelle stazioni di Monaco e lungo le linee ferroviarie, anche con l’ausilio di elicotteri.

      Proprio pochi giorni fa un ragazzo eritreo di 17 anni è morto nella stazione di Bolzano, travolto nel tentativo di salire su un treno merci diretto al Brennero. Un’altra migrante è stata invece uccisa da un treno sulla linea del Brennero nella zona di Ala, in Trentino. Per evitare ulteriori incidenti, nella stazione di Bolzano sono state adottate una serie di misure di sicurezza e di controllo.

      «La morte di Abiel sui binari della stazione di Bolzano è un segno da cogliere», afferma il direttore della Caritas altoatesina Paolo Valente. «La causa principale delle migrazioni - prosegue - sono gli squilibri economici e il mancato rispetto dei diritti umani a livello mondiale. L’Europa e il mondo ricco rispondono a questa sfida con l’incapacità di assumersi e di distribuire le responsabilità, intensificando i controlli, erigendo barriere che dividono il mondo in uomini di serie A e uomini di serie B», conclude Valente.

      https://www.swissinfo.ch/ita/profughi-sui-treni-merci--allarme-in-germania/42722056

    • Morire di confine al Brennero

      Pochi giorni prima, invece, il 21 novembre a Bolzano, aveva perso la vita il diciassettenne Abel Temesgen, rimasto ucciso mentre cercava di salire su un treno allo scalo merci della stazione. “La sua storia”, raccontava pochi mesi fa Anna Brambilla di Asgi ad Open Migration, “illustra bene la filiera di omissioni a cui vanno spesso incontro i minori soli: invitato ad allontanarsi dalla tendopoli per adulti di Messina, dopo aver dichiarato di avere 16 anni e poi 21, transitato da Roma, poi dall’hub di Milano, fermato a Bolzano dalla polizia e poi ucciso da un treno in corsa appena fuori dal capoluogo altoatesino e accertato infine come minorenne, da morto”.

      https://openmigration.org/analisi/morire-di-confine-al-brennero

    • La lunga attesa dei minori migranti soli in Italia

      Anche lui eritreo, Abel Temesgen è un altro ragazzino vittima dei confini. “La sua storia”, racconta Anna Brambilla, “illustra bene la filiera di omissioni a cui vanno spesso incontro i minori soli: invitato ad allontanarsi dalla tendopoli per adulti di Messina, dichiaratosi 16enne e poi 21enne, transitato da Roma, dall’hub di Milano, fermato a Bolzano dalla polizia e poi ucciso da un treno in corsa appena fuori dal capoluogo altoatesino e accertato infine come minorenne, da morto”. L’asse del Brennero, come la provincia di Como, il Tarvisio e Bardonecchia sono punti sempre più caldi per i minori in fuga.

      https://openmigration.org/analisi/la-lunga-attesa-dei-minori-migranti-soli-in-italia

    • Solo un anno fa era morto Abel: aveva 17 anni

      Quella di Abel Temesgen, il diciassettenne eritreo deceduto mentre cercava di salire su un treno merci per raggiungere il fratello in Germania, era stata una morte inutile. O meglio, visto che tutte le morti sono inutili, quella di Abel lo era ancora di più perché egli non aveva alcuna necessità di viaggiare di nascosto su un treno merci. La sua età e il suo stato, infatti, gli davano il diritto di ricongiungersi ai suoi familiari.


      http://www.altoadige.it/cronaca/bolzano/solo-un-anno-fa-era-morto-abel-aveva-17-anni-1.1388172

    • Morire di confine al Brennero

      Ci sono volute settimane di ricerca – e un lavoro che forse competeva ad altri – per risalire al nome e all’identità della giovane donna morta lo scorso 16 novembre, nei pressi della stazione di Borghetto sul confine tra Veneto e Trentino. La donna stava camminando lungo la massicciata quando è stata travolta da un treno regionale diretto a Verona. Adesso sappiamo che si chiamava #Rawda, aveva 29 anni, ed era arrivata in Italia da poco più di dieci giorni. Aveva con sé il tesserino di uno dei principali centri di accoglienza di Milano per migranti in transito, segno che, dopo essere sbarcata a Reggio Calabria, stava cercando una via verso nord.

      A raccontare a Open Migration questa storia è Alessandra Volani di Antenne Migranti, progetto di monitoraggio dei flussi migratori lungo la direttrice del Brennero, che insieme a un’altra giovane, Valentina Sega, e a un cittadino di origine etiope – Zabenay Jabe Daka, esponente dell’associazione trentina Amici dell’Etiopia – è tra i principali artefici di questa ricerca. “Subito ci siamo resi conto”, racconta Alessandra, “di come i tentativi da parte delle autorità di identificare la donna e di provare ad avvertirne i familiari si fossero di fatto bloccati. Anzi, ormai erano già stati avviati con il comune di Avio i preparativi per la sepoltura, senza che a quel corpo fosse assegnato un nome né tanto meno fosse stata avvisata la famiglia”.

      A imprimere una svolta a questa storia è stata solo una fortuita coincidenza, unita alla determinazione di tante persone comuni: il 25 novembre, durante una visita alla camera mortuaria di Avio, Alessandra Volani scopre, accanto al corpo della donna, una borsa contenente i pochi effetti personali che aveva con sé al momento della morte. “All’interno”, spiega la giovane, “abbiamo trovato alcuni biglietti scritti in amarico che abbiamo tradotto con l’aiuto di Zabenay”.

      http://openmigration.org/analisi/morire-di-confine-al-brennero/?platform=hootsuite
      #Brenner #Autriche

    • #Rawda non è stata dimenticata: Comunicato stampa di Antenne Migranti
      Rawda aveva 29 anni e ha perso la vita a pochi chilometri dalle nostre case. Era partita tempo fa dalla sua terra, l’Etiopia, dove vivono i suoi cari. E’ arrivata in Italia lo scorso novembre. Nel freddo della stagione e del sistema d’accoglienza, Rawda si è trovata smarrita. Ha concluso il suo viaggio il 16 novembre 2016, camminando lungo i binari nei pressi di Borghetto: nel buio, un treno l’ha investita.

      Rawda non è stata dimenticata. Grazie all’impegno di tante persone della comunità della Vallagarina e al nostro gruppo Antenne Migranti è stato possibile mettersi in contatto con la famiglia, che ha chiesto sostegno per poter rivedere, seppur da deceduta, la propria cara, non potendosi permettere la cifra necessaria al rimpatrio della salma. In poche settimane la mobilitazione di tante persone della comunità locale ha fatto sì che venisse raccolto quanto serve per coprire le spese . Ora Rawda può tornare a casa. Un’incredibile solidarietà popolare, che permetterà, oltre al rimpatrio, di studiare anche una forma di sostegno alla figlia di Rawda, rimasta orfana.

      Una solidarietà che fa onore al Trentino, ma che non può servire come alibi alle mancanze che questa storia evidenzia.

      Primo, la vicinanza di molti trentini ha coperto quella che crediamo essere un’assenza delle istituzioni: se, arrivando da lontano, si muore così tragicamente su un territorio, non sarebbe lecito aspettarsi che siano le istituzioni pubbliche di quel territorio a rendere omaggio alla defunta? Senza un’attivazione volontaristica, invece, Rawda sarebbe rimasta sepolta in Trentino, e chissà quando la sua famiglia avrebbe avuto notizia della sua morte.

      Secondo, è necessario abituarsi alle morti sulle rotaie? Dopo Rawda, altre quattro persone hanno perso la vita sulla rotta ferroviaria Verona-Austria. Dobbiamo aspettarci di dover cercare altre famiglie orfane e rimpatriare altre salme?

      Preoccupati per la condizione delle persone migranti che transitano lungo i nostri binari, abbiamo costituito il gruppo indipendente Antenne Migranti. Con il sostegno della Fondazione Alexander Langer di Bolzano, il nostro obiettivo è svolgere attività di monitoraggio nelle stazioni e città lungo la rotta del Brennero per cercare di fornire supporto, in termini di orientamento informativo, ai migranti in transito e di stimolare le istituzioni rispetto alle problematiche esistenti.
      Il progetto è stato presentato venerdì 20 gennaio al Centro Culturale Trevi di Bolzano.


      http://www.alexanderlanger.org/it/948/3979

    • Migranti, “quando capita a due passi da te è diverso”. Storia di Rawda e degli italiani che l’hanno restituita a sua figlia

      Non solo vittime del viaggio nel deserto e della traversata del Mediterraneo, la chiusura delle frontiere interne dell’Europa sta rendendo sempre più pericoloso il viaggio dei migranti intenzionati a chiedere asilo fuori dall’Italia. Da un anno a questa parte, 21 persone sono morte nel tentativo di passare in Francia, Svizzera e Austria. Quattordici i morti nella zona di Ventimiglia, due tra Como e Chiasso e cinque sulla tratta del Brennero. Rawda Abdu è una di queste vittime. Partita dall’Etiopia all’età di 23 anni, già madre di una bambina nata da una violenza in un sobborgo di Addis Abeba, dopo sei anni di lavori precari in Egitto e Libia lo scorso anno decide di rischiare la traversata in mare, verso l’Europa. Si imbarca a Tripoli e arriva a Palermo l’8 novembre 2016. Identificata a Reggio Calabria il giorno successivo, viene trasferita ad un centro di accoglienza di Milano il 14 novembre. Due giorni dopo un treno la travolge mentre percorre i binari , all’altezza di Avio, provincia di Trento.

      A ricostruire la vicenda è Sara Ballardini di Antenne Migranti, progetto che insieme alla Fondazione Alexander Langer monitora la tratta del Brennero per dare informazioni e supporto legale ai migranti. “Respinta dalla polizia di frontiera in base al trattato di Dublino, viene caricata su un treno regionale che dal confine la riporta a sud, direzione Verona”. Senza biglietto, Rawda viene fatta scendere intorno alle 22 alla piccola stazione di Borghetto. Spaesata inizia a camminare a lato della linea ferroviaria. Non si accorge del treno che arriva alle sue spalle e la sbalza sulla massicciata. “Il suo corpo sarebbe rimasto senza nome – racconta Valentina Sega, che vive a Trento ma è originaria di Avio e ha voluto seguire la vicenda da subito – la Polfer si era infatti limitata a prendere le impronte digitali, anche se nella borsetta che la ragazza aveva con sé c’era un foglio con i numeri di tutta la sua famiglia”. Sarà poi Zebenay Jabe Daka, cittadino italiano presidente dell’associazione trentina “Amici dell’Etiopia”, a informare i parenti di Rawda e a ricostruire la sua storia. Di famiglia poverissima, con le sue rimesse manteneva l’intero nucleo familiare: i genitori e la figlia. “La famiglia di Rawda era distrutta, l’unico desiderio che sono riusciti a esprimere è stato quello di poter riavere la salma”, racconta Zebenay.

      Ma il sindaco di Avio Federico Secchi, eletto con Lega e Forza Italia e noto per i saluti romani in onore di un combattente della Repubblica di Salò, non aveva intenzione di contribuire alle spese per il rimpatrio. “Per fortuna altre persone nella giunta comunale ci hanno dato una mano, ma soprattutto il parroco e tante associazioni solidali. In poche settimane siamo riusciti a raccogliere 11mila euro, cifra sufficiente al rimpatrio della salma e all’avviamento di un progetto di sostegno a distanza per la figlia rimasta orfana”, ricorda Zebenay. “Una colletta a cui ha partecipato l’intero paese, una mobilitazione solidale enorme che conferma come, davanti a casi concreti, le persone comuni riescano a superare pregiudizi e chiusure”. Molti dei cittadini solidali, infatti, pochi mesi prima si erano espressi contrariamente all’accoglienza di alcuni richiedenti asilo in paese. “Al momento dell’ultimo saluto al cimitero di Avio, prima del rimpatrio della salma, c’era tutto il paese e anche la vicesindaco: in tanti hanno cambiato il proprio sguardo sulla problematica dei migranti”.
      Folgorati o travolti da treni mentre camminano sulle rotaie, investiti lungo l’autostrada o sui sentieri di montagna. Le vittime delle frontiere sono quasi sempre molto giovani. Tra i pochi a cui si è riusciti a dare un nome ci sono diversi minorenni, che avrebbero potuto attraversare legalmente la frontiera, se solo qualcuno li avesse correttamente informati dei loro diritti e i governi di Francia, Svizzera e Austria non respingessero indiscriminatamente chi chiede loro asilo dopo essere passato dall’Italia.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/05/migranti-quando-capita-a-due-passi-da-te-e-diverso-storia-di-rawda-e-degli-italiani-che-lhanno-restituita-a-sua-figlia/3822631
      #Avio

  • #métaliste sur les morts aux #frontières des #Alpes

    Première décompte des morts, à ma connaissance, celui de Médecins Sans Frontières, dans un rapport de 2018 :
    https://fuoricampo.medicisenzafrontiere.it/Fuoricampo2018.pdf
    A la page 17, on peut lire : plus de 20 cadavres retrouvés aux frontières alpines, dont 15 entre l’Italie et la France

    Article paru dans La Repubblica le 22 février 2019 :
    I volontari francesi : in un anno 30 migranti morti nel tentativo di attraversare le Alpi

    Bilancio denuncia:al confine di Claviere è caccia all’uomo, 7mila respinti nel 2018.

    La frontiera franco–italiana, dove ogni giorno i migranti cercano di lasciare l’Italia, diretti in Francia, è “un confine sotto controllo militare dove è in corso una caccia all’uomo” e dove sono stati trovati una trentina di cadaveri nell’ultimo anno.
    E’ l’analisi durissima presentata ieri a Parigi dall’Anafè, l’associazione nazionale di assistenza agli stranieri sulle frontiere, un’associazione a cui aderiscono una ventina di enti, molti sono gruppi di giuristi e avvocati. Per un anno i volontari dell’Anafé hanno analizzato quello che succede nella regione delle Hautes-Alpes, al Monginevro e al Colle della Scala, e sulla frontiera di Ventimiglia, denunciando “le pratiche illegali dell’amministrazione francese”.

    Il risultato è un rapporto intitolato “#Persona_non_grata. Conseguenze delle politiche migratorie e di sicurezza (https://drive.google.com/file/d/15HEFqA01_aSkKgw05g_vfrcP1SpmDAtV/view)” che mette sotto la lente di ingrandimento - osservando la scena dal lato francese - la militarizzazione della frontiera e le violazioni dei diritti durante i controlli della Paf, la polizia di frontiera francese. L’Anafé solleva dubbi sulle procedure con cui i migranti vengono fermati quando sono individuati. “Vengono suddivisi e selezionati in base a segni esterni come il colore della pelle, l’odore e l’abbigliamento – e aggiungono - Dal 2015 la polizia di frontiera ha emesso rifiuti di ingresso in Francia senza rispettare la legge”.

    Ogni migrante, infatti, avrebbe diritto ad un’esame approfondito della sua situazione con l’aiuto di un interprete, ma al Monginevro molti vengono rimandati verso l’Italia dopo poche ore e, sostiene chi ha redatto il documento, senza la necessaria assistenza. Succede anche con i minori non accompagnati che, per legge, dovrebbero essere accolti. I volontari hanno raccolto la storia di un ragazzino fermato a pochi chilometri da Clavière , il 22 novembre. “La gendarmeria ci ha trovato intorno alle 4 - dice - Eravamo rimasti solo in quattro perché il gruppo si era disperso. Sono svenuto perché ho un problema al cuore e quando mi sono svegliato ho chiesto di essere portato in ospedale ma mi hanno detto che non era possibile. Ricordo che mi hanno fatto scendere dalla macchina al confine e che ho aspettato a lungo al freddo”.

    Nel 2016 i respingimenti al confine con la val di Susa erano stati 316, nel 2017 sono stati 1900. A Modane, nel 2018, sono stati rifiutati oltre 7000 ingressi. “Le persone esiliate - si legge ancora - vengono tenute in condizioni di detenzione deplorevole e senza diritti, senza spazi per dormire, cibo o acqua, contro lo stesso principio di dignità umana”. La procura di Nizza – come riporta il quotidiano Le Monde - ha già aperto un’inchiesta per valutare eventuali abusi della polizia alla frontiera.
    Un ultimo capitolo del documento, che si conclude con una lunga lista di raccomandazioni per garantire i diritti delle persone, è dedicato alla criminalizzazione della solidarietà: la procura di Gap, infatti, ha avviato diversi processi contro persone ritenute responsabili di aver aiutato i migranti. Il 13 dicembre scorso 7 persone erano state condannate dal tribunale e tra queste anche una ragazza torinese.

    https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/02/22/news/i_volontari_francesi_trenta_migranti_morti_nel_tentativo_di_attrav

    Quand j’aurai le temps, je chercherais les références des cas antérieures que j’ai répertoriés sur seenthis par le passé...

    #frontière_sud-alpine #montagne #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #décès #morts #frontières

    J’ajoute à la #métaliste sur la frontière sud-alpine :
    https://seenthis.net/messages/733721

    Voir aussi ces articles consacrés aux morts aux frontières à Vintimille, Brenner et Côme :
    https://openmigration.org/analisi/i-morti-di-confine-a-ventimiglia
    https://openmigration.org/analisi/morire-di-confine-al-brennero
    https://openmigration.org/analisi/morire-di-confine-a-como

    Statistiques telles qu’elles ont été présentées dans une vidéo qui a été publiée le 5 septembre 2017 :


    https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/05/migranti-quando-capita-a-due-passi-da-te-e-diverso-storia-di-rawda-e-degli-italiani-che-lhanno-restituita-a-sua-figlia/3822631

    Commentaire du rapport Persona non grata par les rédacteurs du rapport, sur les ondes de Radio Parleur :
    La journaliste demande : avez vous des chiffres sur les morts aux frontières ? (minute 4’25)

    « La question des chiffres c’est toujours compliqué, parce qu’on peut avoir une idée de personnes pour lesquelles on en a eu connaissance. Mais il y a forcément des gens qu’on ne peut pas voir et peut-être aussi des personnes qui sont disparues ou qui ont perdu la vie, mais dont on en a pas connaissance. Dans le rapport on parle d’une trentaine, parce qu’il y a eu 22 personnes dont on est sûrs qu’elles sont décédées à la frontière basse. Et à la frontière haute, entre 2017 et 2018 il y a eu 3 décès et une disparition. Et en février, il y a deux semaines, il y a eu un autre décès. Donc on s’approche d’une trentaine, mais on ne peut pas donner de chiffres précis parce qu’il y en a aussi plein pour lesquels on ne sait pas. »

    Source : https://radioparleur.net/2019/03/01/anafe-crise-frontieres-migrations

    Conférence de #Daniela_Trucco : Mise en récit des morts à la frontière franco-italienne des Alpes Maritimes (2015-2018)
    https://seenthis.net/messages/780341

    Article paru dans Le Monde, en juin 2018 :
    Dans les Alpes, la fonte des neiges révèle les corps de migrants morts en tentant de passer en France
    https://seenthis.net/messages/756096#message786236

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    A faire dans le futur... éplucher cette liste de Gabriele Del Grande et identifier les cas « alpins » (notamment pour ceux qui ont eu lieu avant 2015) :
    http://fortresseurope.blogspot.com/2006/02/nascosti-nei-tir.html

    ping @reka @isskein

  • JE COMMENCE ICI LA SUITE DU FIL DE DISCUSSION SUR LES MIGRATIONS DANS LE BRIANÇONNAIS :
    https://seenthis.net/messages/733720
    –-> qui elle-même est la suite de celle-ci :
    https://seenthis.net/messages/688734

    Opération antimigrants : des membres de Génération identitaire en #garde_à_vue

    Plusieurs membres du groupuscule d’extrême droite Génération Identitaire ont été placés en garde à vue mardi en lien avec leurs patrouilles antimigrants dans les Alpes au printemps dernier, a-t-on appris de sources concordantes.

    « @RomainEspino, porte-parole de Génération Identitaire vient d’être placé en garde à vue pour sa participation à la mission dans les #Alpes », annonce le groupe sur son compte Twitter.

    Contacté par l’AFP, le président de ce mouvement, Clément Galant indiquait peu avant 11H00 entrer en garde à vue avec Romain Espino à Lyon.

    Le parquet de Gap a confirmé à l’AFP que plusieurs membres du groupuscule ont effectivement été placés en garde à vue en lien avec les opérations menées au col de l’Échelle près de Briançon, sans plus de détail.

    Au printemps dernier, des militants identitaires avaient multiplié les démonstration d’hostilité aux migrants, participant au contrôle de la frontière aux côtés des forces de l’ordre, sous la bannière de « Defend Europe », mouvement qui a déjà fait parler de lui en Méditerranée. Ils s’étaient notamment félicités de la remise de quatre « clandestins » à la police et de l’arrestation de sept migrants « repérés et signalés » par leurs soins.

    Aucune poursuite n’avait jusqu’à maintenant été engagée contre eux, au grand dam des militants promigrants dont sept d’entre eux ont été poursuivis et condamnés pour avoir facilité l’entrée de migrants en France au même moment.

    Une première enquête ouverte le 27 avril 2018 avait été classée sans suite faute d’infraction ou de plainte. Puis le procureur de Gap, Raphaël Balland, avait ouvert une enquête préliminaire plus globale au motif d’’immixtion dans une fonction publique (article 433-12), confiée à la gendarmerie de Briançon.

    Les membres de Génération Identitaire ont toujours assuré que leurs actions étaient protégées par l’article 73 du code pénal qui prévoit que « dans les cas de crime ou délit flagrant puni d’une peine d’emprisonnement, toute personne a qualité pour appréhender l’auteur et le conduire devant l’officier de police judiciaire le plus proche ».

    La préfecture des Hautes-Alpes dénonçait elle « une opération de communication (...) visant à faire croire qu’ils contribuent à la lutte contre l’immigration clandestine ».

    https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/01/29/operation-antimigrants-dans-les-alpes-des-membres-de-generation-identita
    #Briançon #génération_identitaire #justice #extrême_droite #Hautes-Alpes #migrations #frontières #Italie #France #réfugiés #asile #frontière_sud-alpine

    • Des clubs #FSGT dans le Briançonnais solidaires des migrant.e.s et des militant.e.s locaux

      Du 02 au 09 février 2019, des adhérent.e.s de la montagne-escalade, issu.e.s de différents clubs affiliés à la FSGT se retrouvent pour organiser un séjour sports de montagne dans le Briançonnais.

      Ce rassemblement, sportif et convivial est essentiellement basé sur des activités telles que le ski de randonnée ou de piste, les raquettes et randonnée en montagne ; en parallèle il propose aux participant.e.s qui le souhaitent un axe sur la solidarité avec les migrant.e.s et les personnes aidantes, notamment regroupées au sein de « Tous migrants ».

      Il s’inscrit également dans la convergence avec le mouvement associatif et coopératif dans la Haute Durance pour construire des partenariats et des initiatives communes, pouvant dépasser la question migratoire actuelle. Cela pourrait se construire dans le temps, comme dans le cadre du rassemblement fédéral omnisports montagne en juillet à Freissinieres, ou encore là où d’autres adhérent.e.s s’en saisiront.

      La FSGT s’est félicitée à l’unanimité de cette initiative originale qui incarne et porte les valeurs de #solidarité dans le #sport associatif défendues depuis sa création.

      Dans cette perspective, les militant.e.s porteurs de cette action peuvent se réclamer de la FSGT et disposeront du soutien, si nécessaire, en terme juridique, logistique et de communication.

      La FSGT milite pour que tous les pratiquant.e.s puissent devenir des premier.e.s de cordées, mais des premier.e.s de cordés associatifs responsables et solidaires.

      La Direction Fédéral Collégiale de la FSGT


      https://www.fsgt.org/federal/communiqu%C3%A9-de-la-fsgt-des-clubs-fsgt-dans-le-brian%C3%A7onnais-solidaires

    • Reportage | Hautes Alpes : une frontière miroir des politiques européennes

      Grâce, entre autres, aux articles de « Vivre Ensemble », j’ai suivi avec effroi ce qui se passait dans la région des Hautes Alpes entre l’Italie et la France pour les réfugiés ainsi que pour les personnes solidaires. Après avoir lu l’article « Chronique d’une mort annoncée » (VE n°168/juin 2018 : https://asile.ch/2018/08/14/temoignage-chronique-dune-mort-annoncee) qui témoigne de la mort d’une jeune femme sur cette frontière, mon sang n’a fait qu’un tour. Je décide de me rendre sur place. En tant que réalisatrice et citoyenne, il est toujours important pour moi de voir de mes propres yeux les conséquences humaines d’une machine institutionnelle, de rencontrer les personnes concernées et d’accumuler des témoignages pour un futur film qui sait… Je veux également me rendre compte du relief ; les deux cols, les villages que je ne connaissais que de nom. Je veux aussi rencontrer des réfugiés et les bénévoles des refuges solidaires en Italie (avant la traversée) et en France (après la traversée).


      https://asile.ch/2019/01/31/reportage-hautes-alpes-une-frontiere-miroir-des-politiques-europeennes-2-cols-

    • I valdesi volontari al confine Italia-Francia: «Sui migranti le violenze della gendarmerie e i muri del #Decreto_Salvini»

      A #Bardonecchia flussi diminuiti, a #Claviere stabili. «Ma ora è gente che scappa dai centri e, non potendo stare negli Sprar, prova a sconfinare»

      Rincorso dai cani sguinzagliati dalla gendarmerie, ha passato la notte, con le temperature che possono scendere fino a meno dodici gradi, nascosto nella neve. I piedi non gli verranno amputati, ma i medici dicono che per tornare a camminare ci vorrà tempo. Ha quindici anni. Cinque in meno del ventenne che ha raccontato di essere stato inseguito dalla polizia francese in motoslitta, portato in caserma e derubato del denaro. Entrambi migranti che di recente avevano provato a raggiungere la Francia dall’Italia, entrambi respinti. Storie oscurate dall’odissea dei quarantanove a bordo di Sea Watch e Sea Eye.

      «La quotidianità di quello che accade sul confine», ha scritto qualche giorno fa su Facebook, rilanciando le due testimonianze raccolte da volontari francesi di Briançon, #Davide_Rostan, pastore valdese, membro della rete di volontari che in Val di Susa offre assistenza e supporto quotidiani ai migranti che provano a passare la frontiera. Dove, oltre a «episodi di ordinaria violenza arbitraria - così li definisce - da parte della gendarmerie, che continua a respingere anche i minori, in certi casi falsificando le date di nascita», si registrano quelli che secondo il pastore valdese sono «gli effetti del decreto Salvini».

      A Bardonecchia e Clavière. Se a Bardonecchia, dopo il caso, anche diplomatico, esploso a marzo scorso in seguito all’irruzione di agenti della dogana francese in un presidio per migranti, i flussi di quanti tentavano di oltrepassare il confine sono diminuiti, a Clavière, sul limite della frontiera, la situazione è rimasta pressoché stabile. Stime ufficiali ancora non ce ne sono, «ma i numeri sono più o meno quelli di sempre, forse c’è stata una flessione anche per la diminuzione degli sbarchi, ma è minima», scandisce Rostan.

      Le differenze rispetto al passato, però, ci sono. «È cambiata la composizione: per la stragrande maggioranza, non si tratta più, come accadeva fino all’anno passato, di persone arrivate in Italia e parcheggiate negli hotspot, non seguite in un percorso concreto di accoglienza e integrazione. Ora in gran parte è gente che scappa dai centri, magari ancora prima di ricevere il responso della Commissione territoriale o perché l’ha ottenuto ed è negativo o che è già stata in un Cas, ha il permesso di soggiorno per motivi umanitari e, sulla base del dispositivo firmato da Salvini, non può rientrare negli Sprar. Probabilmente se non ci fosse stato il decreto sicurezza non sarebbero andati via tutti coloro che rischiano di ritrovarsi in mezzo alla strada».

      A Ventimiglia. Tentativi di passaggio e respingimenti - in media una cinquantina di persone al giorno vengono rimandati in Italia - da parte della polizia francese continuano anche alla frontiera di Ventimiglia, «anche se - puntualizza Chiara Romagno, referente di Oxfam Italia nella cittadina ligure - il numero dei migranti che restano qui si è molto ridotto. Ora molti arrivano da Genova o da Milano, in bus o in treno, provano a passare e se vengono respinti tornano nei luoghi da cui si sono mossi». Anche Romagno ha notato un cambio nella composizione dei gruppi di migranti intenzionati a oltrepassare il confine. «In gran parte - spiega ad HuffPost - si tratta di persone che stanno da più tempo in Italia. I flussi, comunque, un po’ si sono assottigliati, anche per effetto della riduzione degli sbarchi, conseguenza diretta degli accordi con la Libia stretti da Minniti». Il decreto Salvini non c’entra?

      «Ancora non abbiamo evidenze di correlazione tra i flussi di coloro che provano a raggiungere la Francia da Ventimiglia e gli effetti del decreto sicurezza» risponde Romagno ma racconta che, di recente, ha incontrato un ragazzo richiedente asilo che aveva trovato un datore di lavoro pronto a fargli il contratto. Gli aveva chiesto la carta d’identità, che lui, impossibilitato a iscriversi all’anagrafe sulla base di quanto prevede il decreto sicurezza, non può avere. «Dovrebbe essere sufficiente il permesso di soggiorno - fa notare la referente di Oxfam - ma né i datori di lavoro né i sistemi informatici sono ancora aggiornati sulle nuove procedure».

      Intanto, va avanti Romagno, «la polizia continua a prendere i migranti e trasferirli da Ventimiglia a Taranto. Gruppi molto esigui, dieci dodici persone, caricati su bus che costano migliaia di euro, risorse sprecate» e «anche se non si dice, proseguono gli sbarchi spontanei, come dimostra quanto accaduto a Crotone».

      «No» al decreto Salvini. Visto dalle frontiere, alla luce del decreto Salvini, il futuro non sembra incoraggiante. «Porterà più gente per strada - taglia corto Rostagno - Si pensi a tutte le famiglie che hanno protezione umanitaria e non possono più entrare negli Sprar. E, a causa della riduzione delle risorse erogate per il supporto e l’integrazione dei migranti, i centri potranno offrire meno servizi. Resteranno solo i centri grandi e, certo, con fondi esigui, non potranno essere gestiti al meglio».

      «Il rischio è che la gran parte di coloro che arriveranno in Italia in futuro - ragiona Rostan - verrà parcheggiata in centri grandi, dove seguirli in percorsi reali di integrazione sarà più difficile. Strutture che, con ogni probabilità, saranno in prevalenza al Sud, in posti più vicini ai luoghi di sbarco e dove cibo e riscaldamento costano meno che al Nord».

      Contro il decreto Salvini anche in Val di Susa è scattata la mobilitazione. Le amministrazioni di Oulx e Vaie hanno già adottato una delibera per ufficializzare la loro contrarietà al provvedimento firmato dal ministro dell’Interno, un po’ sulla falsariga di quanto ha fatto a Palermo il sindaco Leoluca Orlando, e il 26 gennaio si terrà una manifestazione che coinvolgerà la valle. «Il decreto sicurezza - ha scritto su Facebook Rostan - serve a far lavorare di più mafia e criminalità e a criminalizzare la solidarietà e chi fa l’accoglienza in modo trasparente e onesto, chi crea integrazione e chi vuole che le persone che arrivano in Italia possano stare in Italia».

      https://www.huffingtonpost.it/2019/01/11/i-valdesi-volontari-al-confine-italia-francia-sui-migranti-le-violenz

    • Migrants : le parquet ouvre une enquête préliminaire sur de possibles infractions de la #police_aux_frontières à #Menton

      Lors de son point presse mensuel, le procureur de la République #Jean-Michel_Prêtre a annoncé qu’il lançait cette procédure. Il s’agit de faire la lumière sur des #infractions qui auraient pu être commises par la police au détriment de mineurs étrangers isolés.

      Les agents de la Police aux Frontières, en poste à Menton, ont-ils commis des faux en écriture pour refouler les mineurs isolés en Italie ?
      Jean-Michel Prêtre, procureur de la République à Nice, a annoncé lors de sa rencontre mensuelle avec la presse, qu’il avait été saisi
      en novembre dernier par la Ligue des droits de l’homme, le syndicat des avocats de France (SAF) et trois élus, l’eurodéputée Michèle Rivasi (EELV), le sénateur Guillaume Gontard (DVG) et la conseillère régionale Myriam Laïdouni-Denis (EELV).

      De possibles infractions selon le procureur

      Dans un document de vingt pages, trois cas de faux en écriture de la part des policiers de manière à pouvoir refouler les mineurs vers l’Italie sont notamment répertoriés par les élus, à l’issue d’une visite d’observation à la frontière franco-italienne au printemps 2018.
      Des cas de « retenues arbitraires » de mineurs, « plusieurs heures, parfois jusqu’à dix ou onze heures » dans les locaux de la police aux frontières (PAF) de Menton, y étaient également dénoncés.

      Une #enquête_préliminaire ouverte

      « Ce n’est pas une plainte mais une transmission à titre de révélation de faits auprès du procureur. Pour certains faits, il y a des noms, des dates, des faits » avait analysé le procureur en décembre, avant de déterminer quel service d’enquête saisir. Depuis mars 2017, le préfet des Alpes-Maritimes Georges-François Leclerc et ses services ont été pris en défaut à plusieurs reprises par la justice administrative pour le renvoi expéditif en Italie de migrants au mépris du droit d’asile.
      « Nous mettons un soin particulier à respecter le droit », assurait pourtant ce dernier il y a un an, en réponse à des questions, notamment sur la possibilité que les forces de l’ordre puissent commettre des entorses à la légalité au vu du flot de procédures et du nombre d’interpellations (une centaine par jour en moyenne depuis 2016 même si les chiffres ont diminué en 2018).

      https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/alpes-maritimes/menton/migrants-parquet-ouvre-enquete-preliminaire-possibles-i
      #PAF #justice

    • Cadavere di un migrante trovato sulla strada del Monginevro: voleva andare in Francia

      Un uomo di 29 anni proveniente dal Togo sepolto dalla neve.

      ll cadavere di un migrante di 29 anni, proveniente dal Togo, è stato ritrovato questa mattina in mezzo alla strada nazionale 94 del colle del Monginevro. Da quanto si apprende da fonti italiane, sul posto è presente la polizia francese. Le abbondanti nevicate degli scorsi giorni e il freddo intenso hanno complicato ulteriormente l’attraversamento della frontiera per i migranti. Si tratta del primo cadavere trovato quest’anno sul confine italo-francese dell’alta Val Susa dopo che l’anno scorso erano stati rinvenuti tre corpi (https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/05/25/news/bardonecchia_il_corpo_di_un_migrante_affiora_tra_neve_e_detriti_su).

      https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/02/07/news/cadavere_di_un_migrante_trovato_sulla_strada_del_monginevro_voleva
      #décès #mort #mourir_aux_frontières

      –-> il s’agit de #Derman_Tamimou, voir ce fil de discussion:
      https://seenthis.net/messages/1030586

    • Ghiaccioli d’Europa: dove eravamo mentre i migranti alla frontiera della Francia morivano congelati

      Una storia da togliere il respiro. E in effetti di mezzo c’è il cuore e ci sono le vene ghiacciate di Derman Tamimou che, dal Togo, ha attraversato prima il Mediterraneo e poi si è inerpicato sulla strada del Monginevro per riuscire a scavallare in Francia. La polizia l’ha trovato sepolto dalla neve. Ci deve essere scritto da qualche parte che i cadaveri di questo secolo debbano rimanere nascosti, con i polmoni pieni d’acqua o pieni di ghiaccio, il più invisibili possibile per non disturbare nessuno, per non togliere l’appetito all’opinione pubblica e per non disturbare i regnanti. Eppure il cadavere surgelato di Deman se ci pensate è una statua di questo Natale, passato fingendo di non vedere le centinaia di presepi sparsi in Europa che accolgono famiglie in tettoie o ripari di fortuna e che pregano, ognuno nella propria lingua e ognuno il proprio Dio, per chiedergli come sia possibile che esista un inferno più infernale di quello da cui sono scappati.

      Fa sorridere anche che la Procura di Gap abbia aperto un fascicolo per omicidio involontario: viene da chiedersi cosa ci sia di involontario nel militarizzare la zona di Ventimiglia continuando a credere che le armi, i muri, le dogane e i confini possano fermare i disperati, quelli disperati davvero, che scappano dalla fame e dal piombo. “Nessuno può fermare un popolo che scappa dalla fame e dal piombo, voi vi state illudendo” mi disse un giorno un pescatore tunisino. Come hobby seppelliva i corpi dei migranti che gli riportava la risacca. Suona così comico chiamare involontario l’indifferenza e le rumorosa inefficienza e nullafacenza di un’Europa che si è aperta per i flussi finanziari e intanto si chiude a riccio di fronte alle persone. Il ghiacciolo di Deman è la cristallizzazione impermeabile di un’umanità che ormai non tiene nemmeno più le righe sui giornali a disposizione per raccontare i morti.

      Ho pensato che forse sarebbe da andare da quel ghiacciolo, avvicinarsi piano piano, bussargli sulla lastra di vetro che il ghiaccio ha spalmato sulla faccia e chiedergli “sei un migrante economico?”, “sei un migrante climatico?” Oppure “scappi davvero da una guerra?”, “ma siamo davvero sicuri?”, e a che punto è la tua domanda d’asilo?

      Se avvicinate l’orecchio vi parrà di non sentire niente ma basterà che si sciolga un po’ di ghiaccio, poco appena, e Deman vi dirà che è niente. È niente perché non ha niente. È talmente niente che è stato disposto a farsi diventare i polmoni duri come sassi pur di fare capire che militarizzare una via serve solo a costringere i disperati ad aprirne un’altra, che sarà molto probabilmente più fredda, più difficile, più pericolosa. È niente, uno che arriva sulla battigia oppure calpesta un confine che solo gli altri riescono a vedere, come in una Cecità di Saramago ma al contrario, e alza le braccia e dice “sono qui, sono niente, non ho niente da offrire”.

      E sicuramente arriverà il tempo in cui i nostri figli e i figli degli sopravvissuti ci chiederanno dove eravamo noi, cosa abbiamo fatto noi, mentre i migranti alla frontiera della Francia diventavano stalagmiti e noi passavamo i sabati come tutti gli altri sabati, come se Deman, fosse fuori di noi, altra cosa da noi.

      https://www.tpi.it/2019/02/09/migrante-morto-congelato-confine

    • Nevica ancora sulla rotta di montagna

      Nevica ancora, sul passo del Colle della Scala, sulla rotta da Bardonecchia a Briançon, e su quella nuova che si è aperta sulla pista da sci di Claviere. I giovani migranti affrontano il cammino in scarpe da ginnastica tentando di arrivare in Francia. Lorenzo Sassi ed Emanuele Amighetti hanno passato un po’ di tempo con loro - e con gli abitanti del posto che si adoperano per aiutarli in armonia con la legge della montagna.

      Il Colle della Scala, a 1.762 metri di altezza, è il passaggio più basso delle Alpi occidentali. Da lì passa la cosiddetta “nuova rotta dei migranti” che va da Bardonecchia a Briançon. La stampa francese e quella locale italiana avevano già cominciato a parlarne sul finire dell’estate scorsa. Con l’arrivo dell’inverno, e il conseguente aumento dei rischi, l’attenzione si è riaccesa. La tratta di cui si è parlato parte da Melzet, una frazione di Bardonecchia che ospita anche un impianto sciistico, e arriva a Nevache, primo paesino oltre il confine. Tempo di percorrenza stimato: sei ore.

      Finché è rimasto aperto il passaggio di confine a Ventimiglia, che serviva da valvola di sfogo e canale di redistribuzione dei migranti, la tratta di Bardonecchia non ha impensierito nessuno. Il problema è arrivato dopo. Una volta blindata la frontiera a Ventimiglia, i migranti hanno fatto dietrofront fino a Torino. Da lì, una volta saputo di questo passo tra le montagne che conduce in Francia con relativa facilità, sono confluiti in massa verso l’agglomerato urbano che si frappone fra il Colle della Scala, il confine e, ovviamente, la Francia. Le città coinvolte sono cinque: Bardonecchia, che è la città di riferimento per tutti i giovani migranti perché lì si trova il centro di accoglienza gestito da Rainbow4Africa; Oulx, cittadina a circa 15 minuti da Bardonecchia, usata dai migranti come appoggio per evitare i controlli della polizia nelle città cardine; Clavière, cioè l’ultima località italiana prima del confine; Nevache, primo villaggio oltre la dogana; e infine Briançon, l’Eden sognato dai migranti, ovvero la città in cui la paura svanisce. Lì si è già ben lontani dal confine, al sicuro – in teoria.
      Sul versante italiano

      Per via dell’insistente via vai di giornalisti, fotografi e videomaker che ha in parte scombussolato l’ordine urbano di Bardonecchia e dintorni, gli abitanti sono un po’ restii a parlare, almeno all’inizio. A irrigidire gli animi è anche il freddo: le temperature arrivano fino a 10 sottozero e si vive intorno ai 1700 metri di altezza, dove tira un vento che congela anche lo stomaco.

      Colle della Scala è una vecchia mulattiera, quindi un facile passo di montagna che in estate viene battuto da famiglie e amatori, non solo da montanari esperti. A complicare le cose, tuttavia, è il clima. Nei giorni che hanno preceduto il nostro arrivo, una tormenta ha scaricato dai tre ai cinque metri di neve su strade, case e, ovviamente, il sentiero del Colle. L’impresa era già difficile per un migrante che camminasse in scarpe da ginnastica su un sentiero di montagna a gennaio, ma l’arrivo della bufera ha peggiorato le cose.

      A pochi passi dall’inizio del sentiero c’è una baita che offre rifugio a sciatori stanchi, passeggiatori occasionali e abitanti del posto. Il gestore della baita mi racconta che è ormai un anno e mezzo che ogni giorno vede passare davanti alle finestre del locale dieci o venti migranti. Tra di loro anche donne e bambini – “ma finché era estate, sai, non era un problema. La strada è relativamente facile. Il problema si pone ora, con tutta questa neve. È impossibile proseguire oltre i primi 500 metri”. Mi racconta di un ragazzo che, un paio di mesi fa, con delle semplici scarpe da corsa, si è fatto il Colle in solitaria: “è arrivato in Francia, ce l’ha fatta, però una volta arrivato gli hanno amputato i piedi”. L’ispettore capo di Bardonecchia Nigro Fulvio conferma la storia. Il ragazzo oggi vive a Briançon, in una delle case messe a disposizione dall’amministrazione comunale.

      Qui è anche molto difficile tentare un soccorso. Molti migranti tentano comunque il valico senza conoscere la natura volubile della montagna e le sue asperità, e spesso senza un abbigliamento adeguato. I più fortunati arrivano in Francia, altri vengono fermati dalla “gendarmerie” francese; molti, invece, rimangono intrappolati tra i boschi e la neve dopo aver smarrito il sentiero. Per la comunità locale e per il sindaco, Francesco Avato, il timore più grande – che giorno dopo giorno diventa certezza – è che, con l’arrivo della primavera, la neve sciolta riconsegni i corpi dei dispersi.
      Il lavoro dei volontari

      A Bardonecchia vengono accolti tutti i migranti che arrivano da Torino, che provano a passare il Colle e poi vengono rispediti indietro dalla polizia francese. All’inizio incontro soltanto i volontari di Rainbow4Africa che da tempo si occupano insieme alla Croce Rossa di dare aiuto ai migranti: un pasto caldo, assistenza medica (ogni notte un dottore volontario dell’associazione resta a vegliare il dormitorio) e assistenza legale – cioè altri volontari come Maurizio Cossa dell’Associazione Asgi. Il compito di Maurizio – e degli avvocati che, come lui, offrono questo tipo di prestazioni gratuite – non è tanto quello di riuscire a sbloccare procedimenti legali, quanto piuttosto quello di chiarire ai giovani migranti la loro “situazione legale”, perché molti di loro non sanno perché non possono andare in Francia, non sanno perché vogliono andarci e, il più delle volte, non sanno che, andando in Francia di nascosto, rischiano di perdere quei pochi diritti conquistati in Italia. Diritti che, per quanto scarni, restano comunque diritti.

      Il centro di Bardonecchia funziona a pieno regime, ospitando in media una ventina di ragazzi al giorno. Per ordinanza comunale, però, apre soltanto alle 22:30 – così da accogliere i migranti per la notte e rifocillarli – per poi chiudere i battenti all’alba, subito dopo la colazione, intorno alle 7:30. Al centro troviamo Marina Morello, dottoressa in pensione e volontaria di Rainbow4Africa. Mi racconta subito che qui c’è stata una risposta corale da parte di tutta la comunità locale. Tutti vogliono dare una mano e tutti, nei modi più vari, contribuiscono a fare in modo che i migranti si sentano il più possibile a loro agio.

      Al centro i migranti ricevono cibo, acqua e, nel caso in cui comunichino di voler partire per le montagne, viene dato loro l’equipaggiamento appropriato. Tutti i vestiti, gli scarponcini, le sciarpe e i guanti arrivano al centro direttamente dalle case di volontari, per lo più del posto.

      Arriva l’ultimo treno: non scende nessuno. Per stanotte è andata bene, non c’è nessuno da convincere a non fare pazzie.
      Dov’è la Francia?

      Sul versante francese, il contraltare di Bardonecchia e Rainbow4Africa è Briançon, dove si trova il centro d’accoglienza Tous Migrants. Dopo non poca diffidenza davanti all’ennesimo “journaliste italien” che temono sia un poliziotto sotto copertura, mi fanno fare un giro all’interno. La scena è meravigliosa: circa 30 ragazzi che, insieme ai volontari della piccola cittadina francese, cucinano come se fossero in una brigata di un ristorante stellato. Al piano di sopra ci sono i letti, al piano di sotto lo stanzone coi vestiti, la sala da pranzo, una stanza per giocare a dama o Mah Jong, e un ufficio. I volontari di Tous Migrants offrono assistenza, e all’occorrenza spiegano ai ragazzi come raggiungere le città dove sanno di potersi ricongiungere con amici o parenti. Stando a quanto mi dicono i volontari, sembra che da luglio 2017 a fine gennaio 2018 siano arrivati a Briançon più di 2 mila migranti. Il sostegno del sindaco e degli abitanti nei confronti di Tous Migrants è molto forte. Ed è probabilmente per questo che, come mi dice il sindaco di Bardonecchia, “il sindaco di Briançon non è ben visto dal governo centrale”.

      La seconda sera che passo a a Bardonecchia c’è il caos. Si sono riversati alla stazione tutti i migranti che non erano arrivati nei giorni precedenti per via di un grosso blocco della polizia a Torino. Tra questi c’è un gruppetto che soprannominiamo i Big4, che non ha ben chiara in testa la situazione. Per dare un’idea del loro smarrimento, scendono dal treno, si accendono una sigaretta nella stazione e chiosano: dov’è la Francia? Non hanno idea di cosa fare, dove andare, solo un obbiettivo: la Francia. E l’obbiettivo è completamente sfasato rispetto al calcolo dei rischi, delle perdite o delle prospettive.

      Probabilmente dal Colle, qualche tempo fa, passò anche Annibale con i suoi elefanti. Il che rende più facile capire la caparbietà di alcuni dei ragazzi che si trovano al centro di accoglienza di Bardonecchia. Non è soltanto che ormai hanno visto il deserto, l’hanno attraversato e poi si sono fatti traghettare su un gommone nel Mediterraneo da un tizio senza scrupoli che ha pure chiesto loro dei soldi, e quindi pensano, cosa vuoi che sia la neve – che fra l’altro molti di loro vedono per la prima volta. È anche che, alla fine, non hanno più nulla da perdere. Uno dei ragazzi che ho conosciuto ed è riuscito ad arrivare in Francia, stava tentando quella tratta da due anni. Due anni in cui si è consumato spirito e corpo. Qui si finisce con l’impazzire, perché in Italia molti vengono rimpallati tra un ufficio e l’altro della burocrazia e la Francia, d’altra parte, sembra deriderli: per un verso vicinissima, a portata di mano, eppure così distante da sembrare irraggiungibile.
      Le ronde solidali

      Molti giovani vengono dissuasi dall’inerpicarsi sul Colle. Nel frattempo, però, è andata creandosi un’altra tratta. Parte da Claviere, e segue la pista da sci da fondo che attraversa il confine. Qui il problema non è il rischio, visto che la tratta si trova tutta in piano, ma la più alta probabilità di essere avvistati dalla “gendarmerie”.

      Molte persone del luogo, per aiutare i ragazzi, fanno ronde notte e giorno, così da recuperare chi si perde – o chi riesce a passare il confine – prima che lo faccia la polizia. Una di queste ronde si chiama “Briser les Frontières”: un gruppo di volontari italiani e francesi che, oltre a offrire pasti caldi, vestiti e rifugio, hanno creato una fitta rete cooperativa per recuperare i migranti dispersi. La bussola che orienta il loro lavoro è una legge della montagna – così simile a quella del mare – per la quale è necessario aiutare chiunque si trovi in difficoltà. Molto vicini al movimento No Tav, di recente hanno organizzato una marcia che ripercorre la tratta dei migranti, in segno di protesta e rappresentazione. Per loro non esistono confini, e infatti se la prendono con il Ministro dell’Interno Minniti per aver permesso la creazione dei durissimi campi di detenzione in Libia.

      Nel frattempo la “Paf”, la polizia di frontiera – oltre a fermare e poi rimandare indietro chiunque provi a valicare il confine senza i documenti necessari – ha seminato paura pattugliando la zona tra Bardonecchia e Oulx per fermare i migranti ancor prima che raggiungano il confine.

      Dopo vari tentennamenti, anche i Big4 provano a passare. Li incontro il giorno dopo dall’altra parte, al centro Tous Migrants. Sono al settimo cielo. Intanto il sindaco di Bardonecchia ospita una commissione dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. La domanda è cosa succederà adesso.

      https://openmigration.org/analisi/nevica-ancora-sulla-rotta-di-montagna

    • Dans les Alpes, les migrants fuient l’Italie de Salvini

      Alors que des petits groupes passent quasi quotidiennement la frontière, un Togolais de 28 ans est mort au début du mois.

      L’odeur de la pâte à pizza s’échappe par endroits d’un restaurant. Derrière les vitres des commerces de la station de sports d’hiver de Montgenèvre (Hautes-Alpes), ce mardi 19 février, les clameurs des vacanciers se devinent. Quelque part, tout près de ces lieux conviviaux, dans la montagne qui s’élève, immergée dans la nuit, un petit groupe de huit personnes est en train de passer le col, frontière physique entre l’Italie et la France.

      Par endroits, leurs corps plongent jusqu’aux hanches dans la neige. A d’autres, leurs semelles glissent sur un bout de piste damé qu’ils essayent de remonter, pour s’éloigner davantage des lumières de la ville. Sans savoir ce qu’ils trouveront au-delà de la ligne de crête que dessine la pleine lune. « On va où, là ? » , chuchote l’un. « C’est par où, là ? » , s’impatiente un autre. Ils suivent une trace. Se séparent. Se retrouvent presque par hasard un peu plus loin. Avant de s’éloigner de nouveau.

      C’est ainsi tous les jours ou presque, des migrants tentent d’atteindre la France par les cols alpins, en échappant aux contrôles policiers. Après plus de cinq heures de marche dans la vallée de la Durance, ceux-là arriveront à Briançon, 12 kilomètres après la frontière, la plus haute ville de France. Pendant plus d’une heure, ils ont dû porter l’un d’entre eux, mortifié par le froid, qui avait entrepris la marche sans bonnet, sans gants, avec de simples tennis aux pieds.

      " Courage, courage « Au Refuge solidaire de Briançon, ils trouveront un premier abri et de la chaleur, comme plus de 5 200 personnes avant eux en 2018. Ils sont guinéens, ivoiriens, maliens, sénégalais... » Dieu est grand « , s’exclame Demba, un Sénégalais de 22 ans, arrivé sain et sauf. Il avait déjà » tenté sa chance trois fois « ces derniers jours. La première fois, la gendarmerie française l’a arrêté à Briançon. La deuxième, un peu plus haut, à La Vachette. La troisième, dès Montgenèvre. Systématiquement, lui et les deux amis qui l’accompagnent ont été renvoyés en Italie.
       » La police et la gendarmerie sont très gentilles , assure Demba. Ils nous disent « courage, courage » et « la prochaine fois, vous y arriverez », mais ils nous disent aussi que les montagnes sont très dangereuses. « Chef de service des urgences à l’hôpital de Briançon, Yann Fillet n’a pas encore eu à mener d’opération de secours en montagne cet hiver pour venir en aide à des migrants, mais » on a largement plus de cas de gelures graves que l’an dernier « , constate-t-il. Collé contre un radiateur, dans une salle commune du Refuge solidaire, Mohammed présente des oedèmes à presque tous les doigts de la main. Une partie de sa peau est totalement dépigmentée. Et ses ongles tombent les uns après les autres. Il portait pourtant des gants lorsque, il y a un mois, il a entrepris de rejoindre Briançon depuis Clavière, la dernière ville italienne avant la frontière. Mais il lui a fallu marcher douze heures et planter ses poings dans la neige lorsque ses jambes enfoncées tout entières ne lui permettaient plus d’avancer.

      Le 7 février, un Togolais de 28 ans est mort d’hypothermie aux abords de la route nationale, non loin du village de La Vachette. L’an dernier, trois personnes sont décédées au cours de ces traversées. » Deux personnes ont aussi disparu « , ajoute Michel Rousseau, de Tous migrants, une association briançonnaise qui organise des maraudes et vient en aide aux migrants qui, depuis 2016, pour échapper aux nombreux refoulements au passage frontalier de loin le plus emprunté, entre Vintimille et Menton (Alpes-Maritimes), se lancent à l’assaut des Alpes.
       » Il faut l’énergie du désespoir pour y arriver « , croit Michel Rousseau. La population qui tente le passage n’est plus tout à fait la même, depuis l’entrée en vigueur du décret-loi anti-immigration Salvini, du nom du ministre de l’intérieur d’extrême droite italien. Le texte a notamment supprimé les permis de séjour humanitaires, jusque-là octroyés à 25 % des demandeurs d’asile pour deux ans. » Le climat a changé. Avant, les gens qui arrivaient avaient passé six mois tout au plus en Italie. Ceux qui viennent désormais sont ceux qui n’ont pas la possibilité d’obtenir un titre de séjour ou qui n’ont aucune chance de le renouveler « , remarque #Davide_Rostan, pasteur dans le val de Suse et militant » solidaire ". « Depuis qu’il y a Salvini, ils ont peur » , assure Silvia Massara, bénévole qui oeuvre dans un refuge mis à disposition par une congrégation religieuse à Oulx, petite commune italienne et presque frontalière.

      Demba a passé pas loin de deux ans et demi dans un centre de la petite commune de Gagliano del Capo, dans les Pouilles. Il conserve fièrement les preuves de ses efforts, deux diplômes attestant des formations qu’il a suivies en apiculture biologique et en nutrition. Mais sa demande d’asile a été rejetée et il a été mis à la porte du centre il y a deux mois. « J’ai loué une petite chambre chez un agriculteur, pour 150 euros par mois, explique-t-il. J’avais trouvé du travail dans un restaurant à Leuca, de 8 heures à 19 heures, sept jours par semaine, pour 750 euros par mois. » L’ex-périence n’est pas concluante : « Dans le sud de l’Italie, ils n’aiment pas les Noirs, c’est du racisme, assure Demba. La majorité des clients ne mangeaient pas si c’était moi qui servais. Le patron ne voulait pas que je continue. »

      " Chaque camp a sa loi « Fils unique, Demba a quitté la Casamance il y a sept ans déjà. Il est passé par la Libye, la Tunisie, l’Algérie, mais aussi le Maroc, où il a tenté » plus de dix fois « de franchir les grillages qui protègent l’enclave espagnole de Ceuta et » peut-être sept fois « de traverser le détroit de Gibraltar en canot pneumatique. Il a fini par retourner en Libye et par gagner l’Italie par la mer.
       » Quelqu’un qui a traversé le désert, la mer, la neige, il va avoir peur de quoi ? « , fait mine de demander, amer, Ousmane, un Guinéen de 28 ans rencontré au Refuge solidaire de Briançon. Lui aussi a vu sa demande d’asile refusée, après deux ans et trois mois dans un centre pour demandeurs d’asile dans les Pouilles. » J’ai pris deux ans de retard dans ma vie, dit-il. Dans mon camp,on était deux cents. Seulement un Malien a obtenu le titre de séjour de cinq ans. « 
      A ses côtés, un autre Guinéen, âgé de 21 ans, et qui s’appelle Ousmane également. Lui a passé un an et huit mois dans le centre de Mineo, perdu au milieu des champs d’orangers siciliens, tristement célèbre pour avoir été un temps le plus grand centre de migrants d’Europe lorsqu’il accueillait jusqu’à 4 000 personnes, dans des bâtiments conçus à l’origine pour héberger les soldats américains d’une base voisine. En début d’année, Matteo Salvini a annoncé sa fermeture prochaine, après des arrestations sur fond de scandales autour de trafics de drogue et de violences sexuelles organisés par une mafia nigériane à l’intérieur du camp.

      Comme d’autres passés par Mineo, Ousmane décrit un autre business, qui prospère sur le dos des migrants, avec l’assentiment des gestionnaires du lieu : » Au lieu de nous donner les 75 euros par mois d’allocation pour demandeur d’asile, on nous donne des cartes de téléphone et des cigarettes qu’on n’arrive à revendre que 3 euros le paquet. « En Italie, » chaque camp a sa loi « , résume ses compatriotes. Ousmane a quitté Mineo, où il ne faisait » rien que manger et dormir « . Il a vécu un mois dans la rue, à Turin, avant de décider de rejoindre la France. » Je voulais faire un recours contre le rejet de ma demande d’asile. Mais j’ai dû me présenter huit fois au service de l’immigration en Italie. J’ai compris qu’on ne pouvait plus m’aider. « 
      A Briançon, ils reprennent des forces, passent des appels, se renseignent. La plupart repartent au bout de quelques jours. » On réfléchit à ce qu’on va faire « , confie l’un d’eux. Camara est à Briançon depuis un mois déjà. Ce Guinéen de 22 ans a passé trois ans en Italie dans divers centres, avant d’être prié de quitter les lieux. Il s’y est repris à deux fois pour entrer en France. » La première fois, la police nous a arrêtés , dit-il. Ils ont déchiré mon extrait de naissance et le plan des montagnes. « Le lendemain, il a réussi à rallier Briançon. » Je suis là parce qu’on m’a dit que je ne pouvais pas rester en Italie et que je parle un peu français . Mais je ne connais personne ici. "


      https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/02/21/dans-les-alpes-les-migrants-fuient-l-italie-de-salvini_5426270_3224.html

    • @sinehebdo, je copie-colle ici le message que tu as signalé, pour ne pas le perdre...
      #merci

      Une politique migratoire aux allures de « chasse à l’homme » à la frontière franco-italienne

      Ce sont 144 pages qui indignent. Elles décrivent la politique migratoire mise en œuvre par la France à la frontière franco-italienne, de Menton à Chamonix : non respect des droits essentiels des personnes, violations de traités signés par la France, indifférence et mépris pour les mineurs isolés et les réfugiés qui ont besoin de soins, militarisation à outrance de la frontière, harcèlement des personnes solidaires... Telles sont les observations réalisées pendant deux ans par l’Anafé, l’association qui publie ce rapport sans concession.

      Des allures de vaste « chasse à l’homme » : c’est ce à quoi ressemble la politique sécuritaire et migratoire mise en œuvre à la frontière franco-italienne. Une « chasse à l’homme » qui cible plusieurs dizaines de milliers de personnes chaque année, dont des enfants, à qui on refuse l’entrée sur le territoire au mépris de leurs droits les plus essentiels. Depuis 2016, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) collecte des témoignages, mène des enquêtes de terrain, observe, constate, échange et travaille avec des associations locales, de Menton à Chamonix, en passant par la vallée de la Roya, le col de Montgenèvre ou le tunnel de Fréjus. Le résultat est édifiant : un rapport de 144 pages, intitulé Persona non grata publié ce 21 février, qui documente l’ensemble des violations de droits perpétrées par l’État français à l’encontre des personnes migrantes qui tentent de traverser la frontière [1].
      Emmenés au commissariat à 17h13, expulsés à 17h15

      Les personnes interpellées se voient le plus souvent prononcer un « refus d’entrée » : un formulaire administratif rempli à la va-vite par un CRS ou un gendarme, sur un parking ou un quai de gare, sans même un passage par les locaux de la Police aux frontières (PAF), ni d’interprète pour les personnes ne maîtrisant pas le français, encore moins d’examen approfondi de la situation des réfugiés. Rien que dans les Alpes-Maritimes, 44 433 refus d’entrée ont ainsi été prononcés, souvent de manière expéditive, en 2017 (une même personne peut être concernée par plusieurs refus d’entrée quand elle tente de repasser la frontière), et 7000 en Haute Maurienne, en Savoie !

      « Le 17 mars 2018, cinq personnes, dont une avec une jambe cassée, ont été emmenées par les CRS à 17h13 au poste de la PAF de Menton Pont Saint-Louis. Elles ont attendu à l’extérieur du poste. À 17h15, soit trois minutes après leur arrivée, les cinq personnes ont été refoulées en Italie, munies d’un refus d’entrée qui leur a été donné en-dehors du poste », notent des observateurs lors d’une mission conjointe avec Amnesty international et Médecins du monde. Ces témoignages sont légion.
      Pas d’accès à un médecin, encore moins à un avocat

      Pas question pour ces personnes de pouvoir accéder à un médecin, qu’elles soient blessées, malades ou sur le point d’accoucher. Pas question non plus pour elles d’avoir accès à un conseil (assistance juridique, avocat…) ni de respecter le droit au jour franc, qui permet à une personne qui le demande de ne pas être refoulée avant 24 heures afin de pouvoir exercer les droits prévus par la loi. Ces pratiques « mises en œuvre par la France à la frontière franco-italienne depuis 2015 représentent un non-respect ou des violations des conventions internationales ratifiées, de la Convention européenne de sauvegarde des droits humains et des libertés fondamentales, du code frontières Schengen et des accords de coopération avec l’Italie », rappelle l’Anafé. Quand il s’agit de migrants, les textes signés par la France ne semblent plus valoir grand-chose.

      Pour les enfants, c’est pareil. Ce ne sont pas des personnes mineures à protéger, mais des menteurs à refouler d’urgence : « On est allés au poste. On est rentrés dans les bureaux. On a été fouillés », raconte un adolescent, interpellé à Clavière, près du col de Montgenèvre. « Le policier me bousculait. Ils ont pris mon téléphone mais me l’ont rendu ensuite. Ils ont pris mon empreinte. Le policier a pris ma main de force pour la mettre sur la machine. Ils étaient plusieurs autour de moi. Un policier m’a demandé ma nationalité, mon âge. J’ai dit que j’avais 16 ans. Ils ont dit que je ne suis pas mineur. Ils ont changé ma date de naissance. Le policier a signé le document à ma place parce que je ne veux pas retourner en Italie. J’ai dit : “Je veux rester en France, je veux aller à l’école pour pouvoir me prendre en charge”. Mais ils ne voulaient rien comprendre. »
      Militarisation « impressionnante » de la frontière

      Le rapport de l’Anafé décrit également la militarisation « impressionnante » de la frontière. La présence des force de l’ordre – militaires, compagnies républicaines de sécurité (CRS), gendarmes, police nationale, police aux frontières... –, souvent lourdement armées, équipées de lunettes de vision nocturne ou de détecteurs de mouvement, sature l’espace frontalier, gares, routes ou chemins de randonnées. Ce qui créée une ambiance bien particulière : « Quelques minutes avant l’arrivée du train, dix gendarmes et quatre militaires lourdement armés se présentent sur le quai. Le train s’arrête, certains montent de chaque côté et se rejoignent au centre du train. Une personne sort escortée par les gendarmes », décrivent des observateurs en gare de Breil-sur-Roya, au nord de Menton (Alpes-Maritimes).

      « Pendant ce temps, les forces de l’ordre restées sur le quai observent les passagers qui descendent. Une personne qui semble d’origine africaine descend, un gendarme lui dit « bonjour », la personne répond « bonjour », dans un français parfait. Nous nous interrogeons sur le fait que les forces de l’ordre ont dit bonjour uniquement à cette personne alors qu’elles étaient une dizaine à descendre du train. » Une scène digne du film La Grande Evasion.

      Ce déploiement militaire à la frontière, rien que pour la vallée de la Roya, coûterait 1,8 million d’euros par mois, près de 22 millions par an, selon le chercheur Luca Giliberti [2]. La vallée ne représente pourtant qu’une petite partie de la frontière franco-italienne, qui s’étend sur 515 kilomètres en tout. Cette militarisation, ces pratiques de « chasse à l’homme » permanentes, poussent aussi les personnes migrantes à prendre de plus en plus de risques pour traverser la montagne et tenter d’esquiver les patrouille, pour simplement être en mesure de faire valoir leurs droits bafoués.
      Un jeune Guinéen mort d’hypothermie après avoir été refoulé

      Les corps de jeunes Guinéen et Sénégalais ont déjà été retrouvés, tués après avoir chuté dans un ravin. « Le 25 mai 2018, à Bardonecchia (Italie), un corps est retrouvé dans un état de décomposition avancée. Son identité est retrouvée par la police italienne grâce à un reste de peau et une enquête est ouverte : il s’agit d’un jeune Guinéen souffrant de poliomyélite, refoulé le 26 janvier par les autorités françaises, à 10 kilomètres de Bardonecchia. Il est décédé d’hypothermie », illustre l’Anafé. Deux semaines plus tôt, c’est le corps d’une Nigériane, Blessing Matthew, qui est retrouvée par des agents EDF dans la Durance, qui prend sa source à Montgenèvre. Toujours en mai, entre Montgenèvre et Clavière, un jeune sénégalais est retrouvé mort par des randonneurs. Épuisé, il serait tombé d’une falaise.

      Face à cette situation scandaleuse qui dure depuis trois ans, « l’Anafé ne peut que déplorer la difficulté à entrer en dialogue avec plusieurs autorités françaises tant au niveau local qu’au niveau national. Les droits fondamentaux, la fraternité et la solidarité ont été relégués au second plan, en violation des engagements internationaux, européens et nationaux. » Les seuls qui sauvent l’honneur d’une politique en perdition à la frontière franco-italienne sont les milliers de bénévoles, de militants associatifs qui font vivre « les valeurs d’humanité, de solidarité et de fraternité » en venant en aide aux victimes de cette « chasse à l’homme ». Mais elles aussi sont désormais la cible de harcèlements, de violences, et poursuivis pour « délit de solidarité ». Elles sont devenues des « militants politiques qu’il faut museler ».

      https://www.bastamag.net/Une-politique-migratoire-aux-allures-de-chasse-a-l-homme-a-la-frontiere-fr

    • #Persona_non_grata - Conséquences des politiques sécuritaires et migratoires à la frontière franco-italienne, Rapport d’observations 2017-2018

      Faisant écho à l’actualité particulièrement tragique de ces dernières semaines à la frontière franco-italienne, l’Anafé publie aujourd’hui son rapport d’observations 2017-2018 sur les conséquences des politiques sécuritaires et migratoires à la frontière franco-italienne intitulé Persona non grata. Ce rapport décrit les pratiques illégales, les privations de liberté irrégulières et les violations des droits que subissent les personnes exilées. Il aborde également la question de la solidarité qui, bien que menacée par les autorités publiques, se renforce et fédère des milliers de personnes autour d’un idéal commun de fraternité.

      Le durcissement croissant des politiques européenne et française pour lutter contre un soi-disant afflux massif de personnes en situation irrégulière et la multiplication des lois liberticides au profit d’une rhétorique sécuritaire mettent en danger la société démocratique européenne. Si cette situation n’est pas nouvelle, le rétablissement des contrôles frontaliers à l’intérieur de l’espace Schengen a ajouté des entraves supplémentaires. Les premières victimes sont d’abord les personnes étrangères qui sont bien souvent érigées en indésirables à expulser du territoire, puis les personnes solidaires qu’il faut museler.

      C’est la réalité depuis 2015 à la frontière franco-italienne. Les personnes exilées font ainsi quotidiennement l’objet de pratiques illégales de l’administration française qui ne respecte pas la législation en vigueur, met en œuvre des procédures expéditives et viole les droits humains et les conventions internationales pourtant ratifiées par la France. Les personnes exilées sont pourchassées dans les montagnes ou sur les chemins de randonnée, sont traquées dans les bus et les trains par les forces de l’ordre mais aussi par des groupes d’extrême-droite et peuvent faire l’objet de violences. Bien souvent, les personnes en exil sont privées de liberté irrégulièrement dans des conditions inhumaines et refoulées irrégulièrement. Les personnes souhaitant demander l’asile se voient opposer un refus d’enregistrement systématique avant d’être refoulées. Si certains mineurs ont pu être pris en charge suite aux dénonciations courant 2018 de pratiques illégales, nombre d’entre eux continuent d’en être victimes et une enquête a d’ailleurs été ouverte par le parquet de Nice [1].

      Ces politiques et ces pratiques ont eu pour conséquence la perte de vies humaines des deux côtés de la frontière et ce, encore très récemment près de Briançon [2].

      Face à cette situation, des personnes et des associations travaillent des deux côtés de la frontière franco-italienne pour faire vivre la solidarité et la fraternité et ainsi redonner aux personnes exilées un peu d’espoir et de dignité. Certaines de ces personnes militantes – dont plusieurs membres de l’Anafé – font l’objet de pressions quotidiennes, de poursuites judiciaires et de condamnations. Ce qui leur est reproché ? Leur humanité !

      « Ce rapport est accablant pour les autorités françaises. Nous appelons d’urgence le ministère de l’intérieur et les préfectures concernées à faire respecter le droit et les conventions internationales, afin de protéger et non rejeter les personnes exilées à la frontière franco-italienne » affirme Laure Palun, co-directrice de l’Anafé.

      Depuis 2011, l’Anafé suit de manière attentive les évolutions à la frontière franco-italienne et a entrepris dès 2015 un travail de collecte d’informations et de témoignages. Aux côtés des acteurs associatifs locaux et nationaux, français et italiens, l’Anafé ne cesse, depuis, de dénoncer les violations exercées par les autorités françaises à la frontière franco-italienne.

      http://www.anafe.org/spip.php?article520

      Pour télécharger le #rapport :
      https://drive.google.com/file/d/15HEFqA01_aSkKgw05g_vfrcP1SpmDAtV/view

    • Migrants : une association dénonce les pratiques de la police française à la frontière franco-italienne

      Le parquet de Nice a annoncé l’ouverture d’une #enquête_préliminaire visant de possibles infractions commises par la police aux frontières.

      La frontière franco-italienne est l’une des frontières internes à l’Europe les plus contrôlées. Elle s’étend sur quelque 515 kilomètres du nord au sud. Rendu public jeudi 21 février, un rapport de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), intitulé « Persona non grata », dresse le bilan de deux ans d’observation et dénonce des « pratiques illégales de l’administration française » à l’encontre des migrants qui, chaque jour, tentent de franchir la frontière.

      Les procédures de non-admission des migrants en provenance d’Italie par la police française ont déjà été mises à l’index ces dernières années par des associations, des parlementaires ou encore le contrôleur général des lieux de privation de liberté ou la commission consultative des droits de l’homme. « Nous voulons redonner une visibilité à ces violations de droits, car ce sont des mesures expéditives qui rendent invisibles les pratiques de l’administration », défend Emilie Pesselier, de l’Anafé.

      Les contrôles aux frontières ont été rétablis par la France en novembre 2015, et la loi d’octobre 2017, dite « de sécurité intérieure et de lutte contre le terrorisme », a étendu les périmètres de contrôles d’identité dans les zones frontalières. L’ensemble a permis de refuser l’accès au territoire français à plusieurs dizaines de milliers de migrants – 56 000 refus en 2017, selon les derniers chiffres disponibles –, principalement dans le secteur de Menton (Alpes-Maritimes). L’Anafé dénonce dans son rapport des contrôles « au faciès » effectués de façon systématiques dans les trains reliant l’Italie à la France ou lors de contrôles routiers.
      « Sans information sur les droits »

      Surtout, l’association estime que les étrangers en situation irrégulière sont renvoyés de façon illégale. « Les procédures expéditives sont notifiées en quelques minutes seulement », sans qu’il soit procédé à un entretien individuel ou à un examen approfondi de la situation et « sans information sur les droits », comme celui de bénéficier d’un interprète, d’un médecin, de faire avertir un avocat ou de bénéficier d’une assistance consulaire. « Leur irrégularité est donc patente », souligne le rapport, en dépit du fait que « les préfets des Alpes-Maritimes et des Hautes-Alpes ont toujours garanti (…) que les procédures à la frontière se déroulaient dans les règles et le respect du droit ».

      En outre, poursuit l’Anafé, les migrants désireux de déposer une demande d’asile se trouvent dans l’« impossibilité » de le faire. De la même manière, si les migrants se déclarant mineurs non accompagnés sont davantage « pris en charge et mis à l’abri » depuis des condamnations devant les juridictions administratives, des associations continuent d’être alertées de « pratiques de non-prise en compte de la minorité de certains mineurs isolés », qui sont alors victimes de « pratiques de refoulement abusives », alors qu’ils devraient obtenir une protection de la part des autorités.

      Début février, le parquet de Nice a d’ailleurs annoncé l’ouverture d’une enquête préliminaire visant de possibles infractions commises par la police aux frontières au détriment de mineurs isolés étrangers à Menton (Alpes-Maritimes).

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/02/21/migrants-une-association-denonce-les-pratiques-de-la-police-francaise-a-la-f
      #justice

    • Non, les migrant・e・s ne déferlent pas sur la France, mais restent bloqué・e・s aux frontières

      De graves manquements au droit d’asile et à la sécurité des personnes en exil. Voilà le constat dressé par l’Anafé (association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers) dans son dernier rapport. Elle assure également que les migrant・e・s ne sont pas plus nombreux・euses qu’avant. Leur nombre paraît plus important, gonflés par leurs passages répétés aux frontières. Radio Parleur a rencontré Emilie Pesselier et Loïc Le Dall, contributeur・trice de l’enquête.

      « Persona non grata » frappe fort. Dans son rapport publié jeudi 21 février, l’Anafé (association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers) dénonce les politiques migratoires menées aux frontières françaises, qui tuent et blessent les migrant・e・s. Il comptabilise une trentaine de morts entre 2017 et 2018, une réalité sûrement incomplète. « La question des chiffres est compliquée. Il faut penser qu’il y a des personnes qui ont disparu et sûrement d’autres qui sont mortes dont on n’a pas connaissance » explique Emilie Pesselier, l’une des contributrices du rapport. Vingt-deux personnes ont été retrouvées mortes à la frontière franco-italienne du sud de la France. Le sentier abrupt du « Pas de la mort » au-dessus de Menton porte malheureusement bien son nom. Du côté de la frontière haute, dans les Alpes au niveau de Modane, l’Anafé recense trois décès et une disparition. « Depuis le début d’année, tout ce qu’on dénonce continue encore », dénonce Emilie. Un nouveau corps vient d’ailleurs d’être retrouvé en février.
      Des pratiques illégales

      L’Anafé dénonce une militarisation accrue de la frontière franco-italienne. Les contrôles à bord des trains, la surveillance des sentiers et les barrages de routes obligent les personnes à emprunter des voies de passage toujours plus dangereuses. Le rapport fait état de contrôles au faciès répétitifs ainsi que des violences verbales et physiques. Lorsque les personnes ne sont pas renvoyées directement dans un train vers l’Italie, elles sont retenues dans des préfabriqués pendant la nuit. « Elles n’ont pas accès à leurs droits ni à de la nourriture. Ce lieu n’a pas d’existence légale claire », explique Loïc Le Dall, également contributeur du rapport. Le discours des policiers interrogés par les militant・e・s est confus sur l’usage de ces « conteneurs ». Les gens y sont immobilisées parfois pendant plus de 12 heures, alors qu’un lieu de privation de liberté ne peut retenir une personne plus de 4 heures.
      Pays des droits de l’Homme non respectés

      La violation du droit d’asile et des droits à la frontière sont monnaie courante. Pour l’Anafé, « c’est une réelle chasse aux potentiels migrants sans document d’identité ». Lors de leur arrivée en France, la procédure d’asile prévoit que les personnes migrantes soient conduites au poste frontière devant la PAF (police aux frontières), française et italienne, accompagnées d’interprètes pour être informées de leurs droits (possibilité de faire une demande d’asile, avoir droit au jour franc, avoir droit à une assistance médicale). Pour Loïc Le Dall, ces droits sont loin d’être respectés : « au-delà du mépris et de la violence verbale ou physique, ces personnes n’entrent pas au poste frontière. Des CRS rédigent sur le quai de la gare des refus d’entrée qu’ils n’ont pourtant pas le droit de rédiger eux-mêmes. Les documents ne sont pas réglementaires, ils sont pré-cochés avec la mention « je veux repartir en Italie ». »

      Ces pratiques alarmantes concernent également des mineur・e・s isolé・e・s, dont la protection est de la responsabilité de l’Etat français dès leur entrée sur le territoire. L’Anafé constate que ces derniers sont régulièrement renvoyés dès leur arrivée, sans jour franc (délai de 24h avant le renvoi), sans même passer par la PAF italienne. Loïc Le Dall décrit des pratiques aberrantes : « on a vu des jeunes à Vintimille qui traînent à la gare et qui ont trois refus d’entrée différents avec à chaque fois des dates différentes, voire barrées. C’est assez absurde ». Particulièrement vulnérables, ils et elles se retrouvent exposé・e・s à des violences et aux trafiquants d’êtres humains.
      Une politique déshumanisante

      L’Anafé est catégorique : les choix politiques appliqués aux frontières violent les droits humains et mettent en danger les personnes migrantes. Une politique qui s’attaque aussi à celles et ceux qui leur viennent en aide. Et les militant・e・s de l’Anafé en font souvent les frais : « les pressions prennent plusieurs formes. Certains sont poursuivis par des voitures de police, il y a des contrôles d’identité répétitifs, des menaces de poursuites en justice. Il y a aussi le fameux délit de solidarité qui, rien que dans son expression, montre toute son absurdité. »

      Faire la lumière sur les pratiques dangereuses exercées aux frontières : voilà le but de ce rapport de l’Anafé, envoyé aux institutions telles que le Ministère de l’Intérieur ou les directions de la police aux frontières. Le document est pensé comme un témoignage, ou comme un outil de plaidoyer. « L’idée [de ces politiques] est de déshumaniser ces gens-là, on ne parle plus d’humains mais de chiffres. Pour ça, les politiques sont bons, ils manipulent les chiffres. Il y a des personnes qui essayent de traverser la frontière vingt fois donc quand on nous parle de 50 000 entrées en telle année, ça ne veut rien dire », poursuit Loïc Le Dall. Après avoir rappelé le rôle de l’immigration dans l’histoire de l’humanité, il ajoute : « il n’y a pas plus de gens qui arrivent en Europe, il y a surtout plus de gens qui sont coincés aux frontières et qui sont mis en lumière ».

      https://radioparleur.net/2019/03/01/anafe-crise-frontieres-migrations

      A propos du rapport #Persona_non_grata de l’anafé :
      https://seenthis.net/messages/756096#message761995

    • Dans les Alpes, là où des Européens skient, des Africains meurent

      Du côté de Briançon dans les Hautes-Alpes, c’est le troisième hiver au cours duquel des migrants se lancent dans une périlleuse traversée de la frontière avec l’Italie en haute montagne. Ils tentent d’échapper aux contrôles et aux violences policières, au risque de perdre la vie. Trois d’entre eux ont été retrouvés morts en mai 2018, et un quatrième est décédé début février 2019.

      Le 7 février, Tamimou Derman est mort à l’hôpital de Briançon. Le jeune homme de 28 ans avait été secouru deux heures plus tôt en pleine nuit, par un camionneur italien. Il se trouvait au bord de la RN 94 à trois kilomètres de la sous-préfecture des Hautes-Alpes en direction du col de Montgenèvre. Le parquet de Gap a conclu à « une probable mort par hypothermie ». Tamimou avait perdu ses chaussures dans la neige abondante et continué sa marche depuis la frontière à 10 km de là, en chaussettes, ont témoigné ses compagnons de route.

      « Persona non grata »
      Pour sept associations qui se préoccupent des droits humains, ce drame est le résultat de la politique de contrôle de la frontière, faite de « renvois systématiques en Italie au mépris du droit, courses-poursuites, refus de prise en charge y compris des plus vulnérables ». Résultat, « ces pratiques poussent les personnes migrantes à prendre toujours plus de risques, comme celui de traverser par des sentiers enneigés, de nuit, en altitude, par des températures négatives, sans matériel adéquat ». Les actions des forces de police et de gendarmerie sont émaillées d’actes illégaux, de violences et d’humiliations. Comme l’a notamment rapportée l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) dans un rapport d’observations publié le 21 février et intitulé « #Persona_non_grata ».


      http://umap.openstreetmap.fr/fr/map/hautes-alpes-frontiere-de-tous-les-dangers-pour-le_260402#11/44.9803/6.8335
      #cartographie #visualisation #dangers

      Parce que la frontière s’est durcie plus au sud, dans les Alpes-Maritimes, voilà le troisième hiver que des migrants tentent la traversée par les Hautes-Alpes pour quitter l’Italie. Ce sont principalement de jeunes hommes originaires d’Afrique francophone. Ils prennent le train à Turin pour descendre dans l’une des deux dernières gares avant la frontière : Oulx ou Bardonnecchia. D’Oulx, ils prennent un bus et s’arrêtent la plupart du temps à Clavière, le dernier village italien avant le poste de la police aux frontières (PAF) de Montgenèvre, à 1850 m d’altitude. De Clavière, ils tentent la traversée sur les chemins de montagne. L’hiver dans la neige, sur les pistes de ski. L’été sur les chemins de randonnées.

      « Dans les années 1950, ce sont les italiens qui faisaient peur »
      De Bardonnecchia, les exilés empruntent à pied le col de l’Échelle (1 762 m) pour tenter de rallier le village de Névache, 13 kilomètres plus loin. Et parfois, parce qu’ils se sont égarés ou parce qu’ils tentent de s’éloigner encore davantage de la police ou de la gendarmerie, ils empruntent des cols dépourvus de route pouvant s’élever à plus de 2 500 mètres d’altitude.

      Les Européens quant à eux, skis aux pieds ou volant en main, peuvent aller librement de l’Italie à la France et de la France à l’Italie. La région est très touristique. Le domaine skiable transfrontalier de la Voie Lactée est l’un des plus vaste d’Europe. Montgenèvre, qui en fait partie, se revendique comme « doyenne des stations de ski françaises ». Depuis l’antiquité, son col du même nom est un important lieu de passage. Les migrations qui y transitent sont anciennes. Au XIXe siècle et jusqu’à la première moitié du XXe siècle, les Italiens ont franchi ces montagnes, fuyant la famine, les mauvaises conditions économiques ou la dictature de leur pays. Ils étaient les indésirables de cette époque.

      « Dans les années 1950, les Italiens faisaient peur dans les villages ici, notamment parce que les femmes étaient vêtues tout de noir et voilées », se souvient Gérard Fromm, le maire et le président de la communauté de communes (DVG) de Briançon qui était enfant à l’époque. Aujourd’hui, il est « fier de la solidarité des Briançonnais » qui sont environ 250 à s’investir pour le secours et l’accueil des exilés. D’autres personnes viennent de loin, sur leurs temps libre ou leurs congés, pour participer à des maraudes en montagne ou s’investir au Refuge Solidaire, le lieu de premier accueil mis à disposition par la communauté de commune.

      Des peines de prison pour les solidaires
      Quasiment toutes les nuits, des maraudeurs se relaient à Montgenèvre pour porter secours aux migrants et les descendre dans leurs voitures au Refuge de Briançon. Pour cette action, ils ont été convoqués plus d’une cinquantaine de fois à la PAF ou à la gendarmerie pour expliquer leurs agissements. Et la mesure dissuasive fait parfois l’objet de poursuites pénales et de condamnations. Ainsi, le 10 janvier, le tribunal de Gap a condamné deux maraudeurs, Pierre et Kevin, respectivement à 3 mois de prison avec sursis et 4 mois de prison avec sursis, pour « aide à l’entrée irrégulière d’un étranger en France ». La peine de Kevin est plus importante car il était poursuivi également pour « refus d’obtempérer ».

      Un autre procès a davantage attiré l’attention. Celui de ceux qui ont été surnommés les « 7 de Briançon ». Le 22 avril, ils avaient participé à une manifestation transfrontalière, de Clavière à Briançon, pour dénoncer la présence des militants d’extrême droite du groupe Génération Identitaire qui avaient commencé une opération anti-migrants la veille au col de l’Échelle. Une vingtaine de migrants étaient entrés en France avec la manifestation des 150 militants solidaires. Les « 7 », deux jeune suisses ; Théo et Bastien, une étudiante italienne ; Eleonora et quatre Briançonnais ; Lisa, Benoît, Mathieu et Juan* ont été condamnés à Gap le 13 décembre pour « aide à l’entrée irrégulière d’étrangers ». Benoit, Lisa, Théo, Bastien et Eleonora ont écopé de 6 mois de prison avec sursis. Mathieu et Juan*, qui étaient également poursuivis respectivement pour « rébellion » et « participation à un attroupement », ont quant à eux été condamnés à 12 mois de prison dont 4 fermes. L’ensemble des personnes condamnées le 13 décembre 2018 et le 10 janvier 2019 ont fait appel des décisions. Leurs condamnations sont suspendues en attendant qu’elles soient jugées par la cour d’appel de Grenoble.

      La fraternité n’embrasse pas tout le Briançonnais. La droite et l’extrême droite critiquent l’action des personnes solidaires et la prise de position municipale, en théorisant sur une « majorité silencieuse des Briançonnais » qui y serait défavorable et inquiète de l’arrivée des migrants. A Névache, ils sont une trentaine d’habitants accueillants, soient 10% de la population. Un engagement dont se félicite le maire Jean-Louis Chevalier qui ne veut « aucun mort sur [sa] commune parce qu’une vie humaine, c’est une vie humaine. Il n’est pas question de laisser mourir dans nos montagnes ». Mais en dépit des alertes récurrentes de l’association locale Tous Migrants « pour que [leurs] montagnes ne deviennent pas un cimetière », trois dépouilles ont été retrouvées au mois de mai 2018.

      Le 9 mai, le corps d’une jeune africaine a été retrouvé découvert au barrage de Prelles. Blessing Matthew, une nigériane de 20 ans serait tombée dans la Durance et se serait noyée après une course poursuite nocturne engagée par les forces de police deux jours plus tôt, au niveau du hameau de La Vachette. Là où est également mort Tamimou Derman. Puis « Alpha », comme l’ont baptisé celles et ceux qui sont venus rendre hommage à ce « migrant inconnu », a été retrouvé sur un chemin de randonnée le 19 mai. Il s’est éteint, vraisemblablement d’épuisement, dans un bois en amont du hameau des Alberts sur la commune de Montgenèvre, après avoir passé plusieurs jours en montagne. Côté italien, le corps de Mohamed Fofana, un Guinéen de 28 ans, a été retrouvé le 25 mai dans un vallon de la commune de Bardonnecchia après avoir passé une partie de l’hiver sous la neige. A la fin de cet hiver, d’autres cadavres apparaîtront-ils à la fonte des neiges ? Cette question hante les montagnards solidaires.

      *Juan est un pseudo

      Pierre Isnard-Dupuy (Collectif Presse-Papiers)

      https://www.1538mediterranee.com/2019/02/28/dans-les-alpes-la-ou-des-europeens-skient-des-africains-meurent

    • Frontière franco-italienne : Grande #maraude solidaire

      Dans le cadre d’une grande mobilisation en soutien aux citoyens solidaires
      des personnes réfugiées et migrantes,
      nos associations vous convient à une maraude solidaire

      Le 15 mars 2019 à partir de 18h au col de Montgenèvre
      (Au départ de la marche près de l’Espace Prarial, Route Italie, 05100 Montgenèvre)

      En présence des représentant·e·s des associations nationales
      et de Tous Migrants disponibles pour répondre à des interviews

      Alors que les politiques migratoires des États européens ne cessent de se durcir et que les contrôles aux frontières sont de plus en plus répressifs, les personnes migrantes sont amenées à prendre davantage de risques en montagne comme celui de traverser la frontière par des sentiers enneigés, de nuit, en altitude, par des températures négatives, sans matériel adéquat. Dans le même temps, les citoyens solidaires qui cherchent à leur venir en aide, les « maraudeurs » des vallées alpines, sont de plus en plus inquiétés, inculpés et même condamnés en justice.

      Malgré les alertes des associations lancées aux autorités, malgré les blessures, les gelures et les morts (le dernier décès d’un jeune exilé près de Briançon date du 6 février), la situation n’a cessé de s’aggraver dans la région de Briançon
      (Hautes-Alpes).

      Face à cette situation qui confine à la mise en danger délibérée, le mouvement citoyen Tous Migrants soutenu par les associations Amnesty International France, La Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières et le Secours Catholique organise une grande maraude solidaire avec plusieurs acteurs locaux, le vendredi 15 mars 2019 à partir de 18h à la frontière franco-italienne, à Montgenèvre. L’objectif est de mobiliser plusieurs centaines de participants.

      Cette action inédite a pour but d’exprimer la solidarité envers les personnes engagées dans des maraudes et qui portent assistance aux personnes exilées qui franchissent la frontière dans des conditions particulièrement dangereuses. En 2018, plusieurs dizaines de personnes solidaires ont été entendues par la police et pour certaines, poursuivies en justice et jugées.

      Programme de la soirée
      18h00 : Rassemblement, prises de paroles des associations, des maraudeurs et témoignages.
      19h00 : Maraudes en groupe avec des responsables expérimentés.
      20h00 : Dénonciation des violences policières.
      20h30 : Témoignages d’exilés et de maraudeurs
      21h15 : Marche animée dans Montgenèvre et descente solidaire aux flambeaux.

      CONTACTS PRESSE
      Amnesty International France
      Véronique Tardivel
      06 76 94 37 05
      vtardivel@amnesty.fr
      La CimadeI Vincent Brossel
      01 44 18 60 56 - 06 42 15 77 14
      vincent.brossel@lacimade.org
      Médecins du Monde I
      Fanny Mantaux
      06 09 17 35 59
      fanny.mantaux@medecinsdumonde.net
      Médecins Sans Frontières France
      Charlotte Nouette-Delorme
      06 76 61 97 80
      charlotte.nouette-delorme@paris.msf.org
      Secours Catholique Caritas FranceI
      Djamila Aribi
      01 45 49 75 24
      djamila.aribi@secours-catholique.org
      Tous Migrants
      Marie Dorléans 06 64 72 95 60
      tousmigrants@gmail.com

      Informations pratiques

      Pour venir en transport en commun à Montgenèvre depuis Paris, le plus simple est de prendre le TGV direct jusqu’à Oulx (4h30), puis navette immédiate qui dessert Montgenèvre (en 30 min) et Briançon.
      Pensez à vous couvrir, les températures pourront être négatives à Montgenèvre (1 800 m d’altitude).

      La maraude et la descente aux flambeaux pourront faire
      l’objet de photos et vidéos.

    • Montgenèvre : de longues recherches de nuit pour retrouver un groupe de migrants

      Ce dimanche 10 mars, de 4 h 30 à 8 h 30, le PGHM de Briançon a entrepris des recherches pour retrouver trois migrants aux abords de la station de Montgenèvre. Le petit groupe, qui a entrepris le franchissement de la frontière franco-italienne dans la nuit, avait alerté les secours italiens. Ils ont été retrouvés sains et sauf au petit matin.

      Vers 4 h 30, ce dimanche 10 mars, trois migrants qui tentaient la traversée à pied de la frontière franco-italienne par le col de Montgenèvre, ont alerté par téléphone les secours italiens déclarant souffrir du froid.

      Des recherches pour retrouver le petit groupe de migrants ont été entreprises du côté italien, dans le secteur de Clavière, et du côté français par le PGHM aux alentours de la station de Montgenèvre.
      Quatre heures de recherches

      En caravane terrestre, les militaires du peloton de gendarmerie de haute montagne, ont recherché quatre heures durant les trois requérants. Ceux-ci s’étaient, à priori, réfugiés dans un sous-bois non loin du village de Montgenèvre, pour y allumer un feu.

      Vers 8 h 30 ce dimanche matin, les trois migrants commençaient à repartir lorsqu’ils ont été localisés par les gendarmes du #PGHM.


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/03/10/immigration-hautes-alpes-montgenevre-de-longues-recherches-de-nuit-pour-

    • TRIBUNE. Sauver des vies n’est pas un délit, dans les montagnes comme ailleurs

      Six organisations humanitaires dénoncent dans cette tribune la criminalisation par les autorités françaises de l’assistance apportée aux exilés.

      "Aujourd’hui, dans certaines régions françaises, des citoyens qui viennent en aide à des personnes en détresse sont considérés comme des délinquants par les autorités françaises. C’est le cas dans plusieurs vallées alpines où celles-ci surveillent, interpellent et poursuivent en justice des hommes et des femmes qui apportent un soutien humanitaire aux personnes exilées qui, malgré le froid, la neige et le manque d’équipement, traversent la frontière franco-italienne au péril de leur vie.

      Pourtant, ces citoyens solidaires, « maraudeurs » et « maraudeuses », portent comme ailleurs en France assistance par des gestes simples à ceux et celles qui en ont besoin : donner une couverture de survie, des gants, des chaussures de montagne, une boisson chaude ; conduire une personne à l’hôpital ou dans un refuge. Une assistance essentielle qui a le pouvoir de sauver des vies. Ces « maraudes humanitaires » dans les régions alpines ne sont pourtant pas différentes de celles menées dans nos villes où ces dernières sont soutenues par la société civile et les pouvoirs publics. Comment comprendre que ces personnes qui font preuve d’humanité dans la région de Briançon puissent être inquiétées, et leurs actes criminalisés, alors que leurs actions ont pour objectif d’éviter les blessés et les morts dans nos montagnes ?

      Les autorités françaises portent atteinte aux droits fondamentaux des personnes exilées et les mettent en danger

      Le récent décès de Tamimou Derman, un Togolais mort à 28 ans à la descente du col de Montgenèvre, en France, le 7 février dernier, est l’illustration tragique de ce que nos associations dénoncent depuis plus de deux ans. En poursuivant les personnes migrantes et réfugiées dans les montagnes, en les renvoyant systématiquement en Italie au mépris du droit, en refusant de les prendre en charge, y compris les plus vulnérables et les demandeurs d’asile, les autorités françaises portent atteinte aux droits fondamentaux des personnes exilées et les mettent en danger.

      Les habitants des vallées se mobilisent pour venir en aide à ces personnes. Elus locaux, citoyens, personnels hospitaliers s’unissent pour faire du territoire briançonnais une terre d‘accueil. Ce mouvement de solidarité se heurte pourtant à la réaction des pouvoirs publics : refus de dialogue, intimidation, poursuites judiciaires allant jusqu’à des peines de prison, etc.

      Le 15 mars prochain, à Montgenèvre, près de Briançon, ce sont des centaines de citoyens qui se mobiliseront lors d’une « grande maraude solidaire ». Nos organisations prendront part à cette action symbolique en faveur de la protection de ceux et celles qui œuvrent à la défense des droits des personnes exilées dans les montagnes."

      https://www.lejdd.fr/Societe/tribune-sauver-des-vies-nest-pas-un-delit-dans-les-montagnes-comme-ailleurs-38

    • Dans les Alpes, des élus maraudent au secours des migrants et s’invitent à la PAF

      À la veille d’une maraude géante le 15 mars, des élus écologistes se sont invités dans les Hautes-Alpes pour « patrouiller » de nuit au secours des migrants. Et contrôler par surprise les pratiques de la police aux frontières.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/140319/dans-les-alpes-des-elus-maraudent-au-secours-des-migrants-et-sinvitent-la-

    • Hautes-Alpes : une maraude pour soutenir les migrants

      Une maraude géante a été organisée au col du Montgenèvre, entre les Hautes-Alpes et l’Italie. Ce vendredi, 300 personnes environ ont marché sur les pas des migrants pour dénoncer la façon dont ils sont traités.

      Leur action peut s’appeler « une grande maraude solidaire ». 300 militants environ, issues d’associations d’aide aux migrants, se sont retrouvés au col de Montgenèvre, entre la France et l’Italie. Ils témoignaient ainsi de leur solidarité et dénonçaient la répression contre les militants.
      Sur les pas des migrants
      Les sentiers des Hautes-Alpes sont parcourus par les migrants depuis que le passage par la Vallée de la Roya, dans les Alpes-Maritimes, a été freiné. Le Briançonnais est devenu un haut-lieu de la solidarité avec les migrants. Ce vendredi, en début de soirée, les militants, venus de France, Italie et Suisse, ont commencé à gravir dans un froid glacial les sentiers enneigés, encadrés par des pros de la montagne. Ils ont atteint 1.800 mètres d’altitude, à la frontière franco-italienne. Sur leurs banderoles ils avaient inscrit « Nos montagnes ne sont pas des cimetières » ou encore « Solidarité = Délit ».

      Cette maraude symbolique doit se terminer par une soupe chaude suivie d’une descente aux flambeaux. Parmi les marcheurs, on retrouve le mouvement citoyen Tous migrants, soutenu par Amnesty International France, Médecins du Monde, Médecins sans frontières, le Secours catholique et la Cimade.

      Avant leur départ, beaucoup avaient déjà témoigné des conditions particulièrement dangereuses dans lesquelles les migrants franchissent la frontière. La nuit, dans le froid et la neige, sans équipement adéquat. Il en résulte des blessures, des gelures graves et même des morts. Le dernier date du 6 février.
      Une piqûre de rappel de solidarité
      Selon les associations, « la situation n’a cessé de s’aggraver dans la région, avec la répression et les contrôles des forces de l’ordre qui se multiplient ».

      « Nous voulons rappeler, en écho au rapport du Défenseur des droits publié ce mardi, que l’assistance aux migrants n’est pas illégale et que les réfugiés ont le droit de demander l’asile », explique à l’AFP Marie Dorléans, de Tous Migrants.

      En juillet, le Conseil constitutionnel a estimé qu’au nom du « principe de fraternité », une aide désintéressée au « séjour » irrégulier ne saurait être passible de poursuites, l’aide à « l’entrée » sur le territoire restant illégale.


      https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/hautes-alpes/hautes-alpes-maraude-soutenir-migrants-1639466.html

    • "C’est de la bienveillance, comme il y en a chez les #marins" : une « grande maraude solidaire » d’aide aux migrants a réuni 300 personnes dans les Hautes-Alpes

      L’événement était organisé par des associations d’aide aux migrants pour soutenir les personnes qui viennent en aide aux centaines d’exilés qui franchissent la frontière entre l’Italie et la France.

      Une « grande marause solidaire » s’est déroulée vendredi 15 mars, à Montgenèvre, dans les Hautes-Alpes, près de Briançon, en soutien aux migrants. L’événement était organisé par des associations d’aide aux migrants dans le but de soutenir les personnes qui aident les centaines d’exilés qui franchissent la frontière entre l’Italie et la France. Les bénévoles dénoncent notamment la répression dont ils estiment être les victimes après plusieurs condamnations prononcées en justice. Par petits groupes, les maraudeurs - français, suisses et italiens - ont donc gravi dans le froid les sentiers enneigés de la station, à 1 800 mètres d’altitude.

      Sur le front de neige de Montgenèvre, à l’heure des dameuses, le petit groupe de maraudeurs est guidé par Pierre, qui vient en aide aux migrants depuis trois ans : « Il faut essayer d’être un peu vigilant, regarder autour de nous », confie Pierre. « Il faut se rendre compte que tout ce que vous avez autour de vous, le moindre petit recoin, c’est aussi une cachette où les gens se mettent à l’abri parce qu’ils n’ont pas envie de vous voir », explique-t-il.

      On essaie d’être discret parce que les personnes que l’on rencontre sont plutôt apeurées. Elles ne savent pas de quel côté on est.Pierre, bénévoleà franceinfo

      Les migrants se cachent parfois dans des cabanes, sous des abribus, dans des toilettes publiques ou des abris poubelles. La plupart du temps, quand les maraudeurs les retrouvent, ils ne sont vêtus que d’un jean et d’une paire de basket. Corinne Torre, responsable au niveau national de Médecins sans frontières déplore : « Il y a eu des morts. On défie quiconque de pouvoir rester dans des conditions comme ça, à -15 degrés l’hiver. C’est extrêmement dangereux. »

      Ils se font pourchasser par la police et se blessent. Ils peuvent tomber, ils peuvent mourir.Corinne Torre, de Médecins sans frontièresà franceinfo

      Trois migrants ont perdu la vie, deux autres ont disparu l’année dernière, en tentant de franchir la dizaine de kilomètres qui séparent Clavière, en Italie, de Briançon. Côté français, ils sont 200 bénévoles à venir régulièrement secourir les migrants. Même si certains ont été condamnés après des actions parfois houleuses, cela ne dissuade pas Gaspard, guide de haute montagne. « C’est de la bienveillance, comme il y en a chez les marins. Cela me semble être tout à fait logique », estime-t-il. Quand on voit les montagnes ici, illuminées et pleines de touristes... Pour eux, ce n’est pas la magie de Noël, la féerie de la neige."

      C’est parfois aussi dur que de traverser la Méditerranée. Ils l’appréhendent avec la même peur, la même crainte.Gaspard, guide de haute montagneà franceinfo

      Vendredi soir, aucun migrant n’a été secouru sur les pentes glacées de Montgenèvre, mais depuis le début de l’année, plus de 4 000 exilés, en provenance d’Italie, sont parvenus jusqu’à Briançon.

      https://mobile.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/hautes-alpes-une-grande-maraude-solidaire-a-montgenevre-pour-sou
      #pêcheurs

    • Maraude solidaire : ils étaient des dizaines…

      Hier soir (vendredi 15 mars 2019), 18h sonne au clocher de l’église de Montgenèvre, 400 personnes se retrouvent sous une banderole « Solidarité=Délit », devant les caisses des remontées mécaniques, bien couvertes et pleines de motivations.

      A l’appel de l’association Tous Migrants, la grande Maraude solidaire commence ce vendredi 15 mars en début de soirée. Les objectifs, annoncés au micro par Tous Migrants, sont multiples mais convergent tous vers un seul mot, humanité : faire découvrir la maraude et devenir tous maraudeur, être solidaires avec les maraudeurs inquiétés par la justice, faire prendre conscience de ce que vivent les exilés en ces lieux, dénoncer les violences policières, et rappeler les droits des demandeurs d’asile.

      Cinq ONG qui soutiennent ce rassemblement sont présentes et prennent la parole. Le secours catholique apporte un franc soutient aux bénévoles. La CIMADE dénonce les atteintes aux droits des personnes exilés et demandeurs d’asiles rappelant que l’Etat en est responsable, et que ces atteintes ne sont pas isolées mais générales sur tout le territoire. Médecins Sans Frontières compare les pressions policières et juridiques faites aux maraudeurs, aux identiques que l’ONG vit avec l’Aquarius en méditerranée. Amnesty international est présente en tant que défenseuses et défenseurs des droits de l’Homme qui sont bien oubliés sur nos frontières. Enfin Médecin Du Monde qui travaille en collaboration avec les solidaires briançonnais depuis 3 ans, rappelle que le gouvernement est en totale illégalité aux frontières, que d’accéder aux soins est fondamental, et que le combat doit continuer.

      Le refuge solidaire de Briançon annonce des chiffres renversants, 5205 personnes sont passés au refuge en 2018, 410 personnes aux mois, pourtant froid de janvier et février 2019, soit une moyenne de 7 passages par jour, 53000 repas ont été servi au refuge depuis sa création en 2017, 6 maraudeurs parcourent tous les jours dans les montagnes, 3 jours de périple pour les exiles en moyenne entre Clavière et Briançon, 4 décès connus et 3 disparitions, et des blessés… Toutes les remontées mécaniques sont maintenant fermées.

      Il est temps pour les maraudeurs en masse, qui sont venus parfois de loin pour comprendre ce qui se passent ici au fin fond des Hautes-Alpes, de partir en marche dans la nature. Des petits groupes se forment autour de maraudeurs plus habitués, et partent dans toutes les directions dans la neige à la nuit tombante.

      Les manifestants comprendront qu’à l’écoute des réponses, « il n’y a pas de règles il n’y a pas de plans » « juste, on marche, ou on ski et on regarde si on voit une personne en difficulté pour lui porter secours, sans jamais passer la frontière franco-italienne comme seule règle » « juste éviter des drames, aider simplement » « les exilés passent parfois très hauts et se perdent, se retrouvant dans une autre vallée » « on apporte des boissons chaudes, des couvertures de survies »… Cela semble si simple et pourtant tellement compliqué dans ce lieu exigeant par son relief, son climat, devenu une prison à ciel ouvert avec des policiers munis de projecteurs, de caméra infrarouge, de moto-neiges…scrutant les pistes.

      Les dameuses commencent à lisser le front de neige…

      Il est 20h30, rendez-vous, pour les maintenant 500 solidaires, devant la PAF. Sous les airs de musique de la fanfare, à la lumière des lampions, en cette journée du 15 mars internationale de luttes contre les violences policières, les témoignages des exilés lors de leur passage entre les mains de la police, sont écrits sur des pancartes et lus. Les automobilistes bloqués de part et d’autre du poste de frontière ont éteint leur moteur et écoutent. Les pancartes font faces aux cortèges de policiers, crs… ils ne peuvent faire autrement que de lire, d’entendre… Amnesty International leur rappelle qu’ils ont droits de refuser d’obéir si les ordres sont contraires à la loi, si un ose dire beaucoup d’autres suivront… et pourtant rien ne bouge. Ce face à face ravive les souvenirs des solidaires qui sont bien trop nombreux en ce même lieu. Le cortège repart au centre de la station en musique. La dameuse travaille la neige au milieu de la pente…

      Il est 22h la soupe est servie, on se réchauffe, un S.O.S apparaît dans la montagne, et au même moment une chasse à l’homme commence à la frontière… la foule se disperse, des petits groupes partent en maraude, un gros cortège retourne à la PAF vers la frontière. C’est à ce moment que la police déploie ses forces humaines pour traquer les migrants qui tentent de passer devant les yeux, les caméras des manifestants… On a peine à y croire et pourtant cela n’est pas un film, un migrant est attrapé sous les huées de la foule, des rangées de CRS se suivent pour remonter aux postes après avoir contenu la foule, la chasse continue tout autour. La station n’a jamais vu autant de personnes circuler dans tous les sens, partout à pied à cette heure-ci, il est 23h30. La dameuse est tout en haut de la piste…

      La grande maraude continuera bien longtemps dans la nuit. Les voitures des forces de l’ordre diminuent au fur et à mesure. Une dizaine de migrants sont arrivés au refuge cette nuit, quelques-uns sont restés bloqués à la PAF, un migrant a chuté et a été transporté par les pompiers. Les maraudeurs sont rentrés se reposer pour demain soir. La piste est damée, les skieurs vont se régaler….


      https://alpternatives.org/2019/03/17/maraude-solidaire-ils-etaient-des-dizaines

    • Du coup, @sinehebdo : #Voies_libres_Drôme #Drôme #Vercheny

      Voies Libres Drôme a un double objet : organiser, informer et promouvoir l’#accueil ; informer et sensibiliser sur la réalité des la situation des exilé.e.s, sur les politiques migratoires.

      Et cette #chanson :
      #Hermann - Ton visage est sur le mien
      https://www.youtube.com/watch?v=V90-TlrM98o


      #clip #vidéo #musique

    • Un arrêt de La #cjue qui met par terre tout le système mis en place en France depuis trois ans aux #frontières_terrestres.
      La cour estime que l’on peut pas considérer une #frontière_interne comme une #frontière_extérieure et que la #directive_retour avec ses droits (départ volontaire recours urgent contre les mesures et rétention) s’applique.
      En gros la cjue dit que l’on doit appliquer le #droit_commun soit des obligations de quitter soit des réadmissions Schengen même si on contrôle systématiquement. Or en France la paf notifie des refus d’entrée comme à Menton ou à montgenevre.
      Et on doit appliquer Dublin si demande d’asile dans un état membre. Cela veut dire recours suspensif possible.

      https://twitter.com/SadikGerard/status/1110226044538310657

      Arrêt de la cjue :

      « Renvoi préjudiciel – Espace de liberté, de sécurité et de justice – Contrôle aux frontières, asile et immigration – Règlement (UE) 2016/399 – Article 32 – Réintroduction temporaire par un État membre du contrôle à ses frontières intérieures – Entrée irrégulière d’un ressortissant d’un pays tiers – Assimilation des frontières intérieures aux frontières extérieures – Directive 2008/115/CE – Champ d’application – Article 2, paragraphe 2, sous a) »

      http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf;jsessionid=A3D538BB2F6BB87A3A1145B398F89039?text=&docid=21

    • Remise du #prix suisse des droits humains #Alpes_ouvertes 2019 aux « #7_de_Briançon »

      En présence des personnalités internationales

      Le prix suisse des droits humains "Alpes ouvertes" 2019 du Cercle d’Amis Cornelius Koch (l’abbé suisse des réfugié·es, 1940-2001) est remis aux "7 de Briançon" en signe de reconnaissance et de remerciement pour leur engagement courageux dans le sauvetage de réfugié·es en montagne et dans la dénonciation des actes racistes et xénophobes. Le prix se monte à 12.000 CHF.

      Date : Mardi, 23 avril 2019

      Heures et lieux :

      9.30 h rassemblement à l’Obélisque Napoléon au Col de Montgenèvre, cérémonie de la remise du prix, prises de parole, acte symbolique à la frontière franco-italienne.

      12h - 14.30 h : A Briançon dans la salle communale du Vieux Colombier, Ch. de Ronde, Cité Vauban : buffet, musique et éloges. Ensuite visite des lieux d’accueil pour les réfugié·es.

      Prises de parole de personnalités internationales :

      Pinar Selek, écrivaine et sociologue (F, Turquie)

      Dick Marty, anc. procureur du canton du Tessin, anc. membre de l’Assemblée Parlementaire du Conseil d’Europe, (CH)

      Don Giusto de la Valle, prêtre et lauréat Alpes ouvertes 2017, Progetto Accoglienza Rebbio (I)

      Mussie Zerai, prêtre et co-fondateur du « Watch the Med Alarmphone » (I, Érythrée)

      Communiqué

      Le prix suisse des droits humains "Alpes ouvertes" 2019 est remis aux "7 de Briançon" en signe de reconnaissance et de remerciement pour leur engagement courageux dans le sauvetage de réfugié·es en montagne et dans la dénonciation des actes racistes et xénophobes. Nous avons décidé de décerner ce prix aux citoyens suisses Théo Buckmaster, Bastien Stauffer et à la citoyenne italienne Eleonora Laterza, dénommé·es les "trois de Briançon", et à quatre habitant·es des Alpes françaises – Mathieu Burellier, Benoît Ducos, Jean-Luc Jalmain et Lisa Malapert – dénommé·es les "quatre de Briançon". Nous souhaitons ainsi épauler ces personnes engagées, tout en interpellant l’opinion publique sur le sort intenable des réfugié·es qui traversent les Alpes franco-italiennes. Historiquement, les Alpes ont souvent été un lieu de refuge pour les persécuté·es et les résistant·es. Aujourd’hui elles sont le dernier verrou de l’Europe Forteresse, de Vintimille (Italie) au Montgenèvre (France), au col du Brenner (Autriche), en passant par Chiasso (Suisse). Ouvrons les Alpes pour un accueil humain !

      Delémont, 3 avril 2019

      Claude Braun et Michael Rössler

      Pour l’Association "Cercle d’Amis Cornelius Koch" et le Forum Civique Européen

      L’histoire du Prix Alpes ouvertes

      Le prix suisse des droits humains "Alpes ouvertes", instauré par Cornelius Koch, l’abbé suisse des réfugié·es (1940-2001), est décerné à des personnes et à des groupes engagés activement pour les droits des réfugié·es, des migrant·es, des personnes socialement défavorisées et des minorités menacées en Europe. Le prix se monte à 12.000 CHF. Les précédent·es lauréat·es : Don Renzo Beretta, Ponte Chiasso (I), en 1997 ; le syndicat ACLI, Côme (I), en 1998 ; Edition Drava, Klagenfurt (A), et "Mujeres Progresistas", El Ejido (Espagne), en 2000, en présence de Monseigneur Jacques Gaillot (F) ; Comité d’aide médicale en Transcarpatie (CAMZ), Oujgorod, Ukraine, 2012, en présence de Dick Marty (CH) ; l’Association "Firdaus" de Lisa Bosia Mirra (CH) et le "Progetto Accoglienza Rebbio" de Don Giusto della Valle, Côme (I), en 2017, en présence de Monseigneur Jacques Gaillot (F).

      Claude Braun & Michael Rössler : Un chrétien subversif – Cornelius Koch, l’abbé des réfugiés, Editions d’en bas, Lausanne, 2013.

    • Briançon : ville refuge à l’heure de la criminalisation de la solidarité

      Depuis 2015, la région de Briançon (Hautes-Alpes) est devenue un espace de tension migratoire, ce qui a valu à cette cité Vauban de 12 000 habitants d’être largement médiatisée à l’échelle nationale comme internationale. L’arrivée d’un nombre grandissant d’exilés depuis l’Italie à mesure que la frontière sud était militarisée a engendré un élan de solidarité parmi les citoyens briançonnais, dont certains ont récemment été jugés coupables « d’aide à l’entrée de personnes en situation irrégulière ». Les deux procès qui ont eu lieu à leur encontre au tribunal de Gap le 8 novembre 2018 et le 10 janvier 2019 témoignent de cette tension : les neuf accusés ont écopé de peines de prison avec sursis et de condamnations de plusieurs mois de prison ferme (cf. les communiqués de presse de l’Anafé et de La Cimade).

      ’étude menée par Aude Vinck-Keters en 2018 s’intéresse à l’accueil des exilés dans cette ville frontalière et cherche à identifier l’ensemble des acteurs briançonnais de cette solidarité envers les primo-arrivants ayant traversé la frontière franco-italienne par la montagne, mais également des demandeurs d’asile ayant souhaité s’installer dans la plus haute ville d’Europe. Si « la ville qui grimpe » a vu transiter par sa commune, et a accueilli en une année (juillet 2017 – juillet 2018) plus de 4 361personnes arrivant d’Italie, Briançon peut être considérée comme une ville-refuge au sens du refuge en montagne, c’est-à-dire un abri, un lieu-étape de repos et de transit pour continuer la course – et en l’occurrence ici, le parcours migratoire ; mais aussi un lieu d’accueil plus pérenne, un refuge au sens où des individus s’y installent sur un temps plus long, s’y mettent en sûreté pour échapper à une menace et y recherchent une protection internationale. Ainsi au sein de la région de Briançon, aux côtés des quelques dispositifs d’accueil établis par les autorités, s’est mise en place, avec plus ou moins de difficultés,une formidable mobilisation citoyenne soutenue par le pouvoir public local et notamment une municipalité qui s’est positionnée, sans hésitations, en faveur de l’accueil des exilés.

      Néanmoins, dans un contexte politique national et européen marqué par la volonté d’exclure les exilés de nos territoires et de nos frontières, par des politiques sécuritaires, de gestion de flux et de contrôle, celles et ceux que l’on appelle les « migrants » se voient criminalisés et ont bien souvent leurs droits bafoués, notamment en raison du choix pernicieux des autorités de chercher à distinguer les « bons réfugiés » des « mauvais migrants économiques ». Si les exilés sont criminalisés(car parfois assimilés à des « terroristes », des « profiteurs », des « envahisseurs », des « indésirables »), les personnes leur apportant un soutien le sont également. En effet, en Briançonnais, les personnes solidaires n’échappent pas aux contrôles, aux auditions, aux gardes-à-vue et aux poursuites en justice – l’exemple le plus probant étant le procès desdits « Sept de Briançon », suivi de celui de deux maraudeurs. Aussi s’agit-il ici de questionner l’accueil et la solidarité en Briançonnais à l’heure de la criminalisation des solidarités ; une criminalisation qui prend différentes formes et qui répond à une stratégie d’intimidation et de répression– en dépit de la décision du Conseil constitutionnel du 6 juillet 2018 consacrant le principe de fraternité –, en réponse à la théorie de « l’appel d’air » souvent défendue par certains responsables politiques.

      https://migrinter.hypotheses.org/category/retour-de-mission

    • Alpes du Sud : « #refus_d’entrée » pour les migrants, vers une évolution de la loi

      Le député (LREM) des Hautes-Alpes, Joël Giraud, a déposé deux amendements afin de répondre à des questions de droit difficilement applicables sereinement sur des territoires frontaliers en faveur des migrants mais aussi des forces de l’ordre.

      – Alpes du Sud -

      Actuellement discuté en commission, le texte sur la #loi_asile_et_immigration pourrait évoluer sur un point : le refus d’entrée en France. Dans un contexte du rétablissement des contrôles aux frontières intérieures, les #non-admissions ou #refus_d’entrée_d’étrangers ont fortement augmenté. En 2017, 85.408 personnes se sont vues notifier un refus d’entrer, soit une hausse de 34 %. Une pratique surtout mise en œuvre à la frontière franco-italienne, qu’a fait amender le député (LREM) des Hautes-Alpes Joël Giraud.

      « Les trous dans la raquette du droit sont aussi dangereux pour les personnes en détresse que sont les migrants, que pour les agents en charge de la sécurité publique », J.Giraud.

      Qu’est-ce que le refus d’entrée ?

      Lorsqu’un étranger arrive en France sans visa ou autorisation, il s’expose à un refus d’entrée sur le territoire français et pourra être placé en zone d’attente le temps pour l’administration d’organiser son retour vers son pays d’origine ou le pays d’où il provient. Une décision susceptible de recours du Tribunal administratif pour les étrangers qui ont fui leur pays pour demander l’asile en France. Ce dispositif mis en place en 2015, prévu essentiellement pour les aéroports et plus marginalement les gares internationales, a été entendu aux #frontières_terrestres.

      Mais le bât blesse dans des territoires, qui contrairement aux aéroports, n’ont pas de zones de rétention. « Cette imprécision juridique pouvait conduire à des interpellations très loin de la frontière. Là où considérer qu’une personne n’était entrée sur le territoire était parfois surréaliste », constate Joël Giraud.

      Dans un amendement, l’élu a proposé « une zone limitée aux communes limitrophes ou une bande de 10 kms par rapport à la frontière. » Le gouvernement en a accepté le principe, mais « le délimitera de manière précise par décret pour coller à la réalité du terrain. »

      Une attention particulière pour les personnes vulnérables

      Un deuxième amendement déposé par Joël Giraud fait écho aux situations dramatiques qui ont défrayé la chronique avec des personnes enceintes ou malades, à l’image de la jeune Nigériane ramenée en gare de Bardonecchia, enceinte et atteinte d’un lymphome, décédée peu de temps après à l’hôpital de Turin. Celui-ci prévoit « une attention particulière pour les personnes vulnérables, en insistant sur la situation des mineurs y compris accompagnés. »

      Joël Giraud rappelle que la vulnérabilité est définie par une directive de l’Union Européenne, transposée en 2015 en droit français qui dresse la liste exhaustive des personnes vulnérables (telles que les mineurs non accompagnés, les personnes handicapées, les personnes âgées, les femmes enceintes, les parents isolés accompagnés d’enfants mineurs, les victimes de la traite des êtres humains…) Preuve par l’exemple pour le député haut-alpin : « la précision sur les mineurs y compris accompagnés est utile devant, par exemple, les atermoiements, qui avaient conduit dans un premier temps à séparer à la suite d’un contrôle près de Briançon une femme en train d’accoucher, de son mari et de ses deux enfants mineurs, avant que les autorités nationales ne se ravisent. »

      Pour Joël Giraud, ces amendements seront « à la fois protecteurs de droits humains et des forces de l’ordre car les trous dans la raquette du droit sont aussi dangereux pour les personnes en détresse que sont les migrants, que pour les agents en charge de la sécurité publique, dont les missions doivent être définies non pas oralement, mais par des textes juridiques précis. »

      http://alpesdusud.alpes1.com/news/locales/67705/alpes-du-sud-refus-d-entree-pour-les-migrants-vers-une-evolution-
      #frontière_mobile #frontières_mobiles #10_km #zone_frontalière #bande_frontalière

    • Sulla rotta alpina con i migranti che cercano di entrare in Francia

      “Stiamo lasciando l’Italia, siamo quasi in Francia, ma sulle montagne in mezzo alla neve soffriamo il freddo. Abbiamo già passato la parte più dura delle frontiere, che è la Libia”, dice nel video Ousmane Touré, migrante ivoriano.

      Nel 2018 circa cinquemila persone hanno attraversato la frontiera tra Italia e Francia passando da Bardonecchia e dal Colle della Scala. Almeno tre persone sono morte lungo la traversata per ipotermia o perché si sono perse o sono cadute in un crepaccio. Nei primi mesi del 2019 ogni notte tra i dieci e i quindici migranti sono soccorsi sui sentieri che collegano Claviere, in Italia, al valico del Monginevro, in Francia. Nella maggior parte dei casi la gendarmeria francese li ferma e li riporta indietro sul versante italiano, operando di fatto dei respingimenti illegali di gruppo e non valutando le loro domande di asilo. Ma dopo qualche giorno i ragazzi riprovano ad attraversare la frontiera.

      https://www.internazionale.it/video/2019/04/12/rotta-alpina-migranti-francia-italia
      #vidéo

    • Angeli sotto accusa : quando la solidarietà diventa un crimine

      Chi lavora a contatto con i migranti è esposto a crescenti rischi di criminalizzazione. La denuncia arriva dalle Nazioni Unite, nell’ultimo rapporto sullo stato dei diritti umani l’ONU parla di un fenomeno globale che investe gli operatori della solidarietà in molte regioni del mondo ed è correlato alla chiusura delle frontiere. La preoccupazione è forte in tutta Europa, dove il tema dei migranti è terreno di scontro politico tra opposti estremismi.

      http://www.rainews.it/dl/rainews/media/angeli-sotto-accusa-1b555f32-1679-4b77-8820-13d564896233.html
      #Martine_Landry #solidarité #délit_de_solidarité

      Avec interview d’une représentante de Tous Migrants.

      Riccardo Noury parle de la naissance de la criminalisation des ONG (à partir de la minute 3’20) :

      "La criminalizzazione delle ONG è iniziata, per rimanere in questo decennio e per rimanere in Europa, in Russia con delle leggi contro le associazioni, sempre accusate di essere spie o agenti stranieri per il fatto di ricevere dei finanziamenti dall’estero. Poi questa legge è stata fotocopiata in Ungheria. Poi questa legge è stata promossa in Polonia. E oltre alle leggi che colpiscono tanto la libertà di associazione quanto singoli comportamenti di assistenza, c’è una deligittimazione fatta di titoli di giornale, fatta di dichiarazioni politiche. Io ricordo sempre quel giorno di aprile 2017 in cui gli ’angeli del mare’ diventarono coloro che, da un giorno all’altro, non salvavano più persone ma erano in commutta (?) con i trafficanti. E lì questa narrazioni è esplosa anche in Italia.

    • Les 7 des Briançon recevront le prix suisse « Alpes Ouvertes »

      Le prix suisse des droits humains « Alpes ouvertes » 2019 est remis aux « 7 de Briançon » en signe de reconnaissance et de remerciement pour leur engagement courageux dans le sauvetage de réfugié·es en montagne et dans la dénonciation des actes racistes et xénophobes. Nous avons décidé de décerner ce prix aux citoyens suisses Théo Buckmaster, Bastien Stauffer et à la citoyenne italienne Eleonora Laterza, dénommé·es les « trois de Briançon », et à quatre habitant·es des Alpes françaises – Mathieu Burellier, Benoît Ducos, Jean-Luc Jalmain et Lisa Malapert – dénommé·es les « quatre de Briançon ». Nous souhaitons ainsi épauler ces personnes engagées, tout en interpellant l’opinion publique sur le sort intenable des réfugié·es qui traversent les Alpes franco-italiennes. Historiquement, les Alpes ont souvent été un lieu de refuge pour les persécuté·es et les résistant·es. Aujourd’hui elles sont le dernier verrou de l’Europe Forteresse, de Vintimille (Italie) au Montgenèvre (France), au col du Brenner (Autriche), en passant par Chiasso (Suisse). Ouvrons les Alpes pour un accueil humain !


      https://alpternatives.org/2019/04/03/les-7-des-briancon-recevront-le-prix-suisse-alpes-ouvertes

    • Revue de presse de la #Grande_Maraude_Solidaire du 15 mars 2019

      https://gallery.mailchimp.com/f35dd1350edd04425c785ace6/files/b9a3f7fc-9d26-4124-81e6-b19136ec9331/Revue_de_presse.pdf

      #maraude_solidaire #Briançonnais #Briançon #migrations #solidarité #asile #réfugiés #frontière_sud-alpine #frontières

      Et deux vidéos :

      La Grande Maraude Solidaire - 15 mars 2019
      https://www.youtube.com/watch?v=plsJ1K9NNfc

      Transcription de quelques extraits :

      #Marie_Dorléans, Tous Migrants :

      « Pour nous il y avait 3 raisons professionnelles [d’organiser cette maraude solidaire] :
      – démontrer que notre solidarité est toujours intacte vis-à-vis des exilés quelque soit la forme d’intimidations qui peuvent essayer de décourager la solidarité et la fraternité, qui a été consacrée comme un principe constitutionnel récemment
      – on voulait soutenir pleinement l’action au quotidien, dans l’ombre des maraudeurs solidaires. Vous savez qu’il y a un certain nombre de maraudeurs qui sont intimidé, inquiétés, incriminés et condamnés (il y a eu des condamnations fermes, de la prison ferme, des amendes, du sursit, il y a 9 personnes qui sont dans ce cas-là actuellement, il pourrait y en avoir beaucoup plus). Chaque soir il y a 6 personnes qui partent en maraude. Ce sont des personnes qui, en plus d’aller sauver des vies, doivent se confronter très souvent à des contrôles, à des amendes.
      – qu’on se rappelle bien tous et qu’on martèle que nous sommes, non pas hors la loi, mais que nous sommes exactement dans la loi.

      Il y a certaines personnes qui mettent jusqu’à 3 jours pour traverser les 17 km qui séparent Clavière, du côté italien, à Briançon. 3 jours ça fait pas une grosse moyenne à l’heure en marchant. Il y a la neige, mais il n’y a pas que ça. Il y a le fait d’être terrorisé, de devoir se cacher, de devoir échappé aux traques policières. Et il y en a beaucoup qui sont refoulés 1 fois, 2 fois, 3 fois et qui finissent par passer. Ce qui signifie aussi qu’on pourra mettre toutes les frontières qu’on veut, quand des personnes sont désespérées, ce ne sont pas les frontières ou les dangers qui les arrêtent. Certaines ont évité de justesse la mort et les amputation grâce à l’intervention des secours en montagne ou des pompiers mais beaucoup d’entre elles garderont des séquelles physiques ou psychologiques évidemment.

      Au-delà de ces personnes qui ont survécu et échappé au pire, on voulait absolument rappeler aussi aujourd’hui celles qui n’ont pas eu cette chance et notamment parce qu’il faut pas s’habituer, parce qu’il ne faut pas que ces gens tombent dans l’anonymat. Le 7 février 2019, Tamimou, un jeune togolais de 28 ans, est mort d’épuisement et de froid au bord de la route nationale que la plupart d’entre vous viennent de monter. »

      #Joël_Pruvot, Refuge solidaire :

      "Notre mission c’est de proposer un temps de repos, une pause de quelques jours dans le long et dangereux voyage qui mène les exilés d’Afrique en Europe. Nous offrons le gîte et le couvert en lieu et place de l’Etat dont c’est pourtant la responsabilité pleine et entière. Le premier accueil c’est ce qu’on appelle une compétence régalienne. Nous assurons aussi le suivi médical des arrivants. Et là nous sommes de plus en plus inquiets. En effet, nous constatons une augmentation continue des personnes épuisées, en état de fatigue extrême, d’hypothermie, qui présentent des gelures et des blessures graves, que nous sommes obligés d’amener à l’hôpital.

      #Juliette_Delaplace, secours catholique :

      "Nous ce qu’on souhaiterait c’est que derrière le terme ’management des migrations’, ’gestion des flux’, ’sécurisation des frontières’ on se hisse à la hauteur d’hommes et de femmes qui sont en fait des géants et qu’on s’approche d’eux comme humains de manière fraternelle.

      #Pâquerette_Forest, SOS Alpes solidaires :

      « Ils marchent quelques fois avec google maps sur le portable, si le portable fonctionne, parce que si il fait trop froid ils n’ont plus de batterie, et au bout d’un moment ça marche plus. Après il y a un peu des traces de gens qui se promènent et du passage quand il y a des gens qui passent tous les jours, donc ça peut aussi les aider. Après ils se repèrent aux lumières des villages. #Tamimou qui est décédé, il a perdu ses bottes au-dessus de La Vachette. Ils ont coupé, et on a bien compris qu’au début ils étaient sur une espèce de piste et puis à un moment ils ont coupé la piste et ils avaient de la neige jusque là [elle montre la hauteur de la neige avec ses mains sur les jambes, on ne voit pas sur la vidéo]. Lui il a perdu ses bottes, après ils ont essayé de le porter, et puis il était épuisé et puis il est mort »

      Un maraudeur :

      « On trouve des personnes qui ne sont pas toujours en bonne santé : le froid, l’eau, ils n’ont pas forcément mangé depuis un petit moment. En général on a du thé et de quoi les faire manger un petit peu. Il n’y a pas de règles. C’est-à-dire que si vous savez... En général il y a des décisions qui se prennent vers minuit-une heure du matin, mais si vous savez qu’il y a encore du monde dans la montagne, vous ne rentrez pas forcément facilement »

      Une maraudeuse :


      « Si on ne veut pas se faire repérer, avec les lumières qu’il y a, c’est quand même extrêmement compliqué. »

      Autre maraudeur sur la présence policière et la difficulté à la fois du passage pour les exilés et d’apporter de l’aide par les maraudeurs :

      « Là-bas il y a un phare qui éclaire sur je ne sais pas combien... ils ont les motoneiges... Si nous on le fait à pied, il nous faut un quart d’heure ou 20 minutes... eux... ça veut dire que quand bien même vous pensez avoir potentiellement recueilli des personnes... tac... ça débarque ici et... voilà »

      Une participante à la maraude solidaire qui dit, en s’adressant à un policier :

      « Et on sait qu’il y a des gens qui sont très très bien et qui respectent les migrants aussi. On a de beaux témoignages aussi »

      Mauraudeuse :

      "Il y en a qui se cachent dans la neige pour échapper aux flics et qui restent parfois plus d’une heure. Tu imagines, dans un trou, recouvert de neige ? Et du coup il y a le stress de pouvoir aider les exilés, parce que clairement ils prennent de gros risques. Tu sais qu’il y en a 10 qui sont descendus du bus à Claviere. Tu essaies de trouver les 10. Il faut les trouver. Et tu restes jusqu’au bout tant que tu n’as pas trouvé tout le monde. Un soir il y en a 53 qui sont partis et il fallait être surs que les 53 arrivent à Briançon sains et saufs. Des fois tu passes toute la nuit là-haut. Tu rentres chez toi à 3 heures du matin. Et si il y en a un que tu n’as pas pu aider, tu penses à celui-là et tu ne dors pas.

      –---------
      MARAUDE TOUS MIGRANTS - Mars19
      https://www.youtube.com/watch?v=UF0MfYBTlRI

    • Vidéo sur Facebook :
      AU COL DE MONTGENÈVRE LORS DE LA REMISE DU PRIX ALPES OUVERTES UN DES SEPT DE BRIANÇON INTERPELLE LES FORCES D’UN ORDRE ARBITRAIRE

      Ici la transcription d’une partie du discours, la partie qui a été enregistrée sur cette vidéo :

      Est-ce un jeu de contribuer au gaspillage de dizaines de milliers d’euro chaque jour pour contrôler cette frontière lorsqu’on sait pertinemment que cela ne sert à rien ? Est-ce un jeu de poursuivre cette politique absurde qui perpétue la souffrance et ne peut conduire qu’au pire ? Est-ce un jeu de n’être qu’un pion dans la mise en scène du risque d’invasion, pour s’employer à convaincre que la migration est une menace et qu’on y fait face ? Est-ce un jeu de continuer à rester sourd aux dangers et souffrances que la politique que vous appliquez engendre ? Et de répondre ainsi aux injonctions de quelques nantis dont la préoccupation consiste seulement à préserver la sécurité de leur fortune personnelle, la permanence de leurs privilèges, à nourrir leurs appétits de puissance et de dividendes, à poursuivre le pillage de la planète et l’appropriation de tous les biens communs ? Est-ce un jeu de n’avoir à proposer en guise de réponse que la violence, l’intimidation, la criminalisation, le rejet, le découragement, ou est-ce un aveu de faiblesse ? Non, ce n’est pas un jeu, il ne tient qu’à vous d’avoir le courage de l’arrête. Ce qui se passe est sérieux ici. Ce n’est pas un jeu d’avoir à ce cacher de la police comme on se cacherait d’une milice alors qu’on est juste là pour sauver des vies. Ce n’est pas un jeu de dénoncer ce système dont cette frontière est l’avant-goût parce que c’est la réalité. Un système qui a juste décidé de dégoûter des gens de venir en France en leur rendant la vie invivable. Un système qui vise juste à créer, jusqu’en France, des conditions encore pire que dans les pays d’origine de ces exilés. Un système qui sans cesse détruit le moindre abri, remet les personnes à terre et organise leur découragement. Ce n’est pas un jeu non plus de dénoncer la répartition géographique entre des lieux de misère et des lieux d’abondance, entre des ayants-droit et des sans-droits. Parce que cette misère est le résultat de la construction de systèmes de production inéquitables, de rapports de domination parfaitement intentionnels."

      https://www.facebook.com/alex.robin.7505/videos/10216193363258819

      Le texte complet

      Remise du Prix Alpes Ouvertes : « Ce n’est pas un jeu ! » la déclaration de #Benoit_Ducos

      Un prix décerné à 7 personnes condamnées en France, par le tribunal de Gap, pour leur engagement courageux dans le sauvetage des refugiés et la dénonciation d’actes racistes et xénophobes, remise par une organisation suisse, sur le territoire français. On croit rêver. Dans ce pays qui arbore pourtant si fièrement les mots Liberté, Egalité, Fraternité et République Française, les Autorités ne récompensent pas ce genre d’action, mais la condamne. Par contre, le chef de l’Etat se permet de donner des leçons de droits de l’homme au monde entier :

      « Nous avons des valeurs, chaque fois que nous les avons trahies nous avons créé le pire. C’est le respect des droits de l’homme, de l’individu, des autres Etats et de leur intégrité qui nous lie. »

      « Pour les persécutés et les combattants de la liberté, je serais intraitable. Ils doivent être accueillis sur notre territoire. Les laisser errer de frontière en frontière ce n’est pas la France. »

      Ces mots révèlent la façon dont l’Etat français s’accommode avantageusement de valeurs qu’en réalité il piétine.

      Il en est de même de la foule de textes et de pactes internationaux, de directives européennes que la France se vante d’avoir signé, qui fondent une éthique de la solidarité et de l’humanité, mais qui ne sont plus que des mots vidés de leur sens parce qu’elle les invoque juste pour faire oublier qu’elle ne les respecte pas.

      Nous sommes là parce que la politique migratoire de ce pays, prétendument des plus avancés et respectueux des droits de l’homme, voire mythifié comme terre d’asile, touche en réalité un véritable seuil de barbarie consciente et déterminée.

      « Plus que des mots, des valeurs qui font la France. » nous dit-on encore : et bien, oui, nous sommes parfaitement conscients et fiers de la faire la France, en allant à la rencontre de personnes qui franchissent nos montagnes au péril de leur vie pour venir chercher un peu de paix, en leur donnant à manger et à boire, en leur donnant des vêtements chauds, en leur proposant de retrouver un peu de dignité, en défendant leurs droits, en dénonçant des actes racistes et xénophobes, en nous offusquant de la violence dont elles sont victimes, en les secourant lorsqu’elles sont en difficulté, en leur offrant un abri lorsqu’elles sont mises en danger, en ne les laissant pas au bord de la route, comme nous le ferions ou le faisons pour n’importe qui d’autre.

      Depuis son rétablissement en 2015, cette frontière broie de l’humain, pousse les corps et les esprits à bout, dit non à la vie qui vient.

      Les personnes migrantes y voient leurs droits bafoués, se font dépouiller de leur argent, subissent des pressions psychologiques qui visent à les décourager, sont délaissées sur la voie publique alors que leur état nécessiterait des soins voire une hospitalisation, sont traquées et prises en chasse comme du gibier, sont accueillies, à coup de matraques, à coup de pied, à coup de poings, à coup de menaces, d’insultes, de guets apens, sont mises en danger, voire poussées vers des parcours mortels.

      Répondre à leurs SOS est un devoir, cela s’appelle de l’assistance à personnes en danger.

      Nous l’avons entendu cet hiver de la part de policiers et gendarmes en service en train de nous traquer, sans doute bien briefés par leurs supérieurs :

      « De toute façon, on va finir par tous vous avoir. »

      « Ici c’est grillé, il va falloir trouver un autre endroit. Quand vous l’aurez, nous le trouverons aussi et il faudra de nouveau changer. C’est le jeu. »

      Mais est-ce un jeu que cette répétition systématique d’actes de violence, d’humiliations, de vols, de graves atteintes aux droits, de chasse à l’homme, de menaces envers des personnes qui ont la peau noire ou bien est ce que cela porte un nom ?

      Est-ce un jeu que de contrarier les opérations de secours et de mise à l’abri de personnes vulnérables, de jouer avec des vies au risque de les mettre en danger comme on joue avec des pions ?

      Est-ce un jeu de prendre l’aspect de randonneurs afin que les exilés s’enfuient lorsque des solidaires sont là pour leur porter assistance ?

      Est-ce un jeu lorsque dans le froid de la nuit du 6 au 7 février 2019 Tamimou s’efface ?

      Est-ce un jeu que de réprimer et décourager les solidarités, et les idéaux de fraternité et d’humanité, de nous intimider, de nous harceler, de nourrir l’ambition de nous avoir tous ?

      Est-ce un jeu de croire que se feront avoir ceux qui défendent des valeurs d’égalité et non pas ceux qui décident et se rendent complices de l’hécatombe quotidienne en Méditerrannée et en Libye, ceux qui décident et se rendent complices de la mise en œuvre de politiques inhumaines et de rejets, ceux qui l’auront pour toujours sur la conscience, tandis que l’histoire révélera à leurs enfants ces pratiques criminelles d’élimination ?

      Est-ce un jeu que d’être les instruments d’un laboratoire du recul des droits fondamentaux qui progressivement nous touche toutes et tous, faisant vaciller l’Etat de droits et agoniser la démocratie ?

      Est-ce un jeu que d’être les serviteurs d’un véritable dispositif de guerre disproportionné face à des personnes totalement désarmées à tous les sens du terme ou bien est ce juste inhumain et honteux ?

      Est-ce un jeu de contribuer au gaspillage de dizaines de milliers d’euros chaque jour pour contrôler cette frontière lorsqu’on sait pertinement que cela ne sert à rien ?

      Est-ce un jeu de poursuivre cette politique absurde qui perpétue la souffrance et ne peut conduire qu’au pire ?

      Est-ce un jeu que de n’être qu’un pion dans la mise en scène du risque d’invasion pour s’employer à convaincre que l’immigration est une menace et qu’on y répond ?

      Est-ce un jeu que de continuer à rester sourds aux dangers et souffrances que la politique que vous appliquez engendre et de répondre ainsi aux injonctions de quelques nantis dont la préoccupation consiste seulement à vouloir préserver la sécurité de leurs fortunes personnelles et la permanence de leur bien être, à vouloir nourrir leurs appétits de puissance et de dividendes, à poursuivre leur pillage de la planète et leur appropriation de tous les biens communs.

      Est-ce un jeu que de n’avoir à proposer en guise de réponse que la violence, l’intimidation, la criminalisation, le rejet, le découragement, ou est ce un aveu de faiblesse ?

      Ce qui se passe ici est sérieux.

      Ce n’est pas un jeu d’avoir à se cacher de la Police comme on se cacherait d’une milice alors qu’on est là juste pour sauver des vies.

      Ce n’est pas un jeu de dénoncer le système dont cette frontière est l’avant goût parce que c’est la réalité. Un système qui a juste décidé de dégoûter des gens de rester en France en leur rendant la vie invivable, qui vise juste à créer, jusqu’en France, des conditions encore pire que les pays d’origine des exilés, un système qui sans cesse détruit le moindre abri, remet les personnes à terre, organise le découragement, le fait qu’elles n’arrivent jamais, qu’il leur faudra sans cesse recommencer.

      Ce n’est pas un jeu de dénoncer la partition géographique entre des lieux de misère et des lieux d’abondance, entre des ayant droits et des sans droits.

      Parce que cette misère est le résultat de la construction de système de production inéquitables, de rapports de domination parfaitement intentionnels, institués et entretenus.

      Parce que les exemples sont sans fin de cette construction de la misère du fait de la destruction du tissu économique et social et des écosystèmes par les anciennes puissances coloniales qui deviennent les pays de destination d’éxilés dont elles ont participé à rendre invivable le territoire d’origine et qui mettent en œuvre, chez elles, une politique visant à rendre à ces mêmes exilés la vie invivable sur leurs sols.

      Parce que les situations que fuient ces exilés, ce sont bien les nations riches qui les ont créées et qui continuent à les entretenir en négociant des accords de vente d’armes avec les dictateurs de la plupart des anciennes colonies françaises, en négociant et en imposant des accords de partenariats qui ne visent qu’à créer les conditions économiques les plus favorables possibles aux entreprises françaises, en mettant en place une aide au développement qui a pour but de conquérir des marchés plutôt que d’offrir des perspectives d’avenir aux jeunes de ces pays juste parce que ces pays ont toutes les ressources dont la France peut rêver.

      Parce que jamais la richesse ne s’est autant concentrée aux mains de quelques uns mais hors d’atteinte de presque tous alors qu’elle est faîte par tous.

      Parce que dans un monde où tout le monde voit tout le monde, ne cesse de se comparer à l’autre, nul pourra se voir interdire de penser que sa situation pourait être plus enviable ailleurs et de tenter sa chance.

      Ce n’est pas un jeu que de rappeler qu’une autre politique est possible, une politique qui avance des réponses de justice, de solidarité et d’égalité et non des réactions de rejet et d’indifférence qui font de l’Europe la destination du monde la plus meurtrière pour ceux qui cherchent un peu de liberté et de bonheur.

      Ce n’est pas un jeu de rappeler que nous partageons tous une seule et même planète et de prendre conscience que les migrations ne sont que l’une des manifestations de la vie sur cette planète et des menaces qui peuvent l’assaillir.

      Ce n’est pas un jeu de dénoncer que nombre de ces menaces révèlent l’impasse d’un système industriel et financier ultralibéral qui pille et pollue la planète, affaiblit les peuples et les dispositifs sociaux et accroît les inégalités.

      Ce n’est pas un jeu de penser que tout celà appelle à l’invention d’un devenir radicalement autre dans lequel une politique du soin porté aux individus permettra à chacun de se construire une personne, des personnes qui justement prendront soin à leur tour des biens communs à commencer par cette planète.

      Ce n’est pas un jeu de dire que nous pensons qu’il est possible de faire place, de faire vraiment entrer des vies dans notre espace, d’en faire cas parce qu’elles ont quelque chose à nous dire de ce monde, de qu’elles sont et de ce qu’elles souhaitent. De penser qu’il est possible que le vivre ensemble l’emporte sur la peur de se faire remplacer, que la responsabilité et le partage l’emportent sur l’autorité et l’ordre.

      Ce n’est pas un jeu de dire notre vision d’un monde que nous voudrions plus juste ,moins abîmé, d’ invoquer un principe de commune humanité, de vouloir organiser le défi d’un monde partagé et d’accompagner dans la recherche d’un sol durable des gens qui viennent à nous,

      Non ce n’est pas un jeu que de penser le monde de demain, c’est juste faire preuve de responsabilité.

      Pour toutes ces raisons , nous voilà récompensés, en 2018 du Prix Méditerranée de la Paix puis du Prix Suisse des Droits Humains aujourd’hui, ici au pied du Mont Janus et du massif du Chenaillet qui, du haut de leurs 2600 m, ont comme un message à nous envoyer…

      Le Dieu romain Janus est un dieu assimilé au passage, le Dieu ouvreur des portes, des voies, le Dieu des départs et des retours, de tous les possibles.

      Janus est représenté portant une clé pour ouvrir les portes et un bâton pour indiquer le chemin au voyageur.

      Indiquer le chemin au voyageur ! Voilà qui pourrait être source d’inspiration à la fois dans cete station qui communique pour attirer les vacanciers sur le thème ‘Montgenèvre, lieu de passage depuis l’antiquité’ et pour les forces de Police affectées ici aussi car les refoulements et les délivrances immédiates de refus d’entrée sont illégaux.

      Indiquer le chemin reste donc la seule solution pour ne pas contrevenir à la loi.

      Janus est également représenté sous la forme d’un personnage à deux visages opposés. L’un qui regarde derrière lui, vers le passé, l’autre qui regarde devant lui, vers l’avenir. Car, oui, pour bien savoir où l’on va, il faut se souvenir d’où l’on vient et notamment qu’il y a seulement 6000 ans tous nos ancêtres avaient encore la peau foncée, que nous sommes donc bien tous migrants.

      Le massif du Chenaillet est connu des géologues du monde entier pour être un fossile de l’Océan Alpin. On trouve sur ses pentes des basaltes en coussin, les mêmes que ceux qui se forment encore au fond des océans : ces endroits où le basalte remonte à la surface et se fige au contact de l’eau sont reconnus comme des lieux ayant joué un rôle essentiel dans l’apparition de la vie sur terre.

      Tout ça pour dire que la vie ne tient qu’à un fil, à un peu de roche fondue qui remonte des profondeurs et que cela devrait inciter à en prendre, ici comme ailleurs, le plus grand soin.

      Pour terminer, je ne peux m’empêcher de penser au courage dont font preuve aussi sur ce territoire, les habitants solidaires, solidaires d’autres personnes qui ont du quitter leur pays et qui cherchent un coin de terre où elles pourront enfin vivre en paix..

      Au courage dont font preuve toutes les personnes qui les secourent, les transportent, les accueillent, les aident, leur cuisinent un repas, les hébergent, lavent leur linge, les soignent, les aident à trouver des formations.

      Au courage dont font preuve les associations Tous Migrants, Marcel Sans Frontières, Refuge Solidaire, le Secours Catholique, le Secours Populaire, mais aussi Emmaûs, l’ANAFE, la CIMADE, Médecins du Monde, Amnesty International et toutes les autres qui nous soutiennent.

      Au courage dont font preuve nos amis italiens qui les accueillent à Oulx.

      Au courage de certains élus locaux, trop rares, à celui des secouristes, des professionnels de santé, des commerçants, des artisans qui apportent leur contribution en protégeant, en secourant, en soignant, en apportant de la nourriture, en dépannant un équipement.

      Au courage de ceux qui sont devenus bénévoles dans nos lieux d’accueil et qui s’occupent de leurs frères lorsqu’ils arrivent et ont besoin de prendre un peu de repos.

      Au courage de ceux qui, ayant continué leur chemin, se heurtent à des murs.

      Au courage de tous ceux qui depuis des mois arrivent de toute la France et parfois même de l’étranger pour nous aider. Je pense tout particulièrement à la FSGT, à la Fanfare Invisible, au réseau Semences Paysannes, aux Syndicats, à nos amis de la Montagne Limousine, du Trièves, de la région stéphanoise, marseillaise, bordelaise, de Hollande, d’Espagne…

      Au courage de tous ceux qui sont tout autant méritant que nous 7.

      C’est un prix pour nous tous, pour nous encourager tous sur ce chemin de résistance, continuer à être nous mêmes et ne pas devenir les serviteurs dociles d’un Etat qui bafoue les droits fondamentaux et devient de plus en plus répressif..

      Tant qu’il y aura des frontières policières, administratives, économiques qui tuent, des procureurs, des juges, des préfets et des ministres irresponsables, il y aura toujours des délinquants solidaires en bande organisée pour enrayer la machine à broyer de l’humain, pour incarner des oasis de résistance dans un désert d’humanité.

      Benoit Ducos (l’un des 7 de Briançon)

      https://alpternatives.org/2019/04/24/remise-du-prix-alpes-ouvertes-ce-nest-pas-un-jeu-la-declaration-de-be

    • A Montgenèvre, maraude aux confins de la République pour venir en aide aux migrants

      Ce col des Hautes-Alpes est un des tout derniers points de passage vers la France pour les exilés – majoritairement originaires d’Afrique de l’Ouest – qui quittent l’Italie du populiste Matteo Salvini.

      Au crépuscule, la frontière offre au regard de Mila* un paysage incertain avec ses taches d’ombres, de brume et de neige. Cachée sous un rocher moussu, elle peut voir, derrière un col encore enneigé, percer les lumières de Clavière, premier village italien. C’est de là que doivent arriver dans la nuit trois hommes originaires d’Afrique de l’Ouest qui souhaitent rejoindre la France. Cette nuit, Mila, 37 ans, est de maraude.

      Arrivée récemment dans la région, elle a rejoint un collectif informel et changeant, sans liste de membres ni chef, qui, de nuit en nuit, dans la vallée de la Durée, veille pour indiquer le chemin aux migrants perdus, faire en sorte qu’ils atteignent leur destination, la ville voisine de Briançon. Si ces derniers sont interceptés par les gendarmes armés de fusils d’assaut et de lunettes thermiques, déployés aux alentours, ils seront renvoyés de l’autre côté, sans avoir pu demander l’asile.


      https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/05/05/a-montgenevre-maraude-aux-confins-de-la-republique-pour-venir-en-aide-aux-mi
      #paywall

    • #Blessing, migrante noyée dans la Durance : des mois de silence et un dossier en souffrance

      Il y a un an, le corps de #Blessing_Matthew était retrouvé contre un barrage des Hautes-Alpes. La Nigériane, qui venait de franchir la frontière, fuyait une patrouille de gendarmes. Le parquet a écarté lundi leur responsabilité, ce que contestent sa sœur et l’association Tous migrants.

      C’était il y a un an. Le 7 mai 2018, Blessing Matthew s’est noyée dans la Durance à La Vachette (Hautes-Alpes), un lieu-dit de Val-des-Prés situé sur la route de Briançon. Cette Nigériane de 20 ans venait juste de passer la frontière franco-italienne, de nuit, en groupe et par les sentiers, dans le secteur du col de Montgenèvre. Selon ses compagnons de traversée, la dernière fois qu’elle a été vue, peu avant l’aube, elle était poursuivie par les forces de l’ordre, boitillante, épuisée et terrifiée, sur les berges du torrent en crue printanière. Le 9 mai, son corps est retrouvé à dix kilomètres en aval, flottant contre un barrage EDF du village de Prelles. La jeune femme ne porte plus que sa culotte, un anneau d’argent et un collier avec une pierre bleue. C’est le premier cadavre retrouvé depuis le début de l’afflux de migrants à la frontière des Hautes-Alpes, en 2016. Depuis, les corps de trois autres Africains ont été découverts dans la montagne. L’histoire de Blessing est pourtant une tragédie à part. Parce que c’était une femme, alors qu’elles sont ultra-minoritaires sur la frontière, parce que c’était la première victime, et parce que les conditions de sa mort restent troubles.

      Le 25 septembre 2018, sa sœur aînée, Christina, qui vit en Italie, pays dont elle a la nationalité, porte plainte « contre X, pouvant être les représentants de l’autorité publique » pour « homicide involontaire, mise en danger de la vie d’autrui et non-assistance à personne en danger ». Depuis, le parquet de Gap, à l’exception d’une demande d’identité de témoins cités dans la plainte, ne s’était plus manifesté. Sept longs mois de silence donc. Jusqu’au classement sans suite, lundi soir, par le procureur de la République de Gap, Raphaël Balland, de l’enquête « pour recherche des causes de la mort » ouverte à la découverte du corps.

      Confiée aux gendarmes de Briançon et à ceux de Marseille pour la partie « tentative d’interpellation » de Blessing, l’enquête a conclu « à l’absence d’infraction » de la part des gendarmes mobiles. La plainte de Christina, reçue « en phase de clôture de l’enquête » n’a pas changé sa nature, ni donné lieu à la saisine de l’Inspection générale de la gendarmerie, détaille le procureur : « Les gendarmes n’ont distingué que trois silhouettes dans la nuit, sans déceler qu’il y avait une femme » et « n’ont pas entamé de course-poursuite mais ont mis en œuvre un dispositif de recherche des trois migrants dans la zone de fuite. »

      Trop tard et trop peu pour Christina et l’association briançonnaise Tous migrants : elles se sont constituées partie civile auprès du doyen des juges d’instruction du tribunal de Gap, comme le permet la loi lorsque le parquet ne donne pas suite à une plainte dans un délai de trois mois. Maeva Binimelis, du barreau de Nice, signe la nouvelle plainte au nom des trois avocats de Christina et de Tous migrants.

      L’ouverture d’une instruction, désormais incontournable, permettra aux parties civiles d’avoir accès à l’enquête : « J’ai des doutes sur sa qualité. Le parquet a-t-il fait tout ce qui était en son pouvoir ? » interroge l’avocate. Christina, « terriblement choquée », veut « éclaircir les zones d’ombre. Que s’est-il passé cette nuit-là ? Est-ce un accident ? Quel rôle ont joué les forces de l’ordre ? »
      Lampes torches

      La nouvelle plainte s’appuie sur une version différente de celle des enquêteurs, établie par le travail des militants de Tous migrants, mobilisés dès la découverte du corps. Ils retrouvent Roland, l’un des compagnons de Blessing, Nigérian lui aussi, au principal lieu d’accueil de Briançon, celui de l’association Refuges solidaires qui a accueilli 8 550 migrants depuis juillet 2017. Roland leur raconte que Blessing, épuisée, Hervé (un troisième Nigérian) et lui-même ont été surpris par cinq « policiers » vers 5 heures du matin après avoir marché toute la nuit. Lampes torches allumées près d’eux, ils crient « police ! » Les trois Nigérians détalent vers La Vachette, en contrebas. Roland se cache à l’entrée du hameau, voit les autres s’enfuir et les forces de l’ordre patrouiller longuement avant de partir. Si Roland n’a pas été arrêté, Hervé a été interpellé ce matin-là puis reconduit à la frontière, selon le monde opératoire classique dans les Hautes-Alpes : 1 899 « non-admissions » en 2017, 3 409 en 2018, et 736 déjà en 2019 selon la préfecture, en application de la règle européenne prévoyant que les demandes d’asile doivent être faites dans le premier pays d’arrivée.

      Tous migrants localise Hervé dans un camp de Turin et son témoignage, recueilli par l’avocat italien de Christina, confirme et précise celui de Roland. Les « policiers » qui « leur courent après » ont leurs armes à la main et menacent de tirer, assure-t-il. Caché en contrebas de l’église, au-dessus de la Durance, il aperçoit Blessing sur l’autre rive, accroupie dans un pré, des lampes torches allumées non loin d’elle. Repéré, il s’enfonce dans des taillis et ne la voit plus, mais il l’entend crier et appeler à l’aide pendant plusieurs minutes. Puis plus rien. Les « policiers » continuent à chercher sur la rive.

      Un troisième témoin rencontré par Tous migrants, J., séjournant dans un gîte à proximité, a été réveillé au petit matin par un « déploiement impressionnant » : des ordres sont criés, trois utilitaires de la gendarmerie sont stationnés dans la rue, une dizaine de gendarmes fouillent les jardins, les abords de la rivière. Michel Rousseau, pilier de Tous migrants, détaille ce recueil de témoignages, mission habituelle de l’association : « Ces témoins, choqués mais clairs dans leurs propos, nous ont parlé en toute connaissance de cause. Nous avons vérifié leurs récits sur les lieux. Tout se tient. » Dès le 14 mai 2018, l’association alerte le procureur, par signalement. Ses militants, puis Roland, sont ensuite entendus par les gendarmes. L’association, en parallèle, dénonce publiquement « les pratiques policières révoltantes reposant sur des guets-apens et des courses poursuites ». Ce signalement auprès du procureur avait été le premier. Depuis, Tous migrants, sous l’égide de Me Binimelis, en a déposé huit autres, reprochant aux forces de l’ordre violences, délaissements de personnes vulnérables, faux en écriture publique, destructions de documents, vols, injures à caractère racial… Deux victimes ont même porté plainte pour « violences aggravées » et « vol aggravé ».

      L’avocate explique que le parquet ne lui a fait part d’aucune prise en compte de ces signalements et plaintes. « Il y a pour moi deux poids et deux mesures : pour les militants solidaires, la machine pénale va jusqu’au bout, mais lorsqu’on suspecte des représentants de la force publique, aucune suite ne semble être donnée. » Depuis un an, 10 militants solidaires ou maraudeurs ont été condamnés à Gap pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire », dont deux, à de la prison ferme.
      « Mise en danger »

      Contacté par Libé , le procureur de Gap assure que « la totalité des signalements et plaintes a été traitée », donnant lieu soit « à des vérifications auprès des services potentiellement concernés », soit « à l’ouverture d’enquêtes préliminaires », dont il ne précise pas la nature, soit à leur ajout« à d’autres procédures en cours ». Il déplore la « posture » de Tous migrants qui consiste à lui fournir des « éléments quasi inexploitables : des témoignages anonymes, ne permettant pas d’identifier les forces de l’ordre visées ».

      Hervé, le témoin clé concernant Blessing, n’a ainsi pas été entendu, explique le procureur qui regrette que Tous migrants ne lui ait pas communiqué « les éléments du témoignage » de cet homme et son identité complète. Les enquêteurs l’avaient joint par téléphone au début de l’enquête mais il avait « refusé de revenir en France pour témoigner », dit le procureur…

      Sur la même période, les témoignages d’infractions commises par les forces de l’ordre, en particulier de par la police aux frontières, se sont multipliés. Les chasses à l’homme - ou « chasses au Noir », comme le lâche Maeva Binimelis - n’ont par ailleurs jamais cessé. « C’est tous les jours, à pied, en quad ou à motoneige, avec des jumelles infrarouges et même des chiens parfois », détaille un maraudeur briançonnais. La Commission nationale consultative des droits de l’homme, institution officielle venue en inspection à Briançon, a invité l’Etat, en juillet, à « prendre immédiatement les mesures qui s’imposent à la frontière franco-italienne pour mettre fin aux violations des droits fondamentaux et aux pratiques inhumaines », à « sortir du déni » et à « modifier radicalement sa politique responsable de la mise en danger d’êtres humains ». La préfecture des Hautes-Alpes indique que « ce rapport à portée nationale n’appelait pas de réponse locale, même si certains faits, appréciations et interprétations pourraient être discutés ».

      Treize ONG, menées par Amnesty et l’Anafé, ont lors d’une mission en octobre récolté « de nombreux témoignages de violation des droits […] et de menaces proférées par les policiers » et déposé 11 référés-liberté, dont 8 pour des mineurs isolés refoulés. La préfecture fustige ce rapport « outrancier et erroné », assurant que les forces de l’ordre « exercent leurs missions dans le strict respect de la loi » et ont « pour consigne constante de considérer en toutes circonstances l’état de vulnérabilité des personnes ». Elle ajoute que signalements et plaintes sont du ressort de la justice et qu’elle n’en a « pas été destinataire ». Michel Rousseau gronde : « Ce qui se passe ici révèle la violence directe, brutale et barbare de notre système. »

      Dans un recoin du cimetière de Prelles, à l’écart, Blessing repose sous un tumulus de terre. Il y a toujours des fleurs fraîches sur sa tombe.

      https://www.liberation.fr/france/2019/05/07/blessing-migrante-noyee-dans-la-durance-des-mois-de-silence-et-un-dossier

    • Cet article qui date de juin 2018 (signalé par @reka), bizarrement pas recensé sur seenthis (car le petit triangle ne devient pas plein quand je mets l’URL) :

      Dans les Alpes, la fonte des neiges révèle les corps de migrants morts en tentant de passer en France

      Des riverains et l’association Tous migrants se battent pour comprendre le parcours des victimes, retrouver leur identité et pouvoir leur offrir une sépulture.


      https://www.lemonde.fr/societe/article/2018/06/07/dans-les-alpes-la-fonte-des-neiges-revele-les-corps-de-migrants-morts-en-ten

      #paywall

    • Austrian far-right leader searched on suspicion of forming terrorist group with #Christchurch shooter

      Investigation widens to include #Martin_Sellner ’s fiancee #Brittany_Pettibone following her contact with Australian far-right figure #Blair_Cottrell

      https://www.theguardian.com/world/2019/jun/26/austrian-far-right-leader-searched-on-suspicion-of-forming-terrorist-gr

      Pourquoi j’ajoute cette nouvelle à ce fil de discussion ?

      Car...

      Ils étaient ts les 2 presents pour bloquer le Col de l’échelle en avril 2018,a l’époque le procureur avait classé l’affaire en 2h


      https://twitter.com/nos_pas/status/1144210049331552259?s=19

    • Nos associations saisissent des instances au niveau national et international pour que cessent les atteintes aux droits à la frontière franco-italienne

      Malgré les nombreuses alertes de nos associations, les violations des droits fondamentaux des personnes en migration se poursuivent à la frontière franco-italienne, de Menton à Briançon. Afin que cessent ces atteintes inacceptables, nos associations font aujourd’hui appel au procureur de la République de Nice ainsi qu’au rapporteur spécial des Nations unies sur les droits de l’homme des migrants.

      Privation illégale de liberté

      Fin juin 2019, treize signalements ont été déposés auprès du procureur de Nice par l’Anafé, Oxfam, WeWorld et Iris. Ces signalements concernent la privation illégale de liberté dont font l’objet des personnes avant leur refoulement en Italie. En effet, chaque soir, des personnes sont enfermées toute la nuit, dans des Algeco attenant au poste de la police aux frontières de Menton. Ces Algeco sont des containers de 15 m2 dépourvus de mobilier pour s’allonger, où des dizaines de personnes peuvent être maintenues en même temps, privées de nourriture, pendant des durées dépassant largement les quatre heures « raisonnables » de privation de liberté admises par le Conseil d’État.

      C’est le cas d’Alpha*, ressortissant nigérian âgé de 17 ans, qui a témoigné auprès des associations avoir été enfermé dans la nuit du 27 au 28 mai 2019 dans un Algeco, pendant plus de dix heures avec une dizaine d’adultes, dans des conditions exécrables avec des toilettes inutilisables. Il aurait pourtant déclaré sa minorité et exprimé son souhait de demander l’asile en France, sans que cela ne soit pris en compte par les forces de l’ordre.

      Les mineurs sont ainsi régulièrement enfermés avec des adultes, et les femmes ne sont pas toujours séparées des hommes. Marie*, ressortissante ivoirienne, a expliqué avoir été enfermée dans la nuit du 6 au 7 juin 2019 pendant près de onze heures et demie, avec une autre femme et deux hommes qu’elle ne connaissait pas, sans savoir pourquoi elle était détenue et jusqu’à quand elle le serait.

      Adama*, ressortissant sénégalais, a témoigné avoir été enfermé dans ces mêmes Algeco pendant plus de neuf heures, dans la nuit du 16 au 17 juin 2019. Il aurait demandé plusieurs fois à voir un médecin en raison de la blessure qu’il avait aux doigts suite à son interpellation, mais il n’a pas pu avoir accès à des soins avant d’être refoulé en Italie.

      Ces témoignages ont été portés à la connaissance du procureur de la République de Nice qui avait annoncé, fin 2018, l’ouverture d’une enquête suite à un signalement déposé le 20 novembre 2018 par des associations et des élus, à propos des pratiques de la police française à l’encontre des personnes en migration, en particulier des mineur.e.s isolé.e.s, lors des refoulements en Italie.

      Ces treize nouveaux signalements doivent être pris en compte dans le cadre de cette enquête, qui n’a pour le moment débouché sur aucun changement des procédures administratives et policières.

      La détention arbitraire est l’une des atteintes aux droits fondamentaux des personnes pour laquelle nos associations, Amnesty International France, l’Anafé, La Cimade, Médecins du Monde, Médecins sans Frontières, le Secours Catholique Caritas France, ainsi que de nombreuses organisations intervenant à la frontière franco-italienne saisissent aujourd’hui le rapporteur spécial des Nations unies sur les droits de l’homme.

      À cette privation de liberté s’ajoutent de multiples violations des droits, telles que l’impossibilité de demander l’asile, que ce soit au poste de la police aux frontières de Montgenèvre ou à celui de Menton. Nos associations dénoncent également la non-protection des mineur.e.s isolé.e.s et le non-respect des garanties légales lors des refoulements vers l’Italie.

      Nos organisations ont invité le rapporteur spécial des Nations unies, Felipe Gonzalez Morales, à venir sur le terrain constater ces graves atteintes aux droits des personnes exilées commises par les autorités françaises et ainsi formuler les recommandations adéquates qui, nous l’espérons, feront enfin respecter les droits à la frontière franco-italienne.

      Cette saisine a également été transmise au défenseur des droits, au contrôleur général des lieux de privation de liberté et à la Commission nationale consultative des droits de l’homme.

      https://www.amnesty.fr/presse/nos-associations-saisissent-des-instances-au-niveau

    • « Patrouilles » anti-migrants : six mois ferme requis à l’encontre de trois militants identitaires

      #Clément_Gandelin, #Romain_Espino et #Damien_Lefèvre ont comparu jeudi 11 juillet pour « confusion avec l’exercice d’une fonction publique » au cours de leur opération anti-migrants du printemps 2018 dans les Alpes françaises. 75 000 euros d’#amende ont été requis à l’encontre de leur association d’#ultra-droite. Le jugement a été mis en délibéré jusqu’au 29 août.

      Il n’a prononcé que quelques mots au début de l’audience, ne souhaitant pas prendre la parole « étant donné que ce procès n’est rien d’autre que politique et que jamais nous [Génération identitaire – ndlr] n’avons dit que nous prenions la place de la police », a-t-il estimé. « Tant pis pour vous, quand les gens parlent c’est pour exprimer leur défense », lui a rétorqué ferme la présidente du tribunal de Gap (Hautes-Alpes), Isabelle Defarge. Mais Clément Gandelin, 24 ans, s’est muré dans son silence le reste de l’audience.

      Impassible, le président de l’association d’ultra-droite Génération identitaire, raide dans sa chemise blanche, était le seul à la barre ce 11 juillet. Les deux autres prévenus, absents, Romain Espino, 26 ans, porte-parole et Damien Lefèvre 29 ans, ex-cadre du mouvement et aujourd’hui attaché parlementaire du député Gilbert Collard (RN), étaient représentés par leur avocat Me Pierre-Vincent Lambert.

      Les trois militants extrémistes étaient poursuivis pour « activités exercées dans des conditions de nature à créer dans l’esprit du public une confusion avec l’exercice d’une fonction publique » (article 433-13), lors de leur opération médiatique anti-migrants « #Mission_Alpes » dont ils se sont autoproclamés investis entre le 21 avril et le 29 juin 2018 dans les Alpes françaises, à six kilomètres de la frontière italienne.

      Une centaine de membres de Génération identitaire reconnaissables à leurs doudounes bleu flashy avaient alors investi le temps d’une journée le col de l’Échelle, qui culmine à 1 760 mètres d’altitude, entre les versants donnant sur le village français de Névache d’un côté et la gare italienne de Bardonecchia de l’autre. Une dizaine de militants identitaires, dont les prévenus, étaient ensuite restés pour « patrouiller », se targuaient-ils, plusieurs semaines dans le Briançonnais. Leur but : bloquer ce chemin périlleux emprunté par les exilés, alors souvent des mineurs venus d’Afrique de l’Ouest.

      Pour leur opération, le procureur de la République de Gap, Raphaël Balland, a requis six mois d’emprisonnement ferme à l’encontre des trois hommes, ainsi que 75 000 euros d’amende à l’encontre du groupe Génération identitaire, également poursuivi en tant que personne morale. Des réquisitions prenant en compte « le casier judiciaire », a-t-il justifié, deux d’entre eux n’étant pas « éligibles à du sursis simple », en raison de leurs précédentes condamnations.

      La délicate notion de « confusion » dans l’exercice d’une fonction publique, un délit « pas simple à manier » en raison du « très peu de jurisprudences », a insisté Raphaël Balland, figurait au cœur de son réquisitoire. Génération identitaire a voulu créer la « confusion avec l’exercice d’une fonction publique ou d’une activité réservée aux officiers publics ou ministériels », a t-il détaillé lors de son accusation. Un développement oral qui lui semblait cher. Lui si souvent accusé de « deux poids deux mesures », dans ses poursuites desdits « pro » et « anti-migrants » dans ce département montagneux devenu le théâtre d’une tension autour de l’accueil des exilés.

      Dans la salle, une poignée de militants identitaires sont restés discrets à l’écoute des réquisitions fermes. À la sortie du tribunal, peu de soutiens visibles, juste deux représentants du mouvement, chemise ou polo proprets, coiffure soignée, incarnation voulue des universitaires bourgeois ou de la classe moyenne qui composent majoritairement ce mouvement de jeunesse des identitaires, selon les politologues experts de l’extrême droite.

      Face à la presse, Clément Gandelin a lâché quelques déclarations qui se voulaient très mesurées, ignorant les huées d’une dizaine d’antifascistes présents devant le palais de justice. « Ce sont des réquisitions assez fortes pour des faits grandement tirés par les cheveux. Si nous sommes condamnés, nous ferons appel (...). Ce n’est pas une condamnation qui nous arrêtera. »

      Une stratégie de communication sobre, peu habituelle pour le groupe identitaire qui mise d’ordinaire sur les sorties spectaculaires pour faire entendre son idéologie anti-islamiste et nationaliste. Sur Twitter, les réactions étaient moins réservées. « Que ce soit clair : je ne regrette rien et si c’était à refaire, je le referais ! » a exprimé l’un des absents Romain Espino, pendant que le militant Clément Martin, parlait de « peine délirante ».

      Plusieurs fois au cours de l’audience, le slogan des antifascistes, « Clément, Clément, on t’attend », a résonné entre les murs de la haute salle d’audience. Remontés dehors sur le parvis, ils voulaient dénoncer ces « racistes » et leur expédition « abjecte ». Elle remonte au 21 avril 2018, comme l’a rappelé la présidente Isabelle Defarge, tout aussi souriante qu’elle a pu être piquante, à l’énoncé des faits.

      Celle-ci les résume comme l’expédition d’« un groupe important de soi-disant randonneurs habillés comme des Schtroumpfs qui ont chaussé les raquettes et sont montés au col » pour barrer la route aux migrants à l’aide d’un filet orange. Certains des policiers auditionnés dans le dossier « confirment la similitude des doudounes bleues et des vestes de dotation de la police aux frontières », rappelle la présidente.

      Doté d’un arsenal volontairement tape-à-l’œil de pick-up, de deux hélicoptères, d’un avion, le groupe communique de façon boulimique sur son action à grand renfort de selfies, vidéos, comme il l’avait fait l’année précédente, pour son opération spectacle anti-migrants à bord du navire C-Star, qui avait croisé dans les eaux internationales entre la Libye et l’Italie.

      Tant de photos, de tweets diffusés sur la Toile, précise Isabelle Defarge, qui ont été portés au dossier. L’opération médiatique du 21 avril fut éphémère, souligne pour sa part le procureur Balland, puisque l’hélicoptère, loué sur un mensonge – au nom d’une prétendue mission écologique –, ne le fut que « le temps d’un aller-retour pour quelques clichés », moque-t-il.

      « Le vrai problème, c’est le droit des migrants à cette frontière »

      Mais leur prétendue « mission » se poursuit avec une dizaine de membres, ils se targuent de « patrouiller », « d’enquêter sur les réseaux de passeurs », de « ramener des clandestins au poste (de police) », égrène la présidente utilisant les propres termes des militants, diffusés sur la Toile entre le 21 avril et le 28 juin 2018.

      Parmi la poignée d’identitaires qui restent actifs entre ces dates, selon l’accusation : Romain Espino, Damien Lefèvre, surnommé dans le milieu « #Damien_Rieu », Clément Gaudelin, alias « #Galant », qui « semblent avoir des problèmes avec leurs identités », ironise la présidente face au prévenu au regard vide.

      Lui est déjà connu de la justice pour sa condamnation en 2015 pour violences sur personne dépositaire de l’autorité publique. Son co-accusé, l’actuel attaché parlementaire du Rassemblement national Damien Lefèvre, l’a également été – entre autres – en 2017. Pour l’occupation de la mosquée de Poitiers en 2012, il a écopé d’un an de prison avec sursis et d’une mise à l’épreuve de deux ans. Cette action avait mis en lumière ce mouvement – alors nouvellement créé – de jeunesse des identitaires. Un nouveau procès devrait avoir lieu en appel.

      Face à l’ampleur de leur « mission » de com’ identitaire, qui a cristallisé les tensions dans les Alpes, une première enquête est ouverte le 25 avril 2018 par Raphaël Balland pour des faits « qui pourraient s’apparenter à des violences » commises par ces militants sur des exilés. Elle est classée sans suite, sous la sidération des bénévoles qui viennent en aide aux migrants.

      Le procureur attend le 11 mai et la publication d’une circulaire du ministère de la justice – révélée par Mediapart – pour déclarer avoir « confié au groupement de gendarmerie des Hautes-Alpes, une enquête préliminaire plus globale ouverte du chef d’immixtion dans une fonction publique ».

      Au terme d’un an d’enquête, il décide finalement de poursuivre les trois militants et leur association pour « activités » exercées « de nature à créer dans l’esprit du public une confusion avec l’exercice d’une fonction publique ». Cette dite « confusion » est sanctionnée jusqu’à un an de prison et 15 000 euros d’amende, une peine plus légère que les trois ans de prison et 45 000 euros d’amende encourus pour immixtion.

      « Le délit d’immixtion ne tenait pas », justifie le procureur optant pour le délit de confusion « dont la défense fera son miel, prévient-il, car très peu usité et il y a très peu de jurisprudences ». Raphaël Balland tente à plusieurs reprises d’interpeller le prévenu mutique.

      « De quel droit ? » lance-t-il, regard braqué sur le militant identitaire à l’allure passive. Son avocat maître Pierre-Vincent Lambert répond à sa place : « Tout cela est totalement artificiel. » Et de plaider la relaxe : « Le délit [de confusion] n’est pas constitué. »

      Assis au premier rang, Agnès Antoine et Michel Rousseau sont restés concentrés, prenant des notes au premier rang. Ces membres de l’association humanitaire Tous migrants s’indignent d’un « deux poids, deux mesures au regard des chefs d’accusation des sept de Briançon », résume Michel Rousseau à l’issue de l’audience de plus de quatre heures.

      Dans ce même tribunal, ceux que l’on connaît dans la vallée sous l’appellation des « 3+4 de Briançon » avaient été condamnés à douze mois de prison pour deux d’entre eux, et six mois avec sursis pour les autres, pour avoir « facilité l’entrée » à la frontière d’une vingtaine de migrants lors d’une marche organisée en réponse à l’opération de Génération identitaire, le 22 avril 2018.

      Agnès Antoine et Michel Rousseau avaient assisté, depuis le public, à ce premier procès. De retour pour suivre cette fois le procès des identitaires, Agnès Antoine et Michel Rousseau ont voulu s’y impliquer ce 11 juillet en demandant à se constituer partie civile au nom de leur association. Leur but, disent-ils, est de rappeler que « ce procès mascarade est un dérivatif du vrai problème », à savoir « le droit des migrants à cette frontière », s’indigne Michel à la sortie de l’audience.

      Ils avaient remis au dossier un recueil de témoignages de quatre exilés anonymes. Les premiers concernés et grands absents de ces affaires judiciaires, tant il leur est « difficile de témoigner contre l’action d’un État auprès duquel ils demandent la protection », résument les bénévoles.

      Les paroles ont été portées au dossier, a rappelé leur avocate Maéva Binimelis dans sa plaidoirie, mais rapidement écartées comme non recevables par la présidente. « Nous n’avons pas de noms des témoins », a t-elle tranché. Malgré les réquisitions « mesurées », admet leur avocate, les bénévoles n’y croient pas. « Ils ne prendront jamais autant », prédit Michel Rousseau.

      Le jugement a été mis en délibéré au 29 août. Durant ce long temps judiciaire, estime Agnès Antoine, les drames « sont quotidiens à la frontière, nous sommes comme des urgentistes, peu nombreux et sans moyens ». Et de rappeler, touchée, la mort récente d’un jeune Togolais dans les reliefs frontaliers. Son corps inanimé avait été découvert en février entre Briançon et Montgenèvre.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/120719/patrouilles-anti-migrants-six-mois-ferme-requis-l-encontre-de-trois-milita

    • A Far-Right Group’s Leaders Face Jail For A Stunt That Blocked A Border

      It’s the first case against the French branch of Generation Identity since reports emerged that it had accepted a donation from the suspected #Christchurch shooter.

      A French prosecutor called for prison sentences on Thursday for three leaders of a far-right group that took money from the Christchurch shooter.

      The defendants, Clément Gandelin, Romain Espino, and Damien Lefèvre, are leaders of the French branch of Generation Identity, or Génération Identitaire, an anti-immigrant group best known outside Europe for a stunt in summer 2017 to disrupt rescues of immigrants in the Mediterranean. Later that year, it accepted a 2,200-euro donation from the Christchurch shooting suspect.

      The French prosecutor’s proposed sentence — 6 month’s jail time for the three leaders as well as the maximum possible fine of 75,000 for the organization as a whole — is the first time Generation Identity has had charges against it brought before a judge since its connection to the Christchurch shooter was first reported. A judgment is expected on Aug. 29.

      When the link between the Christchurch suspect and the Generation Identity chapter in Austria emerged in March, Austrian officials immediately ordered raids on the branch’s leader, popular white nationalist YouTuber Martin Sellner. Germany has followed suit, stepping up its domestic surveillance on Generation Identity. France has, until now, taken no direct action against the group, despite repeated calls by anti-racism NGOs for its dissolution.

      “It’s a first step in dealing with this group,” Justine Bourasseau, a legal expert working with French NGO SOS Racisme, which has sought four times since 2017 to have the group banned under a French law that prohibits “incitement to racial hatred.”

      “They needed to be condemned to show them that, in fact, they do not have the right to do whatever they want,” Bourasseau continued.

      The men were tried in Gap, a small city near France’s Italian border. The charges relate to an incident in 2018, when more than 100 members blocked the road to people trying to enter France from Italy.

      They used an expensive array of means to do so — drones, a fleet of 4x4s, and even two helicopters and a light aircraft rented for the occasion — funded by donations that got a boost from the Twitter network of ex–Ku Klux Klan leader David Duke in the United States. Generation Identity declined to provide a comment to BuzzFeed News.

      The French arm of Generation Identity was founded in 2012 by former members of Unité Radicale, a far-right group that was banned following a plot to assassinate then-president Jacques Chirac. Its ties to the alleged Christchurch shooter should have been a major wake-up call to security officials, said Dominique Sopo, the president of SOS Racisme, in an interview with BuzzFeed News in March. The group also has close ties to France’s second-largest party, Marine Le Pen’s National Rally. An Al Jazeera documentary released last year showed that figures high up in the party, such as Nicolas Crochet and Frédéric Chatillon, who are known to be Le Pen’s “men in the shadows,” have supported the French group. And one of the three convicted activists, Damien Lefèvre, is a parliamentary assistant for National Rally MP Gilbert Collard.

      Despite this, French officials advise caution before completely banning the French branch of Generation Identity: “When we engage this procedure of dissolution, we have to be sure that everything is well done, and go right to the end of the procedure,” Frédéric Potier, director of the French antidiscrimination agency known as DILCRAH, said in a phone interview with BuzzFeed News. “There is nothing worse than [a request for dissolution] being refused by the justice system: It reinforces and legitimates [the French extension of the organization].”

      Up until this instance, the French government had not taken any legal action against Generation Identity as a movement, relying instead on its new anti–hate speech law to trigger suspensions of members’ Facebook accounts on a case-by-case basis.

      “We think it’s totally inadmissible. ... The government is not doing enough,” Bourasseau said.

      https://www.buzzfeednews.com/amphtml/zorromaplestone/generation-identity-six-months-jail-stunt-france?__twitter_impression=

    • #Témoignage d’une nuit à la frontière franco-italienne : la #solidarité face à la #déshumanisation des exilé.e.s

      Ce 15 mars 2019, nous rejoignons #Montgenèvre (Hautes-Alpes) à l’appel de l’association briançonnaise Tous Migrants, soutenu par cinq associations nationales, afin de participer à une grande maraude solidaire [1]. Suite au rétablissement des contrôles aux frontières intérieures en 2015, cette station de ski perchée à 1860 mètres d’altitude s’est progressivement transformée en théâtre du rejet et des violences institutionnelles envers les exilé.e.s. Certain.e.s y perdent la vie. Face à l’ignominie de cette réalité est né un monde de solidarité, que les maraudes organisées par des citoyens de la vallée symbolisent au mieux. C’est animé.e.s du désir de montrer notre soutien à ces solidaires que nous avons pris la route, mais aussi l’idée qu’il devient nécessaire de témoigner de ce qui se passe au quotidien dans nos montagnes. Cependant, nous ne pensions pas être confronté.e.s à une réalité si brutale. Nous ne pensions pas qu’il serait difficile de verbaliser ce que nous avons vu cette nuit-là, d’exprimer ce que nous avons ressenti ; pourtant il faut nous efforcer de tenter d’en rendre compte.

      Dès notre arrivée à Montgenèvre, le paradoxe de cette frontière nous saute aux yeux. Une frontière à la fois invisible et floue ; étendue et poreuse. Invisible et floue car on ne sait jamais exactement où l’on se trouve par rapport à elle. Là, sommes-nous en France ? Et ici, en Italie ? Les glisseurs de la station slaloment avec la frontière, évoluant entre les arbres sans se soucier de savoir si celui-ci est un sapin italien et celui-là un pin français, s’ils foulent la poudreuse de Clavière, premier village italien après la frontière, ou de Montgenèvre, dernier village français avant la frontière. Etendue et poreuse car les contrôles dits « frontières » peuvent s’étendre sur des dizaines de kilomètres et prennent différentes formes. Ces contrôles se matérialisent par le local de la police aux frontières (PAF), une présence massive des forces de l’ordre et des vrombissements de motoneiges. Ils donnent lieu à des violations quotidiennes des droits, à des humiliations, des violences verbales et physiques. Et cela, depuis près de trois ans.

      - En décembre 2017, un jeune homme refoulé évoquait déjà les violences, les humiliations et les privations de liberté subies à la frontière lors de son refoulement. Interpellé au niveau du col de l’Echelle dans la nuit, il témoigne de coups de pieds que la police lui aurait donné lors de l’interpellation. Amené au poste de la PAF de Montgenèvre, il n’a reçu aucune information, seul un document qu’il n’a pas compris lui a été remis et il a été enfermé dans une petite salle, au fond du poste, seul, sans bagages, sans nourriture, pendant plusieurs heures. A 6h du matin, période de la journée la plus froide, il a été déposé par la PAF à l’entrée du village de Clavière, dans la neige. Il souhaitait faire une demande d’asile en France. [3]

      Cherchant à échapper à ces contrôles, les personnes prennent des risques de plus en plus importants, au péril de leur vie. Elles sont souvent retrouvées exténuées, en hypothermie, déshydratées et effrayées, parfois blessées. Les militants et maraudeurs évoquent avec nous la dureté de cet hiver, où les températures tombent très bas et les nombreux cas de gelures graves qu’ils constatent chez les personnes qui arrivent à Briançon.

      Cette situation a déjà conduit à des évènements dramatiques à plusieurs reprises. Depuis 2017, au moins quatre personnes ont ainsi perdu la vie à cette frontière.

      L’une d’elles est Tamimou : un mois avant cette grande maraude à laquelle nous venons participer, le 6 février 2018, ce jeune Togolais de 28 ans a été retrouvé en état d’hypothermie sur la route entre Montgenèvre et Briançon. Il est décédé avant d’être arrivé à l’hôpital. Il avait perdu ses chaussures en marchant dans les sentiers enneigés, de nuit. [4]

      Une frontière paradoxale donc, aux bords de laquelle l’insouciance des loisirs se mêle à une réalité innommable qui demeure impunie.

      La soirée du 15 mars nous l’a faite entrevoir. Guidé.e.s par des habitant.e.s de la vallée, nous partons d’abord en petits groupes pour comprendre ce qu’est une « maraude solidaire ». Nous suivons alors Dimitri*, qui nous explique qu’il « maraude » presque tous les soirs dans la montagne afin de porter assistance aux personnes en détresse en montagne. Mais c’est surtout la solidarité qu’il incarne que nous retenons des échanges avec lui, quand il évoque l’intensité des moments de partage et la participation croissante des gens de tous horizons à ces maraudes nocturnes.

      Nous rejoignons les autres. Personne ne sait combien nous sommes exactement, mais il semble que nous soyons « 400 ou 500 ». Tou.te.s ensemble, au rythme de la fanfare joyeuse qui joue Bella Ciao, nous partons en direction du poste de la PAF, dernier chalet avant la frontière, situé à dix minutes à pied du centre de Montgenèvre. Nous nous y arrêtons, dans un face-à-face avec les forces de l’ordre qui nous y attendent, lourdement armées. Des témoignages d’exilé.e.s qui ont été interpellées par les forces de l’ordre sont lus par différent.e.s maraudeu.r.se.s et solidaires. Des témoignages de violences, de vols, de menaces, de traques, de douleurs, résonnent dans le micro. La police reste impassible. L’intensité du moment nous monte à la tête.

      Nous retournons ensuite au lieu de rendez-vous initial, au pied des remontées mécaniques. Les associations et citoyen.ne.s prennent tour à tour la parole pour sensibiliser les passants. Une soupe est partagée. Des expériences et idées sont échangées, la soirée de maraude solidaire touche à sa fin.

      Puis, d’un coup, l’alerte.

      Une vingtaine de personnes seraient pourchassées par la police juste en contrebas, devant le poste de la PAF, et « ça se passe mal ». Besoin de renfort, de témoins. Par petits groupes, nous repartons vers la PAF. Les forces de l’ordre se font menaçantes. Vêtues de leurs uniformes « blindés », elles partent en masse, au pas de course, vers la montagne. Dans les paysages devenus d’immenses étendues de nuances d’ombres, des projecteurs balaient les reliefs de leurs larges faisceaux. Quelque chose d’anxiogène se glisse sur les pistes. Des motoneiges. Au loin, des lampes torches s’agitent entre les arbres. La chasse à l’Humain est ouverte.

      Divers sentiments nous traversent : la peur, mais aussi l’urgence et le devoir de solidarité qui nous poussent à continuer d’avancer. Le silence et l’obscurité deviennent pesants. D’un coup se détachent des ombres sur le côté droit. Elles courent et certaines crient « Help ! », « Help ! », des fonctionnaires armés à leurs trousses. La course poursuite dans la neige commence. Traques, chutes, cris, affolement, épuisement, interceptions, blocages. Nous assistons à des scènes d’une violence inouïe avec, sous nos yeux, des personnes qui sont trainées dans la neige par les forces de l’ordre. De nouveau, un face à face pétrifiant s’instaure entre ces forces de l’ordre et les solidaires qui sont là pour témoigner que des personnes sont en train d’être refoulées au mépris de leurs droits et sans considération pour leur vie. Les témoignages lus quelques minutes auparavant devant le poste de la PAF deviennent réalité. Aux aguets, nous perdons la notion du temps. Sous nos yeux embués, défilent ainsi des images qui nous évoquent des scènes de guerre.

      L’allégresse de la journée, celle des vacanciers aux terrasses des restaurants et sur les pistes, tout cela a disparu. La nuit a laissé entrevoir une autre réalité : celle de la frontière qui blesse, de sa militarisation et de la théâtralisation du pouvoir policier. Nous observons les forces de l’ordre remonter vers le poste de la PAF. D’elles émane le visage du travail accompli, de la force et du pouvoir. Les voir évoluer dans la neige, empêtrés dans leurs équipements massifs, rend la situation d’autant plus insoutenable. C’est aussi l’absurdité d’une réalité qui ne devrait pas être qui nous atteint de plein fouet et nous secoue. La déshumanisation est à l’œuvre, sinon comment comprendre que des êtres humains se comportent ainsi vis-à-vis d’autres êtres humains ?

      Le lendemain matin, quelques heures plus tard à peine, le soleil irradie de nouveau la station de ski de Montgenèvre. Les skieurs, sans conscience des événements de la nuit, slaloment de nouveau entre les arbres, balayant ainsi les dernières traces des scènes nocturnes laissées dans la neige. Tout cela a-t-il vraiment eu lieu ? Ces scènes étaient-elles réelles ? Oui. Elles sont même quotidiennes. Pourtant, elles sont insoutenables, presque impossible à raconter et ne peuvent être rationnalisées. Aucun mot, aucune métaphore n’a le pouvoir de retranscrire ce que nous avons vu et ressenti, mais il nous faut tout de même témoigner, même si les mots nous semblent pauvres face à l’horreur des scènes auxquelles nous avons assistées. Il nous faut laisser une trace qui ne sera pas effacée dans la neige. Il nous faut contribuer à dénoncer cette réalité invisibilise qui met à l’écart, déshumanise, criminalise. Il nous faut exprimer notre sentiment de responsabilité face à de tels faits. Il nous paraît aussi essentiel de rendre hommage à la beauté, à la force, à la détermination et au courage de ces citoyen.ne.s, qui, chaque nuit, luttent contre cette inhumanité de la frontière et lui redonnent des visages de solidarité, d’accueil, de partage et de rencontres.

      Ebranlé.e.s par ce à quoi nous avons assisté cette nuit du 15 au 16 mars 2019, nos questionnements se succèdent. Dans cette réalité indigne qui se joue quotidiennement à nos frontières, notre responsabilité à tout.e.s est clairement engagée. Alors, ensemble, que faisons-nous ?

      https://www.humanite.fr/temoignage-dune-nuit-la-frontiere-franco-italienne-la-solidarite-face-la-de

      #humiliations #violence #frontière #motoneiges #PAF #refoulement #push-back #coups_de_pieds #maraude_solidaire #vols #menaces

    • Génération identitaire : condamnés à six mois ferme pour avoir tenté de bloquer la frontière

      Ce jeudi 29 août, le tribunal correctionnel de Gap a prononcé des peines de prison ferme, après l’opération menée au col de l’Échelle (Névache) en avril 2018. Le groupuscule d’ultra-droite et trois de ses membres étaient poursuivis.

      Le tribunal a rendu sa décision : ce sera six mois de prison ferme pour trois prévenus du groupuscule d’ultra-droite Génération identitaire. Ils étaient poursuivis pour avoir « exercé des activités dans des conditions de nature à créer dans l’esprit du public une confusion avec l’exercice d’une fonction publique ». Ils écopent également de 2000 € d’amende et de privation des droits civils, civiques et familiaux pendant cinq ans. Enfin, l’association Génération identitaire est condamnée à 75 000 € d’amende.

      Dans le viseur de la justice, ce procès était celui de l’opération menée le 21 avril 2018, lorsque les membre du groupuscule d’ultra-droite Génération identitaire – une centaine – avaient surveillé la frontière pour empêcher des migrants de passer. A grands coups de tweets, vidéos et le recours à un hélicoptère pour une opération baptisée “Defend Europe”.
      Six mois d’emprisonnement ferme avaient été requis

      Lors de l’audience au tribunal correctionnel haut-alpin, le 11 juillet dernier, le procureur de la République de Gap, Raphaël Balland, avait requis six mois d’emprisonnement ferme et l’interdiction d’exercer les droits civiques pendant un an pour les trois prévenus (Clément Gandelin, Romain Espino et Damien Lefèvre) ainsi que 75 000 € contre l’association Génération identitaire.

      Le seul prévenu présent au procès, le président du mouvement Clément Gandelin, avait gardé le silence. L’avocat de la défense avait plaidé pour la relaxe. Le tribunal a finalement suivi les réquisitions du procureur.

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/08/29/generation-identitaire-les-trois-prevenus-condamnes-a-six-mois-de-prison

      #condamnation #justice

    • Trois identitaires condamnés à six mois ferme pour des patrouilles anti-migrants

      Deux responsables de Génération identitaire ainsi qu’un ex-cadre ont été condamné jeudi à six mois de prison ferme pour avoir « exercé des activités dans des conditions de nature à créer dans l’esprit du public une confusion avec l’exercice d’une fonction publique ». Le groupe Génération identitaire a écopé d’une #amende de 75 000 euros.

      Six mois de #prison_ferme, 2 000 euros d’amende et des privations de droits civiques, civils et familiaux pendant cinq ans. #Clément_Gandelin, 24 ans, le président de l’association d’ultra-droite Génération identitaire, #Romain_Espino, 26 ans, porte-parole, et #Damien_Lefèvre, 29 ans, ex-cadre du mouvement, ont tous les trois été condamnés ce jeudi 29 août par le tribunal de Gap pour leur opération anti-migrants effectuée dans les Alpes au printemps 2018.

      Les trois militants extrémistes étaient plus précisément poursuivis pour « activités exercées dans des conditions de nature à créer dans l’esprit du public une confusion avec l’exercice d’une fonction publique » (article 433-13), lors de cette action médiatique qui avait pour but affiché de bloquer un point de passage frontalier emprunté par les exilés passés par l’Italie, à l’époque souvent des mineurs venus d’Afrique de l’Ouest.

      Le groupe Génération identitaire, également poursuivi en tant que personne morale, a, lui, écopé d’une amende de 75 000 euros.

      Le tribunal a estimé jeudi que la prison ferme s’imposait à l’encontre des accusés, « compte tenu de la nature extrêmement grave des faits, de l’importance du trouble à l’ordre public occasionné non seulement pendant leur période de commission mais de manière durable dans le département, de l’importance des valeurs protégées par les infractions reprochées et du passé pénal des prévenus », d’après la motivation du jugement consultée par l’AFP.

      Ladite « Mission Alpes » dont ils s’étaient proclamés investis s’était tenue entre le 21 avril et le 29 juin 2018 dans les Alpes françaises, à six kilomètres de la frontière italienne.

      Une centaine de membres de Génération identitaire reconnaissables à leur doudoune bleue avaient d’abord investi le temps d’une journée le col de l’Échelle, qui culmine à 1 760 mètres d’altitude, entre les versants donnant sur le village français de Névache d’un côté et la gare italienne de Bardonecchia de l’autre. Une dizaine de militants identitaires, dont les trois prévenus, étaient ensuite restés pour « patrouiller », se vantaient-ils, pendant plusieurs semaines dans le Briançonnais.

      Doté d’une flotte tape-à-l’œil de pick-up, de deux hélicoptères et d’un avion, le groupe avait alors communiqué de façon boulimique sur son action, à grand renfort de selfies, de vidéos, comme il l’avait fait l’année précédente, pour son opération spectacle anti-migrants à bord du navire C-Star, qui avait croisé dans les eaux internationales entre la Libye et l’Italie.

      La peine correspond aux réquisitions du procureur de la République de Gap, Raphaël Balland, prononcées le 11 juillet, lors de la première convocation des trois prévenus. Elles prenaient en compte « le casier judiciaire », avait-il alors justifié, deux d’entre eux n’étant pas « éligibles à du sursis simple », en raison de leurs précédentes condamnations. L’avocat des trois prévenus, Me Pierre-Vincent Lambert, qui réclamait quant à lui la relaxe, a annoncé que ses clients feraient appel de la décision, selon l’AFP.

      Au cœur de son réquisitoire, le procureur a placé la délicate notion de « confusion » dans l’exercice d’une fonction publique, un délit « pas simple à manier », selon lui, en raison du « très peu de jurisprudences ». Raphaël Balland précise que Génération identitaire a voulu créer la « confusion avec l’exercice d’une fonction publique ou d’une activité réservée aux officiers publics ou ministériels » au cours de cette mission.

      Il a parfois été reproché au procureur son « deux poids deux mesures » dans ses poursuites desdits « pro- » et « anti-migrants » dans ce département montagneux devenu le théâtre de fortes tensions autour de l’accueil des exilés.

      Ce même tribunal de Gap avait en effet condamné ceux que l’on connaît dans la vallée sous l’appellation des « 3+4 de Briançon » à 12 mois de prison pour deux d’entre eux et à six mois avec sursis pour les autres, pour avoir « facilité l’entrée » à la frontière d’une vingtaine de migrants lors d’une marche organisée en réponse à l’opération de Génération identitaire, le 22 avril 2018.

      Certains bénévoles ont regretté par ailleurs que le procureur n’ait pas poursuivi les trois militants d’extrême droite au « chef d’immixtion dans une fonction publique », plus sévère, sanctionné de trois ans de prison et de 45 000 euros d’amende. « Le délit d’immixtion ne tient pas », leur a rétorqué le procureur, lui préférant le délit de confusion.

      Le 11 juillet, seul Clément Gandelin, alias Clément « Galant », s’était présenté à la barre. Il n’avait pas souhaité s’exprimer, restant silencieux tout au long de l’audience de quatre heures. Il avait simplement déclaré à la fin que « ce procès n’[était] rien d’autre que politique et que jamais [le groupe Génération identitaire] n’av[ait] dit qu[’il prendrait] la place de la police ».

      Clément Gandelin avait été condamné en 2015 pour violences sur personne dépositaire de l’autorité publique. Son coaccusé, Damien Lefèvre, l’avait également été – entre autres – en 2017. Pour l’occupation de la mosquée de Poitiers en 2012, il avait écopé d’un an de prison avec sursis et d’une mise à l’épreuve de deux ans. Cette action avait mis en lumière ce mouvement de jeunesse – alors nouvellement créé – des identitaires. Un nouveau procès doit avoir lieu en appel.

      L’association locale d’entraide Tous migrants avait demandé à se constituer partie civile au nom de leur collectif. Leur but, expliquaient deux de ses responsables, était de rappeler que « ce procès mascarade est un dérivatif du vrai problème », à savoir « le droit des migrants à cette frontière ».

      Le collectif qui vient en aide aux migrants à Briançon a joint au dossier un recueil de témoignages de quatre exilés anonymes. Les premiers concernés sont aussi les grands absents de ces affaires judiciaires, tant il leur est « difficile de témoigner contre l’action d’un État auprès duquel ils demandent la protection », ont insisté les bénévoles. Portée au dossier, la parole de ces exilés inconnus a rapidement été écartée, jugée non recevable par la présidente du tribunal.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/290819/trois-identitaires-condamnes-six-mois-ferme-pour-des-patrouilles-anti-migr

    • Communiqué de presse, Mercredi 2 octobre à 14h

      Procès d’un citoyen solidaire du Briançonnais. Mobilisation à Grenoble

      Le mercredi 2 octobre à 14h, un solidaire briançonnais (#Kévin) comparaîtra devant la cour d’appel de Grenoble (38) pour délit de solidarité. Il est accusé d’aide à l’entrée de personnes en situation irrégulière sur le territoire français et de délit de fuite, alors qu’il portait secours à des personnes en danger en montagne, en hiver dans les Hautes-Alpes. Le tribunal de grande instance de Gap (05) l’a condamné le 10 janvier 2019 à une peine de 4 mois de prison avec sursis. Ce jugement faisait suite à celui des « 3+4 de Briançon » en décembre 2018, condamnés pour des faits similaires. Une mobilisation citoyenne aura lieu à Grenoble devant la cour d’appel.

      Au-delà d’un soutien face à la répression, au harcèlement et aux intimidations, tous les solidaires veulent - à l’occasion de ce procès en appel d’un citoyen épris de solidarité - dénoncer le durcissement des politiques migratoires françaises et européennes.

      En particulier :

      – Les pratiques illégales et les violences commises contre les personnes exilées aux frontières : traques mortelles et arrestations violentes dans la montagne, refoulements de personnes vers l’Italie sans examen individuel de leur situation ni possibilité d’exercer leur droit à déposer une demande d’asile, non-prise en compte de la minorité de jeunes qui se sont déclarés tels auprès des forces de l’ordre.

      – La situation scandaleuse dans les Centres de Rétention Administrative (CRA), qui procède d’une volonté d’expulser encore plus de personnes réfugiées et migrantes. Notamment les 892 Afghans qu’un projet d’accord européen envisage de renvoyer plus facilement dans de pays dit « sûr ».

      – L’hébergement insuffisant qui laisse à la rue des milliers de personnes sans logements.

      – La volonté française de durcir le règlement Dublin.

      – La diminution et les restrictions de l’Allocation pour Demandeur d’Asile (ADA) et le durcissement de l’accès à l’Aide Médicale d’État (AME).

      – La coopération entre le 115 (hébergement d’urgence) et l’Office Français de l’Immigration et de l’Intégration (OFII) visant à ficher les étrangers, refusée par les travailleurs sociaux.

      – Le manque de moyens consacrés par l’État et les Conseils départementaux pour la prise en charge des Mineurs non Accompagnés (MNA), les logiques arbitraires et les obstacles à la reconnaissance de minorité des jeunes étrangers.

      – La poursuite mortifère du scandale des frontières de l’Europe : en Méditerranée (seulement 80% de rescapés !), en Libye et au Niger, aux abords de Melilla..., scandale lié au refoulement des migrants tentant la traversée par l’opération navale européenne "Sophia", et à la délégation de la gestion des flux migratoires à des États comme la Turquie et la Libye.

      Pour toutes ces raisons ce procès en appel est le symbole d’un délit d’inhumanité commis par des responsables politiques de notre pays. Nous donnons rendez-vous aux citoyen.ne.s le mercredi 2 octobre à 13h30 devant le palais de justice de Grenoble, pour soutenir les solidaires et lutter contre l’aggravation des politiques migratoires.

      Le comité de soutien des 3+4+2+…. de Briançon.

      Autour de ces procès v. aussi :
      https://seenthis.net/messages/734863

    • Samedi 5 octobre 2019 à la Halle de Dieulefit : Les murs ne servent à rien 3
      https://www.facebook.com/events/2556499527734427

      PROGRAMME détaillé :

      Dès 14h De l’autre côté, parcours sonore et photo de T. Fortunato et S. Chatton, 2019.
      De l’autre côté est une invitation à observer et écouter les fruits d’une rencontre : entre de jeunes européens qui voyagent en quête d’autres manières de vivre ou de militer et ceux qui, dans le chemin inverse, tentent leur chance en Europe... Un parcours qui mêle objets, photos, articles, paysages sonores et interviews réalisés sur des lieux d’accueil et de soutien aux migrants, de Briançon à Athènes en passant par l’Italie et les Balkans. Un voyage à découvrir à plusieurs pour se rencontrer, se questionner et réfléchir à notre rapport au monde et à ses frontières. (avant-première)

      16h Passer la porte, reportage radiophonique au refuge solidaire de Briançon, réalisé par Chloé Peytermann et Pauline Lemaire-Démaret, pour RadioLà, 2019.
      Nous avons passé du temps, avec ou sans micro, au refuge solidaire de Briançon. Migrant ou bénévole, comment passe-t-on la porte de ce lieu d’accueil juste en bas de la montagne ? Comment la désorganisation du monde rend-elle possible et indispensable un accueil d’urgence qui vit chaque jour l’obligation de se pérenniser ? D’un côté les chants et musiques des migrants de passage qui ne souhaitent plus raconter leurs histoires aux médias, ne voyant pas de changement dans leurs conditions d’accueil. De l’autre une équipe bénévole à l’écoute, qui se demande toujours, deux ans après l’urgence, comment et pourquoi ils sont encore là. (écoute publique en avant-première)

      16h45 Au pied du mur, film documentaire de P. Bruguière et J. Keogh, 2018
      À plus de 1700 mètres d’altitude, les cols de l’Échelle et de Montgenèvre dans les Hautes-Alpes sont les nouveaux points de passage pour les migrants arrivés en Europe par la mer Méditerranée. Des personnes risquent leur vie dans cette périlleuse traversée de la montagne. Un réseau de citoyens bénévoles s’est créé, organisant des maraudes, où les citoyens apportent des vêtements et repas chauds à ceux qui s’apprêtent à grimper la montagne ; ils soignent et réchauffent ceux qui en descendent. Le film « Au pied du mur » croise ces destins d’exilés et d’habitants engagés. (Lauréat du Prix « Autrement Vu » FIGRA 2019)

      17h45 Lecture d’extraits - Le prince à la petite tasse de E. de Turckheim, par Virginie Komaniecki
      Pendant neuf mois, Émilie, Fabrice et leurs deux enfants ont accueilli dans leur appartement parisien Reza, un jeune Afghan qui a fui son pays en guerre à l’âge de douze ans. Ce journal lumineux retrace la formidable aventure de ces mois passés à se découvrir et à retrouver ce qu’on avait égaré en chemin : l’espoir et la fraternité.

      18h Coeur de pierre, film documentaire de C. Billet et O. Jobard, 2018
      Ghorban a voyagé seul, en clandestin, pendant deux ans pour rejoindre la France depuis son Afghanistan natal. Enfant migrant, il entame en 2010 un long parcours d’intégration. Ses éducateurs le confient à un psychologue pour l’aider à apprivoiser les cauchemars d’un passé fait d’abandons et de pauvreté, auxquels se mêlent ses questionnements d’adolescent. Petit à petit, l’enfant au vécu d’adulte va définir son identité, entre l’Afghanistan et la France... Les réalisateurs l’ont filmé sur 8 ans, jusqu’à son entrée dans l’âge adulte lorsqu’il décide de retrouver sa famille restée en Afghanistan. (Prix du Meilleur Film 2019, Festival One World, Prague. Compétition internationale 2019, Festival Millenium, Bruxelles. Les Découvertes du Saint-André des Arts, Paris.)

      21h Lecture d’extraits – Sidérer, considérer de M. Macé, par Nadine Despert
      Que faire du mélange de colère et de mélancolie que suscite en nous le traitement réservé aux personnes migrantes, cette humanité précarisée, avec tout ce qu’il peut y avoir de paralysant, de sidérant ? S’appuyant sur diverses expériences et sur une analyse nourrie de ses lectures, Marielle Macé tente d’opérer un retournement. Elle oppose à la sidération la considération, qui n’exclut pas la compassion, ni la lutte.

      21h10 Paris Stalingrad, film documentaire de H. Meddeb et T. Naccache, 2019
      Ce film est un portrait de Paris vu par Souleymane, 18 ans, venu du Darfour. Arrivé en France après un périple traumatisant, la « ville lumière » dont il avait rêvé, lui inflige de nouvelles épreuves. A la dureté des situations, répond sa poésie douce-amère. En suivant Souleymane, le film retrace le parcours des exilés dans Paris : les campements de rue, les interminables files d’attente devant les administrations, les descentes de police et la mobilisation des habitants du quartier pour venir en aide aux réfugiés. La caméra témoigne d’une métamorphose d’une ville et nous montre l’émergence de nouvelles frontières intérieures. (Sélection officielle TIFF Docs, Festival international du film de Toronto 2019, sélection officielle Compétition française, Cinéma du réel 2019.)

      22h40 Lecture d’extraits - La loi de la mer de D. Enia, par Chloé Peytermann
      Un père et un fils regardent l’Histoire se dérouler sous leurs yeux, dans l’immensité de la Méditerranée, à Lampedusa. La loi de la mer est le récit de la fragilité de la vie et des choses, où l’expérience de la douleur collective rencontre celle, intime, du rapprochement entre deux êtres. Pendant plus de trois ans, sur cette île entre Afrique et Europe, l’écrivain Davide Enia a rencontré habitants, secouristes, exilés, survivants. En se mesurant à l’urgence de la réalité, il donne aux témoignages recueillis la forme d’un récit inédit, littéraire et poétique.

      22H50 Un jour ça ira, film documentaire de E. et D. Zambeaux, 2017
      Djibi et Ange, deux adolescents à la rue, arrivent à l’Archipel, un centre d’hébergement d’urgence au cœur de Paris. Ils y affrontent des vents mauvais, des vents contraires, mais ils cherchent sans relâche le souffle d’air qui les emmènera ailleurs. Et c’est avec l’écriture et le chant qu’ils le trouvent… et nous emportent. Une plongée au coeur de l’Archipel, un centre qui propose une façon innovante d’accueillir les familles à la rue.

    • Hautes-Alpes : devenez adjoint de sécurité au sein de la PAF à Montgenèvre

      Devenez adjoint de sécurité au sein de la Police aux Frontières à Montgenèvre. Ils assureront les missions de patrouilles, contrôles et interpellations en assistant le personnel de la PAF. Les candidatures sont à renvoyer avant le 12 novembre inclus. Il n’y a pas de condition de diplôme, les candidats doivent être âgés entre 18 et 30 ans et ne pas avoir été adjoints de sécurité pendant plus de trois ans. Des tests de résistance musculaire et d’endurance cardio-respiratoire seront à réaliser lors des épreuves de sélection. Le contrat est d’une durée de trois ans, renouvelable une seule fois, avec des mesures d’insertion professionnelle pendant toute la durée du contrat et l’accès à un concours spécifique pour devenir gardien de la paix. La rémunération est fixée à 1.289 € net par mois. Le dossier de candidature, ainsi que la liste des pièces à fournir, est à retrouver sur le portail Internet des services de l’État : www.hautes-alpes.gouv.fr, rubrique « recrutements et concours ». L’ensemble du dossier est à transmettre au Secrétariat général pour l’administration du Ministère de l’Intérieur (SGAMI SUD) dont l’adresse figure dans le dossier de candidature.

      http://alpesdusud.alpes1.com/news/hautes-alpes/79728/hautes-alpes-devenez-adjoint-de-securite-au-sein-de-la-paf-a-mont

    • Hautes-Alpes : migrants, « il n’y a pas eu d’harcèlement de la police aux frontières »

      Septembre : un rapport de l’ONG Human Rights Watch mettait en cause la gestion des Hautes-Alpes quant au drame migratoire, avec des renvois sommaires de migrants se présentant comme mineurs à la frontière, des intimidations des bénévoles ou des militants pro-migrants de la part des autorités. Face à ces accusations, la préfète est claire : « les autorités italiennes n’ont jamais accepté de reprendre en charge des personnes se déclarant MNA. Il n’y a pas eu d’harcèlement de la part des services de la Police Aux Frontières ».

      http://alpesdusud.alpes1.com/news/hautes-alpes/79866/hautes-alpes-migrants-il-n-y-a-pas-eu-d-harcelement-de-la-police-

    • Une cinquantaine de gendarmes déployés pour rechercher d’éventuels migrants en difficulté

      C’est un gros dispositif de recherches qui a été déployé ce mardi 29 octobre, au matin, du côté de Montgenèvre.

      Le tout après qu’un jeune Ivoirien a été découvert en légère hypothermie sur un des ronds-points de Montgenèvre vers 6 h 30. Le migrant de 28 ans indique alors aux forces de l’ordre que des compagnons de fortune se trouveraient encore dans la montagne et l’un d’eux serait en souffrance.

      Une cinquantaine de gendarmes de la compagnie de Briançon, des agents de la Police aux frontières et des secouristes du Peloton de gendarmerie de haute montagne de Briançon, appuyés par l’hélicoptère du détachement aérien de la gendarmerie, sont alors déployés.

      Ils ratissent la montagne, en vain. Les minutieuses recherches ont fini par être abandonnées en fin de matinée avec la supposition que le groupe a pu rebrousser chemin ou atteindre le Briançonnais.

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/10/29/une-cinquantaine-de-gendarmes-deployes-pour-rechercher-d-eventuels-migra

    • Migranti in fuga sulla rotta alpina: un racconto senza distacco

      Tra Claviere e Briançon in due anni sono transitate tra le 7 e le 10mila persone. Considerando i valichi nel cuneese e a Nord di Ventimiglia, 30-40mila. Un’“espulsione oscura” seguita e restituita dal giornalista #Maurizio_Pagliassotti.

      “Frequento da giornalista e da volontario gli ultimi 12 chilometri della rotta alpina, quelli tra Claviere (TO), in Alta Val Susa, e Briançon, in Francia. Entrando nel ‘rifugio’ che accoglie coloro che hanno attraversato la frontiera, mi sono reso conto che lì i migranti parlano tra loro diffusamente in italiano. Non usano l’inglese, né il francese, e nemmeno lingue locali: quella a cui stiamo assistendo è una fuga dal nostro Paese. Oggi dall’Italia un africano scappa, perché ha paura, perché è perseguitato, perché viene aggredito. Questo è un aspetto ancora taciuto, che rimanda a tempi oscuri del nostro passato, e ho sentito l’esigenza di raccontarlo”.

      Maurizio Pagliassotti spiega così la genesi di “Ancora dodici chilometri” (https://www.bollatiboringhieri.it/libri/maurizio-pagliassotti-ancora-dodici-chilometri-9788833933030), uscito per Bollati Boringhieri: il libro non è (solo) un reportage, ma è capace di offrire al lettore le immagini vive di un contesto alpino remoto e ai più sconosciuto, di un esodo che l’autore -giornalista, collaboratore del quotidiano il manifesto– definisce “espulsione oscura”. L’obiettivo del racconto, scrive Pagliassotti, è “creare un sentimento che porti alla resa incondizionata rispetto alla speranza che questa armata possa essere fermata”.

      Perché?
      MP Stiamo parlando di un esercito in rotta, di uomini che si muovono verso Ovest, sempre avanti, e per questo richiamo l’epica dell’esercito italiano nella campagna di Russia durante la Seconda guerra mondiale, le tragedie descritte da Mario Rigoni Stern (“Il sergente nella neve”), Nuto Revelli (“La strada del Davai”) ma soprattutto Giulio Bedeschi (“Centomila gavette di ghiaccio”). Sono numeri importanti quelli della rotta alpina: tra Claviere e Briançon in due anni sono passate 7-10mila persone. Se prendiamo anche i valichi a Sud, nel cuneese e a Nord di Ventimiglia, stiamo parlando di 30-40mila esseri umani: sono migrazioni di massa che avvengono in contesti alpini, gelidi, oscuri. Di persone che camminano affondando nella neve per due metri, che si devono muovere nel buio assoluto, perché altrimenti vengono fermati dalla Gendarmerie nationale, in aree dove sono presenti animali selvatici come i lupi. È dato questo contesto che mi sono permesso di chiamare in causa dei giganti della letteratura epica della nostra storia nazionale, per dare una forza narrativa a una vicenda così invisibile. Credo che queste storie debbano essere raccontate con un forte impatto retorico, abbandonando lo status della comunicazione razionale, sobria, ed entrando in un campo più militante, che si rivolge a un pubblico che ha bisogno di un forte impatto emotivo. Penso che la comunicazione necessiti di una forte spinta emotiva: ho avuto modo di sperimentare, nelle lunghe soste nei bar di questa nostra Italia ai margini, veri e propri spazi che svolgono un ruolo di servizio sociale, dove le classi più povere sono soggiogate dalla retorica salviniana. Con queste persone oggi non c’è dialogo, numeri e dati non ne modificano il pensiero. Necessitiamo così di nostre forme di retorica, di un arte di narrare, di creare emozioni, di far sentire le persone partecipi di questo mondo.

      Due temi che attraversano il libro sono decoro (con l’esempio di Ventimiglia) e guerra tra poveri. Che legame c’è?
      MP Il decoro è una delle tante forze che agisce per spingere i migranti, i poveri verso l’esterno. Accade a Ventimiglia, con la parrocchia accogliente, e a Torino, dove vivo e in nome del decoro è stato chiuso e sgomberato un mercatino secolare, al Balon, per allontanare i poveri. Il bar degli ultimi, invece, è quel luogo dove la rabbia dilaga, insieme alla noia, dove ci sono dei sacerdoti, che sono presentatori televisivi di talk show politici, e che in particolare nelle ore mattutine martellano e infondono odio in queste classi totalmente smarrite, prive di appartenenza, prive anche di strumenti per capire la manipolazione. I due mondi intersecano nel momento in cui i penultimi attaccano gli ultimi. Sempre a Torino, il quartiere Aurora -che racconto nel libro- crea conflitti sociali che si riproducono su loro stessi, lasciando tranquilli i responsabili della situazione, che non sono solo i politici.

      La costruzione di una narrazione in cui sfuma anche il confine tra buoni e cattivi.
      MP Considero i militari che presidiano il confine tra Italia e Francia delle vittime. Uomini che sono stati esposti per un inverno a temperature di meno 25 gradi per fare il gioco del ministro dell’Interno. Caduto Matteo Salvini, la pattuglia è stata tolta. Era solo propaganda, perché in quel momento si doveva far la guerra alla Francia. Ho anche incontrato un esponente delle forze armate che, spontaneamente, senza sapere che io fossi un giornalista, all’interno del camper di un’associazione che fa sostegno ai migranti, Rainbow for Africa, ci ha raccontato dei suoi incredibili dopocena, quando esce con gli scarponi alla ricerca dei migranti persi nelle Alpi, muovendosi alla cieca in posti dove io da alpinista non andrei. La sua figura rende molto complessa la realtà, perché fa saltare la divisione tra buoni e cattivi: coloro che in linea teorica dovrebbero perseguitare, sono gli stessi che aiutano, che fingono di non vedere passaggi o i rifugi, di non sapere che dentro gli ospedali (in Francia) ci sono degenti abusivi, illegali che sono passati a piedi e hanno gli arti congelati.

      Sono così sfumati, i contorni, che a volte uno si chiede che senso abbia tutta questa storia: perché la realtà è molto diversa della retorica politica, e alla fine passano tutti, il 100 per cento di chi ci prova. A chi serve tutto questo? Credo esista una grande responsabilità politica della destra italiana, che racconta come emergenza un flusso migratorio che potrebbe essere gestito in altro modo.

      Le vicende descritte nel tuo libro si svolgono in Val di Susa. C’è un legame tra il movimento No Tav e la solidarietà alla frontiera.
      MP Credo che chiusa la vicenda dell’opposizione al treno ad alta velocità, il mondo No Tav abbia mosso verso l’aiuto dei migranti e degli ultimi. Ciò crea una sorta di paradosso: coloro che sono considerati degli eroi in questa storia, la maggior parte di quelli che vanno a “cavare” gli assiderati dalla neve, che salvano di fatto la vita degli esseri umani che cercano di attraversare le Alpi in inverno, sono le stesse persone che lo Stato porta sotto processo e accusa di reati gravissimi (tra loro anche la settantenne Nicoletta Dosio, ndr). Coloro che portavano i bidoni di tè ai presidi No Tav, oggi portano lo stesso tè nei rifugi alpini dei migranti.
      C’è bisogno di una riflessione su questa comunità: come li valutiamo? Penso che le due vicende siano legate, che siano parte di un unicum, legato alla giustizia sociale, al rispetto dell’uomo, dell’ambiente e dei diritti umani. Bloccare il Tav e permettere ai migranti di attraversare i confini sono due forme di resistenza all’ultracapitalismo.

      https://altreconomia.it/migranti-in-fuga-sulla-rotta-alpina

    • #The_Milky_Way

      Le Alpi occidentali tra Italia e Francia sono state nel corso dei secoli una frontiera naturale, così come un luogo di passaggio e incontro. I suoi colli costituiscono terra di connessione, mediazione tra popoli e culture differenti. La storia più recente ci racconta come negli ultimi 200 anni siano stati gli italiani ad attraversare clandestinamente il confine per andare a cercare lavoro in Francia, mentre oggi è diventata una rotta utilizzata anche dai migranti di origine africana.

      Le recenti politiche di chiusura dei confini interni europei hanno spinto le persone migranti alla ricerca di strade meno battute per lasciare l’Italia e proseguire il viaggio oltre il confine con la Francia, spingendoli a passare tra i sentieri di alta montagna come quelli che costeggiano gli impianti del comprensorio sciistico “La via lattea”, proprio sul confine tra Claviere (IT) e Monginevro (FR). Durante il giorno le piste da sci sono luogo di divertimento, sport e svago; di notte, si trasformano in un teatro di paura, pericolo e violazione dei diritti umani: i migranti, poco preparati e mal equipaggiati, imboccano i sentieri sfidando il buio, il freddo e i controlli delle autorità francesi, rischiando la vita.

      The #Milky_Way è un film corale che, attraverso il racconto di attivisti, degli abitanti delle montagne, la ricostruzione storica in graphic novel animata dell’emigrazione italiana degli anni ’50, le storie dei migranti messi al sicuro dai solidali sui due lati del confine, getta luce sull’umanità che riaffiora quando il pericolo imminente riattiva la solidarietà, con la convinzione che nessuno si possa lasciare indietro, nessuno si salva da solo.

      https://www.milkywaydoc.com
      #film #film_documentaire #Luigi_D’Alife

      Trailer :
      https://www.youtube.com/watch?v=NlZE8Yl77A8&feature=emb_logo

    • #The_Milky_Way. Nessuno si salva da solo

      Le Alpi occidentali tra Italia e Francia sono state nel corso dei secoli una frontiera naturale, così come un luogo di passaggio e incontro. I suoi colli costituiscono terra di connessione, mediazione tra popoli e culture differenti. La storia più recente ci racconta come negli ultimi 200 anni siano stati gli italiani ad attraversare clandestinamente il confine per andare a cercare lavoro in Francia, mentre oggi è diventata una rotta utilizzata anche dai migranti di origine africana.

      Le recenti politiche di chiusura dei confini interni europei hanno spinto le persone migranti alla ricerca di strade meno battute per lasciare l’Italia e proseguire il viaggio oltre il confine con la Francia, spingendoli a passare tra i sentieri di alta montagna come quelli che costeggiano gli impianti del comprensorio sciistico “La via lattea”, proprio sul confine tra Claviere (IT) e Monginevro (FR). Durante il giorno le piste da sci sono luogo di divertimento, sport e svago; di notte, si trasformano in un teatro di paura, pericolo e violazione dei diritti umani: i migranti, poco preparati e mal equipaggiati, imboccano i sentieri sfidando il buio, il freddo e i controlli delle autorità francesi, rischiando la vita.

      The #Milky_Way è un film corale che, attraverso il racconto di attivisti, degli abitanti delle montagne, la ricostruzione storica in graphic novel animata dell’emigrazione italiana degli anni ’50, le storie dei migranti messi al sicuro dai solidali sui due lati del confine, getta luce sull’umanità che riaffiora quando il pericolo imminente riattiva la solidarietà, con la convinzione che nessuno si possa lasciare indietro, nessuno si salva da solo.

      https://www.milkywaydoc.com
      #film #film_documentaire #Luigi_D’Alife

      Trailer:
      https://www.youtube.com/watch?v=NlZE8Yl77A8&feature=emb_logo

    • Dans les Alpes, maraude aux confins du pays des droits de l’Homme

      Depuis quatre ans, les maraudeurs et maraudeuses de l’association Tous migrants parcourent les Alpes à la recherche des migrant·es qui viennent de passer la frontière franco-italienne. Dissimulé·es dans les bois ou dans les recoins des stations, ils et elles tentent d’échapper à la police. Nous les avons suivi·es pendant la Grande maraude organisée à Montgenèvre le 7 mars dernier.

      « J’ai commencé à faire des maraudes parce que j’aime la montagne et j’ai pas envie qu’il y ait des gens qui meurent en montagne. » Didier a les yeux fixés sur la piste de ski, chaudement habillé avec son bonnet enfoncé sur la tête. Maître d’école de cinquante ans, il fait partie de ces bénévoles qui, de nuit, guettent les ombres fragiles des migrant·es dans les sommets enneigés des Alpes pour leur venir en aide.

      Samedi 7 mars au soir, Didier guide les personnes venues participer à la grande maraude organisée par Tous migrants et Amnesty International sur les pistes de la station de Montgenèvre, dans les Hautes-Alpes. Tout en marchant, il raconte les longues soirées passées à scruter les recoins et les pistes, et l’angoisse d’apprendre la mort d’une personne. « Il y en a plein qui passent sans que personne ne les aide, et on est trop contents qu’ils n’aient pas de pépin. » Son regard se perd dans la montagne. « Mais on ne sait jamais combien ont des pépins, quand ils peuvent passer, à quelle heure … C’est trop grand. Et quand on rentre chez nous, on se demande toujours si on n’a pas laissé quelqu’un dans la panade. »
      Dans les Alpes, protéger les migrants

      « Ralentissez ! » Des voix pressantes se font entendre à l’arrière. Didier s’interrompt brutalement, tourne la tête. Au centre du groupe, une dizaine de nouveaux venus ont fait leur apparition. Recouverts de combinaisons de ski, on les confondrait presque avec le reste des maraudeurs s’ils n’étaient devenus le centre de l’attention. Ce sont des migrant·es qui viennent de passer la frontière. Trouvé·es par des bénévoles, ils et elles rejoignent la masse des maraudeurs et maraudeuses. Les bénévoles se rassemblent autour du groupe pour les accompagner jusqu’aux voitures de Médecins du monde, qui les attendent à la sortie des pistes. Dans le silence tendu, on n’entend que les pas pressés du cortège dans la neige. Au milieu, un homme porte une silhouette enfantine sur ses épaules. Les bénévoles aguerris jettent des coups d’œil anxieux vers la route, où patrouillent des policiers.

      Soudain, un signal. Sur la route, les voitures s’arrêtent une à une. « J’en prends trois ! », crie une voix d’homme. Une portière s’ouvre, une femme et deux enfants s’engouffrent rapidement à l’intérieur. La portière claque. « Ils sont tous rentrés ? », entendons-nous quelques instants plus tard. Tous les bénévoles sont incités à accompagner la voiture en convoi, explique Yves, un bénévole d’Emmaüs Chambéry. Sur le bord de la route, sans mot dire, des policiers regardent défiler les voitures.
      Dans les Alpes, « on assiste à une nouvelle errance », pour le porte-parole de Tous migrants

      Le lendemain matin, assis sur un muret ensoleillé devant le refuge de Briançon, Michel Rousseau, porte-parole de l’association Tous Migrants, enchaîne les coups de fil. Avec les médecins, il tente de savoir si une des accueillies, qui a de la fièvre, est atteinte du coronavirus. Par mesure de précaution, la famille secourue la veille est confinée dans une des chambres du refuge. Ce lieu tenu par des bénévoles, a accueilli 9 553 personnes depuis 2017. « Au début, on voyait arriver des jeunes hommes venus d’Afrique francophone qui voulaient demander l’asile en France », se souvient Michel Rousseau.

      Les arrivées se poursuivent depuis 2018. « Cette année-là, le refuge a accueilli 5 202 personnes, et on a vu arriver les exilés de l’Italie de Salvini, poursuit-il. Ils avaient été rejetés d’Italie et cherchaient un nouveau pays d’accueil. » L’association a reçu 1 968 personnes en 2019, soit deux fois moins que l’année précédente. Il analyse : « Aujourd’hui, on assiste à une nouvelle errance : on accueille beaucoup de personnes qui viennent d’Afghanistan et qui ont été chassées d’autres pays européens. » Il désigne du doigt la porte du refuge. « Regardez cette famille qui vient d’arriver. Quatre ans d’exil sur les routes… » Il soupire. « Quelle vie on inflige à ces gens-là ? »

      https://radioparleur.net/2020/03/26/alpes-maraude-migrants

    • 19 juin 2020 à 20h Amnesty International sur internet, diffusion suivie d’un débat, du #documentaire :
      https://seenthis.net/messages/860536

      Demain est si loin
      Muriel Cravatte (2019, France, 88 min, Couleur)
      https://www.amnesty.fr/cine-debat-demain-est-si-loin
      https://www.facebook.com/events/1165149137184372

      2018, frontière franco-italienne. Chaque jour, des exilés tentent de rejoindre la France à pied, en empruntant des itinéraires de montagne dangereux, pour échapper aux traques policières.

      Le film sera suivi par un temps d’échange en direct depuis Paris et Briançon avec Muriel Cravatte elle-même et des personnes engagées dans l’accueil des réfugiés et migrants à Briançon.

      Dans les Alpes, la fraternité prise pour cible
      Amnesty International, le 3 mars 2020
      https://www.amnesty.fr/refugies-et-migrants/actualites/dans-les-alpes-la-fraternite-prise-pour-cible

      Et une pétition à signer :

      Protégeons les défenseurs des droits des migrants
      https://www.amnesty.fr/refugies-et-migrants/petitions/protegeons-les-defenseurs-des-droits-des-migrants

    • Cet été, Tous Migrants vous propose des rencontres en montagne, à la frontière, en fraternité avec les exilés : grands bivouacs festifs, randonnées commentées, veillées bavardes au coin du feu.
      Soyons présents et nombreux tout l’été à la frontière pour que la montagne ne devienne pas une zone militarisée ni un cimetière. Pour que la montagne reste synonyme de beauté, sérénité et de solidarité.

      Un été solidaire dans nos montagnes
      Tous Migrants, le 23 juin 2020
      https://tousmigrants.weebly.com/sinformer/un-ete-solidaire-dans-nos-montagnes
      https://tousmigrants.weebly.com/uploads/7/3/4/6/73468541/de%CC%81pliant_exil.pdf

    • Dans les Alpes, #maraude aux confins du pays des droits de l’Homme

      Depuis quatre ans, les #maraudeurs et maraudeuses de l’association Tous migrants parcourent les Alpes pour porter secours aux migrant·es qui viennent de passer la frontière franco-italienne. Dissimulé·es dans les bois ou dans les recoins des stations, ils et elles tentent d’échapper à la police. Nous les avons suivi·es pendant la Grande maraude organisée à Montgenèvre le 7 mars dernier.

      « J’ai commencé à faire des maraudes parce que j’aime la montagne et j’ai pas envie qu’il y ait des gens qui meurent en montagne. » Didier a les yeux fixés sur la piste de ski, chaudement habillé avec son bonnet enfoncé sur la tête. Maître d’école de cinquante ans, il fait partie de ces bénévoles qui, de nuit, guettent les ombres fragiles des migrant·es dans les sommets enneigés des Alpes pour leur venir en aide.

      Samedi 7 mars au soir, Didier guide les personnes venues participer à la grande maraude organisée par Tous migrants et Amnesty International sur les pistes de la station de Montgenèvre, dans les Hautes-Alpes. Tout en marchant, il raconte les longues soirées passées à scruter les recoins et les pistes, et l’angoisse d’apprendre la mort d’une personne. « Il y en a plein qui passent sans que personne ne les aide, et on est trop contents qu’ils n’aient pas de pépin. » Son regard se perd dans la montagne. « Mais on ne sait jamais combien ont des pépins, quand ils peuvent passer, à quelle heure … C’est trop grand. Et quand on rentre chez nous, on se demande toujours si on n’a pas laissé quelqu’un dans la panade. »
      Dans les Alpes, protéger les migrants

      « Ralentissez ! » Des voix pressantes se font entendre à l’arrière. Didier s’interrompt brutalement, tourne la tête. Au centre du groupe, une dizaine de nouveaux venus ont fait leur apparition. Recouverts de combinaisons de ski, on les confondrait presque avec le reste des maraudeurs s’ils n’étaient devenus le centre de l’attention. Ce sont des migrant·es qui viennent de passer la frontière. Trouvé·es par des bénévoles, ils et elles rejoignent la masse des maraudeurs et maraudeuses. Les bénévoles se rassemblent autour du groupe pour les accompagner jusqu’aux voitures de Médecins du monde, qui les attendent à la sortie des pistes. Dans le silence tendu, on n’entend que les pas pressés du cortège dans la neige. Au milieu, un homme porte une silhouette enfantine sur ses épaules. Les bénévoles aguerris jettent des coups d’œil anxieux vers la route, où patrouillent des policiers.

      Soudain, un signal. Sur la route, les voitures s’arrêtent une à une. « J’en prends trois ! », crie une voix d’homme. Une portière s’ouvre, une femme et deux enfants s’engouffrent rapidement à l’intérieur. La portière claque. « Ils sont tous rentrés ? », entendons-nous quelques instants plus tard. Tous les bénévoles sont incités à accompagner la voiture en convoi, explique Yves, un bénévole d’Emmaüs Chambéry. Sur le bord de la route, sans mot dire, des policiers regardent défiler les voitures.
      Dans les Alpes, « on assiste à une nouvelle errance », pour le porte-parole de Tous migrants

      Le lendemain matin, assis sur un muret ensoleillé devant le refuge de Briançon, Michel Rousseau, porte-parole de l’association Tous Migrants, enchaîne les coups de fil. Avec les médecins, il tente de savoir si une des accueillies, qui a de la fièvre, est atteinte du coronavirus. Par mesure de précaution, la famille secourue la veille est confinée dans une des chambres du refuge. Ce lieu tenu par des bénévoles, a accueilli 9 553 personnes depuis 2017. « Au début, on voyait arriver des jeunes hommes venus d’Afrique francophone qui voulaient demander l’asile en France », se souvient Michel Rousseau.

      Sur le même thème : « Je ne savais pas que la neige pouvait brûler »

      Les arrivées se poursuivent en 2018. « Cette année-là, le refuge a accueilli 5 202 personnes, et on a vu arriver les exilés de l’Italie de Salvini, poursuit-il. Ils avaient été rejetés d’Italie et cherchaient un nouveau pays d’accueil. » L’association a reçu 1 968 personnes en 2019, soit deux fois moins que l’année précédente. Il analyse : « Aujourd’hui, on assiste à une nouvelle errance : on accueille beaucoup de personnes qui viennent d’Afghanistan et qui ont été chassées d’autres pays européens. » Il désigne du doigt la porte du refuge. « Regardez cette famille qui vient d’arriver. Quatre ans d’exil sur les routes… » Il soupire. « Quelle vie on inflige à ces gens-là ? »

      https://radioparleur.net/2020/03/26/alpes-maraude-migrants

    • Nell’ex fabbrica di penicillina, un #ghetto di Roma

      Oggi viene presentata la seconda edizione di “Fuori campo”, il rapporto di Medici Senza Frontiere sulla marginalità, secondo il quale “sono almeno 10.000 le persone escluse dall’accoglienza, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche”. Una cinquantina gli insediamenti mappati dall’organizzazione in tutta Italia, 3500 le persone che vivono in occupazioni, baracche e “ghetti” nella sola Roma. Open Migration è entrata dentro il “gran ghetto” della capitale: un’ex fabbrica di penicillina in cui le condizioni di vita sono estreme.

      Appena finisce di spaccare le cassette della frutta e il legname di recupero, Alecu Romel entra nella casa in cui vive con la moglie Maria. Nella stanza d’ingresso, una luce fioca illumina il fornello, collegato ad una bombola a gas. A destra, in un locale spoglio, la coppia tiene una bicicletta e dei passeggini, riadattati per raccogliere ferrivecchi e oggetti abbandonati per strada. Sulla sinistra, una porta rossa separa dalla zona notte: una camera con due letti, la televisione e stampe colorate appese alle pareti.

      “Viviamo in questo appartamento da cinque anni e cerchiamo di tenerlo sempre in ordine”, dice Maria. A cedere loro lo spazio, un altro cittadino della Romania, che dentro la Ex-Penicillina, una delle più grandi aree industriali dismesse di Roma, si era inventato un angolo di intimità arredando alcuni dei locali più piccoli, che un tempo erano probabilmente uffici. In cinque anni di vita fra i capannoni scrostati, Alecu e Maria hanno visto cambiare l’insediamento. “Prima eravamo più rumeni e ci sono state anche famiglie italiane”, continua la donna, “mentre adesso gli abitanti sono cresciuti, e quasi tutti sono africani”.

      Oggi, come allora, il sogno di ricongiungersi con i due figli, affidati ai nonni in Romania, appare lontano: “questo non è un posto per bambini, ci sono topi e sporcizia, non ci si sente sicuri, ma almeno quei pochi soldi che guadagnamo ci permettono di mantenerli a casa, di fargli fare una vita migliore della nostra”, conclude Maria, la voce rassegnata.
      Fra i capannoni del “grande ghetto”

      Sempre più sogni si infrangono dietro la facciata del complesso, che costeggia via Tiburtina, una delle arterie più trafficate della città. Qui i cantieri per il raddoppio della carreggiata vanno avanti da anni: “finite ‘sti lavori!! più che una consolare sembra una via Crucis” è l’urlo che i cittadini hanno affidato ai cartelli affissi sui muri. Siamo all’altezza della periferia operaia di San Basilio, oggi nota alle cronache anche come base per lo spaccio di stupefacenti.

      Rifugiati e richiedenti asilo, arrivati in Italia negli ultimi anni e usciti dal sistema d’accoglienza, hanno infatti trovato qui un riparo precario, aprendo un nuovo capitolo nella storia del complesso, un tempo orgoglio dell’industria italiana. Aperta come Leo – Industrie Chimiche Farmaceutiche Roma, la Ex-Penicillina è stata la prima fabbrica italiana a produrre antibiotici. Una storia complessa, intrecciata ai piani di investimento del secondo dopoguerra, supportati dagli Usa, e alle speculazioni edilizie che avrebbero cambiato il volto della capitale.

      All’inaugurazione dell’impianto, nel 1950, fu invitato lo stesso sir Alexander Fleming, scopritore della penicillina. Un graffito, nello scheletro esterno della struttura, lo ritrae pensieroso: “ti ricordi quando eravamo i più grandi?”, recita la scritta. Il quotidiano “L’Unità” aveva dedicato un paginone all’evento, col titolo “la più grande fabbrica di penicillina d’Europa inaugurata a Roma”. Dagli oltre 1300 operai degli anni Sessanta, si passò però presto a poche centinaia, fino all’abbandono totale dell’attività, alla fine degli anni Novanta. Un altro sogno, quello di una cordata di imprenditori, che volevano demolirla per fare spazio a un maxi-albergo di alta categoria, si infranse di fronte ai costi per lo smaltimento di rifiuti chimici e amianto, tuttora presenti nell’area.

      “Questo posto lo chiamano il grande ghetto”, ci dice Ahmad Al Rousan, coordinatore per Medici senza frontiere dell’intervento nei campi informali, mentre entriamo dentro uno degli stabilimenti con una torcia, perché qui manca tutto, anche l’elettricità. Camminiamo tra spazzatura, escrementi e resti della vecchia fabbrica: ampolle, fiale, scatole di medicinali su cui c’è ancora la bolla di accompagnamento. “C’è un posto qui vicino, il piccolo ghetto, qui ci sono circa 500 persone, lì 150”, aggiunge. “Non solo chiamano questi luoghi ghetti, ma chi ci vive si sente anche ghettizzato”.

      In questa area industriale abbandonata ci sono persone che arrivano da diverse parti del mondo: nord Africa, Sub Sahara, Pakistan, Afghanistan, Romania, e c’è anche un italiano. La maggior parte sono titolari di protezione internazionale, altri in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale che dovrà decidere sulla richiesta d’asilo, altri ancora hanno il permesso di soggiorno scaduto. Tutti sono fuori dall’accoglienza per qualche motivo.
      Il rapporto di Medici Senza Frontiere

      Come denuncia “Fuori campo”, l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere, in tutta Italia ci sono almeno 10 mila persone in questa condizione, alloggiate in insediamenti informali con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche. Nella capitale la maggior parte si concentra proprio qui, nella zona est, tra la Tiburtina e la Casilina, passando per Tor Cervara. Edifici abbandonati, ex fabbriche e capannoni, sono diventati la casa di centinaia tra migranti e rifugiati. Che ci vivono da invisibili in condizioni disumane, senza acqua, luce e gas, spesso a ridosso di discariche abusive.

      Da novembre 2017, l’Ong ha avviato un intervento con un’unità mobile composta da un medico, uno psicologo e un mediatore culturale, e da qualche settimana il camper è arrivato anche all’ex Leo. Quella di Msf è l’unica presenza esterna negli spazi dell’occupazione: gli operatori vengono qui una volta alla settimana, dal primo pomeriggio alla sera, per portare assistenza medica e psicologica agli abitanti. Un piccolo gazebo allestito nella parte esterna degli edifici fa da ambulatorio, la sala d’attesa è, invece, lo spazio antistante, un tavolino da campeggio, qualche sedia pieghevole e una lampada. Per chi abita qui questo momento è diventato un rito, c’è chi viene per la prima volta, chi torna per un controllo, chi viene solo per chiacchierare.

      Un ragazzo si avvicina con aria timida: “they rescued me”, ci dice, raccontando di aver riconosciuto il logo di Msf sul gazebo, lo stesso visto sulla pettorina delle persone che lo avevano soccorso nel mezzo del Mediterraneo, nel 2016. Ora, due anni dopo l’approdo in Italia, è sbarcato anche lui all’ex fabbrica della penicillina. Entra e inizia la sua prima visita: lamenta mal di testa frequenti. La dottoressa misura la pressione e compila una scheda.

      “I problemi di salute qui sono legati soprattutto alle condizioni di vita: non ci sono servizi igienici e c’è solo una presa d’acqua fredda, per centinaia di persone”, spiega Al Rousan. La patologia più comune, aggiunge “è quella respiratoria dovuta al freddo o all’aria che respirano; l’unico modo che hanno per scaldarsi è accendere il fuoco, con tutti i rischi connessi: qualche giorno fa abbiamo assistito una persona completamente ustionata, in modo grave. Ha aspettato il nostro arrivo, non ha voluto andare a farsi vedere in un ospedale”. Di incendi qui ce ne sono stati diversi, come rivelano i muri anneriti di interi spazi. L’ultimo, a fine gennaio 2018, ha richiesto l’intervento dei vigili del fuoco, dopo l’esplosione di una bombola del gas. Quando cala la sera, le luci dei fuochi accesi e le fiammelle delle candele spezzano il buio totale degli edifici.

      “Questo è un posto estremo, dove l’esclusione è totale”, sottolinea Al Rousan. Dopo aver subito vari traumi nel viaggio e poi in Libia, trovarsi in questa condizione significa vedere infranto il sogno di potersi integrare, di costruirsi una nuova vita. Lavoro da tanti anni in situazioni simili, ma non ho mai visto una cosa del genere. E non pensavo potesse esserci un posto così a Roma”.
      La normalità dell’esclusione

      La fabbrica è occupata da diversi anni, e come in tutti gli insediamenti informali, gli abitanti hanno ricostruito una parvenza di normalità. Lamin, che viene dal Gambia, gestisce un piccolo market all’ingresso di uno dei capannoni principali. I prodotti li acquista al mercato di piazza Vittorio, dove si trovano i cibi di tutto il mondo. Qui vende aranciata, farina, zucchero, fagioli, candele e i dadi marca Jumbo, indispensabili – ci dice – per preparare qualsiasi piatto africano.

      Ha poco più di vent’anni e prima di arrivare qui viveva a via Vannina, in un altro stabile occupato, poco lontano. Nel violento sgombero del giugno 2017, è volato giù dalle scale e ancora, dice, “ho dolori frequenti alle ossa”. La fabbrica è diventata la sua nuova casa.

      Victor, 23 anni, è arrivato invece all’ex Penicillina dopo un periodo trascorso in un centro di accoglienza a Lecce, mentre era in corso la sua domanda d’asilo. Ottenuto lo status di rifugiato ha deciso di spostarsi a Roma per cercare lavoro, ma non parla neanche una parola di italiano. Il suo sogno è fare il giornalista. Nel suo paese, la Nigeria, ha studiato Comunicazione: “sono grato al governo italiano per quanto ha fatto per me”, dice, “ma non pensavo che una volta arrivato in Italia mi sarei trovato in questa situazione: quando sono arrivato a Roma ho vissuto un periodo alla stazione Termini. Faceva freddo e la temperatura di notte arrivava quasi allo zero. Un connazionale mi ha parlato di questo posto, mi ha detto che qui almeno potevo farmi una doccia. Invece, una volta arrivato ho scoperto che c’era solo una fontanella per l’acqua”. Come tutti, spera di andarsene presto. “Questo luogo cambia le persone, rallenta ogni aspirazione e io, invece, il mio sogno lo vorrei realizzare”, ci dice con uno sguardo vivace.

      Nel reticolo di capannoni, corridoi e cortili, ci sono altri piccoli bar e negozi: l’ultimo è stato aperto pochi giorni fa. Sulla facciata troneggia la bandiera giallorossa della squadra di calcio della Roma. Raffigura la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo: qui è quasi un paradosso, quell’immagine simbolo di mamma Roma, patria dell’accoglienza.


      http://openmigration.org/analisi/nellex-fabbrica-di-penicillina-il-grande-ghetto-di-roma
      #Rome

    • Il sistema di accoglienza italiano verso il default organizzativo e morale

      Sono pubblicate da tempo le relazioni della Commissione di inchiesta della Camera dei deputati sui Centri per stranieri. Relazioni che censuravano l’utilizzo degli Hotspot come strutture detentive e chiedevano la chiusura del mega CARA di Mineo. Ma il governo e le prefetture non hanno svolto quel lavoro di pulizia con la estromissione del marcio che risultava largamente diffuso da nord e sud. Una operazione che sarebbe stata doverosa per difendere i tanti operatori e gestori dell’accoglienza che fanno il proprio dovere e che avrebbe permesso di rintuzzare uno degli argomenti elettorali più in voga nella propaganda politica delle destre, appunto gli sprechi e gli abusi verificati da tutti ormai all’interno dei centri di accoglienza, soprattutto in quelli appaltati direttamente dalle prefetture, i Centri di accoglienza straordinaria (CAS), la parte più consistente del sistema di accoglienza italiano.

      https://www.a-dif.org/2018/02/27/il-sistema-di-accoglienza-italiano-verso-il-default-organizzativo-e-morale

    • Ventimiglia. Prima della neve. Un report del gruppo di medici volontari del 27 febbraio scorso tratto dal blog Parole sul Confine

      Sabato 27 febbraio è stata una giornata di lavoro intenso sotto al ponte di via Tenda.

      Avremmo fatto almeno 40 visite.

      Rispetto alla scorsa estate ci sono più persone che vivono sotto al ponte del cavalcavia lungo al fiume, con un numero senza precedenti di donne e bambini anche molto piccoli.

      L’insediamento sembra sempre più stabile, con baracche costruite con pezzi di legno e teli di plastica. Le persone che vivono lì sono prevalentemente eritree e sudanesi. Al momento, tutte le donne sole e le madri sono eritree.

      Le persone che abbiamo visitato erano giovanissime. Tantissime affette da scabbia. Spesso con sovra-infezioni molto importanti. Grazie alla nostra disponibilità di farmaci e grazie alle scorte di indumenti stivati presso l’infopoint Eufemia abbiamo potuto somministrare il trattamento anti scabbia a molte persone, dopo esserci assicurati che avessero compreso come eseguire correttamente tutta la procedura.

      http://www.meltingpot.org/local/cache-vignettes/L440xH294/parole-sul-confine-tende-ponte-roia-3ad5b.png?1520066845
      http://www.meltingpot.org/Ventimiglia-Prima-della-neve.html
      #froid #hiver

    • Purgatory on the Riviera

      Ventimiglia is idyllic. It sits just across the Italian border from the French Riviera. The piercingly blue waters of the Mediterranean churn against its rocky beaches, and its buildings, painted in earthy pastels, back up against the foothills of the Alps. On Fridays, the normally quiet streets are bustling with French tourists who cross the border by car, train, and bicycle to shop in its famous markets where artisans and farmers sell clothes, leather items, fresh produce, truffles, cheeses and decadent pastries. Families with young children and elderly couples stroll along the streets and sit at sidewalk cafes or eat in one of the many restaurants along the shore.


      https://www.irinnews.org/special-report/2017/12/04/purgatory-riviera

    • Ex Penicillina. Dall’evacuazione alla bonifica: 4 mosse per uscire dal ghetto

      La proposta degli abitanti per evitare lo sgombero coatto, più volte annunciato dal ministro Salvini. All’interno circa 200 persone, tra cui alcuni italiani. “Va data a tutti un’alternativa e la fabbrica bonificata e riconsegnata alla città”


      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/606113/Ex-Penicillina-Dall-evacuazione-alla-bonifica-4-mosse-per-uscire-da

    • Nell’ex fabbrica di penicillina, un ghetto di Roma

      Oggi viene presentata la seconda edizione di “Fuori campo”, il rapporto di Medici Senza Frontiere sulla marginalità, secondo il quale “sono almeno 10.000 le persone escluse dall’accoglienza, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche”. Una cinquantina gli insediamenti mappati dall’organizzazione in tutta Italia, 3500 le persone che vivono in occupazioni, baracche e “ghetti” nella sola Roma. Open Migration è entrata dentro il “gran ghetto” della capitale: un’ex fabbrica di penicillina in cui le condizioni di vita sono estreme.

      Appena finisce di spaccare le cassette della frutta e il legname di recupero, Alecu Romel entra nella casa in cui vive con la moglie Maria. Nella stanza d’ingresso, una luce fioca illumina il fornello, collegato ad una bombola a gas. A destra, in un locale spoglio, la coppia tiene una bicicletta e dei passeggini, riadattati per raccogliere ferrivecchi e oggetti abbandonati per strada. Sulla sinistra, una porta rossa separa dalla zona notte: una camera con due letti, la televisione e stampe colorate appese alle pareti.

      “Viviamo in questo appartamento da cinque anni e cerchiamo di tenerlo sempre in ordine”, dice Maria. A cedere loro lo spazio, un altro cittadino della Romania, che dentro la Ex-Penicillina, una delle più grandi aree industriali dismesse di Roma, si era inventato un angolo di intimità arredando alcuni dei locali più piccoli, che un tempo erano probabilmente uffici. In cinque anni di vita fra i capannoni scrostati, Alecu e Maria hanno visto cambiare l’insediamento. “Prima eravamo più rumeni e ci sono state anche famiglie italiane”, continua la donna, “mentre adesso gli abitanti sono cresciuti, e quasi tutti sono africani”.

      Oggi, come allora, il sogno di ricongiungersi con i due figli, affidati ai nonni in Romania, appare lontano: “questo non è un posto per bambini, ci sono topi e sporcizia, non ci si sente sicuri, ma almeno quei pochi soldi che guadagnamo ci permettono di mantenerli a casa, di fargli fare una vita migliore della nostra”, conclude Maria, la voce rassegnata.
      Fra i capannoni del “grande ghetto”

      Sempre più sogni si infrangono dietro la facciata del complesso, che costeggia via Tiburtina, una delle arterie più trafficate della città. Qui i cantieri per il raddoppio della carreggiata vanno avanti da anni: “finite ‘sti lavori!! più che una consolare sembra una via Crucis” è l’urlo che i cittadini hanno affidato ai cartelli affissi sui muri. Siamo all’altezza della periferia operaia di San Basilio, oggi nota alle cronache anche come base per lo spaccio di stupefacenti.

      Rifugiati e richiedenti asilo, arrivati in Italia negli ultimi anni e usciti dal sistema d’accoglienza, hanno infatti trovato qui un riparo precario, aprendo un nuovo capitolo nella storia del complesso, un tempo orgoglio dell’industria italiana. Aperta come Leo – Industrie Chimiche Farmaceutiche Roma, la Ex-Penicillina è stata la prima fabbrica italiana a produrre antibiotici. Una storia complessa, intrecciata ai piani di investimento del secondo dopoguerra, supportati dagli Usa, e alle speculazioni edilizie che avrebbero cambiato il volto della capitale.

      All’inaugurazione dell’impianto, nel 1950, fu invitato lo stesso sir Alexander Fleming, scopritore della penicillina. Un graffito, nello scheletro esterno della struttura, lo ritrae pensieroso: “ti ricordi quando eravamo i più grandi?”, recita la scritta. Il quotidiano “L’Unità” aveva dedicato un paginone all’evento, col titolo “la più grande fabbrica di penicillina d’Europa inaugurata a Roma”. Dagli oltre 1300 operai degli anni Sessanta, si passò però presto a poche centinaia, fino all’abbandono totale dell’attività, alla fine degli anni Novanta. Un altro sogno, quello di una cordata di imprenditori, che volevano demolirla per fare spazio a un maxi-albergo di alta categoria, si infranse di fronte ai costi per lo smaltimento di rifiuti chimici e amianto, tuttora presenti nell’area.

      “Questo posto lo chiamano il grande ghetto”, ci dice Ahmad Al Rousan, coordinatore per Medici senza frontiere dell’intervento nei campi informali, mentre entriamo dentro uno degli stabilimenti con una torcia, perché qui manca tutto, anche l’elettricità. Camminiamo tra spazzatura, escrementi e resti della vecchia fabbrica: ampolle, fiale, scatole di medicinali su cui c’è ancora la bolla di accompagnamento. “C’è un posto qui vicino, il piccolo ghetto, qui ci sono circa 500 persone, lì 150”, aggiunge. “Non solo chiamano questi luoghi ghetti, ma chi ci vive si sente anche ghettizzato”.

      In questa area industriale abbandonata ci sono persone che arrivano da diverse parti del mondo: nord Africa, Sub Sahara, Pakistan, Afghanistan, Romania, e c’è anche un italiano. La maggior parte sono titolari di protezione internazionale, altri in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale che dovrà decidere sulla richiesta d’asilo, altri ancora hanno il permesso di soggiorno scaduto. Tutti sono fuori dall’accoglienza per qualche motivo.
      Il rapporto di Medici Senza Frontiere

      Come denuncia “Fuori campo”, l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere, in tutta Italia ci sono almeno 10 mila persone in questa condizione, alloggiate in insediamenti informali con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche. Nella capitale la maggior parte si concentra proprio qui, nella zona est, tra la Tiburtina e la Casilina, passando per Tor Cervara. Edifici abbandonati, ex fabbriche e capannoni, sono diventati la casa di centinaia tra migranti e rifugiati. Che ci vivono da invisibili in condizioni disumane, senza acqua, luce e gas, spesso a ridosso di discariche abusive.

      Da novembre 2017, l’Ong ha avviato un intervento con un’unità mobile composta da un medico, uno psicologo e un mediatore culturale, e da qualche settimana il camper è arrivato anche all’ex Leo. Quella di Msf è l’unica presenza esterna negli spazi dell’occupazione: gli operatori vengono qui una volta alla settimana, dal primo pomeriggio alla sera, per portare assistenza medica e psicologica agli abitanti. Un piccolo gazebo allestito nella parte esterna degli edifici fa da ambulatorio, la sala d’attesa è, invece, lo spazio antistante, un tavolino da campeggio, qualche sedia pieghevole e una lampada. Per chi abita qui questo momento è diventato un rito, c’è chi viene per la prima volta, chi torna per un controllo, chi viene solo per chiacchierare.

      Un ragazzo si avvicina con aria timida: “they rescued me”, ci dice, raccontando di aver riconosciuto il logo di Msf sul gazebo, lo stesso visto sulla pettorina delle persone che lo avevano soccorso nel mezzo del Mediterraneo, nel 2016. Ora, due anni dopo l’approdo in Italia, è sbarcato anche lui all’ex fabbrica della penicillina. Entra e inizia la sua prima visita: lamenta mal di testa frequenti. La dottoressa misura la pressione e compila una scheda.

      “I problemi di salute qui sono legati soprattutto alle condizioni di vita: non ci sono servizi igienici e c’è solo una presa d’acqua fredda, per centinaia di persone”, spiega Al Rousan. La patologia più comune, aggiunge “è quella respiratoria dovuta al freddo o all’aria che respirano; l’unico modo che hanno per scaldarsi è accendere il fuoco, con tutti i rischi connessi: qualche giorno fa abbiamo assistito una persona completamente ustionata, in modo grave. Ha aspettato il nostro arrivo, non ha voluto andare a farsi vedere in un ospedale”. Di incendi qui ce ne sono stati diversi, come rivelano i muri anneriti di interi spazi. L’ultimo, a fine gennaio 2018, ha richiesto l’intervento dei vigili del fuoco, dopo l’esplosione di una bombola del gas. Quando cala la sera, le luci dei fuochi accesi e le fiammelle delle candele spezzano il buio totale degli edifici.

      “Questo è un posto estremo, dove l’esclusione è totale”, sottolinea Al Rousan. Dopo aver subito vari traumi nel viaggio e poi in Libia, trovarsi in questa condizione significa vedere infranto il sogno di potersi integrare, di costruirsi una nuova vita. Lavoro da tanti anni in situazioni simili, ma non ho mai visto una cosa del genere. E non pensavo potesse esserci un posto così a Roma”.
      La normalità dell’esclusione

      La fabbrica è occupata da diversi anni, e come in tutti gli insediamenti informali, gli abitanti hanno ricostruito una parvenza di normalità. Lamin, che viene dal Gambia, gestisce un piccolo market all’ingresso di uno dei capannoni principali. I prodotti li acquista al mercato di piazza Vittorio, dove si trovano i cibi di tutto il mondo. Qui vende aranciata, farina, zucchero, fagioli, candele e i dadi marca Jumbo, indispensabili – ci dice – per preparare qualsiasi piatto africano.

      Ha poco più di vent’anni e prima di arrivare qui viveva a via Vannina, in un altro stabile occupato, poco lontano. Nel violento sgombero del giugno 2017, è volato giù dalle scale e ancora, dice, “ho dolori frequenti alle ossa”. La fabbrica è diventata la sua nuova casa.

      Victor, 23 anni, è arrivato invece all’ex Penicillina dopo un periodo trascorso in un centro di accoglienza a Lecce, mentre era in corso la sua domanda d’asilo. Ottenuto lo status di rifugiato ha deciso di spostarsi a Roma per cercare lavoro, ma non parla neanche una parola di italiano. Il suo sogno è fare il giornalista. Nel suo paese, la Nigeria, ha studiato Comunicazione: “sono grato al governo italiano per quanto ha fatto per me”, dice, “ma non pensavo che una volta arrivato in Italia mi sarei trovato in questa situazione: quando sono arrivato a Roma ho vissuto un periodo alla stazione Termini. Faceva freddo e la temperatura di notte arrivava quasi allo zero. Un connazionale mi ha parlato di questo posto, mi ha detto che qui almeno potevo farmi una doccia. Invece, una volta arrivato ho scoperto che c’era solo una fontanella per l’acqua”. Come tutti, spera di andarsene presto. “Questo luogo cambia le persone, rallenta ogni aspirazione e io, invece, il mio sogno lo vorrei realizzare”, ci dice con uno sguardo vivace.

      Nel reticolo di capannoni, corridoi e cortili, ci sono altri piccoli bar e negozi: l’ultimo è stato aperto pochi giorni fa. Sulla facciata troneggia la bandiera giallorossa della squadra di calcio della Roma. Raffigura la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo: qui è quasi un paradosso, quell’immagine simbolo di mamma Roma, patria dell’accoglienza.

      https://openmigration.org/analisi/nellex-fabbrica-di-penicillina-il-grande-ghetto-di-roma

  • Après des décennies au Pakistan, des réfugiés afghans se préparent au retour en Afghanistan

    Le Pakistan cherche à rapatrier vers l’Afghanistan des réfugiés afghans parmi 1,6 million au total qui vivent dans le pays. Le HCR a réservé des fonds pour le rapatriement de 60 000 réfugiés.

    Des familles sont installées, silencieuses. De jeunes enfants se promènent entre les chaises. Ils vont rentrer chez eux en Afghanistan, alors que certains d’entre eux vivent au Pakistan depuis plusieurs décennies. Et ils rentreront chez eux à titre définitif.

    Ce sont des réfugiés afghans et la scène se déroule au Centre de rapatriement volontaire de Peshawar, qui est géré par le HCR, l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés.

    Payenda Bibi Shahnaz est installée dans un fauteuil roulant. Son mari Shamamud dans un autre. Cela fait 33 ans qu’ils ont trouvé refuge au Pakistan, mais ils rentrent également en Afghanistan avec leurs deux fils qui s’occuperont d’eux.

    Le HCR les aidera également une fois qu’ils seront rentrés au pays.

    « Je n’ai simplement pas les moyens de payer le coût de mon traitement médical ici », explique-t-elle. « Nous n’avons pas le choix. »

    Le Haut Commissaire des Nations Unies pour les réfugiés Filippo Grandi a eu l’occasion de faire leur connaissance aujourd’hui pendant sa visite au Centre et il leur a souhaité bonne chance. Le HCR apporte également une aide de 200 dollars aux rapatriés destinée à couvrir leurs dépenses initiales de voyage et de logement.

    Le gouvernement du Pakistan met en oeuvre une politique concertée de rapatriement pour beaucoup parmi presque un million de réfugiés qui vivent dans la région de Peshawar. Le HCR a réservé des fonds pour le rapatriement de 60 000 réfugiés.

    Mais depuis le début de l’année, le nombre de réfugiés qui a passé la frontière de manière définitive dépasse tout juste 6000 personnes.

    Pour nombre d’entre eux, le moment de rendre leur carte de réfugié au Pakistan est chargé d’émotions. Les élèves sont souvent en larmes, car ils se disent qu’ils ne reverront jamais leurs amis.

    La pression économique est ce qui les pousse le plus au retour.

    Qudsia a 40 ans et elle a quatre enfants. Elle était elle-même un enfant quand elle est arrivée au Pakistan. Et aujourd’hui son mari et elle ont décidé de rentrer.

    « Nous avons décidé de rentrer, parce que c’est très cher ici. Nous avons beaucoup de problèmes. Mon mari est diabétique et on ne trouve pas de travail ici. »

    Mais ils sont bien plus nombreux à décider de rester. Au cours de la ‘shura’, la réunion de la communauté, ils ont expliqué à Filippo Grandi qu’ils restent au Pakistan à cause des opportunités que le pays offre sur le plan de l’éducation et de l’économie. Ils ont également évoqué leur crainte de la violence qui règne dans leur pays. Quelque 31 des 34 provinces que compte l’Afghanistan ont été le théâtre de conflits ces derniers mois.

    La carte PoR (Proof of Registration) de Preuve d’enregistrement au Pakistan est également cause de souci majeur. Toutes ces cartes arrivent à échéance le 30 juin. Sans ces cartes, les réfugiés sont passibles d’arrestation, voire même d’expulsion. Filippo Grandi a confirmé qu’il avait instamment demandé au Pakistan de proroger la validité des cartes. La décision sera prise par l’exécutif du Pakistan.

    Filippo Grandi a expliqué aux réfugiés qu’il comprenait leurs craintes et leurs inquiétudes par rapport au fait que 200 dollars ne suffisent pas à se réinstaller dans un pays peu sûr.

    « J’ai entendu les participants de la Shura », a-t-il déclaré. « Nous allons très bientôt augmenter l’indemnité de rapatriement. Nous allons œuvrer pour améliorer les conditions de retour des rapatriés. J’en ai parlé avec les dirigeants du gouvernement afghan. »

    Il a parlé de sa rencontre avec le Président afghan Ashraf Ghani. Le Président lui a confirmé qu’il a demandé un inventaire des terrains disponibles appartenant au gouvernement. Il s’agirait de mettre en place un programme de réinstallation des réfugiés similaire au programme pilote de Hérat en faveur des personnes déplacées à l’intérieur du pays.

    Comme pour les personnes déplacées à Hérat, il s’agirait d’attribuer aux réfugiés des terrains à bâtir. L’eau et l’électricité seraient fournies.

    Filippo Grandi a aussi abordé les préoccupations des réfugiés qui craignent de servir de boucs émissaires après des attaques ou des incidents violents le long de la frontière pakistano-afghane.

    « J’ai bien entendu ce que vous dites. Les réfugiés ne sont pas des terroristes. Je suis tout à fait d’accord. »

    Il a déclaré qu’en s’adressant aux dirigeants du gouvernement du Pakistan, il avait souligné qu’on ne pouvait mettre en cause ou pénaliser toute la population de réfugiés quand de tels événements se produisaient.


    http://www.unhcr.org/fr/news/stories/2016/6/576d401ea/apres-decennies-pakistan-refugies-afghans-preparent-retour-afghanistan.html

    #Pakistan #réfugiés_afghans #Afghanistan #réfugiés #asile #migrations #retour_au_pays

    • Amid Mass Returns, a Teacher’s Hopes for Refugee Girls in Afghanistan

      As hundreds of thousands of Afghan refugees return from Pakistan, we speak to Aqeela Asifi, a prize-winning educator of refugee girls in the country’s Punjab province, about how the mass returns will impact girls’ education and thus the future of Afghanistan.

      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2017/03/09/amid-mass-returns-a-teachers-hopes-for-refugee-girls-in-afghanistan
      #filles #femmes #éducation

    • Facing problems in Pakistan, Afghans return home in droves

      For years, Afghans have fled the violence in their country, seeking asylum in Europe or elsewhere in the Middle East. But over the past year, about 600,000 Afghans have crossed the border back into Afghanistan, coming from Pakistan, Iran and Europe when they are denied asylum.

      http://www.pbs.org/newshour/updates/facing-problems-pakistan-afghans-return-home-droves

    • Afghans Returned from Pakistan Struggle on Kabul Career Ladder

      As hundreds of thousands of Afghans return from neighboring countries, young graduates face discrimination, language barriers and a dearth of connections in a country many had never been to before, Valerie Plesch reports for Al-Fanar Media.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2017/12/11/afghans-returned-from-pakistan-struggle-on-kabul-career-ladder

    • Viaggio tra i rifugiati afghani respinti dal Pakistan

      Fin dagli anni ‘70 gli afghani fuggiti dal proprio paese hanno cercato rifugio in Pakistan. Tuttavia la loro situazione negli ultimi anni è diventata critica. Utilizzati per esercitare pressioni politiche su Kabul, subiscono continue pressione per far ritorno nel loro paese. A queste poi si sono aggiunte minacce e violenze crescenti. Una strategia che ha funzionato, come ci racconta Giuliano Battiston: migliaia sono i rifugiati tornati nel loro paese dove all’assenza di casa e lavoro fa da contraltare la presenza della guerra

      «A Peshawar avevo una mia bottega. Era piccola, ma andava bene. Vendevo zucchero, sale, olio, sapone. Non potevo lamentarmi. Ora eccomi qui, vendo meloni e angurie che compro da altri. Lo faccio da pochi giorni e non so per quanto ancora. Ma non mi basta per mandare avanti la famiglia».

      Rabihullah ha 45 anni e 12 figli. Nato in Afghanistan, fuggito dalla guerra, ha trascorso gran parte della vita in Pakistan, ma pochi mesi fa è stato costretto a tornare. Lo incontriamo all’inizio di una via sterrata che si dipana verso i campi coltivati, all’incrocio con la strada principale che conduce fuori città dal centro di Jalalabad, capoluogo di Nangarhar, provincia orientale al confine con il Pakistan. Seduto sulla paglia, alle spalle decine e decine di meloni profumati, in testa uno zuccotto chiaro, Rabihullah indossa un semplice vestito bianco, rattoppato qua e là. «Sono nato nel distretto di Bati Kut, qui nel Nangarhar. Ci siamo trasferiti in Pakistan quando ero adolescente. Di preciso non saprei quando. Ricordo che il mio primo digiuno per il Ramadan l’ho fatto lì. Non stavamo male a Peshawar. Ma 3 mesi fa siamo dovuti tornare. I poliziotti pachistani prima hanno cominciato a chiederci i documenti, poi a picchiarci. Ci attaccavano perfino di notte. Entravano nelle nostre case all’una, alle due del mattino. Ci dicevano di andar via. Nel nostro quartiere, che era come un villaggio, eravamo tutti afghani. Ci attaccavano per questo».

      La storia di Rabihullah è simile a quella di decine di migliaia di connazionali, costretti a rientrare in Afghanistan a causa delle politiche repressive del governo di Islamabad. Già nel 2015, Human Rights Watch denunciava «minacce ripetute, arresti frequenti, richieste regolari di mazzette, violenze occasionali da parte della polizia pachistana nei mesi successivi all’attacco alla scuola di Peshawar», l’attentato terroristico che il 16 dicembre 2014 ha provocato la morte di 145 persone, tra cui 134 bambini.

      Anche se l’attentato è stato rivendicato dai Talebani pachistani, per le autorità i responsabili andavano cercati all’interno dell’ampia comunità di rifugiati afghani che, sin dalla fine degli anni Settanta, hanno trovato protezione dalla guerra sull’altro lato della Durand Line, in Pakistan. Quei rifugiati erano parte della più ampia diaspora che ha reso l’Afghanistan per molti anni, fino allo scoppio della guerra siriana, il primo Paese al mondo di provenienza per numero di rifugiati. Una diaspora ancora oggi numerosa.

      Secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), Global Trends. Forced Displacement in 2017, nel mondo ci sono 2,6 milioni di rifugiati afghani, il 5% in più rispetto all’anno precedente. L’Afghanistan è il secondo paese di provenienza dei rifugiati dopo la Siria (6,3 milioni). La maggior parte vive in Pakistan (poco meno di 1,4 milioni) e in Iran (poco meno di 1 milione), ma i due Paesi ospitano anche un gran numero di emigrati privi di documenti, non registrati dalle Nazioni Unite (circa 1 milione in Pakistan, 1 milione e mezzo in Iran). «Nel corso degli ultimi 40 anni, dall’inizio della guerra in Afghanistan nel 1978, l’Iran e il Pakistan hanno ospitato il più alto numero di rifugiati afghani», ricorda la ricercatrice Jelena Bjelica, che incontriamo nell’ufficio di Kabul dell’Afghanistan Analysts Network, il più accreditato centro di ricerca del Paese.

      Molti sono tornati. Dal 2001, dal Pakistan sono rientrati ben 3,9 milioni di rifugiati afghani. Quanti non lo hanno fatto sono diventati armi diplomatiche nelle mani del governo di Islamabad, il cui establishment militare è accusato di alimentare il conflitto per ragioni strategiche. «I rifugiati vengono usati per esercitare pressioni politiche su Kabul. La prassi di non estendere la validità dei documenti di registrazione è uno degli strumenti più comuni», nota Jelena Bjelica.

      «Nel 2016 e in parte nel 2017, le autorità pachistane hanno esercitato molte pressioni sugli afghani affinché tornassero indietro» conferma il ricercatore indipendente Wali Mohammad Kandiwal, autore di diverse pubblicazioni sui processi migratori, che incontriamo a Jalalabad. Alle pressioni si sono aggiunte minacce e violenze crescenti, come testimoniato nel 2017 da un altro rapporto di Human Rights Watch. La strategia ha funzionato. Lo certificano i numeri. Tra gennaio 2016 e dicembre 2017, almeno 1,2 milioni di afghani sono rientrati dall’Iran e dal Pakistan. Nel 2017, 460.000 afghani senza documenti sono rientrati o sono stati deportati dall’Iran, 100.000 dal Pakistan e 7.000 da Paesi europei, a cui vanno aggiunti almeno altri 60.000 rifugiati registrati, tornati dal Pakistan. «Il loro è stato un vero dilemma: rimanere o tornare? Entrambe le opzioni erano rischiose. Chi è tornato, spesso non è convinto di aver fatto la scelta giusta», aggiunge Kandiwal.

      Anche Rabihullah non ne è certo. «Il lavoro non c’è, la casa costa troppo, non parliamo della sicurezza: qui si combatte dovunque», spiega sconfortato mentre ci guida lungo i viottoli del quartiere in cui vive, nella periferia di Jalalabad. Dietro un cancello di metallo c’è casa sua. Un atrio di pochi metri quadrati, delimitato da alte mura. Sulla destra, un ripiano di legno con una bombola del gas e qualche stoviglia: «è la cucina». Appena sopra, un filo con dei panni stesi. Una porta blu spicca contro il marrone delle pareti di fango. «Come vedi, la casa è fatta di un’unica stanza». C’è un’unica finestra e, di fronte all’entrata, un letto di corde intrecciate con la base in legno, tipico di queste parti. Una scala in bambù raggiunge il tetto della stanza, dove sono stesi altri panni. «È tutto qui», dice guardandosi intorno e lamentando la scarsa assistenza del governo, inefficiente e corrotto. «Le risorse ci sono, ma vengono dirottate su progetti privati, sottratte, rubate», ci dice un funzionario della sede locale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che chiede l’anonimato.

      Non si tratta soltanto di denaro. La risorsa più importante, qui, è la casa. Meglio ancora, la terra. Secondo il «Policy Framework on IDPs and Returnees» del governo, «l’assegnazione della terra sarà un contributo fondamentale nel successo di soluzione durature» per i rifugiati. Ma la realtà è diversa. «Il piano governativo è molto ambizioso, e i politici non fanno mai mancare promesse elettorali su questo tema. Ma l’assegnazione delle terre è uno dei processi più corrotti che ci siano», nota Jelena Bjelica, che sull’argomento ha scritto un articolo molto informato.

      Lo conferma Wali Mohammad Kandiwal, che ci anticipa i risultati della sua ultima ricerca, promossa dal Feinstein International Center dell’Università statunitense di Tufts. Si intitola «Homeland, but no land for home. A Case Study of Refugees in Towns: Jalalabad» e l’autore la sintetizza così: «la terra è il problema principale soprattutto qui, nella provincia di Nangarhar. Il governo punta a far tornare gli emigrati, ma non riesce a soddisfarne i bisogni e le legittime richieste. La burocrazia e soprattutto la corruzione sull’assegnazione delle terre rendono l’intero sistema dell’accoglienza del tutto fallimentare».

      Alla corruzione e all’inefficienza del governo si sommano altri ostacoli. Il primo è il costo della terra, il bene più ambito. Secondo i dati riportati dallo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar), l’organo di controllo che riferisce al Congresso degli Stati Uniti sui soldi pubblici spesi nel Paese centro-asiatico, dal 2001 il costo della terra è aumentato del 1.000%. Un aumento ancora più significativo si registra nella provincia di Nangarhar, a causa delle speculazioni legate al rientro dei profughi dal Pakistan, delle mafie locali, delle dispute sui terreni e del landgrabbing.

      C’è poi il problema strutturale dell’enorme peso demografico, sociale ed economico delle migrazioni forzate. Secondo una recente ricerca coordinata dall’Oim, in 15 delle 34 province afghane con la maggiore mobilità transfrontaliera e interna, tra il 2012 e il 2017 più di 3,5 milioni di persone sono ritornate dall’estero o sono state costrette a lasciare la propria casa, per trasferirsi in altre zone del paese. Tra coloro che sono rientrati in patria, 1 milione e 355 mila provenivano dal Pakistan, 398 mila dall’Iran. Il 25% di tutti i returnees si sono stabiliti proprio nella provincia di Nangarhar, che ha registrato 499,194 nuovi arrivi – ufficiali – tra il 2012 e il 2017.

      Tra questi c’è Hejrat, 33 anni, carnagione scura, occhi celesti e un sorriso rassicurante. «Siamo tornati nel giugno 2017. Era un periodo in cui tante famiglie decidevano di tornare indietro», racconta. «Sono nato in Pakistan, ma la mia famiglia è originaria del distretto di Rodat, non distante da Jalalabad». Hejrat ha vissuto a lungo in Pakistan, a Peshawar, prima di essere costretto a tornare: «per i pachistani, gli afghani sono un fastidio. Abbiamo sopportato a lungo, poi siamo partiti». Per farlo ha dovuto chiedere un prestito: «I miei genitori erano già tornati. Ho chiesto un prestito di 10.000 rupie pachistane (circa 70 euro, ndr), ho fatto i bagagli e sono partito. Eravamo 5 persone, tutta la mia famiglia. Al confine, l’Onu ci ha dato una tenda, 100 chili di farina e 3 coperte. Ora eccoci qui». Hejrat sostiene che l’assistenza ricevuta sia insufficiente. «Abbiamo bisogno di tutto: cibo, lavoro, soldi. Con i soldi potrei cominciare un’attività e restituire quel che devo. Ho ancora debiti da pagare in Pakistan».

      Hejrat è tornato in Afghanistan nel giugno 2017, quando la morsa delle autorità pachistane cominciava ad allentarsi. «In quel periodo le autorità hanno prolungato la validità dei documenti degli afghani e il ministero afghano per i Rifugiati ha trovato un accordo con la controparte a Islamabad», ricorda Kandiwal. Nel 2018, la pressione è ulteriormente diminuita. Eppure, i rientri dal Pakistan continuano, così come gli abusi. Da gennaio a oggi, secondo l’Oim circa 23.000 afghani senza documenti sono tornati in Afghanistan dal Pakistan (mentre sono circa 510.000 quelli rientrati dall’Iran, a causa delle crescenti pressioni delle autorità iraniane e della svalutazione del rial). «Siamo tornati da 5 mesi», racconta Hakim, 25 anni. «Siamo stati costretti ad andarcene. I poliziotti ci picchiavano ogni giorno con i bastoni, ci perseguitavano, continuavano a crearci problemi. Quando hanno esagerato, abbiamo deciso di partire. Molta gente ha preso la nostra stessa decisione».

      Hakim si considera afghano, ma è nato in Pakistan. «Sono nato vicino a Peshawar, nel campo (rifugiati, ndr) di Akora. Poi siamo finiti a vivere su Charsadda road, fuori dai campi, con altre famiglie afghane. La mia famiglia si è trasferita in Pakistan 35 anni fa a causa della guerra». La guerra continua ancora oggi, ma Hakim – pur non essendoci mai vissuto – è tornato nella patria dei genitori. «Non era più possibile vivere a Peshawar: troppi problemi».

      Anche qui non mancano. «In Pakistan facevo il lavoratore a giornata, lo stesso provo a fare qui. Ma è più difficile. Ho provato ad andare a Kabul, ma non ho trovato niente. Vivo con mia madre e mio padre, con mia moglie e i miei 5 figli. In tutto, siamo 8 persone». Hakim ci mostra casa, una tenda di plastica marrone, fornita dal Norwegian Refugee Council. Il tetto è in lamiera, le pareti in plastica e tela. Sopra l’ingresso svetta una bandiera afghana. Sui lati, una stampella di fil di ferro sorregge un vassoio di metallo con qualche utensile. Un intricato giro di fili porta l’elettricità. «Ma va e viene». All’interno, diversi materassi, arrotolati per risparmiare spazio, un peluche spelacchiato e qualche pentola. La tenda si trova in un ampio parcheggio sterrato, per gran parte occupato da ferraglia e calcinacci. Dietro la tenda c’è un palazzo in costruzione, lasciato a metà. Accanto, un’altra tenda, più bassa e più piccola.

      Qualche metro più in là, un orticello di due metri per due. Pomodori, melanzane e poco altro. Hakim vorrebbe tornare nel villaggio dei genitori, nel distretto di Bati Kut, ma non può: «lì c’è la guerra».


      http://openmigration.org/analisi/viaggio-tra-i-rifugiati-afghani-respinti-dal-pakistan

    • Coming home to conflict: Why Afghan returnees say they were better off as refugees

      Life as an Afghan refugee in Pakistan was never easy for Halima Bibi. But living in her own country has been even harder.

      Bibi, 60, is among more than 3.8 million refugee and undocumented Afghans who have returned to Afghanistan – by choice or by force – over the last five years. In 2016, after spending their entire lives as refugees, she and her three children were driven over the border on the back of a truck – one family among hundreds of thousands of Afghans pushed out of Pakistan that year in a refugee crackdown.

      Today, she lives in a small brick house in Bela, a village hosting around 1,500 returnee families outside the eastern Afghan city of Jalalabad. None of her three children have jobs, and Bibi worries about her health: she hasn’t been able to find a clinic to treat complications from her leprosy.

      “Life’s much more difficult here,” she said, sitting on the steps outside her concrete home, tears rolling down her wrinkled cheeks. “All of our extended family is in Pakistan and we struggle to survive.”

      Bibi’s troubles are common among Afghans coming home to a country at war after decades away, but data showing how returnees are faring has been scarce. Now, new research tracking Afghan returnees is painting a clearer picture of what people like Bibi are going through as authorities and aid groups prepare for more returns.

      A study released in July by the World Bank and the UN’s refugee agency, UNHCR, found that most returnees are worse off financially than those who had stayed behind in Pakistan. Researchers interviewed thousands of Afghans who returned between 2014 and 2017 – a period that saw both a sharp rise in civilian casualties in Afghanistan, and mounting pressure on Afghan refugees living on the margins in Pakistan.

      The study found returnees face significantly higher unemployment, resorted to more precarious or unstable jobs like day labouring, and earned lower wages than they did back in Pakistan. They were also more likely to be unemployed or racking up debt compared with Afghans who never left the country.

      The research comes at a critical period for the government and aid groups in Afghanistan. UN agencies are forecasting that at least 680,000 refugees and undocumented migrants will return from Pakistan and Iran this year. But there are few jobs available and little help to reintegrate in a country in crisis.

      A record 3,800 people were killed in conflict last year, and hundreds of thousands were displaced by clashes or by disasters. Afghanistan is heading toward presidential elections in late September, yet insurgent attacks and military operations continue to kill civilians.

      The study’s proponents say the new data can be used to better understand returnees’ humanitarian needs, to shape more targeted aid and development responses – and to prepare for the next wave of returns and displacement.
      War and migration in Afghanistan

      With their country at war for the past four decades, millions of Afghans have been pushed out by both insecurity and a struggling economy. The UNHCR says the global Afghan refugee population – which includes some 2.7 million registered refugees and millions more undocumented – is the second-largest in the world.

      For decades, neighbouring Pakistan and Iran have hosted the majority of these refugees. But returns have surged over the last five years, driven by volatile public sentiment against refugees, geopolitical manoeuvring – Pakistan has previously threatened new rounds of deportation after political tussles with Afghanistan’s main backer, the United States – or economic crises.

      Some Afghans choose to come home, taking advantage of voluntary return programmes that supply cash grants to registered refugees. Other undocumented Afghans are fleeing sporadic police crackdowns in Pakistan. The majority of recent returnees are from Iran, where an economic crisis has driven Afghans out in droves.

      But there are few services for returning refugees and migrants. At Afghanistan’s four main border crossings with Pakistan and Iran, returning refugees are registered and the most vulnerable – unaccompanied children and single women – receive short-term assistance like food, clothing, and onward transport. But most of this assistance is short-lived, and migration flows are difficult to track once people have entered the country.

      Hafizullah Safi, 50, returned to Afghanistan four years ago along with his wife and 10 children. His family had never set foot in Afghanistan. His last visit was 35 years ago.

      Originally from the eastern province of Kunar, a lush rural area with one of Afghanistan’s few remaining forests, Safi decided to settle in Kabul instead – further from the war’s front lines, he said, and closer to schools and hospitals.

      But adjusting to his new life has been difficult. He rents a two-room mud home in Kabul’s city centre, but he struggles to pay the monthly rent of 5,000 afghanis, or about $60.

      “In Pakistan, I owned a small shop selling dried fruit, but here in Kabul I can barely keep my job as a taxi driver,” he said.

      Outside his house, a garbage-filled river breeds mosquitoes and smells of faeces. The roads are unpaved and electricity is scarce, if available at all. His son, a university graduate with a business degree, has been looking for a job since finishing his studies.

      Safi said there’s little to no assistance from both the government and aid groups. Four years after leaving, the family survives on money sent from relatives still in Pakistan.

      High expectations

      Rights groups say Afghanistan has failed to implement large-scale land programmes for refugees. Government policy aims to include returnees and displaced communities within the country’s development programmes, but the conflict itself makes progress difficult for all Afghans.

      “Returnees often have high expectations and it doesn’t line up with what we can provide,” said Abdul Basit Ansari, a spokesman at the Ministry of Refugees and Repatriation, which oversees programmes for returnees and the displaced. “Both security and employment continue to be big challenges – not only for those who return, but for Afghans across the country.”

      The return to Afghanistan has been difficult for Safi and his family, but he said some aspects are better, compared with living an undocumented existence in Pakistan.

      “We were never fully integrated. We always lived in fear of being found out,” he said. “Afghanistan might be dangerous, but in some ways it is safer. This is our home. We are free here.”

      Still, in a crisis marked by precarious returns and long-lasting displacement, many Afghans are looking to leave.

      At Pakistan’s embassies and consulates across Afghanistan, more than 5,000 visa applications are made daily, according to Pakistan’s ambassador, with many people waiting in line for days.

      The Pakistan-Afghanistan border has traditionally been porous, but Safi said regulations have toughened in recent years: “We now need passports and visas to cross the border,” he said. “These are expensive and hard to come by.”

      If it wasn’t for paperwork, he admitted, his family would have returned to Pakistan long ago. Instead, he’s eyeing other migration opportunities for his university-educated but jobless son.

      “Pakistan is becoming less of an option,” he said. “My son is now trying to go to Europe instead.”

      https://www.thenewhumanitarian.org/news-feature/2019/08/01/Afghan-conflict-returnees-better-off-refugees

      #Pakistan

    • Coming home to conflict: Why Afghan returnees say they were better off as refugees

      Life as an Afghan refugee in Pakistan was never easy for Halima Bibi. But living in her own country has been even harder.

      Bibi, 60, is among more than 3.8 million refugee and undocumented Afghans who have returned to Afghanistan – by choice or by force – over the last five years. In 2016, after spending their entire lives as refugees, she and her three children were driven over the border on the back of a truck – one family among hundreds of thousands of Afghans pushed out of Pakistan that year in a refugee crackdown.

      Today, she lives in a small brick house in Bela, a village hosting around 1,500 returnee families outside the eastern Afghan city of Jalalabad. None of her three children have jobs, and Bibi worries about her health: she hasn’t been able to find a clinic to treat complications from her leprosy.

      “Life’s much more difficult here,” she said, sitting on the steps outside her concrete home, tears rolling down her wrinkled cheeks. “All of our extended family is in Pakistan and we struggle to survive.”

      Bibi’s troubles are common among Afghans coming home to a country at war after decades away, but data showing how returnees are faring has been scarce. Now, new research tracking Afghan returnees is painting a clearer picture of what people like Bibi are going through as authorities and aid groups prepare for more returns.

      A study released in July by the World Bank and the UN’s refugee agency, UNHCR, found that most returnees are worse off financially than those who had stayed behind in Pakistan. Researchers interviewed thousands of Afghans who returned between 2014 and 2017 – a period that saw both a sharp rise in civilian casualties in Afghanistan, and mounting pressure on Afghan refugees living on the margins in Pakistan.

      The study found returnees face significantly higher unemployment, resorted to more precarious or unstable jobs like day labouring, and earned lower wages than they did back in Pakistan. They were also more likely to be unemployed or racking up debt compared with Afghans who never left the country.

      The research comes at a critical period for the government and aid groups in Afghanistan. UN agencies are forecasting that at least 680,000 refugees and undocumented migrants will return from Pakistan and Iran this year. But there are few jobs available and little help to reintegrate in a country in crisis.

      A record 3,800 people were killed in conflict last year, and hundreds of thousands were displaced by clashes or by disasters. Afghanistan is heading toward presidential elections in late September, yet insurgent attacks and military operations continue to kill civilians.

      The study’s proponents say the new data can be used to better understand returnees’ humanitarian needs, to shape more targeted aid and development responses – and to prepare for the next wave of returns and displacement.
      War and migration in Afghanistan

      With their country at war for the past four decades, millions of Afghans have been pushed out by both insecurity and a struggling economy. The UNHCR says the global Afghan refugee population – which includes some 2.7 million registered refugees and millions more undocumented – is the second-largest in the world.

      For decades, neighbouring Pakistan and Iran have hosted the majority of these refugees. But returns have surged over the last five years, driven by volatile public sentiment against refugees, geopolitical manoeuvring – Pakistan has previously threatened new rounds of deportation after political tussles with Afghanistan’s main backer, the United States – or economic crises.

      Some Afghans choose to come home, taking advantage of voluntary return programmes that supply cash grants to registered refugees. Other undocumented Afghans are fleeing sporadic police crackdowns in Pakistan. The majority of recent returnees are from Iran, where an economic crisis has driven Afghans out in droves.

      But there are few services for returning refugees and migrants. At Afghanistan’s four main border crossings with Pakistan and Iran, returning refugees are registered and the most vulnerable – unaccompanied children and single women – receive short-term assistance like food, clothing, and onward transport. But most of this assistance is short-lived, and migration flows are difficult to track once people have entered the country.

      Hafizullah Safi, 50, returned to Afghanistan four years ago along with his wife and 10 children. His family had never set foot in Afghanistan. His last visit was 35 years ago.

      Originally from the eastern province of Kunar, a lush rural area with one of Afghanistan’s few remaining forests, Safi decided to settle in Kabul instead – further from the war’s front lines, he said, and closer to schools and hospitals.

      But adjusting to his new life has been difficult. He rents a two-room mud home in Kabul’s city centre, but he struggles to pay the monthly rent of 5,000 afghanis, or about $60.

      “In Pakistan, I owned a small shop selling dried fruit, but here in Kabul I can barely keep my job as a taxi driver,” he said.

      Outside his house, a garbage-filled river breeds mosquitoes and smells of faeces. The roads are unpaved and electricity is scarce, if available at all. His son, a university graduate with a business degree, has been looking for a job since finishing his studies.

      Safi said there’s little to no assistance from both the government and aid groups. Four years after leaving, the family survives on money sent from relatives still in Pakistan.

      High expectations

      Rights groups say Afghanistan has failed to implement large-scale land programmes for refugees. Government policy aims to include returnees and displaced communities within the country’s development programmes, but the conflict itself makes progress difficult for all Afghans.

      “Returnees often have high expectations and it doesn’t line up with what we can provide,” said Abdul Basit Ansari, a spokesman at the Ministry of Refugees and Repatriation, which oversees programmes for returnees and the displaced. “Both security and employment continue to be big challenges – not only for those who return, but for Afghans across the country.”

      The return to Afghanistan has been difficult for Safi and his family, but he said some aspects are better, compared with living an undocumented existence in Pakistan.

      “We were never fully integrated. We always lived in fear of being found out,” he said. “Afghanistan might be dangerous, but in some ways it is safer. This is our home. We are free here.”

      Still, in a crisis marked by precarious returns and long-lasting displacement, many Afghans are looking to leave.

      At Pakistan’s embassies and consulates across Afghanistan, more than 5,000 visa applications are made daily, according to Pakistan’s ambassador, with many people waiting in line for days.

      The Pakistan-Afghanistan border has traditionally been porous, but Safi said regulations have toughened in recent years: “We now need passports and visas to cross the border,” he said. “These are expensive and hard to come by.”

      If it wasn’t for paperwork, he admitted, his family would have returned to Pakistan long ago. Instead, he’s eyeing other migration opportunities for his university-educated but jobless son.

      “Pakistan is becoming less of an option,” he said. “My son is now trying to go to Europe instead.”

      https://www.thenewhumanitarian.org/news-feature/2019/08/01/Afghan-conflict-returnees-better-off-refugees

  • Tunisian fishermen await trial after ’saving hundreds of migrants’

    Friends and colleagues have rallied to the defence of six Tunisian men awaiting trial in Italy on people smuggling charges, saying they are fishermen who have saved hundreds of migrants and refugees over the years who risked drowning in the Mediterranean.

    The men were arrested at sea at the weekend after their trawler released a small vessel it had been towing with 14 migrants onboard, 24 miles from the coast of the Italian island of Lampedusa.

    Italian authorities said an aeroplane crew from the European border agency Frontex had first located the trawler almost 80 nautical miles from Lampedusa and decided to monitor the situation.They alerted the Italian police after the migrant vessel was released, who then arrested all crew members at sea.

    According to their lawyers, the Tunisians maintain that they saw a migrant vessel in distress and a common decision was made to tow it to safety in Italian waters. They claim they called the Italian coastguard so it could intervene and take them to shore.

    Prosecutors have accused the men of illegally escorting the boat into Italian waters and say they have no evidence of an SOS sent by either the migrant boat or by the fishermen’s vessel.

    Among those arrested were 45-year-old Chamseddine Ben Alì Bourassine, who is known in his native city, Zarzis, which lies close to the Libyan border, for saving migrants and bringing human remains caught in his nets back to shore to give the often anonymous dead a dignified burial.

    Immediately following the arrests, hundreds of Tunisians gathered in Zarzis to protest and the Tunisian Fishermen Association of Zarzis sent a letter to the Italian embassy in Tunis in support of the men.

    “Captain Bourassine and his crew are hardworking fishermen whose human values exceed the risks they face every day,” it said. “When we meet boats in distress at sea, we do not think about their colour or their religion.”

    According to his colleagues in Zarzis, Bourassine is an advocate for dissuading young Tunisians from illegal migration. In 2015 he participated in a sea rescue drill organised by Médecins Sans Frontières (Msf) in Zarzis.

    Giulia Bertoluzzi, an Italian filmmaker and journalist who directed the documentary Strange Fish, about Bourassine, said the men were well known in their home town.

    “In Zarzis, Bourassine and his crew are known as anonymous heroes”, Bertoluzzi told the Guardian. “Some time ago a petition was circulated to nominate him for the Nobel peace prize. He saved thousands of lives since.”

    The six Tunisians who are now being held in prison in the Sicilian town of Agrigento pending their trial. If convicted, they could face up to 15 years in prison.

    The Italian police said in a statement: “We acted according to our protocol. After the fishing boat released the vessel, it returned south of the Pelagie Islands where other fishing boats were active in an attempt to shield itself.”

    It is not the first time that Italian authorities have arrested fishermen and charged them with aiding illegal immigration. On 8 August 2007, police arrested two Tunisian fishermen for having guided into Italian waters 44 migrants. The trial lasted four years and both men were acquitted of all criminal charges.

    Leonardo Marino, a lawyer in Agrigento who had defended dozens of Tunisian fishermen accused of enabling smuggling, told the Guardian: “The truth is that migrants are perceived as enemies and instead of welcoming them we have decided to fight with repressive laws anyone who is trying to help them.”


    https://www.theguardian.com/world/2018/sep/05/tunisian-fishermen-await-trial-after-saving-hundreds-of-migrants?CMP=sh
    #Tunisie #pêcheurs #solidarité #mourir_en_mer #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #pêcheurs_tunisiens #délit_de_solidarité
    Accusation: #smuggling #passeurs

    cc @_kg_

    • Commentaires de Charles Heller sur FB :

      Last year these Tunisian fishermen prevented the identitarian C-Star - chartered to prevent solidarity at sea - from docking in Zarzis. Now they have been arrested for exercising that solidarity.

      Back to the bad old days of criminalising Tunisian fishermen who rescue migrants at sea. Lets make some noise and express our support and solidarity in all imaginable ways!

    • Des pêcheurs tunisiens poursuivis pour avoir tracté des migrants jusqu’en Italie

      Surpris en train de tirer une embarcation de migrants vers l’Italie, des pêcheurs tunisiens -dont un militant connu localement- ont été écroués en Sicile. Une manifestation de soutien a eu lieu en Tunisie et une ONG essaie actuellement de leur venir en aide.

      Des citoyens tunisiens sont descendus dans la rue lundi 3 septembre à Zarzis, dans le sud du pays, pour protester contre l’arrestation, par les autorités italiennes, de six pêcheurs locaux. Ces derniers sont soupçonnés d’être des passeurs car ils ont été "surpris en train de tirer une barque avec 14 migrants à bord en direction de [l’île italienne de] Lampedusa", indique la police financière et douanière italienne.

      La contestation s’empare également des réseaux sociaux, notamment avec des messages publiés demandant la libération des six membres d’équipage parmi lesquels figurent Chamseddine Bourassine, président de l’association des pêcheurs de Zarzis. “Toute ma solidarité avec un militant et ami, le doyen des pêcheurs Chamseddine Bourassine. Nous appelons les autorités tunisiennes à intervenir immédiatement avec les autorités italiennes afin de le relâcher ainsi que son équipage”, a écrit lundi le jeune militant originaire de Zarzis Anis Belhiba sur Facebook. Une publication reprise et partagée par Chamesddine Marzoug, un pêcheur retraité et autre militant connu en Tunisie pour enterrer lui-même les corps des migrants rejetés par la mer.

      Sans nouvelles depuis quatre jours

      Un appel similaire a été lancé par le Forum tunisien pour les droits économiques et sociaux, par la voix de Romdhane Ben Amor, chargé de communication de cette ONG basée à Tunis. Contacté par InfoMigrants, il affirme n’avoir reçu aucune nouvelle des pêcheurs depuis près de quatre jours. “On ne sait pas comment ils vont. Tout ce que l’on sait c’est qu’ils sont encore incarcérés à Agrigente en Sicile. On essaie d’activer tous nos réseaux et de communiquer avec nos partenaires italiens pour leur fournir une assistance juridique”, explique-t-il.

      Les six pêcheurs ont été arrêtés le 29 août car leur bateau de pêche, qui tractait une embarcation de fortune avec 14 migrants à son bord, a été repéré -vidéo à l’appui- par un avion de Frontex, l’Agence européenne de garde-côtes et garde-frontières.

      Selon une source policière italienne citée par l’AFP, les pêcheurs ont été arrêtés pour “aide à l’immigration clandestine” et écroués. Le bateau a été repéré en train de tirer des migrants, puis de larguer la barque près des eaux italiennes, à moins de 24 milles de Lampedusa, indique la même source.

      Mais pour Romdhane Ben Amor, “la vidéo de Frontex ne prouve rien”. Et de poursuivre : “#Chamseddine_Bourassine, on le connaît bien. Il participe aux opérations de sauvetage en Méditerranée depuis 2008, il a aussi coordonné l’action contre le C-Star [navire anti-migrants affrété par des militant d’un groupe d’extrême droite]”. Selon Romdhane Ben Amor, il est fort probable que le pêcheur ait reçu l’appel de détresse des migrants, qu’il ait ensuite tenté de les convaincre de faire demi-tour et de regagner la Tunisie. N’y parvenant pas, le pêcheur aurait alors remorqué l’embarcation vers l’Italie, la météo se faisant de plus en plus menaçante.

      La Tunisie, pays d’origine le plus représenté en Italie

      Un nombre croissant de Tunisiens en quête d’emploi et de perspectives d’avenir tentent de se rendre illégalement en Italie via la Méditerranée. D’ailleurs, avec 3 300 migrants arrivés entre janvier et juillet 2018, la Tunisie est le pays d’origine le plus représenté en Italie, selon un rapport du Haut commissariat de l’ONU aux réfugiés (HCR) publié lundi.

      La Méditerranée a été "plus mortelle que jamais" début 2018, indique également le HCR, estimant qu’une personne sur 18 tentant la traversée meurt ou disparaît en mer.


      http://www.infomigrants.net/fr/post/11752/des-pecheurs-tunisiens-poursuivis-pour-avoir-tracte-des-migrants-jusqu

    • Lampedusa, in cella ad Agrigento il pescatore tunisino che salva i migranti

      Insieme al suo equipaggio #Chameseddine_Bourassine è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale. La Tunisia chiede il rilascio dei sei arrestati. L’appello per la liberazione del figlio di uno dei pescatori e del fratello di Bourassine

      Per la Tunisia Chameseddine Bourassine è il pescatore che salva i migranti. Protagonista anche del film documentario «Strange Fish» di Giulia Bertoluzzi. Dal 29 agosto Chameseddine e il suo equipaggio sono nel carcere di Agrigento, perchè filmati mentre trainavano un barchino con 14 migranti fino a 24 miglia da Lampedusa. Il peschereccio è stato sequestrato e rischiano molti anni di carcere per favoreggiamento aggravato dell’immigrazione illegale. Da Palermo alcuni parenti giunti da Parigi lanciano un appello per la loro liberazione.

      Ramzi Lihiba, figlio di uno dei pescatori arrestati: «Mio padre è scioccato perchè è la prima volta che ha guai con la giustizia. Mi ha detto che hanno incontrato una barca in pericolo e hanno fatto solo il loro dovere. Non è la prima volta. Chameseddine ha fatto centinaia di salvataggi, portando la gente verso la costa più vicina. Prima ha chiamato la guardia costiera di Lampedusa e di Malta senza avere risposta».

      Mohamed Bourassine, fratello di Chameseddine: «Chameseddine l’ha detto anche alla guardia costiera italiana, se trovassi altre persone in pericolo in mare, lo rifarei».
      La Tunisia ha chiesto il rilascio dei sei pescatori di Zarzis. Sit in per loro davanti alle ambasciate italiane di Tunisi e Parigi. Da anni i pescatori delle due sponde soccorrono migranti con molti rischi. Ramzi Lihiba: «Anche io ho fatto la traversata nel 2008 e sono stato salvato dai pescatori italiani, altrimenti non sarei qui oggi».

      https://www.rainews.it/tgr/sicilia/video/2018/09/sic-lampedusa-carcere-pescatore-tunisino-salva-migranti-8f4b62a7-b103-48c0-8

    • Posté par Charles Heller sur FB :

      Yesterday, people demonstrated in the streets of Zarzis in solidarity with the Tunisian fishermen arrested by Italian authorities for exercising their solidarity with migrants crossing the sea. Tomorrow, they will be heard in front of a court in Sicily. While rescue NGOs have done an extraordinary job, its important to underline that European citizens do not have the monopoly over solidarity with migrants, and neither are they the only ones being criminalised. The Tunisian fishermen deserve our full support.


      https://www.facebook.com/charles.heller.507/posts/2207659576116549

    • I pescatori, eroi di Zarzis, in galera

      Il 29 agosto 2018 sei pescatori tunisini sono stati arrestati ad Agrigento, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato punibile fino a quindici anni di carcere. Il loro racconto e quello dei migranti soccorsi parla invece di una barca in panne che prendeva acqua, del tentativo di contattare la Guardia Costiera italiana e infine - dopo una lunga attesa – del trasporto del barchino verso Lampedusa, per aiutare le autorità nelle operazioni di soccorso. Mentre le indagini preliminari sono in corso, vi raccontiamo chi sono questi pescatori. Lo facciamo con Giulia Bertoluzzi, che ha girato il film “Strange Fish” – vincitore al premio BNP e menzione speciale della giuria al festival Visioni dal Mondo - di cui Bourassine è il protagonista, e Valentina Zagaria, che ha vissuto oltre due anni a Zarzis per un dottorato in antropologia.

      Capitano, presidente, eroe. Ecco tre appellativi che potrebbero stare a pennello a Chamseddine Bourassine, presidente della Rete Nazionale della Pesca Artigianale nonché dell’associazione di Zarzis “Le Pêcheur” pour le Développement et l’Environnement, nominata al Premio Nobel per la Pace 2018 per il continuo impegno nel salvare vite nel Mediterraneo. I pescatori di Zarzis infatti, lavorando nel mare aperto tra la Libia e la Sicilia, si trovano da più di quindici anni in prima linea nei soccorsi a causa della graduale chiusura ermetica delle vie legali per l’Europa, che ha avuto come conseguenza l’inizio di traversate con mezzi sempre più di fortuna.
      I frutti della rivoluzione

      Sebbene la legge del mare abbia sempre prevalso per Chamseddine e i pescatori di Zarzis, prima della rivoluzione tunisina del 2011 i pescatori venivano continuamente minacciati dalla polizia del regime di Ben Ali, stretto collaboratore sia dell’Italia che dell’Unione europea in materia di controlli alle frontiere. “Ci dicevano di lasciarli in mare e che ci avrebbero messo tutti in prigione”, spiegava Bourassine, “ma un uomo in mare è un uomo morto, e alla polizia abbiamo sempre risposto che piuttosto saremmo andati in prigione”. In prigione finivano anche i cittadini tunisini che tentavano la traversata e che venivano duramente puniti dal loro stesso governo.

      Tutto è cambiato con la rivoluzione. Oltre 25.000 tunisini si erano imbarcati verso l’Italia, di cui tanti proprio dalle coste di Zarzis. “Non c’erano più né stato né polizia, era il caos assoluto” ricorda Anis Souei, segretario generale dell’Associazione. Alcuni pescatori non lasciavano le barche nemmeno di notte perché avevano paura che venissero rubate, i più indebitati invece tentavano di venderle, mentre alcuni abitanti di Zarzis, approfittando del vuoto di potere, si improvvisavano ‘agenti di viaggi’, cercando di fare affari sulle spalle degli harraga – parola nel dialetto arabo nord africano per le persone che ‘bruciano’ passaporti e frontiera attraversando il Mediterraneo. Chamseddine Bourassine e i suoi colleghi, invece, hanno stretto un patto morale, stabilendo di non vendere le proprie barche per la harga. Si sono rimboccati le maniche e hanno fondato un’associazione per migliorare le condizioni di lavoro del settore, per sensibilizzare sulla preservazione dell’ambiente – condizione imprescindibile per la pesca – e dare una possibilità di futuro ai giovani.

      E proprio verso i più giovani, quelli che più continuano a soffrire dell’alto tasso di disoccupazione, l’associazione ha dedicato diverse campagne di sensibilizzazione. “Andiamo nelle scuole per raccontare quello che vediamo e mostriamo ai ragazzi le foto dei corpi che troviamo in mare, perché si rendano conto del reale pericolo della traversata”, racconta Anis. Inoltre hanno organizzato formazioni di meccanica, riparazione delle reti e pesca subacquea, collaborando anche con diversi progetti internazionali, come NEMO, organizzato dal CIHEAM-Bari e finanziato dalla Cooperazione Italiana. Proprio all’interno di questo progetto è nato il museo di Zarzis della pesca artigianale, dove tra nodi e anforette per la pesca del polipo, c’è una mostra fotografica dei salvataggi in mare intitolata “Gli eroi anonimi di Zarzis”.

      La guerra civile libica

      Con l’inasprirsi della guerra civile libica e l’inizio di veri e propri traffici di esseri umani, le frontiere marittime si sono trasformate in zone al di fuori della legge.
      “I pescatori tunisini vengono regolarmente rapiti dalle milizie o dalle autorità libiche” diceva Bourassine. Queste, una volta sequestrata la barca e rubato il materiale tecnico, chiedevano alle autorità tunisine un riscatto per il rilascio, cosa peraltro successa anche a pescatori siciliani. Sebbene le acque di fronte alla Libia siano le più ricche, soprattutto per il gambero rosso, e per anni siano state zone di pesca per siciliani, tunisini, libici e anche egiziani, ad oggi i pescatori di Zarzis si sono visti obbligati a lasciare l’eldorado dei tonni rossi e dei gamberi rossi, per andare più a ovest.

      “Io pesco nelle zone della rotta delle migrazioni, quindi è possibile che veda migranti ogni volta che esco” diceva Bourassine, indicando sul monitor della sala comandi del suo peschereccio l’est di Lampedusa, durante le riprese del film.

      Con scarso sostegno delle guardie costiere tunisine, a cui non era permesso operare oltre le proprie acque territoriali, i pescatori per anni si sono barcamenati tra il lavoro e la responsabilità di soccorrere le persone in difficoltà che, con l’avanzare del conflitto in Libia, partivano su imbarcazioni sempre più pericolose.

      “Ma quando in mare vedi 100 o 120 persone cosa fai?” si chiede Slaheddine Mcharek, anche lui membro dell’Associazione, “pensi solo a salvare loro la vita, ma non è facile”. Chi ha visto un’operazione di soccorso in mare infatti può immaginare i pericoli di organizzare un trasbordo su un piccolo peschereccio che non metta a repentaglio la stabilità della barca, soprattutto quando ci sono persone che non sanno nuotare. Allo stesso tempo non pescare significa non lavorare e perdere soldi sia per il capitano che per l’equipaggio.
      ONG e salvataggio

      Quando nell’estate del 2015 le navi di ricerca e soccorso delle ONG hanno cominciato ad operare nel Mediterraneo, Chamseddine e tutti i pescatori si sono sentiti sollevati, perché le loro barche non erano attrezzate per centinaia di persone e le autorità tunisine post-rivoluzionarie non avevano i mezzi per aiutarli. Quell’estate, l’allora direttore di Medici Senza Frontiere Foued Gammoudi organizzò una formazione di primo soccorso in mare per sostenere i pescatori. Dopo questa formazione MSF fornì all’associazione kit di pronto soccorso, giubbotti e zattere di salvataggio per poter assistere meglio i rifugiati in mare. L’ONG ha anche dato ai pescatori le traduzioni in italiano e inglese dei messaggi di soccorso e di tutti i numeri collegati al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (MRCC) a Roma, che coordina i salvataggi tra le imbarcazioni nei paraggi pronte ad intervenire, fossero mercantili, navi delle ONG, imbarcazioni militari o della guardia costiera, e quelle dei pescatori di entrambe le sponde del mare. Da quel momento i pescatori potevano coordinarsi a livello internazionale e aspettare che le navi più grandi arrivassero, per poi riprendere il loro lavoro. Solo una settimana dopo la formazione, Gammoudi andò a congratularsi con Chamseddine al porto di Zarzis per aver collaborato con la nave Bourbon-Argos di MSF nel salvataggio di 550 persone.

      Oltre al primo soccorso, MSF ha offerto ai membri dell’associazione una formazione sulla gestione dei cadaveri, fornendo sacchi mortuari, disinfettanti e guanti. C’è stato un periodo durato vari mesi, prima dell’arrivo delle ONG, in cui i pescatori avevano quasi la certezza di vedere dei morti in mare. Nell’assenza di altre imbarcazioni in prossimità della Libia, pronte ad aiutare barche in difficoltà, i naufragi non facevano che aumentare. Proprio come sta succedendo in queste settimane, durante le quali il tasso di mortalità in proporzione agli arrivi in Italia è cresciuto del 5,6%. Dal 26 agosto, nessuna ONG ha operato in SAR libica, e questo a causa delle politiche anti-migranti di Salvini e dei suoi omologhi europei.

      Criminalizzazione della solidarietà

      La situazione però è peggiorata di nuovo nell’estate del 2017, quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti stringeva accordi con le milizie e la guardia costiera libica per bloccare i rifugiati nei centri di detenzione in Libia, mentre approvava leggi che criminalizzano e limitano l’attività delle ONG in Italia.

      Le campagne di diffamazione contro atti di solidarietà e contro le ONG non hanno fatto altro che versare ancora più benzina sui sentimenti anti-immigrazione che infiammano l’Europa. Nel bel mezzo di questo clima, il 6 agosto 2017, i pescatori di Zarzis si erano trovati in un faccia a faccia con la nave noleggiata da Generazione Identitaria, la C-Star, che attraversava il Mediterraneo per ostacolare le operazioni di soccorso e riportare i migranti in Africa.

      Armati di pennarelli rossi, neri e blu, hanno appeso striscioni sulle barche in una mescolanza di arabo, italiano, francese e inglese: “No Racists!”, “Dégage!”, “C-Star: No gasolio? No acqua? No mangiaro?“.

      Chamseddine Bourassine, con pesanti occhiaie da cinque giorni di lavoro in mare, appena appresa la notizia ha organizzato un sit-in con tanto di media internazionali al porto di Zarzis. I loro sforzi erano stati incoraggiati dalle reti antirazziste in Sicilia, che a loro volta avevano impedito alla C-Star di attraccare nel porto di Catania solo un paio di giorni prima.
      La reazione tunisina dopo l’arresto di Bourassine

      Non c’è quindi da sorprendersi se dopo l’arresto di Chamseddine, Salem, Farhat, Lotfi, Ammar e Bachir l’associazione, le famiglie, gli amici e i colleghi hanno riempito tre pullman da Zarzis per protestare davanti all’ambasciata italiana di Tunisi. La Terre Pour Tous, associazione di famiglie di tunisini dispersi, e il Forum economico e sociale (FTDES) si sono uniti alla protesta per chiedere l’immediato rilascio dei pescatori. Una protesta gemella è stata organizzata anche dalla diaspora di Zarzis davanti all’ambasciata italiana a Parigi, mentre reti di pescatori provenienti dal Marocco e dalla Mauritania hanno rilasciato dichiarazioni di sostegno. Il Segretario di Stato tunisino per l’immigrazione, Adel Jarboui, ha esortato le autorità italiane a liberare i pescatori.

      Nel frattempo Bourassine racconta dalla prigione al fratello: “stavo solo aiutando delle persone in difficoltà in mare. Lo rifarei”.


      http://openmigration.org/analisi/i-pescatori-eroi-di-zarzis-in-galera

    • When rescue at sea becomes a crime: who the Tunisian fishermen arrested in Italy really are

      Fishermen networks from Morocco and Mauritania have released statements of support, and the Tunisian State Secretary for Immigration, Adel Jarboui, urged Italian authorities to release the fishermen, considered heroes in Tunisia.

      On the night of Wednesday, August 29, 2018, six Tunisian fishermen were arrested in Italy. Earlier that day, they had set off from their hometown of Zarzis, the last important Tunisian port before Libya, to cast their nets in the open sea between North Africa and Sicily. The fishermen then sighted a small vessel whose engine had broken, and that had started taking in water. After giving the fourteen passengers water, milk and bread – which the fishermen carry in abundance, knowing they might encounter refugee boats in distress – they tried making contact with the Italian coastguard.

      After hours of waiting for a response, though, the men decided to tow the smaller boat in the direction of Lampedusa – Italy’s southernmost island, to help Italian authorities in their rescue operations. At around 24 miles from Lampedusa, the Guardia di Finanza (customs police) took the fourteen people on board, and then proceeded to violently arrest the six fishermen. According to the precautionary custody order issued by the judge in Agrigento (Sicily), the men stand accused of smuggling, a crime that could get them up to fifteen years in jail if the case goes to trial. The fishermen have since been held in Agrigento prison, and their boat has been seized.

      This arrest comes after a summer of Italian politicians closing their ports to NGO rescue boats, and only a week after far-right Interior Minister Matteo Salvini[1] prevented for ten days the disembarkation of 177 Eritrean and Somali asylum seekers from the Italian coastguard ship Diciotti. It is yet another step towards dissuading anyone – be it Italian or Tunisian citizens, NGO or coastguard ships – from coming to the aid of refugee boats in danger at sea. Criminalising rescue, a process that has been pushed by different Italian governments since 2016, will continue to have tragic consequences for people on the move in the Mediterranean Sea.
      The fishermen of Zarzis

      Among those arrested is Chamseddine Bourassine, the president of the Association “Le Pêcheur” pour le Développement et l’Environnement, which was nominated for the Nobel Peace Prize this year for the Zarzis fishermen’s continuous engagement in saving lives in the Mediterranean.

      Chamseddine, a fishing boat captain in his mid-40s, was one of the first people I met in Zarzis when, in the summer of 2015, I moved to this southern Tunisian town to start fieldwork for my PhD. On a sleepy late-August afternoon, my interview with Foued Gammoudi, the then Médecins Sans Frontières (MSF) Head of Mission for Tunisia and Libya, was interrupted by an urgent phone call. “The fishermen have just returned, they saved 550 people, let’s go to the port to thank them.” Just a week earlier, Chamseddine Bourassine had been among the 116 fishermen from Zarzis to have received rescue at sea training with MSF. Gammoudi was proud that the fishermen had already started collaborating with the MSF Bourbon Argos ship to save hundreds of people. We hurried to the port to greet Chamseddine and his crew, as they returned from a three-day fishing expedition which involved, as it so often had done lately, a lives-saving operation.

      The fishermen of Zarzis have been on the frontline of rescue in the Central Mediterranean for over fifteen years. Their fishing grounds lying between Libya – the place from which most people making their way undocumented to Europe leave – and Sicily, they were often the first to come to the aid of refugee boats in distress. “The fishermen have never really had a choice: they work here, they encounter refugee boats regularly, so over the years they learnt to do rescue at sea”, explained Gammoudi. For years, fishermen from both sides of the Mediterranean were virtually alone in this endeavour.
      Rescue before and after the revolution

      Before the Tunisian revolution of 2011, Ben Ali threatened the fishermen with imprisonment for helping migrants in danger at sea – the regime having been a close collaborator of both Italy and the European Union in border control matters. During that time, Tunisian nationals attempting to do the harga – the North African Arabic dialect term for the crossing of the Sicilian Channel by boat – were also heavily sanctioned by their own government.

      Everything changed though with the revolution. “It was chaos here in 2011. You cannot imagine what the word chaos means if you didn’t live it”, recalled Anis Souei, the secretary general of the “Le Pêcheur” association. In the months following the revolution, hundreds of boats left from Zarzis taking Tunisians from all over the country to Lampedusa. Several members of the fishermen’s association remember having to sleep on their fishing boats at night to prevent them from being stolen for the harga. Other fishermen instead, especially those who were indebted, decided to sell their boats, while some inhabitants of Zarzis took advantage of the power vacuum left by the revolution and made considerable profit by organising harga crossings. “At that time there was no police, no state, and even more misery. If you wanted Lampedusa, you could have it”, rationalised another fisherman. But Chamseddine Bourassine and his colleagues saw no future in moving to Europe, and made a moral pact not to sell their boats for migration.

      They instead remained in Zarzis, and in 2013 founded their association to create a network of support to ameliorate the working conditions of small and artisanal fisheries. The priority when they started organising was to try and secure basic social security – something they are still struggling to sustain today. With time, though, the association also got involved in alerting the youth to the dangers of boat migration, as they regularly witnessed the risks involved and felt compelled to do something for younger generations hit hard by staggering unemployment rates. In this optic, they organised training for the local youth in boat mechanics, nets mending, and diving, and collaborated in different international projects, such as NEMO, organised by the CIHEAM-Bari and funded by the Italian Ministry of Foreign Affairs Directorate General for Cooperation Development. This project also helped the fishermen build a museum to explain traditional fishing methods, the first floor of which is dedicated to pictures and citations from the fishermen’s long-term voluntary involvement in coming to the rescue of refugees in danger at sea.

      This role was proving increasingly vital as the Libyan civil war dragged on, since refugees were being forced onto boats in Libya that were not fit for travel, making the journey even more hazardous. With little support from Tunisian coastguards, who were not allowed to operate beyond Tunisian waters, the fishermen juggled their responsibility to bring money home to their families and their commitment to rescuing people in distress at sea. Anis remembers that once in 2013, three fishermen boats were out and received an SOS from a vessel carrying roughly one hundred people. It was their first day out, and going back to Zarzis would have meant losing petrol money and precious days of work, which they simply couldn’t afford. After having ensured that nobody was ill, the three boats took twenty people on board each, and continued working for another two days, sharing food and water with their guests.

      Sometimes, though, the situation on board got tense with so many people, food wasn’t enough for everybody, and fights broke out. Some fishermen recall incidents during which they truly feared for their safety, when occasionally they came across boats with armed men from Libyan militias. It was hard for them to provide medical assistance as well. Once a woman gave birth on Chamseddine’s boat – that same boat that has now been seized in Italy – thankfully there had been no complications.
      NGO ships and the criminalisation of rescue

      During the summer of 2015, therefore, Chamseddine felt relieved that NGO search and rescue boats were starting to operate in the Mediterranean. The fishermen’s boats were not equipped to take hundreds of people on board, and the post-revolutionary Tunisian authorities didn’t have the means to support them. MSF had provided the association with first aid kits, life jackets, and rescue rafts to be able to better assist refugees at sea, and had given them a list of channels and numbers linked to the Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) in Rome for when they encountered boats in distress.

      They also offered training in dead body management, and provided the association with body bags, disinfectant and gloves. “When we see people at sea we rescue them. It’s not only because we follow the laws of the sea or of religion: we do it because it’s human”, said Chamseddine. But sometimes rescue came too late, and bringing the dead back to shore was all the fishermen could do.[2] During 2015 the fishermen at least felt that with more ships in the Mediterranean doing rescue, the duty dear to all seafarers of helping people in need at sea didn’t only fall on their shoulders, and they could go back to their fishing.

      The situation deteriorated again though in the summer of 2017, as Italian Interior Minister Minniti struck deals with Libyan militias and coastguards to bring back and detain refugees in detention centres in Libya, while simultaneously passing laws criminalising and restricting the activity of NGO rescue boats in Italy.

      Media smear campaigns directed against acts of solidarity with migrants and refugees and against the work of rescue vessels in the Mediterranean poured even more fuel on already inflamed anti-immigration sentiments in Europe.

      In the midst of this, on 6 August 2017, the fishermen of Zarzis came face to face with a far-right vessel rented by Generazione Identitaria, the C-Star, cruising the Mediterranean allegedly on a “Defend Europe” mission to hamper rescue operations and bring migrants back to Africa. The C-Star was hovering in front of Zarzis port, and although it had not officially asked port authorities whether it could dock to refuel – which the port authorities assured locals it would refuse – the fishermen of Zarzis took the opportunity to let these alt-right groups know how they felt about their mission.

      Armed with red, black and blue felt tip pens, they wrote in a mixture of Arabic, Italian, French and English slogans such as “No Racists!”, “Dégage!” (Get our of here!), “C-Star: No gasoil? No acqua? No mangiato?” ?” (C-Star: No fuel? No water? Not eaten?), which they proceeded to hang on their boats, ready to take to sea were the C-Star to approach. Chamseddine Bourassine, who had returned just a couple of hours prior to the impending C-Star arrival from five days of work at sea, called other members of the fishermen association to come to the port and join in the peaceful protest.[3] He told the journalists present that the fishermen opposed wholeheartedly the racism propagated by the C-Star members, and that having seen the death of fellow Africans at sea, they couldn’t but condemn these politics. Their efforts were cheered on by anti-racist networks in Sicily, who had in turn prevented the C-Star from docking in Catania port just a couple of days earlier.

      It is members from these same networks in Sicily together with friends of the fishermen in Tunisia and internationally that are now engaged in finding lawyers for Chamseddine and his five colleagues.

      Their counterparts in Tunisia joined the fishermen’s families and friends on Thursday morning to protest in front of the Italian embassy in Tunis. Three busloads arrived from Zarzis after an 8-hour night-time journey for the occasion, and many others had come from other Tunisian towns to show their solidarity. Gathered there too were members of La Terre Pour Tous, an association of families of missing Tunisian migrants, who joined in to demand the immediate release of the fishermen. A sister protest was organised by the Zarzis diaspora in front of the Italian embassy in Paris on Saturday afternoon. Fishermen networks from Morocco and Mauritania also released statements of support, and the Tunisian State Secretary for Immigration Adel Jarboui urged Italian authorities to release the fishermen, who are considered heroes in Tunisia.

      The fishermen’s arrest is the latest in a chain of actions taken by the Italian Lega and Five Star government to further criminalise rescue in the Mediterranean Sea, and to dissuade people from all acts of solidarity and basic compliance with international norms. This has alarmingly resulted in the number of deaths in 2018 increasing exponentially despite a drop in arrivals to Italy’s southern shores. While Chamseddine’s lawyer hasn’t yet been able to visit him in prison, his brother and cousin managed to go see him on Saturday. As for telling them about what happened on August 29, Chamseddine simply says that he was assisting people in distress at sea: he’d do it again.

      https://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/valentina-zagaria/when-rescue-at-sea-becomes-crime-who-tunisian-fishermen-arrested-in-i

    • Les pêcheurs de Zarzis, ces héros que l’Italie préfère voir en prison

      Leurs noms ont été proposés pour le prix Nobel de la paix mais ils risquent jusqu’à quinze ans de prison : six pêcheurs tunisiens se retrouvent dans le collimateur des autorités italiennes pour avoir aidé des migrants en Méditerranée.

      https://www.middleeasteye.net/fr/reportages/les-p-cheurs-de-zarzis-ces-h-ros-que-l-italie-pr-f-re-voir-en-prison-

    • Les pêcheurs tunisiens incarcérés depuis fin août en Sicile sont libres

      Arrêtés après avoir tracté une embarcation de quatorze migrants jusqu’au large de Lampedusa, un capitaine tunisien et son équipage sont soupçonnés d’être des passeurs. Alors qu’en Tunisie, ils sont salués comme des sauveurs.

      Les six pêcheurs ont pu reprendre la mer afin de regagner Zarzis, dans le sud tunisien. Les familles n’ont pas caché leur soulagement. Un accueil triomphal, par des dizaines de bateaux au large du port, va être organisé, afin de saluer le courage de ces sauveteurs de migrants à la dérive.

      Et peu importe si l’acte est dénoncé par l’Italie. Leurs amis et collègues ne changeront pas leurs habitudes de secourir toute embarcation en danger.

      A l’image de Rya, la cinquantaine, marin pêcheur à Zarzis qui a déjà sauvé des migrants en perdition et ne s’arrêtera pas : « Il y a des immigrés, tous les jours il y en a. De Libye, de partout. Nous on est des pêcheurs, on essaie de sauver les gens. C’est tout, c’est très simple. Nous on ne va pas s’arrêter, on va sauver d’autres personnes. Ils vont nous mettre en prison, on est là, pas de problème. »

      Au-delà du soulagement de voir rentrer les marins au pays, des voix s’élèvent pour crier leur incompréhension. Pour Halima Aissa, présidente de l’Association de recherche des disparus tunisiens à l’étranger, l’action de ce capitaine de pêche ne souffre d’aucune légitimité : « C’est un pêcheur tunisien, mais en tant qu’humaniste, si on trouve des gens qui vont couler en mer, notre droit c’est de les sauver. C’est inhumain de voir des gens mourir et de ne pas les sauver, ça c’est criminel. »

      Ces arrestations, certes suivies de libérations, illustrent pourtant la politique du nouveau gouvernement italien, à en croire Romdhane Ben Amor, du Forum tunisien des droits économiques et sociaux qui s’inquiète de cette nouvelle orientation politique : « Ça a commencé par les ONG qui font des opérations de sauvetage dans la Méditerranée et maintenant ça va vers les pêcheurs. C’est un message pour tous ceux qui vont participer aux opérations de sauvetage. Donc on aura plus de danger dans la mer, plus de tragédie dans la mer. » Pendant ce temps, l’enquête devrait se poursuivre encore plusieurs semaines en Italie.

      ■ Dénoncés par Frontex

      Détenus dans une prison d’Agrigente depuis le 29 août, les six pêcheurs tunisiens qui étaient soupçonnés d’aide à l’immigration illégale ont retrouvé leur liberté grâce à la décision du tribunal de réexamen de Palerme. L’équivalent italien du juge des libertés dans le système français.

      Le commandant du bateau de pêche, Chamseddine Bourassine, président de l’association des pêcheurs de Zarzis, ville du sud de la Tunisie, avait été arrêté avec les 5 membres d’équipage pour avoir secouru au large de l’île de Lampedusa une embarcation transportant 14 migrants.

      C’est un #avion_de_reconnaissance, opérant pour l’agence européenne #Frontex, qui avait repéré leur bateau tractant une barque et averti les autorités italiennes, précise notre correspondante à Rome, Anne Le Nir.

      http://www.rfi.fr/afrique/20180923-pecheurs-tunisiens-incarceres-depuis-fin-aout-sicile-sont-libres

    • A Zarzis, les pêcheurs sauveurs de migrants menacés par l’Italie

      Après l’arrestation le 29 août de six pêcheurs tunisiens à Lampedusa, accusés d’être des passeurs alors qu’ils avaient secouru des migrants, les marins de la petite ville de Zarzis au sud de la Tunisie ont peur des conséquences du sauvetage en mer.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/121118/zarzis-les-pecheurs-sauveurs-de-migrants-menaces-par-l-italie
      #pêcheurs_tunisiens

    • Migrants : quand les pêcheurs tunisiens deviennent sauveteurs

      En Méditerranée, le sauvetage des candidats à l’exil et les politiques européennes de protection des frontières ont un impact direct sur le village de pêcheurs de #Zarzis, dans le sud de la Tunisie. Dans le code de la mer, les pêcheurs tout comme les gardes nationaux ont l’obligation de sauver les personnes en détresse en mer. Aujourd’hui, ce devoir moral pousse les pêcheurs à prendre des risques, et à se confronter aux autorités européennes.

      Chemssedine Bourassine a été arrêté fin août 2018 avec son équipage par les autorités italiennes. Ce pêcheur était accusé d’avoir fait le passeur de migrants car il avait remorqué un canot de 14 personnes en détresse au large de Lampedusa. Lui arguait qu’il ne faisait que son devoir en les aidant, le canot étant à la dérive, en train de couler, lorsqu’il l’avait trouvé.

      Revenu à bon port après trois mois sans son navire, confisqué par les autorités italiennes, cet épisode pèse lourd sur lui et ses compères. Nos reporters Lilia Blaise et Hamdi Tlili sont allés à la rencontre de ces pêcheurs, pour qui la mer est devenue une source d’inquiétudes.

      https://www.france24.com/fr/20190306-focus-tunisie-migrants-mediterranee-mer-sauvetage-pecheurs

      https://www.youtube.com/watch?v=vKpxQxiJCSc

    • Les pêcheurs tunisiens, sauveurs d’hommes en Méditerranée

      Lorsque Chamseddine Bourassine a vu l’embarcation de 69 migrants à la dérive au large de la Tunisie, il a appelé les secours et continué à pêcher. Mais deux jours plus tard, au moment de quitter la zone, il a bien fallu les embarquer.

      Les pêcheurs tunisiens se retrouvent de plus en plus seuls pour secourir les embarcations clandestines quittant la Libye voisine vers l’Italie, en raison des difficultés des ONG en Méditerranée orientale et du désengagement des navires militaires européens.

      Le 11 mai, les équipages de M. Bourassine et de trois autres pêcheurs ont ramené à terre les 69 migrants partis cinq jours plus tôt de Zouara dans l’ouest libyen.

      « La zone où nous pêchons est un point de passage » entre Zouara et l’île italienne de Lampedusa, souligne Badreddine Mecherek, un patron de pêche de Zarzis (sud), port voisin de la Libye plongée dans le chaos et plaque tournante pour les migrants d’Afrique, mais aussi d’Asie.

      Au fil des ans, la plupart des pêcheurs de Zarzis ont ramené des migrants, sauvant des centaines de vies.

      Avec la multiplication de départs après l’hiver, les pêcheurs croisent les doigts pour ne être confrontés à des tragédies.

      « On prévient d’abord les autorités, mais au final on les sauve nous-mêmes », soupire M. Mecherek, quinquagénaire bougonnant, en bricolant le Asil, son sardinier.

      La marine tunisienne, aux moyens limités, se charge surtout d’intercepter les embarcations clandestines dans ses seules eaux territoriales.

      Contactées par l’AFP pour commenter, les autorités tunisiennes n’ont pas souhaité s’exprimer. Celles-ci interdisent depuis le 31 mai le débarquement de 75 migrants sauvés de la noyade dans les eaux internationales, sans avancer de raisons.

      – « Comme un ange » -

      « Tout le monde s’est désengagé », déplore M. Mecherek.

      « Si nous trouvons des migrants au deuxième jour (de notre sortie en mer), nous avons pu travailler une nuit, mais si nous tombons sur eux dès la première nuit, il faut rentrer », ajoute-t-il. « C’est très compliqué de terminer le travail avec des gens à bord ».

      La situation est particulièrement complexe quand les pêcheurs tombent sur des migrants à proximité de l’Italie.

      M. Bourassine, qui a voulu rapprocher des côtes italiennes une embarcation en détresse mi-2018 au large de Lampedusa, a été emprisonné quatre semaines avec son équipage en Sicile et son bateau confisqué pendant de longs mois.

      Ces dernières années, les navires des ONG et ceux de l’opération antipasseurs européenne Sophia étaient intervenus pour secourir les migrants. Mais les opérations ont pâti en 2019 de la réduction du champ d’action de Sophia et des démarches contre les ONG des Etats européens cherchant à limiter l’arrivée des migrants.

      « Avec leurs moyens, c’était eux qui sauvaient les gens, on arrivait en deuxième ligne. Maintenant le plus souvent on est les premiers, et si on n’est pas là, les migrants meurent », affirme M. Mecherek.

      C’est ce qui est arrivé le 10 mai. Un chalutier a repêché de justesse 16 migrants ayant passé huit heures dans l’eau. Une soixantaine s’étaient noyés avant son arrivée.

      Ahmed Sijur, l’un des miraculés, se souvient de l’arrivée du bateau, comme « un ange ».

      « J’étais en train d’abandonner mais Dieu a envoyé des pêcheurs pour nous sauver. S’ils étaient arrivés dix minutes plus tard, je crois que j’aurais lâché », explique ce Bangladais de 30 ans.

      – « Pas des gens » ! -

      M. Mecherek est fier mais inquiet. « On aimerait ne plus voir tous ces cadavres. On va pêcher du poisson, pas des gens » !.

      « J’ai 20 marins à bord, il disent +qui va faire manger nos familles, les clandestins ?+ Et ils ont peur des maladies, parfois des migrants ont passé 15-20 jours en mer, ils ne se sont pas douchés, il y a des odeurs, c’est compliqué ». « Mais nos pêcheurs ne laisseront jamais des gens mourir ».

      Pour Mongi Slim, responsable du Croissant-Rouge tunisien, « les pêcheurs font pratiquement les gendarmes de la mer et peuvent alerter. Des migrants nous disent que certains gros bateaux passent » sans leur porter secours.

      Même les gros thoniers de Zarzis, sous pression pour pêcher leur quota en une sortie annuelle, reconnaissent éviter parfois d’embarquer les migrants mais assurent qu’ils ne les abandonnent pas sans secours.

      « On signale les migrants, mais on ne peut pas les ramener à terre : on n’a que quelques semaines pour pêcher notre quota », souligne un membre d’équipage.

      Double peine pour les sardiniers : les meilleurs coins de pêche au large de l’ouest libyen leur sont inaccessibles car les gardes-côtes et les groupes armés les tiennent à l’écart.

      « Ils sont armés et ils ne rigolent pas », explique M. Mecherek. « Des pêcheurs se sont fait arrêter », ajoute-t-il, « nous sommes des témoins gênants ».

      Pour M. Bourassine « l’été s’annonce difficile : avec la reprise des combats en Libye, les trafiquants sont de nouveau libres de travailler, il risque d’y avoir beaucoup de naufrages ».


      https://www.courrierinternational.com/depeche/les-pecheurs-tunisiens-sauveurs-dhommes-en-mediterranee.afp.c

    • Les pêcheurs tunisiens, désormais en première ligne pour sauver les migrants en Méditerranée

      Les embarcations en péril sont quasiment vouées à l’abandon avec le recul forcé des opérations de sauvetage des ONG et de la lutte contre les passeurs.

      Lorsque Chamseddine Bourassine a vu l’embarcation de 69 migrants à la dérive au large de la Tunisie, il a appelé les secours et continué à pêcher. Mais, deux jours plus tard, au moment de quitter la zone, il a bien fallu les embarquer puisque personne ne leur était venu en aide.

      Les pêcheurs tunisiens se retrouvent de plus en plus seuls pour secourir les embarcations clandestines quittant la Libye voisine vers l’Italie, en raison des difficultés des ONG en Méditerranée orientale et du désengagement des navires militaires européens.

      Le 11 mai, les équipages de M. Bourassine et de trois autres pêcheurs ont ramené à terre les 69 migrants partis cinq jours plus tôt de Zouara, dans l’Ouest libyen. « La zone où nous pêchons est un point de passage » entre Zouara et l’île italienne de Lampedusa, explique Badreddine Mecherek, un patron de pêche de Zarzis (sud). Le port est voisin de la Libye, plongée dans le chaos et plaque tournante pour les migrants d’Afrique, mais aussi d’Asie.
      « Tout le monde s’est désengagé »

      Au fil des ans, la plupart des pêcheurs de Zarzis ont ramené des migrants, sauvant des centaines de vies. Avec la multiplication de départs après l’hiver, les pêcheurs croisent les doigts pour ne pas être confrontés à des tragédies. « On prévient d’abord les autorités, mais au final on les sauve nous-mêmes », soupire M. Mecherek, quinquagénaire bougonnant, en bricolant le Asil, son sardinier.

      La marine tunisienne, aux moyens limités, se charge surtout d’intercepter les embarcations clandestines dans ses seules eaux territoriales. Contactées par l’AFP pour commenter, les autorités tunisiennes n’ont pas souhaité s’exprimer. Celles-ci interdisent depuis le 31 mai le débarquement de 75 migrants sauvés de la noyade dans les eaux internationales, sans avancer de raisons.

      « Tout le monde s’est désengagé, déplore M. Mecherek. Si nous trouvons des migrants au deuxième jour de notre sortie en mer, cela nous laisse le temps de travailler une nuit. Mais si nous tombons sur eux dès la première nuit, il faut rentrer. C’est très compliqué de terminer le travail avec des gens à bord. »

      La situation est particulièrement complexe quand les pêcheurs tombent sur des migrants à proximité de l’Italie. M. Bourassine, qui avait voulu rapprocher des côtes italiennes une embarcation en détresse mi-2018 au large de Lampedusa, a été emprisonné quatre semaines en Sicile avec son équipage et son bateau, confisqué pendant de longs mois.
      « Un ange »

      Ces dernières années, les navires des ONG et ceux de l’opération européenne antipasseurs Sophia intervenaient pour secourir les migrants. Mais ces manœuvres de sauvetage ont pâti en 2019 de la réduction du champ d’action de Sophia et des démarches engagées contre les ONG par des Etats européens qui cherchent à limiter l’arrivée des migrants.

      « Avec leurs moyens, c’était eux qui sauvaient les gens, on arrivait en deuxième ligne. Maintenant, le plus souvent, on est les premiers, et si on n’est pas là, les migrants meurent », affirme M. Mecherek.

      C’est ce qui est arrivé le 10 mai. Un chalutier a repêché de justesse 16 migrants ayant passé huit heures dans l’eau. Une soixantaine d’entre eux s’étaient noyés avant son arrivée.

      Ahmed Sijur, l’un des miraculés, se souvient de l’arrivée du bateau, comme d’« un ange ». « J’étais en train d’abandonner, mais Dieu a envoyé des pêcheurs pour nous sauver. S’ils étaient arrivés dix minutes plus tard, je crois que j’aurais lâché », explique ce Bangladais de 30 ans.

      M. Mecherek est fier mais inquiet : « On aimerait ne plus voir tous ces cadavres. On va pêcher du poisson, pas des gens ! ». « J’ai vingt marins à bord, explique-t-il encore. Ils disent “Qui va faire manger nos familles, les clandestins ?” Et ils ont peur des maladies, parfois des migrants ont passé quinze à vingt jours en mer, ils ne se sont pas douchés. C’est compliqué, mais nos pêcheurs ne laisseront jamais des gens mourir. » Les petits chalutiers ont donc pris l’habitude d’emporter de nombreux gilets de sauvetage avant leur départ en mer.
      « L’été s’annonce difficile »

      Pour Mongi Slim, responsable du Croissant-Rouge tunisien, « les pêcheurs sont devenus en pratique les gendarmes de la mer et peuvent alerter. Des migrants nous disent que certains gros bateaux passent » sans leur porter secours.

      Les gros thoniers de Zarzis, sous pression pour pêcher leur quota en une seule sortie annuelle, reconnaissent éviter parfois d’embarquer les migrants, mais assurent qu’ils ne les abandonnent pas sans secours. « On signale les migrants, mais on ne peut pas les ramener à terre : on n’a que quelques semaines pour pêcher notre quota », explique un membre d’équipage.

      Double peine pour les sardiniers : les meilleurs coins de pêche au large de l’Ouest libyen leur sont devenus inaccessibles, car les garde-côtes et les groupes armés les tiennent à l’écart. « Ils sont armés et ils ne rigolent pas, témoigne M. Mecherek. Des pêcheurs se sont fait arrêter. Nous sommes des témoins gênants. »

      Pour M. Bourassine, « l’été s’annonce difficile : avec la reprise des combats en Libye, les trafiquants sont de nouveau libres de travailler, il risque d’y avoir beaucoup de naufrages ».

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2019/06/17/les-pecheurs-tunisiens-desormais-en-premiere-ligne-pour-sauver-les-migrants-

  • 5 cose che bisogna sapere sui rifugiati eritrei

    In fuga dal servizio militare obbligatorio e da una delle peggiori dittature al mondo, gli eritrei attraversano il Mediterraneo e arrivano in Italia. Ma, sorpresa, nessuno ci vuole rimanere

    Nel 2015 il record di arrivi in Italia di migranti e rifugiati è detenuto da cittadini eritrei. Un numero che l’Unhcr stima attorno ai 40mila, cifra pressoché analoga agli arrivi nel 2014.

    Perché gli eritrei scappano dal loro paese anche se oggi non c’è una guerra?

    Perché nel piccolo paese del Corno d’Africa c’è una dittatura che rientra alla perfezione nella definizione standard. Il rapporto 2015 di Freedom House inserisce l’Eritrea tra i 12 peggiori paesi al mondo (“Worst of the worst” in compagnia, per esempio, di Arabia Saudita e Corea del Nord) per quel che riguarda diritti e libertà civili e politiche.
    Ad Asmara c’è un presidente in carica da 22 anni (Isaias Afewerki è al potere dal 1993); non esiste stampa libera (l’ultimo giornale non governativo è stata chiuso nel 2001 e i giornalisti imprigionati); è impossibile avere visti per lasciare il paese legalmente e con 17 in prigione, l’Eritrea ha il record dell’Africa sud-sahariana per quel che riguarda il numero di giornalisti in carcere. Internet in pratica non esiste – solo l’1% della popolazione è on line – e le linee di connessione della EriTel, provider unico, utilizzano gateway controllati dal governo.

    In occasione delle vicende del centro d’accoglienza Baobab di Roma, si è tornato a parlare del “caso Eritrea” a cui i media italiani raramente si interessano.
    Qui di seguito abbiamo messo in fila cinque aspetti significativi che descrivono il viaggio e le ragioni della diaspora di un popolo che non gode di buona stampa e che fa fatica a trovar casa in Europa.

    1. Eritrei, record di arrivi in Italia ma pochissime richiestIT_Eritreans-in-Italye d’asilo

    Un dato che colpisce molto – e che trova una spiegazione anche nel Regolamento di Dublino – è la differenza tra arrivi e richieste d’asilo presentate nel nostro paese. Secondo stime attendibili, circa 4/5000 eritrei lasciano il paese ogni mese per fuggire in Europa.
    Quasi un eritreo su cento formula la richiesta una volta arrivato in Italia.
    2. Quando l’Eritrea era una colonia

    La storia delle migrazioni eritree in Italia non è recente. La prima ondata risale ai primi anni ’60, quando il legame con il nostro paese affondava ancora le radici nel passato coloniale di Asmara. Poi con le guerre contro l’Etiopia – culminate con l’indipendenza eritrea nel 1991 – e il nuovo conflitto con Addis Abeba del 1998 (con circa 100mila morti), ai migranti economici si affianca il flusso di chi fugge dalla guerra. Una diaspora pre e una post Afewerki, la prima caratterizzata dalla contrapposizione politica l’altra quella dei giovani in fuga dal regime attuale, post ideologica che fugge soprattutto dalle “catene” del servizio militare obbligatorio e permanente.
    3. 30mila richieste d’asilo in Europa

    Se l’Italia è solo un paese di transito per i nuovi migranti eritrei, i veri paesi di destinazione sono – osservando il numero di richieste d’asilo presentate – Germania, Olanda, Svezia, ma soprattutto la Svizzera, dove al 31 ottobre la protezione internazionale è stata richiesta da 9520 cittadini eritrei. Nel 2014, la maggior parte degli eritrei cercava asilo in Germania (13255 le domande presentate pari al 36% nell’Unione Europea).

    4. La fuga dalla leva

    La maggior parte dei giovani eritrei che attraversano il Mediterraneo lo fanno per sfuggire al servizio militare obbligatorio, istituito nel 1995 e portato di recente a 18 mesi. Tuttavia, secondo Amnesty International, «un’elevata proporzione di coscritti lo svolge a tempo indeterminato. Non esiste alcuna norma che consenta lo svolgimento di un servizio civile alternativo per chi obietta al servizio militare per motivi religiosi, etici o di coscienza». Sono circa 27mila i richiedenti asilo eritrei compresi tra 18 e 34 anni arrivati in Europa nel 2015. In un lungo reportage da Asmara, il Guardian prova a gettare luce sul “mistero” della fuga dei giovani eritrei.
    5. Londra e Copenhagen dicono no alle richieste di asilo

    Circa un anno fa Danimarca e poi Regno Unito hanno ritenuto che la situazione in Eritrea fosse migliorata e fossero venute meno molte delle ragioni per fuggire, come appunto la riduzione del tempo di leva obbligatorio. Così i due paesi hanno iniziato a riconoscere agli eritrei una percentuale di asilo molto più bassa rispetto alla media degli altri paesi Ue.


    http://openmigration.org/analisi/5-cose-da-sapere-sui-rifugiati-eritrei

    #réfugiés_érythréens #asile #migrations #réfugiés #statistiques #Europe #Italie #service_militaire

  • Chèr·es tou·tes,

    j’ai donc fait un peu d’ordre et mis les liens et textes à la bonne place.

    J’essaie de faire une petite #métaliste des listes.

    #métaliste
    #ONG #sauvetage #Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #mourir_en_mer #sauvetages

    En général, quelques autres liens à droite et à gauche à retrouver avec les tags #Méditerranée #ONG #sauvetage :
    https://seenthis.net/recherche?recherche=%23ong+%23m%C3%A9diterran%C3%A9e+%23sauvetage

    Et un résumé + vidéos de SOS Méditerranée sur les 5 ans d’atteinte au #droit_maritime :
    https://seenthis.net/messages/780857

    cc @reka @isskein

  • J’essaie de compiler ici des liens et documents sur les processus d’ #externalisation des #frontières en #Libye, notamment des accords avec l’#UE #EU.

    Les documents sur ce fil n’ont pas un ordre chronologique très précis... (ça sera un boulot à faire ultérieurement... sic)

    Les négociations avec l’#Italie sont notamment sur ce fil :
    https://seenthis.net/messages/600874
    #asile #migrations #réfugiés

    Peut-être qu’Isabelle, @isskein, pourra faire ce travail de mise en ordre chronologique quand elle rentrera de vacances ??

    • Ici, un des derniers articles en date... par la suite de ce fil des articles plus anciens...

      Le supplice sans fin des migrants en Libye

      Ils sont arrivés en fin d’après-midi, blessés, épuisés, à bout. Ce 23 mai, près de 117 Soudanais, Ethiopiens et Erythréens se sont présentés devant la mosquée de Beni Oualid, une localité située à 120 km au sud-ouest de Misrata, la métropole portuaire de la Tripolitaine (Libye occidentale). Ils y passeront la nuit, protégés par des clercs religieux et des résidents. Ces nouveaux venus sont en fait des fugitifs. Ils se sont échappés d’une « prison sauvage », l’un de ces centres carcéraux illégaux qui ont proliféré autour de Beni Oualid depuis que s’est intensifié, ces dernières années, le flux de migrants et de réfugiés débarquant du Sahara vers le littoral libyen dans l’espoir de traverser la Méditerranée.

      Ces migrants d’Afrique subsaharienne – mineurs pour beaucoup – portent dans leur chair les traces de violences extrêmes subies aux mains de leurs geôliers : corps blessés par balles, brûlés ou lacérés de coups. Selon leurs témoignages, quinze de leurs camarades d’évasion ont péri durant leur fuite.

      Cris de douleur
      A Beni Oualid, un refuge héberge nombre de ces migrants en détresse. Des blocs de ciment nu cernés d’une terre ocre : l’abri, géré par une ONG locale – Assalam – avec l’assistance médicale de Médecins sans frontières (MSF), est un havre rustique mais dont la réputation grandit. Des migrants y échouent régulièrement dans un piètre état. « Beaucoup souffrent de fractures aux membres inférieurs, de fractures ouvertes infectées, de coups sur le dos laissant la chair à vif, d’électrocution sur les parties génitales », rapporte Christophe Biteau, le chef de la mission MSF pour la -Libye, rencontré à Tunis.

      Leurs tortionnaires les ont kidnappés sur les routes migratoires. Les migrants et réfugiés seront détenus et suppliciés aussi longtemps qu’ils n’auront pas payé une rançon, à travers les familles restées au pays ou des amis ayant déjà atteint Tripoli. Technique usuelle pour forcer les résistances, les détenus torturés sont sommés d’appeler leurs familles afin que celles-ci puissent entendre en « direct » les cris de douleur au téléphone.

      Les Erythréens, Somaliens et Soudanais sont particulièrement exposés à ce racket violent car, liés à une diaspora importante en Europe, ils sont censés être plus aisément solvables que les autres. Dans la région de Beni Oualid, toute cette violence subie, ajoutée à une errance dans des zones désertiques, emporte bien des vies. D’août 2017 à mars 2018, 732 migrants ont trouvé la mort autour de Beni Oualid, selon Assalam.

      En Libye, ces prisons « sauvages » qui parsèment les routes migratoires vers le littoral, illustration de l’osmose croissante entre réseaux historiques de passeurs et gangs criminels, cohabitent avec un système de détention « officiel ». Les deux systèmes peuvent parfois se croiser, en raison de l’omnipotence des milices sur le terrain, mais ils sont en général distincts. Affiliés à une administration – le département de lutte contre la migration illégale (DCIM, selon l’acronyme anglais) –, les centres de détention « officiels » sont au nombre d’une vingtaine en Tripolitaine, d’où embarque l’essentiel des migrants vers l’Italie. Si bien des abus s’exercent dans ces structures du DCIM, dénoncés par les organisations des droits de l’homme, il semble que la violence la plus systématique et la plus extrême soit surtout le fait des « prisons sauvages » tenues par des organisations criminelles.

      Depuis que la polémique s’est envenimée en 2017 sur les conditions de détention des migrants, notamment avec le reportage de CNN sur les « marchés aux esclaves », le gouvernement de Tripoli a apparemment cherché à rationaliser ses dispositifs carcéraux. « Les directions des centres font des efforts, admet Christophe Biteau, de MSF-Libye. Le dialogue entre elles et nous s’est amélioré. Nous avons désormais un meilleur accès aux cellules. Mais le problème est que ces structures sont au départ inadaptées. Il s’agit le plus souvent de simples hangars ou de bâtiments vétustes sans isolation. »

      Les responsables de ces centres se plaignent rituellement du manque de moyens qui, selon eux, explique la précarité des conditions de vie des détenus, notamment sanitaires. En privé, certains fustigent la corruption des administrations centrales de Tripoli, qui perçoivent l’argent des Européens sans le redistribuer réellement aux structures de terrain.

      Cruel paradoxe
      En l’absence d’une refonte radicale de ces circuits de financement, la relative amélioration des conditions de détention observée récemment par des ONG comme MSF pourrait être menacée. « Le principal risque, c’est la congestion qui résulte de la plus grande efficacité des gardes-côtes libyens », met en garde M. Biteau. En effet, les unités de la marine libyenne, de plus en plus aidées et équipées par Bruxelles ou Rome, ont multiplié les interceptions de bateaux de migrants au large du littoral de la Tripolitaine.

      Du 1er janvier au 20 juin, elles avaient ainsi reconduit sur la terre ferme près de 9 100 migrants. Du coup, les centres de détention se remplissent à nouveau. Le nombre de prisonniers dans ces centres officiels – rattachés au DCIM – a grimpé en quelques semaines de 5 000 à 7 000, voire à 8 000. Et cela a un impact sanitaire. « Le retour de ces migrants arrêtés en mer se traduit par un regain des affections cutanées en prison », souligne Christophe Biteau.

      Simultanément, l’Organisation mondiale des migrations (OIM) intensifie son programme dit de « retours volontaires » dans leurs pays d’origine pour la catégorie des migrants économiques, qu’ils soient détenus ou non. Du 1er janvier au 20 juin, 8 571 d’entre eux – surtout des Nigérians, Maliens, Gambiens et Guinéens – sont ainsi rentrés chez eux. L’objectif que s’est fixé l’OIM est le chiffre de 30 000 sur l’ensemble de 2018. Résultat : les personnes éligibles au statut de réfugié et ne souhaitant donc pas rentrer dans leurs pays d’origine – beaucoup sont des ressortissants de la Corne de l’Afrique – se trouvent piégées en Libye avec le verrouillage croissant de la frontière maritime.

      Le Haut-Commissariat pour les réfugiés (HCR) des Nations unies en a bien envoyé certains au Niger – autour de 900 – pour que leur demande d’asile en Europe y soit traitée. Cette voie de sortie demeure toutefois limitée, car les pays européens tardent à les accepter. « Les réfugiés de la Corne de l’Afrique sont ceux dont la durée de détention en Libye s’allonge », pointe M. Biteau. Cruel paradoxe pour une catégorie dont la demande d’asile est en général fondée. Une absence d’amélioration significative de leurs conditions de détention représenterait pour eux une sorte de double peine.

      http://lirelactu.fr/source/le-monde/28fdd3e6-f6b2-4567-96cb-94cac16d078a
      #UE #EU

    • Remarks by High Representative/Vice-President Federica Mogherini at the joint press conference with Sven Mikser, Minister for Foreign Affairs of Estonia
      Mogherini:

      if you are asking me about the waves of migrants who are coming to Europe which means through Libya to Italy in this moment, I can tell you that the way in which we are handling this, thanks also to a very good work we have done with the Foreign Ministers of the all 28 Member States, is through a presence at sea – the European Union has a military mission at sea in the Mediterranean, at the same time dismantling the traffickers networks, having arrested more than 100 smugglers, seizing the boats that are used, saving lives – tens of thousands of people were saved but also training the Libyan coasts guards so that they can take care of the dismantling of the smuggling networks in the Libyan territorial waters.

      And we are doing two other things to prevent the losses of lives but also the flourishing of the trafficking of people: inside Libya, we are financing the presence of the International Organisation for Migration and the UNHCR so that they can have access to the detention centres where people are living in awful conditions, save these people, protect these people but also organising voluntary returns to the countries of origin; and we are also working with the countries of origin and transit, in particular Niger, where more than 80% of the flows transit. I can tell you one number that will strike you probably - in the last 9 months through our action with Niger, we moved from 76 000 migrants passing through Niger into Libya to 6 000.

      https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage/26042/remarks-high-representativevice-president-federica-mogherini-joint-press
      #Libye #Niger #HCR #IOM #OIM #EU #UE #Mogherini #passeurs #smugglers

    • Il risultato degli accordi anti-migranti: aumentati i prezzi dei viaggi della speranza

      L’accordo tra Europa e Italia da una parte e Niger dall’altra per bloccare il flusso dei migranti verso la Libia e quindi verso le nostre coste ha ottenuto risultati miseri. O meglio un paio di risultati li ha avuti: aumentare il prezzo dei trasporti – e quindi i guadagni dei trafficanti di uomini – e aumentare a dismisura i disagi e i rischi dei disperati che cercano in tutti i modi di attraversare il Mediterraneo. Insomma le misure adottate non scoraggiano chi vuole partire. molti di loro muoiono ma non muore la loro speranza di una vita migliore.

      http://www.africa-express.info/2017/02/03/il-risultato-dellaccordo-con-il-niger-sui-migranti-aumentati-prezzi

    • C’était 2016... et OpenMigration publiait cet article:
      Il processo di esternalizzazione delle frontiere europee: tappe e conseguenze di un processo pericoloso

      L’esternalizzazione delle politiche europee e italiane sulle migrazioni: Sara Prestianni ci spiega le tappe fondamentali del processo, e le sue conseguenze più gravi in termini di violazioni dei diritti fondamentali.

      http://openmigration.org/analisi/il-processo-di-esternalizzazione-delle-frontiere-europee-tappe-e-conseguenze-di-un-processo-pericoloso/?platform=hootsuite

    • Per bloccare i migranti 610 milioni di euro dall’Europa e 50 dall’Italia

      Con la Libia ancora fortemente compromessa, la sfida per la gestione dei flussi di migranti dall’Africa sub-sahariana si è di fatto spostata più a Sud, lungo i confini settentrionali del Niger. Uno dei Paesi più poveri al mondo, ma che in virtù della sua stabilità - ha mantenuto pace e democrazia in un’area lacerata dai conflitti - è oggi il principale alleato delle potenze europee nella regione. Gli accordi prevedono che il Niger in cambio di 610 milioni d’ euro dall’Unione Europea, oltre a 50 promessi dall’Italia, sigilli le proprie frontiere settentrionali e imponga un giro di vite ai traffici illegali. È dal Niger infatti che transita gran parte dei migranti sub-sahariani: 450.000, nel 2016, hanno attraversato il deserto fino alle coste libiche, e in misura inferiore quelle algerine. In Italia, attraverso questa rotta, ne sono arrivati 180.000 l’anno scorso e oltre 40.000 nei primi quattro mesi del 2017.


      http://www.lastampa.it/2017/05/31/esteri/per-bloccare-i-migranti-milioni-di-euro-dalleuropa-e-dallitalia-4nPsLCnUURhOkXQl14sp7L/pagina.html

    • The Human Rights Risks of External Migration Policies

      This briefing paper sets out the main human rights risks linked to external migration policies, which are a broad spectrum of actions implemented outside of the territory of the state that people are trying to enter, usually through enhanced cooperation with other countries. From the perspective of international law, external migration policies are not necessarily unlawful. However, Amnesty International considers that several types of external migration policies, and particularly the externalization of border control and asylum-processing, pose significant human rights risks. This document is intended as a guide for activists and policy-makers working on the issue, and includes some examples drawn from Amnesty International’s research in different countries.

      https://www.amnesty.org/en/documents/pol30/6200/2017/en

    • Libya’s coast guard abuses migrants despite E.U. funding and training

      The European Union has poured tens of millions of dollars into supporting Libya’s coast guard in search-and-rescue operations off the coast. But the violent tactics of some units and allegations of human trafficking have generated concerns about the alliance.

      https://www.washingtonpost.com/world/middle_east/libyas-coast-guard-abuses-desperate-migrants-despite-eu-funding-and-training/2017/07/10/f9bfe952-7362-4e57-8b42-40ae5ede1e26_story.html?tid=ss_tw

    • How Libya’s #Fezzan Became Europe’s New Border

      The principal gateway into Europe for refugees and migrants runs through the power vacuum in southern Libya’s Fezzan region. Any effort by European policymakers to stabilise Fezzan must be part of a national-level strategy aimed at developing Libya’s licit economy and reaching political normalisation.

      https://www.crisisgroup.org/middle-east-north-africa/north-africa/libya/179-how-libyas-fezzan-became-europes-new-border
      cc @i_s_

      v. aussi ma tentative cartographique :


      https://seenthis.net/messages/604039

    • Avramopoulos says Sophia could be deployed in Libya

      (ANSAmed) - BRUSSELS, AUGUST 3 - European Commissioner Dimitris Avramopoulos told ANSA in an interview Thursday that it is possible that the #Operation_Sophia could be deployed in Libyan waters in the future. “At the moment, priority should be given to what can be done under the current mandate of Operation Sophia which was just renewed with added tasks,” he said. “But the possibility of the Operation moving to a third stage working in Libyan waters was foreseen from the beginning. If the Libyan authorities ask for this, we should be ready to act”. (ANSAmed).

      http://www.ansamed.info/ansamed/en/news/sections/politics/2017/08/03/avramopoulos-says-sophia-could-be-deployed-in-libya_602d3d0e-f817-42b0-ac3

    • Les ambivalences de Tripoli face à la traite migratoire. Les trafiquants ont réussi à pénétrer des pans entiers des institutions officielles

      Par Frédéric Bobin (Zaouïa, Libye, envoyé spécial)

      LE MONDE Le 25.08.2017 à 06h39 • Mis à jour le 25.08.2017 à 10h54

      Les petits trous dessinent comme des auréoles sur le ciment fauve. Le haut mur hérissé de fils de fer barbelés a été grêlé d’impacts de balles de kalachnikov à deux reprises, la plus récente en juin. « Ils sont bien mieux armés que nous », soupire Khaled Al-Toumi, le directeur du centre de détention de Zaouïa, une municipalité située à une cinquantaine de kilomètres à l’ouest de Tripoli. Ici, au cœur de cette bande côtière de la Libye où se concentre l’essentiel des départs de migrants vers l’Italie, une trentaine d’Africains subsahariens sont détenus – un chiffre plutôt faible au regard des centres surpeuplés ailleurs dans le pays.

      C’est que, depuis les assauts de l’établissement par des hommes armés, Khaled Al-Toumi, préfère transférer à Tripoli le maximum de prisonniers. « Nous ne sommes pas en mesure de les protéger », dit-il. Avec ses huit gardes modestement équipés, il avoue son impuissance face aux gangs de trafiquants qui n’hésitent pas à venir récupérer par la force des migrants, dont l’arrestation par les autorités perturbe leurs juteuses affaires. En 2014, ils avaient repris environ 80 Erythréens. Plus récemment, sept Pakistanais. « On reçoit en permanence des menaces, ils disent qu’ils vont enlever nos enfants », ajoute le directeur.

      Le danger est quotidien. Le 18 juillet, veille de la rencontre avec Khaled Al-Toumi, soixante-dix femmes migrantes ont été enlevées à quelques kilomètres de là alors qu’elles étaient transférées à bord d’un bus du centre de détention de Gharian à celui de Sorman, des localités voisines de Zaouïa.

      On compte en Libye une trentaine de centres de ce type, placés sous la tutelle de la Direction de combat contre la migration illégale (DCMI) rattachée au ministère de l’intérieur. A ces prisons « officielles » s’ajoutent des structures officieuses, administrées ouvertement par des milices. L’ensemble de ce réseau carcéral détient entre 4 000 et 7 000 détenus, selon les Nations unies (ONU).

      « Corruption galopante »

      A l’heure où l’Union européenne (UE) nourrit le projet de sous-traiter à la Libye la gestion du flux migratoire le long de la « route de la Méditerranée centrale », le débat sur les conditions de détention en vigueur dans ces centres a gagné en acuité.

      Une partie de la somme de 90 millions d’euros que l’UE s’est engagée à allouer au gouvernement dit d’« union nationale » de Tripoli sur la question migratoire, en sus des 200 millions d’euros annoncés par l’Italie, vise précisément à l’amélioration de l’environnement de ces centres.

      Si des « hot spots » voient le jour en Libye, idée que caressent certains dirigeants européens – dont le président français Emmanuel Macron – pour externaliser sur le continent africain l’examen des demandes d’asile, ils seront abrités dans de tels établissements à la réputation sulfureuse.

      La situation y est à l’évidence critique. Le centre de Zaouïa ne souffre certes pas de surpopulation. Mais l’état des locaux est piteux, avec ses matelas légers jetés au sol et l’alimentation d’une préoccupante indigence, limitée à un seul plat de macaronis. Aucune infirmerie ne dispense de soins.

      « Je ne touche pas un seul dinar de Tripoli ! », se plaint le directeur, Khaled Al-Toumi. Dans son entourage, on dénonce vertement la « corruption galopante de l’état-major de la DCMI à Tripoli qui vole l’argent ». Quand on lui parle de financement européen, Khaled Al-Toumi affirme ne pas en avoir vu la couleur.

      La complainte est encore plus grinçante au centre de détention pour femmes de Sorman, à une quinzaine de kilomètres à l’ouest : un gros bloc de ciment d’un étage posé sur le sable et piqué de pins en bord de plage. Dans la courette intérieure, des enfants jouent près d’une balançoire.

      Là, la densité humaine est beaucoup plus élevée. La scène est un brin irréelle : dans la pièce centrale, environ quatre-vingts femmes sont entassées, fichu sur la tête, regard levé vers un poste de télévision rivé au mur délavé. D’autres se serrent dans les pièces adjacentes. Certaines ont un bébé sur les jambes, telle Christiane, une Nigériane à tresses assise sur son matelas. « Ici, il n’y a rien, déplore-t-elle. Nous n’avons ni couches ni lait pour les bébés. L’eau de la nappe phréatique est salée. Et le médecin ne vient pas souvent : une fois par semaine, souvent une fois toutes les deux semaines. »

      « Battu avec des tuyaux métalliques »

      Non loin d’elle, Viviane, jeune fille élancée de 20 ans, Nigériane elle aussi, se plaint particulièrement de la nourriture, la fameuse assiette de macaronis de rigueur dans tous les centres de détention.

      Viviane est arrivée en Libye en 2015. Elle a bien tenté d’embarquer à bord d’un Zodiac à partir de Sabratha, la fameuse plate-forme de départs à l’ouest de Sorman, mais une tempête a fait échouer l’opération. Les passagers ont été récupérés par les garde-côtes qui les ont répartis dans les différentes prisons de la Tripolitaine. « Je n’ai pas pu joindre ma famille au téléphone, dit Viviane dans un souffle. Elle me croit morte. »

      Si la visite des centres de détention de Zaouïa ou de Sorman permet de prendre la mesure de l’extrême précarité des conditions de vie, admise sans fard par les officiels des établissements eux-mêmes, la question des violences dans ces lieux coupés du monde est plus délicate.

      Les migrants sont embarrassés de l’évoquer en présence des gardes. Mais mises bout à bout, les confidences qu’ils consentent plus aisément sur leur expérience dans d’autres centres permettent de suggérer un contexte d’une grande brutalité. Celle-ci se déploie sans doute le plus sauvagement dans les prisons privées, officieuses, où le racket des migrants est systématique.

      Et les centres officiellement rattachés à la DCMI n’en sont pas pour autant épargnés. Ainsi Al Hassan Dialo, un Guinéen rencontré à Zaouïa, raconte qu’il était « battu avec des tuyaux métalliques » dans le centre de Gharian, où il avait été précédemment détenu.

      « Extorsion, travail forcé »

      On touche là à l’ambiguïté foncière de ce système de détention, formellement rattaché à l’Etat mais de facto placé sous l’influence des milices contrôlant le terrain. Le fait que des réseaux de trafiquants, liés à ces milices, peuvent impunément enlever des détenus au cœur même des centres, comme ce fut le cas à Zaouïa, donne la mesure de leur capacité de nuisance.

      « Le système est pourri de l’intérieur », se désole un humanitaire. « Des fonctionnaires de l’Etat et des officiels locaux participent au processus de contrebande et de trafic d’êtres humains », abonde un rapport de la Mission d’appui de l’ONU en Libye publié en décembre 2016.

      Dans ces conditions, les migrants font l’objet « d’extorsion, de travail forcé, de mauvais traitements et de tortures », dénonce le rapport. Les femmes, elles, sont victimes de violences sexuelles à grande échelle. Le plus inquiétant est qu’avec l’argent européen promis les centres de détention sous tutelle de la DCMI tendent à se multiplier. Trois nouveaux établissements ont fait ainsi leur apparition ces derniers mois dans le Grand Tripoli.

      La duplicité de l’appareil d’Etat, ou de ce qui en tient lieu, est aussi illustrée par l’attitude des gardes-côtes, autres récipiendaires des financements européens et même de stages de formation. Officiellement, ils affirment lutter contre les réseaux de passeurs au maximum de leurs capacités tout en déplorant l’insuffisance de leurs moyens.

      « Nous ne sommes pas équipés pour faire face aux trafiquants », regrette à Tripoli Ayoub Kassim, le porte-parole de la marine libyenne. Au détour d’un plaidoyer pro domo, le hiérarque militaire glisse que le problème de la gestion des flux migratoires se pose moins sur le littoral qu’au niveau de la frontière méridionale de la Libye. « La seule solution, c’est de maîtriser les migrations au sud, explique-t-il. Malheureusement, les migrants arrivent par le Niger sous les yeux de l’armée française » basée à Madama…

      Opérations de patrouille musclées

      Les vieilles habitudes perdurent. Avant 2011, sous Kadhafi, ces flux migratoires – verrouillés ou tolérés selon l’intérêt diplomatique du moment – étaient instrumentalisés pour exercer une pression sur les Européens.

      Une telle politique semble moins systématique, fragmentation de l’Etat oblige, mais elle continue d’inspirer le comportement de bien des acteurs libyens usant habilement de la carte migratoire pour réclamer des soutiens financiers.

      La déficience des équipements des gardes-côtes ne fait guère de doute. Avec son patrouilleur de 14 mètres de Zaouïa et ses quatre autres bâtiments de 26,4 mètres de Tripoli – souffrant de défaillances techniques bien qu’ayant été réparés en Italie –, l’arsenal en Tripolitaine est de fait limité. Par ailleurs, l’embargo sur les ventes d’armes vers la Libye, toujours en vigueur, en bride le potentiel militaire.

      Pourtant, la hiérarchie des gardes-côtes serait plus convaincante si elle était en mesure d’exercer un contrôle effectif sur ses branches locales. Or, à l’évidence, une sérieuse difficulté se pose à Zaouïa. Le chef local de gardes-côtes, Abdelrahman Milad, plus connu sous le pseudonyme d’Al-Bija, joue un jeu trouble. Selon le rapport du panel des experts sur la Libye de l’ONU, publié en juin, Al-Bija doit son poste à Mohamed Koshlaf, le chef de la principale milice de Zaouïa, qui trempe dans le trafic de migrants.

      Le patrouilleur d’Al-Bija est connu pour ses opérations musclées. Le 21 octobre 2016, il s’est opposé en mer à un sauvetage conduit par l’ONG Sea Watch, provoquant la noyade de vingt-cinq migrants. Le 23 mai 2017, le même patrouilleur intervient dans la zone dite « contiguë » – où la Libye est juridiquement en droit d’agir – pour perturber un autre sauvetage mené par le navire Aquarius, affrété conjointement par Médecins sans frontières et SOS Méditerranée, et le Juvena, affrété par l’ONG allemande Jugend Rettet.

      Duplicité des acteurs libyens

      Les gardes-côtes sont montés à bord d’un Zodiac de migrants, subtilisant téléphones portables et argent des occupants. Ils ont également tiré des coups de feu en l’air, et même dans l’eau où avaient sauté des migrants, ne blessant heureusement personne.

      « Il est difficile de comprendre la logique de ce type de comportement, commente un humanitaire. Peut-être le message envoyé aux migrants est-il : “La prochaine fois, passez par nous.” » Ce « passez par nous » peut signifier, selon de bons observateurs de la scène libyenne, « passez par le réseau de Mohamed Koshlaf », le milicien que l’ONU met en cause dans le trafic de migrants.

      Al-Bija pratiquerait ainsi le deux poids-deux mesures, intraitable ou compréhensif selon que les migrants relèvent de réseaux rivaux ou amis, illustration typique de la duplicité des acteurs libyens. « Al-Bija sait qu’il a commis des erreurs, il cherche maintenant à restaurer son image », dit un résident de Zaouïa. Seule l’expérience le prouvera. En attendant, les Européens doivent coopérer avec lui pour fermer la route de la Méditerranée.

      http://www.lemonde.fr/afrique/article/2017/08/16/en-libye-nous-ne-sommes-que-des-esclaves_5172760_3212.html

    • A PATTI CON LA LIBIA

      La Libia è il principale punto di partenza di barconi carichi di migranti diretti in Europa. Con la Libia l’Europa deve trattare per trovare una soluzione. La Libia però è anche un paese allo sbando, diviso. C’è il governo di Tripoli retto da Fayez al-Sarraj. Poi c’è il generale Haftar che controlla i due terzi del territorio del paese. Senza contare gruppi, milizie, clan tribali. Il compito insomma è complicato. Ma qualcosa, forse, si sta muovendo.

      Dopo decine di vertici inutili, migliaia di morti nel Mediterraneo, promesse non mantenute si torna a parlare con una certa insistenza della necessità di stabilizzare la Libia e aiutare il paese che si affaccia sul Mediterraneo. Particolarmente attiva in questa fase la Francia di Macron, oltre naturalmente all’Italia.

      Tra i punti in discussione c’è il coinvolgimento di altri paesi africani di transito come Niger e Ciad che potrebbero fungere da filtro. Oltre naturalmente ad aiuti diretti alla Libia. Assegni milionari destinati a una migliore gestione delle frontiere ad esempio.

      Ma è davvero così semplice? E come la mettiamo con le violenze e le torture subite dai migranti nei centri di detenzione? Perché proprio ora l’Europa sembra svegliarsi? Cosa si cela dietro questa competizione soprattutto tra Roma e Parigi nel trovare intese con Tripoli?

      http://www.rsi.ch/rete-uno/programmi/informazione/modem/A-PATTI-CON-LA-LIBIA-9426001.html

    • Le fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique adopte un programme de soutien à la gestion intégrée des migrations et des frontières en Libye d’un montant de 46 millions d’euros

      À la suite du plan d’action de la Commission pour soutenir l’Italie, présenté le 4 juillet, le fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique a adopté ce jour un programme doté d’une enveloppe de 46 millions d’euros pour renforcer les capacités des autorités libyennes en matière de gestion intégrée des migrations et des frontières.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-17-2187_fr.htm

    • L’Europe va verser 200 millions d’euros à la Libye pour stopper les migrants

      Les dirigeants européens se retrouvent ce vendredi à Malte pour convaincre la Libye de freiner les traversées de migrants en Méditerranée. Ils devraient proposer d’équiper et former ses gardes-côtes. Le projet d’ouvrir des camps en Afrique refait surface.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/020217/leurope-va-verser-200-millions-deuros-la-libye-pour-stopper-les-migrants

      –-> pour archivage...

    • Persécutés en Libye : l’Europe est complice

      L’Union européenne dans son ensemble, et l’Italie en particulier, sont complices des violations des droits humains commises contre les réfugiés et les migrants en Libye. Enquête.

      https://www.amnesty.fr/refugies-et-migrants/actualites/refugies-et-migrants-persecutes-en-libye-leurope-est-complice

      #complicité

      Et l’utilisation du mot « persécutés » n’est évidemment pas été choisi au hasard...
      –-> ça renvoie à la polémique de qui est #réfugié... et du fait que l’UE essaie de dire que les migrants en Libye sont des #migrants_économiques et non pas des réfugiés (comme ceux qui sont en Turquie et/ou en Grèce, qui sont des syriens, donc des réfugiés)...
      Du coup, utiliser le concept de #persécution signifie faire une lien direct avec la Convention sur les réfugiés et admettre que les migrants en Libye sont potentiellement des réfugiés...

      La position de l’UE :

      #Mogherini was questioned about the EU’s strategy of outsourcing the migration crisis to foreign countries such as Libya and Turkey, which received billions to prevent Syrian refugees from crossing to Greece.

      She said the situation was different on two counts: first, the migrants stranded in Libya were not legitimate asylum seekers like those fleeing the war in Syria. And second, different international bodies were in charge.

      “When it comes to Turkey, it is mainly refugees from Syria; when it comes to Libya, it is mainly migrants from Sub-Saharan Africa and the relevant international laws apply in different manners and the relevant UN agencies are different – the UNHC

      https://www.euractiv.com/section/development-policy/news/libya-human-bondage-risks-overshadowing-africa-eu-summit
      voir ici : http://seen.li/dqtt

      Du coup, @sinehebdo, « #persécutés » serait aussi un mot à ajouter à ta longue liste...

    • v. aussi:
      Libya: Libya’s dark web of collusion: Abuses against Europe-bound refugees and migrants

      In recent years, hundreds of thousands of refugees and migrants have braved the journey across Africa to Libya and often on to Europe. In response, the Libyan authorities have used mass indefinite detention as their primary migration management tool. Regrettably, the European Union and Italy in particular, have decided to reinforce the capacity of Libyan authorities to intercept refugees and migrants at sea and transfer them to detention centres. It is essential that the aims and nature of this co-operation be rethought; that the focus shift from preventing arrivals in Europe to protecting the rights of refugees and migrants.

      https://www.amnesty.org/fr/documents/document/?indexNumber=mde19%2f7561%2f2017&language=en
      #rapport

    • Amnesty France : « L’Union Européenne est complice des violations de droits de l’homme en Libye »

      Jean-François Dubost est responsable du Programme Protection des Populations (réfugiés, civils dans les conflits, discriminations) chez Amnesty France. L’ONG publie un rapport sur la responsabilité des gouvernements européens dans les violations des droits humains des réfugiés et des migrants en Libye.

      https://www.franceinter.fr/emissions/l-invite-de-6h20/l-invite-de-6h20-12-decembre-2017
      #responsabilité

    • Accordi e crimini contro l’umanità in un rapporto di Amnesty International

      La Rotta del Mediterraneo centrale, dal Corno d’Africa, dall’Africa subsahariana, al Niger al Ciad ed alla Libia costituisce ormai l’unica via di fuga da paesi in guerra o precipitati in crisi economiche che mettono a repentaglio la vita dei loro abitanti, senza alcuna possibile distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo. Anche perché in Africa, ed in Libia in particolare, la possibilità concreta di chiedere asilo ed ottenere un permesso di soggiorno o un visto, oltre al riconoscimento dello status di rifugiato da parte dell’UNHCR, è praticamente nulla. Le poche persone trasferite in altri paesi europei dai campi libici (resettlement), come i rimpatri volontari ampiamente pubblicizzati, sono soltanto l’ennesima foglia di fico che si sta utilizzando per nascondere le condizioni disumane in cui centinaia di migliaia di persone vengono trattenute sotto sequestro nei centri di detenzione libici , ufficiali o informali. In tutti gravissime violazioni dei diritti umani, anche subito dopo la visita dei rappresentanti dell’UNHCR e dell’OIM, come dichiarano alcuni testimoni.

      https://www.a-dif.org/2017/12/12/accordi-e-crimini-contro-lumanita-in-un-rapporto-di-amnesty-international

    • Bundestag study: Cooperation with Libyan coastguard infringes international conventions

      “Libya is unable to nominate a Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC), and so rescue missions outside its territorial waters are coordinated by the Italian MRCC in Rome. More and more often the Libyan coastguard is being tasked to lead these missions as on-scene-commander. Since refugees are subsequently brought to Libya, the MRCC in Rome may be infringing the prohibition of refoulement contained in the Geneva Convention relating to the Status of Refugees. This, indeed, was also the conclusion reached in a study produced by the Bundestag Research Service. The European Union and its member states must therefore press for an immediate end to this cooperation with the Libyan coastguard”, says Andrej Hunko, European policy spokesman for the Left Party.

      The Italian Navy is intercepting refugees in the Mediterranean and arranging for them to be picked up by Libyan coastguard vessels. The Bundestag study therefore suspects an infringement of the European Human Rights Convention of the Council of Europe. The rights enshrined in the Convention also apply on the high seas.

      Andrej Hunko goes on to say, “For two years the Libyan coastguard has regularly been using force against sea rescuers, and many refugees have drowned during these power games. As part of the EUNAVFOR MED military mission, the Bundeswehr has also been cooperating with the Libyan coastguard and allegedly trained them in sea rescue. I regard that as a pretext to arm Libya for the prevention of migration. This cooperation must be the subject of proceedings before the European Court of Human Rights, because the people who are being forcibly returned with the assistance of the EU are being inhumanely treated, tortured or killed.

      The study also emphasises that the acts of aggression against private rescue ships violate the United Nations Convention on the Law of the Sea. Nothing in that Convention prescribes that sea rescues must be undertaken by a single vessel. On the contrary, masters of other ships even have a duty to render assistance if they cannot be sure that all of the persons in distress will be quickly rescued. This is undoubtedly the case with the brutal operations of the Libyan coastguard.

      The Libyan Navy might soon have its own MRCC, which would then be attached to the EU surveillance system. The European Commission examined this option in a feasibility study, and Italy is now establishing a coordination centre for this purpose in Tripoli. A Libyan MRCC would encourage the Libyan coastguard to throw its weight about even more. The result would be further violations of international conventions and even more deaths.”

      https://andrej-hunko.de/presse/3946-bundestag-study-cooperation-with-libyan-coastguard-infringes-inter

      v. aussi l’étude:
      https://andrej-hunko.de/start/download/dokumente/1109-bundestag-research-services-maritime-rescue-in-the-mediterranean/file

    • Migrants : « La nasse libyenne a été en partie tissée par la France et l’Union européenne »

      Dans une tribune publiée dans « Le Monde », Thierry Allafort-Duverger, le directeur général de Médecins Sans Frontières, juge hypocrite la posture de la France, qui favorise l’interception de migrants par les garde-côtes libyens et dénonce leurs conditions de détention sur place.

      https://www.msf.fr/actualite/articles/migrants-nasse-libyenne-ete-en-partie-tissee-france-et-union-europeenne
      #hypocrisie

    • Libye : derrière l’arbre de « l’esclavage »
      Par Ali Bensaâd, Professeur à l’Institut français de géopolitique, Paris-VIII — 30 novembre 2017 à 17:56

      L’émotion suscitée par les crimes abjectes révélés par CNN ne doit pas occulter un phénomène bien plus vaste et ancien : celui de centaines de milliers de migrants africains qui vivent et travaillent depuis des décennies, en Libye et au Maghreb, dans des conditions extrêmes d’exploitation et d’atteinte à leur dignité.

      L’onde de choc créée par la diffusion de la vidéo de CNN sur la « vente » de migrants en Libye, ne doit pas se perdre en indignations. Et il ne faut pas que les crimes révélés occultent un malheur encore plus vaste, celui de centaines de milliers de migrants africains qui vivent et travaillent depuis des décennies, en Libye et au Maghreb, dans des conditions extrêmes d’exploitation et d’atteinte à leur dignité. Par ailleurs, ces véritables crimes contre l’humanité ne sont, hélas, pas spécifiques de la Libye. A titre d’exemple, les bédouins égyptiens ou israéliens - supplétifs sécuritaires de leurs armées - ont précédé les milices libyennes dans ces pratiques qu’ils poursuivent toujours et qui ont été largement documentées.

      Ces crimes contre l’humanité, en raison de leur caractère particulièrement abject, méritent d’être justement qualifiés. Il faut s’interroger si le qualificatif « esclavage », au-delà du juste opprobre dont il faut entourer ces pratiques, est le plus scientifiquement approprié pour comprendre et combattre ces pratiques d’autant que l’esclavage a été une réalité qui a structuré pendant un millénaire le rapport entre le Maghreb et l’Afrique subsaharienne. Il demeure le non-dit des inconscients culturels des sociétés de part et d’autre du Sahara, une sorte de « bombe à retardement ». « Mal nommer un objet, c’est ajouter au malheur de ce monde » (1) disait Camus. Et la Libye est un condensé des malheurs du monde des migrations. Il faut donc les saisir par-delà le raccourci de l’émotion.

      D’abord, ils ne sont nullement le produit du contexte actuel de chaos du pays, même si celui-ci les aggrave. Depuis des décennies, chercheurs et journalistes ont documenté la difficile condition des migrants en Libye qui, depuis les années 60, font tourner pour l’essentiel l’économie de ce pays rentier. Leur nombre a pu atteindre certaines années jusqu’à un million pour une population qui pouvait alors compter à peine cinq millions d’habitants. C’est dire leur importance dans le paysage économique et social de ce pays. Mais loin de favoriser leur intégration, l’importance de leur nombre a été conjurée par une précarisation systématique et violente comme l’illustrent les expulsions massives et violentes de migrants qui ont jalonné l’histoire du pays notamment en 1979, 1981, 1985, 1995, 2000 et 2007. Expulsions qui servaient tout à la fois à installer cette immigration dans une réversibilité mais aussi à pénaliser ou gratifier les pays dont ils sont originaires pour les vassaliser. Peut-être contraints, les dirigeants africains alors restaient sourds aux interpellations de leurs migrants pour ne pas contrarier la générosité du « guide » dont ils étaient les fidèles clients. Ils se tairont également quand, en 2000, Moussa Koussa, l’ancien responsable des services libyens, aujourd’hui luxueusement réfugié à Londres, a organisé un véritable pogrom où périrent 500 migrants africains assassinés dans des « émeutes populaires » instrumentalisées. Leur but était cyniquement de faire avaliser, par ricochet, la nouvelle orientation du régime favorable à la normalisation et l’ouverture à l’Europe et cela en attisant un sentiment anti-africain pour déstabiliser la partie de la vieille garde qui y était rétive. Cette normalisation, faite en partie sur le cadavre de migrants africains, se soldera par l’intronisation de Kadhafi comme gardien des frontières européennes. Les migrants interceptés et ceux que l’Italie refoule, en violation des lois européennes, sont emprisonnés, parfois dans les mêmes lieux aujourd’hui, et soumis aux mêmes traitements dégradants.

      En 2006, ce n’était pas 260 migrants marocains qui croupissaient comme aujourd’hui dans les prisons libyennes, ceux dont la vidéo a ému l’opinion, mais 3 000 et dans des conditions tout aussi inhumaines. Kadhafi a signé toutes les conventions que les Européens ont voulues, sachant qu’il n’allait pas les appliquer. Mais lorsque le HCR a essayé de prendre langue avec le pouvoir libyen au sujet de la convention de Genève sur les réfugiés, Kadhafi ferma les bureaux du HCR et expulsa, en les humiliant, ses dirigeants le 9 juin 2010. Le même jour, débutait un nouveau round de négociations en vue d’un accord de partenariat entre la Libye et l’Union européenne et le lendemain, 10 juin, Kadhafi était accueilli en Italie. Une année plus tard, alors même que le CNT n’avait pas encore établi son autorité sur le pays et que Kadhafi et ses troupes continuaient à résister, le CNT a été contraint de signer avec l’Italie un accord sur les migrations dont un volet sur la réadmission des migrants transitant par son territoire. Hier, comme aujourd’hui, c’est à la demande expresse et explicite de l’UE que les autorités libyennes mènent une politique de répression et de rétention de migrants. Et peut-on ignorer qu’aujourd’hui traiter avec les pouvoirs libyens, notamment sur les questions sécuritaires, c’est traiter de fait avec des milices dont dépendent ces pouvoirs eux-mêmes pour leur propre sécurité ? Faut-il s’étonner après cela de voir des milices gérer des centres de rétention demandés par l’UE ?

      Alors que peine à émerger une autorité centrale en Libye, les pays occidentaux n’ont pas cessé de multiplier les exigences à l’égard des fragiles centres d’un pouvoir balbutiant pour leur faire prendre en charge leur protection contre les migrations et le terrorisme au risque de les fragiliser comme l’a montré l’exemple des milices de Misrata. Acteur important de la réconciliation et de la lutte contre les extrémistes, elles ont été poussées, à Syrte, à combattre Daech quasiment seules. Elles en sont sorties exsangues, rongées par le doute et fragilisées face à leurs propres extrémistes. Les rackets, les kidnappings et le travail forcé pour ceux qui ne peuvent pas payer, sont aussi le lot des Libyens, notamment ceux appartenant au camp des vaincus, détenus dans ce que les Libyens nomment « prisons clandestines ». Libyens, mais plus souvent migrants qui ne peuvent payer, sont mis au travail forcé pour les propres besoins des miliciens en étant « loués » ponctuellement le temps d’une captivité qui dure de quelques semaines à quelques mois pour des sommes dérisoires.

      Dans la vidéo de CNN, les sommes évoquées, autour de 400 dinars libyens, sont faussement traduites par les journalistes, selon le taux officiel fictif, en 400 dollars. En réalité, sur le marché réel, la valeur est dix fois inférieure, un dollar valant dix dinars libyens et un euro, douze. Faire transiter un homme, même sur la seule portion saharienne du territoire, rapporte 15 fois plus (500 euros) aux trafiquants et miliciens. C’est par défaut que les milices se rabattent sur l’exploitation, un temps, de migrants désargentés mais par ailleurs encombrants.

      La scène filmée par CNN est abjecte et relève du crime contre l’humanité. Mais il s’agit de transactions sur du travail forcé et de corvées. Il ne s’agit pas de vente d’hommes. Ce n’est pas relativiser ou diminuer ce qui est un véritable crime contre l’humanité, mais il faut justement qualifier les objets. Il s’agit de pratiques criminelles de guerre et de banditisme qui exploitent les failles de politiques migratoires globales. On n’assiste pas à une résurgence de l’esclavage. Il ne faut pas démonétiser l’indignation et la vigilance en recourant rapidement aux catégories historiques qui mobilisent l’émotion. Celle-ci retombe toujours. Et pendant que le débat s’enflamme sur « l’esclavage », la même semaine, des centaines d’hommes « libres » sont morts, noyés en Méditerranée, s’ajoutant à des dizaines de milliers qui les avaient précédés.

      (1) C’est la véritable expression utilisée par Camus dans un essai de 1944, paru dans Poésie 44, (Sur une philosophie de l’expression), substantiellement très différente, en termes philosophiques, de ce qui sera reporté par la suite : « Mal nommer les choses, c’est ajouter aux malheurs du monde. »

      http://www.liberation.fr/debats/2017/11/30/libye-derriere-l-arbre-de-l-esclavage_1613662

    • Quand l’Union européenne veut bloquer les exilé-e-s en Libye

      L’Union européenne renforce les capacités des garde-côtes Libyens pour qu’ils interceptent les bateaux d’exilé-e-s dans les eaux territoriales et les ramènent en Libye. Des navires de l’#OTAN patrouillent au large prétendument pour s’attaquer aux « bateaux de passeurs », ce qui veut dire que des moyens militaires sont mobilisés pour empêcher les exilé-e-s d’atteindre les côtes européennes. L’idée a été émise de faire le tri, entre les personnes qui relèveraient de l’asile et celles qui seraient des « migrants économiques » ayant « vocation » à être renvoyés, sur des bateaux ua large de la Libye plutôt que sur le sol italien, créant ainsi des « #hotspots_flottants« .

      https://lampedusauneile.wordpress.com/2016/07/15/quand-lunion-europeenne-veut-bloquer-les-exile-e-s-en-lib

    • Le milizie libiche catturano in mare centinaia di migranti in fuga verso l’Europa. E li richiudono in prigione. Intanto l’Unione Europea si prepara ad inviare istruttori per rafforzare le capacità di arresto da parte della polizia libica. Ma in Libia ci sono tante «guardie costiere» ed ognuna risponde ad un governo diverso.

      Sembra di ritornare al 2010, quando dopo i respingimenti collettivi in Libia eseguiti direttamente da mezzi della Guardia di finanza italiana a partire dal 7 maggio 2009, in base agli accordi tra Berlusconi e Gheddafi, si inviarono in Libia agenti della Guardia di finanza per istruire la Guardia Costiera libica nelle operazioni di blocco dei migranti che erano riusciti a fuggire imbarcandosi su mezzi sempre più fatiscenti.

      http://dirittiefrontiere.blogspot.ch/2016/05/le-milizie-libiche-catturano-in-mare.html?m=1

    • Merkel, Hollande Warn Libya May Be Next Big Migrant Staging Area

      The European Union may need an agreement with Libya to restrict refugee flows similar to one with Turkey as the North African country threatens to become the next gateway for migrants to Europe, the leaders of Germany and France said.

      http://www.bloomberg.com/news/articles/2016-04-07/merkel-hollande-warn-libya-may-be-next-big-migrant-staging-area
      #accord #Libye #migrations #réfugiés #asile #politique_migratoire #externalisation #UE #Europe

    • Le fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique adopte un programme de 90 millions € pour la protection des migrants et l’amélioration de la gestion des migrations en Libye

      Dans le prolongement de la communication conjointe sur la route de la Méditerranée centrale et de la déclaration de Malte, le fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique a adopté ce jour, sur proposition de la Commission européenne, un programme de 90 millions € visant à renforcer la protection des migrants et à améliorer la gestion des migrations en Libye.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-17-951_fr.htm

    • L’Europa non può affidare alla Libia le vite dei migranti

      “Il rischio è che Italia ed Europa si rendano complici delle violazioni dei diritti umani commesse in Libia”, dice il direttore generale di Medici senza frontiere (Msf) Arjan Hehenkamp. Mentre le organizzazioni non governative che salvano i migranti nel Mediterraneo centrale sono al centro di un processo di criminalizzazione, l’Italia e l’Europa stanno cercando di delegare alle autorità libiche la soluzione del problema degli sbarchi.

      http://www.internazionale.it/video/2017/05/04/ong-libia-migranti

    • MSF accuses Libyan coastguard of endangering people’s lives during Mediterranean rescue

      During a rescue in the Mediterranean Sea on 23 May, the Libyan coastguard approached boats in distress, intimidated the passengers and then fired gunshots into the air, threatening people’s lives and creating mayhem, according to aid organisations Médecins Sans Frontières and SOS Méditerranée, whose teams witnessed the violent incident.

      http://www.msf.org/en/article/msf-accuses-libyan-coastguard-endangering-people%E2%80%99s-lives-during-mediter

    • Enquête. Le chaos libyen est en train de déborder en Méditerranée

      Pour qu’ils bloquent les flux migratoires, l’Italie, appuyée par l’UE, a scellé un accord avec les gardes-côtes libyens. Mais ils ne sont que l’une des très nombreuses forces en présence dans cet État en lambeaux. Désormais la Méditerranée devient dangereuse pour la marine italienne, les migrants, et les pêcheurs.


      http://www.courrierinternational.com/article/enquete-le-chaos-libyen-est-en-train-de-deborder-en-mediterra

    • Architect of EU-Turkey refugee pact pushes for West Africa deal

      “Every migrant from West Africa who survives the dangerous journey from Libya to Italy remains in Europe for years afterwards — regardless of the outcome of his or her asylum application,” Knaus said in an interview.

      To accelerate the deportations of rejected asylum seekers to West African countries that are considered safe, the EU needs to forge agreements with their governments, he said.

      http://www.politico.eu/article/migration-italy-libya-architect-of-eu-turkey-refugee-pact-pushes-for-west-a
      cc @i_s_

      Avec ce commentaire de Francesca Spinelli :

    • Pour 20 milliards, la Libye pourrait bloquer les migrants à sa frontière sud

      L’homme fort de l’Est libyen, Khalifa Haftar, estime à « 20 milliards de dollars sur 20 ou 25 ans » l’effort européen nécessaire pour aider à bloquer les flux de migrants à la frontière sud du pays.

      https://www.rts.ch/info/monde/8837947-pour-20-milliards-la-libye-pourrait-bloquer-les-migrants-a-sa-frontiere-

    • Bruxelles offre 200 millions d’euros à la Libye pour freiner l’immigration

      La Commission européenne a mis sur la table de nouvelles mesures pour freiner l’arrivée de migrants via la mer méditerranée, dont 200 millions d’euros pour la Libye. Un article de notre partenaire Euroefe.

      http://www.euractiv.fr/section/l-europe-dans-le-monde/news/bruxelles-offre-200-millions-deuros-a-la-libye-pour-freiner-limmigration/?nl_ref=29858390

      #Libye #asile #migrations #accord #deal #réfugiés #externalisation
      cc @reka

    • Stuck in Libya. Migrants and (Our) Political Responsibilities

      Fighting at Tripoli’s international airport was still under way when, in July 2014, the diplomatic missions of European countries, the United States and Canada were shut down. At that time Italy decided to maintain a pied-à-terre in place in order to preserve the precarious balance of its assets in the two-headed country, strengthening security at its local headquarters on Tripoli’s seafront. On the one hand there was no forsaking the Mellitah Oil & Gas compound, controlled by Eni and based west of Tripoli. On the other, the Libyan coast also had to be protected to assist the Italian forces deployed in Libyan waters and engaged in the Mare Nostrum operation to dismantle the human smuggling network between Libya and Italy, as per the official mandate. But the escalation of the civil war and the consequent deterioration of security conditions led Rome to leave as well, in February 2015.

      http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/stuck-libya-migrants-and-our-political-responsibilities-16294

    • Libia: diritto d’asilo cercasi, smarrito fra Bruxelles e Tripoli (passando per Roma)

      La recente Comunicazione congiunta della Commissione e dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’UE, il Memorandum Italia-Libia firmato il 2 febbraio e la Dichiarazione uscita dal Consiglio europeo di venerdì 3 alla Valletta hanno delineato un progetto di chiusura della “rotta” del Mediterraneo centrale che rischia di seppellire, di fatto, il diritto d’asilo nel Paese e ai suoi confini.

      http://viedifuga.org/libia-diritto-d-asilo-cercasi-smarrito-fra-bruxelles-e-tripoli

    • Immigration : l’Union européenne veut aider la Libye

      L’Union européenne veut mettre fin à ces traversées entre la Libye et l’Italie. Leur plan passe par une aide financière aux autorités libyennes.

      http://www.rts.ch/play/tv/19h30/video/immigration-lunion-europeenne-veut-aider-la-libye?id=8360849

      Dans ce bref reportage, la RTS demande l’opinion d’Etienne Piguet (prof en géographie des migrations à l’Université de Neuchâtel) :
      « L’Union européenne veut absolument limiter les arrivées, mais en même temps on ne peut pas simplement refouler les gens. C’est pas acceptable du point de vue des droits humains. Donc l’UE essaie de mettre en place un système qui tient les gens à distance tout en leur offrant des conditions acceptables d’accueil » (en Libye, entend-il)
      Je m’abstiens de tout commentaire.

    • New EU Partnerships in North Africa: Potential to Backfire?

      As European leaders meet in Malta to receive a progress report on the EU flagship migration partnership framework, the European Union finds itself in much the same position as two years earlier, with hundreds of desperate individuals cramming into flimsy boats and setting off each week from the Libyan coast in hope of finding swift rescue and passage in Europe. Options to reduce flows unilaterally are limited. Barred by EU law from “pushing back” vessels encountered in the Mediterranean, the European Union is faced with no alternative but to rescue and transfer passengers to European territory, where the full framework of European asylum law applies. Member States are thus looking more closely at the role transit countries along the North African coastline might play in managing these flows across the Central Mediterranean. Specifically, they are examining the possibility of reallocating responsibility for search and rescue to Southern partners, thereby decoupling the rescue missions from territorial access to international protection in Europe.

      http://www.migrationpolicy.org/news/new-eu-partnerships-north-africa-potential-backfire

    • Migration: MSF warns EU about inhumane approach to migration management

      As European Union (EU) leaders meet in Malta today to discuss migration, with a view to “close down the route from Libya to Italy” by stepping up cooperation with the Libyan authorities, we want to raise grave concerns about the fate of people trapped in Libya or returned to the country. Médecins Sans Frontières (MSF) has been providing medical care to migrants, refugees and asylum seekers detained in Tripoli and the surrounding area since July 2016 and people are detained arbitrarily in inhumane and unsanitary conditions, often without enough food and clean water and with a lack of access to medical care.

      http://www.msf.org/en/article/migration-msf-warns-eu-about-inhumane-approach-migration-management

    • EU and Italy migration deal with Libya draws sharp criticism from Libyan NGOs

      Twelve Libyan non-governmental organisations (NGOs) have issued a joint statement criticising the EU’s latest migrant policy as set out at the Malta summit a week ago as well as the Italy-Libya deal signed earlier which agreed that migrants should be sent back to Libya and repartiated voluntarily from there. Both represented a fundamental “immoral and inhumane attitude” towards migrants, they said. International human rights and calls had to be respected.

      https://www.libyaherald.com/2017/02/10/eu-and-italy-migration-deal-with-libya-draws-sharp-criticism-from-libya

    • Libya is not Turkey: why the EU plan to stop Mediterranean migration is a human rights concern

      EU leaders have agreed to a plan that will provide Libya’s UN-backed government €200 million for dealing with migration. This includes an increase in funding for the Libyan coastguard, with an overall aim to stop migrant boats crossing the Mediterranean to Italy.

      https://theconversation.com/libya-is-not-turkey-why-the-eu-plan-to-stop-mediterranean-migration

    • EU aims to step up help to Libya coastguards on migrant patrols

      TUNIS (Reuters) - The European Union wants to rapidly expand training of Libyan coastguards to stem migrant flows to Italy and reduce deaths at sea, an EU naval mission said on Thursday, signaling a renewed push to support a force struggling to patrol its own coasts.

      https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-libya/eu-aims-to-step-up-help-to-libya-coastguards-on-migrant-patrols-idUSKCN1GR3

      #UE #EU

    • Why Cooperating With Libya on Migration Could Damage the EU’s Standing

      Italy and the Netherlands began training Libyan coast guard and navy officers on Italian and Dutch navy ships in the Mediterranean earlier in October. The training is part of the European Union’s anti-smuggling operation in the central Mediterranean with the goal of enhancing Libya’s “capability to disrupt smuggling and trafficking… and to perform search-and-rescue activities.”

      http://europe.newsweek.com/why-cooperating-libya-migration-could-damage-eus-standing-516099?rm
      #asile #migrations #réfugiés #Europe #UE #EU #Libye #coopération #externalisation #Méditerranée #Italie #Pays-Bas #gardes-côtes

    • Les migrants paient le prix fort de la coopération entre l’UE et les garde-côtes libyens

      Nombre de dirigeants européens appellent à une « coopération » renforcée avec les garde-côtes libyens. Mais une fois interceptés en mer, ces migrants sont renvoyés dans des centres de détention indignes et risquent de retomber aux mains de trafiquants.

      C’est un peu la bouée de sauvetage des dirigeants européens. La « coopération » avec la Libye et ses légions de garde-côtes reste l’une des dernières politiques à faire consensus dans les capitales de l’UE, s’agissant des migrants. Initiée en 2016 pour favoriser l’interception d’embarcations avant leur entrée dans les eaux à responsabilité italienne ou maltaise, elle a fait chuter le nombre d’arrivées en Europe.

      Emmanuel Macron en particulier s’en est félicité, mardi 26 juin, depuis le Vatican : « La capacité à fermer cette route [entre la Libye et l’Italie, ndlr] est la réponse la plus efficace » au défi migratoire. Selon lui, ce serait même « la plus humaine ». Alors qu’un Conseil européen crucial s’ouvre ce jeudi 28 juin, le président français appelle donc à « renforcer » cette coopération avec Tripoli.

      Convaincu qu’il faut laisser les Libyens travailler, il s’en est même pris, mardi, aux bateaux humanitaires et en particulier au Lifeline, le navire affrété par une ONG allemande qui a débarqué 233 migrants mercredi soir à Malte (après une semaine d’attente en mer et un blocus de l’Italie), l’accusant d’être « intervenu en contravention de toutes les règles et des garde-côtes libyens ». Lancé, Emmanuel Macron est allé jusqu’à reprocher aux bateaux des ONG de faire « le jeu des passeurs ».

      Inédite dans sa bouche (mais entendue mille fois dans les diatribes de l’extrême droite transalpine), cette sentence fait depuis bondir les organisations humanitaires les unes après les autres, au point que Médecins sans frontières (qui affrète l’Aquarius avec SOS Méditerranée), Amnesty International France, La Cimade et Médecins du monde réclament désormais un rendez-vous à l’Élysée, se disant « consternées ».

      Ravi, lui, le ministre de l’intérieur italien et leader d’extrême droite, Matteo Salvini, en a profité pour annoncer mercredi un don exceptionnel en faveur des garde-côtes de Tripoli, auxquels il avait rendu visite l’avant-veille : 12 navires de patrouille, une véritable petite flotte.

      En deux ans, la coopération avec ce pays de furie qu’est la Libye post-Kadhafi semble ainsi devenue la solution miracle, « la plus humaine » même, que l’UE ait dénichée face au défi migratoire en Méditerranée centrale. Comment en est-on arrivé là ? Jusqu’où va cette « coopération » qualifiée de « complicité » par certaines ONG ? Quels sont ses résultats ?

      • Déjà 8 100 interceptions en mer
      À ce jour, en 2018, environ 16 000 migrants ont réussi à traverser jusqu’en Italie, soit une baisse de 77 % par rapport à l’an dernier. Sur ce point, Emmanuel Macron a raison : « Nous avons réduit les flux. » Les raisons, en réalité, sont diverses. Mais de fait, plus de 8 100 personnes parties de Libye ont déjà été rattrapées par les garde-côtes du pays cette année et ramenées à terre, d’après le Haut Commissariat aux réfugiés (le HCR). Contre 800 en 2015.

      Dans les écrits de cette agence de l’ONU, ces migrants sont dits « sauvés/interceptés », sans qu’il soit tranché entre ces deux termes, ces deux réalités. À lui seul, ce « / » révèle toute l’ambiguïté des politiques de coopération de l’UE : si Bruxelles aime penser que ces vies sont sauvées, les ONG soulignent qu’elles sont surtout ramenées en enfer. Certains, d’ailleurs, préfèrent sauter de leur bateau pneumatique en pleine mer plutôt que retourner en arrière.

      • En Libye, l’« abominable » sort des migrants (source officielle)
      Pour comprendre les critiques des ONG, il faut rappeler les conditions inhumaines dans lesquelles les exilés survivent dans cet « État tampon », aujourd’hui dirigé par un gouvernement d’union nationale ultra contesté (basé à Tripoli), sans contrôle sur des parts entières du territoire. « Ce que nous entendons dépasse l’entendement, rapporte l’un des infirmiers de l’Aquarius, qui fut du voyage jusqu’à Valence. Les migrants subsahariens sont affamés, assoiffés, torturés. » Parmi les 630 passagers débarqués en Espagne, l’une de ses collègues raconte avoir identifié de nombreux « survivants de violences sexuelles », « des femmes et des hommes à la fois, qui ont vécu le viol et la torture sexuelle comme méthodes d’extorsion de fonds », les familles étant souvent soumises au chantage par téléphone. Un diagnostic dicté par l’émotion ? Des exagérations de rescapés ?

      Le même constat a été officiellement dressé, dès janvier 2017, par le Haut-Commissariat aux droits de l’homme de l’ONU. « Les migrants se trouvant sur le sol libyen sont victimes de détention arbitraire dans des conditions inhumaines, d’actes de torture, notamment de violence sexuelle, d’enlèvements visant à obtenir une rançon, de racket, de travail forcé et de meurtre », peut-on lire dans son rapport, où l’on distingue les centres de détention officiels dirigés par le Service de lutte contre la migration illégale (relevant du ministère de l’intérieur) et les prisons clandestines tenues par des milices armées.

      Même dans les centres gouvernementaux, les exilés « sont détenus arbitrairement sans la moindre procédure judiciaire, en violation du droit libyen et des normes internationales des droits de l’homme. (…) Ils sont souvent placés dans des entrepôts dont les conditions sont abominables (…). Des surveillants refusent aux migrants l’accès aux toilettes, les obligeant à uriner et à déféquer [là où ils sont]. Dans certains cas, les migrants souffrent de malnutrition grave [environ un tiers de la ration calorique quotidienne minimale]. Des sources nombreuses et concordantes [évoquent] la commission d’actes de torture, notamment des passages à tabac, des violences sexuelles et du travail forcé ».

      Sachant qu’il y a pire à côté : « Des groupes armés et des trafiquants détiennent d’autres migrants dans des lieux non officiels. » Certaines de ces milices, d’ailleurs, « opèrent pour le compte de l’État » ou pour « des agents de l’État », pointe le rapport. Le marché du kidnapping, de la vente et de la revente, est florissant. C’est l’enfer sans même Lucifer pour l’administrer.

      En mai dernier, par exemple, une centaine de migrants a réussi à s’évader d’une prison clandestine de la région de Bani Walid, où MSF gère une clinique de jour. « Parmi les survivants que nous avons soignés, des jeunes de 16 à 18 ans en majorité, certains souffrent de blessures par balles, de fractures multiples, de brûlures, témoigne Christophe Biteau, chef de mission de l’ONG en Libye. Certains nous racontent avoir été baladés, détenus, revendus, etc., pendant trois ans. » Parfois, MSF recueille aussi des migrants relâchés « spontanément » par leurs trafiquants : « Un mec qui commence à tousser par exemple, ils n’en veulent plus à cause des craintes de tuberculose. Pareil en cas d’infections graves. Il y a comme ça des migrants, sur lesquels ils avaient investi, qu’ils passent par “pertes et profits”, si j’ose dire. »

      Depuis 2017, et surtout les images d’un marché aux esclaves diffusées sur CNN, les pressions de l’ONU comme de l’UE se sont toutefois multipliées sur le gouvernement de Tripoli, afin qu’il s’efforce de vider les centres officiels les plus honteux – 18 ont été fermés, d’après un bilan de mars dernier. Mais dans un rapport récent, daté de mai 2018, le secrétaire général de l’ONU persiste : « Les migrants continuent d’être sujets (…) à la torture, à du rançonnement, à du travail forcé et à des meurtres », dans des « centres officiels et non officiels ». Les auteurs ? « Des agents de l’État, des groupes armés, des trafiquants, des gangs criminels », encore et encore.

      Au 21 juin, plus de 5 800 personnes étaient toujours détenues dans les centres officiels. « Nous en avons répertorié 33, dont 4 où nous avons des difficultés d’accès », précise l’envoyé spécial du HCR pour la situation en Méditerranée centrale, Vincent Cochetel, qui glisse au passage : « Il est arrivé que des gens disparaissent après nous avoir parlé. » Surtout, ces derniers jours, avec la fin du ramadan et les encouragements des dirigeants européens adressés aux garde-côtes libyens, ces centres de détention se remplissent à nouveau.

      • Un retour automatique en détention
      Car c’est bien là, dans ces bâtiments gérés par le ministère de l’intérieur, que sont théoriquement renvoyés les migrants « sauvés/interceptés » en mer. Déjà difficile, cette réalité en cache toutefois une autre. « Les embarcations des migrants décollent en général de Libye en pleine nuit, raconte Christophe Biteau, de MSF. Donc les interceptions par les garde-côtes se font vers 2 h ou 3 h du matin et les débarquements vers 6 h. Là, avant l’arrivée des services du ministère de l’intérieur libyen et du HCR (dont la présence est autorisée sur la douzaine de plateformes de débarquement utilisées), il y a un laps de temps critique. » Où tout peut arriver.

      L’arrivée à Malte, mercredi 27 juin 2018, des migrants sauvés par le navire humanitaire « Lifeline » © Reuters
      Certains migrants de la Corne de l’Afrique (Érythrée, Somalie, etc.), réputés plus « solvables » que d’autres parce qu’ils auraient des proches en Europe jouissant déjà du statut de réfugiés, racontent avoir été rachetés à des garde-côtes par des trafiquants. Ces derniers répercuteraient ensuite le prix d’achat de leur « marchandise » sur le tarif de la traversée, plus chère à la seconde tentative… Si Christophe Biteau ne peut témoigner directement d’une telle corruption de garde-côtes, il déclare sans hésiter : « Une personne ramenée en Libye peut très bien se retrouver à nouveau dans les mains de trafiquants. »

      Au début du mois de juin, le Conseil de sécurité de l’ONU (rien de moins) a voté des sanctions à l’égard de six trafiquants de migrants (gel de comptes bancaires, interdiction de voyager, etc.), dont le chef d’une unité de… garde-côtes. D’autres de ses collègues ont été suspectés par les ONG de laisser passer les embarcations siglées par tel ou tel trafiquant, contre rémunération.

      En tout cas, parmi les migrants interceptés et ramenés à terre, « il y a des gens qui disparaissent dans les transferts vers les centres de détention », confirme Vincent Cochetel, l’envoyé spécial du HCR. « Sur les plateformes de débarquement, on aimerait donc mettre en place un système d’enregistrement biométrique, pour essayer de retrouver ensuite les migrants dans les centres, pour protéger les gens. Pour l’instant, on n’a réussi à convaincre personne. » Les « kits médicaux » distribués sur place, financés par l’UE, certes utiles, ne sont pas à la hauteur de l’enjeu.

      • Des entraînements financés par l’UE
      Dans le cadre de l’opération Sophia (théoriquement destinée à lutter contre les passeurs et trafiquants dans les eaux internationales de la Méditerranée), Bruxelles a surtout décidé, en juin 2016, d’initier un programme de formation des garde-côtes libyens, qui a démarré l’an dernier et déjà bénéficié à 213 personnes. C’est que, souligne-t-on à Bruxelles, les marines européennes ne sauraient intervenir elles-mêmes dans les eaux libyennes.

      Il s’agit à la fois d’entraînements pratiques et opérationnels (l’abordage de canots, par exemple) visant à réduire les risques de pertes humaines durant les interventions, et d’un enseignement juridique (droit maritimes, droits humains, etc.), notamment à destination de la hiérarchie. D’après la commission européenne, tous les garde-côtes bénéficiaires subissent un « check de sécurité » avec vérifications auprès d’Interpol et Europol, voire des services de renseignement des États membres, pour écarter les individus les plus douteux.

      Il faut dire que les besoins de « formation » sont – pour le moins – criants. À plusieurs reprises, des navires humanitaires ont été témoins d’interceptions violentes, sinon criminelles. Sur une vidéo filmée depuis le Sea Watch (ONG allemande) en novembre dernier, on a vu des garde-côtes frapper certains des migrants repêchés, puis redémarrer alors qu’un homme restait suspendu à l’échelle de bâbord, sans qu’aucun Zodiac de secours ne soit jamais mis à l’eau. « Ils étaient cassés », ont répondu les Libyens.

      Un « sauvetage » effectué en novembre 2017 par des garde-côtes Libyens © Extrait d’une vidéo publiée par l’ONG allemande Sea Watch
      Interrogée sur le coût global de ces formations, la commission indique qu’il est impossible à chiffrer, Frontex (l’agence de garde-côtes européenne) pouvant participer aux sessions, tel État membre fournir un bateau, tel autre un avion pour trimballer les garde-côtes, etc.

      • La fourniture d’équipements en direct
      En décembre, un autre programme a démarré, plus touffu, financé cette fois via le « Fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique » (le fonds d’urgence européen mis en place en 2015 censément pour prévenir les causes profondes des migrations irrégulières et prendre le problème à la racine). Cette fois, il s’agit non plus seulement de « formation », mais de « renforcement des capacités opérationnelles » des garde-côtes libyens, avec des aides directes à l’équipement de bateaux (gilets, canots pneumatiques, appareils de communication, etc.), à l’entretien des navires, mais aussi à l’équipement des salles de contrôle à terre, avec un objectif clair en ligne de mire : aider la Libye à créer un « centre de coordination de sauvetage maritime » en bonne et due forme, pour mieux proclamer une « zone de recherche et sauvetage » officielle, au-delà de ses seules eaux territoriales actuelles. La priorité, selon la commission à Bruxelles, reste de « sauver des vies ».

      Budget annoncé : 46 millions d’euros avec un co-financement de l’Italie, chargée de la mise en œuvre. À la marge, les garde-côtes libyens peuvent d’ailleurs profiter d’autres programmes européens, tel « Seahorse », pour de l’entraînement à l’utilisation de radars.

      L’Italie, elle, va encore plus loin. D’abord, elle fournit des bateaux aux garde-côtes. Surtout, en 2017, le ministre de l’intérieur transalpin a rencontré les maires d’une dizaine de villes libyennes en leur faisant miroiter l’accès au Fonds fiduciaire pour l’Afrique de l’UE, en contrepartie d’un coup de main contre le trafic de migrants. Et selon diverses enquêtes (notamment des agences de presse Reuters et AP), un deal financier secret aurait été conclu à l’été 2017 entre l’Italie et des représentants de milices, à l’époque maîtresses des départs d’embarcations dans la région de Sabratha. Rome a toujours démenti, mais les appareillages dans ce coin ont brutalement cessé pour redémarrer un peu plus loin. Au bénéfice d’autres milices.

      • L’aide à l’exfiltration de migrants
      En même temps, comme personne ne conteste plus l’enfer des conditions de détention et que tout le monde s’efforce officiellement de vider les centres du régime en urgence, l’UE travaille aussi à la « réinstallation » en Europe des exilés accessibles au statut de réfugié, ainsi qu’au rapatriement dans leur pays d’origine des migrants dits « économiques » (sur la base du volontariat en théorie). Dans le premier cas, l’UE vient en soutien du HCR ; dans le second cas, en renfort de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM).

      L’objectif affiché est limpide : épargner des prises de risque en mer inutiles aux réfugiés putatifs (Érythréens, Somaliens, etc.), comme à ceux dont la demande à toutes les chances d’être déboutée une fois parvenus en Europe, comme les Ivoiriens par exemple. Derrière les éléments de langage, que disent les chiffres ?

      Selon le HCR, seuls 1 730 réfugiés et demandeurs d’asile prioritaires ont pu être évacués depuis novembre 2017, quelques-uns directement de la Libye vers l’Italie (312) et la Roumanie (10), mais l’essentiel vers le Niger voisin, où les autorités ont accepté d’accueillir une plateforme d’évacuations de 1 500 places en échange de promesses de « réinstallations » rapides derrière, dans certains pays de l’UE.

      Et c’est là que le bât blesse. Paris, par exemple, s’est engagé à faire venir 3 000 réfugiés de Niamey (Niger), mais n’a pas tenu un vingtième de sa promesse. L’Allemagne ? Zéro.

      « On a l’impression qu’une fois qu’on a évacué de Libye, la notion d’urgence se perd », regrette Vincent Cochetel, du HCR. Une centaine de migrants, surtout des femmes et des enfants, ont encore été sortis de Libye le 19 juin par avion. « Mais on va arrêter puisqu’on n’a plus de places [à Niamey], pointe le représentant du HCR. L’heure de vérité approche. On ne peut pas demander au Niger de jouer ce rôle si on n’est pas sérieux derrière, en termes de réinstallations. Je rappelle que le Niger a plus de réfugiés sur son territoire que la France par exemple, qui fait quand même des efforts, c’est vrai. Mais on aimerait que ça aille beaucoup plus vite. » Le HCR discute d’ailleurs avec d’autres États africains pour créer une seconde « plateforme d’évacuation » de Libye, mais l’exemple du Niger, embourbé, ne fait pas envie.

      Quant aux rapatriements vers les pays d’origine des migrants dits « économiques », mis en œuvre avec l’OIM (autre agence onusienne), les chiffres atteignaient 8 546 à la mi-juin. « On peut questionner le caractère volontaire de certains de ces rapatriements, complète Christophe Biteau, de MSF. Parce que vu les conditions de détention en Libye, quand on te dit : “Tu veux que je te sorte de là et que je te ramène chez toi ?”… Ce n’est pas vraiment un choix. » D’ailleurs, d’après l’OIM, les rapatriés de Libye sont d’abord Nigérians, puis Soudanais, alors même que les ressortissants du Soudan accèdent à une protection de la France dans 75 % des cas lorsqu’ils ont l’opportunité de voir leur demande d’asile examinée.
      En résumé, sur le terrain, la priorité des États de l’UE va clairement au renforcement du mur de la Méditerranée et de ses Cerbère, tandis que l’extraction de réfugiés, elle, reste cosmétique. Pour Amnesty International, cette attitude de l’Union, et de l’Italie au premier chef, serait scandaleuse : « Dans la mesure où ils ont joué un rôle dans l’interception des réfugiés et des migrants, et dans la politique visant à les contenir en Libye, ils partagent avec celle-ci la responsabilité des détentions arbitraires, de la torture et autres mauvais traitements infligés », tance un rapport de l’association publié en décembre dernier.

      Pour le réseau Migreurop (regroupant chercheurs et associations spécialisés), « confier le contrôle des frontières maritimes de l’Europe à un État non signataire de la Convention de Genève [sur les droits des réfugiés, ndlr] s’apparente à une politique délibérée de contournement des textes internationaux et à une sous-traitance des pires violences à l’encontre des personnes exerçant leur droit à émigrer ». Pas sûr que les conclusions du conseil européen de jeudi et vendredi donnent, à ces organisations, la moindre satisfaction.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/280618/les-migrants-paient-le-prix-fort-de-la-cooperation-entre-lue-et-les-garde-

    • Au Niger, l’Europe finance plusieurs projets pour réduire le flux de migrants

      L’Union européenne a invité des entreprises du vieux continent au Niger afin qu’elles investissent pour améliorer les conditions de vie des habitants. Objectif : réduire le nombre de candidats au départ vers l’Europe.

      Le Niger est un pays stratégique pour les Européens. C’est par là que transitent la plupart des migrants qui veulent rejoindre l’Europe. Pour réduire le flux, l’Union européenne finance depuis 2015 plusieurs projets et veut désormais créer un tissu économique au Niger pour dissuader les candidats au départ. Le président du Parlement européen, Antonio Tajani, était, la semaine dernière dans la capitale nigérienne à Niamey, accompagné d’une trentaine de chefs d’entreprise européens à la recherche d’opportunités d’investissements.
      Baisse du nombre de départ de 90% en deux ans

      Le nombre de migrants qui a quitté le Niger pour rejoindre la Libye avant de tenter la traversée vers l’Europe a été réduit de plus de 90% ces deux dernières années. Notamment grâce aux efforts menés par le gouvernement nigérien avec le soutien de l’Europe pour mieux contrôler la frontière entre le Niger et la Libye. Mais cela ne suffit pas selon le président du Parlement européen, Antonio Tajani. « En 2050, nous aurons deux milliards cinq cents millions d’Africains, nous ne pourrons pas bloquer avec la police et l’armée l’immigration, donc voilà pourquoi il faut intervenir tout de suite ». Selon le président du Parlement européen, il faut donc améliorer les conditions de vie des Nigériens pour les dissuader de venir en Europe.
      Des entreprises françaises vont investir au Niger

      La société française #Sunna_Design, travaille dans le secteur de l’éclairage public solaire et souhaite s’implanter au Niger. Pourtant les difficultés sont nombreuses, notamment la concurrence chinoise, l’insécurité, ou encore la mauvaise gouvernance. Stéphane Redon, le responsable export de l’entreprise, y voit pourtant un bon moyen d’améliorer la vie des habitants. « D’abord la sécurité qui permet à des gens de pouvoir penser à avoir une vie sociale, nocturne, et une activité économique. Et avec ces nouvelles technologies, on aspire à ce que ces projets créent du travail localement, au niveau des installations, de la maintenance, et de la fabrication. »
      Le Niger salue l’initiative

      Pour Mahamadou Issoufou, le président du Niger, l’implantation d’entreprises européennes sur le territoire nigérien est indispensable pour faire face au défi de son pays notamment démographique. Le Niger est le pays avec le taux de natalité le plus élevé au monde, avec huit enfants par femme. « Nous avons tous décidé de nous attaquer aux causes profondes de la migration clandestine, et l’une des causes profondes, c’est la #pauvreté. Il est donc important qu’une lutte énergique soit menée. Certes, il y a les ressources publiques nationales, il y a l’#aide_publique_au_développement, mais tout cela n’est pas suffisant. il faut nécessairement un investissement massif du secteur privé », explique Mahamadou Issoufou. Cette initiative doit être élargie à l’ensemble des pays du Sahel, selon les autorités nigériennes et européennes.

      https://mobile.francetvinfo.fr/replay-radio/en-direct-du-monde/en-direct-du-monde-au-niger-l-europe-finance-plusieurs-projets-p
      #investissements #développement #APD

    • In die Rebellion getrieben

      Die Flüchtlingsabwehr der EU führt zu neuen Spannungen in Niger und droht womöglich gar eine Rebellion im Norden des Landes auszulösen. Wie Berichte aus der Region bestätigen, hat die von Brüssel erzwungene Illegalisierung des traditionellen Migrationsgeschäfts besonders in der Stadt Agadez, dem Tor zur nigrischen Sahara, Zehntausenden die Lebensgrundlage genommen. Großspurig angekündigte Ersatzprogramme der EU haben lediglich einem kleinen Teil der Betroffenen wieder zu einem Job verholfen. Lokale Beobachter warnen, die Bereitschaft zum Aufstand sowie zum Anschluss an Jihadisten nehme zu. Niger ist ohnehin Schauplatz wachsenden jihadistischen Terrors wie auch gesteigerter westlicher „Anti-Terror“-Operationen: Während Berlin und die EU vor allem eine neue Eingreiftruppe der Staatengruppe „G5 Sahel“ fördern - deutsche Soldaten dürfen dabei auch im Niger eingesetzt werden -, haben die Vereinigten Staaten ihre Präsenz in dem Land ausgebaut. Die US-Streitkräfte errichten zur Zeit eine Drohnenbasis in Agadez, die neue Spannungen auslöst.
      Das Ende der Reisefreiheit

      Niger ist für Menschen, die sich aus den Staaten Afrikas südlich der Sahara auf den Weg zum Mittelmeer und weiter nach Europa machen, stets das wohl wichtigste Transitland gewesen. Nach dem Zerfall Libyens im Anschluss an den Krieg des Westens zum Sturz von Muammar al Gaddafi hatten zeitweise drei Viertel aller Flüchtlinge, die von Libyens Küste mit Ziel Italien in See stachen, zuvor das Land durchquert. Als kaum zu vermeidendes Nadelöhr zwischen den dichter besiedelten Gebieten Nigers und der Wüste fungiert die 120.000-Einwohner-Stadt Agadez, von deren Familien bis 2015 rund die Hälfte ihr Einkommen aus der traditionell legalen Migration zog: Niger gehört dem westafrikanischen Staatenbund ECOWAS an, in dem volle Reisefreiheit gilt. Im Jahr 2015 ist die Reisefreiheit in Niger allerdings durch ein Gesetz eingeschränkt worden, das, wie der Innenminister des Landes bestätigt, nachdrücklich von der EU gefordert worden war.[1] Mit seinem Inkrafttreten ist das Migrationsgeschäft in Agadez illegalisiert worden; das hatte zur Folge, dass zahlreiche Einwohner der Stadt ihren Erwerb verloren. Die EU hat zwar Hilfe zugesagt, doch ihre Maßnahmen sind allenfalls ein Tropfen auf den heißen Stein: Von den 7.000 Menschen, die offiziell ihre Arbeit in der nun verbotenen Transitreisebranche aufgaben, hat Brüssel mit einem großspurig aufgelegten, acht Millionen Euro umfassenden Programm weniger als 400 in Lohn und Brot gebracht.
      Ohne Lebensgrundlage

      Entsprechend hat sich die Stimmung in Agadez in den vergangenen zwei Jahren systematisch verschlechtert, heißt es in einem aktuellen Bericht über die derzeitige Lage in der Stadt, den das Nachrichtenportal IRIN Ende Juni publiziert hat.[2] Rangiert Niger auf dem Human Development Index der Vereinten Nationen ohnehin auf Platz 187 von 188, so haben die Verdienstmöglichkeiten in Agadez mit dem Ende des legalen Reisegeschäfts nicht nur stark abgenommen; selbst wer mit Hilfe der EU einen neuen Job gefunden hat, verdient meist erheblich weniger als zuvor. Zwar werden weiterhin Flüchtlinge durch die Wüste in Richtung Norden transportiert - jetzt eben illegal -, doch wachsen die Spannungen, und sie drohen bei jeder neuen EU-Maßnahme zur Abriegelung der nigrisch-libyschen Grenze weiter zu steigen. Das Verbot des Migrationsgeschäfts werde auf lange Sicht „die Leute in die Rebellion treiben“, warnt gegenüber IRIN ein Bewohner von Agadez stellvertretend für eine wachsende Zahl weiterer Bürger der Stadt. Als Reiseunternehmer für Flüchtlinge haben vor allem Tuareg gearbeitet, die bereits von 1990 bis 1995, dann erneut im Jahr 2007 einen bewaffneten Aufstand gegen die Regierung in Niamey unternommen hatten. Hinzu kommt laut einem örtlichen Würdenträger, dass die Umtriebe von Jihadisten im Sahel zunehmend als Widerstand begriffen und für jüngere, in wachsendem Maße aufstandsbereite Bewohner der Region Agadez immer häufiger zum Vorbild würden.
      Anti-Terror-Krieg im Sahel

      Jihadisten haben ihre Aktivitäten in Niger in den vergangenen Jahren bereits intensiviert, nicht nur im Südosten des Landes an der Grenze zu Nigeria, wo die nigrischen Streitkräfte im Krieg gegen Boko Haram stehen, sondern inzwischen auch an der Grenze zu Mali, von wo der dort seit 2012 schwelende Krieg immer mehr übergreift. Internationale Medien berichteten erstmals in größerem Umfang darüber, als am 4. Oktober 2017 eine US-Einheit, darunter Angehörige der Spezialtruppe Green Berets, nahe der nigrischen Ortschaft Tongo Tongo unweit der Grenze zu Mali in einen Hinterhalt gerieten und vier von ihnen von Jihadisten, die dem IS-Anführer Abu Bakr al Baghdadi die Treue geschworen hatten, getötet wurden.[3] In der Tat hat die Beobachtung, dass Jihadisten in Niger neuen Zulauf erhalten, die Vereinigten Staaten veranlasst, 800 Militärs in dem Land zu stationieren, die offiziell nigrische Soldaten trainieren, mutmaßlich aber auch Kommandoaktionen durchführen. Darüber hinaus beteiligt sich Niger auf Druck der EU an der Eingreiftruppe der „G5 Sahel“ [4], die im gesamten Sahel - auch in Niger - am Krieg gegen Jihadisten teilnimmt und auf lange Sicht nach Möglichkeit die französischen Kampftruppen der Opération Barkhane ersetzen soll. Um die „G5 Sahel“-Eingreiftruppe jederzeit und überall unterstützen zu können, hat der Bundestag im Frühjahr das Mandat für die deutschen Soldaten, die in die UN-Truppe MINUSMA entsandt werden, auf alle Sahelstaaten ausgedehnt - darunter auch Niger. Deutsche Soldaten sind darüber hinaus bereits am Flughafen der Hauptstadt Niamey stationiert. Der sogenannte Anti-Terror-Krieg des Westens, der in anderen Ländern wegen seiner Brutalität den Jihadisten oft mehr Kämpfer zugeführt als genommen hat, weitet sich zunehmend auf nigrisches Territorium aus.
      Zunehmend gewaltbereit

      Zusätzliche Folgen haben könnte dabei die Tatsache, dass die Vereinigten Staaten gegenwärtig für den Anti-Terror-Krieg eine 110 Millionen US-Dollar teure Drohnenbasis errichten - am Flughafen Agadez. Niger scheint sich damit dauerhaft zum zweitwichtigsten afrikanischen Standort von US-Truppen nach Djibouti mit seinem strategisch bedeutenden Hafen zu entwickeln. Washington errichtet die Drohnenbasis, obwohl eine vorab durchgeführte Umfrage des U.S. Africa Command und des State Department ergeben hat, dass die Bevölkerung die US-Militäraktivitäten im Land zunehmend kritisch sieht und eine starke Minderheit Gewalt gegen Personen oder Organisationen aus Europa und Nordamerika für legitim hält.[5] Mittlerweile dürfen sich, wie berichtet wird, US-Botschaftsangehörige außerhalb der Hauptstadt Niamey nur noch in Konvois in Begleitung von nigrischem Sicherheitspersonal bewegen. Die Drohnenbasis, die ohne die von der nigrischen Verfassung vorgesehene Zustimmung des Parlaments errichtet wird und daher mutmaßlich illegal ist, droht den Unmut noch weiter zu verschärfen. Beobachter halten es für nicht unwahrscheinlich, dass sie Angriffe auf sich zieht - und damit Niger noch weiter destabilisiert.[6]
      Flüchtlingslager

      Hinzu kommt, dass die EU Niger in zunehmendem Maß als Plattform nutzt, um Flüchtlinge, die in libyschen Lagern interniert waren, unterzubringen, bevor sie entweder in die EU geflogen oder in ihre Herkunftsländer abgeschoben werden. Allein von Ende November bis Mitte Mai sind 1.152 Flüchtlinge aus Libyen nach Niger gebracht worden; dazu wurden 17 „Transitzentren“ in Niamey, sechs in Agadez eingerichtet. Niger gilt inzwischen außerdem als möglicher Standort für die EU-"Ausschiffungsplattformen" [7] - Lager, in die Flüchtlinge verlegt werden sollen, die auf dem Mittelmeer beim Versuch, nach Europa zu reisen, aufgegriffen wurden. Damit erhielte Niger einen weiteren potenziellen Destabilisierungsfaktor - im Auftrag und unter dem Druck der EU. Ob und, wenn ja, wie das Land die durch all dies drohenden Erschütterungen überstehen wird, das ist völlig ungewiss.

      [1], [2] Eric Reidy: Destination Europe: Frustration. irinnews.org 28.06.2018.

      [3] Eric Schmitt: 3 Special Forces Troops Killed and 2 Are Wounded in an Ambush in Niger. nytimes.com 04.10.2017.[4] S. dazu Die Militarisierung des Sahel (IV).

      [5] Nick Turse: U.S. Military Surveys Found Local Distrust in Niger. Then the Air Force Built a $100 Million Drone Base. theintercept.com 03.07.2018.

      [6] Joe Penney: A Massive U.S. Drone Base Could Destabilize Niger - And May Even Be Illegal Under its Constitution. theintercept.com 18.02.2018.

      [7] S. dazu Libysche Lager.

      https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7673

      –-> Commentaire reçu via la mailing-list Migreurop :

      La politique d’externalisation de l’UE crée de nouvelles tensions au Niger et risque de déclencher une rebellion dans le nord du pays. Plusieurs rapports de la région confirment que le fait que Bruxelle ait rendu illégal la migration traditionnelle et de fait détruit l’économie qui tournait autour, particulièrement dans la ville d’Agadez, porte d’entrée du Sahara nigérien, a privé de revenus des dizaines de milliers de personnes. Les programmes de développement annoncés par l’UE n’ont pu aider qu’une infime partie de ceux qui ont été affectés par la mesure. Les observateurs locaux constatent que une augmentation des volontés à se rebeller et/ou à rejoindre les djihadistes. Le Niger est déja la scène d’attaques terroristes djihadistes ainsi que d’opérations occidentales « anti-terreur » : alors que Berlin et l’UE soutiennent une intervention des forces du G5 Sahel - les soldats allemands pourraient être déployés au Niger - les Etats Unis ont étendu leur présence sur le territoire. Les forces US sont en train de construire une base de #drones à Agadez, ce qui a déclenché de nouvelles tensions.

      #déstabilisation

    • Libya: EU’s patchwork policy has failed to protect the human rights of refugees and migrants

      A year after the emergence of shocking footage of migrants apparently being sold as merchandise in Libya prompted frantic deliberations over the EU’s migration policy, a series of quick fixes and promises has not improved the situation for refugees and migrants, Amnesty International said today. In fact, conditions for refugees and migrants have largely deteriorated over the past year and armed clashes in Tripoli that took place between August and September this year have only exacerbated the situation further.

      https://www.amnesty.org/en/documents/mde19/9391/2018/en
      #droits_humains

      Pour télécharger le rapport:
      https://www.amnesty.org/download/Documents/MDE1993912018ENGLISH.pdf

    • New #LNCG Training module in Croatia

      A new training module in favour of Libyan Coastguard and Navy started in Split (Croatia) on November the 12.
      Last Monday, November the 12th, a new training module managed by operation Sophia and focused on “Ship’s Divers Basic Course” was launched in the Croatian Navy Training Centre in Split (Croatia).

      The trainees had been selected by the competent Libyan authorities and underwent a thorough vetting process carried out in different phases by EUNAVFOR Med, security agencies of EU Member States participating in the Operation and international organizations.

      After the accurate vetting process, including all the necessary medical checks for this specific activity, 5 Libyan military personnel were admitted to start the course.

      The course, hosted by the Croatian Navy, will last 5 weeks, and it will provide knowledge and training in diving procedures, specifically related techniques and lessons focused on Human Rights, Basic First Aid and Gender Policy.

      The end of the course is scheduled for the 14 of December 2018.

      Additionally, with the positive conclusion of this course, the threshold of more than 300 Libyan Coastguard and Navy personnel trained by #EUNAVFOR_Med will be reached.

      EUNAVFOR MED Operation Sophia continues at sea its operation focused on disrupting the business model of migrant smugglers and human traffickers, contributing to EU efforts for the return of stability and security in Libya and the training and capacity building of the Libyan Navy and Coastguard.


      https://www.operationsophia.eu/new-lncg-training-module-in-croatia

    • EU Council adopts decision expanding EUBAM Libya’s mandate to include actively supporting Libyan authorities in disrupting networks involved in smuggling migrants, human trafficking and terrorism

      The Council adopted a decision mandating the #EU_integrated_border_management_assistance_mission in Libya (#EUBAM_Libya) to actively support the Libyan authorities in contributing to efforts to disrupt organised criminal networks involved in smuggling migrants, human trafficking and terrorism. The mission was previously mandated to plan for a future EU civilian mission while engaging with the Libyan authorities.

      The mission’s revised mandate will run until 30 June 2020. The Council also allocated a budget of € 61.6 million for the period from 1 January 2019 to 30 June 2020.

      In order to achieve its objectives EUBAM Libya provides capacity-building in the areas of border management, law enforcement and criminal justice. The mission advises the Libyan authorities on the development of a national integrated border management strategy and supports capacity building, strategic planning and coordination among relevant Libyan authorities. The mission will also manage as well as coordinate projects related to its mandate.

      EUBAM Libya responds to a request by the Libyan authorities and is part of the EU’s comprehensive approach to support the transition to a democratic, stable and prosperous Libya. The civilian mission co-operates closely with, and contributes to, the efforts of the United Nations Support Mission in Libya.

      The mission’s headquarters are located in Tripoli and the Head of Mission is Vincenzo Tagliaferri (from Italy). EUBAM Libya.

      https://migrantsatsea.org/2018/12/18/eu-council-adopts-decision-expanding-eubam-libyas-mandate-to-include-

      EUBAM Libya :
      Mission de l’UE d’assistance aux frontières (EUBAM) en Libye


      https://eeas.europa.eu/csdp-missions-operations/eubam-libya_fr

    • Comment l’UE a fermé la route migratoire entre la Libye et l’Italie

      Les Européens coopèrent avec un Etat failli, malgré les mises en garde sur le sort des migrants dans le pays

      L’une des principales voies d’entrée en Europe s’est tarie. Un peu plus de 1 100 personnes migrantes sont arrivées en Italie et à Malte par la mer Méditerranée sur les cinq premiers mois de l’année. Un chiffre en fort recul, comparé aux 650 000 migrants qui ont emprunté cette voie maritime ces cinq dernières années. Le résultat, notamment, d’une coopération intense entre l’Union européenne, ses Etats membres et la Libye.

      En 2014, alors que le pays est plongé dans une guerre civile depuis la chute du régime de Kadhafi, plus de 140 000 migrants quittent ses côtes en direction de l’Italie, contre quelque 42 000 l’année précédente pour toute la rive sud de la Méditerranée centrale. Cette dernière devient, deux ans plus tard, la principale porte d’entrée sur le continent européen.

      Inquiète de cette recrudescence, l’Italie relance en mars 2016 ses relations bilatérales avec la Libye – interrompues depuis la chute de Kadhafi –, à peine le fragile gouvernement d’union nationale (GNA) de Faïez Sarraj installé à Tripoli sous l’égide de l’ONU. Emboîtant le pas à Rome, l’UE modifie le mandat de son opération militaire « Sophia ». Jusque-là cantonnée à la lutte contre le trafic de migrants en Méditerranée, celle-ci doit désormais accompagner le rétablissement et la montée en puissance des gardes-côtes libyens.

      Dans cette optique, dès juillet 2016, l’UE mandate les gardes-côtes italiens pour « assumer une responsabilité de premier plan » dans le projet de mise en place d’un centre de coordination de sauvetage maritime (MRCC) à Tripoli et d’une zone de sauvetage à responsabilité libyenne dans les eaux internationales. C’est une étape majeure dans le changement du paysage en Méditerranée centrale. Jusque-là, compte tenu de la défaillance de Tripoli, la coordination des sauvetages au large de la Libye était assumée par le MRCC de Rome. Les migrants secourus étaient donc ramenés sur la rive européenne de la Méditerranée. Si Tripoli prend la main sur ces opérations, alors ses gardes-côtes ramèneront les migrants en Libye, même ceux interceptés dans les eaux internationales. Une manière de « contourner l’interdiction en droit international de refouler un réfugié vers un pays où sa vie ou sa liberté sont menacées », résume Hassiba Hadj-Sahraoui, conseillère aux affaires humanitaires de Médecins sans frontières (MSF).

      Les premières formations de gardes-côtes débutent en octobre 2016, et les agences de l’ONU sont mises à contribution pour sensibiliser les personnels au respect des droits de l’homme. « C’est difficile d’en mesurer l’impact, mais nous pensons que notre présence limite les risques pour les réfugiés », estime Roberto Mignone, l’ancien représentant du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés en Libye.

      Au sein de l’UE, tous les outils sont mobilisés. Même les équipes du Bureau européen d’appui à l’asile sont sollicitées. Un fonctionnaire européen se souvient du malaise en interne. « Le Conseil a fait pression pour nous faire participer, rapporte-t-il. On n’était clairement pas emballés. C’était nous compromettre un peu aussi dans ce qui ressemble à une relation de sous-traitance et à un blanc-seing donné à des pratiques problématiques. »
      Le travail des ONG entravé

      Le pays est alors dans une situation chaotique, et les migrants en particulier y encourent de graves violences telles que le travail forcé, l’exploitation sexuelle, le racket et la torture.

      Mais l’Europe poursuit son plan et continue de s’appuyer sur l’Italie. Le 2 février 2017, le gouvernement de gauche de Paolo Gentiloni (Parti démocrate) réactive un traité d’amitié de 2008 entre Rome et Tripoli, avec l’approbation du Conseil européen dès le lendemain. Des moyens du Fonds fiduciaire de l’UE pour l’Afrique sont fléchés vers les enjeux migratoires en Libye – 338 millions d’euros jusqu’à aujourd’hui –, bien que l’Union fasse état de « préoccupations sur une collusion possible entre les bénéficiaires de l’action et les activités de contrebande et de traite ».

      A cette époque, les Nations unies dénoncent l’implication des gardes-côtes de Zaouïa (à 50 km à l’ouest de Tripoli) dans le trafic de migrants. En mai 2017, Marco Minniti, ministre italien de l’intérieur (Parti démocrate), remet quatre bateaux patrouilleurs à la Libye. Trois mois plus tard, Tripoli déclare auprès de l’Organisation maritime internationale (OMI) qu’elle devient compétente pour coordonner les sauvetages jusqu’à 94 milles nautiques au large de ses côtes.

      Le travail des ONG, lui, est de plus en plus entravé par l’Italie, qui les accuse de collaborer avec les passeurs et leur impose un « code de conduite ». S’ensuivront des saisies de bateaux, des retraits de pavillon et autres procédures judiciaires. L’immense majorité d’entre elles vont jeter l’éponge.

      Un tournant s’opère en Méditerranée centrale. Les gardes-côtes libyens deviennent à l’automne 2017 les premiers acteurs du sauvetage dans la zone. Ils ramènent cette année-là 18 900 migrants sur leur rive, presque quarante fois plus qu’en 2015.

      Leur autonomie semble pourtant toute relative. C’est Rome qui transmet à Tripoli « la majorité des appels de détresse », note un rapport de l’ONU. C’est Rome encore qui dépose en décembre 2017, auprès de l’OMI, le projet de centre libyen de coordination des sauvetages maritimes financé par la Commission européenne. Un bilan d’étape interne à l’opération « Sophia », de mars 2018, décrit d’ailleurs l’impréparation de Tripoli à assumer seule ses nouvelles responsabilités. La salle d’opération depuis laquelle les sauvetages doivent être coordonnés se trouve dans « une situation infrastructurelle critique »liée à des défauts d’électricité, de connexion Internet, de téléphones et d’ordinateurs. Les personnels ne parlent pas anglais.

      Un sauvetage, le 6 novembre 2017, illustre le dangereux imbroglio que deviennent les opérations de secours. Ce jour-là, dans les eaux internationales, à 30 milles nautiques au nord de Tripoli, au moins 20 personnes seraient mortes. Une plainte a depuis été déposée contre l’Italie devant la Cour européenne des droits de l’homme. Des rescapés accusent Rome de s’être défaussé sur les gardes-côtes libyens.« Un appel de détresse avait été envoyé à tous les bateaux par le MRCC Rome, relate Violeta Moreno-Lax, juriste qui a participé au recours. L’ONG allemande Sea-Watch est arrivée sur place quelques minutes après les gardes-côtes libyens. C’est Rome qui a demandé aux Libyens d’intervenir et à Sea-Watch de rester éloignée. »

      Les gardes-côtes présents – certains formés par l’UE – n’ont alors ni gilets ni canot de sauvetage. Sur les vidéos de l’événement, on peut voir l’embarcation des migrants se coincer sous la coque de leur patrouilleur. Des gens tombent à l’eau et se noient. On entend aussi les Libyens menacer l’équipage du Sea-Watch de représailles, puis quitter les lieux en charriant dans l’eau un migrant accroché à une échelle.

      Tout en ayant connaissance de ce drame, et bien qu’elle reconnaisse un suivi très limité du travail des gardes-côtes en mer, la force navale « Sophia » se félicite, dans son bilan d’étape de mars 2018, du « modèle opérationnel durable » qu’elle finance.

      L’année 2018 confirme le succès de cette stratégie. Les arrivées en Italie ont chuté de 80 %, ce qui n’empêche pas le ministre de l’intérieur, Matteo Salvini (extrême droite), d’annoncer à l’été la fermeture de ses ports aux navires humanitaires.
      « Esclavage » et « torture »

      L’ONU rappelle régulièrement que la Libye ne doit pas être considérée comme un « port sûr » pour débarquer les migrants interceptés en mer. Les personnes en situation irrégulière y sont systématiquement placées en détention, dans des centres sous la responsabilité du gouvernement où de nombreux abus sont documentés, tels que des « exécutions extrajudiciaires, l’esclavage, les actes de torture, les viols, le trafic d’être humains et la sous-alimentation ».

      La dangerosité des traversées, elle, a explosé : le taux de mortalité sur la route de la Méditerranée centrale est passé de 2,6 % en 2017 à 13,8 % en 2019.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2019/05/07/comment-l-ue-a-ferme-la-route-entre-la-libye-et-l-italie_5459242_3210.html

  • ATTENTION :
    Les liens sur ce fil de discussion ne sont pas tous en ordre chronologique.
    Portez donc une attention particulière au date de publication de l’article original (et non pas de quand je l’ai posté sur seenthis, car j’ai fait dernièrement des copier-coller de post sur d’autres fils de discussion) !

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    Niger : Europe’s Migration Laboratory

    “We share an interest in managing migration in the best possible way, for both Europe and Africa,” Mogherini said at the time.

    Since then, she has referred to Niger as the “model” for how other transit countries should manage migration and the best performer of the five African nations who signed up to the E.U. #Partnership_Framework_on_Migration – the plan that made development aid conditional on cooperation in migration control. Niger is “an initial success story that we now want to replicate at regional level,” she said in a recent speech.

    Angela Merkel became the first German chancellor to visit the country in October 2016. Her trip followed a wave of arrests under Law 36 in the Agadez region. Merkel promised money and “opportunities” for those who had previously made their living out of migration.

    One of the main recipients of E.U. funding is the International Organization for Migration (IOM), which now occupies most of one street in Plateau. In a little over two years the IOM headcount has gone from 22 to more than 300 staff.

    Giuseppe Loprete, the head of mission, says the crackdown in northern Niger is about more than Europe closing the door on African migrants. The new law was needed as networks connecting drug smuggling and militant groups were threatening the country, and the conditions in which migrants were forced to travel were criminal.

    “Libya is hell and people who go there healthy lose their minds,” Loprete says.

    A side effect of the crackdown has been a sharp increase in business for IOM, whose main activity is a voluntary returns program. Some 7,000 African migrants were sent home from Niger last year, up from 1,400 in 2014. More than 2,000 returns in the first three months of 2018 suggest another record year.

    The European Development Fund awarded $731 million to Niger for the period 2014–20. A subsequent review boosted this by a further $108 million. Among the experiments this money bankrolls are the connection of remote border posts – where there was previously no electricity – to the internet under the German aid corporation, GIZ; a massive expansion of judges to hear smuggling and trafficking cases; and hundreds of flatbed trucks, off-road vehicles, motorcycles and satellite phones for Nigerien security forces.

    At least three E.U. states – #France, Italy and Germany – have troops on the ground in Niger. Their roles range from military advisers to medics and trainers. French forces and drone bases are present as part of the overlapping Barkhane and G5 Sahel counterinsurgency operations which includes forces from Burkina Faso, Chad, Mali and Mauritania. The U.S., meanwhile, has both troops and drone bases for its own regional fight against Islamic militants, the latest of which is being built outside Agadez at a cost of more than $100 million.

    https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2018/05/22/niger-europes-migration-laboratory
    #Niger #asile #migrations #réfugiés #laboratoire #agadez #frontières #externalisation #externalisation_des_frontières #modèle_nigérien #cartographie #visualisation
    #OIM #IOM #retours_volontaires #renvois #expulsions #Libye #développement #aide_au_développement #externalisation #externalisation_des_contrôles_frontaliers #G5_sahel #Italie #Allemagne #IMF #FMI

    Intéressant de lire :

    ❝As one European ambassador said, “Niger is now the southern border of Europe.”
    #frontière_européenne #frontière_mobile

    Il y a quelques mois, la nouvelles frontière européenne était désignée comme étant la frontière de la #Libye, là, elle se déplace encore un peu plus au sud...
    –-> v. mon post sur seenthis :


    https://seenthis.net/messages/604039

    Voilà donc la nouvelle carte :

    • Europe Benefits by Bankrolling an Anti-Migrant Effort. Niger Pays a Price.

      Niger has been well paid for drastically reducing the number of African migrants using the country as a conduit to Europe. But the effort has hurt parts of the economy and raised security concerns.

      The heavily armed troops are positioned around oases in Niger’s vast northern desert, where temperatures routinely climb beyond 100 degrees.

      While both Al Qaeda and the Islamic State have branches operating in the area, the mission of the government forces here is not to combat jihadism.

      Instead, these Nigerien soldiers are battling human smugglers, who transport migrants across the harsh landscape, where hundreds of miles of dunes separate solitary trees.

      The migrants are hoping to reach neighboring Libya, and from there, try a treacherous, often deadly crossing of the Mediterranean to reach Europe.

      The toll of the military engagement is high. Some smugglers are armed, militants are rife and the terrain is unforgiving: Each mission, lasting two weeks, requires 50 new truck tires to replace the ones shredded in the blistering, rocky sand.

      But the operation has had an impact: Niger has drastically reduced the number of people moving north to Libya through its territory over the past two years.

      The country is being paid handsomely for its efforts, by a Europe eager to reduce the migrant flow. The European Union announced at the end of last year it would provide Niger with one billion euros, or about $1.16 billion, in development aid through 2020, with hundreds of millions of that earmarked for anti-migration projects. Germany, France and Italy also provide aid on their own.

      It is part of a much broader European Union strategy to keep migrants from its shores, including paying billions of euros to Turkey and more than $100 million to aid agencies in Sudan.

      Italy has been accused of paying off militias in Libya to keep migrants at bay. And here in Niger, some military officials angrily contend that France financed a former rebel leader who remains a threat, prioritizing its desire to stop migration over Niger’s national security interests.

      Since passing a law against human trafficking in 2015, Niger has directed its military to arrest and jail migrant smugglers, confiscate their vehicles and bring the migrants they traffic to the police or the International Organization for Migration, or I.O.M. The migrants are then given a choice whether to continue on their journey — and risk being detained again, or worse — or given a free ride back to their home country.

      The law’s effect has been significant. At the peak in 2015, there were 5,000 to 7,000 migrants a week traveling through Niger to Libya. The criminalization of smuggling has reduced those numbers to about 1,000 people a week now, according to I.O.M. figures.

      At the same time, more migrants are leaving Libya, fleeing the rampant insecurity and racist violence targeting sub-Saharan Africans there.

      As a result, the overall flow of people has now gone into a notable reverse: For the last two years, more African migrants have been leaving Libya to return to their homelands than entering the country from Niger, according to the I.O.M.

      One of Niger’s biggest bus companies, Rimbo, used to send four migrant-filled buses each day from the country’s capital in the south, Niamey, to the northern city of Agadez, a jumping off point for the trip to the Libyan border.

      Now, the company has signed a two-year contract with the I.O.M. to carry migrants the other way, so they can be repatriated.

      On a recent breezy evening in Niamey, a convoy of four Rimbo buses rolled through the dusty streets after an arduous 20-hour drive from Agadez, carrying 400 migrants. They were headed back home to countries across West Africa, including Guinea, Ivory Coast and Nigeria.

      For leaders in Europe, this change in migrant flows is welcome news, and a testament to Niger’s dedication to shared goals.

      “Niger really became one of our best allies in the region,” said Raul Mateus Paula, the bloc’s ambassador to Niger.

      But the country’s achievement has also come with considerable costs, including on those migrants still determined to make it to Libya, who take more risks than ever before. Drivers now take routes hundreds of miles away from water points and go through mined areas to avoid military patrols. When smugglers learn the military is in the area, they often abandon migrants in the desert to escape arrest.

      This has led to dozens of deaths by dehydration over the past two years, prompting Niger’s civil protection agency and the I.O.M. to launch weekly rescue patrols.

      The agency’s head, Adam Kamassi, said his team usually rescues between 20 to 50 people every time it goes out. On those trips, it nearly always finds three or four bodies.

      The crackdown on human smuggling has also been accompanied by economic decline and security concerns for Niger.

      The government’s closure of migrant routes has caused an increase in unemployment and an uptick in other criminal activity like drug smuggling and robbery, according to a Niger military intelligence document.

      “I know of about 20 people who have become bandits for lack of work,” said Mahamadou Issouf, who has been driving migrants from Agadez to southern Libya since 2005, but who no longer has work.

      Earlier this year, the army caught him driving 31 migrants near a spot in the desert called the Puit d’Espoir, or Well of Hope. While the army released him in this case, drivers who worked for him have been imprisoned and two of his trucks impounded.

      The military intelligence document also noted that since the crackdown, towns along the migrant route are having a hard time paying for essential services like schools and health clinics, which had relied on money from migration and the industries feeding it.

      For example, the health clinic in Dirkou, once a major migrant way station in northern Niger, now has fewer paying clients because the number of migrants seeking has dwindled. Store owners who relied on the steady flow of people traveling through have gone bankrupt.

      Hassan Mohammed is another former migrant smuggler who lost his livelihood in the crackdown.

      A native of Dirkou, Mr. Mohammed, 31, began driving migrants across the desert in 2002, earning enough in the process to buy two Toyota pickup trucks. The smuggling operation grew enough that he began employing his younger brothers to drive.

      Today, Mr. Mohammed’s brothers are in prison, serving the six-month sentences convicted smuggler drivers face. His two pickup trucks are gathering dust, along with a few dozen other confiscated vehicles, on a Niger army base. With no income, Mr. Mohammed now relies on the generosity of friends to survive.

      With Europe as a primary beneficiary of the smuggling crackdown, the European Union is eager to keep the effort in place, and some of the bloc’s aid finances a project to convert former smugglers into entrepreneurs. But the project is still in its pilot stage more than two years after the migrant crackdown began.

      Ibrahim Yacouba, the former foreign minister of Niger, who resigned earlier this year, said, “There are lots of announcements of millions of euros in funding, but in the lived reality of those who are in the industry, there has been no change.”

      The crackdown has also raised security concerns, as France has taken additional steps to stop migration along the Niger-Libya border that go beyond its asylum-processing center.

      From its military base in the northern Nigerien outpost of Madama, France funded last year an ethnic Toubou militia in southern Libya, with the goal of using the group to help stop smugglers, according to Nigerien security officials.

      This rankled the Nigerien military because the militia is headed by an ex-Nigerien rebel, Barka Sidimi, who is considered a major security risk by the country’s officials. To military leaders, this was an example of a European anti-migrant policy taking precedent over Niger’s own security.

      A French military spokesperson said, “We don’t have information about the collaboration you speak of.”

      Despite the country’s progress in reducing the flow of migrants, Nigerien officials know the problem of human smugglers using the country as a conduit is not going away.

      “The fight against clandestine migration is not winnable,’’ said Mohamed Bazoum, Niger’s interior minister.

      Even as Libya has experienced a net drop in migrants, new routes have opened up: More migrants are now entering Algeria and transiting to Morocco to attempt a Mediterranean crossing there, according to Giuseppe Loprete, who recently left his post after being the I.O.M.’s director in Niger for four years.

      But despite the drawbacks that come with it, the smuggling crackdown will continue, at least for now, according to Mr. Bazoum, the interior minister. Migrant smuggling and trafficking, he said, “creates a context of a criminal economy, and we are against all forms of economic crime to preserve the stability and security of our country.”

      For Mr. Mohammed, the former smuggler, the crackdown has left him idle and dejected, with no employment prospects.

      “There’s no project for any of us here,” he said. “There’s nothing going on. I only sleep and wake up.”


      https://www.nytimes.com/2018/08/25/world/africa/niger-migration-crisis.html#click=https://t.co/zSUbpbU3Kf

    • Le 25 Octobre 2018, le Chef de Mission de l’ OIM Niger, M. Martin Wyss, a remis à la Police Nationale-Niger ??️via son Directeur Général Adjoint, M. Oumarou Moussa, le premier prototype du poste frontière mobile, en présence du #Directeur_de_la_Surveillance_du_Territoire (#DST) des partenaires techniques et financiers.

      Ce camion aménagé avec deux bureaux et une salle d’attente, des climatiseurs et une connectivité satellitaire, est autonome en électricité grâce à des panneaux solaires amovibles et une turbine éolienne. Il aura pour fonction d’appuyer des postes de contrôle aux frontières, établir un poste frontalier temporaire ou venir en soutien de mouvements massifs de personnes à travers les frontières.

      Ce prototype unique au monde a été entièrement développé et conceptualisé par l’unité de #gestion_des_frontières de l’#OIM_Niger, pour l’adapter au mieux aux contraintes atmosphériques et topographiques du Niger.

      Il a été financé par le Canada’s International Development – Global Affairs Canada ??️

      Crédits photos : OIM Niger / Daniel Kouawo

      source : https://www.facebook.com/IBMNiger/posts/1230027903804111

      #OIM #IOM #frontière_mobile #Canada

    • Remise du système MIDAS et inauguration du parc de vaccination à Makalondi

      L’ OIM Niger a procédé à la remise du #système_MIDAS au niveau du poste de police de #Makalondi (Burkina Faso - Niger).

      MIDAS saisit automatiquement les informations biographiques et biométriques des voyageurs à partir de lecteurs de documents, d’#empreintes_digitales et de #webcams. Il est la propriété entière et souveraine du Gouvernement du Niger.

      Le sytème permet d’enregistrer pour mieux sécuriser et filtrer les individus mal intentionnés, mais aussi de mieux connaître les flux pour ensuite adapter les politiques de développement sur les axes d’échange.

      A la même occasion, le Gouverneur de Tillabéri et l’OIM ont inauguré un par de vaccination le long d’un couloir de transhumance de la CEDEAO.

      Ce projet a été réalisé grâce au don du peuple Japonais.

      https://www.facebook.com/IBMNiger/videos/483536085494618
      #surveillance #biométrie #MIDAS

    • Le mardi 28 aout 2018, s’est tenu la cérémonie de remise du système MIDAS au poste de police frontalier de Makalondi (frontière Burkina faso). Cette cérémonie organisée par l’OIM Niger dans le cadre du projet « #NICOLE – Renforcement de la coopération interservices pour la sécurité des frontières au Niger » sous financement du Ministry of Foreign Affairs of Japan a enregistré la remarquable participation du gouverneur de la région de Tillabéri, le directeur de la surveillance du Territoire (DST), les responsables régionaux, départementaux et communaux de la police Nationale et de l’élevage, les autorités locales et coutumières du département de #Torodi et de la commune rurale de #Makalondi ainsi que de l’#Eucap_Sahel_Niger. MIDAS (#Migration_Information_and_Data_Analysis_System) qui est un système d’information et de gestion des données migratoires développé par l’OIM en 2009 et opérationnel dans 19 pays est aujourd’hui également opérationnel au niveau du poste frontière de Makalondi. Cette cérémonie était aussi l’occasion d’inaugurer le parc de vaccination pour bétail réalisé dans le cadre du même projet par l’OIM afin de soutenir les capacités de résilience des communautés frontalières de la localité.
      toutes les autorités présentes à la cérémonie ont tenues à exprimer leur immense gratitute envers l’OIM pour son appui au gouvernement du Niger dans son combat pour la sécurisation des frontières.


      https://www.facebook.com/IBMNiger/posts/1197797207027181

    • Niger grapples with migration and its porous borders

      Europe has been grappling with the migration problem on its side of the Mediterranean for several years now with little sign of bringing the situation under control, but there is also an African frontline, on the edges of the Sahara, and the improverished nation of Niger is one of the hotspots. The situation here is similarly out of control, and EU funds have been made available to try and persude people smugglers to give up their business. However, much of the money has gone to waste, and the situation has in some ways evolved into something worse. Euronews’ Valerie Gauriat has just returned from Niger. This is her report.

      Scores of four-wheel drives have just arrived from Libya, at the checkpoint of the city of Agadez, in central Niger, Western Africa’s gateway to the Sahara.

      Every week, convoys like these travel both ways, crossing the thousand kilometers of desert that separate the two countries.

      Travelers are exhausted after a 5-day journey.

      Many are Nigerian workers, fleeing renewed violence in Libya, but many others are migrants from other western African countries.

      “When we get to Libya, they lock us up. And when we work we don’t get paid,” said one Senegalese man.

      “What happened, we can’t describe it. We can’t talk about everything that goes on, because it’s bad, it’s so bad !” said another, from Burkina Fasso.

      Many have already tried to cross the Mediterranean to reach Europe.

      “We paid for it, but we never went. They caught us and locked us up. I want to go home to Senegal now, that’s my hope,” said another man.

      Mohamed Tchiba organised this convoy. This former Touareg rebel is a well-known figure in Agadez’s migration business, which is a long-standing, flourishing activity despite a law against irregular migration which made it illegal two years ago.

      EU-funded reconversion projects were launched to offset the losses, but Mohamed refuses to give up his livelihood.

      “I’m a smuggler, even now I’m a smuggler! Because I’ve heard that in town they are giving us something to give up this job. But they did not give me anything. And I do not know any other work than this one,” he told us.

      We head to Agadez, where we find dozens of vehicles in a car park. They were confiscated from the smugglers who were arrested by the police, and are a slowly-rusting symbol of the fight against irregular immigration.

      But that didn’t go down well with the local population. The law hit the local economy hard

      Travelers departing for Libya were once Ibrahim’s main source of revenue, but now customers for his water cans are scarce. The layoffs of workers after the closure of gold mines in the area did not help.

      “Before, we sold 400 to 500 water cans every week to migrants, and cans were also sent to the mine. But they closed the road to Libya, they closed the mines, everything is closed. And these young people stay here without working or doing anything, without food. If they get up in the morning, and they go to bed at night, without eating anything, what will prevent them one day from going to steal something?” wonders trader Oumarou Chehou.

      Friday prayers are one of the few occasions when the city comes to life.

      We go to meet with the President of the so-called Association for former migration workers.

      He takes us to meet one of the former smugglers. After stopping their activity they have benefited from an EU-funded reconversion programme.

      Abdouramane Ghali received a stock of chairs, pots, and loudspeakers, which he rents out for celebrations. We ask him how business is going.

      "It depends on God ... I used to make much more money before; I could get up to 800 euros a week; now it’s barely 30 euros a week,” he says.

      Abdouramane is still among the luckiest. Out of 7000 people involved in the migration business, less than 400 have so far benefited from the reconversion package: about 2000 euros per project. That’s not enough to get by, says the president of the Former Smugglers’ Association, Bachir Amma.

      “We respected the law, we are no longer working, we stopped, and now it’s the State of Niger and the European Union which abandoned us. People are here, they have families, they have children, and they have nothing. We eat with our savings. The money we made before, that’s what feeds us now, you see. It’s really difficult, it’s very hard for us,” he says.

      We catch up with Abdouramane the next morning. He has just delivered his equipment to one of his customers, Abba Seidou, also a former smuggler, who is now a taxi driver. Abba is celebrating the birth of his first child, a rare opportunity to forget his worries.

      “Since it’s a very wonderful day, it strengthened my heart, to go and get chairs, so that people, even if there is nothing, they can sit down if they come to your house. The times are hard for immigration, now; but with the small funds we get, people can get by. It’s going to be okay,” the proud father says. Lots of other children gather round.

      “These kids are called the” talibe “, or street kids,” reports euronews’ Valerie Gauriat. "And the celebration is a chance for them to get some food. Since the anti-smuggling law was implemented, there are more and more of them in the streets of Agadez.”

      The European Union has committed to spending more than one billion euros on development aid in a country classified as one of the poorest in the world. Niger is also one of the main beneficiaries of the European emergency fund created in 2015 to address migration issues in Africa. But for the vice-president of the region of Agadez, these funds were only a bargaining chip for the law against irregular immigration, which in his eyes, only serves the interests of Europe.

      Valerie Gauriat:

      “Niger has received significant funding from the European Union. Do you believe these funds are not used properly?”

      Vice-President of the Agadez Regional Council, Aklou Sidi Sidi:

      “First of all the funding is insufficient. When we look at it, Turkey has received huge amounts of money, a lot more than Niger. And even armed groups in Libya received much more money than Niger. Today, we are sitting here, we are the abyss of asylum seekers, refugees, migrants, displaced people. Agadez is an abyss,” he sighs.

      In the heart of the Sahel region, Niger is home to some 300,000 displaced people and refugees. They are a less and less transitory presence, which weighs on the region of Agadez. One center managed by the International Office for Migration hosts migrants who have agreed to return to their countries of origin. But the procedures sometimes take months, and the center is saturated.

      “80 percent of the migrants do not have any identification, they do not have any documents. That means that after registration we have to go through the procedure of the travel authorisation, and we have to coordinate this with the embassies and consulates of each country. That is the main issue and the challenge that we are facing every day. We have around 1000 people in this area, an area that’s supposed to receive 400 or 500 people. We have mattresses piled up because people sleep outside here because we’re over our capacity. Many people are waiting on the other side. So we need to move these people as quickly as possible so we can let others come,” says the IOM’s transit centre manager, Lincoln Gaingar.

      Returning to their country is not an option for many who transit through Niger. Among them are several hundred Sudanese, supervised by the UNHCR. Many fled the Darfur conflict, and endured hell in Libyan detention centres. Some have been waiting for months for an answer to their asylum request.

      Badererdeen Abdul Kareem dreams of completing his veterinary studies in the West.

      “Since I finished my university life I lost almost half of my life because of the wars, traveling from Sudan to Libya. I don’t want to lose my life again. So it’s time to start my life, it’s time to work, it’s time to educate. Staying in Niger for nothing or staying in Niger for a long time, for me it’s not good.”

      But the only short-term perspective for these men is to escape the promiscuity of the reception center. Faced with the influx of asylum seekers, the UNHCR has opened another site outside the city.

      We meet Ibrahim Abulaye, also Sudanese, who spent years in refugee camps in Chad, and then Libya. He is 20 years old.

      “It was really very difficult, but thank God I’m alive. What I can really say is that since we cannot go back home, we are looking for a place that is more favourable to us, where we can be safe, and have a better chance in life.”

      Hope for a better life is closer for those who have been evacuated from Libyan prisons as part of an emergency rescue plan launched last year by the UNHCR. Welcomed in Niamey, the capital of Niger, they must be resettled in third countries.

      After fleeing their country, Somalia, these women were tortured in Libyan detention centers. They are waiting for resettlement in France.

      “There are many problems in my country, and I had my own. I have severe stomach injuries. The only reason I left my country was to escape from these problems, and find a safe place where I could find hope. People like me need hope,” said one of them.

      A dozen countries, most of them European, have pledged to welcome some 2,600 refugees evacuated from Libya to Niger. But less than 400 have so far been resettled.

      “The solidarity is there. There has to be a sense of urgency also to reinstall them, to welcome them in the countries that have been offering these places. It is important to avoid a long stay in Niger, and that they continue their journey onwards,” says the UNHCR’s Alessandra Morelli in Niamey.

      The slowness of the countries offering asylum to respect their commitments has disappointed the Niger government. But what Niger’s Interior minister Mohamed Bazoum most regrets is a lack of foresight in Europe, when it comes to stemming irregular immigration.

      “I am rather in favor of more control, but I am especially in favor of seeing European countries working together to promote another relationship with African countries. A relationship based on issuing visas on the basis of the needs that can be expressed by companies. It is because this work is not done properly, that we have finally accepted that the only possible migration is illegal migration,” he complains.

      Estimated from 5 to 7,000 per week in 2015, the number of migrants leaving for Libya has fallen tenfold, according to the Niger authorities. But the traficking continues, on increasingly dangerous routes.

      The desert, it is said in Agadez, has become more deadly than the Mediterranean.

      We meet another one of the smugglers who for lack of alternatives says he has resumed his activities, even if he faces years in prison.

      “This law is as if we had been gathered together and had knives put under our throats, to slit our throats. Some of us were locked up, others fled the country, others lost everything,” he says.

      He takes us to one of the former transit areas where migrants were gathered before leaving for Libya, when it was allowed. The building has since been destroyed. Customers are rarer, and the price of crossings has tripled. In addition to the risk of being stopped by the police and army patrols, travelers have to dodge attacks by arms and drug traffickers who roam the desert.

      “Often the military are on a mission, they don’t want to waste time, so sometimes they will tell you,’we can find an arrangement, what do you offer?’ We give them money to leave. We must also avoid bandits. There are armed people everywhere in the bush. We have to take byways to get around them. We know that it’s dangerous. But for us, the most dangerous thing is not to be able to feed your family! That’s the biggest danger!”

      We entered one of the so-called ghettos outside Agadez, where candidates for the trip to Europe through Libya hide out, until smugglers pick them up. We are led to a house where a group of young people are waiting for their trip to be organized by their smuggler.

      They have all have already tried to cross the desert, but were abandoned by their drivers, fleeing army patrols, and were saved in the nick of time. Several of their fellow travelers died of thirst and exhaustion.

      Mohamed Balde is an asylum seeker from Guinea.

      “The desert is a huge risk. There are many who have died, but people are not discouraged. Why are they coming? One should just ask the question!” he says. “All the time, there are meetings between West African leaders and the leaders of the European Union, to give out money, so that the migrants don’t get through. We say that’s a crime. It is their interests that they serve, not the interests of our continent. To stop immigration, they should invest in Africa, in companies, so that young people can work.”

      Drogba Sumaru is an asylum seeker from the Ivory Coast.

      “It’s no use giving money to people, or putting soldiers in the desert, or removing all the boats on the Mediterranean, to stop immigration! It won’t help, I will keep going on. There are thousands of young people in Africa, ready to go, always. Because there is nothing. There is nothing to keep them in their countries. When they think of the suffering of their families, when they think that they have no future. They will always be ready, ready for anything. They will always be ready to risk their lives,” he concludes.

      https://www.euronews.com/2018/10/26/niger-grapples-with-migration-and-its-porous-borders

    • Europe’s « Migrant Hunters »

      The checkpoint on the way out of the Saharan town of Agadez in Niger is nothing more than a long metal chain that stretches across the road. On a Monday afternoon in March, a handful of pickup trucks and lorries loaded with migrants mostly from southern Niger waited quietly at the barrier to embark on the long journey up through the Ténéré desert. An overweight officer inspected the vehicles and then invited the drivers to show him their paperwork inside a somber-looking shack on the side of the road, where money most likely changed hands.

      Every Monday afternoon a convoy, protected by an escort of three military pickups, two mounted with machine guns, begins its arduous journey toward Dirkou, 435 miles away, on the road to the Libyan border. Protection has long been needed against highwaymen—or, as they’re called locally, coupeurs de route. These disgruntled Tuareg youths and former rebels roam the foothills of the Aïr Mountains just beyond Agadez. If a vehicle slips out of view of the escort for even a moment, the coupeurs seize the opportunity, chasing and shooting at the overloaded vehicles to relieve the passengers of their money and phones—or sometimes even to take the cars. A cautious driver sticks close behind the soldiers, even if they are pitifully slow, stopping frequently to sleep, eat, drink tea, or extract bribes from drivers trying to avoid the checkpoints.

      The first 60 miles out of Agadez—a journey of about two hours through the mountains—were the most hazardous. But then we reached the dusty Ténéré plain. As darkness fell, lighter vehicles picked up speed, making good headway during the night as the cold hardened the sand. Sleepy migrants, legs dangling over the side of the tailboard, held on to branches attached to the frame of the vehicle to keep from falling off.

      The following day, there was a stop at Puits Espoir (“Hope’s Well”), midway between Agadez and Dirkou. It was dug 15 years ago to keep those whose transport had broken down in the desert from dying of thirst. But the well’s Arabic name, Bir Tawil, which means “the Deep Well,” is perhaps more apt. The well drops nearly 200 feet, and without a long enough rope to reach the water below, migrants and drivers can perish at its edge. The escort soldiers told me that the bodies of 11 who died in this way are buried in the sand inside a nearby enclosure built from car scraps. Travelers took a nap under its shade or beside the walls around the well, which were graffitied by those who had passed through. There was “Dec 2016 from Tanzania to Libya” or “Flavio—Solo from Guinea.” After Espoir, most vehicles abandon the slow convoy and go off on their own, risking attacks by coupeurs for a quicker journey toward Libya.

      PROXY BORDER GUARDS

      Before mid-2016, there were between 100 and 200 vehicles, mostly pickups, each filled with around 30 migrants heading for Libya, that were making such a journey every week. Since mid-2016, however, under pressure from the European Union, and with promises of financial support, the Niger government began cracking down on the northward flow of sub-Saharans, arresting drivers and confiscating cars, sometimes at the Agadez checkpoint itself. Now there are only a few cars transporting passengers, most of them Nigeriens who have managed to convince soldiers at the checkpoint—often with the help of a bribe—that they do not intend to go all the way to Europe but will end their journey in Libya.

      “To close Libya’s southern border is to close Europe’s southern border,” Marco Minniti, Italy’s interior minister, said in April at a meeting in Rome with representatives of three cross-border Saharan tribes, the Tubu, Awlad Suleiman Arabs, and Tuareg. The leaders agreed to form a border force to stop migrants entering Libya from traveling to Europe, reportedly at the demand of, and under the prospect of money from, the Italian government. All three communities are interested in resolving the deadly conflicts that have beset the country since the fall of Colonel Muammar al-Qaddafi in 2011 and hope Italy will compensate them monetarily for their casualties (in tribal conflicts, a payment is needed to end a fight) as well as fund reconstruction and development of neglected southern Libya. Italy, of course, is keen on halting the flow of migrants reaching its shores and sees these Saharan groups, which have the potential to intervene before migrants even get to Libya, as plausible proxies.

      Some tribal leaders in southern Libya—mostly Tubu and Tuareg—look favorably on Italy’s and Europe’s overtures and suggested that the EU should cooperate directly with local militias to secure the border. But their tribes largely benefit from smuggling migrants, and they also made clear this business will not stop unless development aid and compensation for the smugglers is provided. “The EU wants to use us against migrants and terrorism,” a Tubu militia leader told me, off-the-record, on the side of a meeting in the European Parliament last year. “But we have our own problems. What alternative can we propose to our youth, who live off trafficking?”

      With or without the EU, some of the newly armed groups in Libya are selling themselves as migrant hunters. “We arrested more than 18,000 migrants,” a militia chief told me, with a hauteur that reminded me of the anti-immigrant sentiment spreading across Europe. “We don’t want just to please the EU, we protect our youths and our territory!”

      It seems rather reckless, however, in a largely stateless stretch of the Sahara, for Europe to empower militias as proxy border guards, some of whom are the very smugglers whose operations the EU is trying to thwart. The precedent in Sudan is not encouraging. Last year, Khartoum received funding from the EU that was intended to help it restrict outward migration. The best the government could do was redeploy at the Sudanese-Libyan border the notorious Rapid Support Forces, recruited among Darfur’s Janjaweed militias, which have wreaked havoc in the province since 2003. In due course, their leader, Brigadier General Dagalo, also known as “Hemeti,” claimed to have arrested 20,000 migrants and then threatened to reopen the border if the EU did not pay an additional sum. The EU had already given Sudan and Niger 140 million euros each in 2016. And the Libyan rival factions are catching on, understanding well that the migrant crisis gives them a chance to blackmail European leaders worried about the success of far-right anti-immigrant groups in their elections. In February, with elections looming in the Netherlands and France, the EU made a deal to keep migrants in Libya, on the model of its March 2016 agreement with Turkey, with the Tripoli-based, internationally recognized Government of National Accord, despite the fact it has little control over the country. In August, the GNA’s main rival, eastern Libya’s strongman Khalifa Haftar, claimed that blocking migrants at Libya’s southern borders would cost one billion euros a year over 20 years and asked France, his closest ally in Europe, to provide him with military equipment such as helicopters, drones, armored vehicles, and night vision goggles. Needless to say, Haftar did not get the equipment.

      THE HUB

      Dirkou became a migrant hub about 25 years ago and remains a thriving market town whose residents make a living mostly off of road transport to and from Libya. Smuggling people across Libya’s southern borders became semiofficial practice in 1992, as Qaddafi sought to circumvent the UN’s air traffic embargo. This, in turn, opened up an opportunity for ambitious facilitators who could get their hands on a vehicle, a period that came to be known locally as “the Marlboro era.” Planes and trucks, contravening the embargo, delivered cigarettes to Dirkou, where there was already an airstrip long enough for cargo planes. They then sold their contraband to Libyan smugglers, who took them north with help from Nigerien authorities.

      Smuggling was possible at the time only if the government was involved, explained Bakri, one of the drivers I met in Dirkou (and who requested his name be changed). Gradually, cigarettes were replaced by Moroccan cannabis, which was driven down from around the Algerian border through Mali and Niger. Tuareg rebels, who had been involved in sporadic insurgencies against the governments of Mali and Niger, began to attack the convoys to steal their cargoes for reselling. The traffickers eventually enlisted them to serve as their protectors, guides, or drivers.

      That process began in the 1990s and 2000s when the Niger government and Tuareg rebels held regular peace talks and struck deals that allowed former insurgents to be integrated into the Niger armed forces. Hundreds of fighters who were left to fend for themselves, however, fell back on banditry or drug trafficking, and it wasn’t long before the authorities decided that they should be encouraged to transport migrants to Libya instead. Many now own vehicles that had been captured from the army in the course of the rebellion. These were cleared through customs at half the normal fee, and the Ministry of Transport awarded a great number of them licenses. It was decided that the new fleet of migrant facilitators would take passengers at the bus station in Agadez.

      In 2011, after the NATO-backed revolution in Libya had toppled Qaddafi, newly formed Tubu militias took control of most of the country’s arms stockpiles, as well as its southern borderlands. Many young Tubu men from Libya or Niger stole or, like Bakri, who dropped out of the university to become a smuggler, bought a good pickup truck for carrying passengers. The new wave of drivers who acquired their cars during the turmoil were known in Arabic as sawag NATO, or “NATO drivers.”

      “If the number of migrants increased,” Bakri told me, “it’s mostly because NATO overthrew Qaddafi.” Qaddafi was able to regulate the flow of migrants into Europe and used it as a bargaining chip. In 2008, he signed a friendship treaty with Italy, which was then led by Silvio Berlusconi. In exchange for Libya’s help to block the migrants, “Il Cavaliere” launched the construction of a $5 billion highway in Libya. Crucially, however, Qaddafi’s regime provided paid work for hundreds of thousands of sub-Saharans, who had no need to cross the Mediterranean. Since 2011, Libya has become a much more dangerous place, especially for migrants. They are held and often tortured by smugglers on the pretext that they owe money and used for slave labor and prostitution until their families can pay off the debt.

      In May 2015, under EU pressure, Niger adopted a law that made assistance to any foreigner illegal on the grounds that it constituted migrant trafficking. Critics noted that the legislation contradicts Niger’s membership in the visa-free ECOWAS (Economic Community of West African States), from which most migrants traveling between Niger and Libya hail (they numbered 400,000 in 2016). The law was not enforced until the middle of last year, when the police began arresting drivers and “coaxers”—the regional term for all intermediaries on the human-smuggling routes up through West Africa. They jailed about 100 of them and confiscated another 100 vehicles. Three months later, the EU congratulated itself for a spectacular drop in migrant flows from Niger to Libya. But the announcement was based on International Organization for Migration (IOM) data, which the UN agency has since acknowledged to be incorrect, owing to a “technical problem” with its database.

      Saddiq, whose name has also been changed, is a coaxer in Agadez. He told me that migrants were still arriving in the town in the hope of heading north. “The police are from southern Niger and they are not familiar with the desert,” he said. “For every car arrested, 20 get through.” The cars have gotten faster. One of Saddiq’s drivers traded his old one for a Toyota Tundra, which can reach 120 miles per hour on hard sand. Meanwhile, groups of migrants have gotten smaller and are thus lighter loads. New “roads” have already been pounded out through the desert. Drivers pick up migrants as far south as the Nigerien-Nigerian border, keeping clear of towns and checkpoints. “Tubu drivers have been going up with GPS to open new roads along the Niger-Algeria border,” said Saddiq. “They meet the drug traffickers and exchange food and advice.”

      On these new roads, risks are higher for drivers and passengers. Vehicles get lost, break down, and run out of fuel. Thirst is a constant danger, and, as drivers and the IOM warned, deaths increased during the 2017 dry season, which began in May. Drivers pursued by patrols are likely to aim for a high-speed getaway, which means abandoning their passengers in the desert. “Because we couldn’t take the main road, bandits attacked us,” Aji, a Gambian migrant, told me as he recounted his failed attempt to get to Libya last December. “Only 30 kilometers from Agadez, bandits shot at us, killed two drivers and injured 17 passengers, including myself.” They took everything he owned. He was brought back to the hospital in Agadez for treatment for his wounded leg. He was broke and his spirits were low. “I no longer want to go to Libya,” he said.

      New liabilities for the smugglers drive up their prices: the fare for a ride from Agadez to Libya before the Niger government decided to curtail the northward flow was around $250. Now it is $500 or more. People with enough money travel in small, elite groups of three to five for up to $1,700 per head. Migrants without enough cash can travel on credit, but they risk falling into debt bondage once in Libya. Even with the higher fees, smugglers’ revenues have not increased. Saddiq’s has fallen from $5,000 a month to around $2,000. Costs, including lavish bribes to Niger’s security forces, have risen sharply. Still, the pace of the trade remains brisk. “I have a brand-new vehicle ready for 22 passengers,” Saddiq told me. That evening, as he loaded up his passengers with their light luggage and jerry cans of water, a motorbike went ahead of it with its headlights off to make sure that the coast was clear.

      “Many won’t give up this work, but those who continue are stuntmen,” grumbled one of Saddiq’s colleagues, a Tuareg former rebel who has been driving migrants for more than 15 years. Feeling chased by the authorities, or forced to pay them bribes twice as much as before, Tuareg and Tubu drivers are increasingly angry with the Nigerien government and what they call “the diktat of Europe.” He thought there might be better money in other activities. “What should we do? Become terrorists?” he said, somewhat provocatively. “I should go up to Libya and enlist with Daesh [the Islamic State, or ISIS]. They’re the ones who offer the best pay.”

      https://www.foreignaffairs.com/articles/niger/2017-08-31/europes-migrant-hunters
      #Agadez #réfugiés #Niger #désert_du_Ténéré #passeurs #smugglers #smuggling #Dirkou #routes_migratoires #parcours_migratoires

    • Sfidare la morte per fuggire dal Niger

      In Niger i militari inseguono i migranti. Ordini dall’alto: quello che vuole l’Europa. Che per questo li paga. I profughi cercano così altri percorsi. Passano per il deserto, per piste più pericolose. Con il rischio di morire disidratati

      http://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.308980!/httpImage/image.JPG_gen/derivatives/gallery_990/image.JPG
      http://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.308979!/httpImage/image.JPG_gen/derivatives/gallery_990/image.JPG


      #photographie

    • A line in the sand

      In late 2016, Agadez made headlines when Niger became one of the European Union (EU)’s prime partners in the fight against irregular migration. The arrest of human smugglers and the confiscation of their 4x4 trucks resulted in a decrease in the number of migrants travelling through the region.

      Given Agadez’s economic dependence on the migration industry, Clingendael’s Conflict Research Unit investigated the costs of these measures for the local population, their authorities and regional security. We invite you to work with our data and explore our findings.


      https://www.clingendael.org/sustainable_migration_management_Agadez
      #économie #économie_locale

    • Quel lunedì che ha cambiato la migrazione in Niger

      Nella prima storia della sua trilogia sul Niger per Open Migration, Giacomo Zandonini ci raccontava com’è cambiata la vita di un ex passeur di migranti dopo l’applicazione delle misure restrittive da parte del governo. In questa seconda storia, sfida i pericoli del Sahara insieme ai migranti e racconta come la chiusura della rotta di Agadez abbia spinto la locale economia al dettaglio verso le mani di un sistema mafioso.

      http://openmigration.org/analisi/quel-lunedi-che-ha-cambiato-la-migrazione-in-niger
      #fermeture_des_frontières #mafia

      En anglais:
      http://openmigration.org/en/analyses/the-monday-that-changed-migration-in-niger

    • In Niger, Europe’s Empty Promises Hinder Efforts to Move Beyond Smuggling

      The story of one former desert driver and his struggle to escape the migration trade reveals the limits of an E.U. scheme to offer alternatives to the Sahara smugglers. Giacomo Zandonini reports from Agadez.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2018/01/03/europes-empty-promises-hinder-efforts-to-move-beyond-smuggling
      #reconversion

    • Agadez, aux portes du Sahara

      Dans la foulée de la ’crise des migrants’ de 2015, l’Union Européenne a signé une série d’accords avec des pays tiers. Parmi ceux-ci, un deal avec le Niger qui provoque des morts anonymes par centaines dans le désert du Sahara. Médecins du Monde est présente à Agadez pour soigner les migrants. Récit.

      https://spark.adobe.com/page/47HkbWVoG4nif

    • « A Agadez, on est passé de 350 migrants par jour à 100 par semaine »

      Journée spéciale sur RFI ce 23 mai. La radio mondiale propose des reportages et des interviews sur Agadez, la grande ville-carrefour du Nord-Niger, qui tente de tourner le dos à l’émigration clandestine. Notre reporter, Bineta Diagne essaie notamment de savoir si les quelque 5 000 à 6 000 passeurs, transporteurs et rabatteurs, qui vivent du trafic des migrants, sont en mesure de se reconvertir. Au Niger, Mohamed Bazoum est ministre d’Etat, ministre de l’Intérieur et de la Sécurité publique. En ligne de Niamey, il répond aux questions de Christophe Boisbouvier.

      http://www.rfi.fr/emission/20180523-agadez-on-est-passe-350-migrants-jour-100-semaine

      Des contacts sur place ont confirmé à Karine Gatelier (Modus Operandi, association grenobloise) et moi-même que les arrivées à Agadez baissent.
      La question reste :

      Les itinéraires changent : vers où ?

    • Niger: la difficile #reconversion d’Agadez

      Le Niger est un pays de transit et de départ de l’émigration irrégulière vers l’Europe. Depuis fin 2016, les autorités tentent de lutter contre ce phénomène. Les efforts des autorités se concentrent autour de la ville d’Agadez, dans le centre du pays. Située aux portes du désert du Ténéré et classée patrimoine mondial de l’Unesco, Agadez a, pendant plusieurs années, attiré énormément de touristes amoureux du désert. Mais l’insécurité a changé la donne de cette région, qui s’est progressivement développée autour d’une économie parallèle reposant sur la migration. Aujourd’hui encore, les habitants cherchent de nouveaux débouchés.

      http://www.rfi.fr/afrique/20180523-niger-difficile-reconversion-agadez
      #tourisme

    • Au #Sahara, voyager devient un crime

      La France s’est émue lorsque Mamadou Gassama, un Malien de 22 ans, sans papiers, a sauvé un enfant de 4 ans d’une (probable) chute fatale à Paris. Une figure de « migrant extraordinaire » comme les médias savent régulièrement en créer, mais une figure qui ne devrait pas faire oublier tous les autres, « les statistiques, les sans-nom, les numéros. » Ni tous celles et ceux qui n’ont aucune intention de venir en Europe, mais qui sont néanmoins victimes des nouvelles politiques migratoires européennes et africaines mises en œuvre à l’abri des regards, à l’intérieur même du continent africain.

      Les migrations vers et à travers le Sahara ne constituent certes pas un phénomène nouveau. Mais à partir du début des années 2000, la focalisation des médias et des pouvoirs publics sur la seule minorité d’individus qui, après avoir traversé le Sahara, traversent également la Méditerranée, a favorisé l’assimilation de l’ensemble de ces circulations intra-africaines à des migrations économiques à destination de l’Europe.

      Ce point de vue, qui repose sur des représentations partielles et partiales des faits, éloignées des réalités de terrain observées par les chercheurs, sert depuis lors de base de légitimation à la mise en œuvre de politiques migratoires restrictives en Afrique.

      Le Sahara, zone de contrôle

      L’Europe (Union européenne et certains États), des organisations internationales (notamment l’Organisation internationale pour les migrations (OIM)) et des structures ad hoc (#Frontex, #EUCAP_Sahel_Niger), avec la coopération plus ou moins volontariste des autorités nationales des pays concernés, participent ainsi au durcissement législatif mis en place dans les pays du Maghreb au cours des années 2000, puis en Afrique de l’Ouest la décennie suivante, ainsi qu’au renforcement de la surveillance et du contrôle des espaces désertiques et des populations mobiles.

      Le Sahara est ainsi transformé en une vaste « #zone-frontière » où les migrants peuvent partout et en permanence être contrôlés, catégorisés, triés, incités à faire demi-tour voire être arrêtés.

      Cette nouvelle manière de « gérer » les #circulations_migratoires dans la région pose de nombreux problèmes, y compris juridiques. Ainsi, les ressortissants des États membres de la Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest (#CEDEAO), qui ont officiellement le droit de circuler librement au sein de l’#espace_communautaire, se font régulièrement arrêter lorsqu’ils se dirigent vers les frontières septentrionales du #Mali ou du #Niger.

      Le Niger, nouveau garde-frontière de l’Europe

      Dans ce pays, les migrations internationales n’étaient jusqu’à récemment pas considérées comme un problème à résoudre et ne faisaient pas l’objet d’une politique spécifique.

      Ces dernières années, tandis que le directeur général de l’OIM affirmait – sans chiffre à l’appui – qu’il y a dorénavant autant de décès de migrants au Sahara qu’en Méditerranée, l’UE continuait de mettre le gouvernement nigérien sous pression pour en finir avec « le modèle économique des passeurs ».

      Si des projets et programmes sont, depuis des années, mis en œuvre dans le pays pour y parvenir, les moyens financiers et matériels dédiés ont récemment été décuplés, à l’instar de l’ensemble des moyens destinés à lutter contre les migrations irrégulières supposées être à destination de l’Europe.

      Ainsi, le budget annuel de l’OIM a été multiplié par 7,5 en 20 ans (passant de 240 millions d’euros en 1998 à 1,8 milliard d’euros en 2018), celui de Frontex par 45 en 12 ans (passant de 6 millions d’euros en 2005 à 281 millions d’euros en 2017), celui d’EUCAP Sahel Niger par 2,5 en 5 ans (passant de moins de 10 millions d’euros en 2012 à 26 millions d’euros en 2017), tandis que depuis 2015 le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique a été lancé par l’UE avec un budget de 2,5 milliards d’euros destinés à lutter contre les « causes profondes de la migration irrégulière » sur le continent, et notamment au Sahel.

      Ceci est particulièrement visible dans la région d’Agadez, dans le nord du pays, qui est plus que jamais considérée par les experts européens comme « le lieu où passe la plupart des flux de [migrants irréguliers] qui vont en Libye puis en Europe par la route de la Méditerranée centrale ».

      La migration criminalisée

      La mission européenne EUCAP Sahel Niger, lancée en 2012 et qui a ouvert une antenne permanente à Agadez en 2017, apparaît comme un des outils clés de la politique migratoire et sécuritaire européenne dans ce pays. Cette mission vise à « assister les autorités nigériennes locales et nationales, ainsi que les forces de sécurité, dans le développement de politiques, de techniques et de procédures permettant d’améliorer le contrôle et la lutte contre les migrations irrégulières », et d’articuler cela avec la « lutte anti-terroriste » et contre « les activités criminelles associées ».

      Outre cette imbrication officialisée des préoccupations migratoires et sécuritaires, EUCAP Sahel Niger et le nouveau Cadre de partenariat pour les migrations, mis en place par l’UE en juin 2016 en collaboration avec le gouvernement nigérien, visent directement à mettre en application la loi nigérienne n°2015-36 de mai 2015 sur le trafic de migrants, elle-même faite sur mesure pour s’accorder aux attentes européennes en la matière.

      Cette loi, qui vise à « prévenir et combattre le trafic illicite de migrants » dans le pays, définit comme trafiquant de migrants « toute personne qui, intentionnellement et pour en tirer, directement ou indirectement, un avantage financier ou un autre avantage matériel, assure l’entrée ou la sortie illégale au Niger » d’un ressortissant étranger.
      Jusqu’à 45 000 euros d’amende et 30 ans de prison

      Dans la région d’#Agadez frontalière de la Libye et de l’Algérie, les gens qui organisent les transports des passagers, tels les chauffeurs-guides en possession de véhicules pick-up tout-terrain leur permettant de transporter une trentaine de voyageurs, sont dorénavant accusés de participer à un « trafic illicite de migrants », et peuvent être arrêtés et condamnés.

      Transporter ou même simplement loger, dans le nord du Niger, des ressortissants étrangers (en situation irrégulière ou non) fait ainsi encourir des amendes allant jusqu’à 30 millions de francs CFA (45 000 euros) et des peines pouvant s’élever à 30 ans de prison.

      Et, cerise sur le gâteau de la répression aveugle, il est précisé que « la tentative des infractions prévue par la présente loi est punie des mêmes peines. » Nul besoin donc de franchir irrégulièrement une frontière internationale pour être incriminé.

      Résultat, à plusieurs centaines de kilomètres des frontières, des transporteurs, « passeurs » avérés ou supposés, requalifiés en « trafiquants », jugés sur leurs intentions et non leurs actes, peuvent dorénavant être arrêtés. Pour les autorités nationales, comme pour leurs homologues européens, il s’agit ainsi d’organiser le plus efficacement possible une lutte préventive contre « l’émigration irrégulière » à destination de l’Europe.

      Cette aberration juridique permet d’arrêter et de condamner des individus dans leur propre pays sur la seule base d’intentions supposées : c’est-à-dire sans qu’aucune infraction n’ait été commise, sur la simple supposition de l’intention d’entrer illégalement dans un autre pays.

      Cette mesure a été prise au mépris de la Charte africaine des droits de l’homme et des peuples (article 12.2) et de la Déclaration universelle des droits de l’homme (article 13.2), qui stipulent que « toute personne a le droit de quitter tout pays, y compris le sien ».

      Au mépris également du principe de présomption d’innocence, fondateur de tous les grands systèmes légaux. En somme, une suspension du droit et de la morale qui reflète toute la violence inique des logiques de lutte contre les migrations africaines supposées être à destination de l’Europe.
      Des « passeurs » sans « passages »

      La présomption de culpabilité a ainsi permis de nombreuses arrestations suivies de peines d’emprisonnement, particulièrement dans la région d’Agadez, perçue comme une région de transit pour celles et ceux qui souhaitent se rendre en Europe, tandis que les migrations vers le Sud ne font l’objet d’aucun contrôle de ce type.

      La loi de 2015 permet en effet aux forces de l’ordre et de sécurité du Niger d’arrêter des chauffeurs nigériens à l’intérieur même de leur pays, y compris lorsque leurs passagers sont en situation régulière au Niger. Cette loi a permis de créer juridiquement la catégorie de « passeur » sans qu’il y ait nécessairement passage de frontière.

      La question des migrations vers et à travers le Sahara semble ainsi dorénavant traitée par le gouvernement nigérien, et par ses partenaires internationaux, à travers des dispositifs dérivés du droit de la guerre, et particulièrement de la « guerre contre le terrorisme » et de l’institutionnalisation de lois d’exception qui va avec.

      Malgré cela, si le Niger est peu à peu devenu un pays cobaye des politiques antimigrations de l’Union européenne, nul doute pour autant qu’aucune police n’est en mesure d’empêcher totalement les gens de circuler, si ce n’est localement et temporairement – certainement pas dans la durée et à l’échelle du Sahara.

      Adapter le voyage

      Migrants et transporteurs s’adaptent et contournent désormais les principales villes et leurs #check-points, entraînant une hausse des tarifs de transport entre le Niger et l’Afrique du Nord. Ces #tarifs, qui ont toujours fortement varié selon les véhicules, les destinations et les périodes, sont passés d’environ 100 000 francs CFA (150 euros) en moyenne par personne vers 2010, à plusieurs centaines de milliers de francs CFA en 2017 (parfois plus de 500 euros). Les voyages à travers le Sahara sont ainsi plus onéreux et plus discrets, mais aussi plus difficiles et plus risqués qu’auparavant, car en prenant des routes inhabituelles, moins fréquentées, les transporteurs ne minimisent pas seulement les risques de se faire arrêter, mais aussi ceux de se faire secourir en cas de pannes ou d’attaques par des bandits.

      Comme le montre l’article Manufacturing Smugglers : From Irregular to Clandestine Mobility in the Sahara, cette « clandestinisation » (http://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/0002716217744529) généralisée du transport de migrants s’accompagne d’une diminution, voire d’une disparition, du contrôle social jusque-là exercé sur les différents acteurs, entre eux, mais aussi par leurs proches ou par les agents de l’État qui ponctionnaient illégalement leurs activités.

      Il était en effet aisé, jusqu’à récemment, de savoir qui était parti d’où, quel jour, avec combien de passagers, et de savoir si tous étaient arrivés à bon port. Ce qui incitait chacun à rester dans les limites morales de l’acceptable. Ces dernières années, entre les risques pris volontairement par les transporteurs et les migrants, et les abandons de passagers dans le désert, il ne serait pas étonnant que le nombre de morts sur les pistes sahariennes ait augmenté.
      Une vraie fausse réduction des flux

      Récemment, l’OIM a pu clamer une diminution des volumes des flux migratoires passant par le Niger, et des représentants de l’UE et de gouvernements sur les deux continents ont pu se féliciter de l’efficacité des mesures mises en œuvre, clamant unanimement la nécessité de poursuivre leur effort.

      Mais de l’accord même des agents de l’#OIM, seul organisme à produire des chiffres en la matière au Sahara, il ne s’agit en fait que d’une diminution du nombre de personnes passant par ses points de contrôle, ce qui ne nous dit finalement rien sur le volume global des flux à travers le pays. Or, malgré toutes les mesures sécuritaires mises en place, la toute petite partie de la population qui a décidé de voyager ainsi va sans doute continuer à le faire, quel qu’en soit le risque.

      https://theconversation.com/au-sahara-voyager-devient-un-crime-96825
      #Afrique_de_l'Ouest #mobilité #libre_circulation #frontières #externalisation #fermeture_des_frontières #migrations #asile #réfugiés #IOM #contrôles_frontaliers #déstructuration #passeurs #smugglers

    • Déclaration de fin de mission du Rapporteur Spécial des Nations Unies sur les droits de l’homme des migrants, Felipe González Morales, lors de sa visite au Niger (1-8 octobre, 2018)

      L’externalisation de la gestion de la migration du Niger par le biais de l’OIM

      En raison de ses capacités limitées, le gouvernement du Niger s’appuie depuis 2014 largement sur l’OIM pour répondre à la situation des personnes migrantes expulsées de l’Algérie ou forcées de revenir de pays voisins tels que la Libye et le Mali. À leur arrivée dans l’un des six centres de transit de l’OIM, et sous réserve qu’ils s’engagent à leur retour, l’OIM leur offre un abri, de la nourriture, une assistance médicale et psychosociale, des documents de voyage/d’identité et le transport vers leur pays d’origine. Depuis 2015, 11 936 migrants ont été rapatriés dans leur pays d’origine dans le cadre du programme d’AVR de l’OIM, la plupart en Guinée Conakry, au Mali et au Cameroun.

      Au cours de ma visite, j’ai eu l’occasion de m’entretenir avec de nombreux hommes, femmes et enfants vivant dans les centres de transit de l’OIM à Agadez et à Niamey, inscrits au programme d’AVR. Certains d’entre eux ont indiqué qu’ils ne pouvaient plus supporter les violations des droits de l’homme (ayant été victimes de discrimination raciale, d’arrestations arbitraires, de torture, d’expulsion collective, d’exploitation sexuelle et par le travail pendant leur migration) et de la situation difficile dans les centres de transit et souhaitaient retourner dans leur pays d’origine. D’autres ont indiqué qu’ils s’étaient inscrits au programme d’AVR parce que c’était la seule assistance qui leur était offerte, et beaucoup d’entre eux m’ont dit que dès leur retour dans leur pays d’origine, ils essaieraient de migrer à nouveau.

      En effet, quand le programme d’AVR est la seule option disponible pour ceux qui ont été expulsés ou forcés de rentrer, et qu’aucune autre alternative réelle n’est proposée à ceux qui ne veulent pas s’y inscrire, y compris ceux qui se trouvent dans une situation vulnérable et qui ont été victimes de multiples violations des droits de l’homme, des questions se posent quant à la véritable nature volontaire de ces retours si l’on considère l’ensemble du parcours qu’ils ont effectué. De plus, l’inscription à un programme d’AVR ne peut pas prévaloir sur le fait que la plupart de ces migrants sont à l’origine victimes d’expulsions illégales, en violation des principes fondamentaux du droit international.

      L’absence d’évaluations individuelles efficaces et fondées sur les droits de l’homme menées auprès des migrants rapatriés, faites dans le respect du principe fondamental de non-refoulement et des garanties d’une procédure régulière, est un autre sujet de préoccupation. Un grand nombre de personnes migrantes inscrites au programme d’AVR sont victimes de multiples violations des droits de l’homme (par exemple, subies au cours de leur migration et dans les pays de transit) et ont besoin d’une protection fondée sur le droit international. Cependant, très peu de personnes sont orientées vers une demande d’asile/procédure de détermination du statut de réfugié, et les autres sont traitées en vue de leur retour. L’objectif ultime des programmes d’AVR, à savoir le retour des migrants, ne peut pas prévaloir sur les considérations en lien avec les droits de l’homme pour chaque cas. Cela soulève également des préoccupations en termes de responsabilité, d’accès à la justice et de recours pour les migrants victimes de violations des droits de l’homme.

      Rôle des bailleurs de fonds internationaux et en particulier de l’UE

      Bien que les principaux responsables gouvernementaux ont souligné que l’objectif de réduction des migrations vers le nord était principalement une décision de politique nationale, il est nécessaire de souligner le rôle et la responsabilité de la communauté internationale et des bailleurs de fond à cet égard. En effet, plusieurs sources ont déclaré que la politique nigérienne en matière de migration est fortement influencée et principalement conduite selon les demandes de l’Union européenne et de ses États membres en matière de contrôle de la migration en échange d’un soutien financier. Par exemple, le fait que le Fonds fiduciaire de l’Union européenne apporte un soutien financier à l’OIM en grande partie pour sensibiliser et renvoyer les migrants dans leur pays d’origine, même lorsque le caractère volontaire est souvent discutable, compromet son approche fondée sur les droits dans la coopération pour le développement. De plus, d’après mes échanges avec l’Union européenne, aucun soutien n’est prévu pour les migrants qui ne sont ni des réfugiés ni pour ceux qui n’ont pas accepté d’être renvoyés volontairement dans leur pays d’origine. En outre, le rôle et le soutien de l’UE dans l’adoption et la mise en œuvre de la loi sur le trafic illicite de migrants remettent en question son principe de « ne pas nuire » compte tenu des préoccupations en matière de droits de l’homme liées à la mise en œuvre et exécution de la loi.

      https://www.ohchr.org/FR/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=23698&LangID=F
      #droits_humains #droits_de_l'homme_des_migrants #Niger #asile #migrations #réfugiés

    • African migration ’a trickle’ thanks to trafficking ban across the Sahara

      The number of migrants trying to cross the Mediterranean for Europe has been dropping and that is partly because of tougher measures introduced on the migrant routes, as Mike Thomson reports from Niger.

      In a small dusty courtyard near the centre of Agadez, a town on the fringes of the Sahara desert, Bachir Amma, eats lunch with his family.

      A line of plastic chairs, clinging to the shadow of the mud walls, are the only visible furniture.

      Mr Amma, a former people smuggler, dressed in a faded blue denim shirt and jeans, has clearly known better days.

      "I stopped trafficking migrants to the Libyan border when the new law came in.

      "It’s very, very strict. If you’re caught you get a long time in jail and they confiscate your vehicle.

      “If the law was eased I would go back to people trafficking, that’s for sure. It earned me as much as $6,000 (£4,700) a week, far more money than anything I can do now.”
      Traffickers jailed

      The law Mr Amma mentioned, which banned the transport of migrants through northern Niger, was brought in by the government in 2015 following pressure from European countries.

      Before then such work was entirely legal, as Niger is a member of the Economic Community of West African States (Ecowas) that permits the free movement of people.

      Police even provided armed escorts for the convoys involved. But since the law was passed many traffickers have been jailed and hundreds of their vehicles confiscated.

      Before 2015, the Agadez region was home to more than 6,000 people traffickers like Mr Amma, according to figures from the UN’s International Organization for Migration (IOM) .

      Collectively they transported around 340,000 Europe-bound migrants through the Sahara desert to Libya.
      Migration in reverse

      Since the clampdown this torrent has become a relative trickle.

      In fact, more African migrants, who have ended up in Niger and experienced or heard of the terrible dangers and difficulties of getting to Europe, have decided to return home.

      This year alone 16,000 have decided to accept offers from the IOM to fly them back.

      A large and boisterous IOM-run transit centre in Agadez is home to hundreds of weary, homesick migrants.

      In one large hut around 20 young men, from a variety of West African countries, attend a class on how to set up a small business when they get home.

      Among them is 27-year-old Umar Sankoh from Sierra Leone, who was dumped in the Sahara by a trafficker when he was unable to pay him more money.

      “The struggle is so hard in the desert, so difficult to find your way. You don’t have food, you don’t have nothing, even water you can’t drink. It’s so terrible,” he said.

      Now, Mr Sankoh has given up his dreams of a better life in Europe and only has one thought in mind: "I want to go home.

      "My family will be happy because it’s been a long time so they must believe I am dead.

      “If they see me now they’ll think, ’Oh my God, God is working!’”
      Coast guards intercept vessels

      Many thousands of migrants who make it to Libya are sold on by their traffickers to kidnappers who try and get thousands of dollars from their families back home.

      Those who cannot pay are often tortured, sometimes while being forced to ask relatives for money over the phone, and held in atrocious conditions for months.

      With much of the country in the grip of civil war, such gangs can operate there with impunity.

      In an effort to curb the number of migrants making for southern Europe by boat, thousands of whom have drowned on the way, coast guards trained by the European Union (EU) try and stop or intercept often flimsy vessels.

      Those on board are then taken to detention centres, where they are exposed to squalid, hugely overcrowded conditions and sometimes beatings and forced hard labour.
      Legal resettlement offers

      In November 2017, the EU funded a special programme to evacuate the most vulnerable refugees in centres like these.

      Under this scheme, which is run by the UN’s refugee agency (UNHCR), a little more than 2,200 people have since been flown to the comparative safety of neighbouring Niger.

      There, in a compound in the capital, Niamey, they wait for the chance to be resettled in a European country, including the UK, as well as Canada and the US.

      So far just under 1,000 have been resettled and 264 accepted for resettlement.

      The rest await news of their fate.

      https://www.bbc.com/news/world-africa-46802548
      #cartographie

      Commentaire de Alizée Daouchy via la mailing-list Migreurop:

      Rien de très nouveau dans cet article, il traite des routes migratoires dans le Sahara mais ne s’intéresse qu’au cas d’Agadez.
      L’auteur qualifie les « flux » dans le Sahara de « migration in reverse ». Alors qu’avant l’adoption de la loi contre le trafic de migrants (2015), 340 000 personnes traversaient le désert du Sahara vers la Libye (sans préciser pour quelle(s) année(s)), en 2018, 16 000 personnes ont été ’retournées’ dans leur pays d’origine par l’#OIM.

      Pour autant, des ’trafiquants’ continuent leurs activités en empruntant des routes plus dangereuses pour éviter les forces de l’ordre. A ce sujet la représentante de l’UNHCR au Niger rappelle que : la communauté internationale ("we, the international Community, the UNHCR") considère que pour chaque mort en Méditerranée, il y en aurait au moins deux dans le désert". Mais toujours pas de sources concernant ces chiffres.

      #migrations_inversées #migrations_inverses

    • After crackdown, what do people employed in migration market do?

      Thousands in Niger were employed as middlemen until the government, aided by the EU, targeted undocumented migration.

      A group of women are squeezed into a modest room, ready to take their class in a popular district of Agadez, the largest city in central Niger.

      A blackboard hangs on the wall and Mahaman Alkassoum, chalk in hand, is ready to begin.

      A former people smuggler, he is an unusual professor.

      His round face and shy expression clash with the image of the ruthless trafficker.

      “We’re here to help you organise your savings, so that your activities will become profitable,” Alkassoum tells the women, before drawing a timeline to illustrate the different stages of starting a business.

      Until mid-2016, both he and the women in the room were employed in Agadez’s huge migration market, which offered economic opportunities for thousands of people in an immense desert region, bordering with Algeria, Libya and Chad.

      Alkassoum used to pack his pick-up truck with up to 25 migrants at once, driving them across the Sahara from Agadez to the southern Libyan city of Sebha, earning up to 1,500 euros ($1,706) a month - five times the salary of a local policeman.

      All of us suffered with the end of migration in Agadez. We’re toasting peanuts every day and thinking of new ways to earn something.

      Habi Amaloze, former cook for migrants

      The women, his current students, were employed as cooks in the ghettos and yards where migrants were hosted during their stay in town.

      At times, they fed 100 people a day and earned about 200 euros ($227) a month.

      For decades, the passage of western African migrants heading to Libya, and eventually to Italian shores, happened in daylight, in full view - and in most cases with the complicity of Niger security forces.

      According to a 2016 study by the International Organization for Migration (IOM), migrants in transit had injected about 100 million euros ($113.8m) into the local economy,

      But the “golden age” of migration through Agadez ended abruptly in the summer of 2016 when the government of Niger launched a crackdown on people smuggling.

      More than 300 drivers, middlemen and managers of ghettos, have been arrested since then, convincing other colleagues - like Alkassoum and his students - to abandon their activity.

      The driver’s new career as a community organiser began right after, when most locals involved in the smuggling business realised they had to somehow reinvent their lives.

      At first, a few hundred men, former drivers or managers of ghettos, decided to set up an informal association, with the idea of raising funds between members to launch small commercial activities.

      But the project didn’t really work, Alkassoum recounts. In early 2018, the leader of the group, a renowned smuggler, disappeared with some of the funds.

      Alkassoum, at the time the association’s secretary, got discouraged.

      That was the moment when their female colleagues showed up.

      Most of them were wives or sisters of smugglers, who were cooking for the migrants inside ghettos and, all of a sudden, had also seen their source of income disappear.

      Resorting to an old experience as a youth leader, Alkassoum decided to help them launch new businesses, through lessons on community participation and bookkeeping.

      As of mid-2018, more than 70 women had joined.

      “At first we met to share our common suffering after losing our jobs, but soon we realised we needed to do more,” says Fatoumata Adiguini at the end of the class.

      They decided to launch small businesses, dividing themselves into subgroups, each one developing a specific idea.

      Habi Amaloze, a thin Tuareg woman, heads one of the groups: 17 women that called themselves “banda badantchi” - meaning “no difference” in Hausa - to share their common situation.

      The banda badantchi started with the cheapest possible activity, shelling and toasting peanuts to sell on the streets.

      Other groups collected small sums to buy a sheep, chicks or a sewing machine.

      “We started with what we had, which was almost nothing, but we dream to be able one day to open up a restaurant or a small farming activity,” explains Amaloze.

      While most men left Agadez to find opportunities elsewhere, the women never stopped meeting and built relations of trust.

      Besides raising their children, they have another motivation: working with migrants has freed them from marital control, something they are not willing or ready to lose.

      According to Rhissa Feltou, the mayor of Agadez, the crackdown on northbound migration responded to European requests more than to local needs.

      Since 2015, the European Union earmarked 230 million euros ($261.7m) from its Emergency Trust Fund of Africa for projects in Niger, making it the main beneficiary of a fund created to “address the root causes of migration”.

      Among the projects, the creation of a police investigative unit, where French and Spanish policemen helped their Nigerien counterparts to track and arrest smugglers.

      Another project, known under its acronym Paiera, aimed at relieving the effect of the migration crackdown in Agadez, included a compensation scheme for smugglers who left their old job. The eight million-euro ($9.2m) fund was managed by the High Authority for the Consolidation of Peace, a state office tasked with reducing conflicts in border areas.

      After endless negotiations between local authorities, EU representatives and a committee representing smugglers, a list of 6,550 smuggling actors operating in the region of Agadez, was finalised in 2017.

      But two years after the project’s launch, only 371 of them received small sums, about 2,300 euros ($2,616) per person, to start new activities.

      The High Authority for the Consolidation of Peace told Al Jazeera that an additional eight million-euro fund is available for a second phase of the project, to be launched in March 2019, allowing at least 600 more ex-smugglers to be funded.

      But Feltou, the city’s mayor, isn’t optimistic.

      “We waited too much and it’s still unclear when and how these new provisions will be delivered,” he explains.

      Finding viable job opportunities for thousands of drivers, managers of ghettos, middlemen, cooks or water can sellers, who lost their main source of income in a country the United Nations dubbed as the last in its human development index in 2018, is not an easy task.

      For the European Union, nonetheless, this cooperation has been a success. Northbound movements registered by the IOM along the main desert trail from Agadez to the Libyan border, dropped from 298,000 people a year in 2016 to about 50,000 in 2018.

      In a January 2019 report, the EU commission described such a cooperation with Niger as “constructive and fruitful”.

      Just like other women in her group, Habi Amaloze was disregarded by Brussels-funded programmes like Paiera.

      But the crackdown changed her life dramatically.

      Her brother, who helped her after her husband died years ago, was arrested in 2017, forcing the family to leave their rented house.

      With seven children, ranging from five to 13 years old, and a sick mother, they settled in a makeshift space used to store building material. Among piles of bricks, they built two shacks out of sticks, paperboard and plastic bags, to keep them safe from sand storms.

      “This is all we have now,” Amaloze says, pointing to a few burned pots and a mat.

      In seven years of work as a cook in her brother’s ghetto, she fed tens of thousands of migrants. Now she can hardly feed her family.

      “At that time I earned at least 35,000 [West African franc] a week [about $60], now it can be as low as 2,000 [$3.4], enough to cook macaroni once a day for the kids, but no sauce,” she says, her voice breaking.

      Only one of her children still attends school.

      Her experience is familiar among the women she meets weekly. “All of us suffered with the end of migration in Agadez,” she says.

      Through their groups, they found hope and solidarity. But their future is still uncertain.

      “We’re toasting peanuts every day and thinking of new ways to earn something,” Hamaloze says with a mix of bitterness and determination. “But, like all our former colleagues, we need real opportunities otherwise migration through Agadez and the Sahara will resume, in a more violent and painful way than before.”


      https://www.aljazeera.com/indepth/features/crackdown-people-employed-migration-market-190303114806258.html

  • #Expanding_the_fortress

    La politique d’#externalisation_des_frontières de l’UE, ses bénéficiaires et ses conséquences pour les #droits_humains.

    Résumé du rapport

    La situation désespérée des 66 millions de personnes déplacées dans le monde ne semble troubler la conscience européenne que lorsqu’un drame a lieu à ses frontières et se retrouve sous le feu des projecteurs médiatiques. Un seul État européen – l’Allemagne – se place dans les dix premiers pays au monde en termes d’accueil des réfugiés : la grande majorité des personnes contraintes de migrer est accueillie par des États se classant parmi les plus pauvres au monde. Les migrations ne deviennent visibles aux yeux de l’Union européenne (UE) que lorsque les médias s’intéressent aux communautés frontalières de Calais, Lampedusa ou Lesbos et exposent le sort de personnes désespérées, fuyant la violence et qui finissent par mourir, être mises en détention ou se retrouver bloquées.

    Ces tragédies ne sont pas seulement une conséquence malheureuse des conflits et des guerres en cours dans différents endroits du monde. Elles sont aussi le résultat des politiques migratoires européennes mises en œuvre depuis les accords de Schengen de 1985. Ces politiques se sont concentrées sur le renforcement des frontières, le développement de méthodes sophistiquées de surveillance et de traque des personnes, ainsi que l’augmentation des déportations, tout en réduisant les possibilités de résidence légale malgré des besoins accrus. Cette approche a conduit un grand nombre de personnes fuyant la violence et les conflits et incapables d’entrer en Europe de manière légale à emprunter des routes toujours plus dangereuses.

    Ce qui est moins connu, c’est que les tragédies causées par cette politique européenne se jouent également bien au-delà de nos frontières, dans des pays aussi éloignés que le Sénégal ou l’Azerbaïdjan. Il s’agit d’un autre pilier de la gestion européenne des flux migratoires : l’externalisation des frontières. Depuis 1992, et plus encore depuis 2005, l’UE a mis en œuvre des politiques visant à externaliser les frontières du continent et empêcher les populations déplacées de parvenir à ses portes. Cela implique la conclusion d’accords avec les pays voisins de l’UE afin qu’ils reprennent les réfugiés déportés et adoptent, comme l’Europe, des mesures de contrôle des frontières, de surveillance accrue des personnes et de renforcement de leurs frontières. En d’autres termes, ces accords ont fait des pays voisins de l’UE ses nouveaux garde-frontières. Et parce qu’ils sont loin des frontières européennes et de l’attention médiatique, les impacts de ces politiques restent relativement invisibles aux yeux des citoyens européens.

    Ce rapport cherche à mettre en lumière les politiques qui fondent l’externalisation des frontières européennes et les accords conclus, mais aussi les multinationales et sociétés privées qui en bénéficient, et les conséquences pour les personnes déplacées ainsi que pour les pays et les populations qui les accueillent. Il est le troisième de la série Border Wars, qui vise à examiner les politiques frontalières européennes et à montrer comment les industries des secteurs de l’armement et de la sécurité ont contribué à façonner les politiques de sécurisation des frontières de l’Europe, puis en ont tiré les bénéfices en obtenant un nombre croissant de contrats dans le secteur.

    Ce rapport étudie l’augmentation significative du nombre de mesures et d’accords d’externalisation des frontières depuis 2005, le phénomène s’accélérant massivement depuis le sommet Europe-Afrique de La Valette en novembre 2015. Via une série de nouveaux instruments, tels que le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique (EUTF), le Cadre pour les partenariats avec les pays tiers en matière de gestion des migrations et la Facilité en faveur des réfugiés en Turquie, l’UE et les États membres injectent des millions d’euros dans un ensemble de projets visant à prévenir la migration de certaines populations vers le territoire européen.

    Cela implique la collaboration avec des pays tiers en matière d’accueil des personnes déportées, de formation des forces de police et des garde-frontières ou le développement de systèmes biométriques complets, ainsi que des donations d’équipements incluant hélicoptères, bateaux et véhicules, mais aussi des équipements de surveillance et de contrôle. Si de nombreux projets sont coordonnés par la Commission européenne, un certain nombre d’États membres, tels que l’Espagne, l’Italie et l’Allemagne, prennent également des initiatives individuelles plus poussées en finançant et en soutenant les efforts d’externalisation des frontières par le biais d’accords bilatéraux.

    Ce qui rend cette collaboration particulièrement problématique est le fait que de nombreux gouvernements qui en bénéficient sont profondément autoritaires, et que les financements sont souvent destinés aux organes de l’État les plus responsables des actes de répression et de violations des droits humains. L’UE fait valoir, à travers l’ensemble de ses politiques, une rhétorique consensuelle autour de l’importance des droits humains, de la démocratie et de l’état de droit ; il semble cependant qu’aucune limite ne soit posée lorsque l’Europe soutient des régimes dictatoriaux pour que ces derniers s’engagent à empêcher « l’immigration irrégulière » vers le sol européen. Le résultat concret se traduit par des accords et des financements conclus entre l’UE et des régimes aussi tristement célèbres que ceux du Tchad, du Niger, de Biélorussie, de Libye ou du Soudan.

    Les politiques européennes dans ce domaine ont des conséquences considérables pour les personnes déplacées, que le statut « illégal » rend déjà vulnérables et plus susceptibles de subir des violations de droits humains. Nombre d’entre elles finissent exploitées, avec des conditions de travail inacceptables, ou encore sont mises en détention ou directement déportées dans le pays qu’elles ont fui. Les femmes réfugiées sont particulièrement menacées par les violences basées sur le genre, les agressions et l’exploitation sexuelles.

    La violence et la répression que subissent les déplacés favorisent également l’immigration clandestine, reconfigurant les activités des passeurs et renforçant le pouvoir des réseaux criminels. De fait, les personnes déplacées sont souvent forcées de se lancer sur des routes alternatives, plus dangereuses, et de s’en remettre à des trafiquants de moins en moins scrupuleux. En conséquence, le nombre de morts sur les routes migratoires s’élève de jour en jour.

    En outre, le renforcement des organes de sécurité de l’Etat dans l’ensemble des pays du MENA (Moyen Orient Afrique du Nord), du Maghreb, du Sahel et de la Corne de l’Afrique constitue une menace directe contre les droits humains et la responsabilité démocratique dans ces zones, notamment en détournant des ressources essentielles qui pourraient suppress être destinées à des mesures économiques ou sociales. En effet, ce rapport montre que l’obsession européenne à prévenir les flux migratoires réduit non seulement les ressources disponibles, mais dénature également les échanges, l’aide et les relations internationales entre l’Europe et ces régions. Comme l’ont signalé de nombreux experts, ce phénomène crée un terreau favorable à toujours plus d’instabilité et d’insécurité, et a pour conséquence de pousser toujours plus de personnes à prendre la route de l’exil.

    Un secteur économique a cependant grandement tiré parti des programmes d’externalisation des frontières de l’UE. En effet, comme l’ont montré les premiers rapports Border Wars, les secteurs de l’industrie militaire et de sécurité ont été les principaux bénéficiaires des contrats de fourniture d’équipements et de services pour la sécurité frontalière. Les entreprises de ces secteurs travaillent en partenariat avec un certain nombre d’institutions intergouvernementales et (semi) publiques qui ont connu une croissance significative ces dernières années, à mesure qu’étaient mise en oeuvre des dizaines de projets portant sur la sécurité et le contrôle des frontières dans des pays tiers.
    Le rapport révèle que :

    La grande majorité des 35 pays considérés comme prioritaires par l’UE pour l’externalisation de ses frontières sont gouvernés par des régimes autoritaires, connus pour leurs violation des droits humains et avec des indicateurs de développement humain faibles.
    48% d’entre eux (17) ont un gouvernement autoritaire, et seulement quatre d’entre eux sont considérés comme démocratiques (mais toujours imparfaits)
    448% d’entre eux (17) sont listés comme « non-libres », et seulement trois sont listés comme « libres » ; 34% d’entre eux (12) présentent des risques extrêmes en matière de droits humains et les 23 autres présentent des risques élevés.
    51% d’entre eux (18) sont caractérisés par un « faible développement humain », seulement huit ont un haut niveau de développement humain.
    Plus de 70% d’entre eux (25) se situent dans le dernier tiers des pays du monde en termes de bien-être des femmes (inclusion, justice et sécurité)

    Les États européens continuent à vendre des armes à ces pays, et cela en dépit du fait que ces ventes alimentent les conflits, les actes de violence et de répression, et de ce fait contribuent à l’augmentation du nombre de réfugiés. La valeur totale des licences d’exportations d’armes délivrées par les États membres de l’UE à ces 35 pays sur la décennie 2007-2016 dépasse les 122 milliards d’euros. Parmi eux, 20% (7) sont sous le joug d’un embargo sur les ventes d’armes demandé par l’UE et/ou les Nations Unies, mais la plupart reçoivent toujours des armes de certains États membres, ainsi qu’un soutien à leurs forces armées et de sécurité dans le cadre des efforts liés aux politiques migratoires.

    Les dépenses de l’UE en matière de sécurité des frontières dans les pays tiers ont considérablement augmenté. Bien qu’il soit difficile de trouver des chiffres globaux, il existe de plus en plus d’instruments de financement pour les projets liés aux migrations, la sécurité et les migrations provient de plus en plus d’instruments, la sécurité et les migrations irrégulières étant les principales priorités. Ces fonds proviennent aussi de l’aide au développement. Plus de 80% du budget de l’EUTF vient du Fonds européen de développement et d’autres fonds d’aide au développement et d’aide humanitaire.

    L’augmentation des dépenses en matière de sécurité des frontières a bénéficié à un large éventail d’entreprises, en particulier des fabricants d’armes et des sociétés de sécurité biométrique. Le géant de l’armement français Thales, qui est également un exportateur incontournable d’armes dans la région, est par exemple un fournisseur reconnu de matériel militaire et de sécurité pour la sécurisation des frontières et de systèmes et équipements biométriques. D’autres fournisseurs importants de systèmes biométriques incluent Véridos, OT Morpho et Gemalto (qui sera bientôt racheté par Thales). L’Allemagne et l’Italie financent également leurs propres groupes d’armement – Hensoldt, Airbus et Rheinmetall pour l’Allemagne et Leonardo et Intermarine pour l’Italie – afin de soutenir des programmes de sécurisation des frontières dans un certain nombre de pays du MENA, en particulier l’Égypte, la Tunisie et la Libye. En Turquie, d’importants contrats de sécurisation des frontières ont été remportés par les groupes de défense turcs, notamment Aselsan et Otokar, qui utilisent les ressources pour subventionner leurs propres efforts de défense, également à l’origine des attaques controversées de la Turquie contre les communautés kurdes.

    Un certain nombre d’entreprises semi-publiques et d’organisations internationales ont également conclu des contrats de conseil, de formation et de gestion de projets en matière de sécurité des frontières. On y trouve la société para-gouvernementale française Civipol, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et le Centre international pour le développement des politiques migratoires (ICMPD). Les groupes Thales, Airbus et Safran sont présents au capital de Civipol, qui a rédigé en 2003, à titre de consultant pour la Commission Européenne, un document très influent établissant les fondations pour les mesures actuelles d’externalisation des frontières, dont elle bénéficie aujourd’hui.

    Les financements et les dons en matière d’équipements militaires et de sécurité ainsi que la pression accrue sur les pays tiers pour qu’ils renforcent leurs capacités de sécurité aux frontières ont fait croître le marché de la sécurité en Afrique. Le groupe de lobbying Association européenne des industries aérospatiales et défense (ASD) a récemment concentré ses efforts sur l’externalisation des frontières de l’UE. De grands groupes d’armement tels qu’Airbus et Thales lorgnent également sur les marchés africains et du Moyen-Orient, en croissance.

    Les décisions et la mise en œuvre de l’externalisation des frontières au niveau de l’Union européenne ont été caractérisées par une rapidité d’exécution inhabituelle, hors du contrôle démocratique exercé par le Parlement européen. De nombreux accords importants avec des pays tiers, parmi lesquels les pactes « Migration Compact » signés dans le Cadre pour les partenariats et l’Accord UE- Turquie, ont été conclus sans ou à l’écart de tout contrôle parlementaire.

    Le renforcement et la militarisation de la sécurité des frontières ont conduit à une augmentation du nombre de morts parmi les personnes déplacées. En général, les mesures visant à bloquer une route particulière de migration poussent les personnes vers des routes plus dangereuses. En 2017, on a dénombré 1 mort pour 57 migrants traversant la Méditerranée ; en 2015, ce chiffre était de 1 pour 267. Cette statistique reflète le fait qu’en 2017, les personnes déplacées (pourtant moins nombreuses qu’en 2015), principalement originaires d’Afrique de l’Ouest et de pays subsahariens, ont préféré la route plus longue et plus dangereuse de la Méditerranée Centrale plutôt que la route entre la Turquie et la Grèce empruntée en 2015 par des migrants (principalement Syriens). On estime que le nombre de migrants morts dans le désert est au moins le double de ceux qui ont péri en Méditerranée, bien qu’aucun chiffre officiel ne soit conservé ou disponible.

    On assiste à une augmentation des forces militaires et de sécurité européennes dans les pays tiers pour la sécurité aux frontières. L’arrêt des flux migratoires est devenu une priorité des missions de Politique de sécurité et de défense commune (PSDC) au Mali et au Niger, tandis que des États membres tels que la France ou l’Italie ont également décidé de déployer des troupes au Niger ou en Libye.

    Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières et garde-côtes, collabore de plus en plus avec les pays tiers. Elle a entamé des négociations avec des pays voisins de l’UE pour mener des opérations conjointes sur leurs territoires. La coopération en matière de déportation est déjà largement implantée. De 2010 à 2016, Frontex a coordonné 400 vols de retours conjoints avec des pays tiers, dont 153 en 2016. Depuis 2014, certains de ces vols ont été appelés « opérations de retour conjoint », l’avion et les escortes navigantes provenant des pays de destination. Les États membres invitent de plus en plus fréquemment des délégations de pays tiers à identifier les personnes « déportables » sur la base de l’évaluation de nationalité. Dans plusieurs cas, ces identifications ont conduit à l’arrestation et à la torture des personnes déportées.

    Ce rapport examine ces impacts en cherchant à établir comment ces politiques ont été mises en œuvre en Turquie, en Libye, en Égypte, au Soudan, au Niger, en Mauritanie et au Mali. Dans tous ces pays, pour parvenir à la conclusion de ces accords, l’UE a dû fermer les yeux ou limiter ses critiques sur les violations des droits humains.

    En Turquie, l’UE a adopté un modèle proche de celui de l’Australie, externalisant l’ensemble du traitement des personnes déplacées en dehors de ses frontières, et manquant ainsi à des obligations fondamentales établies par le droit international, telles que le principe de non-refoulement, le principe de non-discrimination (l’accord concerne exclusivement les populations syriennes) et le principe d’accès à l’asile.

    En Libye, la guerre civile et l’instabilité du pays n’ont pas empêché l’UE ni certains de ses États membres, comme l’Italie, de verser des fonds destinés aux équipements et aux systèmes de gestion des frontières, à la formation des garde-côtes et au financement des centres de détention – et ce bien qu’il ait été rapporté que des garde-côtes avaient ouvert le feu sur des bateaux de migrants ou que des centres de détentions étaient gérés par des milices comme des camps de prisonniers.

    En Égypte, la coopération frontalière avec le gouvernement allemand s’est intensifiée malgré la croissante consolidation du pouvoir militaire dans le pays. L’Allemagne finance les équipements et la formation régulière de la police aux frontières égyptienne. Les personnes déplacées se trouvent régulièrement piégées dans le pays, dans l’impossibilité de se rendre en Libye du fait de l’insécurité qui y règne, et subissent les tirs des gardes-côtes égyptiens s’ils décident de prendre la route maritime.

    Au Soudan, le soutien à la gestion des frontières fourni par l’UE n’a pas seulement conduit à suppress sortir un régime dictatorial de son isolement sur la scène internationale, mais a également renforcé les Forces de soutien rapide, constituées de combattants de la milice Janjawid, considérée comme responsables de violations de droits humains au Darfour.

    La situation au Niger, un des pays les plus pauvres au monde, montre bien le coût de la politique de contrôle des migrations subi par les économies locales. La répression en cours à Agadez a considérablement affaibli l’économie locale et poussé la migration dans la clandestinité, rendant la route plus dangereuse pour les migrants et renforçant le pouvoir des gangs de passeurs armés. De même au Mali, l’imposition des mesures d’externalisation des frontières par l’UE dans un pays tout juste sorti d’une guerre civile menace de raviver les tensions et de réveiller le conflit.

    L’ensemble des cas étudiés met en lumière une politique de l’UE via-à-vis de ses voisins obsessionnellement focalisée sur les contrôles migratoires, quel que soit le coût pour les pays concernés ou les populations déplacées. C’est une vision étroite et finalement vouée à l’échec de la sécurité, car elle ne s’attaque pas aux causes profondes qui poussent les gens à migrer : les conflits, la violence, le sous-développement économique et l’incapacité des États à gérer correctement ces situations. Au lieu de cela, en renforçant les forces militaires et de sécurité dans la région, ces politiques prennent le risque d’exacerber la répression, de limiter la responsabilité démocratique et d’attiser des conflits qui pousseront plus de personnes à quitter leurs pays. Il est temps de changer de cap. Plutôt que d’externaliser les frontières et les murs, nous devrions externaliser la vraie solidarité et le respect des droits de l’homme.


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    pour télécharger le #rapport :
    https://www.tni.org/files/publication-downloads/expanding_the_fortress_-_1.6_may_11.pdf

    cc @reka @albertocampiphoto @daphne @marty

    • Esternalizzare le frontiere europee significa militarizzare

      Come dimostra il recente rapporto del Transnational Institut, «Espandendo la Fortezza», la crescita della spesa per il controllo delle frontiere esterne avvantaggia produttori di armi e società di sicurezza biometrica. Molte delle loro proposte sono poi apparse nell’Agenda europea sotto forma di decisioni politiche. Sara Prestianni analizza le conseguenze militari dell’esternalizzazione delle frontiere europee.

      http://openmigration.org/analisi/esternalizzare-le-frontiere-europee-significa-militarizzare

    • 3 liens vers des articles/reportages de #Gabriele_Del_Grande, un des premiers journalistes à avoir visité les centres en Libye.

      C’était 2008-2009
      Libia: siamo entrati a #Misratah. Ecco la verità sui 600 detenuti eritrei

      Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di 600 persone, tra cui 58 donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di 20 metri per 20 su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo.

      Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno 6.000 profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione a Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno 320.000 ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo 4,7 milioni di abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre 130.000 persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

      La prima volta che sentii parlare di Misratah fu nella primavera del 2007, durante un incontro a Roma con il direttore dell’Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, Mohamed al Wash. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007, insieme alla associazione eritrea Agenzia Habeshia, riuscimmo a stabilire un contatto telefonico con un gruppo di prigionieri eritrei che erano riusciti a introdurre un telefono cellulare nel campo. Si lamentavano delle condizioni di sovraffollamento, della scarsa igiene dei bagni, e delle precarie condizioni di salute, specie di donne incinte e neonati. E accusavano gli agenti di polizia di avere molestato sessualmente alcune donne durante le prime settimane di detenzione. Amnesty International si espresse più volte per bloccare il loro rimpatrio. E il 18 settembre 2007 la diaspora eritrea organizzò manifestazioni nelle principali capitali europee.

      Il direttore del centro, colonnello ‘Ali Abu ‘Ud, conosce i report internazionali su Misratah, ma respinge le accuse al mittente: “Tutto quello che dicono è falso” dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre 200 detenuti. Abu ‘Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto un dire. Dopo una lunga insistenza, insieme a un collega della radio tedesca, Roman Herzog, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. Ci dividiamo. Intervisto F., 28 anni, da 24 mesi chiuso qua dentro. Mentre lui parla mi accorgo che non lo sto ascoltando, in verità provo a mettermi nei suoi panni. Abbiamo grossomodo la stessa età, ma lui i migliori anni della vita li sta buttando via in un carcere, senza un motivo apparente.

      Dall’altro lato del cortile, Roman è riuscito a parlare per qualche minuto con un rifugiato sottraendosi al controllo degli agenti della sicurezza che vigilano sul nostro lavoro e riprendono con una telecamera le nostre attività. Si chiama S.. Parla liberamente: “Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!” Intanto l’interprete li ha raggiunti e traduce tutto al direttore del campo, che interrompe l’intervista e chiede a S. se per caso non vuole ritornare in Eritrea. Lui risponde di no, intanto Roman lo invita ad allontanarsi a passo svelto e a dire tutto quello che può prima che il direttore li interrompa di nuovo. “Siamo qui da più di due anni, senza nessuna speranza. Siamo tutti eritrei. Io sono venuto in Libia nel 2005. Cerchiamo asilo politico, a causa della situazione nel nostro paese. Ma il mondo non si interessa a noi. Non è facile stare due anni in prigione, senza nessuna comodità. Siamo in prigione, non vediamo mai l’esterno. Tutti noi abbiamo bisogno della libertà, ecco di cosa abbiamo bisogno”.

      La polizia si avvicina nuovamente, Roman chiede a S. di mostrargli la sua stanza. Zigzagando tra la folla nel cortile entrano nel corridoio su cui danno la vista quattro stanze. All’interno, 18 ragazzi siedono su coperte e materassini di gommapiuma stesi sul pavimento. La stanza misura quattro metri per cinque. Al centro, una pentola gorgoglia sopra un fornellino da campeggio. Non ci sono finestre. “Siamo in troppi qui, è sovraffollato – dice S. – non vediamo la luce del sole e non c’è ricambio d’aria. Con il caldo d’estate la gente si ammala. E anche di inverno, fa molto freddo di notte, la gente si ammala”. Siamo a fine novembre, e i ragazzi indossano ciabatte da mare e leggeri pullover. La stanza accanto è più grande, ci sono solo donne e bambini, ma sono almeno il doppio.

      A quel punto gli uomini della sicurezza interrompono l’intervista e portano Roman fuori dal cortile, dove gli presentano un rifugiato scelto dal direttore... “Sono anche io un prigioniero” gli dice. Ma lui preferisce parlare con J.. Ha 34 anni e dice di essere stato in 13 prigioni diverse in Libia: “Alcuni di noi sono qui da quattro anni. Personalmente sono a Misratah da tre anni. Siamo nella peggiore delle situazioni. Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perchè? Visto che nessuno ci informa. Che cosa sta succedendo là fuori? Diteci che cosa sarà di noi! Nemmeno l’Acnur. Non ci dicono mai niente. Non ho più speranza, quando ci vado a parlare nemmeno mi ascoltano. Pesavo 60 kg quando sono entrato, adesso ne peso 48, immagina perchè..”

      Il colonnello Abu ‘Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. “Vuoi ritornare in Eritrea?” chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. “Preferisco morire – gli risponde – tutti preferirebbero morire. “Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno” minaccia il direttore. “Ci vietano di parlare con te” dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia “Dite loro che li rimpatrieremo tutti!”. Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: “Finito!”. Roman cerca di protestare, “abbiamo finito” gli ripette Abu ‘Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. “Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perchè siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?” chiede alla folla. “Nessuno!” gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega “Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito”.

      Saliamo di nuovo nell’ufficio del colonnello, che con toni molto nervosi cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate – come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur), oppure provare a scappare.

      Haron ha 36 anni. A casa ha lasciato una moglie e due bambini. Dall’Eritrea è scappato dopo 12 anni di servizio militare non retribuito. Dopo due anni di detenzione a Misratah, la Svezia ha accettato la sua richiesta di reinsediamento. E’ partito tre giorni dopo la nostra visita, il 27 novembre 2008, con un gruppo di altri 26 rifugiati eritrei del campo di Misratah, tra cui molte donne. I posti lasciati vuoti saranno presto riempiti con i nuovi arrestati. Già la settimana scorsa sono arrivate otto donne. I reinsediamenti sono le uniche carte che l’Acnur riesce a giocare, da un anno a questa parte, in Libia. Le prime 34 donne eritree lasciarono il campo di Misratah nel novembre del 2007 e furono accolte dall’Italia, a Cantalice, un piccolo comune nella campagna di Rieti. Per l’Italia fu il primo reinsediamento ufficiale di rifugiati dai tempi della crisi cilena del 1973. Ma l’operazione venne censurata dagli uffici stampa del Ministero dell’Interno, per non sollevare polemiche tra i leghisti. Insieme alle donne arrivarono 5 uomini e una bambina nata pochi giorni prima.

      Da allora, circa 200 rifugiati sono stati trasferiti da Misratah in vari paesi. Oltre all’Italia (70), anche in Romania (39), Svezia (27), Canada (17), Norvegia (9) e Svizzera (5). A snocciolarmi i dati è Osama Sadiq. E’ il coordinatore dei progetti della International organisation for peace care and relief (Iopcr). Una importante ong libica, che si dichiara non governativa, ma che tanto indipendente non deve essere, visto che ha al suo interno ex funzionari del ministero dell’interno e della sicurezza. E che è talmente influente, che l’Acnur riesce a entrare a Misratah soltanto sotto la sua copertura. Proprio così. In un paese dove transitano ogni anno migliaia di rifugiati eritrei, ma anche sudanesi, somali ed etiopi, l’Acnur conta meno di una ong. Non ha nemmeno un accordo di sede. E non riesce a spendere una parola a livello internazionale per la liberazione dei 600 prigionieri di Misratah. Probabilmente a dettare la linea politica dell’Acnur in Libia sono fragili equilibri diplomatici da non rompere per non rischiare di farsi cacciare da un Paese che non ha nemmeno mai firmato la Convenzione di Ginevra. Eppure la Libia sta conoscendo una importante fase di apertura. E il governo lavora a una nuova legge sull’immigrazione che però – secondo chi ha letto la bozza - non contiene nessun riferimento alla protezione dei rifugiati.

      Per quelli che non rientrano nei progetti di reinsediamento dell’Acnur, non rimane che l’ennesima fuga. Koubros è uno di loro. Lo incontriamo sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. E’ scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Dove è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare 300 dollari dagli amici eritrei in città. Siede vicino a Tadrous. Anche lui eritreo, anche lui disertore in fuga dal suo paese. E’ uscito due settimane fa dal carcere di Surman. Era stato condannato a cinque mesi di galera dopo essere stato trovato in mare con altri 90 passeggeri, a Zuwarah. In carcere si è preso la scabbia. Gli chiediamo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. Dice che è pericoloso. Gli eritrei vivono nascosti. La nostra presenza potrebbe allertare la polizia e provocare una retata. Y. però la pensa diversamente, vive in una zona diversa. Lo seguiamo.

      Scendiamo in una traversa sterrata di Shar‘a Ahad ‘Ashara, l’undicesima strada, a Gurgi. Qui vivono molti immigrati africani. L’appartamento è di proprietà di una famiglia chadiana, che ha affittato a sette eritrei le due piccole stanze sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. E’ un posto sicuro, dicono, perchè l’ingresso della casa passa dall’appartamento della famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar‘a ‘Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima si correvano a nascondere. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera.

      Continuiamo a parlare delle loro esperienze nelle carceri libiche. Ognuno di loro è stato arrestato almeno una volta. E tutti sono usciti grazie alla corruzione. Basta pagare la polizia, da 200 a 500 dollari, per scappare o per non essere arrestati. I soldi arrivano con Western Union, grazie a una rete di solidarietà tra gli eritrei della diaspora, in Europa e in America.

      Anche Robel è stato a Misratah. C’ha passato un anno. Ci mostra il certificato di richiedente asilo rilasciato dall’Acnur. Scade l’11 maggio 2009. Ma con quello non si sente al sicuro. “Un mio amico è stato arrestato lo stesso, glielo hanno strappato sotto gli occhi”. Durante la detenzione, ha scritto un appello alla comunità internazionale, con un gruppo di sei studenti eritrei.

      Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. E’ la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa con Tadrous. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. “L’importante è arrivare nelle acque internazionali”, dice Y.. Gli intermediari eritrei (dallala) che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le email dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Prima della mia partenza per la Libia, un amico etiope mi aveva dato il numero di telefono di un suo compagno di viaggio, ancora a Tripoli, un certo Gibril. Ho provato a chiamarlo per tutto il tempo, ma il numero era spento. Nell’orecchio mi risuona ancora l’incomprensibile messaggio vocale in arabo. Speriamo che sia arrivato in Italia, o piuttosto a Misratah. E non in fondo al mare.


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/libia-siamo-entrati-misratah-ecco-la.html

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      Frontiera Sahara. I campi di detenzione nel deserto libico
      SEBHA - “Con noi c’era un bambino di quattro anni con la madre, durante tutto il viaggio mi sono domandato: come si può mandare una madre con un bambino di quattro anni insieme ad altre cento persone stipate come animali in un camion come quelli per la frutta, dove non c’è aria e dove stavamo stretti stretti, senza spazio per muoversi, per 21 ore di viaggio, dove le persone urinavano e defecavano davanti a tutti perché non c’era altra possibilità? Abbiamo viaggiato dalle 16:00 alle 13:00 del giorno dopo. Durante il giorno ogni volta che l’autista faceva una sosta per mangiare noi rimanevamo chiusi dentro il rimorchio sotto il sole. Mancava l’aria e tutti si alzavano in preda al panico perché non si respirava e volevamo scendere. Guardare il bambino ci faceva coraggio. Quando il camion si fermava lo prendevamo e lo mettevamo vicino al finestrino. Si chiamava Adam. Il camion si è fermato almeno tre volte nel deserto per far mangiare gli autisti e per la preghiera... Verso l’una siamo arrivati a Kufrah… Quando sono sceso ho rubato il burro con il pane che tenevano appeso fuori dal container. Non avevamo mangiato per tutto il viaggio, eravamo 110 persone, compreso Adam di quattro anni e sua madre”. [1]

      Menghistu non è l’unico a essere stato chiuso dentro un container e deportato. In Libia è la prassi. I container servono a smistare nei vari campi di detenzione i migranti arrestati sulle rotte per Lampedusa. Ne esistono di tre tipi. Il più piccolo è un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio. Quando un rifugiato eritreo, nella primavera del 2006, me ne parlò per la prima volta, stentai a crederlo. L’immagine di centinaia di uomini, donne e bambini rinchiusi dentro una scatola di ferro per essere concentrati in dei campi di detenzione e da lì deportati, mi rievocava i fantasmi della seconda guerra mondiale. Mi sembrava troppo. Ma la figura del container ritornava, come un marchio di autenticità, in tutte le storie di rifugiati transitati dalla Libia che avevo intervistato dopo di lui. Finché quei camion ho avuto modo di vederli con i miei occhi.

      A Sebha ce n’è uno per ogni tipo. Siamo alle porte del grande deserto libico, nella capitale della storica regione del Fezzan. Da qui, fino al secolo scorso passavano le carovane che attraversavano il Sahara. Oggi alle carovane si sono sostituiti gli immigrati. Il colonnello Zarruq è il direttore del nuovo centro di detenzione della città. È stato inaugurato lo scorso 20 agosto. I tre capannoni si intravedono oltre il muro di cinta. Ognuno ha quattro camerate, in tutto il centro possono essere detenute fino a 1.000 persone. Nel parcheggio sterrato, è parcheggiato un camion con uno dei container utilizzati per lo smistamento degli immigrati detenuti. Con una pacca sulle spalle, il direttore mi invita a salire sulla motrice. Un Iveco Trakker 420, a sei ruote. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato ieri sera da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Entriamo nel container, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra in questa scatola di ferro. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra, sotto le panche di ferro. Su una c’è scritto Gambia.

      L’acqua è il bagaglio essenziale per i migranti che attraversano il deserto. Ognuno prima di partire si porta dietro una o due taniche. Le riveste di juta per proteggerle dal sole e ci scrive su il proprio nome per riconoscerle una volta appese ai lati dei camion. Nelle traversate del Sahara la vita è appesa a un filo. Se il motore va in panne, se il camion si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono a decine ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Sulla stampa internazionale abbiamo censito almeno 1.621 vittime in tutto il Sahara. Ma stando alle testimonianze dei sopravvissuti, ogni viaggio conta i suoi morti. E ogni viaggio conta i suoi attacchi da parte di bande armate in Niger e Algeria.

      Tra i cento migranti arrivati a Sebha nel container di ieri c’è anche una famiglia di Sikasso, in Mali. Padre, madre e bambino. Arrestati tre giorni prima, a Ghat, alla frontiera con l’Algeria. Li incontriamo nell’ufficio del direttore. Il piccolino ha otto anni, faceva la terza elementare. Il padre lo stringe affettuosamente tra le forti braccia, mentre racconta in arabo, al nostro interprete, che lui in Europa non ci voleva andare. Che era venuto a Sebha perché aveva già lavorato qui nel 2002, con una compagnia tedesca. Hanno con sé i passaporti, ma senza il visto libico. Nel campo sono chiusi in celle separate. Il bimbo sta con la madre. I loro nomi compaiono sulle liste dei prossimi aerei pronti a partire. Nei primi undici mesi dell’anno, soltanto da Sebha, hanno deportato più di 9.000 persone, soprattutto nigeriani, maliani, nigerini, ghanesi, senegalesi e burkinabé. Solo a novembre i rimpatri sono stati 1.120. Zarruq mi mostra l’elenco dei voli: 467 nigeriani deportati il 2 settembre, 420 maliani a metà novembre. Le ambasciate mandano qui i loro funzionari per identificare i propri cittadini, e poi si provvede al rimpatrio. Kabbiun e Ajouas hanno già incontrato l’ambasciata nigeriana. I piedi di Kabbiun sono scalzi. Lo hanno arrestato a Ghat, le scarpe le ha lasciate in mezzo al deserto. Ajouas invece viveva a Tripoli da sei anni. Nessuno di loro ha visto un giudice o un avvocato. Avviene tutto senza convalida e senza nessuna possibilità di presentare ricorso e tantomeno di chiedere asilo politico.

      È il caso di Patrick. Viene dalla Repubblica democratica del Congo, recentemente tornata alle cronache per la crisi nella regione del Kivu. È stato arrestato un mese fa a Tripoli, mentre cercava lavoro alla giornata sotto i cavalcavia di Suq Thalatha. Possiamo parlare liberamente in francese, perché l’interprete non lo conosce. Mi porge un foglio spiegazzato dalla tasca. È il suo certificato di richiedente asilo politico. Rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) a Tripoli, il nove ottobre 2007. Qua dentro è carta straccia. Come gli altri detenuti, Patrick non ha diritto di telefonare a nessuno, nemmeno all’Acnur. Se non trova prima i soldi per corrompere qualche poliziotto, anche lui, prima o poi, sarà deportato. E come lui i suoi compagni di cella. Sono camerate di otto metri per otto. I detenuti sono buttati per terra su stuoini e cartoni. La luce entra dalle vetrate in cima alle alte pareti. Ogni camerata è riempita con 60-70 persone. Stanno chiusi tutto il giorno, escono solo per i pasti, in un locale adibito a mensa, accanto a un piccolo chiosco dove i detenuti possono comprare bibite, dolci o medicine, sempre all’interno del muro di cinta.

      Le compagnie aeree che si occupano delle deportazioni sono libiche: Ifriqiya e Buraq Air. I soldi pure, garantisce il direttore. Ma è difficile credergli. Dopotutto il rapporto della Commissione europea del dicembre 2004 parlava già allora di 47 voli di rimpatrio finanziati dall’Italia. Zarruq scuote il capo. Dice che da Roma hanno avuto soltanto due fuoristrada per il pattugliamento, con il progetto Across Sahara. E il nuovo centro di detenzione? Ha finanziato tutto la Libia, insiste. Ammette però che l’Italia si era impegnata a costruire un nuovo centro, e che la a sha‘abiyah, la municipalità, aveva anche predisposto un terreno. Ma poi non se ne è fatto niente. Intanto però il vecchio campo è stato restaurato e ampliato, grazie anche ai lavori forzati degli immigrati detenuti. Questo Zarruq non me lo può dire, ma sono voci che corrono tra i rimpatriati, dall’altro lato della frontiera, a Agadez, in Niger. Ad ogni modo, insiste, oggi tutti i rimpatri avvengono in aereo, anche quelli verso il Niger: Sono passati i tempi dei cosiddetti “rimpatri volontari”, quando, nel 2004, oltre 18.000 nigerini e non solo vennero caricati sui camion e abbandonati alla frontiera in pieno deserto, con le decine di vittime che ne seguirono a causa degli incidenti.

      Ma Zarruq non ha intenzione di parlare di questo. E nemmeno il luogo tenente Ghrera. È lui il responsabile delle pattuglie nel Sahara. L’Italia e l’Europa si sono impegnate a finanziare alla Libia un sistema di controllo elettronico delle frontiere terrestri, firmato FinMeccanica. Lui alla sola idea sorride. Lavora nel deserto da 35 anni. Conosce bene il terreno. Per darci un’idea ci accompagna a Zellaf, 20 km a sud di Sebha. Ancora non siamo nel grande Sahara. Eppure davanti a noi non si vede che sabbia. I due fuoristrada, dopo una corsa a cento km all’ora sulle dune, fermano i motori. Ghrera e l’altro autista, ‘Ali, si lavano le mani nella sabbia. E si inginocchiano verso est. Dopo la preghiera, si riavvicinano. Controllare le rotte nel Sahara è impossibile, dice. Sono 5.000 km di deserto. Un’area troppo vasta e un terreno troppo accidentato Gli 89 autisti – quasi tutti libici – arrestati nei primi undici mesi del 2008 sono un’inezia rispetto alle migliaia di persone che attraversano il Sahara ogni anno. Alle missioni di pattugliamento partecipano gruppi di 10 fuoristrada. Stanno fuori per cinque giorni, ci spiega. Poi sorride. Ha trovato una bottiglia vuota di Gin, per terra. L’alcol in Libia è illegale. E infatti sulla bottiglia c’è scritto fabriqué au Niger, prodotto in Niger. Ghrera lancia la bottiglia nella sabbia, poco lontano. Non dice niente. I traffici non riguardano solo gli immigrati. Ci sono l’alcol, le sigarette, la droga, le armi. Prima di riaccendere il motore ribadisce il concetto: anche con il doppio delle pattuglie, il deserto rimane una porta aperta.

      Il centro di detenzione di Sebha non è l’unico campo di detenzione al sud. Ce ne sono almeno altri cinque. Quelli di Shati, Qatrun, Ghat e Brak, nel sud ovest del paese, fanno capo a Sebha, nel senso che gli immigrati arrestati in queste località vengono poi smistati a Sebha dentro i container. L’altro campo si trova 800 km a sud est, a Kufrah, e lì vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan. È il carcere che gode della peggiore fama, tra gli stessi libici.

      Mohamed Tarnish è il presidente dell’Organizzazione per i diritti umani, una ong libica finanziata dalla Fondazione di Saif al Islam Gheddafi, il primogenito del colonnello. Ci incontriamo al Caffè Sarayah, a due passi dalla Piazza Verde, a Tripoli. La sua organizzazione, sotto la guida del suo predecessore, Jum‘a Atigha, ha ottenuto il rilascio di circa 1.000 prigionieri politici e si è battuta per il miglioramento delle condizioni delle carceri libiche. Da un paio d’anni hanno accesso anche ai centri di detenzione degli immigrati. Ne hanno visitati sette. Ha la bocca cucita, davanti a noi c’è un funzionario dell’agenzia per la stampa estera del governo libico. Ma riesce comunque a farci capire che il centro di Kufrah è il peggiore. Le condizioni del vecchio fabbricato, il sovraffollamento, la scadenza del cibo e l’assenza di assistenza sanitaria.

      Per capire il significato delle allusioni di Tarnish, rileggo le interviste fatte ai rifugiati eritrei ed etiopi nel 2007.“Dormivamo in 78 in una cella di sei metri per otto” - “Dormivamo per terra, la testa accanto ai piedi dei vicini” - “Ci tenevano alla fame. Un piatto di riso lo potevamo dividere anche in otto persone” - “Di notte mi portavano in cortile. Mi chiedevano di fare le flessioni. Quando non ce la facevo più mi riempivano di calci e maledivano me e la mia religione cristiana” – “Usavamo un solo bagno in 60, nella cella c’era un odore perenne di scarico. Era impossibile lavarsi” - “C’erano pidocchi e pulci dappertutto, nel materasso, nei vestiti, nei capelli” - “I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti”. È il ritratto di un girone infernale. Ma anche di un luogo di affari. Sì perché da un paio d’anni la polizia è solita vendere i detenuti agli stessi intermediari che poi li porteranno sul Mediterraneo. Il prezzo di un uomo si aggira sui 30 dinari, circa 18 euro.

      Non sono stato autorizzato a visitare il centro di Kufrah e non ho potuto verificare di persona. Tuttavia il fatto che le versioni dei tanti rifugiati con cui ho parlato coincidano nel disegnare un luogo di abusi, violenze e torture, mi fa pensare che sia tutto vero. Nel 2004 la Commissione europea riferiva che l’Italia stava finanziando il centro di detenzione di Kufrah. Nel 2007 il governo Prodi smentiva la notizia, dicendo che si trattava di un centro di assistenza sanitaria. Poco importa. Dal 2003, Italia e Unione Europea finanziano operazioni di contrasto dell’immigrazione in Libia. La domanda è la seguente: perché fingono tutti di non sapere?

      Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, informava il Copaco: “I clandestini [in Libia, ndr.] vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”. Ma i funzionari della polizia italiana sapevano già tutto. Già perché dal 2004 alcuni agenti fanno attività di formazione in Libia. E alcuni funzionari del ministero dell’Interno, hanno visitato in più occasioni i centri di detenzione libici, Kufrah compreso, limitandosi a non rilasciare dichiarazioni. E l’ipocrita Unione Europea? Il rapporto della Commissione europea del 2004, definisce le condizioni dei campi di detenzione libici “difficili” ma in fin dei conti “accettabili alla luce del contesto generale”. Tre anni dopo, nel maggio 2007, una delegazione di Frontex visitò il sud della Libia, compreso il carcere di Kufrah, per gettare le basi di una futura cooperazione. Indovinate cosa scrisse? “Abbiamo apprezzato tanto la diversità quanto la vastità del deserto”. Sulle condizioni del centro di detenzione però preferì sorvolare. Una dimenticanza?

      [1] Testimonianza raccolta dalla scuola di italiano Asinitas, Roma, 2007


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/frontiera-sahara-i-campi-di-detenzione.html

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      Guantanamo Libia. Il nuovo gendarme delle frontiere italiane

      La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e dall’Unione europea.

      I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: “Aiutateci!”. Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C’è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l’Italia siglò con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare questi centri.

      “La gente soffre! Il cibo è pessimo, l’acqua è sporca. Ci sono donne malate e altre incinte”. Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l’arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora, lui nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti dai nuovi gendarmi della frontiera italiana.

      All’Europa invece aveva pensato Y.. C’aveva pensato e come. Disertore dell’esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due mesi fa per Lampedusa. Ma è stato fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d’arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa cenno di sì col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde “Everything is good”. Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono concentrati i prigionieri di nazionalità eritrea.

      Nella provincia esistono altri tre centri di detenzione per stranieri, a Khums, Garabulli e Bin Ulid. Ma sono strutture più piccole e i detenuti vengono poi tradotti nel campo di Zlitan, che può rinchiudere fino a 325 persone, in attesa del loro rimpatrio. Ma quanti sono i centri di detenzione in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, ne abbiamo contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums… dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah… Prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata sostituita dal Twaisha, un’altra prigione vicino all’aeroporto.

      Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro e ha pensato all’Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora l’hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti alla chiesa di San Francesco, a Tripoli. Come ogni venerdì, una cinquantina di migranti africani aspetta l’apertura dello sportello sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se gli fu dato un avvocato d’ufficio. Sorride scuotendo la testa. La risposta è negativa.

      Niente di strano, sostiene l’avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell’ordine degli avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza nessuna base legale dunque, ma solo sull’onda dell’emergenza. Anche in Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un mandato d’arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.

      “I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del Mediterraneo. L’Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno vuole parlare dei loro diritti”. Anche Jumaa Atigha è un avvocato di Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto penale dell’Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal 1999 ha presieduto l’Organizzazione per i diritti umani della Fondazione guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla liberazione di 1.000 prigionieri politici. Ci descrive un paese in rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c’è nessuna legge sull’asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta occupando di scrivere un nuova legge sull’immigrazione.

      Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal 1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia libica. “Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia”.

      Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia all’Università El Fatah di Tripoli. “Non è un problema di razzismo. I libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia”. Attir sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel 1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione - sostiene -, e sono educati al concetto di punizione.

      Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina, ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale. Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia, migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani. E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione, di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell’Hiv.

      Il professor Attir, nel 2007, ha organizzato tre seminari sul tema dell’immigrazione nei paesi arabi. In Libia è uno dei massimi esperti. Ed è pronto a smentire la cifre che circolano in Europa. “Due milioni di immigrati in Libia pronti a partire per l’Italia? Non è vero”. In realtà non esistono statistiche di nessun tipo. Ma solo stime. Che però – secondo Attir – non sono attendibili. Basta dare un occhio in giro. La popolazione libica è di cinque milioni e mezzo di persone. Gli stranieri non possono ragionevolmente essere più di un milione, compresi gli immigrati arabi egiziani, tunisini, algerini e marocchini. La maggior parte di loro non ha mai pensato all’Europa. E la Libia ha bisogno di loro, perché è un paese sottopopolato e perché i libici non vogliono più fare lavori pesanti e mal retribuiti. Attir è consapevole delle pressioni che l’Europa sta facendo sulla Libia perché sigilli le sue frontiere. Ma sa che “non c’è modo per farlo”.

      La Libia ha circa 1.800 km di costa, in buona parte disabitati. Il colonnello Khaled Musa, capo delle pattuglie anti immigrazione a Zuwarah, non sa che farsene delle sei motovedette promesse dall’Italia. Potrebbero servire a pattugliare meglio il tratto di mare tra la frontiera tunisina, Ras Jdayr, e Sabratah, ammette. Ma sono solo 100 km. Il 6% della costa libica. E le partenze si sono già spostate sul litorale a est di Tripoli, tra Khums e Zlitan, a più di 200 km da Zuwarah. Il dipartimento anti immigrazione di Zuwarah è nato nel 2005. Il numero di migranti arrestati è sceso da 5.963 nel 2005 a soli 1.132 nel 2007. Per il capo del dipartimento investigazioni, Sala el Ahrali, i dati indicano il successo delle misure repressive. Molti degli organizzatori dei viaggi sono stati arrestati, questo sarebbe il motivo per cui le partenze si sono ridotte. E la costa è più controllata. Ogni dieci chilometri è installata una tenda, in mezzo alla spiaggia. Serve da appoggio ai fuoristrada della polizia, che da due anni pattugliano la litoranea, appoggiati da quattro motovedette della marina. Il tratto di costa attualmente pattugliato è di una cinquantina di chilometri. Parte da Farwah, a una decina di chilometri dalla frontiera tunisina, e finisce 15 km a est di Zuwarah, a Mellitah, nei pressi dell’imponente impianto di trattamento del gas di proprietà dell’Eni e della libica National Oil Company.

      E proprio da Mellitah parte il #Greenstream, il gasdotto sottomarino più lungo del Mediterraneo. Collega la Libia a Gela, in Sicilia. Ironia della sorte, corre lungo la stessa rotta che porta i migranti a Lampedusa. Come dire che mentre sulla superficie del mare l’Europa dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri umani, otto miliardi di metri cubi di gas ogni anno scorrono silenziosi nei 520 km di condotta posata sui fondali di quello stesso mare, in mezzo alle ossa delle migliaia di uomini e donne morti nella traversata del Canale di Sicilia. Un’immagine che sintetizza perfettamente le relazioni degli ultimi cinque anni tra Roma e Tripoli, condotte all’insegna dello slogan “più petrolio e meno immigrati”.

      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/guantanamo-libia-il-nuovo-gendarme.html
      #gazoduc

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      Liens qu’il a mis aujourd’hui sur FB pour accompagner ce message:

      Non conosco nessuno dell’equipaggio di #Lifeline, la nave della ONG accusata dal ministro Salvini di aver agito fuorilegge soccorrendo 239 passeggeri in difficoltà in acque libiche. Purtroppo però conosco bene le carceri libiche. Fui il primo giornalista italiano a visitarle nel 2008 insieme al collega e amico Roman Herzog. Abusi, pestaggi, violenze sulle donne erano la norma già allora. Gli unici che si salvavano erano quelli che riuscivano a farsi mandare abbastanza soldi dai familiari in Europa con cui corrompevano facilmente le guardie colluse con le mafie del contrabbando per farsi rilasciare e tentare di nuovo la traversata. Gli altri, dopo mesi di prigione in condizioni inumane venivano rimpatriati sui voli dell’OIM oppure, molto più spesso, stipati come vuoti a rendere dentro i container dei camion che prendevano la via del deserto, per decine di ore, mentre sotto il sole le lamiere di ferro diventavano un forno, per essere infine abbandonati alla frontiera sud con il Niger e il Sudan, in una terra di nessuno. E quanti ne sono morti anche lì, in mezzo al Sahara. Con molti giornalisti e documentaristi abbiamo denunciato questa situazione fin dal 2007. Da quando Prodi e Amato negoziarono gli accordi di respingimento con Gheddafi a quando Berlusconi e Maroni li misero in pratica nel 2009. Da allora sembra non essere cambiato molto. E allora, pur non conoscendoli, mi azzardo a pensare che l’equipaggio della #Lifeline abbia disobbedito all’ordine di consegnare i passeggeri alla guardia costiera libica temendo per il destino di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini, immaginando il triste destino che li attendeva nelle prigioni oltremare.

      Dopodiché se il comportamento della #Lifeline costituisca un reato lo deciderà un giudice anche alla luce di queste considerazioni. Perché quello che il ministro Salvini si dimentica di ricordare è che la Libia non è Malta, non è la Spagna, non è la Francia. La Libia di oggi non è un paese sicuro.

      Ciononostante, attenzione, gli sbarchi devono cessare. Ma come si fa?

      Si aprono vie legali. Perché, ministro, da contribuenti italiani non vogliamo finanziare altre prigioni in Libia. Vogliamo finanziare asili nido, scuole, parchi, ospedali. Non vogliamo continuare a finanziare le milizie colluse con le stesse mafie del contrabbando che dite di voler combattere.

      Per sconfiggere quelle mafie, azzerare gli sbarchi e porre fine alle tragedie delle traversate c’è un unico modo: legalizzare l’emigrazione Africa-Europa. Perché fin quando quell’emigrazione sarà illegale, ci sarà qualche mafia pronta a lucrarci. Oggi i libici, domani gli egiziani o i tunisini. Il mare è grande e incontrollabile.

      La soluzione sarebbe così semplice che è incredibile credere che i vostri consiglieri non ve l’abbiano prospettata. Andate in Europa e chiedete a gran voce che le ambasciate UE in Africa riaprano i canali legali dei visti che hanno progressivamente chiuso in questi ultimi vent’anni, spingendo centinaia di migliaia di giovani nelle mani del contrabbando libico a cui abbiamo concesso il monopolio della mobilità sud-nord in questo mare.

      Calcolate quante persone ogni anno attraversano il mare per rimanere bloccati in Italia, senza documenti e senza lavoro. Calcolate quanti sono e rilasciate lo stesso numero di visti per ricerca di lavoro. Affinché quelle stesse persone possano comodamente imbarcarsi in aereo, con in tasca un passaporto e un visto europeo liberi di circolare in tutta Europa, ricongiungersi con i propri familiari e cercare lavoro là dove il lavoro c’è, in quel centro e nord Europa che in questi anni ha importato milioni di lavoratori dall’est mentre noi a sud predicavamo il blocco navale e continuavamo a contare i morti.

      In caso contrario, signor ministro, siate più chiari. Dite semplicemente che di negri in Europa non volete vederne. Né per le vie legali né per quelle illegali.

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2121309374549318&id=100000108285082

    • La zona SAR libica non esiste. Il grande inganno nel rimbalzo dei soccorsi

      "Una zona SAR libica ad oggi non esiste”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di immigrazione, membro del direttivo di Osservatorio Solidarietà. “E non esiste in quanto il governo di Tripoli non ha soddisfatto i requisiti imposti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) per il riconoscimento delle zone SAR”, aggiunge l’avvocato.

      I requisiti consistono nell’accordo tra lo Stato che si pone come responsabile delle operazioni di salvataggio in una propria area di mare l’Organizzazione marittima internazionale (IMO). A quel punto i dati della zona SAR devono essere inseriti in un database ufficiale e pubblico, il GISIS. A marzo, in seguito al caso Open Arms, Famiglia Cristiana aveva fatto una verifica con l’IMO e la risposta ricevuta era stata: “La Libia non ha inviato le sue informazioni”.

      “Quasi tutte le operazioni di soccorso in acque internazionali nelle ultime settimane sono state coordinate dal Comando della Guardia costiera italiana proprio perché la Libia non esiste come paese unitario e non ha un Comando centrale unificato”, aggiunge Vassallo Paleologo.

      “Ma tutto è cambiato dal caso Aquarius”. Infatti da alcuni giorni anche sul sito dell’IMO compare il riferimento alla zona SAR libica “ma continua a non esistere uno stato unitario e anche le guardie costiere delle diverse città rispondono a milizie diverse“, avverte l’avvocato. “Alla fine il risultato è che il trasferimento di competenze ai libici e l’allontanamento delle Ong produce un ritardo nei soccorsi, un amento delle vittime e delle persone riportate nei centri di detenzione in Libia dove continuano gli abusi”.

      Esiste invece una zona SAR maltese. Ma Malta ha dichiarato unilateralmente la sua zona di ricerca e soccorso, un’area molto ampia che però non è riconosciuta dalle autorità marittime internazionali poiché il Governo de la Valletta non ha mai sottoscritto alcune modifiche della convenzione di Amburgo del 1979 e della convenzione #Solas introdotte nel 2004. Queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati coordinati dall’Italia. Quindi, in base al diritto internazionale e alla prassi i soccorsi coordinati dall’Italia hanno sempre indicato un porto di sbarco italiano.

      http://osservatoriosolidarieta.org/la-zona-sar-libica-non-esiste-il-grande-inganno-nel-rimbalz
      #Malte #SAR

    • Conséquences pour les droits de l’homme de la « dimension extérieure » de la politique d’asile et de migration de l’Union européenne : loin des yeux, loin des droits ?

      Les objectifs de la délégation des procédures de migration aux pays en dehors des frontières de l’Union européenne sont, entre autres, d’alléger la pression migratoire des États membres aux frontières de l’UE et de réduire le besoin des migrants d’entreprendre des voyages terrestres et maritimes potentiellement mortels. La réinstallation dans toute l’Europe devrait ensuite faciliter un afflux plus régulier sur le continent. Cependant, le transfert des responsabilités et l’engagement de pays tiers dans le renforcement de contrôles aux frontières de l’UE comportent de sérieux risques pour les droits de l’homme. Il augmente le risque que les migrants soient « bloqués » dans les pays de transit par la réadmission et le recours accru à des mesures punitives et restrictives telles que le refoulement, la rétention arbitraire et les mauvais traitements. C’est également un moyen pour de nombreux États membres de l’Union européenne de prendre leurs distances par rapport à la question de l’assistance et de l’intégration des réfugiés, qui est source de divisions politiques.

      Ce #rapport exhorte les États membres à œuvrer ensemble pour que le recours accru à des politiques de dissuasion ne porte pas atteinte au devoir des États européens de respecter et de défendre les droits de l’homme à l’échelle mondiale et à s’abstenir d’externaliser le contrôle des migrations vers les pays où la législation, les politiques et les pratiques ne respectent pas les normes de la Convention européenne des droits de l’homme et de la Convention des Nations Unies relative au statut des réfugiés.

      http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-fr.asp?fileid=24808&lang=fr

    • Sahel, la France en guerre ?

      Au Mali, alors que la campagne pour les élections présidentielles du 29 juillet bat son plein, l’insécurité liée au terrorisme grandit. La France a-t-elle encore un rôle a jouer ? Elle a depuis 2013 une forte présence militaire entre le Sahel et le Sahara, mais quelle place tient-elle dans la guerre contre le terrorisme ?

      Sahel, la France en guerre ? Par David Dominé-Cohn ntoine de Saint-Exupéry dans Terre des hommes (1939) dresse le portrait des officiers français des compagnies méharistes au Sahara. Développées à partir de 1897 par le commandant Laperrine, ces unités d’infanterie, relevant pour partie de la Légion étrangère, apparentées aussi aux spahis, ont effectué un travail de police et de contrôle des populations des oasis. Chez l’écrivain, le capitaine Bonnafous exerce son autorité, fascinante pour l’observateur occidental, dans un mélange d’héroïsme, d’humanité et d’extrême violence : « À cause de Bonnafous chaque pas vers le sud devient un pas riche de gloire »… et d’insurrections des populations locales.

      Les grandes formes historiques semblent se reproduire dans le désert. Depuis 2013, la France entretient une présence militaire entre le Sahel et le Sahara : 4500 hommes au printemps 2018. Avec 500 opérations en trois ans et demi, l’objectif affiché est d’abord de maintenir la pression sur les groupes terroristes et d’apporter un soutien à la population locale. Les attaques terroristes sur place sont l’occasion de s’interroger sur l’espace du Sahara et du Sahel comme étant redevenu un espace majeur d’action militaire de la France. Témoignant dans le livre de David Revault d’Allones, Les guerres du président (2015), Sacha Mandel, plume de Jean-Yves Le Drian, revendique le terme de guerre pour ce qui a causé, pour la France 22 morts et des dizaines de blessés et des centaines morts et de blessés pour les adversaires. Or peut-on faire la guerre au terrorisme ?

      Faire la « guerre au #Mali » puis faire la guerre au #terrorisme

      L’intervention française au Mali avec l’opération Serval commence le 11 janvier 2013 pour soutenir l’État malien dans la reprise des villes du pays contrôlées par une alliance entre le MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad) touareg, qui réclame le développement et l’indépendance du Nord du pays, l’Azawad, et des mouvements islamistes comme Ansar Dine et le MUJAO (Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest) et d’autres issus de la guerre civile algérienne des années 1990 comme AQMI. Les opérations militaires françaises, appuyées par les forces des États voisins, visent d’abord à sécuriser Bamako, comme l’affirme le président Hollande le 15 janvier aux Émirats Arabes Unis. La boucle du fleuve Niger est reprise entre le 22 et le 28 janvier, la ville de Gao le 25. Le 27 janvier par une opération aéroportée de la Légion, Tombouctou est contrôlée, puis Kidal le 30. En février et mars les forces avancent vers le nord, vers Tesslit et Tigharghâr, pendant que Gao connaît un regain de violence et d’actes terroristes kamikazes comme dans la nuit du 9 au 10 février. Un effort important est fait pour séparer les mouvements de l’Azawad des islamistes. Ainsi, le général tchadien Mahamat Idriss Déby Itno déclare le 11 janvier à RFI que ses troupes, qui occupent la ville, entretiennent de bonnes relations avec le MNLA. Le 2 février, dans un discours à Bamako, François Hollande considère l’action française comme inachevée et se donne comme objectif l’éradication du terrorisme. Les opérations antiterroristes scandent toute la seconde moitié de l’année 2013 et le début de 2014. Le 1er août 2014, l’opération Serval et l’opération Épervier au Tchad sont regroupées dans l’opération Barkhane qui porte sur l’ensemble de la bande sahélo-saharienne. Michel Galy (La guerre au Mali. Comprendre la crise au Sahel et au Sahara. Enjeux et zones d’ombre, 2013) rappelle que l’intervention française s’inscrit à la fois dans une forme de tradition française et dans un contexte général de transformation de la région. Au-delà de la remise en cause du mode de gouvernement du président Amadou Toumani Touré, les différents mouvements indépendantistes ou djihadistes s’inscrivent dans des enjeux régionaux où pèsent certains voisins du Maghreb, les puissances d’Afrique de l’Ouest et de toutes les grandes puissances mondiales occidentales ou orientales. Elles sont attentives au développement des mouvements terroristes se revendiquant de l’islam mais aussi à une région de plus en plus stratégique, jeune, au sous-sol très riche et qui sera un foyer de peuplement du XXI siècle.

      De la ligne de front à une ligne de postes

      Barkhane est devenue une opération de surveillance anti-terroriste d’un territoire immense à partir de postes avancés en liaison avec les forces locales. Le 18 avril 2018, Michel Cambon, président de la commission sénatoriale des affaires étrangères, de la défense et des forces armées souligne que dans ce cadre, la stratégie française est celle de « coups de poing » menées par des forces spéciales basées à Ouagadougou grâce au dispositif Sabre. Celui-ci est ancien, plus ancien que Barkhane et Serval. Dans le livre blanc de défense et de sécurité nationale en 2008, la désignation de l’arc de crises, allant de l’Océan atlantique à l’Océan indien entraîne la mise en place d’un plan Sahel qui comporte un large volet anti-terroriste. Comme le souligne Jean- Christophe Notin (La guerre de la France au Mali, 2014), la composante essentielle de ce volet est le prépositionnement d’unités dites Sabre de forces spéciales. Elles ont joué un rôle au début de Serval dans la protection des sites nucléaires du Niger et ont participé aux opérations Serval et Barkhane. Le soutien à la lutte anti-terroriste est un moyen majeur d’influence des grandes puissances en Afrique. Les États-Unis sont ainsi très présents depuis 2007 via leur commandement pour l’Afrique (Africom) ; la qualification de terroriste permet à chacun de se trouver un ennemi commun. Le passage d’une logique d’action militaire de reprise d’un territoire à une action de surveillance, de police et de contre-terrorisme se traduit par de nouveaux besoins en matériel, comme le souligne le sénateur Cambon : « les hélicoptères lourds, les véhicules de type quad/pickup pour la mobilité, les ISMI catcher pour l’écoute des GSM, la biométrie, la capacité « drones » ». Il conclue son rapport par « un message assez clair et assez pessimiste » : une opération militaire ne réglera pas un problème politique.

      Le terrorisme persiste largement dans la région. Le Groupement de Soutien à l’Islam et aux Musulmans, qui fédère plusieurs groupes djihadistes, dont Ansar Dine, des katibats d’al-Qaïda au Maghreb islamique et d’al-Mourabitoune, lance régulièrement des attaques contre les forces dans la région. Le 2 mars 2018, deux attaques à Ouagadougou au Burkina Faso ont fait 8 morts et une soixantaine de blessés. Le 14 avril, le GSIM a lancé une attaque « complexe » avec une quinzaine d’attaquants à Tombouctou contre la force Barkhane et la Mission des Nations unies au Mali. Le groupe a revendiqué son action comme une réponse à des raids aériens. Le 5 juillet, Emmanuel Macron évoque un redéploiement du dispositif français. Le bureau pour l’Afrique de l’Ouest et le Sahel de l’ONU soulignait dans un rapport du 29 juin la montée en capacité des mouvements terroristes autant que le possible resserrement des liens entre les différents mouvements djihadistes violents avec une extension de leurs zones d’activité. La réduction des adversaires à des mouvements avant tout terroristes mais mobiles et circulant dans un large territoire a conduit à un renouvellement des logiques d’action : le droit de poursuite au-delà de la frontière est nécessaire. Créé en février 2014, le G5 regroupe le Mali, le Niger, le Burkina Faso et le Tchad. Il vise le développement régional et la lutte contre le terrorisme. Cependant l’objectif d’une force commune actée en novembre 2015 peine à se réaliser et il a fallu attendre juin 2017 pour que l’ONU salue sa mise en place. Les financements sont aujourd’hui très insuffisants par rapport aux immenses besoins nés des contraintes du territoire. La France occupe donc de fait un rôle central dans la réalisation d’opérations de contreterrorisme par sa capacité très supérieure dans les domaines du renseignement, de la mobilité et de la frappe. Dans un milieu désertique, un espace que l’on traverse, l’action militaire est une action de contrôle de flux qui entraîne soit l’enlisement, soit des reconfigurations politiques, militaires et institutionnelles profondes. La criminalisation des personnes circulant dans de tels espaces est une stratégie classique de contrôle. Pour Hélène Claudot-Hawad (Galy, La guerre au Mali, 2013), la question Touareg a été construite tout au long de la colonisation : à partir des années 1910, l’administration française déploie un projet de tribalisation dans le but de contrôler des groupes et des circulations dans la bande sahélo-saharienne. La question des Touaregs est restée problématique pour les pouvoirs issus de la décolonisation. A l’aube de la décennie 2000 les tensions sont fortes d’autant plus que les organisations régionales de contrebande rejoignent une partie des mouvements islamistes.

      L’envers de la lutte contre les pirates du désert

      Le G5 Sahel se veut l’instrument d’une action régionale centrée sur la lutte anti-terroriste. Le terroriste y est celui qui circule impunément et qui devient ce que Daniel Heller-Roazen a vu dans la figure ancienne du pirate : l’ennemi de tous (L’ennemi de tous. Le pirate contre les nations, 2010, édition originale anglaise 2009). Le pirate brouille la limite entre criminalité et politique : « la piraterie entraine une transformation du concept de guerre. » C’est dans cette perspective qu’on peut lire le rapport du Haut Commissariat des Nations Unies pour les Droits de l’Homme qui dénombre au Mali 1200 violations entre janvier 2016 et juin 2017 faisant 2700 victimes dont 441 morts. Si plus de 70% des violations sont le fait d’acteurs non étatiques on peut, par exemple, s’interroger sur le statut des 150 arrestations administratives faites par les forces de Barkhane. Les « neutralisations » des terroristes, leur mort pendant des combats ou suite à des frappes aériennes, posent également question. Le respect des Droits de l’Homme est en jeu, mais aussi le cadre juridique dans lequel interviennent les troupes françaises. En arrière plan, le rapport de l’ONU pointe que 20% des violations sont le fait des forces de sécurité maliennes. A l’horizon de ce rapport qui suit plusieurs autres avant lui, par exemple celui en mai 2017 de la FIDH « Mali : Terrorisme et impunité font chanceler un accord de paix fragile » souligne les impasses d’une approche centrée sur l’anti-terrorisme et qui ne vise pas un processus politique global dans la région. De ce fait, interroger l’action française au Sahel c’est aussi nous interroger sur le rapport au territoire des autres, particulièrement des pays en développement, le rapport aux flux dans un contexte d’urgence migratoire. Cela questionne les actions militaires futures. Ces engagements sont usants pour les hommes et les matériels et constituent un poids considérable sur notre appareil militaire. Les opérations de lutte contre le terrorisme sont légitimes dans la mesure où la terreur et les actes criminels ne sauraient être tolérés. Il faut mesurer le dilemme moral qui pèse sur tout gouvernant à la tête d’une puissance militaire capable d’une opération pour faire cesser ce qui constitue à un moment donné un scandale moral. Mais il faut admettre que ce qui constitue un scandale moral aujourd’hui s’inscrit dans des problématiques plus vastes et plus anciennes. Oublier que le terrorisme et les terroristes sont les manifestations de problèmes plus larges qu’eux-mêmes, c’est accepter de croire qu’il est possible aujourd’hui, en démocratie de faire la guerre à un mode d’action et à des idées et de gagner. L’aveuglement de certaines grandes puissances face à ces enjeux tient souvent du refoulement de problèmes qui leurs sont propres. Dans un coin du parc Montsouris à Paris, un obélisque commémore le colonel Flatters et ses compagnons tués par des Touaregs en 1881 à Bir el-Garama en tentant de rejoindre le Soudan français par le Sahara. Son expédition était l’aboutissement d’un projet porté depuis 1879 par la commission supérieure du Transsaharien visant à la création d’un chemin de fer allant de l’Algérie à Dakar via le Mali dans une double perspective de contrôle des circulations sahélo-sahariennes et donc des populations y vivant mais aussi des ressources présentes dans la région et pouvant présenter un intérêt colonial. L’échec de la mission Flatters n’a pas limité ces entreprises puisque le contrôle de ces espaces de désert a été un axe politique majeur des autorités coloniales de l’Algérie comme de l’Afrique occidentale française.

      https://aoc.media/analyse/2018/07/11/sahel-france-guerre

      signalé par @isskein via la mailing-list Migreurop

    • États africains, portiers de l’Europe

      À coups de milliards versés par l’Union européenne, les États africains deviennent les nouveaux gardes-frontières du Vieux Continent. Cette vaste enquête menée dans douze pays explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      L’Espagne a été la première à franchir le pas : face à l’afflux de migrants sur les côtes des #Canaries, le pays a décidé de subventionner plusieurs pays d’#Afrique_de_l’Ouest afin qu’ils se chargent d’arrêter à leurs frontières les candidats à l’exil. L’#Union_européenne a emboîté le pas à l’Espagne, en conditionnant l’#aide_au_développement à destination d’une vingtaine de pays africains à un renforcement de ces contrôles. Policiers et militaires européens sont parallèlement envoyés sur place pour aider à briser les routes migratoires. L’UE n’hésite d’ailleurs pas à faire de dictatures comme l’#Érythrée et le #Soudan ses « partenaires » dans la chasse aux migrants. Les véritables gagnants de ces interventions à grande échelle sont les entreprises d’armement et de sécurité européennes, dans lesquelles sont réinvesties les subventions versées. Au fil d’une vaste enquête dans douze pays, Jan M. Schäfer explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      https://www.arte.tv/fr/videos/078195-000-A/etats-africains-portiers-de-l-europe
      #film #documentaire
      #business #armes #armement

      Le documentaire n’est plus disponible sur arte, mais peut être visionné sur Youtube, voici quelques liens actuellement valides :
      https://www.youtube.com/watch?v=IUSIi-qP2pY


      https://www.youtube.com/watch?v=o0nf5c4FOPo

      https://www.youtube.com/watch?v=Hu7VvY5fs7Y

    • La relation dangereuse entre migration, développement et #sécurité pour externaliser les frontières en Afrique

      L’ARCI, dans le cadre du projet de monitorat de l’externalisation des politiques européennes et italiennes sur les migrations – parallèlement à son travail de communication constant sur l’évolution des accords multilatéraux et bilatéraux avec les pays d’origine et de transit, a produit ce document d’analyse pour alerter la société civile et les gouvernements sur les dérives possibles de ces stratégies qui conduisent à des violations systématiques des droits fondamentaux et des Conventions internationales


      https://www.arci.it/documento/la-relation-dangereuse-entre-migration-developpement-et-securite-pour-externali
      #rapport #Soudan #Niger #Tunisie

      In English :
      https://www.arci.it/documento/the-dangerous-link-between-migration-development-and-security-for-the-externali

    • Giochi pericolosi: delocalizzare in Africa le frontiere Ue

      Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

      Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

      La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

      Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

      L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

      Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

      Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

      Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

      Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

      Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

      Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

      L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

      In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

      Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.

      https://left.it/2018/08/07/giochi-pericolosi-delocalizzare-in-africa-le-frontiere-ue

    • Europe Is Making Its Migration Problem Worse. The Dangers of Aiding Autocrats

      Three years after the apex of the European refugee crisis, the European Union’s immigration and refugee policy is still in utter disarray. In July, Greek officials warned that they were unable to cope with the tens of thousands of migrants held on islands in the Aegean Sea. Italy’s new right-wing government has taken to turning rescue ships with hundreds of refugees away from its ports, leaving them adrift in the Mediterranean in search of a friendly harbor. Spain offered to take in one of the ships stuck in limbo, but soon thereafter turned away a second one.

      Behind the scenes, however, European leaders have been working in concert to prevent a new upsurge in arrivals, especially from sub-Saharan Africa. Their strategy: helping would-be migrants before they ever set out for Europe by pumping money and technical aid into the states along Africa’s main migrant corridors. The idea, as an agreement hashed out at a summit in Brussels this June put it, is to generate “substantial socio-economic transformation” so people no longer want to leave for a better life. Yet the EU’s plans ignore the fact that economic development in low-income countries does not reduce migration; it encourages it. Faced with this reality, the EU will increasingly have to rely on payoffs to smugglers, autocratic regimes, and militias to curb the flow of migrants—worsening the instability that has pushed many to leave in the first place.

      https://www.foreignaffairs.com/articles/africa/2018-09-05/europe-making-its-migration-problem-worse?cid=soc-tw-rdr

    • À QUI VA LA FORTUNE DÉPENSÉE POUR LUTTER CONTRE L’IMMIGRATION ?

      La politique migratoire européenne, de plus en plus restrictive, est une aubaine pour de nombreuses sociétés privées. En effet, les Etats européens sous-traitent des pans entiers de la gestion des migrations : surveillance des frontières, construction, entretien, surveillance et gestion de murs et de centres de rétention, délivrance des visas, livraison de repas, etc. Tous les éléments de cette politique coûteuse, inefficace et criminelle, profitent à de grandes entreprises, comme #Bouygues ou #Sodexo, pour ne citer que deux exemples français.

      Les migrations font partie de l’histoire de l’humanité mais les frontières n’ont jamais été aussi fermées qu’aujourd’hui. Les conventions issues des politiques migratoires actuelles ont divisé les migrants en différentes catégories (politiques, économiques, climatiques...) en fonction de la supposée légitimité ou non d’avoir accès au droit d’asile ou à séjourner sur un territoire étranger. « Le migrant économique », qui se déplace pour fuir la misère engendrée par les politiques liées au remboursement de la dette, est la catégorie qui bénéficie du moins de droits et son accès aux territoires extérieurs varie en fonction des besoins de main-d’œuvre ou des politiques de fermetures aux frontières.

      Ainsi, parmi les millions de personnes qui fuient leurs conditions de vie indécentes, celles qui migrent pour des raisons économiques seraient des migrants illégitimes ? Tout comme celles à qui on n’accorde pas le statut de réfugié politique mettant leur vie en péril ? Confrontés à une crise migratoire ou une crise de l’accueil ? Ces flux migratoires liés aux situations économiques sont en grande partie le résultat des politiques d’austérité et d’endettement insoutenables imposés par les Institutions financières internationales et les pays industrialisés du Nord aux pays appauvris du Sud, et par les pays du centre – dont ceux de l’Europe – aux pays de la périphérie. Ces politiques ont eu comme effet d’amplifier le phénomène de la pauvreté, de généraliser la précarité et, par conséquent, des situations d’exils. Les situations qui encouragent l’exode de populations pauvres sont la conséquence d’enjeux géostratégiques liés aux ressources et donc aux richesses, ou sont provoqués par l’hémorragie de capitaux pour honorer le service d’une dette bien souvent entachée d’illégitimité.

      Malmenés par la guerre ou la misère, les candidats à l’exil se retrouvent sur des routes rendues de plus en plus périlleuses par les politiques de gestion de l’immigration irrégulière. En plus d’être extrêmement coûteuses pour les populations qui en supportent les coûts, ces politiques criminalisent les migrants et les forcent à emprunter des voies de plus en plus dangereuses, comme les traversées en mer sur de frêles embarcations et à devoir s’adresser à la mafia des passeurs. Elles sont criminelles, coûteuses et inefficaces. Les murs n’ont jamais résolu de conflits et ne bénéficient qu’aux firmes qui les conçoivent, les construisent et les contrôlent.

      Loin d’adopter une politique d’accueil aux réfugiés conformément au droit international tel que stipulé par la Convention de Genève, les États adoptent des politiques sécuritaires qui bafouent le droit fondamental de liberté de circulation inscrit dans l’article 13 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme |1|. Alors que de nouveaux traités de libre-commerce ne cessent de prôner la libre-circulation des marchandises et des capitaux, les candidats à l’exil font face à des « agences de sécurité » lourdement armées et équipées par les grands industriels qui enfreignent le droit de circulation des laissés-pour-compte. Le fond de la Méditerranée est transformé en véritable fosse commune |2|, les frontières se referment et des murs sont érigés un peu partout sur la planète. Une fois passée la frontière, s’ils ne sont pas déportés vers leur pays d’origine, les migrants s’entassent dans des camps inhumains ou sont enfermés dans des centres de détention |3| qui leur sont dédiés, tels les 260 que l’on compte au sein de l’UE en 2015 |4|. Seule une faible proportion d’entre eux, suivant un fastidieux parcours bureaucratique, parvient à obtenir un droit à l’asile distribué avec parcimonie.

      A quel point les politiques migratoires européennes sont-elles dictées par l’activité de lobbying des entreprises privées de l’armement et de la sécurité ? Avec ces politiques sécuritaires, les migrants sont considérés non plus comme des personnes mais comme des numéros remplissant des quotas arbitraires pour honorer des courbes statistiques irrationnelles satisfaisant bien plus les cours de la Bourse que le bien-être collectif et les valeurs de partage et de solidarité.

      Qu’importent les conditions de travail des employés et les conditions d’accueil des migrants au mépris de leurs droits et de la dignité humaine, de plus en plus d’entreprises privées nationales ou multinationales profitent d’un business en pleine expansion aux dépens de la justice sociale et des budgets de nos États.

      Frontex, une agence européenne coûteuse, puissante, opaque et sans contrôle démocratique

      L’Europe a créé l’espace Schengen en 1985, elle l’a communautarisé en 1997 avec le traité d’Amsterdam. L’objectif annoncé était de créer un espace de « liberté, de sécurité et de justice » au sein de l’Union européenne (UE). Dans les faits, la liberté de circulation au sein de l’Europe a avancé à deux vitesses en fonction des pays et a principalement concerné les marchandises. Au fur-et-à-mesure, l’UE s’est coordonnée pour contrôler ses frontières extérieures en tentant d’appliquer une politique commune et un « soutien » aux pays ayant une frontière extérieure propice à l’entrée de migrants comme la Grèce, l’Espagne ou encore l’Italie. Depuis 2005, L’UE s’est dotée d’un arsenal militaire, l’agence Frontex, pour la gestion de la coopération aux frontières extérieures des États membres de l’Union européenne. Cette agence est la plus financée des agences de l’UE à l’heure où des efforts budgétaires sont imposés dans tous les secteurs.

      Cette agence possède des avions, des hélicoptères, des navires, des unités de radars, des détecteurs de vision nocturne mobiles, des outils aériens, des détecteurs de battement cardiaque... Frontex organise des vols de déportations, des opérations conjointes aux frontières terrestres, maritimes et aériennes |5|, la formation des gardes-frontières, le partage d’informations et de systèmes d’informations notamment via son système EUROSUR, qui a pour objectif la mise en commun de tous les systèmes de surveillance et de détections des pays membres de l’UE, etc. Son budget annuel n’a cessé d’augmenter jusqu’à ce jour : de 19 millions d’euros en 2006, il est passé à 238,7 millions en 2016 ! Les moyens militaires qui lui sont dévolus et son autonomie par rapport aux États membres ne cessent de croître.

      Depuis fin 2015, la tendance vers une ingérence de la Commission européenne dans les États membres s’accentue : La Commission européenne élargit le mandat de Frontex, elle devient « le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes ». Cette nouvelle agence peut dorénavant agir dans le processus d’acquisition d’équipement des États membres. Elle a notamment la possibilité d’intervention directe dans un État membre sans son consentement par simple décision de la Commission européenne. Elle a par exemple la possibilité de faire des « opérations de retour conjoint » de sa propre initiative |6|, l’objectif étant de sous-traiter à l’agence le renvoi forcé des personnes indésirables, à moindre coût mais au détriment du respect des droits humains.

      Migreurop et Statewatch, deux ONG qui défendent les droits des migrants, ont dénoncé une zone de flou entourant l’agence Frontex qui ne permet pas de faire respecter les droits humains fondamentaux : une responsabilité diluée entre l’agence et les États, une violation du droit d’asile et un risque de traitement inhumains et dégradants. La priorité du sauvetage en mer, normalement reconnue à Frontex, passe en second plan face au contrôle militarisé. En novembre 2014, l’Italie illustre dramatiquement cette situation en mettant fin à Mare Nostrum, opération de sauvetage de la marine italienne qui a sauvé des dizaines de milliers de vies en mer. L’opération Triton mise en place par Frontex l’a remplacée avec un budget trois fois moindre, une portée géographique plus limitée et surtout avec un changement de perspective orienté sur le renforcement des frontières plutôt que les missions de recherche et sauvetage en mer |7|.

      Plus Frontex est subventionnée, plus elle délègue à des entreprises privées. Via l’argent public qu’elle perçoit, l’agence s’adresse à des entreprises privées pour la surveillance aériennes mais aussi pour la technologie de pointe (drones, appareils de visions nocturnes…). De nombreuses multinationales se retrouvent à assumer les « services » qui étaient auparavant assumés par les États et pour des questions de rentabilité propre au secteur privé, les coûts augmentent. Le contrôle aux frontières est devenu un business florissant.

      Le complexe militaro-industriel de l’immigration irrégulière un business florissant qui grève les caisses des États

      La dangerosité accrue des parcours profite aux passeurs et aux réseaux criminels auxquels les migrants sont obligés de faire appel, alors que ces mêmes politiques de gestion des flux migratoires disent les combattre. Mais, d’autres secteurs d’activité moins médiatisés tirent un avantage financier bien plus important de l’immigration irrégulière, tellement important qu’on peut se demander s’ils ne font pas tout pour l’encourager ! Pour les gestionnaires des centres de détentions pour migrants ; les sociétés qui y assurent la livraison des repas, la sécurité ou le nettoyage ; les entreprises qui fournissent gardes et escortes de celles et ceux que l’on expulse ; les fabricants d’armes et l’industrie aéronautique ; la technologie de pointe pour la surveillance des frontières ou les sous-traitants pour la délivrance des visas, la crise des migrants constitue une véritable aubaine, voire un filon en or.

      Cette proportion non négligeable de services autrefois du ressort exclusif de l’État est maintenant gérée par de grands groupes privés qui – pour des raisons d’image notamment – s’abritent derrière une kyrielle de sous-traitants. Cette privatisation rampante grève encore plus les caisses des pouvoirs publics, favorise l’opacité et dilue les responsabilités en cas d’incident au cours des interventions, mettant les États à l’abri de violations de la loi, pourtant fréquentes |8|.

      Instrumentalisation de l’aide publique au développement

      L’Union européenne utilise les financements de l’#Aide_publique_au_développement (#APD) pour contrôler les flux migratoires, comme avec le #Centre_d’Information_et_de_Gestion_des_Migrations (#CIGEM) inauguré en octobre 2008 à Bamako au Mali par exemple4. Ainsi, le 10e #Fonds_européen_de_développement (#FED) finance, en #Mauritanie, la formation de la police aux frontières. Pour atteindre les objectifs qu’ils se sont eux mêmes fixés (allouer 0,7 % du revenu national brut à l’APD), certains États membres de l’UE comptabilisent dans l’APD des dépenses qui n’en sont clairement pas. Malgré les réticences des États membres à harmoniser leurs politiques migratoires internes, ils arrivent à se coordonner pour leur gestion extérieure.

      « Crise migratoire » ou « crise de l’accueil » ? L’Europe externalise ses frontières

      À la croisée des chemins entre l’Europe et l’Asie, la Turquie et la Grèce sont des pays de transit pour de nombreux migrants et réfugiés faisant face aux conflits chroniques et à l’instabilité politique et économique du Moyen-Orient. Après avoir ouvert ses frontières en 2015, dans un contexte de crise, l’UE se rétracte, dépourvue d’une réflexion à long terme sur sa politique d’accueil.

      Ainsi, sans grande opposition du gouvernement Tsipras, l’UE signe avec le gouvernement turc un accord visant à contrôler et filtrer l’immigration. L’accord qui entre en vigueur le 20 mars 2016, prévoit de renvoyer en Turquie tout nouveau migrant, réfugiés syriens compris, arrivé en Grèce. Et pour chaque Syrien renvoyé, l’UE réinstallera en Europe, un autre Syrien séjournant en territoire turc. On pourrait croire à un vulgaire arrangement comptable, il n’en est rien. Le rapport est clairement déséquilibré. L’UE a spécifié un quota maximum de 72 000 syriens réinstallés alors que plus d’1 millions ont été refoulés du territoire européen. Par ces échanges déshumanisés, l’UE se donne la liberté de choisir ses immigrés en fonction de ses intérêts économiques. En échange, l’UE promet 6 milliards d’euros à la Turquie, dit vouloir relancer les négociations d’adhésion du pays à l’Union et accélère le processus de libéralisation des visas pour les citoyens turcs. De plus, Ankara s’engage à enrayer le flux migratoire vers l’Europe. En conséquence de quoi, l’argent donné sert bien plus à ériger des murs qu’à accueillir. Déjà, béton, barbelés et militaires s’installent à la frontière turco-syrienne pour consolider l’Europe forteresse.

      D’autres accords ont déjà été conclus en ce sens mais aucun n’avait atteint de tels montants, ni ne comportait de tels enjeux. Le fait qu’il soit conclu directement par l’UE marque également le début d’une nouvelle ère. L’institution eurocrate négocie maintenant au nom et en amont de ses États membres, se substituant aux politiques nationales en termes d’affaires étrangères.Avec cet accord, l’UE se targue de respecter le droit international. Mais autant la Déclaration universelle des droits de l’homme que la Convention de Genève sur les réfugiées stipulent qu’une expulsion ne peut se faire que vers un pays considéré comme sûr. Or, on ne peut décemment pas, à la signature de l’accord, considérer la Turquie comme une terre sûre et accueillante pour les migrants. Le président Erdoğan a en effet entamé une purge sans précédent et se révèle encore plus répressif envers ses opposants politiques, depuis qu’il sait l’Europe dépendante et conciliante. Et il ne suffit pas de fustiger le gouvernement turc. Au cœur même de l’Europe, les murs s’érigent et les politiques autoritaires et xénophobes refont surface.
      Privatisation de la « gestion » des migrations

      Une telle gestion de l’immigration grève les recettes des États pour, in fine, bénéficier aux sociétés privées et leurs actionnaires aux dépens de la satisfaction des services publics essentiels aux populations concernées. Le lobbying de ces sociétés s’inscrit dans une surenchère militariste qui profite aux grandes entreprises du secteur. Au lieu d’investir dans des infrastructures d’accueil dignes et dans la gestion des conflits dont les pays industrialisés sont en grande partie responsables, l’orientation politique de nos dirigeants va dans le sens d’un accroissement des budgets liés à la sécurité et aux polices aux frontières.

      Les flux migratoires constituent non seulement une source de revenus pour les passeurs, mais également, dans des proportions bien plus importantes, un juteux business pour les grandes entreprises, qui rappelons-le, s’arrangent pour payer le moins d’impôt sur leurs bénéfices et accroître les dividendes de leurs actionnaires. Le marché de la sécurisation des frontières, estimé à quelques 15 milliards d’euros en 2015, est en pleine croissance et devrait augmenter à plus de 29 milliards d’euros par an en 2022 |9|.

      Dans un contexte de crise migratoire aiguë, de contrôles exacerbés, de détentions et déportations en forte augmentation, une multitude de sociétés privées se sont trouvé un juteux créneau pour amasser des profits.

      Concrètement, de plus en plus de sociétés privées bénéficient de la sous-traitance de la délivrance des visas (un marché entre autres dominé par les entreprises #VFS et #TLS_Contact), et facturent aux administrations publiques la saisie des données personnelles, la prise des empreintes digitales, des photos numérisées... Comme on pouvait s’y attendre, le recours au privé a fait monter les prix des visas et le coût supplémentaire est supporté par les requérants. Mais les demandes introduites pour obtenir visas ou permis de séjour ne sont pas à la portée de tout le monde et beaucoup se retrouvent apatrides ou sans-papiers, indésirables au regard de la loi.

      La gestion des centres de détention pour migrants où sont placés les sans-papiers en attente d’expulsion est, elle aussi, sous-traitée à des entreprises privées. Ce transfert vers la sphère privée renforce le monopole des trois ou quatre multinationales qui, à l’échelle mondiale, se partagent le marché de la détention. Ainsi, près de la moitié des 11 centres de détention pour migrants du Royaume-Uni sont gérés par des groupes privés. Ces entreprises ont tout intérêt à augmenter la durée d’incarcération et font du lobbying en ce sens, non sans résultats. Ainsi, les sociétés de sécurité privées prospèrent à mesure que le nombre de migrants augmente |10|. En outre, l’hébergement d’urgence est devenu un secteur lucratif pour les sociétés privées qui perçoivent des fonds de certains États comme l’Italie, aux dépens d’associations humanitaires qui traditionnellement prennent en charge les réfugiés.

      En Belgique, entre 2008 et 2012, le budget consacré aux rapatriements forcés - frais de renvois, sans même compter les séjours en centre fermé des quelque 8 000 détenus chaque année - est passé de 5,8 millions d’euros à 8,07 millions d’euros |11|.

      La société française Sodexo a vu les détentions de migrants comme une opportunité d’extension de ses activités dans les prisons. L’empire du béton et des médias français Bouygues est chargé de la construction des centres de détention pour migrants dans le cadre de contrats de #partenariats_publics-privés (#PPP) |12| et l’entreprise de nettoyage #Onet y propose ses services. Au Royaume-Uni, des multinationales de la sécurité telles #G4S (anciennement Group 4 Securitor) |13|, Serco ou #Geo, ont pris leur essor grâce au boom des privatisations. Aux États-Unis, #CCA et GEO sont les principales entreprises qui conçoivent, construisent, financent et exploitent les centres de détention et #Sodexho_Marriott est le premier fournisseur de services alimentaire de ces établissements.

      Certaines sociétés en profitent même pour faire travailler leurs détenus en attente de leur expulsion. Ainsi, au centre de Yarl’s Wood géré par l’entreprise #Serco au Royaume-Uni, le service à la cantine ou le nettoyage des locaux est effectué par des femmes détenues contre une rémunération 23 fois moindre que le salaire pratiqué à l’extérieur pour ce type de tâche (50 pence de l’heure en 2011, soit 58 centimes d’euros). Le groupe GEO, qui en 2003 a obtenu la gestion du camp de Guantanamo « offre » à ses occupants aux centres de Harmondsworth près de l’aéroport d’Heathrow et de Dungavel en Écosse, des « opportunités de travail rémunéré » pour des services allant de la peinture au nettoyage |14|. Ces entreprises ne lésinent pas sur l’opportunité d’exploiter une main d’œuvre très bon marché et sans droits.

      L’immigration rapporte plus qu’elle ne coûte

      Les quelques migrants qui finalement parviennent à destination se mettent alors à la recherche d’un emploi et le pays d’accueil profite d’une main-d’œuvre bon marché dont il s’épargne les frais de formation payée par le pays d’origine |15|. Une telle main-d’œuvre, flexible et exploitable à merci, comble un besoin dont les économies des pays industrialisés ne peuvent se passer si facilement.

      Loin de constituer une menace et contrairement à une idée fausse, les migrations ont généralement un impact positif sur les économies des pays d’accueil. Sur un plan purement économique, d’après l’OCDE, un immigré rapporte en moyenne 3 500 euros de rentrées fiscales annuelles au pays qui l’accueille |16|. Les sans-papiers qui travaillent ont des fiches de paies, souvent au nom de tierce personne et cotisent à une couverture sociale dont ils ne peuvent bénéficier.

      En définitive, s’installe le doute quant aux résultats attendus d’une telle stratégie de gestion des flux de déplacements humains. La politique anti-migratoire mise en œuvre tue, l’Europe compte les morts mais continue à dresser ses barricades. Pourtant les migrations ne sont pas un problème, un fléau en tant que tel contre lequel il faut lutter. Les migrations sont la conséquence des conflits, des persécutions, des catastrophes environnementales, des injustices sociales et économiques dans le monde. Et c’est à ces causes-là qu’il faut s’attaquer, si l’on veut mener une politique migratoire réellement juste et humaine.

      https://www.lautrequotidien.fr/articles/lesprofiteurs
      #privatisation #Frontex

    • Border-induced displacement: The ethical and legal implications of distance-creation through externalization

      Introduction: The role of #distance

      The externalization of European border control can be defined as the range of processes whereby European actors and Member States complement policies to control migration across their territorial boundaries with initiatives that realize such control extra-territorially and through other countries and organs rather than their own. The phenomenon has multiple dimensions. The spatial dimension captures the remoteness of the geographical distance that is interposed between the locus of power and the locus of surveillance. But there is also a relational dimension, regarding the multiplicity of actors engaged in the venture through bilateral and multilateral interactions, usually through coercive dynamics of conditional reward, incentive, or penalization. And there are functional and instrumental dimensions too, concerning the cost-effectiveness of distance-creation (in both ethical and legal grounds) vis-à-vis the (unwanted) migrant, who, removed from sight, is no longer considered of concern to the supervising State,[1] and the range of externalizing policy devices at the service of externalising agents in terms of purpose, format, delivery, and ultimate control.[2] European borders thus (re-)emerge as ubiquitous, multi-modal and translational systems of coercion – as an interconnected network of ‘little Guantánamos’.[3] This, in turn, creates a distance, both physically and ethically, that is utilized to shift away concomitant responsibilities.[4]
      Distance, as the next sections will demonstrate, plays a crucial role as a mechanism not only of dispersion of legal duties, blurring the lines of causation and making attribution of wrongful conduct a difficult task, but also as an artefact of oppression and displacement in itself. It does not prevent (unwanted) migration but rather makes it unviable through legally sanctioned, safe channels, diverting it through ever more perilous routes. The immediate effect of this distance that externalization engenders is at least threefold. First, it leads to the disempowerment of migrants, who are left with no options for safe and legal escape, being instead coerced into dangerous courses operated by smugglers. Second, it legitimizes the actors enforcing externalized control on behalf, and for the benefit, of the European Union and its Member States. Repressive forces in third countries gain standing as valid interlocutors for cooperation, as a result; their democratic and human rights credentials becoming secondary, if at all relevant, as the Libyan case illustrates below. Third, legal alternatives, like the relaxation of controls or the creation of safe and regular pathways, are rejected; perceived as an illogical concession to the failure of the externalization project.
      The final outcome, and what constitutes the focus of this contribution, is the ‘border-induced displacement’ effect,[5] resulting from the combination of the processes of extraterritorialisation and externalization taken together. Border-induced displacement is not equivalent to the original reasons forcing people into exile, but rather functions as a second-order type of (re-)displacement, produced precisely via (the violence implicated in) border control. This then leads to forms of ‘engineered regionalism’, that is, politics re-producing displacement in certain areas closest to the origin of flows.[6] ‘Safe third country’ rules and practices are the main vehicle of this development, discernible also within the EU, where the Dublin System has ‘rulified’ an asymmetric allocation of responsibility for asylum claims to peripheral countries situated at the external common frontiers of the Union, like Spain, Italy and Greece.[7] In the case of externalization, border-induced displacement is then imposed upon already-displaced persons by non-European actors implementing the EU’s pre-emptive control agenda, reinforcing prevailing patterns of exploitation and existing hierarchies of exclusion and subordination.
      The ethical and legal consequences of ‘distance-creation’ are what we turn to analyse in the remainder of this article. Section 2 pays attention to the assumptions and ethical and political-economic dimensions behind this strategy, discussing exit control, coercion, and the democratic legitimization of unelected actors enforcing the EU border within third countries. Section 3 investigates the legal impact of externalization and extraterritorialization, centring on the apparent accountability gaps that it generates, contesting the legality of responsibility dispersion mechanisms. The overall conclusion we reach is that the ‘rulification’ of externalization at EU level does not render it ethically and legally tenable under international law. The ‘lawification’ at EU level of practices inconsistent with human rights is insufficient to render them compatible with international legal standards.
      2. Ethical distance-creation: Examining attempts to justify externalization and border-induced displacement

      Although immigration ethics has thrived as a discipline since its late arrival in the 1980s, debates on border control between cosmopolitanism and liberal nationalism have often remained at an ideational level and generally based on liberal democratic foundations,[8] thus overlooking the composite ways through which border control is realized and experienced on the ground. This includes practices of externalization and extra-territorialization. Often, the assumptions guiding ethical debates on border control have reproduced a territorially trapped gaze, circumscribed by methodological nationalism,[9] which, through a set of idealized premises, reduces the complex and transnational dynamics of displacement and border control to a phenomenon of mis-placement between territorially bordered societies.[10] Such reduction is marred by what can be called reactive and regionalist postulations. These view border control, first, as a manifestation of State agency, and, second, as only a response to migration flows. Third, they naturalize the containment of displacement within certain regions, perceiving the phenomenon as geographically and morally distant from Europe.
      But immigration ethics is far from alone in reproducing methodological nationalism and reactive and regionalist conjectures, as these mirror prevailing paradigms about the relationship between displacement and borders.[11] However, it is instructive, nonetheless, to examine European externalization by applying existing ethical debates about the democratic legitimacy, coercion, and rights of border control to the issue of externalization.[12]
      2.1. The democratic legitimacy question

      One fundamental debate has concerned the democratic legitimacy of border control as such. Assuming that freedom and democracy are instrumentally valuable for securing individual autonomy, a principled concern is that the coercive aspects of border control amount to violations of autonomy when they happen without the consent of those exposed to them. In order for border control to be legitimate from a liberal democratic perspective, it would have to be justifiable to non-members – however the demos may initially be defined – through a deliberative process.[13] Yet, proponents of border control might argue that access to asylum procedures can resolve this concern, if asylum applications are seen as granting such deliberative voice to them. Although this debate has only concerned an undifferentiated notion of border control, we can extend it to the politics of externalization, if we imagine proponents to argue that, if externalized control is able to respect individual autonomy, it might also be deemed democratically legitimate.[14] The strength of such an argument will then depend on the meaning and function of externalization.
      European externalization processes occur when European Member States, through bi-, multi- or supranational venues, complement policies of controlling cross-border migration into their territories with pre-emptive initiatives realizing such control extra-territorially and/or through sub-contracting to actors and agencies other than their own.[15] Externalization has been discussed in terms of policy transfer, issue-linkages, and ripple effects,[16] but, crucially, its dynamics apply also to intra-European relations. For many years, the Dublin system has served to transfer the border control burdens of North-Western Member States to South-Eastern ones, causing heated discussions about lacking solidarity,[17] similar to those between European and non-European countries.[18]
      Justifications offered for externalization oscillate between grammars of securitized control and humanitarian care.[19] For instance, the June 2018 proposal by the EU ministers about ‘controlled centres’ and ‘regional disembarkation platforms’, whereto ‘boat migrants’ can be deported, is framed as an innovative idea allowing Member States both to ‘stem illegal migration’ and simultaneously save vulnerable migrants by breaking the ‘business model’ of smugglers and traffickers purportedly in accordance with human rights and the rule of law.[20]
      Yet, the 2018 externalization proposal is not as innovative as it may seem. Between the 1980s and mid-2000s, five very similar – and similarly controversial – externalization proposals were put forth by the British, Danish, Dutch, and German governments and by the European Commission. And they all revolved around externalized centres in Eastern Europe and North Africa whereto EU Member States would send asylum seekers or interdicted ‘boat migrants’. The terminologies varied from ‘regional protection areas’ by the British, ‘processing centres’ by the Danes, ‘reception centres’ by the Dutch, ‘EU reception centres’ by the German, and ‘Regional Protection Programmes’ (RPPs) by the European Commission.[21] All but the RPP proposal focused on administrative deportation from European territory, so that, as put by the Blair government, ‘refoulement should be possible and the notion of an asylum seeker in[land] should die’.[22] By 2005, the German proposal had dropped any talk of extraterritorial asylum processing and moved on to identifying Libya as a promising collaborator for pre-emptive containment.[23] In light of the concurrent dysfunctional intra-European dynamics of the Dublin system, the proposals between 1986 and 2018 illustrate how the externalization logic has long been invoked as a magic remedy to the Dublin ills, always couched in crisis-laden and emergency-driven rhetoric, while also holding out vague promises of protection.
      Externalization can be criticized for co-opting protection in favour of methods of ‘consensual containment’ that re-produce displacement in regions neighbouring the EU.[24] For instance, especially since 2017, Italy and the EU have pursued a policy of transferring search and rescue to the so-called Libyan Coast Guard (LYCG), thereby effectively turning missions into operations of exit control. It is due to their material contribution and close involvement in the internal command-and-control structure of the Libyan forces that the LYCG performed 19,452 pull-backs in 2017.[25] Political discourses on externalization can, however, be seen as arguing that this kind of regionalist engineering creates ‘protection elsewhere’ based on three claims, popular in ethical discussions on border control within liberal national regimes. In the following, we analyse them through standing ethical debates about coercion and prevention, peoples’ rights to enter and exit territories, and democratic legitimacy.
      2.2. Coercion: From ‘protection elsewhere’ to ‘protection nowhere’

      First comes the claim that border control, and thus also its externalized manifestations, is not illegitimately coercive, because it is only preventive. Here, coercion has been referred to as when individuals are forced to do a specific thing, while prevention is taken to mean when they are forced not to do a specific thing.[26] Second comes the aforementioned argument that border control can be legitimate when agreed upon democratically.[27] Third follows the statement of an entry/exit-asymmetry signifying that people’s rights against one State not to prevent them from exiting its territory is held to be morally paramount, but that it does not entail an equally forceful obligation on any other State to let them enter their territory.[28]
      Combining these claims, we then arrive at a ‘protection elsewhere’ argument maintaining that externalization is legitimate, since agreed to by all governments involved, and because it preserves displaced persons’ rights through extraterritorial asylum processing. Even if the policy may block their movement, this argument goes, it only prevents them from entering European territory, while still allowing them to find protection elsewhere, after having exited their own country. The zero-sum game effect that the generalisation of this policy would generate goes unaverted – if all countries did the same there would be ‘protection nowhere’.[29]
      But this argument is categorically flawed. Its definitions of coercion and prevention are problematic and rest upon a disconnect between abstract assumptions about border control guiding liberal nationalistic immigration ethics and the actual reality of displacement and European border surveillance, discounting its concrete effects on the ground. EU externalization practices yield extremely coercive checks amounting to violent regimes of exit control, also contravening the legally-sanctioned right – assumed in debates on immigration ethics – to leave one’s own country.[30] That is, even if one, for the sake of argument, assumes the right to exit to hold more value than that of entry – since at international law one is universally applicable while the other is only opposable to one’s own country[31] – actual externalization practices still violate not just the latter, but also the former.[32] The containment of migrants in Libyan detention structures, for instance, reveals an abusive regime that bars access to asylum. Amnesty International has counted twenty reports from reliable monitors, including UN and EU sources, attesting to this reality.[33] The abject brutality facing displaced persons, contained and circulated through externalization, can only be labelled non-coercive prevention from a Eurocentric, and extremely abstract vantage point. In truth, they cause suffering on such a scale that they may amount to atrocity crimes, according to the ICC Prosecutor,[34] and, as the UN High Commissioner for Human Rights has put it, they constitute ‘an outrage to the conscience of humanity’ – at least as far as the situation in Libya is concerned.[35] Collaborative border infrastructures are endowed with the power to coerce at a distance, with externalization leading to practices of ‘remote control’ that extraterritorially negate access to the European asylum systems to those (theoretically) entitled to international protection,[36] literally ‘trapping’ migrants in a constant ‘cycle of abuse’.[37]
      Nevertheless, even if the ethical ‘protection elsewhere’ argument must be rejected as an invalid justification for current European externalization policies the reasons for it are instructive. Seeing how externalization produces highly coercive collaborative regimes of exit control makes clear the problematic ramifications of the reactive and regionalist assumptions on which it rests. Conventional views on international relations and forced migration see the displacement to which borders respond as induced by conflicts or developmental or environmental factors.[38] Yet, while attention to the causes of displacement is important, this model embraces borders as only reactive to – rather than also constitutive of – displacement. But this is wrong. A range of border practices and infrastructures, performed at or beyond the physical frontiers of the EU, such as interdiction, detention, and deportation, do not just react to, but also in themselves cause displacement, by diverting flows towards increasingly dangerous routes and by multiplying death ratios at sea and at border zones.[39] This ‘border-induced displacement’, therefore, challenges the regionalist and reactive premise that the production of forced migration is primarily a problem created outside European territory and agency and contests the structural incorporation of (foreseeably lethal) coercion as a legitimate mechanism of border control.
      EU-Libyan relations, since the 2000s, illustrate how externalization has built the infrastructures enabling this kind of coercive re-displacement. This problematizes prevailing assumptions still dominating immigration ethics and politics, namely that the agency of border control consists of States’ discretion over movement across their territorial borders. Externalization underscores the need to consider more composite notions of agency – and thus responsibility – decoupled from national territories, and spanning several governments, organisations as well as non-state actors.
      The decades-long European-Libyan collaboration on border control is a case in point. After the European Commission decided to lift its arms embargo against Libya in 2004, two ‘technical missions’ followed. The first, in 2004, was meant to ‘identify concrete measures for possible balanced EU-Libyan cooperation particularly on illegal immigration’ and the second, in 2007, to develop ‘an operational and technical partnership’ for extraterritorial border control.[40] The case of Libya is but one example of how European externalization policies have facilitated the transformation of European border control into a flourishing market of violent deterrence and containment,[41] with little to do with a rights-based protection paradigm, and also how third countries’ control apparatuses have become a lucrative export venture for the arms-, security-, and IT-industries of the EU Member States.[42]
      2.3. Trading in rights for border control

      Companies like Spanish Indra, British BAE Systems, Italian Leonardo, French Thales and Ocea, Dutch Damen, German Rheinmetall and Airbus all compete for contracts to expand the capacity for surveillance and control of not just Libya, but also other Eastern European, North African and Middle Eastern countries collaborating on EU externalization. In 2012, an industrial consulting actor valued the global border industry at €25.8 billion, projecting an increase to €56 billion by 2022.[43] And European sales of patrol boats, jeeps, planes, drones, satellites, helicopters, radar systems and whole surveillance mechanisms for border control purposes were part of the EU export licenses worth €82 billion to the Middle East and North Africa between 2005–2014.[44] This political economy of externalization also applies to the industries of EU partner countries. For instance, in 2016, the EU channelled more than €83 million to contracts with Turkish Aselsan and Otokar to provide heavily armoured vehicles placed, respectively, at the Greek-Turkish border and the newly constructed 911 kilometre border-wall between Turkey and Syria.[45]
      The dynamics reshaping third-country border infrastructures elucidate how borders can function as engines of, rather than just responses to, displacement. This means that arguments for externalization appealing to democratic legitimacy face more problems than merely the barring of access to asylum procedures: First, because when EU Member States use their political-economic leverage to make externalization deals with non-EU countries, they are effectively asking them to replace their own public interest with the EU preference of avoiding asylum seeker flows towards the Member States. Second, because several examples, like the EU collaboration with Libyan actors, including militias and former traffickers, as further discussed in the next section, illustrate how the EU’s externalization partners very often lack democratic legitimacy.[46] EU border externalization entrenches forms of undemocratic governance in third countries, empowering undemocratic actors, transforming their relative weight within domestic structures, and weakening democratic channels of scrutiny, accountability, and power control. Externalization thereby risks creating a vicious cycle, where the influx of arms and funds to those actors willing to enact the European containment agenda grants them political validity, which is then used to undermine not only migrant rights, but also to repress domestic opposition and dissidence and thus destabilize internal democratisation processes. The short-term European goal of preventing asylum seeker flows thereby risks compromising the stated long-term goal of tackling the root causes of displacement,[47] which is sacrificed in the altar of externalised ‘integrated border management’.[48]
      3. Legal distance-creation: The juridical implications of externalization and border-induced displacement

      Externalization has not only been encapsulated in political and policy arguments and practices, but has also been embedded in law through the ‘protection elsewhere’ model. The ‘protection elsewhere’ model ultimately rests on the assumption that refugees and migrants are best served ‘at home’, whether it be in their countries of origin or in the neighbouring region (but away from the EU at any rate). ‘Onward movements’ defy this logic and are thus seriously penalized. Responsibility for reception and asylum has accordingly been delegated (or redirected) to countries proximate to the source of flows, via targeted rules on ‘safe third countries’ and readmission agreements that legalise the practice. But, as stated above, this (re-)allocation of protection duties to peripheral States is also part and parcel of the Common European Asylum System within the EU. The Dublin Regulation enshrines and ‘rulifies’ this vision for the Member States, allowing non-external border countries to deflect responsibility in a legal manner.
      Against this background, EU countries feel legitimized to claim their own irresponsibility vis-à-vis non-Member States,[49] projecting the model onto their external relations and imposing compliance with EU control rules as a matter of course. Fatalities at sea and elsewhere are then presented as the result of disorder and illegality; something avoidable if only (EU) rules were observed and effectively enforced by non-EU partners. The structural conditions imposed by the externalization apparatus, and the injustice that ensues, are usually disregarded or downplayed as unintended collateral damage. The fact that illegality is the only way out of a situation of want or persecution, and that smuggling is the only remaining vehicle to reach safety, is routinely silenced. It is the smugglers who profit of the precarious situation of ‘boat migrants’ – the argument goes. So, the eradication of smuggling and a return to (EU) law and order is portrayed as the solution. The option to relax border control rules and adapt them to the imperatives of human dignity, decriminalising the irregular movement of forced migrants, is not even contemplated. That would be perceived as an illogical concession; a descent into chaos and the negation of the rule of (EU) law. This EU-centric conception of the law is what sustains the externalization edifice and nurtures the collaboration with third countries.
      At the legal-strategic level, externalization politics are accompanied by at least two degrees of ‘irresponsibilitization’, enshrined in, and sanctioned by, EU law: responsibility diffusion and responsibility denial. ‘Diffusion’ refers to the relational dimension of externalization, to situations of multi-actor alliance where the causation chain and attribution operation become unclear, with different agents and organs of different States contributing to a particular (unlawful) result. By contrast, ‘denial’ captures scenarios of outright disclaiming of responsibility, where this is said to belong to a different actor altogether, according to the (usually EU-based) rules in place (or their self-serving interpretation).
      3.1. Responsibility diffusion

      The creation of physical distance, via exit control, disembarkation platforms, holding sites, or reception camps abroad, contributes to ‘irresponsibilitization’ through diffusion. None of the proposals put forth so far clarifies exactly who should be considered responsible for those intercepted in, and repatriated to, Libya or any alternative location hosting the centres. The overall supposition appears to be that EU Member States would ultimately escape the task.[50] But there is some residual notion that European countries could not completely ‘circumvent’ their obligations[51] – albeit without elaboration, even the Legal Service of the European Parliament concedes that migrants sent to disembarkation platforms located outside the territory of the Member States ‘should benefit from the guarantees provided for in the 1951 Geneva Convention […] and in the European Convention of Human Rights’, including the principle of non-refoulement.[52]
      Actually, under international law, ‘no State can avoid responsibility by outsourcing or contracting out its obligations’.[53] Cooperation with third countries does not exonerate EU Member States from their non-refoulement and related duties – both under general customary law and as per the relevant international Conventions.[54] According to the Strasbourg Court, ‘[w]here States establish […] international agreements to pursue cooperation in certain fields of activity’, whatever their legal nature, validity, and intent,[55] ‘there may be implications for the protection of fundamental rights’. With this in mind, it would be ‘incompatible with the purpose and object of the [European Convention of Human Rights][56] if Contracting States were thereby absolved from their responsibility under the Convention in relation to the field of activity covered by such [agreements]’.[57] As a result, ‘[i]n so far as any liability under the Convention is or may be incurred, it is liability incurred by the Contracting State […]’.[58] Despite its cooperation with Libya or any other third country, the independent responsibility of each EU Member State participating in the scheme of externalized migration controls subsists, ‘where the person[s] in question […] risk suffering a flagrant denial of the guarantees and rights secured to [them] under the Convention’.[59]
      Nor would Member States be able to evade responsibility by transferring functions to the UNHCR or the IOM – whatever their support and potential separate liability.[60] ‘Absolving Contracting States completely from their Convention responsibility in the areas covered by such a transfer would [again] be incompatible with the purpose and object of the Convention’, as Strasbourg clarifies. The final effect would be for ‘the guarantees of the Convention [to] be limited or excluded at will thereby depriving it of its peremptory character and undermining the practical and effective nature of its safeguards’,[61] negating the basic premise of the pacta sunt servanda principle.[62] And the same is true in regard to other instruments of international human rights law.
      Even though several actors combine to produce re-displacement, individual responsibility for its effects cannot be deflected. The principle is well established in international law. Article 47 of the ILC Articles on Responsibility of States for International Wrongful Acts (ARSIWA) contemplates precisely the scenario where several States participate in the same internationally wrongful act, stipulating that in such cases ‘the responsibility of each State may be invoked in relation to that act’.[63] Each State retains responsibility and, according to the ILC Commentary, ‘is separately responsible for the conduct attributable to it’. The fact that one or more additional States also contribute to the same act in no way reduces the responsibility of each single country.[64] So, any orders or transfers performed, or orchestrated by, EU Member States will engage their responsibility for any resulting breaches of their international commitments.
      Neither the ‘disembarkation platforms’ proposal, nor any other of the similar initiatives emerged since the 1980s explored above specifies where exactly those repatriated or ‘pulled back’, whether to Libya or other third countries, would be accommodated.[65] It is conceivable that proponents envisage offshore reception centres to be closed, since the ultimate aim is to contain and deter irregular movement.[66] This then entails large-scale, and potentially long-term, detention, in breach of Article 5 ECHR guarantees,[67] which have been recognised to apply extraterritorially, extending to cases of deprivation of liberty abroad.[68] Yet, the border-induced displacement effects of externalization practices, like involuntary retention in international waters, forcible transfer to warships, coercive escorting or imposing of a certain course, constitute restrictions of physical freedom and need to accommodate the legal safeguards of the Convention.[69]
      It is not known whether the ‘disembarkation platforms’ proposal foresees transfers to the country concerned to be automatic. Should that be the case, EU Member States risk incurring direct and indirect violations of the prohibition of collective expulsion and the (non-derogable/non-limitable) protection against refoulement. Regarding the latter, the Strasbourg Court attaches paramount importance to country information contained in reports from independent sources,[70] so that when reliable accounts of the circumstances prevailing in the receiving State make it ‘sufficiently real and probable’ that the general situation entails a ‘real risk’ of ill treatment in the sense of Article 3 ECHR, a refoulement presumption is activated and removal cannot be performed.[71] What is more, on account of the absolute character of Article 3, Contracting Parties must undertake the relevant investigation proprio motu and abstain from actions/omissions that put individuals at risk. As the Court asserted in Hirsi, ‘it [is] for the national authorities, faced with a situation in which human rights [are] systematically violated […] to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return’.[72] So, the Member States concerned are to comply with their non-refoulement obligations proactively, regardless of whether the persons in question seek protection or specifically alert of the dangers faced upon return. The fact that potential applicants fail to request asylum or to formally oppose their removal does not absolve Contracting Parties of their Convention duties,[73] and especially their positive due diligence obligations.
      This includes the requirement to provide access to adequate procedures.[74] Member States must offer a real opportunity for individuals to submit and defend their claims,[75] including an ‘effective remedy’.[76] This requires that the remedy in question be able to ‘prevent the execution of measures that are contrary to the Convention and whose effects are potentially irreversible’. Therefore, ‘it is inconsistent with Article 13 [ECHR] for such measures to be executed before the national authorities [of the Member State concerned] have examined whether they are compatible with the Convention’.[77] In these cases, appeals must have ‘automatic suspensive effect’.[78] And screening on board interdicting vessels or somewhere else offshore cannot satisfy these requirements.[79] Procedural responsibilities, just like substantive guarantees, cannot be deflected, postponed, or negated. The ultimate guarantors of ECHR safeguards are the Contracting Parties, which must ‘secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in [the] Convention’.[80]
      Due diligence commands the dual duty to refrain from any conduct that may result in arbitrary violations as well as the obligation to enact laws and policies that effectively protect individuals against abuse. Following the Human Rights Committee’s recent General Comment on the Right to Life, by analogy, State Parties are required to ‘organise all State organs and governance structures through which public authority is exercised in a manner consistent with the need to respect and ensure [human rights]’. This includes a duty of ‘continuous supervision’ in order to ‘prevent, investigate, punish and remedy’ any harm.[81] As a result, actions such as the ‘sale […] of […] weapons’, and presumably other similar law enforcement and border control equipment, must be preceded by a conscientious examination of its foreseeable impact on human rights.[82] As members of the international community and as subjects of customary law, States must take into account
      ‘their responsibility […] to protect lives and to oppose widespread or systematic attacks on [human rights]’[83] – like those sustained by migrants in Libya.[84] And, in particular, States have an obligation under general international law ‘not to aid or assist activities undertaken by other States and non-State actors that violate [human rights]’.[85]

      All these reasons should lead to the rejection of ‘disembarkation platforms’ and similar initiatives as ‘externalization fantasyland’.[86] EU Member States should not invest in a formula that promotes cooperation with human rights perpetrators and impedes the fulfilment of their pre-contracted obligations – such a course would hardly qualify as a good faith implementation of their binding commitments.[87] Instead, domestic systems of territorial protection should be reinforced, including the necessary intra-EU solidarity and responsibility-sharing mechanisms to make them effective.[88] Physical distance-creation, through off-shoring and outsourcing, does not translate into an erasure or diminution of legal duties. EU rules on ‘safe third countries’ and readmission cannot (unilaterally) undo international standards.[89]
      3.2. Responsibility denial

      Besides tools of responsibility deflection, mechanisms of outright denial of obligations are equally challenging. Usually, the capacitation of third countries’ control infrastructures, mimicking the Schengen ‘integrated border management’ system,[90] is framed as unproblematic. The transfer of funds, know-how, and equipment, as in the cases referred to in the previous section, are considered to emanate from a spirit of solidarity with non-EU partners and to be fully in line with the relevant criteria. The ethical distance between the EU or Member State gifting assets, ceding resources, or providing training and any potential human rights violations that may ensue is taken to preclude liability. There is no intent – no dolus specialis – intervening in the operation. Thus, the denial of responsibility on the European side for the atrocities in Libya, the abuses in Turkey, or the fatalities at sea associated with border-induced displacement, commonly recurs.[91]
      Yet, international law paints a more complex picture.[92] If one considers that it is ‘thanks’[93] to Italy, for instance, that the LYCG continues to exist in any functional form in the post-Kaddafi period,[94] an outright denial of responsibility becomes difficult.[95]
      Especially since the signature of the Memorandum of Understanding between Italy and the Libyan Government of National Accord in February 2017,[96] the delivery of training, equipment, and assets (including the four main patrol vessels employed by the LYCG) has intensified. Italy has created a dedicated ‘Africa Fund’, € 2.5 million of which has been allocated to the maintenance of LYCG boats and the training of their crews.[97] The EU, too, has committed € 46 million to prop up Libyan interdiction capacity.[98] It has been calculated that the total combined investment by Italy and the EU will be € 285 million by 2023,[99] with the EU alone providing € 282 million – most of which via programmes administered, coordinated, or supervised by Italy.[100] In addition, an extension of the Mare Sicuro Operation, named NAURAS,[101] was approved by the Italian Parliament in August 2017, consisting of four ships, four helicopters, and 600 servicemen, of which 70 per cent are deployed at sea, with the other 30 per cent stationed in Tripoli harbour. Their key mission, as declared by the Italian Navy itself, is to ‘establish [the] operational condition[s] for LN/LNCG [i.e. Libyan Navy and LYCG] assets and develop C2 [ie command-and-control] capabilities’. Meanwhile, an ‘ITN [ie Italian Navy] naval asset in Tripoli Harbour [is] acting as LNCC [ie Libyan Navy Communication Centre] and logistic assistance/support hub’, thus assuming the function of a floating maritime rescue coordination centre.[102]
      The nature of the LYCG as a proxy for Italian interdiction has furthermore been confirmed by the judge of Catania adjudicating on the related case concerning the rescue ship Open Arms of the NGO Proactiva. In his decision, the judge takes as proven the crucial role played by Italy in leading LYCG operations. The judge goes so far as to affirm that the interventions of Libyan patrol vessels happen ‘under the aegis of the Italian Navy’ and that the coordination of rescue missions is ‘essentially entrusted to the Italian Navy, with its own naval assets and with those provided to the Libyans’.[103] This corroborates the ‘high degree of integration’ between the two,[104] and the ‘effective control’ exercised by Italy over LYCG operations, making ensuing violations attributable to it.[105]
      The subsequent abuse of those pulled back to Tripoli happens despite Italy’s knowledge of the desperate situation facing migrants in Libya, including widespread and systematic torture, rape, inhuman and degrading treatment, and enslavement. The Deputy Minister for Foreign Affairs himself admitted that ‘taking [migrants] back to Libya, at this moment, means taking them back to hell’.[106] Nonetheless, the interdiction by proxy policy of Italy continues.[107] Amnesty International estimates that there are over 10,000 persons currently held in official detention centres in Libya – all of which funded through EU/Italian money. And, virtually all of them have been brought there as a result of their interdiction at sea by the EU/Italian-equipped and -trained LYCG.[108] Consequently, the combination of control exercised – though ‘contactless’[109] – and the knowledge of the circumstances migrants face should be understood to render Italy answerable for the resulting human rights violations, even if the LYCG is used as a surrogate.
      As per Article 8 ARSIWA, ‘[t]he conduct of a person or group of persons [such as the LYCG] shall be considered an act of a State [i.e. Italy in this case]’, when the group in question ‘is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct’. Taking the Italian Navy and the Judge of Catania’s assertions at face value, the LYCG are to be considered ‘auxiliaries’ of the Italian border machinery deployed extraterritorially, ‘instructed to carry out particular [interdiction] missions abroad’. The Italian Navy conducts the specific operations through its NAURAS effectives exercising coordination as well as command-and-control functions, meaning that the (wrongful) conduct of the LYCG shall be considered ‘an integral part of the operations’ aimed at impeding departures across the Central Mediterranean and thus be attributed to Italy.[110] It is the Italian authorities that locate targets, relay maritime coordinates, and equip and mandate the LYCG to proceed to the interdiction of migrant boats.[111] It is Italy that ‘directs’ the operations in a way that ‘does not encompass mere incitement or suggestion but rather connotes actual direction of an operative kind’.[112] Italian intervention is a sine qua non for the ‘pull-backs’ at sea to materialise, which could not be carried out autonomously by the LYCG.[113] Italy exercises ‘such a degree of control […] as to justify treating the [LYCG] as acting on its behalf’.[114]
      Italy’s involvement in Libyan search and rescue (or rather, interdiction) operations, in different ways and throughout time, rather than just an instance of complicity,[115] engaging indirect responsibility, can thus be characterised as a breach entailing direct responsibility, consisting of a ‘composite act’. Article 15 ARSIWA establishes that an international obligation (of non-refoulement, for instance, and of non-arbitrary interference with the right to leave) may indeed be violated via ‘a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful’. The financing or training of the LYCG alone may be harmless and perfectly licit, but, when taken together and alongside the infiltration of the command-and-control chain of the LYCG by the Italian Navy, the whole, in light of the final outcome of pull-backs, becomes an illicit under international law.
      Italian jurisdiction may indeed be engaged not only in relation to action occurring within its territory and in other areas subject to its ‘effective control’, but, as the Human Rights Committee has stated, also regarding conduct ‘having a direct and reasonably foreseeable impact on the right[s] […] of individuals [abroad]’.[116] The obligation to respect and protect human rights extends beyond territorial domain to all persons subject to its jurisdiction, that is, to ‘all persons over whose enjoyment of the right[s] [concerned] it exercises power’, including ‘persons located outside any territory effectively controlled by the State, whose [rights are] nonetheless impacted by its military and other activities’ – the transfer of money, equipment and enforcement capacity thus acquiring a significance of its own as a possible trigger of independent responsibility for wrongful conduct.[117] Not only the aiding and abetting of human rights violations is of relevance, whatever the form the assistance provided to the LYCG may take (whether commercial, financial, political, or logistical), but also actions (or omissions) that impede the effective enjoyment of human rights – counting the right to leave any country, to seek protection from harm, and to non-refoulement – matter too, from a legal perspective.[118] Following the Legal Service of the European Parliament in the context of its viability analysis of ‘disembarkation platforms’, engagement in any formal or informal arrangement with third countries – including Libya – to finance or contribute to the functioning of externalized structures of migration control ‘have to respect the prescriptions of the relevant provisions of international law’[119] – presumably including those under the ECHR, the ICCPR and general customary norms.[120] Failure to do so flouts the obligations concerned. Direct perpetration of an international wrong is not a pre-requisite for legal responsibility. Indirect contraventions – including via proxy – incur liability as well.[121]
      Distance-creation, through the ‘rulification’ of ‘irresponsibility’ in legal texts or self-seeking effectuations, does not do away with international obligations, nor does it legitimize the suffering it provokes. The EU and its Member States must come to recognise the predictable effect and implications of their externalization agenda. And, alongside the UN Special Rapporteur on Torture, acknowledge that, as currently designed, their ‘migration policies can amount to ill-treatment’.[122] Actually, ‘[t]he primary cause for the massive abuse suffered by migrants […] is neither migration itself, nor organised crime […] but the growing tendency of States to base their official migration policies and practices on deterrence, criminalisation and discrimination’.[123] It is this distinct strategy that causes border-induced displacement, breaches human rights obligations and triggers international legal responsibility.[124]
      4. Conclusion: ‘Rulification’ as the co-option of protection

      ‘Rulification’ does not represent a paradigm shift in European politics, but rather an up-scaling of the logic observable also in proposals pursued from the 1980s and onwards and which have led to the integration of the concepts of ‘first country of arrival’, ‘safe third country’ and maritime interdiction within the legal architecture of the common borders and asylum acquis, the primary purpose of which has been the avoidance of asylum seekers on EU territory. It is the abuse and exploitation entrenched within externalization strategies that engenders border-induced displacement in Europe’s border-region. With EU Member States viewing the opening up of legal escape routes as an irrational concession, the side-effects of externalization are exacerbated as the systemic logic of asymmetric, diffused, and denied responsibility for displaced persons is reproduced further and further away from Europe, and closer and closer to the repressive regimes people attempt to escape from.
      The reactionary and regionalist assumptions underpinning externalization arguments and practices tell a securitized tale of displacements constantly generated and managed far removed from European territory and agency. However, distance-creation strategies, whether ethical, spatial, or legal, belong to the category of ‘policies based on deterrence, militarization and extraterritoriality’, denounced by UN Special Rapporteurs and others, ‘which implicitly or explicitly tolerate [and perpetuate] the risk of migrant deaths as part of an effective control of entry’.[125] As the previous sections demonstrate, the structural nature of externalization problematizes traditional assumptions and debates in immigration ethics and politics. It traps migrants in a ‘vicious circle’ of more control, more danger, and more displacement, where they must rely on facilitators to escape life-threatening perils.[126]
      But smuggling and trafficking is the consequence, rather than the cause, of suffering. Suffering is embedded in the externalization system by design through the vehicle of ‘rulification’, which serves to launder the pernicious (and perfectly foreseeable) impact of extra-territorialised/externalised coercion into ‘law-ified’ (and purportedly unintended) side effects. At the same time, the European transfer of equipment and capacity for control outwards also risks undermining processes of accountability and democratic legitimacy in regions bordering Europe. And the ‘rulification’ of border-induced displacement does not make these implications any more palatable. In the words of UN Special Rapporteur Agnès Callamard, it is simply ‘not acceptable’ to deter entry by endangering life.[127] The fallacy of coercion-based protection needs to give way to an ethically grounded and legally sustainable rights-honouring paradigm. This is not to contest the legal existence of borders or their enforcement, but to challenge the legitimacy of mechanisms through which they are presently enacted in a manner incompatible with the most basic requirements of international law.

      http://www.qil-qdi.org/border-induced-displacement-the-ethical-and-legal-implications-of-distance-
      #responsabilité #déni_de_responsabilité #protection

  • Bonjour à tout·es.

    Craignant qu’un jour, peut-être, qui sait, on ne sait jamais dans la vie, mes commentaires au post de @ninachani vont disparaître car elle décide d’effacer son message... J’ai décidé, aujourd’hui, de copier-coller ici tous les message (yes, je suis folle !) et d’alimenter donc un post qui est le mien et que je peux donc mieux « contrôler ».
    Cela ouvre évidemment le débat (qui probablement est déjà en cours) sur l’archivage et le stockage, les sauvegardes possibles des informations qui circulent sur @seenthis.

    Il s’agit de la longue compilation sur #Briançon et les #réfugiés, que pas mal de seenthisiens suivent.

    J’alimenterais désormais cet argument à partir de ce post.
    A bon entendeur... pour celles et ceux qui aimerait continuer à suivre la situation de cette portion de la #frontière_sud-alpine.

    • « Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige » - Libération

      De 1 500 à 2 000 migrants arrivés d’Italie ont tenté une dangereuse traversée des Alpes depuis trois mois. Traqués par les autorités, ils voient les villageois s’organiser pour leur venir en aide.
      Col de Montgenèvre, à 1 850 mètres d’altitude sur la frontière franco-italienne, samedi soir. Le thermomètre affiche -8 degrés sous abri, il y a près de 80 centimètres de neige fraîche. Joël (1), accompagnateur en montagne, court aux quatre coins de la station de ski située sur le côté français du col. Il croise deux migrants, des jeunes Africains égarés dans une rue, les met au chaud dans son minibus, puis repart. Dans la nuit, un hélicoptère tourne sans discontinuer au-dessus du col : la police de l’air et des frontières ? Depuis des mois, les forces de l’ordre sont à cran sur les cols des Hautes-Alpes. Elles tentent d’intercepter les migrants afin de les reconduire à la frontière où, majeurs ou non, ils sont déposés sur le bord de la route quelles que soient les conditions climatiques.
      Joël trouve trois autres migrants planqués dans la neige, apeurés, grelottant, baskets légères et jeans trempés raidis par le gel, puis sept autres encore, dont plusieurs frigorifiés. La « maraude » du montagnard lui aura permis ce soir de récupérer onze jeunes Africains. Peu loquaces, hébétés, ils disent avoir marché plusieurs heures depuis l’Italie pour contourner le poste frontière de Montgenèvre. Ils arrivent du Sénégal, du Cameroun ou du Mali, tous sont passés par la Libye et ont traversé la Méditerranée.

      Miraculé.
      Joël les descend dans la vallée, à Briançon, sous-préfecture située à 10 kilomètres de là. Ils sont pris en charge par les bénévoles du centre d’hébergement d’urgence géré par l’association Collectif refuge solidarité : bains d’eau chaude pour les pieds, vêtements secs, soupe fumante… Autour de ce refuge, où se succèdent jour après jour des dizaines de migrants, gravitent une centaine de bénévoles, citoyens de la vallée, qui se relaient auprès de ces jeunes hommes, africains dans leur immense majorité. Ces trois derniers mois, ils sont sans doute de 1 500 à 2 000 à avoir transité par Briançon, tous arrivés par la montagne, estime Marie Dorléans, du collectif local Tous migrants.

      Si ce samedi soir tout s’est passé sans drame au col de Montgenèvre (qui reste ouvert tout l’hiver), ce n’est pas le cas dimanche matin du côté du col frontalier de l’Echelle, à quelques kilomètres de là (fermé tout l’hiver en raison de la neige). D’autres maraudeurs, membres comme Joël, du même réseau informel d’une quarantaine de montagnards professionnels et amateurs, découvrent sous le col un jeune Africain originaire de Guinée-Conakry, Moussa. Il est à bout de forces, affalé dans la neige à près de 1 700 mètres d’altitude. Il a perdu ses chaussures : ses pieds sont insensibles, gelés. Il a quitté l’Italie avant l’aube. C’est un miraculé. Les maraudeurs appellent le secours en montagne qui l’héliporte très vite vers l’hôpital de Briançon. Anne Moutte, l’une des accompagnatrices du réseau, multiplie les maraudes depuis un an : « Les soirs où nous ne sortons pas, nous ne dormons pas bien. Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige. Ces jeunes n’ont aucune idée des risques de la montagne, des effets du froid. Ils ne font pas demi-tour. »

      Cache-cache.
      A Névache, le premier village au pied du col de l’Echelle, il y a des mois que l’on vit au rythme de l’arrivée des migrants. Lucie (1) fait partie d’un groupe d’une trentaine de villageois qui se sont organisés spontanément pour les accueillir, en toute discrétion et avec une efficacité remarquable. D’une voix décidée, elle explique : « Ils arrivent en pleine nuit au village, affamés, frigorifiés, épuisés, blessés parfois. On ne va pas les laisser repartir dans la nuit et le froid à travers la montagne ! On les nourrit, on les réchauffe, on leur donne un lit. C’est du simple bon sens, ça coule de source. Notre seul but, c’est qu’il n’y ait pas de morts ni de gelés près de chez nous. »

      Les migrants redoutent les gendarmes qui les reconduisent en Italie. Alors, Lucie et le réseau névachais les gardent le temps qu’ils se retapent et les aident ensuite à gagner la vallée. A pied, en voiture, un cache-cache stressant avec les gendarmes, avec lesquels les rapports sont très tendus. A Névache comme à Briançon, les fouilles de véhicules sont devenues ces derniers mois la règle et les bénévoles surpris avec des migrants à bord de leur voiture sont convoqués pour des auditions, sous la charge « d’aide à la circulation de personnes en situation irrégulière ». Anne Moutte, l’accompagnatrice maraudeuse, s’emporte : « C’est l’Etat, le préfet et les forces de l’ordre qui se rendent coupables de non-assistance à personne en danger ! »

      A lire aussi Migrants : de plus en plus dur

      « Cimetière ».
      Ce week-end, le collectif Tous migrants organisait à Briancon des « états généraux des migrants ». Des débats, des échanges avec le journaliste Edwy Plenel, l’agriculteur activiste de la Roya Cédric Herrou, des chercheurs, des élus, des militants. Marie Dorléans, présidente de Tous migrants, résume : « Nous voulons nourrir le débat sur notre devoir d’hospitalité, sur une autre politique migratoire, mais nous avons aussi un devoir face à une urgence humanitaire. Nous avons tous peur d’un drame sur nos cols. La militarisation massive de la frontière conduit les migrants à des prises de risques inconsidérées. » Ce sont les professionnels de la montagne, accompagnateurs, guides, pisteurs, moniteurs qui ont porté ce dernier message.

      Constitués en un collectif « SOS Alpes solidaires », ils ont regroupé 300 personnes symboliquement encordées sur les pentes du col de l’Echelle dimanche pour lancer un appel solennel : « La Méditerranée ne stoppe pas des personnes qui fuient leur pays. La montagne ne les stoppera pas non plus, surtout qu’ils en ignorent les dangers. Nous refusons que les Alpes deviennent leur cimetière. » Stéphanie Besson, l’un des piliers de l’appel, enfonce le clou : « Nous demandons à l’Etat de nous laisser faire notre devoir de citoyens. Qu’il cesse de nous empêcher de venir au secours de personnes en danger. Que nos cols soient démilitarisés si l’on ne veut pas y laisser mourir ou geler les migrants. » Quelques minutes plus tard, l’hélicoptère du secours en montagne survole la manifestation avec à son bord le jeune Moussa miraculé du jour. Sauvé par des montagnards solidaires et déterminés.

      (1) Les prénoms ont été changés.

      https://www.liberation.fr/france/2017/12/17/peut-etre-qu-au-printemps-on-retrouvera-des-corps-sous-la-neige_1617327/?redirected=1

    • Dans les Alpes, auprès des migrants, «  on va redescendre des cadavres, un de ces jours  »

      Au #col_de_l'Echelle, des habitants viennent en aide aux migrants qui traversent la frontière enneigée au péril de leur vie. Maryline Baumard

      A Névache, la lumière reste allumée longtemps dans les chalets. Les nuits sans lune, elle guide le voyageur vers la maison des veilleurs qui, pour être sûrs de ne pas rater le bruit des coups sur la porte, ne dorment que d’un oeil. Nichée au pied du col de l’Echelle, dans les Hautes-Alpes, à 1 700 mètres d’altitude, cette bourgade de quelque 360 âmes est comme un phare pour le voyageur qui débarque de Bardonnèche, la petite ville italienne de l’autre côté du massif. Ceux que Bernard Leger, 82 ans, appelle « les visiteurs inattendus » .

      Tout au fond, la vallée de la Clarée, aux confins de la France, on est un peu comme sur une île. Autour, l’océan n’est pas bleu mais blanc ; pas liquide, mais neigeux. Mais pour « Jean Gab » (Jean-Gabriel Ravary) ou les autres, « tout ça c’est pareil » , la vague de neige est la soeur de celle qui engloutit les canots de la Méditerranée ; le montagnard, le frère du marin. « On a le même devoir de sauvetage chevillé au corps » , affirme ce guide de haute montagne. Alors, avec une vingtaine d’hommes et de femmes, il recueille les naufragés de la frontière. Gelés, choqués.

      « On leur donne des vêtements, de l’eau, de la nourriture et un lit au chaud, ajoute Bernard Leger. Le lendemain, ils sont encore en état de choc, muets de fatigue. » Avec son « commando humanitaire », cet ancien commandant d’un régiment de chasseurs alpins prépare ensuite la descente vers Briançon, pour rallier la base arrière et « faire de la place aux suivants » . Avec plus de 2 000 migrants accueillis dans la ville depuis juillet, le col de l’Echelle a retrouvé sa vocation séculaire de point de passage entre l’Italie et la France.

      « La mort a tourné autour de nous »

      De plus en plus souvent, ça se gâte avant d’atteindre Névache pour ces jeunes Africains ignorants de la montagne. Chef des urgences de l’hôpital de Briançon, un service qui en a déjà soigné 300 depuis l’été, Yann Fillet est monté deux fois au col le 10 décembre avec le peloton de gendarmerie de haute montagne (PGHM). La seconde fois, en pleine nuit, le médecin a cru halluciner quand il a aperçu « un des gamins pieds nus dehors alors que le thermomètre affichait - 10° » .

      Désormais, cela ne fait plus de doute pour lui, « on va redescendre des cadavres un de ces jours » . D’autres estiment qu’il y en a déjà sous la neige. Des morts de froid et d’épuisement. En ce lundi matin 11 décembre, la salle de surveillance des urgences sur laquelle M. Fillet veille compte six rescapés. Choqués mais saufs. « La mort a tourné autour de nous. Ça ne se raconte même pas, mais j’en ai encore froid dans le dos », susurre Madou, le regard vide. « Sans le villageois venu à notre secours, on ne serait plus là » , complète celui qui dit avoir prié pour cette venue, « et comme dans le canot sur la Méditerranée, Dieu nous a entendus » .

      Pour ceux que les dieux n’entendraient pas, des « virées » secondent la veille des Névachais. C’est Alain Mouchet, accompagnateur en montagne, qui en gère le planning.

      « J’ai trente-cinq bénévoles, explique-t-il. On monte le soir et on attend en silence, cachés, en faisant tout pour que les exilés ne nous prennent pas pour des gendarmes. »

      Le 19 août, Moussa et Ibrahim, deux jeunes Guinéens, sont tombés dans le ravin pour fuir les forces de l’ordre. Une chute de quarante mètres pour Ibrahim, évacué alors à l’hôpital de Grenoble, et désormais en rééducation à Briançon. Lundi, sur son lit de rééducation, l’exilé était triste. Sa voix est tellement affectée par son traumatisme crânien que sa mère venait de pleurer au téléphone, inquiète de ce que l’Europe avait fait de son fils.

      Le jeu du chat et de la souris

      En vertu des accords bilatéraux signés avec l’Italie, les majeurs se voient notifié un refus d’admission sur le territoire. En dépit de la Convention internationale des droits de l’enfant, de nombreux mineurs sont aussi remis de l’autre côté. Avant de recommencer le passage, au risque de se perdre, parce qu’en haut le panneau France a été enlevé, ce qui conduit un certain nombre de migrants vers d’autres passages plus élevés que le col de l’Echelle. Plus dangereux.

      « L’un d’eux a passé cinq jours dans la montagne. Aujourd’hui encore, il est traumatisé de ce qu’il y a vécu, mais ne raconte toujours pas », résume Léna Carlier, bénévole de 18 ans en parallèle de son service civique à la maison des jeunes et de la culture (MJC).

      A-t-il subi des violences policières ? Tout le monde se le demande, car « ici, il y a deux catégories de forces de l’ordre. Ceux qui secourent en montagne et qui sont avant tout montagnards, et ceux qui font du zèle », disent les bénévoles.

      Ici, les citoyens solidaires sont nombreux à avoir été entendus par la gendarmerie pour avoir descendu un migrant de la montagne, l’avoir aidé à continuer sa route. Pourtant, tous s’estiment dans la légalité puisqu’ « ils transportent des demandeurs d’asile qui en plus sont très souvent mineurs » .

      Entre ces centaines de bénévoles et les forces de l’ordre, c’est pourtant le jeu du chat et de la souris, « alors qu’on devrait travailler la main dans la main » , regrette Alain Mouchet. Un sujet dont Bernard Leger et Jean-Gabriel Ravary aimeraient bien parler avec la nouvelle préfète, tout juste nommée.

      « Pas question de laisser qui que ce soit à la rue »

      Cette pression n’empêche pas 150 foyers de s’être portés volontaires pour héberger les plus fragiles. Moussa, le copain d’Ibrahim, vit depuis l’été chez un « couple solidaire » en attendant que son ami remarche. C’était sa seule solution puisque le conseil départemental l’a, comme bien d’autres, décrété majeur - un recours a été déposé. Les moins affectés, ceux pour qui quelques jours de répit suffisent, sont installés à la maison commune du Collectif réfugiés solidaires, la CRS, avant d’acheter un billet de train ou de profiter d’un covoiturage solidaire pour continuer leur route. A la CRS, on est nourri, soigné, vêtu et écouté.

      C’est la municipalité qui a ouvert ce lieu, estimant qu’il n’était « pas question de laisser qui que ce soit à la rue » , comme le rappelle l’ex-PS Gérard Fromm, maire de Briançon, qui a su convaincre la communauté de commune et son conseil municipal. Désormais, sur la toile cirée de la pièce commune, on se réhydrate à coups de thé brûlant, en jouant ou en devisant.

      Francine Daerden, la soixantaine, ne fait que passer mardi soir 12 décembre pour déposer des gâteaux et mélanger la marmite du dîner du soir, qui réchauffe doucement, préparée par une autre citoyenne. « Ici, chacun participe selon ses envies et ses compétences », indique Michel Rousseau, membre de l’association Tous migrants. Il dispose d’une liste de 450 bénévoles impliqués dans cet accueil qui prolonge en bas ce qui est fait au nom de l’urgence sur les cimes. Car à Briançon aussi règne l’« esprit veilleur » et Michel, Béatrice ou Alain accompagnent les exilés dans leurs premiers pas en France.

      Mercredi 13 décembre, à la CRS, Fofana cherchait un pull au vestiaire des dons, avant de rejoindre Chez Marcel, le squat communautaire installé par des jeunes du coin pour permettre un hébergement de plus longue durée. C’est là que Justin va attendre d’être autorisé à déposer sa demande d’asile en France. Un lieu à l’esprit un peu différent, aux relents plus anarchistes, sans doute, mais qui complète bien la Briançon solidaire.

      Un énorme mouvement citoyen

      Dans cette ville de 12 000 habitants, la MJC, qui jouxte la CRS, est pour quelque chose dans le pullulement des solidarités. C’est sans doute la seule de France à avoir géré un centre pour les exilés venus de la « jungle » de Calais. Luc Marchello, son directeur, a compris dès la première heure la nécessité d’un accueil citoyen. Dès l’automne 2015, il lançait un appel qui, plusieurs mois après, a éclos en un énorme mouvement citoyen.

      Parce qu’à Briançon, où se côtoient 35 nationalités, on s’occupe de l’étranger depuis des décennies. En montagnard peut-être, en humain tout simplement puisque la Mission d’accueil des personnes étrangères (MAPEmonde) de la MJC existe depuis quinze ans. Et pour certainement longtemps encore.

      De l’autre côté de la frontière, en effet, dans la petite gare de Bardonnèche, ils étaient quatre, mardi matin, à se réchauffer, avec la France pour horizon. Ibrahim a poussé sa valise jaune dans un recoin et rajuste sa chemise blanche sous sa petite veste noire d’été. Alfa somnole, avachi sur le radiateur, pieds nus dans ses chaussures. En Italie depuis quatre mois, mis dehors de son centre pour migrants près de Rome pour n’avoir pas pointé, il a pris le bus pour Paris, et en a été descendu tôt le matin à la frontière par la police française. Une grande fatigue règne sur la petite gare. Une rage aussi. Celle d’être si près de la France.

      http://www.lemonde.fr/immigration-et-diversite/article/2017/12/16/dans-les-alpes-on-va-redescendre-des-cadavres-un-de-ces-jours_5230716_165420

    • Migrants : « On ne peut pas accepter qu’il y ait des gens qui meurent dans nos montagnes »

      Parce qu’ils ne veulent pas laisser des personnes mourir de froid en traversant la frontière franco-italienne, collectifs et associations, dont « Tous Migrants », ont organisé ce week-end une cordée solidaire. Lors de cette cordée symbolique, ils ont secouru un jeune homme transi de froid, bloqué dans un couloir d’avalanche. #Etienne_Trautmann, qui a appelé les secours et filmé l’hélitreuillage raconte à « l’Obs » comment il a réussi porter secours à Moussa, 22 ans. Tout en insistant : « Je ne me sens pas le héros de ce secours, pour moi le vrai héros c’est Moussa, qui a bravé tous les dangers pour trouver une terre d’accueil plus hospitalière ». Voici son témoignage.

      http://tempsreel.nouvelobs.com/videos/vlz5k3.DGT/migrants-on-ne-peut-pas-accepter-qu-il-y-ait-des-gens-qui-meure

      Transcription d’une partie de l’interview de Etienne Trautmann :

      Etienne Trautmann (dans la vidéo son affiliation est la suivante "Collectif citoyens solidaires professionnels de la montagne) :
      « Nous on ne peut pas accepter qu’il y ait des gens qui meurent dans nos montagnes. Actuellement l’Etat, et je pèse mes mots, essaie de faire en sorte que la solidarité soit un délit. Nous, professionnels de la montagne on dit qu’on ne peut pas accepter cela. On essaie de nous mettre hors-la-loi en arrêtant des gens qui vont faire preuve de solidarité en prenant par exemple en stop des jeunes qui sont frigorifiés, qui ont besoin d’aide, et ça, nous, on ne peut pas l’accepter. Il y a des gendarmes qui interviennent, notamment dans la Vallée de la Clarée, et qui sont clairement là pour attraper les migrants. Il y a 2-3 semaines quand je suis passé, ils étaient dans une petite piste à la sortie d’un pont, et ils essaient d’attraper les jeunes à ce moment-là. Les informations tournent vite. D’une part ils passent par des cols extrêmement dangereux et par exemple ils traversent les rivières, non pas par les ponts, ils traversent avec leurs chaussures… Les pieds mouillés comme cela, je leur donne un quart d’heure avant que les gelures apparaissent et qu’on arrive après à l’amputation. C’est pas possible. »
      Sur le secours de Moussa : "J’ai essayé de lui dire qu’il était en sécurité là où il était, qu’il était pris en charge, qu’il allait pouvoir manger, qu’on allait pouvoir s’occuper de lui. Quand je vous en parle, c’est pas évident, parce qu’en disant cela je sais que je mentais, parce que clairement, car aujourd’hui pour un réfugié, et notamment de 22 ans, majeur, pour lui le parcours de l’enfer, il continue. Il vient de Guinée-Conakry, j’imagine qu’il a dû être confronté à toutes les horreurs qu’on peut trouver en Libye, certainement emprisonné, travailleur de force, la traversée de la Méditerranée certainement dans de mauvaises conditions… Et son parcours de l’enfer il continue ici en France, aujourd’hui. Et il va continuer. On est confronté à une valeur d’humanité, de fraternité, c’est des valeurs qu’en allant à l’école… c’est ces valeurs républicaines qu’on m’a transmises. Et aujourd’hui on me dit « non », mais mes enfants sont à l’école et devant le fronton de la mairie juste à côté c’est ces valeurs qui sont marquées : liberté, égalité, fraternité."

    • Sulle Alpi, da Bardonecchia alla Francia: la marcia drammatica dei migranti per superare il confine

      –-> avec vidéo:

      Per impervi sentieri di montagna, con abiti poco adatti. La pericolosa impresa tentata da tanti ragazzi africani.

      L’accesso alla Francia passa sempre di più da Bardonecchia: con i riflettori puntati su Ventimiglia, e sul Brennero, il viaggio della disperazione dei migranti passa anche tra i monti del Piemonte dove, anche col il gelo, tentano una drammatica marcia verso lo stato transalpino giungendo in valle da Torino e avventurandosi per impervi sentieri che li portino al di là delle Alpi.

      Minute 2’43, témoignage d’un migrant:

      «Quando vai alla frontiera, è impossibile. Non puoi passare. Né a Chiasso né a Ventimiglia. Tutto è impossibile.»


      http://www.corriere.it/video-articoli/2017/12/23/nel-gelo-alpi-la-francia-marcia-drammatica-migranti-superare-confine/afd9df66-e7ff-11e7-ac5e-f4b084532223.shtml

    • Posté par Valerio Cataldi sur FB :

      Bubbaka ha 17 anni e corre come un fulmine.
      Corre nella neve che gli arriva alla vita e gli strappa le scarpe da ginnastica dai piedi. Quando cade chiede aiuto a sua madre, poi si rialza e riparte.
      Bubbaka viene dal Mali. Vuole andare in Francia e nessuno lo potrà fermare. Non lo hanno fermato il deserto, i miliziani libici, il mediterraneo. Neanche la Gendarmerie che lo riporta indietro a Bardonecchia, in Italia.
      Non lo ferma neanche la neve.

      https://www.facebook.com/valerio.cataldi.35/posts/10214953897031357?comment_id=10214954554047782&notif_id=1514213178803818&n

      Lien vers le reportage sur le site de la télé italienne :
      http://www.tg2.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d37b0006-8998-4c51-8222-bf1e31179170-tg2.html

    • Dall’Italia alla Francia. Oltre il muro di neve, in fuga dalla Gendarmerie

      Profughi e attivisti superano a piedi i passi di montagna sfidando le autorità francesi. Almeno 1.500 persone sono già transitate da Bardonecchia.

      Laurent ha un nome francese, un passaporto in lingua francese, si è formato alla scuola statale con libri francesi, ha la erre moscia dei francesi, per anni è stato sfruttato da un datore di lavoro francese, è cristiano, anzi «catholique», ma non può mettere piede in Francia. Perché non è francese. «E perché sono nero», dice mentre dall’alto del suo metro e novanta lancia la sfida agli ultimi ostacoli: le gallerie scavate a picconate cento anni fa e che preannunciano l’abitato di Nevache, 349 abitanti, due metri di neve, e una certa allergia tutta transalpina per i gendarmi che vanno a caccia di migranti da rispedire in Italia.

      La solidarietà dei montanari

      I montanari hanno costruito una rete informale di solidarietà che coinvolge più di 1.300 persone in tutta la regione di Briançon. Cattolici, protestanti, attivisti sociali, militanti No Tav di Italia e Francia. Da queste parti la gente guarda con rispetto a chi se la cava tra i monti, con la stessa ammirazione con cui si osserverebbe un Ulisse sopravvissuto a mille trappole. Scampato ai negrieri del deserto, ai torturatori libici, al gommone che si sgonfiava mentre il Mediterraneo si prendeva i suoi compagni di viaggio, Laurent è in fondo un Ulisse nero. Uno dei molti. Ma il gigante africano adesso trema perché le carezze della neve gli stanno facendo più male delle tempeste di sabbia. È ivoriano Laurent, di quell’Africa dove quella di Parigi è l’unica lingua ufficiale, ma che Parigi vuole tenere alla larga risarcendo anni di colonialismo importando caffé a buon mercato.

      Già passati in più di 1.500

      Dall’inizio dell’anno, secondo diverse associazioni di volontariato francesi, sono passate più di 1.500 persone, soprattutto uomini originari del Mali, della Guinea e della Costa d’Avorio. Molti i minorenni. Da Bardonecchia i ragazzi del Soccorso alpino hanno battuto una parte del tracciato dopo la grande nevicata di due settimane fa. La carrozzabile che d’inverno viene chiusa, è praticabile per i primi chilometri. Poi, in territorio francese, cominciano i perigli.

      Qualche giorno fa ne hanno tratti in salvo sei. Si erano smarriti nei boschi. «Quando hanno capito che li stavamo riportando in Italia – spiegano i soccorritori – non ne hanno voluto sapere, allora li abbiamo seguiti fino alla galleria, in territorio francese, dove ad attenderli c’era già la gendarmeria nazionale». Una scorta che farebbe andare fuori dai gangheri la polizia d’Oltralpe.

      Alla media di una decina al giorno, Natale compreso, arrivano tutti a Bardonecchia. Ogni sera alle 23,20 la campanellina della stazione ferroviaria più occidentale d’Italia annuncia l’ultimo convoglio regionale da Torino. I volontari lo aspettano come sempre sul primo binario. Ci sono gli operatori di «Rainbow4Africa» e i volontari del soccorso alpino, che hanno messo a disposizione una stanza, coperte, un bagno, cibo e soprattutto tutte le avvertenze per convincerli a desistere.

      Tutti in marcia alle 2 del mattino

      Come seguissero una tabella di marcia non scritta, quasi tutti, dalle due del mattino provano a inoltrarsi lungo il sentiero per il Col de l’Échelle, quel Colle della Scala che già dal nome dovrebbe invitare a girare i tacchi in giorni di neve. Altri preferiscono rischiare di più salendo l’impervia via del Monginevro, scarsamente presidiata dai gendarmi di montagna.

      Con scarponi e gambe buone si potrebbe leggere il primo cartello di «Bienvenue en France» dopo due ore al massimo di cammino. I dieci chilometri di salita sono difficili, ma non da arrampicata, poi altri quattro di discesa in Francia. Il termometro di notte a meno 8 e l’equipaggiamento più da traversata verso Lampedusa in estate che da sci di fondo, sono il nemico più insidioso.

      La prima ora di ascesa passa di solito tra denti che battono e caviglie che si piegano scivolando sulla salita ghiacciata. Poi, dove neanche le motoslitte arrivano, ogni passo è un calvario. Centottanta centimetri di neve vuol dire affondarci dentro. Risucchiati dalla paura e da una coltre che di amichevole ha solo l’aspetto.

      «Mi stavo nascondendo dietro a un cespuglio, ma i francesi mi hanno preso», racconta Shabir mentre dichiara la resa. Il pachistano dalla lingua sciolta dice che è finita. A lui la montagna non fa paura, e neanche la neve. Era abituato agli spietati inverni delle Torri di Trango, nel Baltistan, «a quattro ore di cammino dal K2». Il tempo di un panino al burro, un thé caldo, e i francesi lo hanno ricacciato dalla parte del traforo con il tricolore che voleva lasciarsi alle spalle. Gli sarebbe piaciuto vedere Parigi prima di tentare l’ultima impresa. «Non arriverò mai a Liverpool. Non ce l’ho fatta». E c’è una sola spiegazione: «Allah, vuole che io resti in Italia». Non ha la faccia stanca e non trema di freddo. Se ne andrà ad Ancona, dov’era sbarcato da un traghetto greco nascosto sotto al container di un rimorchio. «A Senigallia ho un amico che mi ha offerto un buon lavoro: 10 euro al giorno per distribuire volantini pubblicitari, e di notte venderò fiori oppure farò il guardiano».
      Tanti sogni infranti a un passo dal traguardo

      Altri due pachistani sono sfuggiti ai gendarmi che aspettano in fondo al pendio, dietro al costone che segna l’ultimo ostacolo naturale prima del traguardo. Non tutti, in verità, hanno in mente di fermarsi in Francia. Non i due iraniani, respinti al Brennero e a Ventimiglia e diretti in Germania. Non l’iracheno, che con il suo sguardo torvo non riesce a impietosire i doganieri neanche quando finge d’essere un profugo siriano. Lui vuole andare in Spagna dove sua sorella è alle ultime settimane di gravidanza. Laurent, intanto, guarda in fondo all’ultima galleria. Prima di lui erano partiti dall’Italia nove ragazzi. Avranno avuto mezz’ora di vantaggio. «Se la polizia li ha presi – riflette – allora saranno impegnati con loro e magari non mi vedranno. Se non li ha presi, allora potrebbero vedere me, oppure potrei avere fortuna come loro». Aspettare, però, vorrebbe dire stramazzare a terra. Un giovane della Guinea Conakry qualche giorno fa è stato ritrovato in un canalone senza scarpe. Non fosse stato per i montanari di Nevache sarebbe morto proprio a un passo dal traguardo.

      Laurent lo ha saputo dal passaparola via Whatsapp. «Piuttosto che tornare indietro, meglio finire arrestato dai francesi», dice sollevando il braccio nel segno dell’addio. Se in Costa d’Avorio esistesse un club di alpinismo, Laurent oggi sarebbe un eroe nazionale. A mani nude, con delle Adidas di pezza ai piedi, jeans e un piumino di un paio di taglie più piccolo, ha scavallato la dorsale che sfiora quota duemila ed è sceso giù in Francia in una notte sola. Un’impresa che dalle sue parti passerebbe alla storia: «Ma non sfamerebbe i miei bambini».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/oltre-il-muro-di-neve-in-fuga-dalla-gendarmerie

    • Il 7 gennaio camminata da Claviere a Montgenèvre

      Il gruppo Briser les Frontières ha organizzato per domenica 7 gennaio una camminata da Claviere a Montgenèvre dal titolo Marcher pour Briser les Frontières

      Camminata contro le frontiere, per muoversi liberamente!
      Da Claviere a Montgenèvre.

      Domenica 7 gennaio alle ore 11.00
      Appuntamento al parcheggio di via Nazionale a Claviere.
      Con abbigliamento adeguato per una camminata sulla neve.

      Le frontiere non esistono in natura,
      sono un sistema di controllo.
      Non proteggono le persone, le mettono una contro l’altra.
      Non favoriscono l’incontro, ma generano rancore.
      Le frontiere non dividono un mondo da un altro,
      c’è un solo mondo e le frontiere lo stanno lacerando!

      L’indifferenza è complicità!

      Per Info: +39 3485542295

      (In caso di maltempo l’iniziativa si farà la domenica successiva)


      https://rbe.it/2017/12/28/camminata-7-gennaio

    • ON Y VA’ - alcune storie dalla Val di Susa di confine

      Alcune interviste fatte tra le montagne della Valle di Susa. Dove da mesi moltissime persone che vogliono oltrepassare il confine verso la Francia sono costrette a farlo rischiando la vita.

      https://www.facebook.com/briserlesfeontieres/videos/1537002486391870
      #vidéo #témoignages #parcours_migratoires #itinéraire_migratoire
      Une personne dit avoir essayé déjà une fois d’aller en France (il a remonté l’Italie depuis #Crotone), mais avoir été renvoyée. Renvoyée à #Taranto, puis à #Roccasecca
      #migrerrance

    • Bilan des états généraux pour les migrants : entre inquiétudes et espoirs

      Entre tables ronde et chaîne humaine au col de l’Échelle, le week-end consacré aux migrants et aux migrations a rassemblé beaucoup de monde, près de 1000 personnes au total dont plus de 300 dans la neige et le froid du col de l’Échelle. Une conférence de presse, ouverte au public, a conclu ces deux journées. Le bilan par #Marie_Dorléans, du mouvement citoyen Tous Migrants.

      https://vimeo.com/247766714?ref=tw-share

    • #solidarité_montagnarde à #Névache... une chanson :

      La fin de la #chanson :

      "Et pourtant, là-bas, là-haut
      là où vient de se passer mais où tout se passe
      comme souvent dans des interstices du monde
      dans les Alpes
      des hommes et des femmes ont arrêté ce tran-tran quotidien
      à Névache, à La Roya
      des enfants qui passaient, sans chaussettes
      allant de nulle part à nulle part sans destin
      sans espoir
      on leur a ouvert, le meilleur de Névache
      solidarité montagnarde, ça s’appelle
      c’est beau comme mot.
      Il a dit : « Bhein, vous êtes là, bhein restez dormir »
      Pas militant, pas combattant
      juste quotidien
      le quotidien qui change tout.
      C’est là-bas, c’est à Névache
      au-dessus du Briançonnais
      Allez-y, ça a l’air bien."

      https://twitter.com/laRadioNova/status/932499508767977472

      sur youtube :
      https://www.youtube.com/watch?v=-JraQ2DiVYI

    • Capolinea Bardonecchia?

      Reportage dalla frontiera tra Italia e Francia, dove i migranti sono bloccati a causa del regolamento di Dublino e dove la popolazione si sta attivando per fornire loro un aiuto.

      Le Alpi occidentali sono uno storico luogo di passaggio. Senza scomodare Annibale e i suoi elefanti più di duemila anni fa, si può dire che il “confine naturale” rappresentato dalle montagne sia stato più spesso motivo di unione che di separazione tra gli abitanti dei due versanti.

      Eppure, per le migrazioni contemporanee le montagne sono più simili a un muro. Da Ventimiglia a Como, sono ritornate le frontiere tra l’Italia e la Francia, almeno per i migranti. Non fa eccezione Bardonecchia, il comune più occidentale d’Italia, diventato nell’ultimo anno un luogo di transito sempre più rilevante.

      In estate, passare da Bardonecchia a Nevache attraverso il Colle della Scala non è né difficile né lungo, e da lì procedere poi verso Briançon e via via in direzione delle città più grandi, ma durante l’inverno tutto si complica: il colle, infatti, rimane chiuso per tutta la stagione a causa delle condizioni meteo. Nonostante questo, in questi primi mesi freddi il transito di richiedenti asilo attraverso Bardonecchia non si è azzerato, ma al contrario i numeri sono decisamente superiori rispetto allo scorso anno. Di conseguenza, anche gli incidenti dovuti alle difficoltà del clima sono in aumento.

      Mentre per il sindaco di Oulx «i migranti nelle stazioni non sono affatto un problema», è chiaro che la situazione non può che essere provvisoria, né può essere trattata soltanto come una questione di ordine pubblico. Alla base di tutto, rimane l’inefficienza del regolamento di Dublino, che affida la competenza dell’esame della richiesta d’asilo al Paese di primo ingresso, incentivando quindi tutti gli altri, Francia compresa, a chiudere le proprie frontiere e a rimandare indietro chiunque riesca ad attraversarle.

      http://riforma.it/it/articolo/2017/12/15/capolinea-bardonecchia

      Citations:
      Marta (militante Briser les frontières), à partir de la minute 0’35:

      «Il passaggio per la Francia qui dalla Val di Susa è iniziato ad essere utilizzato dopo la chiusura della frontiera di Ventimiglia. Dopo la militarizzazione di quel passaggio lì, le persone si sono informate e si sono spinte fino a questo passaggio del Colle della Scala e del Monginevro. Abbiamo notizie di alcuni passaggi già l’inverno scorso che però non riusciamo molto a quantificare perché erano ancora abbatanza discreti. E poi dall’estate scorsa abbiamo notizia di 40-50 arrivi al giorno e altrettanti passaggi durante la giornata sui sentieri.»

      Voix off:
      «Il territorio ha risposto con una rete di accoglienza spontanea che fornisce supporti di diverso genere.»

      Marta: «La rete è nata da un’esigenza di singole persone che si sono avvicinate a questo punto di frontiera, che hanno verificato che le condizioni dei ragazzi che arrivavano erano sicuramente difficili, per cui abbiamo deciso di organizzarci in rete per avere una possibilità maggiore di dare un supporto. Abbiamo iniziato ad operare più formalmente da un paio di mesi. Le cose che sono state fino adesso è una presenza più o meno costante in stazione a Bardonecchia e poi portiamo su i vestiti. Cerchiamo di risolvere quelle che sono le prime esigenze e distribuire cibo, tè caldo, ecc.»

      Voix off:
      «Recentemente ha fatto notizia la chiusura della stazioni ferroviarie che ha portato anche all’intervento del prefetto di Torino per farle riaprire»

      Marta: «Loro l’hanno giustificata con una ragione di sicurezza e ordine pubblico nelle stazioni, cosa che non è giustificata perché non ci sono mai stati problemi di ordine pubblico. Dopo questa notizia, sia le amministrazioni sia diverse persone hanno fatto pressione perché si riaprissero le sale d’attesa. E alla fine, con l’intervento del prefetto, sono state riaperte, anche se in realtà sono aperte soltanto di giorno. Di notte, la sala di Bardonecchia chiude alle 21 e quella di Oulx continua a chiudere alle 22h30, cosa che in teoria non dovrebbe succedere perché è una stazione internazionale».

      #Diego_Cantonati, responsabile Soccorso Alpino Guardia di Finanza di Bardonecchia autour des tentatives de dissuasion de faire la traversée (à partir min 2’50):

      «E’ una domanda che ci poniamo anche noi, quella di lanciare un messaggio in modo da fargli capire che è pericoloso fare quello che vogliono fare. Purtroppo non riusciamo a convincerli. Ci sono diverse associazioni che danno appoggio a questi migranti, probabilmente sono quelle più influenti sulle loro scelte, dovrebbero incidere e far capire che in determinate condizioni corrono dei rischi veramente troppo elevati e rischiano anche proprio di morire»

      Marta (min. 3’32):

      «Loro hanno già attraversato delle situazione estremamente difficili per cui la neve non li spaventa più di tanto, la descrizione dei possibili problemi di ipotermia e addirittura i racconti di persone che già hanno subito amputazioni dei piedi... nonostante questi racconti loro ci dicono che un tentativo lo devono fare perché è la loro unica possibilità.»

      #Simone_Bobbio, addetto stampa Soccorso Alpino e Speleologico Piemontese (min. 4’51):

      "E’ una differenza quantitativa, dei numeri. A livello qualitativo, si porta soccorso a chi ne ha bisogno, indipendentemente da chi sia. E’ per questo che spesso nei rapporti di intervento non compare il fatto che sia stato portato soccorso a un migrante piuttosto che a un turista, perché si soccorre la persona e basta. A livello comunicativo c’è un certo tipo di remora a comunicare tutti questi interventi anche per un poco il timore che possono essere strumentalizzati. Perché c’è il rischio che qualcuno inizia chiedere... la classica domanda è: ’Chi paga per questo intervento?’. Quindi cerchiamo di affrontarli con una certa cautela.

      #Gianfranco_Schiavone, vice-président ASGI sur le cadre juridique:

      «Il pilastro su cui si regge politicamente l’attuale regolamento Dublino 3 e anche le sue versioni precedenti è il vincolo che lega il richiedente asilo al primo paese dell’Europa nel quale mette piede, perché lì si radica la competenza delle domande. E quello che avviene è che le persone che cercano di evitare in tutti i modi questa situazione è di trasferirsi in maniera irregolare in un altro paese nel quale vogliono andare.»

      Intervista a #Cristina_Alpe del Soccorso Alpino di Bardonecchia

      La sede di Bardonecchia del #Corpo_Nazionale_Soccorso_Alpino_e_Speleologico ha avviato nelle ultime ore tre operazioni di ricerca per altrettanti gruppi di migranti che tentavano di valicare verso la Francia, nonostante l’abbigliamento inadatto e le condizioni meteo avverse.

      –-> citation:

      Cristina Alpe: Questi interventi si verificano già da alcuni mesi, diciamo che è dalla primavera/estate che continuiamo ad avere chiamate di soccorso. In realtà il grosso problema si è rivelato adesso, con il maltempo e la neve, perché i valichi verso la Francia non sono praticabili né a piedi né in auto. Adesso gli interventi sono aumentati e queste persone hanno veramente bisogno di aiuto. Nella giornata di ieri (10.12.2017), tra ieri e stamattina, ci sono stati 2-3 interventi. Uno con esito positivo verso le 5h20 di questa mattina, in collaborazione con il Pelotone de la gendarmerie francese (PGHM), che ci ha contattati per due migranti che erano verso il Colle della Scala, su territorio francese, però su versante italiano. E una nostra squadra mista con il Soccorso Alpino della finanza sono riusciti a recuperarli verso le 6h45. Non avevano scarpe adatte, uno aveva addirittura perso le scarpe, comunque sono stati recuperati e riportati a Bardonecchia. Negli altri due interventi, le ricerche nella nottata sono state sospese, anche perché immediatamente dopo le 18h pare che ci sia stata una chiamata di queste persone che avevano chiesto soccorso che erano in salvo a fondovalle in Francia e quindi non avevano più bisogno. La cosa che mi viene da dire è che comunque quando chiamano, le notizie sono sempre un po’ sommarie, un po’ vaghe e quindi è sempre difficile riuscire a localizzare e dare il giusto aiuto a queste persone.
      Giornalista: chi chiama?
      Cristina Alpe: In queste ultime chiamate ci è parso di capire che fossero i migranti stessi, nel senso che comunque hanno un telefono e in alcuni casi poi dopo la chiamata riusciamo anche a contattarli, poi bisogna vedere se non è qualcuno che li lascia lì. Questo non lo sappiamo, nel senso che a volte ci chiamano, lasciano un numero di telefono e poi provi a richiamare e non risponde più nessuno. Altre volte invece ti rispondono di nuovo e quindi la localizzazione è più facile. Dipende un po’ da dove riescono a chiamare, a volte aggancia la cella italiana, a volte aggancia la cella francese. Comunque se sono su Bardonecchia, in linea di massima sono su territorio francese, perché sul territorio italiano il posto è un po’ meno pericoloso, perché dove inizia la salita verso il Colle della Scala poi è già territorio francese dove è più pericoloso.
      Giornalista: non si tratta di emergenza singola, ma...
      Cristina Alpe: E’ un problema allargato. Infatti credo che in questi giorni si muoveranno altre forze in campo, prefettura e comune, perché comunque se nell’estate è una cosa gestibile perché la maggior parte di quelli che cerca di svalicare riesce, in questo periodo qua assolutamente no. Son pochi quelli che riescono a passare di là. Oltretutto con il brutto tempo così. Il Colle della Scala d’inverno è impraticabile, soprattutto con calzature non adatte, poco vestiti. Infatti ci sono anche operazioni della Croce Rossa, ci sono altre associazioni di volontariato che si stanno muovendo per dare assistenza a queste persone.

      https://rbe.it/2017/12/11/intervista-cristina-alpe-del-soccorso-alpino-bardonecchia

    • Bardonecchia. Cattolici e protestanti insieme per i profughi a piedi sulle Alpi

      Parrocchie cattoliche, comunità protestanti, associazioni, volontari del soccorso alpino italiano e francese, da settimane cercano di portare al riparo i migranti che si avventurano verso la Francia.

      L’ecumenismo dei ramponi e del vin brulée a duemila metri di quota è una questione di vita o di morte. Parrocchie cattoliche, comunità protestanti, associazioni, volontari del soccorso alpino italiano e francese, da settimane affrontano dai due versanti delle Alpi il grande freddo, cercando di portare al caldo i migranti che si avventurano verso la Francia.

      Sono i profughi che tentano di aprire nuove piste lungo la novella Via Francigena della speranza. Equipaggiati come peggio non si dovrebbe, affrontano i sentieri più impervi affondando le gambe dentro a una coltre da loro mai vista prima. Scarpe da ginnastica ai piedi, pantaloni di cotone leggero, giacche a vento buone a malapena per affrontare il mare in bonaccia. Guardano i costoni sperando di trovare dall’altra parte la discesa verso la valle transalpina. Invece no, dopo un tornante ce n’è un altro che risale.

      Le mobilitazioni delle oltre 430 associazioni coinvolte negli “Stati Generali delle migrazioni in Francia” e dei valligiani sul versante italiano non si fermano. Gente di montagna che non ha bisogno di teologismi per sapere cos’è l’ecumenismo della solidarietà. Riforma, lo storico organo di informazione delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia, segue in tempo reale l’evolversi della “rotta bianca”, rilanciando i messaggi della Chiesa cattolica francese, e specialmente del Secourse Catholique, la Caritas di Francia che insieme a “Entraide Protestante”, la diaconia delle chiese riformate francesi, hanno protestato per iscritto con il presidente Macron, denunciando «tutte le storture del sistema di accoglienza francese e con la volontà di denunciare - spiega Riforma - l’ulteriore inasprimento di controlli e modalità di espulsione che le nuove leggi su immigrazione e sicurezza stanno delineando».

      «Attenzione, pericolo di morte», recitano in arabo, francese e inglese alcuni cartelli a Bardonecchia e a Oulx, i comuni da cui i migranti partono per la traversata. Loro guardano, e passano oltre. «La montagna è pericolosa d’inverno. Si rischia il congelamento a causa del freddo estremo - si legge -. Ci si potrebbe perdere e morire per sfinimento. Per favore non tentate, potrebbe esserci un metro e mezzo di neve». L’hanno vista neanche sul Kilimangiaro, e dopo essere sopravvissuti agli aguzzini libici e ai marosi del Mediterraneo, non hanno paura di quello che non conoscono. Alcuni cascano nella trappola di improvvisati contrabbandieri di uomini.

      Il 30 novembre un ventenne originario del Kosovo è stato fermato dagli agenti del commissariato di Bardonecchia, sul confine tra Italia e Francia. Alla guida di una Lancia Ypsilon, l’uomo era diretto Oltralpe con a bordo quattro connazionali tra i 18 e i 30 anni. Il passeur è stato arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre gli altri quattro kosovari sono stati espulsi. Con gli africani, «la situazione migranti a Bardonecchia - afferma Luca Giaj Arcota, presidente del Soccorso alpino piemontese - ha raggiunto il livello d’emergenza. Negli ultimi mesi la nostra stazione locale, insieme alla Guardia di Finanza è stata chiamata in numerosi interventi per migranti dispersi o infortunati. Queste persone tentano di passare il confine nonostante le condizioni proibitive e il lavoro di dissuasione che la nostra e altre associazioni porta avanti. Non possiamo impedire loro di affrontare i sentieri innevati, ma è necessario prevenire altre partenze prima di incidenti più gravi». Neanche il maltempo li ferma. Figurarsi un cartello. La neve non però, è tutto più complicato.

      Perché un nero, da quelle parti, non è un turista in cerca di emozioni tra le vette. Molti tra quelli intercettati dalla Gendarmerie e rispediti in Italia, si nascondono prima di poter essere aiutati. Sfuggire agli agenti tra Bardonecchia e Briançon è ora quasi impossibile, così tentano la strada del Monginevro. Due giorni fa ne hanno salvati una decina. Si erano perduti tra i pendii. Hanno accettato una bevanda calda e vestiti asciutti. Poi sono ripartiti, sognando finalmente la discesa e qualcuno che gli dica che ce l’hanno fatta: «Bienvenue en France».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lecumenismo-solidale-lungo-la-rotta-bianca

    • Nella neve e nel ghiaccio la marcia dei migranti attraverso le Alpi

      In tre mesi almeno in duemila hanno passato il confine tra Italia e Francia. Spesso sono minori non accompagnati e si ritrovano spaesati in mezzo al freddo. Una rete di montanari volontari li aiuta anche se poi la polizia francese li rispedisce indietro.

      A decine ci provano ogni settimana, quando la temperatura scende a meno venti. Dall’Italia alla Francia. Senza equipaggiamento e nel bianco abbagliante. Senza nemmeno un paio di stivali. Ma l’anno scorso, come in questo nuovo anno, si mettono in cammino verso una nuova vita (https://www.aljazeera.com/videos/2018/1/1/migrants-in-europe-desperate-journeys-across-mountains). Al gelo, affondando i piedi nel ghiaccio che copre quasi tutto, a quasi duemila metri d’altezza, lungo il passo alpino che separa il suolo francese da quello italiano: i migranti sono in marcia (https://www.thetimes.co.uk/article/barefoot-migrants-die-trying-to-cross-alps-in-deepest-winter-zpvb82nrr).

      Da Ventimiglia al Brennero, poi le Alpi: la prima città da raggiungere nella terra francese è Briançon, dove è stato aperto un rifugio per la notte. I locali, che sanno quanto pericolose siano le loro montagne, hanno deciso di aiutarli e raccontano che la maggior parte dei profughi in arrivo sono minori non accompagnati, che tentano di raggiungere suolo francese. La rete dei volontari conta 1300 persone dei villaggi circostanti: dal bucato al sostegno giuridico, dalle ronde per i dispersi a chi distribuisce cibo, in mille sulle Alpi tendono la mano (www.meltingpot.org/Sulle-Alpi-francesi-i-montanari-che-salvano-i-migranti-dal.html#.WkqawSOh2fU).

      Quando cala dall’alto, la guardano per la prima volta nella loro vita: gli africani vedono lassù per la prima volta la neve. Dalla caldissima Africa, i rifugiati affrontano temperature gelate. Accendono il fuoco di notte, si dividono il cibo. Sperano. Ricordano i Paesi d’origine: Mali, Guinea, Costa d’Avorio. Dormono e all’alba, un passo dopo l’altro, continuano ad andare verso nord.

      In tre mesi in millecinquecento almeno, quasi duemila rifugiati ce l’hanno fatta, ma il percorso è arduo, quasi impossibile senza preparazione e abiti caldi, di cui i migranti sono sforniti. Gli alpini che pattugliano la zona dicono di aver paura di trovare i cadaveri in primavera, quando la neve si scioglierà. Alberto Rabino, a capo degli alpini di Bardonecchia, dice di aver ricevuto decine di chiamate dai migranti negli ultimi giorni. Si perdono nei boschi, nella neve, nel buio e quando i soccorritori arrivano li trovano in condizioni pericolosissime, a volte senza nemmeno le scarpe, a volte gravemente feriti. Joel Pruvot fa il volontario nel rifugio e anche lui racconta di aver trovato rifugiati senza scarpe nella neve: “gli africani non hanno idea di quanto sia pericolosa la montagna”.

      Quando riescono a scampare alla morte per congelamento, a volte si imbattono nella polizia francese che li rispedisce indietro. Vicino a Bardonecchia, mentre il 2017 diventava 2018, un gruppo di migranti ha tentato di arrivare a Col de l’Echelle. Lì l’altezza sfiora i duemila metri. Erano in sei ed erano arrivati in Italia a luglio. Quasi tutti, come la maggior parte dei migranti che hanno la forza di compiere il percorso, erano minorenni. Tutti con negli occhi un sogno: una nuova vita oltre le Alpi.

      https://left.it/2018/01/02/nella-neve-e-nel-ghiaccio-la-marcia-dei-migranti-attraverso-le-alpi

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      Migrants in Europe: Desperate journeys across mountains

      Over the last three months, at least 1500 migrants have embarked on a dangerous journey over the Alps, crossing from Italy into France, defying freezing temperatures and heavy snow.

      Over the last three months, at least 1500 migrants have embarked on a dangerous journey over the Alps, crossing from Italy into France, defying freezing temperatures and heavy snow.

      Rescuers in the Alps say they’re concerned about the number of refugees and migrants trying to cross the snow-covered mountains of Europe.

      Half of those making the journey are thought to be children or teenagers.

      https://www.aljazeera.com/videos/2018/1/1/migrants-in-europe-desperate-journeys-across-mountains

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      Barefoot migrants die trying to cross Alps in deepest winter

      Rescue workers say they expect to discover the bodies of African migrants who have died crossing the Alps when the snows melt in the spring.

      Dozens try to cross the border between Italy and France every week, some barefoot, despite heavy snow and temperatures as low as minus 20C. One African man died last week when he fell from the clifftop cabin where he had been sheltering onto the A8 motorway at Roquebrune-Cap-Martin on the French side of the border.

      (#paywall)

      https://www.thetimes.co.uk/article/barefoot-migrants-die-trying-to-cross-alps-in-deepest-winter-zpvb82nrr

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      Sulle Alpi francesi: i montanari che salvano i migranti dal gelo
      >> di Luisa Nannipieri - Radio Popolare, 18 dicembre 2017

      Più di un metro di neve fresca e polverosa, temperature che scendono fino a – 20°C e raffiche potenti che spazzano la montagna sotto al limpido cielo invernale. Siamo a 1.700 metri d’altezza, vicino al Col de l’échelle, piccolo passo alpino che separa la Francia dall’Italia. A meno di 10 chilometri da qui, c’è già chi scia sulle piste di Bardonecchia, in val di Susa. Questa è, ormai da più di un anno, la nuova strada dei migranti che vogliono lasciare l’Italia.

      Bloccati a Ventimiglia e al Brennero, arrivano in treno fino a Bardonecchia o Oulx e si incamminano sulle montagne a piccoli gruppi per raggiungere Briançon. Come cartina, un cellulare che spesso non prende; ai piedi, se va bene, delle scarpe da ginnastica di tela e delle calze. Per evitare le pattuglie di gendarmi lungo la strada, non esitano a lasciare i sentieri battuti, finendo per perdersi o ferirsi anche gravemente. Dall’inizio dell’anno sono passate più di 1.500 persone, soprattutto uomini originari del Mali, della Guinea e della Costa d’Avorio. Moltissimi sono minorenni. E la neve non basta a scoraggiarli: ogni giorno arriva una decina di persone in valle, nonostante il gelo e il rischio di valanghe sul versante italiano.

      Per far fronte alla situazione, in mancanza di una risposta che non sia la militarizzazione della frontiera da parte dello Stato francese, i montanari hanno creato una rete di solidarietà che coinvolge più di 1.300 persone in tutta la regione di Briançon. Non tutti sono favorevoli ai migranti ma nessuno riesce a rimanere indifferente, figurarsi abbandonare qualcuno sui monti conoscendo i rischi che si corrono. Cosi’ c’è chi li accoglie, chi li cura, chi li aiuta a fare il bucato, chi offre sostegno giuridico e chi organizza, ogni sera, ronde per cercare i dispersi in montagna. Alcuni hanno dato i loro numeri di cellulare e ricevono spesso richieste d’aiuto da ragazzi che non sanno minimamente orientarsi sulle Alpi. E tutti si chiedono non se, ma quanti corpi verranno ritrovati questa primavera, al disgelo.

      Domenica scorsa, dalla valle francese della Clarée sono saliti in 250: valligiani, guide alpine, qualche giornalista e qualche personaggio noto hanno formato una cordata solidale per denunciare una situazione sempre più pericolosa e il silenzio dello Stato. Sarebbe dovuta essere una semplice azione dimostrativa ma si è trasformata in un’operazione di salvataggio. Un giovane della Guinea Conakry è stato ritrovato in un canalone di valanga senza scarpe. Aveva iniziato a salire verso il passo dell’Echelle alle 5 del mattino. Ecco il video:


      https://twitter.com/la_regledor/status/941699971828604928

      https://www.meltingpot.org/2017/12/sulle-alpi-francesi-i-montanari-che-salvano-i-migranti-dal-gelo

    • Bardonecchia, migrante in fuga verso la Francia sommerso da un metro e mezzo di neve: salvato in extremis

      Tragedia sfiorata. Recuperato dal soccorso alpino francese avvisato dalla moglie che con i due figli lo attendeva a Briancon. Attivisti francesi aiuteranno i migranti costreuendo un igloo di protezione.

      Un Capodanno di solidarietà in cima al Colle della Scala dopo l’ennesimo salvataggio di un migrante in ipotermia sopra Bardonecchia. Sua moglie e i suoi figli, di 2 anni e di 5 mesi, erano riusciti a raggiungere la Francia senza problemi, mentre lui stava finendo assiderato nella neve dell’alta Valsusa. Un cittadino ghanese è stato salvato dal soccorso alpino francese mentre si trovava sotto un metro e mezzo di neve sul Colle della Scala al confine con l’Italia. Per lui, uno dei tanti migranti che da mesi tenta l’attraversata dalle Alpi, è stato provvidenziale proprio l’intervento della moglie con cui si erano dati appuntamento a Briançon, ma che non vedendolo arrivare ha dato l’allarme. La donna infatti era stata accolta da una coppia di attivisti francesi dopo essere arrivata in autobus passando dal Monginevro e riuscendo a eludere i controlli della gendarmerie, ma suo marito ha scelto la via più difficile ma anche quella considerata meno battuta dai migranti l’ascesa a piedi dal Colle della Scala. «Non lo vedeva arrivare e l’angoscia saliva anche perché era in corso una copiosa nevicata» raccontato gli attivisti di Tous migrant. Dopo ore di ricerche i soccorritori sono riusciti a individuare l’uomo e portarlo al sicuro con un elicottero. All’ospedale è arrivato in ipotermia e dopo le cure ha potuto riabbracciare la sua famiglia.

      Quella di questa notte è solo l’ultima tragedia sfiorata tra Bardonecchia e Nevache e anche per questo oggi un gruppo di attivisti francesi ha raggiunto il colle della Scala per portare aiuto ai migranti che anche nella notte di Capodanno tenteranno, sempre senza vestiti ed equipaggiamento adatto, l’ascesa. «Saliremo tutti insieme al Col de l’Echelle e costruiremo degli igloo necessari per accogliere chi verrà con noi - racconta Yann Borgnet, uno degli organizzatori - Questa sera prepariamo una grande zuppa e passiamo la serata lì. L’idea di un’azione del genere è per discutere di come i governi stanno gestendo le migrazioni, ma anche essere lì per aiutare i migranti in pericolo. Domani, se il tempo lo permette, è possibile che i più motivati ??facciano un viaggio di ritorno a Bardonecchia con gli sci, per fare al contrario il percorso dei migranti e mostrare a tutti quanto è dura la loro strada».

      https://torino.repubblica.it/cronaca/2017/12/31/news/bardonecchia_migrante_in_fuga_verso_la_francia_sommerso_da_un_metr

    • Valsusa, un’altra tragica frontiera dell’Europa dei muri

      Nel silenzio complice della stampa mainstream, un’altra drammatica situazione sta colpendo la popolazione migrante che attraversa il nostro paese. Un’attivista valsusina ci racconta gli ultimi mesi alla frontiera di Bardonecchia.

      Ci puoi raccontare cosa sta succedendo ai migranti alla frontiera di Bardonecchia?

      Da tempo ormai, vista la situazione a Ventimiglia con la frontiera sempre più sigillata, molti migranti arrivano in treno a Bardonecchia e attraversano il confine con la Francia a piedi passando per le montagne. Bardonecchia è una località transfrontaliera a 1312 metri di altezza. Con l’arrivo dell’inverno i migranti hanno iniziato ad avere grosse difficoltà con le temperature, con gravi problemi di assideramento durante le notti all’aperto.

      Era già accaduto in passato?

      Da sempre la Valle è stata un luogo di passaggio di migranti, lo ricordo fin da piccola anche per esperienze vissute in prima persona. Nell’ultimo anno questo fenomeno è sicuramente aumentato. Con l’inverno, e con la necessità di rifugiarsi in luoghi caldi, sta diventando evidente un fenomeno prima più invisibile.

      Cosa stanno facendo le autorità?

      Il primo provvedimento preso è stato chiudere le stazioni di Bardonecchia e poi di Oulx per impedire a chi migra di rifugiarsi nelle sale di attesa. Per un certo periodo hanno addirittura tolto il servizio di apertura anche di giorno, e quindi paradossalmente chiunque attendesse un treno doveva farlo al freddo.

      Dal lato francese l’arrivo dei migranti è monitorato da droni, motoslitte, pattuglie della gendarmerie e vengono riportati subito a Bardonecchia.

      Molte di queste persone hanno un permesso di soggiorno temporaneo in Italia e una volta riportati oltreconfine vengono lasciati a loro stessi.

      Il comune si è disinteressato così come le altre istituzioni fino a quando hanno iniziato ad avere pressioni più consistenti.

      Gli enti locali stanno intervenendo e prestando servizi di emergenza o è tutto gestito dalle forze dell’ordine?

      Per un lungo periodo le pressioni della società civile non sono servite a nulla.

      L’ong Rainbow for Africa ha poi iniziato ad avere delle interlocuzioni, ed è riuscita a far aprire una piccola stanzetta di 20 metri quadri nell’edificio della stazione, solo durante gli orari notturni. In principio questa stanzetta era gestita dalla polizia. Nel frattempo l’ong ha ottenuto le chiavi e la possibilità di mettere a disposizione personale medico e paramedico negli spazi del soccorso alpino adiacente. Il personale presta soccorso quando arrivano migranti che hanno sintomi da congelamento. Caritas e Croce Rossa hanno fornito servizi parziali.

      Cosa significa il supporto del movimento NOTAV a questa situazione?

      Se volevano una dimostrazione in più che il movimento NOTAV non è un movimento nimby, eccola pronta. Di sicuro la lotta contro il TAV ha permesso di diventare una comunità che cura il territorio e coltiva valori quali l’antirazzismo e l’accoglienza.

      Poi c’è da dire che far parte del movimento ha permesso di crescere a livello di organizzazione interna e per prestare soccorso ai migranti questo è stato fondamentale.

      Se poi vogliamo fare connessioni con il discorso TAV, è stato pubblicato da poco il comunicato ufficiale della posizione dei NO TAV in solidarietà nei confronti della questione migranti, poiché vengono spesi miliardi per far passare merci e persone bianche con i soldi attraverso le frontiere, mentre i migranti rimangono intrappolati. Una dimostrazione in più del fatto che le frontiere sono aperte o chiuse solo in virtù di interessi politici ed economici.

      La resistenza al TAV ha permesso contaminazioni viste le tante altre esperienze che sono state raccontate da chi è passato in Valle, queste hanno permesso di comprendere di più anche la questione migrazioni.

      La rete che si è formata è stata chiamata “Briser les frontières” (sbriciolare le frontiere), ha organizzato una prima serata benefit con 200 persone a mangiare per sostenere l’acquisto di cibo e beni di prima necessità, raccolte abiti invernali.

      È un grosso impegno, siamo una quarantina di attivisti pronti ad intervenire, ma molti di più disponibili ad aiutare, la risposta in Valle è stata più che buona.

      Quali difficoltà avete incontrato in questa esperienza?

      Sulla questione i francesi sono più avanti di noi, sono riusciti ad aprire una casa di accoglienza e altre attività di supporto, come ronde nei sentieri. Addirittura la casa l’hanno ottenuta dal comune di Briançon, che si è in un certo modo opposto alle leggi attuali che obbligano a rimandare in Italia i migranti.

      A Bardonecchia all’inizio non è stato facile a livello relazionale creare l’approccio giusto con i migranti, trovare una lingua comune è fondamentale.

      Da mesi ogni sera il soccorso alpino esce alla ricerca di dispersi nella montagna. Non c’è ancora stato il morto, ma un ragazzo ha avuto i piedi amputati per congelamento. Molti ragazzi, bruciati da esperienze del passato, hanno difficoltà a fidarsi ed accettare l’aiuto da parte della rete, anche solo prendere un paio di calzettoni asciutti o un piatto di minestra calda.

      La collaborazione da parte della Valle che appoggia la lotta al TAV è buona, in tanti hanno offerto sostegno e appoggio logistico.

      Noi diamo tutte le informazioni utili per conoscere la situazione della montagna, poi sono loro che decidono cosa fare. Sono arrivati anche minorenni e contrariamente a quello che dicono le leggi internazionali, vengono riportati in Italia a Bardonecchia dalla Gendarmerie.

      In molti dicono “piuttosto che vivere qui senza prospettive tento la libertà”, poi capiscono che la Francia non è il paradiso, e alcuni poi ritornano in Italia.

      I prossimi appuntamenti?

      Per denunciare quello che sta accadendo abbiamo deciso di organizzare una marcia transfrontaliera da Claviere a Montgenèvre il 7 gennaio, per ribadire che le frontiere non esistono in natura, ma sono un sistema di controllo. Non proteggono le persone, le mettono una contro l’altra, non favoriscono l’incontro ma generano rancore. Le frontiere non dividono un mondo da un altro, c’è un solo mondo e le frontiere lo stanno lacerando.

      https://www.dinamopress.it/news/bardonecchia-unaltra-tragica-frontiera-delleuropa-dei-muri

    • «Non abbiamo paura della neve». Con i migranti lungo la rotta alpina

      Siamo a stati Bardonecchia, l’ultima città italiana al confine con la Francia, in Alta #Valsusa. Da dove partono decine di migranti ogni giorno alla ricerca di una nuova vita.

      Camminare nella neve è difficile, servono forza e allenamento fisico. Se non sei abituato e ben equipaggiato ti butta giù. Soprattutto se sei a tremila metri d’altezza. Perché la montagna è come il mare: se non la conosci, non ti perdona.

      Samba, gambe esili, il mare lo ha conosciuto attraversandolo a 15 anni su un barcone. È appena arrivato alla stazione ferroviaria di Bardonecchia, in Piemonte. Qui parte la «rotta alpina» attraversata dai migranti**, l’ultimo miglio che li separa dalla Francia e dal Nord Europa, dove le temperature scendono anche fino ai 15 gradi sotto lo zero, e dove si rischiano assideramento e ipotermia.

      L’obiettivo è superare le Alpi. Ci provano in media 30 persone al giorno, secondo quanto riferisce il Soccorso Alpino, 900 al mese. C’è chi ha tentato di farlo camminando lungo i binari della ferrovia, ma alcuni tratti sono troppo stretti per permettere a un uomo e al treno di passare entrambi. Alcuni hanno perso la vita.

      È la neve, con il rischio di precipitare giù, che bisogna affrontare. Raggiungere Nevache, il primo piccolo centro abitato francese dopo il confine, trovare un rifugio e rimettersi in forze. Poi di nuovo in marcia verso la seconda città sulla strada, la più popolata, Briancon. E se la gendarmeria non li intercetta, proseguire verso i centri principali.

      Samba indossa un paio di jeans, un piumino, sulle spalle uno zainetto semi vuoto. È originario del Sudan, ma gli ultimi mesi li ha trascorsi in una prigione in Libia, lì dove le Ong spesso non riescono a entrare. Racconta di mani e piedi legati, botte e compagni trascinati per strada. «Poi una mattina ci hanno portato su una barca - ricorda - non sapevamo niente di dove stessimo andando e solo dopo diverse ore una nave ci ha rintracciati. Ci hanno detto che saremmo sbarcati in Italia». In Libia Samba era insieme a suo fratello, ma è stato separato da lui in prigione. Da quel giorno non si sono più parlati.

      Anche se i volontari che accolgono i migranti a Bardonecchia ripetono che è molto pericoloso tentare di raggiungere la Francia a piedi, lui è determinato a riuscirci. Si prova un paio di scarpe da trekking portate da una volontaria. Sono troppo grandi, forse, come i jeans che indossa, le gambe sembrano stuzzicadenti. «Vorrei giocare a calcio - confessa - e in Francia ho un amico che potrebbe aiutarmi a farlo. Voglio arrivare lì e rimettermi in contatto con la mia famiglia per aiutarli».

      Alla stazione di Bardonecchia ci sono una decina di migranti ogni giorno. Arrivano da Uganda, Mali, Sudan, ma c’è anche un ragazzo egiziano, Hamza. Lui aveva già raggiunto Lione, ma la polizia lo ha intercettato e riportato indietro. Accade anche mentre parliamo con Samba, davanti alla stazione si ferma un camioncino della gendarmeria francese, si apre lo sportello e un ragazzo con una sacca di pelle esce con il viso cupo. È albanese, lo hanno riportato da Briancon.

      Quando iniziano a cadere i primi fiocchi di neve, l’aria diventa tagliente. Fernanda, responsabile dell’associazione Il Pulmino verde, che ogni sera assiste con pasti caldi e vestiti i migranti che sostano alla stazione, apre la sala d’aspetto messa a loro disposizione per trascorrere la notte al caldo.

      Samba la neve non l’aveva mai vista. «È la prima volta che mi trovo faccia a faccia con lei. Sapevo com’era solo grazie alle foto. Sembra bella ma è troppo gelida. Per me è un problema perché mi impedisce di partire». Arrivano altri indumenti dai volontari, Samba trova una tuta da sci della sua taglia, la indossa, ci mette sopra anche il piumino, poi una sciarpa di lana rosa e un cappello di lana bordeaux.

      «In Africa non esiste il freddo», racconta Ahmed, 17 anni, arrivato da un giorno, un paio di Converse ai piedi. «Non sono abituato a questa temperatura. Qui è tutto un problema». È questa l’unica parola italiana che conosce, «problema, problema» ripete, buttando la testa all’indietro. Ahmed è minorenne, non è riuscito a ottenere i documenti nei tempi che sperava, anche lui è stato rinchiuso in una prigione in Libia. «Tutti i giorni ci picchiavano e venivano a chiederci se avevamo soldi per uscire. Io non ne avevo e sono scappato facendo zig zag. Non trovo altre parole per spiegare come ci sono riuscito. Zig zag rende l’idea?». Poi la barca, l’arrivo in Sicilia e l’autobus verso Nord. Fino qui, in Alta Valsusa.

      «La mia famiglia è in Sudan, in Francia ho degli amici. Aspetto un segnale dal cielo per andarmene da qui». Ahmed è salito sul treno diretto in Francia per tre volte. La polizia lo ha sempre bloccato e riportato indietro. Con i suoi occhi grandi e spalancati nel vuoto, Ahmad racconta di essere stanco di vivere come un fuggiasco. Vorrebbe un po’ di normalità, una vita semplice. Una ragazza gli offre un tè caldo e una sigaretta, le accetta entrambe ma da come appoggia la sigaretta alla bocca si vede che non ha mai fumato.

      Aspira, inizia a tossire poi scoppia a ridere. C’è lo spazio di distrarsi per un secondo tra le mura gelide della stazione.

      Quando torniamo alla stazione di Bardonecchia è mattina presto, la neve continua a cadere copiosa. Samba guarda le previsioni meteo nel suo cellulare, Ahmad non c’è più. «È partito», spiega Mohammed, 32 anni, il più grande del gruppo. «Non voleva stare qui, ha tentato il destino. Se nevica così forte tornerà indietro. Io non mi muovo, aspetto domani, dovrebbe esserci il sole». Mohammed è originario della Guinea e spera di raggiungere la Francia per riunirsi a sua sorella. Non la vede da due anni, vorrebbe conoscere il suo nipotino appena nato. «Non so se resterò in Francia ma voglio arrivarci anche se significa mettere in pericolo la mia vita. L’ho già fatto attraversando il deserto e il mare. Ho vissuto qui un anno, non trovo lavoro».

      Insieme a Samba c’è un nuovo ragazzo, è arrivato nella notte. «Ho sedici anni e sono partito dalla Costa d’Avorio. È la terza volta che tento di passare il confine. Con l’aiuto di Dio, questa sarà l’ultima». Sulle pareti che circondano la stazione, i volontari dell’associazione Il Pulmino Blu e della Croce Rossa Italiana hanno appeso diversi volantini in tutte le lingue.

      «Non partite a piedi, pericolo di vita», si legge accanto al numero telefonico dei soccorsi. Ma chi è arrivato qui, nell’ultima città sul suolo italiano, non ha intenzione di fermarsi. Il gelo e la neve fanno paura ma non abbastanza.

      «Quando li vedi partire è impressionante», racconta Carlo Florindi, presidente della Croce Rossa di Bardonecchia. «S’incamminano dalla stazione, in fila indiana con i loro zainetti e lo stradario. Arrivano al Colle della Scala e lì inizia la salita non asfaltata, su un sentiero battuto solo dalle loro orme che si stringe e diventa largo appena sessanta centimetri».

      Nelle ultime settimane diversi migranti sono stati soccorsi con i piedi quasi congelati, altri sono stati raggiunti dal soccorso alpino ma hanno scelto di continuare la scalata verso la Francia. «Salgono fino a duemila metri, attraverso un valico chiuso d’inverno proprio perché è pericoloso, a rischio caduta massi. Lì la neve è fresca e si sprofonda».

      Prima della seconda guerra mondiale il tragitto percorso dai migranti era italiano. Erano i nostri parenti a percorrerlo per raggiungere la Francia e tentare la fortuna. Il movimento dei popoli non si è mai fermato e ora, a solcare lo stesso sentiero impervio, sono uomini nati soprattutto in Nord Africa. Sono arrivati fino a qui, dove i migranti sembravano «un problema» appartenente solo al Sud del Mondo. «Nessuno immaginava di vederli in mezzo alla neve», sospira una signora al bar.

      «Bardonecchia nel 1947 era un paese di passeurs», racconta Florindi. «Per molti era un secondo stipendio. La notte li facevano dormire nelle stalle e all’alba li portavano a destinazione».

      E i primi passeurs sono tornati. C’è già qualcuno che cerca di cavalcare la disperazione di chi è disposto a tutto per arrivare in Francia e in cambio di denaro offre un passaggio. «Ma spesso non li porta nemmeno a destinazione, si ferma prima e li lascia per strada, dicendo che sono quasi arrivati ma non è così», racconta Fernanda.

      La storia si ripete davvero, gli eventi lo raccontano da sempre. «Noi gli facciamo anche vedere le foto di chi è finito in ospedale quasi assiderato, a un ragazzo hanno amputato una gamba poco tempo fa. Ma loro sono decisi a tentare la traversata».

      Si sentono senza alternative e rinchiusi in una bolla in cui il tempo sembra non curarsi di loro e delle loro vite.

      «I ragazzi giovani che incontro ogni giorno - continua Mohammed, il più grande - sono molto più arrabbiati dei loro padri migranti. Loro vogliono vivere, vogliono avere una possibilità e fanno di tutto per prendersela». Anche se vette così alte e innevate non le hanno mai viste, ma restare senza nemmeno un sogno da realizzare fa più paura della morte.

      È così che si chiude il 2017 europeo, l’anno in cui le Ong che prestavano soccorso in mare sono state messe sotto accusa e l’Italia ha stretto accordi con la Libia. Qui a Bardonecchia gli abitanti dicono che «gli stranieri a loro non danno fastidio. Fino a quando si comportano bene. Fino a quando non diventano troppi».

      https://www.vanityfair.it/news/approfondimenti/2017/12/28/migranti-bardonecchia-rotta-alpina

    • Briançon : le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre ouverte au chef de l’État

      Au lendemain des États généraux de la migration qui se sont tenus à Briançon les 16 et 17 décembre, le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre à Monsieur Emmanuel Macron, président de la République :

      "À Névache, dans les Hautes-Alpes, la neige tombe depuis plusieurs jours, la Lombarde est parfois brutale ! Les températures nocturnes passent maintenant entre 10 et 15 degrés sous zéro, mais les migrants venant d’Italie continuent d’arriver... Jeunes, souvent mineurs, ils tentent le passage du Col de l’Échelle (1 700 m) pour rejoindre ensuite Briançon ; 20 km à pieds si aucun automobiliste ne veut ou ne peut les prendre en charge. À moins qu’un fourgon de gendarmerie ne les intercepte pour les reconduire à la frontière, de jour comme de nuit, sans tenir compte de la réglementation concernant les mineurs isolés ou les demandeurs d’asile. Ils ont des ordres, disent-ils ! Des ordres pour ne pas respecter la réglementation ? Ces migrants, d’Afrique subsaharienne et le plus souvent francophones, sont pourtant prêts à tout pour rejoindre notre pays et y rester pour reconstruire dignement leur vie en travaillant. Nous devrions en être fiers. Dans les conditions actuelles, nous les accueillons comme des terroristes en leur appliquant une législation antiterroriste qui n’a pas été faite pour eux ! La lecture du code Schengen des frontières est, à cet égard, très claire. Vous avez, nous dit-on, découvert récemment, à la suite d’un reportage de CNN, l’horreur des marchés aux esclaves de Tripoli. Quelques contacts directs avec les Névachais ou les Briançonnais vous en auraient appris bien davantage, depuis deux ans au moins. Ancien officier formé à Saint ?Cyr, je m’interroge sur ce que pouvaient bien faire nos services de renseignement !? Pourtant, mais vous n’avez pas abordé cette question en nous parlant des marchés de Tripoli, l’Union Européenne (dont l’Italie et la France) paît les gardes ?côtes libyens pour récupérer en mer un maximum de migrants et les renvoyer en Libye ; où ils les revendent peut ?être, une deuxième fois ?

      L’Union Européenne et notre pays (qui revendiquent leurs racines chrétiennes quand cela les arrange) contribuent ainsi au bon fonctionnement d’un commerce que l’on croyait à jamais disparu. Bilan de ce long voyage : lorsqu’il parvient sur notre territoire, un migrant a souvent perdu le tiers de ses compagnons de route entre le Sahara, la Libye, la Mer Méditerranée et la France. Aujourd’hui, l’hôpital de Briançon en ampute certains qui ont « pris froid » dans la montagne au péril de leur vie. Devons nous attendre des morts pour que nos institutions réagissent humainement ?
      On comprend que, pensant arriver dans la commune de Névache au terme d’un voyage qui aura souvent duré deux ans, rien ne les empêchera de s’engager dans la traversée du col de l’Échelle, quelles que soient les conditions. Pour nous, Névachais, l’impératif humanitaire s’impose même si les forces de l’ordre s’efforcent de nous en dissuader. Il faut les retrouver si possible, les recevoir, les remettre en forme, les soigner puis les conduire à Briançon où ils pourront commencer à traiter leurs problèmes administratifs avec les associations en charge de ces questions.

      Au cours du mois de décembre, nous avons dû, à six reprises au moins, faire appel au « Secours en Montagne » pour leur éviter la mort, non sans éviter gelures et traumatisme divers. Pas encore de morts reconnus, mais cela viendra, Monsieur le Président. Et tout cela avec des bénévoles non seulement sans aide de l’État mais au contraire sous la menace des forces de maintien de l’ordre. À vouloir faire oeuvre humanitaire, nous Névachais et Briançonnais, sommes traités comme des délinquants ! On nous interdit de prendre un Africain en stop, quelles que soit la température et l’heure !
      Briançon : le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre ouverte au chef de l’État - 2

      Depuis quand l’automobiliste devrait-il refuser un passager au seul vu de sa couleur ? Dans la Clarée, Monsieur le Président, nous refusons l’apartheid ! Quelles que soient les menaces, nous ne pouvons refuser l’action humanitaire, à commencer par le secours à personnes en danger, lorsque les pouvoirs publics abandonnent cette mission. Les ordres reçus ne sont pas de pratiquer une action dignement humaine mais de renvoyer en Italie un maximum de migrants au mépris de leurs droits. Où est la solidarité européenne, Monsieur le Président ?

      Monsieur le Président, je sais que nous ne sommes pas les seuls français dans cette situation. Vous vous trouvez dans une position qui durera aussi longtemps que l’on ne prendra pas le mal à ses sources, réchauffement climatique, sous développement de nos anciennes « colonies » et autres. Vous savez vendre des avions, pour tuer ! Pouvez-vous prendre en considération la misère de ces migrants, comme le Pape François y invite nos contemporains ?

      Les Névachais et les Briançonnais, respectueux de la loi, sont prêts à travailler avec les services de l’État pour trouver des solutions, à condition que l’État accepte de les entendre, ce qui n’a pas encore été le cas, et de les entendre sans vouloir en faire des auxiliaires de police ! Nous pourrons alors retrouver la fierté de nos cimes et redonner à notre pays l’honneur qu’il est en train de perdre et que nous perdons tous avec lui.

      Souvenons-nous de ces milliers d’Africains morts pour la France au cours des deux dernières guerres mondiales. Ce sont leurs petits-enfants que nous devrions laisser mourir dans la neige ? Pour l’ancien Saint-Cyrien que je suis, dont la promotion porte le nom d’un colonel Géorgien mort au combat, de telles perspectives sont insupportables, Monsieur le Président. Nous comptons encore sur vous mais le temps presse."

      Bernard Ligier - citoyen de Névache

      http://www.laprovence.com/article/societe/4774520/briancon-le-collectif-citoyen-de-nevache-adresse-une-lettre-ouverte-au-c

    • Histoires de frontières #1, sur Radio Canut

      Mardi 9 janvier à 20h, Radio Canut (102.2FM à Lyon ou en streaming n’importe où ailleurs) diffuse deux documentaires sur les parcours des migrantEs dans les Alpes, la militarisation des frontières, mais aussi sur les luttes et solidarités en cours.

      Deux reportages de 30min chacun sont au programme :

      Un entretien réalisé fin décembre au squat Chez Marcel à Briançon qui permet de revenir sur l’aventure de ce lieu d’accueil, la situation à la frontière italienne dans les Hautes-Alpes mais aussi sur les enjeux et les perspectives des luttes actuelles.

      Un montage de différentes interventions lors de la soirée de soutien et d’information qui a eu lieu à Lyon le 14 décembre dernier. Prise de paroles de migrants et témoignages sur la situation à Ventimiglia (Italie), Briançon et Lyon.

      En direct, mardi 9 janvier à 20h sur Radio Canut (102.2FM en région lyonnaise ou en streaming via ce lien de n’importe où ailleurs).

      Les deux reportages seront ensuite disponibles en podcast sur les sites suivants :
      https://blogs.radiocanut.org/sav
      http://www.internationale-utopiste.org

      https://rebellyon.info/HISTOIRES-DE-FRONTIERES-1-sur-Radio-Canut-18562

    • Da Bardonecchia a Briançon, in viaggio con i migranti sulle Alpi

      Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.

      Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.

      Il grande cartello blu con la scritta bianca indica il nome della stazione: Bardonecchia. La cittadina piemontese a 1.312 metri d’altitudine gli è stata indicata da alcuni amici in una chat su Whatsapp. Da qui parte la rotta alpina, un sentiero che arriva in Francia dopo sei ore di cammino attraverso il valico del colle della Scala. Traoré annuisce: è arrivato.

      Con le prime luci del giorno proverà ad attraversare le Alpi, nonostante la neve. È il suo secondo tentativo di superare il confine: il giorno precedente ha già provato in treno, ma alla stazione di Modane è stato fermato dalla gendarmeria francese, tenuto qualche ora in un commissariato e poi accompagnato sul treno per l’Italia insieme ad altri cinque ragazzi.

      Pericolo
      Alle nove di sera ci sono undici gradi sottozero. Traoré non ha mai visto la neve in vita sua ed è proprio come se l’era immaginata: una distesa bianca sulla strada che scricchiola sotto i piedi. Il ragazzo, arrivato in Italia dalla Libia a luglio del 2017, ha le gambe sottili e muscolose, e saltella sulle scale del sottopassaggio della piccola stazione ferroviaria per cacciare i brividi. “Pericolo”, c’è scritto in inglese, francese, arabo e tigrino su un cartello nella bacheca della stazione, in cui si spiega che attraversare le Alpi nel pieno dell’inverno può costare la vita.

      A quest’ora la sala d’attesa è chiusa, a causa di un’ordinanza del sindaco e delle ferrovie dello stato del 1 febbraio 2017. I migranti arrivati qui per tentare di attraversare le Alpi aspettano che i volontari dell’associazione Rainbow for Africa aprano il piccolo locale accanto alla stazione: due stanze e un bagno nell’ex dogana, rimessi a posto dal Soccorso alpino.

      Il rifugio notturno non si può aprire prima delle 23, sempre per volere dell’amministrazione locale. Il sindaco teme che offrire servizi strutturati ai migranti possa rappresentare un fattore di attrazione, un pull factor. La stessa accusa era stata rivolta alle organizzazioni non governative (ong) che fanno operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale durante l’estate scorsa. E nel 2017 è stata usata in molte città italiane – da Roma a Ventimiglia – per criminalizzare chi offre pasti caldi, coperte e assistenza ai migranti in transito che dormono per strada.

      Nonostante tutto a Bardonecchia ogni sera, quando chiude la sala d’attesa della stazione, una decina di richiedenti asilo si rifugia nel sottopassaggio, aspettando di entrare nel ricovero notturno. Ad assisterli arrivano a turno dalla val di Susa e da Torino i volontari che si sono riuniti nella rete Briser les frontières, “sbriciolare le frontiere”. Portano bevande calde, pasti, vestiti, scarponi, giacche a vento, guanti. “Il nostro compito principale è informare le persone dei rischi a cui vanno incontro”, spiega Daniele Brait, attivista di Bussoleno. “Se uno guarda una cartina sembra che la distanza tra l’Italia e la Francia sia molto piccola, mentre in realtà in questa stagione andare in montagna senza equipaggiamento potrebbe significare non arrivare mai”.

      Molti volontari sono anche attivisti No Tav e spiegano che la battaglia contro l’alta velocità ha molto in comune con quella per la libertà di movimento delle persone. “I No Tav vogliono evitare che le montagne siano devastate per far passare un treno merci, in un sistema che permette alle merci di passare liberamente e lo impedisce alle persone”, afferma Brait.

      Dal Mediterraneo alle Alpi
      I volontari distribuiscono un piatto di lenticchie, del tè e alcuni indumenti. Mohammed Traoré prende una sciarpa e due cappelli. “Aquarius”, esclama quando mi vede. È come se fosse una parola magica. È il nome della nave di Sos Méditerranée e Msf che lo ha soccorso al largo della Libia e su cui ci siamo incontrati. Mi abbraccia. Ricorda il buio della notte quando era sul gommone, la paura di morire e la stanchezza che spossa dopo ore di navigazione sotto al sole. Mentre guardiamo le foto sul cellulare, ricorda i corpi stesi senza forze sul ponte della nave francese. Ricorda la gioia di aver visto le luci di “Pojallò”, del porto di Pozzallo, dal ponte dell’Aquarius per una notte intera prima dell’attracco, di aver pensato di essere finalmente arrivato in Europa.

      “Io credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso”. Dopo lo sbarco, Traoré è stato trasferito in un centro d’accoglienza a Cesena. Ma la risposta alla richiesta d’asilo non è arrivata. “Non ha funzionato, è stato il destino”, dice con una certa dolcezza. Per questo è scappato ed è finito a dormire per strada, quindi ha deciso di attraversare la frontiera.

      Alcuni amici, già arrivati a Tolosa, gli hanno suggerito il percorso. “Non ha senso per me rimanere in Italia anche se non è facile prendere la strada della montagna in pieno inverno”, dice in un francese lento e scandito. “Attraversare il deserto e il mar Mediterraneo è stato difficile, ma attraversare le montagne con tutta questa neve lo sarà ancora di più. Rischieremo di nuovo la vita, ma non abbiamo scelta”. Traoré non ha aspettative: “Potrò parlare il francese, che è la mia lingua. Tutto qui. Nessuna illusione”.

      A partire dalla fine di novembre, nonostante la neve e il freddo, il Soccorso alpino di Bardonecchia ha registrato il passaggio di migliaia di migranti dal valico del colle della Scala. “Abbiamo ricevuto molte chiamate, soprattutto di notte, e abbiamo trovato persone smarrite nei sentieri, alcune senza scarpe, tutte intirizzite e mal equipaggiate”, spiega Alberto Rabino, vicecapostazione del Soccorso alpino di Bardonecchia. Il 20 dicembre il Soccorso alpino è intervenuto in aiuto di sei migranti che erano rimasti bloccati nella neve: “Gli portiamo coperte termiche, indumenti caldi, ma una volta che si sono ripresi chiedono di continuare il percorso pur sapendo che dall’altra parte li aspetta la gendarmeria francese”.

      I respinti
      La notte Mohammed Traoré la passa steso a terra avvolto in un sacco a pelo rosso nel rifugio notturno del Soccorso alpino di Bardonecchia insieme ad altri – Adam, Aboubakr, Souleiman – con cui ha deciso di partire. Sono quasi tutti originari dell’Africa francofona, soprattutto della Guinea e della Costa d’Avorio. Carlino Dall’Orto, un medico di Vicenza di 69 anni, volontario di Rainbow for Africa, tenta inutilmente di convincerli che mettersi in cammino potrebbe essere pericoloso. “Arrivano a Bardonecchia con abiti non idonei al freddo e alla montagna, ma sono molto determinati”. Dall’Orto ha viaggiato per molti anni in diversi paesi dell’Africa e si rivolge ai ragazzi della stazione con un atteggiamento paterno cercando di convincerli a non partire.

      Il pomeriggio spesso arriva un pulmino bianco della gendarmeria francese, racconta Dall’Orto, si ferma davanti alla stazione e scarica i migranti irregolari fermati alla frontiera. A essere rimandati indietro dalla Francia non sono solo quelli che attraversano il valico alpino senza documenti, ma anche alcuni immigrati che risiedono in Italia e in Francia da molti anni e che non hanno tutti i documenti in regola dal punto di vista amministrativo. “C’è stato un ragazzo albanese giorni fa che aveva un problema con un visto e lo hanno riportato indietro”, dice Dall’Orto. Li costringono a scendere dal pullman o dal treno e li riportano a Bardonecchia o a Oulx alle ore più disparate del giorno e della notte.

      “Negli ultimi quindici giorni di dicembre dalla stazione di Bardonecchia sono passati circa cento migranti”, spiga Emanuel Garavello, operatore della diaconia valdese, che insieme ad altri colleghi ha aperto nelle ultime settimane una specie di sportello legale mobile. Il dato preoccupante, spiega Garavello, “è che molti fuggono dall’accoglienza molto prima di aver ricevuto una risposta alla domanda d’asilo. Decidono di lasciare i centri senza sapere che perderanno il diritto di starci e senza conoscere le opportunità di cui potrebbero beneficiare”. Da Bardonecchia, inoltre, passano tantissimi minorenni che non conoscono affatto i loro diritti e la loro situazione giuridica in Italia.

      La diaconia valdese, insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso di monitorare la situazione dei minori che transitano dalle Alpi e denunciare le violazioni quotidiane compiute dalla polizia francese, che li respinge alla frontiera nonostante abbia l’obbligo, soprattutto nel caso dei minori, di garantire loro protezione. “La polizia francese non fa alcuna distinzione tra adulti o minori, violando le norme internazionali”, spiega Elena Rozzi, avvocata dell’Asgi. “C’è stato un caso eclatante qualche mese fa: un ragazzino di 13 anni è stato abbandonato dalla polizia in piena notte, sotto la neve, subito dopo la frontiera. Per fortuna è stato trovato da una persona che passava in macchina”, racconta Rozzi.

      La traversata
      Mohammed Traoré apre gli occhi alle sette, nella stanza c’è un calore denso di corpi, un odore forte di aria consumata. Salta fuori dal sacco a pelo e comincia a vestirsi con cura: tre paia di pantaloni uno sopra all’altro, buste di plastica intorno ai piedi per evitare che la neve arrivi sulla pelle. Non ha scarponi, solo scarpe da ginnastica di pelle grigia. I volontari gli hanno regalato una giacca a vento. Con Adam, un ragazzo originario della Costa d’Avorio che vive in Italia da molti anni, riempie uno zainetto di biscotti e di bottigliette d’acqua.

      Poi fa colazione con gli altri, alcuni non se la sentono di partire subito, alla fine il gruppo accoglie un paio di ragazzi che sono appena arrivati alla stazione: prendono viale della Vittoria e poi la strada provinciale 216 che sale per quattro chilometri verso il pian del Colle, la località da cui parte il sentiero per la Francia. In fila indiana marciano sul bordo della strada tra gruppi di turisti con gli sci in mano che vanno verso gli impianti di risalita. Con andatura spedita passano davanti al villaggio olimpico costruito per i giochi invernali del 2006, poi attraversano le baite graziose della frazione di Les Arnauds. Ci vuole circa un’ora per raggiungere Melezet e poi il pian del Colle, dove parte una pista da sci di fondo che conduce al bivio per il Col de l’échelle, il colle della Scala, a 1.762 metri.

      Soffia un vento gelido, molto umido, ma è una bella giornata senza nuvole. I ragazzi si riposano dopo la prima ora di cammino alla base del sentiero, mangiano qualche biscotto, poi riprendono la camminata, piegati sulla salita, un passo avanti all’altro. Di fatto hanno già attraversato la frontiera, sono in territorio francese, ma in questo versante della montagna la polizia francese non si spinge. Si lasciano sulla destra una costruzione imponente e una diga, dopo qualche centinaia di metri c’è il primo bivio, la tentazione è di proseguire sulla pista da sci battuta, ma il sentiero da percorrere è quello fuori pista che svolta a sinistra.

      C’è un’indicazione per Briançon e Névache, qualcuno con il pennarello ci ha scritto sopra “Fight the borders, No Tav”. Comincia la parte più difficile della traversata: la neve è alta, in alcuni punti arriva a un metro. I piedi affondano e a un certo punto ci si ritrova immersi fino alle ginocchia. Sono tre ore lunghissime, i ragazzi sono concentrati, rimangono in silenzio mentre marciano sui tornanti. Aboubakr vuole scattare una foto ma gli altri gli dicono di muoversi. D’estate si sale in auto sulla strada asfaltata, mentre d’inverno la neve avvolge il paesaggio e nasconde tutto sotto due metri di neve. Il rischio è che dopo una nevicata si stacchino delle valanghe dalla cima, hanno detto quelli del Soccorso alpino.

      Quando mancano pochi metri al valico, Mohammed Traoré affonda nella neve. È preso dal panico, s’immobilizza, pensa che non ce la farà, che perderà l’uso dei piedi. Non li sente più per il freddo. I compagni si fermano, lo aiutano a rialzarsi, manca poco, gli dicono. Lo vedono sui navigatori dei cellulari che la destinazione è a pochi metri, c’è ancora da attraversare un paio di tunnel scavati nella roccia e poi comincerà la discesa nella valle della Clarée. Traoré si rialza, prova a concentrarsi su domani, sul futuro. “Pensavo che non ce l’avrei fatta”, dirà il giorno dopo, una volta arrivato. In effetti, come avevano detto i compagni, dopo i due tunnel è cominciata la discesa.

      Appena il tempo di riprendere fiato che arriva il timore d’incontrare la polizia. Adam è il più grande e anche il più lucido, ricorda agli altri ragazzi che si fermeranno al primo rifugio e aspetteranno che scenda il buio. Sono passate le 14, ma anche 14 chilometri e più di 500 metri di dislivello in mezzo alla neve. I passi s’incrociano per la stanchezza, ma i muscoli continuano ad andare. Mohammed Traoré ha una strana sensazione di calore. Nella prima casetta sulla strada ci sono dei ragazzi della valle, dei solidali, bénévoles si definiscono. Li invitano a entrare e a mangiare qualcosa. Sono abituati a incontri come questo. Scaldano il sugo su una macchina del gas. C’è un odore di pomodoro e umidità nel rifugio. I ragazzi aspetteranno che scenda il buio, più di due ore dopo, per riprendere la strada verso Névache.

      Briançon come Lampedusa
      Nevica quando Traoré e i suoi cinque compagni di viaggio arrivano a Briançon a bordo di una monovolume guidata da una coppia di turisti francesi. Sono stati intercettati sulla strada dai due, che hanno deciso di dargli un passaggio nonostante il rischio di essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Briançon dista venti chilometri da Névache, trenta minuti in macchina, e sono numerosi i valligiani che, oltre ad aprire le case ai migranti in transito, hanno cominciato a offrire passaggi fino alla città dove, da luglio del 2017, è stato aperto un centro di accoglienza nella vecchia caserma abbandonata del soccorso alpino.

      C’è un metro e mezzo di neve sul viale che porta all’ingresso, una decorazione di Natale è ancora appesa sulla porta di legno, sulla parete esterna un murale mostra una mano colorata che stringe in un pugno del filo spinato. È Adam il primo a entrare, poi gli altri. Una grande cucina si apre alla loro vista, intorno a un tavolo, alcuni ragazzi stanno mangiando un’insalata di avocado e pomodori, accompagnata da zuppa di fagioli e riso. Le pareti sono piene di bigliettini scritti dagli ospiti. “L’Italia e la Francia sono due cuori con uno stesso polmone: l’Italia mi salvato dal mare, la Francia mi dà la speranza di vivere”, ha scritto Mamadouba, un ragazzo della Guinea. Su un altro foglio sono riportati alcuni articoli della costituzione francese.

      I volontari si spostano da una stanza all’altra portando da mangiare. Nel centro di accoglienza autorganizzato ci sarebbe posto per 16 persone, ma in certi giorni nell’ex caserma hanno dormito anche settanta persone. Ora ce ne sono una quarantina. Alcuni si fermano poche ore, il tempo di mangiare, scaldarsi, altri qualche giorno. “Dipende dai soldi che hanno, alcuni partono subito. Altri vorrebbero restare più tempo, ma non possiamo ospitarli per più di un paio di giorni”, spiega Joel Pruvot, un maestro in pensione che fa il volontario nel centro, “perché a Briançon non c’è la prefettura e quindi non si può chiedere asilo”. Il posto più vicino per presentare la domanda è Gap, a novanta chilometri.

      Dall’inizio del 2017 sono passati dal centro di transito circa duemila migranti, nel cinquanta per cento dei casi minorenni. La maggior parte è originaria della Guinea e della Costa d’Avorio. Sono quasi tutti maschi, anche se ora nel centro ci sono due donne. Una è arrivata in autobus dal valico del Monginevro con i due figli e dorme su un materasso nella sala da pranzo del centro, per evitare la promiscuità con i maschi.

      “Nel migliore dei casi i migranti arrivano disidratati e stanchi, spesso presentano sintomi di assideramento”, racconta Pruvot. Briançon sembra l’unico posto in Europa in cui è ancora valido il motto: “Refugees welcome”, l’atmosfera è molto simile a quella di Lampedusa o di Lesbo all’inizio dell’ultima ondata migratoria. L’80 per cento degli abitanti della città è coinvolto nell’assistenza dei migranti, 51 volontari lavorano nel centro, i medici dell’ospedale passano ogni giorno per visitare i ragazzi, i negozi e i ristoranti donano frutta, verdura e altre cose da mangiare, alcune famiglie stanno ospitando i migranti in casa e le guide alpine pattugliano la montagna per assicurarsi che i migranti non si perdano.

      La regola della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo

      Il sindaco di Briançon, Gérard Fromm, ha appoggiato fin dall’inizio le attività dei volontari e ha concesso l’uso gratuito dell’ex caserma quando a metà dell’estate i volontari accoglievano i migranti in una tendopoli allestita in un parcheggio. “Questa è una cittadina di montagna e la regola della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo. Ecco perché tutti gli abitanti di Briançon sono coinvolti in questa impresa”, spiega Pruvot.

      In fondo, ammette, “stiamo facendo un lavoro che dovrebbe fare lo stato: impedire che ci siano degli incidenti in montagna, che ci siano dei morti”. Mentre parliamo, viene raggiunto da una telefonata. Dalla stazione di Bardonecchia avvertono che un minorenne del Sudan è partito da solo nel pomeriggio, vogliono assicurarsi che sia arrivato. Pruvot si alza e va a chiedere ad Ali, uno dei volontari, se nella lista dei nuovi arrivati risulti il nome del sudanese. C’è trambusto, Ali dice che dovrebbe essere arrivato in un altro centro insieme a due ragazzi, ma è meglio chiamare per essere sicuri. In cucina migranti e volontari giocano con Roland, uno dei due bambini del centro: è del Ghana e parla solo inglese come la madre Veronik. Ma gioca con tutti.

      Intanto Mohmmed Traoré si è seduto sulla panca in cucina e mangia un mandarino. “Sono un sopravvissuto”, dice. “Sono sopravvissuto al deserto e ho visto morire molte persone, sono sopravvissuto alle prigioni libiche e anche lì ho visto molte persone che non ce l’hanno fatta. Sono riuscito a sopravvivere alla traversata del Mediterraneo e ora anche alla neve delle Alpi. Ma ho come l’impressione che il viaggio non sia ancora finito”. È partito a quindici anni da Kankan, in Guinea, ha attraversato sette paesi e due continenti, si è lasciato alle spalle confini, pericoli e sofferenze. Ma ancora non sa che cosa lo aspetta e quale città finirà per chiamare casa.

      https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2018/01/09/bardonecchia-briancon-alpi-migranti

    • Une cordée solidaire au lieu d’une frontière

      La frontière n’a pas de pouvoir. La frontière ne tue pas. La frontière, en soi, n’existe pas. Toute frontière est le fruit de l’esprit d’hommes et de femmes qui ont le pouvoir de décider si elle est une ligne de contact, d’échange, de partage, ou un lieu de crispation, de frottement, de crise.

      https://www.lacite.info/hublot/cordee-solidaire-vs-frontiere

    • Col de l’Echelle : une quarantaine de bénévoles convoqués pour « délit de solidarité »

      « Une démission de l’Etat, contraire à ses valeurs républicaines, à laquelle répond un formidable élan de solidarité citoyenne » : c’est ainsi qu’Eric Piolle, le maire de Grenoble, résume la situation depuis le col de l’Échelle, où il s’est rendu mardi et mercredi, accompagné d’autres élus locaux parmi lesquels le sénateur de l’Isère, Guillaume Gontard. Ce col des Hautes-Alpes est considéré comme le passage à ciel ouvert le plus bas des Alpes occidentales (1762 mètres d’altitude). Depuis quelques semaines, il fait la Une de l’actualité en raison de la hausse importante des migrants qui l’empruntent, et par le fort mouvement de soutien qui se manifeste face à la situation – à l’image de la cordée solidaire du 17 décembre dernier.

      Sur le terrain, le collectif Tous Migrants a recensé plus de 1500 passages depuis le 1er septembre 2017 au sein de la structure d’hébergement d’urgence qu’il a ouvert à Briançon fin juillet. « 416 arrivées en septembre 2017, 445 en octobre, 335 en novembre et 231 en décembre », détaille Michel Rousseau, l’un des membres fondateurs de ce mouvement lancé en septembre 2015 et structuré en association depuis le 1er janvier 2017. Un chiffre qui ne prend pas en compte tous ceux qui sont interpellés par les forces de l’ordre au cours de leur tentative, ni ceux qui ne s’arrêtent pas au centre d’hébergement.

      « Il faut être un athlète pour entreprendre un tel parcours »

      Sans reconnaissance légale, celui-ci est installé dans une ancienne caserne de CRS de secours en montagne, établissement mis à disposition par la communauté de commune. Il témoigne des besoins grandissants en matière d’accueil : « Les passages quotidiens ont commencé en novembre 2016, mais depuis mai 2017, on voit arriver 10 à 30 personnes par jour », poursuit Michel Rousseau. Ces chiffres et cette tendance d’ensemble sont ainsi confirmés par la préfecture des Hautes-Alpes, contactée par Bastamag : « En 2017, près de 1900 étrangers en situation irrégulière ont fait l’objet d’une non-admission à la frontière franco-italienne dans les Hautes-Alpes. En 2016, 315 personnes étaient concernées par ce type de mesure. C’est depuis l’été 2017 que la pression à la frontière est devenue plus intense. On peut légitimement penser que les franchissements irréguliers de la frontière en 2017 sont supérieurs à 1900, dans la mesure où nous ne pouvons comptabiliser que les personnes interpellées, et pas celles qui réussissent à passer en France. »

      Après la vallée de la Roya et Vintimille au sud, le col de l’Échelle, qui permet de rejoindre Névache et la vallée de la Clarée en France depuis l’Italie, serait donc devenu le nouveau point chaud de la « crise migratoire » européenne. Sans que cela ne corresponde pour autant à un véritable déplacement des flux vers le nord : « Ceux qui tentent le passage ici ne sont pas représentatifs de la population de migrants en général, explique Michel Rousseau, qui en dresse le portrait détaillé. C’est une population jeune, de sexe masculin, principalement francophone – une majorité de Guinéens, notamment. Il faut de toute façon être un athlète pour entreprendre un tel parcours ».

      300 personnes évacuées vers les urgences à cause du froid

      Avec l’arrivée de l’hiver, les images nocturnes de ces migrants en sandales dans la neige ont fait le tour du monde, symboles des conditions extrêmes dans lesquelles sont entreprises ces traversées. Pour l’heure, aucun décès n’a été constaté sur place, « un petit miracle ». Mais ce sont plus de 300 personnes qui ont été évacuées vers les urgences de l’hôpital à leur arrivée à Briançon, selon les chiffres communiqués par Tous Migrants. Deux personnes ont du être amputées l’année dernière, victimes d’hypothermie, tandis que deux autres ont été grièvement blessés suite à une chute dans le ravin en tentant d’échapper à un contrôle policier, en août 2017.

      Car dans le même temps, les forces de police ont renforcé localement leur dispositif. Police au frontière, gendarmes et militaires sont présents sur place : « Il y a au moins 150 personnes mobilisées », estime Michel Rousseau, qui évoque sans détour une véritable « chasse aux migrants » depuis le printemps 2017. « Les effectifs locaux de la PAF à Montgenèvre et de la brigade de gendarmerie de Briançon positionnés à la frontière sont appuyés ponctuellement par des renforts de gendarmerie (une quinzaine actuellement) » indique ainsi le service de communication de la préfecture des Hautes-Alpes.

      « Le président Macron doit cesser d’avoir peur »

      Arrêtés dans leur expédition, les migrants interpellés seraient la plupart du temps remis en liberté un peu plus loin, côté italien. Une logique absurde : « Qui peut donc penser qu’ils vont rester dans le village italien alors qu’ils sont francophones et qu’ils ont traversé des milliers de kilomètres pour arriver là ? », pointe Eric Piolle, qui exhorte Emmanuel Macron « à adopter un regard humaniste et pragmatique car les exilés sont là. Le président doit cesser d’avoir peur : les murs ne seront jamais assez haut pour arrêter les hommes qui veulent vivre ».

      Quand ce ne sont pas les journalistes qui sont visés, les bénévoles locaux, engagés notamment dans les maraudes de soutien, sont les autres victimes de ces contrôles : une quarantaine de personnes aurait ainsi déjà été convoquée au titre de l’article L. 622-1 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, qui sanctionne l’aide à l’entrée, à la circulation et au séjour irréguliers d’un étranger en France – ce que l’on appelle plus communément le « délit de solidarité ». « Les bénévoles qui aident ne sont pas des délinquants, ce sont des héros » défend Eric Piolle. Une situation qui ne fait que confirmer le tour de vis anti-migratoire des politiques françaises en la matière, condamnées ce week-end pour « complicité de crime contre l’humanité » par le Tribunal permanent des peuples.

      https://www.bastamag.net/Col-de-l-Echelle-une-quarantaine-de-benevoles-convoques-pour-delit-de
      #délit_de_solidarité

    • #Val_Susa, No border in marcia sulla neve: “Migranti rischiano la vita qui sulle montagne, ospitalità è nostro dovere”

      Attivisti no borders italiani e francesi insieme, circa mille persone domenica 14 gennaio hanno marciato sulla neve, attraversando il confine italo-francese di Claviere. Un corteo che ha percorso la stessa strada dei migranti, organizzato per protestare contro la militarizzazione delle frontiere. Quella alpina, nonostante il gelo e il rischio di morire assiderati, è una rotta sempre più battuta da coloro che cercano di arrivare in Francia, soprattutto dopo la chiusura dei confini a Ventimiglia. “I migranti continuano ad arrivare rischiando la loro vita sulle montagne – raccontano gli attivisti della rete solidale Briser la frontier – e questo è il risultato delle politiche di chiusura delle frontiere a Ventimiglia e negli altri confini”

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/14/val-susa-no-border-in-marcia-sulla-neve-migranti-rischiano-la-vita-qui-sulle-montagne-ospitalita-e-nostro-dovere/4092370

    • #Migrants risk death crossing #Alps to reach #France

      It took Abdullhai (below) almost three years to get from his home in Guinea to a rocky, snow-covered Alpine mountain pass in the dead of winter, for what he hopes will be the final stage of his journey into France.

      The terrain is steep and dangerous and he and a group of five other migrants face risks ranging from losing their footing on steep drops, being struck by falling rocks or succumbing to the -9C (15°F) temperatures in clothing ill-suited to the terrain.


      https://widerimage.reuters.com/story/migrants-risk-death-crossing-alps-to-reach-france

    • Italy: March supporting migrants who make deadly Alps crossing

      Italian pro-migration activist group #Briser_les_frontières marched on the French-Italian mountain border near Claviere and Moginevro on Sunday to protest migration laws at borders preventing the sanctuary of refugees. The activists carried pro-migration banners as they travelled between the two mountains in a similar route which asylum seekers have been known to cross to get between countries often at great risk. Italian and French mountain police blocked their paths however for most of the protest, but activists eventually reached their destination by staying close to the ski slopes. Briser Les frontieres solidarity network member Daniele Brait explained: “In recent months there have been many attempts to cross the border into the Alps that seem to have become the new Mediterranean. People who have managed to survive the sea today risk their lives in these mountains.” Migrants are known to regularly attempt to traverse the Colle della Scala (Cole de l’Echelle in French) in freezing temperatures some 1800 metres above sea level between Italy and France, resulting in the death of many. SOT, Nicoletta Dosio, No-Tav movement spokesperson (Italian): “The motivations that bring us here today is to express solidarity and to reiterate that the World with the borders is a world that does not serve and we don’t want.” SOT, Nicoletta Dosio, No-Tav movement spokesperson (Italian): “This Europe, which is the Europe of Maastricht, is a fortress that exploits the countries of the South of the world with the war and does not allow the poor of the Earth, who have become poor because of this exploitation, to cross its borders.” SOT, Daniele Brait, Briser Les frontieres solidarity network member (Italian): “In recent months there have been many attempts to cross the border into the Alps that seem to have become the new Mediterranean. People who have managed to survive the sea today risk their lives in these mountains.” SOT, Daniele Brait, Briser Les frontieres solidarity network member (Italian): "One of the rules of the mountain, as well as one of the rules of the sea, is that people who need help, a warm place, a blanket, a jacket, even just something like a hot dish, are not abandoned.” SOT, Briser les frontieres Activist (Italian): “Italy has always done business with Libya where there are detention centers that are lager.” SOT, Briser les frontieres Activist (Italian): “It finances them with the excuse of fighting terrorism and managing migration flows. In these camps people are tortured and women raped.”

      https://www.youtube.com/watch?v=zxELo_bJG4c&feature=share

    • Quando non esisteranno più frontiere, nessuno morirà per attraversarle. Aggiornamenti dalla route des Alpes

      Domenica 14 gennaio la rete di solidarietà Briser les frontières (abbattere le frontiere) ha indetto una camminata lungo la frontiera con la Francia contro i confini e per la libera circolazione delle persone.

      Alla chiamata hanno risposto circa un migliaio di persone provenienti dalla Val Susa - le immancabili bandiere No Tav, stavolta insieme a quelle No Border, sventolavano tra la folla -, da Torino e dalla Francia. Una valle in cui la rete Briser les frontières non può fare a meno di sottolineare l’ipocrisia di politiche che mentre distruggono l’ambiente per far muovere liberamente merci e turisti lungo le linee ad Alta Velocità “chiudono tutti gli spazi a coloro che non gli rendono il giusto profitto, preparando il terreno di quello che rischiano di far diventare l’ennesimo cimitero a cielo aperto”, scrivono su un volantino.


      http://www.meltingpot.org/Quando-non-esisteranno-piu-frontiere-nessuno-morira-per.html

    • Autres montagnes, toujours froid et neige qui mettent les réfugiés en danger... mais là, c’est au #Liban :

      Des réfugiés, piégés par la neige, meurent de froid

      Une dizaine de réfugiés syriens — dont des femmes et des enfants — ont péri dans les montagnes libanaises enneigées.

      https://www.lematin.ch/monde/refugies-pieges-neige-meurent-froid/story/21301145

      Un ami syrien a posté sur FB cette photographie, apparemment de la famille dont parle l’article ci-dessus.

      Son commentaire :

      Cette famille syrienne est morte congelée aux frontière syro-libanaises, par l’interdiction des milices de Hozballah, ceux qu’ils échappent les bombardements les frontières les congèlent

      Le commentaire en arabe d’une autre personne, à l’origine du post sur FB :
      ماتوا بردا وألما في جبال لبنان الشرقية بالقرب من بلدة الصويري

      ...
      يارب إرحم السوريين فقد ضاقت بهم الدنيا وتسكرت أمامهم السبل .
      أردوا الدخول عبر الجبال تهريبا هربا من الموت
      فكان الموت إنتظارهم.

      La dernière partie de la citation en arabe devrait dire, si google translate fait bien son boulot :

      Ils voulaient entrer dans les montagnes pour échapper à la mort et la mort les attendait.

      Selon une brève recherche google pour essayer de trouver l’origine de l’image, voici ce qui semblerait être la première fois que cette image a été mise sur internet :
      http://www.mansheet.net/Akhbar-Aalmyh/1478462/%D9%85%D8%AC%D8%B2%D8%B1%D8%A9-%D9%84%D9%84%D8%A7%D8%AC%D8%A6%D9%8A%D9%86-

      Syria conflict : 15 refugees found frozen to death

      Fifteen Syrian refugees - some of them children - have been found frozen to death while trying to cross the mountainous border into Lebanon.

      http://www.bbc.com/news/world-middle-east-42758532

      Suite au commentaire de @ninachani, j’ai enlevé les images, que j’ai décidé tout de même de laisser sur seenthis, mais sur en faisant un billet à part :
      https://seenthis.net/messages/667555

    • Pierre, accompagnateur en montagne : « Nous ne sommes pas des passeurs »

      A la différence des guides de haute montagne, qui encadrent l’alpinisme, l’escalade ou le ski, l’activité des accompagnateurs en montagne se concentre sur la randonnée pédestre en été et en raquette l’hiver. Ils transmettent des connaissances sur le milieu montagnard, la faune, la flore, le patrimoine et l’histoire des territoires parcourus. Pierre, qui a préféré conserver l’anonymat, est accompagnateur en montagne depuis une dizaine d’années dans le Sud-Est de la France et habite dans le Briançonnais, dans le département des Hautes-Alpes. Il explique comment s’organise l’aide aux migrants qui traversent, au péril de leur vie, les cols de l’Echelle ou de Montgenèvre pour rallier la France.


      https://www.alternatives-economiques.fr/pierre-accompagnateur-montagne-ne-sommes-passeurs/00082620

    • Puntata 87 | #Briser_les_frontiers

      Domenica 14 gennaio Briser les frontiers, una marcia popolare sulla neve, si è portata al confine Italia Francia per accendere i riflettori su una frontiera (mobile per le merci ma sempre più ostica per gli umani) che racconta le nuove rotte migranti e l’inutilità del concetto stesso di confine.


      http://amonte.info/picchi-di-frequenza/puntata-87-briser-les-frontiers

    • Montagnes, migrants en péril

      Entretien depuis le Bus Cartouche à Genève avec Cristina Del Biaggio, maîtresse de conférence à l’Université de Grenoble et géographe spécialiste des questions de migration et des frontières.

      Le col de l’Échelle dans les Haute-Alpes, théâtre tragique du passage de personnes migrantes. Le froid implacable et le manque d’équipement à l’origine d’un drame humain dont on ne mesure pas encore l’étendue...

      http://audioblog.arteradio.com/post/3082548/montagnes__migrants_en_peril

    • Bardonecchia, le nouveau mur où échouent les espoirs des migrants

      « On n’a rien à perdre. Sans travail et sans argent, nous sommes prêts à prendre tous les risques pour parvenir à franchir cette frontière », assure un jeune Guinéen qui préfère ne pas donner son nom.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/bardonecchia-le-nouveau-mur-ou-echouent-les-espoirs-des-migra

    • Dodging Death Along the Alpine Migrant Passage

      Along the dangerous Alpine route from Italy to France, Annalisa Camilli of Internazionale meets young migrants desperate to reach northern Europe, and the local volunteers trying to make sure their villages are not another deadly stop on the migration trail.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2018/01/25/dodging-death-along-the-alpine-migrant-passage

    • Quand il s’agit d’une alpiniste française en difficulté dans l’Himalaya, des « secours hors normes » sont mis en place pour lui venir en aide, nous dit Ledauphine.com. Fort heureusement d’ailleurs.

      Mais s’il agit des personnes à la peau noire à la recherche d’un refuge en danger sur le Col de l’Echelle, alors là, ce ne sont pas les « secours mis en place » qui sont « hors norme », mais les forces de police, qui, au lieu de les secourir, les refoulent en Italie.

      Selon la nationalité, l’humanité n’a pas droit au même traitement.

    • GRAND FORMAT. Briançonnais, ce sont eux, les premiers de cordée solidaire !

      Plus d’un millier de Briançonnais se sont mobilisés pour parer aux urgences des migrants qui arrivaient à leurs portes dans les pires conditions. Une chaîne exceptionnelle portée par la fraternité. Rencontre avec ceux qui donnent sens à la dignité.

      https://www.humanite.fr/grand-format-brianconnais-ce-sont-eux-les-premiers-de-cordee-solidaire-6498

      signalé par @vanderling sur seenthis : https://seenthis.net/messages/665922

    • Nevica ancora sulla rotta di montagna

      Nevica ancora, sul passo del Colle della Scala, sulla rotta da Bardonecchia a Briançon, e su quella nuova che si è aperta sulla pista da sci di Claviere. I giovani migranti affrontano il cammino in scarpe da ginnastica tentando di arrivare in Francia. Lorenzo Sassi ed Emanuele Amighetti hanno passato un po’ di tempo con loro - e con gli abitanti del posto che si adoperano per aiutarli in armonia con la legge della montagna.

      Il Colle della Scala, a 1.762 metri di altezza, è il passaggio più basso delle Alpi occidentali. Da lì passa la cosiddetta “nuova rotta dei migranti” che va da Bardonecchia a Briançon. La stampa francese e quella locale italiana avevano già cominciato a parlarne sul finire dell’estate scorsa. Con l’arrivo dell’inverno, e il conseguente aumento dei rischi, l’attenzione si è riaccesa. La tratta di cui si è parlato parte da Melzet, una frazione di Bardonecchia che ospita anche un impianto sciistico, e arriva a Nevache, primo paesino oltre il confine. Tempo di percorrenza stimato: sei ore.

      Finché è rimasto aperto il passaggio di confine a Ventimiglia, che serviva da valvola di sfogo e canale di redistribuzione dei migranti, la tratta di Bardonecchia non ha impensierito nessuno. Il problema è arrivato dopo. Una volta blindata la frontiera a Ventimiglia, i migranti hanno fatto dietrofront fino a Torino. Da lì, una volta saputo di questo passo tra le montagne che conduce in Francia con relativa facilità, sono confluiti in massa verso l’agglomerato urbano che si frappone fra il Colle della Scala, il confine e, ovviamente, la Francia. Le città coinvolte sono cinque: Bardonecchia, che è la città di riferimento per tutti i giovani migranti perché lì si trova il centro di accoglienza gestito da Rainbow4Africa; Oulx, cittadina a circa 15 minuti da Bardonecchia, usata dai migranti come appoggio per evitare i controlli della polizia nelle città cardine; Clavière, cioè l’ultima località italiana prima del confine; Nevache, primo villaggio oltre la dogana; e infine Briançon, l’Eden sognato dai migranti, ovvero la città in cui la paura svanisce. Lì si è già ben lontani dal confine, al sicuro – in teoria.
      Sul versante italiano

      Per via dell’insistente via vai di giornalisti, fotografi e videomaker che ha in parte scombussolato l’ordine urbano di Bardonecchia e dintorni, gli abitanti sono un po’ restii a parlare, almeno all’inizio. A irrigidire gli animi è anche il freddo: le temperature arrivano fino a 10 sottozero e si vive intorno ai 1700 metri di altezza, dove tira un vento che congela anche lo stomaco.

      Colle della Scala è una vecchia mulattiera, quindi un facile passo di montagna che in estate viene battuto da famiglie e amatori, non solo da montanari esperti. A complicare le cose, tuttavia, è il clima. Nei giorni che hanno preceduto il nostro arrivo, una tormenta ha scaricato dai tre ai cinque metri di neve su strade, case e, ovviamente, il sentiero del Colle. L’impresa era già difficile per un migrante che camminasse in scarpe da ginnastica su un sentiero di montagna a gennaio, ma l’arrivo della bufera ha peggiorato le cose.

      A pochi passi dall’inizio del sentiero c’è una baita che offre rifugio a sciatori stanchi, passeggiatori occasionali e abitanti del posto. Il gestore della baita mi racconta che è ormai un anno e mezzo che ogni giorno vede passare davanti alle finestre del locale dieci o venti migranti. Tra di loro anche donne e bambini – “ma finché era estate, sai, non era un problema. La strada è relativamente facile. Il problema si pone ora, con tutta questa neve. È impossibile proseguire oltre i primi 500 metri”. Mi racconta di un ragazzo che, un paio di mesi fa, con delle semplici scarpe da corsa, si è fatto il Colle in solitaria: “è arrivato in Francia, ce l’ha fatta, però una volta arrivato gli hanno amputato i piedi”. L’ispettore capo di Bardonecchia Nigro Fulvio conferma la storia. Il ragazzo oggi vive a Briançon, in una delle case messe a disposizione dall’amministrazione comunale.

      Qui è anche molto difficile tentare un soccorso. Molti migranti tentano comunque il valico senza conoscere la natura volubile della montagna e le sue asperità, e spesso senza un abbigliamento adeguato. I più fortunati arrivano in Francia, altri vengono fermati dalla “gendarmerie” francese; molti, invece, rimangono intrappolati tra i boschi e la neve dopo aver smarrito il sentiero. Per la comunità locale e per il sindaco, Francesco Avato, il timore più grande – che giorno dopo giorno diventa certezza – è che, con l’arrivo della primavera, la neve sciolta riconsegni i corpi dei dispersi.
      Il lavoro dei volontari

      A Bardonecchia vengono accolti tutti i migranti che arrivano da Torino, che provano a passare il Colle e poi vengono rispediti indietro dalla polizia francese. All’inizio incontro soltanto i volontari di Rainbow4Africa che da tempo si occupano insieme alla Croce Rossa di dare aiuto ai migranti: un pasto caldo, assistenza medica (ogni notte un dottore volontario dell’associazione resta a vegliare il dormitorio) e assistenza legale – cioè altri volontari come Maurizio Cossa dell’Associazione Asgi. Il compito di Maurizio – e degli avvocati che, come lui, offrono questo tipo di prestazioni gratuite – non è tanto quello di riuscire a sbloccare procedimenti legali, quanto piuttosto quello di chiarire ai giovani migranti la loro “situazione legale”, perché molti di loro non sanno perché non possono andare in Francia, non sanno perché vogliono andarci e, il più delle volte, non sanno che, andando in Francia di nascosto, rischiano di perdere quei pochi diritti conquistati in Italia. Diritti che, per quanto scarni, restano comunque diritti.
      Il centro di Bardonecchia funziona a pieno regime, ospitando in media una ventina di ragazzi al giorno. Per ordinanza comunale, però, apre soltanto alle 22:30 – così da accogliere i migranti per la notte e rifocillarli – per poi chiudere i battenti all’alba, subito dopo la colazione, intorno alle 7:30. Al centro troviamo Marina Morello, dottoressa in pensione e volontaria di Rainbow4Africa. Mi racconta subito che qui c’è stata una risposta corale da parte di tutta la comunità locale. Tutti vogliono dare una mano e tutti, nei modi più vari, contribuiscono a fare in modo che i migranti si sentano il più possibile a loro agio.

      Al centro i migranti ricevono cibo, acqua e, nel caso in cui comunichino di voler partire per le montagne, viene dato loro l’equipaggiamento appropriato. Tutti i vestiti, gli scarponcini, le sciarpe e i guanti arrivano al centro direttamente dalle case di volontari, per lo più del posto.

      Arriva l’ultimo treno: non scende nessuno. Per stanotte è andata bene, non c’è nessuno da convincere a non fare pazzie.
      Dov’è la Francia?

      Sul versante francese, il contraltare di Bardonecchia e Rainbow4Africa è Briançon, dove si trova il centro d’accoglienza Tous Migrants. Dopo non poca diffidenza davanti all’ennesimo “journaliste italien” che temono sia un poliziotto sotto copertura, mi fanno fare un giro all’interno. La scena è meravigliosa: circa 30 ragazzi che, insieme ai volontari della piccola cittadina francese, cucinano come se fossero in una brigata di un ristorante stellato. Al piano di sopra ci sono i letti, al piano di sotto lo stanzone coi vestiti, la sala da pranzo, una stanza per giocare a dama o Mah Jong, e un ufficio. I volontari di Tous Migrants offrono assistenza, e all’occorrenza spiegano ai ragazzi come raggiungere le città dove sanno di potersi ricongiungere con amici o parenti. Stando a quanto mi dicono i volontari, sembra che da luglio 2017 a fine gennaio 2018 siano arrivati a Briançon più di 2 mila migranti. Il sostegno del sindaco e degli abitanti nei confronti di Tous Migrants è molto forte. Ed è probabilmente per questo che, come mi dice il sindaco di Bardonecchia, “il sindaco di Briançon non è ben visto dal governo centrale”.

      La seconda sera che passo a a Bardonecchia c’è il caos. Si sono riversati alla stazione tutti i migranti che non erano arrivati nei giorni precedenti per via di un grosso blocco della polizia a Torino. Tra questi c’è un gruppetto che soprannominiamo i Big4, che non ha ben chiara in testa la situazione. Per dare un’idea del loro smarrimento, scendono dal treno, si accendono una sigaretta nella stazione e chiosano: dov’è la Francia? Non hanno idea di cosa fare, dove andare, solo un obbiettivo: la Francia. E l’obbiettivo è completamente sfasato rispetto al calcolo dei rischi, delle perdite o delle prospettive.

      Probabilmente dal Colle, qualche tempo fa, passò anche Annibale con i suoi elefanti. Il che rende più facile capire la caparbietà di alcuni dei ragazzi che si trovano al centro di accoglienza di Bardonecchia. Non è soltanto che ormai hanno visto il deserto, l’hanno attraversato e poi si sono fatti traghettare su un gommone nel Mediterraneo da un tizio senza scrupoli che ha pure chiesto loro dei soldi, e quindi pensano, cosa vuoi che sia la neve – che fra l’altro molti di loro vedono per la prima volta. È anche che, alla fine, non hanno più nulla da perdere. Uno dei ragazzi che ho conosciuto ed è riuscito ad arrivare in Francia, stava tentando quella tratta da due anni. Due anni in cui si è consumato spirito e corpo. Qui si finisce con l’impazzire, perché in Italia molti vengono rimpallati tra un ufficio e l’altro della burocrazia e la Francia, d’altra parte, sembra deriderli: per un verso vicinissima, a portata di mano, eppure così distante da sembrare irraggiungibile.
      Le ronde solidali

      Molti giovani vengono dissuasi dall’inerpicarsi sul Colle. Nel frattempo, però, è andata creandosi un’altra tratta. Parte da Claviere, e segue la pista da sci da fondo che attraversa il confine. Qui il problema non è il rischio, visto che la tratta si trova tutta in piano, ma la più alta probabilità di essere avvistati dalla “gendarmerie”.

      Molte persone del luogo, per aiutare i ragazzi, fanno ronde notte e giorno, così da recuperare chi si perde – o chi riesce a passare il confine – prima che lo faccia la polizia. Una di queste ronde si chiama “Briser les Frontières”: un gruppo di volontari italiani e francesi che, oltre a offrire pasti caldi, vestiti e rifugio, hanno creato una fitta rete cooperativa per recuperare i migranti dispersi. La bussola che orienta il loro lavoro è una legge della montagna – così simile a quella del mare – per la quale è necessario aiutare chiunque si trovi in difficoltà. Molto vicini al movimento No Tav, di recente hanno organizzato una marcia che ripercorre la tratta dei migranti, in segno di protesta e rappresentazione. Per loro non esistono confini, e infatti se la prendono con il Ministro dell’Interno Minniti per aver permesso la creazione dei durissimi campi di detenzione in Libia.

      Nel frattempo la “Paf”, la polizia di frontiera – oltre a fermare e poi rimandare indietro chiunque provi a valicare il confine senza i documenti necessari – ha seminato paura pattugliando la zona tra Bardonecchia e Oulx per fermare i migranti ancor prima che raggiungano il confine.

      Dopo vari tentennamenti, anche i Big4 provano a passare. Li incontro il giorno dopo dall’altra parte, al centro Tous Migrants. Sono al settimo cielo. Intanto il sindaco di Bardonecchia ospita una commissione dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. La domanda è cosa succederà adesso.


      http://openmigration.org/analisi/nevica-ancora-sulla-rotta-di-montagna

    • Une réflexion sur la #montagne, vue dans le cadre de l’expo/atelier « Drawing on the move » :


      Ici plus d’info sur l’atelier :
      http://blog.modop.org/post/2018/02/Atelier-participatif-Drawing-experience-on-the-move

      C’est le témoignage d’un réfugié, qui a transité par la vallée de #La_Roya (et non pas Briançon).
      Les témoignages ont été récoltées par Morgane et Mathilde chez #Cédric_Herrou

      Je transcris ici le texte d’Alex :

      « J’aime cette photo car j’ai vécu tellement d’histoires dans cette montagne : par exemple j’avais faim, j’avais soif, j’étais fatigué. C’est pour cela qu’il est important pour moi de me souvenir de l’histoire de ma vie. La police m’a aussi arrêté dans cette montagne. Je ne peux donc pas oublier cette montagne ».

    • Les citoyens passeurs au secours des migrants

      De plus en plus de migrants tentent de quitter l’Italie en franchissant les Alpes. Une des voies les plus employées se trouve en France dans une station de ski proche de Briançon. Redoutant de voir ces migrants mourir de froid dans leur périple, des citoyens leur viennent en aide au risque de finir en prison.

      https://www.rts.ch/play/tv/mise-au-point/video/les-citoyens-passeurs-au-secours-des-migrants?id=9345564&startTime=7.951655&stat

      Je transcris ici les mots prononcés par la représentante du gouvernement de la préfecture de Gap :
      « Moi je considère que c’est de l’incitation. Aider un étranger en situation irrégulière à traverser une frontière c’est illégal »
      Journaliste : « Pour vous c’est des incitateurs ou des passeurs ? »
      "C’est la même chose. Il y a une différence entre les passeurs rémunérés et les passeurs qui font cela pas pour une motivation financière. Mais l’accueil crée un #appel_d'air. Moi, je ne peux pas jeter la pierre à quelqu’un qui va voir passer sous ses fenêtres un étranger en situation irrégulière alors qu’il fait froid, alors qu’il fait nuit et que la personne soit accueillie quelques heures. Je ne peux pas leur jeter la pierre, mais tout comportement de ce type-là, a fortiori si c’est un comportement réfléchi, structuré et organisé, et c’est le cas par bien de structures associatives du briançonnais, crée une incitation, bien évidemment"

    • Le foto dei migranti tra la neve a Bardonecchia

      Il fotografo #Piero_Cruciatti ha passato due giorni nella stazione sciistica affollata di ragazzi che provano a raggiungere la Francia.

      Nell’ultimo periodo si è parlato molto di una nuova via che i migranti provano a percorrere per attraversare il confine tra Italia e Francia. La strada in questione è quella che passa per il Colle della Scala, raggiungibile dall’Italia passando per Bardonecchia, in Piemonte. Il percorso è fattibile in condizioni climatiche favorevoli, ma il freddo e la neve del periodo invernale stanno rendendo molto difficile e pericolosa la traversata: l’argomento è stato trattato da Diego Bianchi, in arte Zoro, in un servizio trasmesso durante la puntata del suo programma Propaganda Live. Sul posto è andato anche Piero Cruciatti, un fotografo freelance che tra il 12 e il 14 gennaio ha realizzato un servizio per l’agenzia fotografica AFP e ha poi raccontato la sua esperienza sul loro blog.

      Il punto di partenza della traversata è Bardonecchia, una piccola città che è anche una stazione sciistica. Cruciatti ci è arrivato partendo da Torino, sperando di incontrare i migranti già lungo il percorso di avvicinamento alla città; invece non ha visto nessuno fino a che non si è fatta sera. A quel punto la stazione dei treni diventa un punto di raccolta e di riferimento: la sala centrale resta aperta fino alle 21, che è l’orario di partenza e arrivo degli ultimi treni. Dopo una pausa di due ore, apre un’altra saletta riscaldata, all’interno della quale i migranti possono passare la notte: lì ci sono parecchi volontari che operano nella ONG “Rainbow for Africa”, che mettono a disposizione cibo, attrezzature per la traversata, ma anche supporto medico, consulenza legale e le loro conoscenze come membri del gruppo di soccorso alpino.

      I ragazzi che ha incrociato Cruciatti avevano tra i 20 e i 25 anni, tutti provenienti dall’Africa francofona: conoscere la lingua è una delle ragioni che li spinge a lasciare l’Italia e spostarsi verso la Francia, dove spesso hanno parenti o amici. I tentativi di traversata iniziano solitamente di prima mattina, quando Bardonecchia comincia ad affollarsi di sciatori: una delle cose che ha notato Cruciatti è lo stridente confronto tra l’abbigliamento tecnico di chi si trova lì per fare sport e quello molto poco adatto dei migranti.

      Nei giorni in cui è stato sul posto, il fotografo ha seguito due gruppi: il primo ha interrotto la traversata molto presto, dopo aver visto le brutte condizioni della strada. Un secondo, formato da due ragazzi della Costa d’Avorio, ha provato a proseguire per un’altra via, che attraversa la Valle Stretta e arriva al Monte Thabor: oltre c’è la Francia, ma per scalarlo bisogna essere alpinisti esperti. I ragazzi questa cosa non la sanno, né sono consci di molti altri pericoli che potrebbero incontrare in montagna in questo periodo. Una slavina lungo il percorso alternativo ha interrotto anche la traversata di questo secondo gruppo.

      Lungo il tragitto di ritorno a Bardonecchia si incontrano altre persone e degli alpinisti di Grenoble che, racconta Cruciatti, sono stati molto gentili con i migranti: hanno dato loro del cibo e dell’acqua e li hanno informati della pericolosità di ciò a cui stavano andando incontro.

      Difficilmente i migranti riescono ad arrivare in Francia; quando succede è molto comune che vengano intercettati dalla polizia francese e riportati a Bardonecchia. Per questo, racconta Cruciatti, tra i ragazzi c’è molto malumore. La comunità intorno a loro ha però reagito positivamente, con compassione e umanità. Il fotografo ha anche incontrato un uomo che gestisce un rifugio in Valle Stretta. L’uomo ha raccontato di aver sentito persone urlare nella notte e, uscendo per prestare soccorso, ha trovato ragazzi in mezzo alla montagna che cercavano di attraversare il confine di notte per aumentare le loro possibilità di riuscita. Il titolare del rifugio li ha portati nella sua struttura, perché, ha detto a Cruciatti, non poteva fare altro. Al tempo stesso però si chiede quanto a lungo potrà andare avanti questo sistema e quanto per lui sarà difficile intervenire in questo modo senza danneggiare la sua attività.

      https://www.ilpost.it/2018/01/25/migranti-bardonecchia-foto

    • Rescuing Migrants Fleeing Through the Frozen Alps

      Vincent Gasquet is a pizza chef who owns a tiny shop in the French Alps.

      At night, he is one of about 80 volunteers who search mountain passes for migrants trying to hike from Italy to France.

      The migrants attempt to cross each night through sub-zero temperatures. Some wear only light jackets and sneakers, and one man recently lost his feet to frostbite.

      “If the Alps become a graveyard, I’ll be ashamed of myself for the rest of my life,” Mr. Gasquet said.

      The migrants often head for #Montgenèvre, a ski town nestled against the border. France offers them more work and a chance at a better life.

      One night, Mr. Gasquet got a call from a group that had crossed into Montgenèvre. They got his number through word of mouth.

      To evade border police checkpoints, the migrants follow paths through the forest, often at night, when it is easy to get lost.

      “Ninety percent of them have never seen snow in their lives,” he said. “Some of them say, ‘We’ve seen it on TV,’ but on the TV, you don’t feel the cold.”

      He drove to find them.

      The work is risky. Helping anybody enter or travel in France without valid paperwork is technically illegal.

      When he reached Montgenèvre, four young men from eastern Africa were shivering behind a snow bank, while another stood in the street. He hurried them into his car and drove them to a shelter.

      It would have been a perilous walk after hours in the snow.

      On another night, Mr. Gasquet and other volunteers set out by car and on foot.

      They spotted a group walking through the snow and hurried them into the car and to a shelter called Le Refuge.

      Here, the new arrivals can get warm, have a hot meal and change into dry clothes.

      “It’s not my place to say whether or not I want migrants in my country. That’s a job for the politicians,” Mr. Gasquet said.

      “All I know is that I don’t want people dying in front of my door.”

      https://www.nytimes.com/interactive/2018/02/22/world/europe/alpine-rescue.html?action=click&module=Top%20Stories&pgtype=Homepage

    • Ivorian migrant mourns ‘four lost years’ on road to Europe

      Soumahoro ploughed on, moving up through Italy, sleeping seven to a tent in the middle of winter.

      Eventually he heard that west Africans like him were heading to France through the Echelle pass in the Alps — perilous, at 1,762 metres (5,780 feet), but with no border crossing.

      He entered France in January 2017, taking two days to cross the mountain.

      With the help of local volunteers, he has finally been accepted onto a training course as a carer while still waiting for his asylum claim to be processed.

      But his days are lonely and full of uncertainty.

      “I don’t have a fixed place where I can stay, I go from family to family,” he said.

      “You ask yourself what you’re doing here. You tell yourself you’re good for nothing. A man’s life shouldn’t be about staying put and doing nothing; you want to feel useful.

      “You want to feel like you’re contributing something positive to society.”


      https://www.capitalfm.co.ke/news/2018/03/ivorian-migrant-mourns-four-lost-years-road-europe

    • A la frontière franco-italienne, migrants et bénévoles piégés par des #passeurs

      « Par ici, venez ! ». Les nerfs à vif, transis dans la nuit glaciale, cinq migrants africains trébuchent dans la neige, puis s’agrippent aux mains tendues de bénévoles venus les secourir.

      Abandonnés par leur passeur depuis des heures côté italien des Alpes, ils ont finalement réussi à pied à travers la montagne leur entrée clandestine en France, à quelques dizaines de mètres seulement du poste de la police aux frontières (PAF).

      Il est 22h00 près du col de Montgenèvre, et leurs baskets et jeans sont dérisoires face aux -10 degrés de cet enfer blanc. L’atmosphère est électrique : depuis fin 2015, les contrôles aux frontières sont rétablis. Une patrouille de la PAF peut débarquer et briser l’ultime étape de leur long exil jalonné de drames dans le désert africain, en Libye, en Méditerranée...

      Des membres de l’association « Tous migrants », qui gère bénévolement le « Refuge solidaire », seul lieu d’accueil dans la ville proche de Briançon (est), sont eux aussi inquiets. « Est-ce que vous êtes venus avec des passeurs ? Combien avez-vous payé ? », lance l’un d’eux à un migrant. Les discussions s’échauffent au sein du petit groupe de Guinéens, Ivoiriens et Maliens.

      Bénévole de 19 ans, Elie vient de passer des heures à chercher ces jeunes en arpentant une piste de ski frontalière. « Je suis né ici, j’imagine bien ce que peuvent vivre des gens pas équipés, qui ne connaissent pas... », explique-t-il à l’AFP. « On ne peut pas rester les bras croisés dans son canapé (...) C’est pas grand-chose, on les réchauffe, on leur donne à manger et à boire, des vêtements chauds ».
      Le business des passeurs

      Mais depuis février, l’aide des bénévoles est compliquée par un nouveau phénomène : le business de plus en plus florissant de passeurs sévissant dans la gare de Turin (Italie). Selon les témoignages de migrants, ces passeurs sont francophones et originaires d’Afrique de l’Ouest.

      Aux migrants vulnérables arrivant du sud de l’Italie, ils facturent 100 à 350 euros le trajet en train entre les villes de Turin et Oulx et le ticket de bus entre Oulx et la commune italienne de Clavière, à quelques kilomètres de la frontière. Des trajets coûtant en réalité moins de 10 euros...

      Ils leur font miroiter un passage jusqu’en France mais les abandonnent à Clavière - y compris des femmes et des bébés - et appellent des bénévoles en se faisant passer pour des migrants. Puis ils s’éclipsent en Italie, leur bénéfice en poche.

      Steeve (prénom modifié), Camerounais de 26 ans, parti « s’aventurer » (migrer) avec son fils d’à peine 8 ans, est sous le choc. Il a accepté de témoigner malgré l’humiliation de s’être fait dépouillé de 250 euros, gagnés « en travaillant dans la cueillette des fruits en Sicile ».

      « A la gare de Turin, les +frères black+ sont nombreux, tu leur fais confiance aveuglément ; ils disent : +on a des amis de l’autre côté, y’a une voiture immatriculée en France qui viendra te chercher et t’amènera à Paris pour 300 euros+ ».

      Mais Steeve, son fils et une vingtaine d’autres ont été lâchés deux jours plus tôt un soir par leur passeur à Clavière, sans aucune idée de là où ils étaient. Pendant quatre heures, « ne sentant plus leurs pieds », ils ont supplié « l’ami français » de venir les chercher.
      Numéros de téléphone vendus

      Philippe Wyon, l’un des responsables bénévoles du « Refuge », s’insurge contre « l’instrumentalisation intolérable » par ces passeurs des bénévoles, qui risquent de se mettre dans l’illégalité. Les passeurs « se sont procurés nos numéros de téléphone et les revendent aux migrants ; on se retrouve piégés alors que notre mission, c’est de porter secours à des gens qui sont en danger en montagne, mais sûrement pas de faire le taxi pour des passeurs ».

      Les bénévoles ont donc pris la difficile décision de ne plus répondre au téléphone, et de faire des maraudes ponctuelles. Des affichettes mettant en garde les migrants contre cette arnaque ont été distribuées par les bénévoles à la gare de Turin. En 2017, 30 passeurs ont été interpellés, contre 6 en 2016, selon la PAF.

      Il est 23H00 sur le col de Montgenèvre, et les bénévoles apprennent qu’au moins une vingtaine d’autres migrants sont en train d’arriver... Au bord de l’épuisement, un jeune Ivoirien n’arrive plus à avancer et dit ne plus sentir ses doigts.

      « C’est des gamins, ils sont gelés, on les descend ! », tranche un bénévole cinquantenaire.

      Durant la quarantaine de minutes de route en lacets jusqu’à Briançon, Abdoul, adolescent malien au regard habité, ne cesse de trembler. Cela fait quatre nuits qu’il n’a pas dormi et a erré en tentant à plusieurs reprises de passer la frontière. « Où on va ? On doit aller à la Croix-Rouge ! », crie-t-il.

      Arrivés au « Refuge », les migrants, méfiants, s’asseoient autour d’une table. « C’est très important que vous nous disiez si vous avez payé ou pas. Ce que font les passeurs, ça nous met en danger et ça met en danger vos camarades », explique un bénévole.

      Un jeune Guinéen, ses pieds dans une bassine d’eau chaude, finit par avouer avoir payé 200 euros pour se retrouver côté italien de la frontière.

      A minuit, l’atmosphère s’apaise. Plat chaud, paroles réconfortantes, brosses à dent et serviettes sont distribuées à ces migrants africains. Abdoul esquisse même un sourire. Cette nuit là, il sera rejoint par une dizaine d’autres jeunes épuisés et déboussolés.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/la-frontiere-franco-italienne-migrants-et-benevoles-pieges-pa

      autre lien :
      https://www.lepoint.fr/monde/a-la-frontiere-franco-italienne-migrants-et-benevoles-pieges-par-des-passeur

    • Secourir les migrants sur la route des Alpes

      Depuis que deux jeunes Maliens ont dû être amputés des pieds et des mains à la suite de la périlleuse traversée du col de l’Échelle, dans les Hautes-Alpes, les équipes de volontaires issus des villages alentour se relayent, bravant les forces de l’ordre, pour porter secours aux migrants et leur offrir un refuge.

      https://www.arte.tv/fr/videos/079473-004-A/arte-regards

      Témoignage d’un habitant, Philippe Zanetti, dans le film :

      « On prend le #risque, mais le risque est plus petit que la vie de ces gens. Une vie humaine ça n’a pas de prix, je pense. C’est ma conviction »

      Dans les Alpes, ça a toujours existé les passeurs. Pendant la guerre, et avant. L’état d’esprit c’est : porter secours.

      L’Europe se doit de les protéger, mais les pourchasse.

      Commentaire de la journaliste :

      « En montagne, l’entraide est une tradition, explique Philippe. Une conviction que semblent partager ici toutes les communes de la zone frontalière alpine »

      #entraide #maraudes

      On explique que le maire de Briançon fait partie d’un mouvement qui s’appelle La #frontière_solidaire.

      Un des refuges de montagne (ici au Col de l’Echelle) que les bénévoles approvisionnent pour les migrants :

    • Vu sur FB (publié par Laurent Grossmann)

      Chasse aux migrants à Briançon

      Messieurs Gérard Collomb et Emmanuel Macron, vous pouvez être fière de votre police des frontières. En effet, ils exécutent à merveille vos ordres à la frontière de #Montgenèvre, sur la route de Briançon. Avant-hier soir, j’ai assisté à cette incroyable #chasse_à_l'homme. Des migrants venus d’Italie se faisaient littéralement courser par des gendarmes. Je me souviens avoir joué aux gendarmes et aux voleurs quand j’étais petit mais j’étais loin d’imaginer qu’en faite c’est au gendarmes et aux migrants que notre police joue aujourd’hui. Donc j’ai vu de mes yeux, des personnes pas équipée pour la montagne, arriver en France. Et je dois dire que l’accueil est digne, digne du #Far_West. Pourquoi faites vous ça ? Quel est chez vous cette étincelle qui vous anime pour dire à des hommes de chasser d’autres hommes, alors qu’ils sont en #danger, danger de mort, danger de gelures. Car dans cette vallée des migrants ont perdu des mains et des pieds et ce printemps ont découvrira sûrement des cadavres. Mais ça, j’ai bien l’impression que ça ne vous choque pas. La petite cerise sur le gâteau c’est que votre police demande aux citoyens « avez-vous vu des migrants ? ». Ces citoyens ont demandé :" mais comment on les reconnaît". Et ils nous ont répondu logiquement :" ba en général ils sont noirs". J’ai été interloqué par cette réponse si évidente. Mais je me suis demandé pourquoi ils n’ont pas fouillé la ville et arrêté tous les noirs...ils auraient pu en arrêter encore plus.
      Bon sinon, sachez que ceux qui ont finalement réussi à passé sont bien au chaud aujourd’hui, et reprennent des forces avant de repartir sur la route de l’exil. Et ceux qui ont été redéposé en Italie, sont aussi bien arrivés, malgré le froid et l’épuisement. Donc vos efforts sont vains. Sachez aussi que grâce à des secours citoyens, plusieurs femmes et un homme handicapé ont pu éviter cette course poursuite infernale avec vos forces de l’ordre. Et que grâce à eux aussi, ils retrouvent le sourire et de l’espoir, et ça, ça n’a pas de prix !

      #couleur_de_peau #Noirs #délit_de_faciès

      https://www.facebook.com/elsassnight/posts/10215831087467814

      Ce texte était accompagné de cette image :

    • Pour les jeunes perdus de Guinée et Côte d’Ivoire, des mois d’odyssée jusqu’aux Alpes (signé AFP)

      « J’essaie de reprendre mes forces », souffle Jacques, jeune migrant guinéen, les yeux rougis et un pâle sourire creusant ses pommettes émaciées de survivant. Il a derrière lui des mois d’odyssée, avec d’autres Guinéens et Ivoiriens, dont le nombre explose dans les Alpes françaises.
      A 16 ans, il vient de frôler la mort en gravissant pendant deux jours le col de l’Echelle (Alpes) pour arracher son entrée en France dans des conditions dantesques. « Il y avait beaucoup de neige et à un certain moment, je ne savais plus si j’étais parmi les morts ou les vivants », raconte-t-il à l’AFP depuis le matelas où il se repose au « Refuge solidaire », centre d’accueil associatif à Briançon (est), à la frontière italienne.

      Parti avec d’autres à l’assaut de ce col, Jacques s’est perdu, a dormi dans une grotte... Un périple entamé en 2017 à travers le Mali, l’Algérie, la Libye, l’Italie.

      Depuis un an, la région des Hautes-Alpes connaît une augmentation exponentielle d’arrivées de jeunes de Guinée (Conakry) et de Côte d’Ivoire (pourtant première puissance économique d’Afrique de l’Ouest). Ces nationalités arrivent loin devant celles des autres migrants, très majoritairement ouest-africains.

      Selon la préfecture des Hautes-Alpes, 315 personnes en situation irrégulière ont été refoulées vers l’Italie en 2016, contre 1.900 en 2017, en majorité des Guinéens et des Ivoiriens.

      Entre juillet 2017 et février 2018, près de 3.000 migrants sont passés par le « Refuge » ; parmi eux, au moins 1.185 Guinéens (dont 793 se déclarant mineurs) et 481 Ivoiriens (dont 209 se déclarant mineurs).

      – Les raisons d’un départ -

      Parmi les raisons de départ figurent chômage et les conditions de vie très précaires de ces jeunes, des ressources captées par les élites de ces pays, les défaillances de l’enseignement public, « inadéquat » avec le marché de l’emploi, des situations familiales inextricables (enfants nés hors mariage marginalisés, compétition au sein des familles polygames), et les pressions de familles pour envoyer un enfant débrouillard « s’aventurer » (émigrer).

      « L’accès à l’emploi est extrêmement réduit en Guinée, même pour ceux qui sont diplômés (...) Pour l’essentiel, les investissements sont faits dans le secteur minier, pour la bauxite notamment », selon le sociologue guinéen Bano Barry, interrogé à Conakry.

      « Personne ne vient investir parce que le pays est instable » politiquement, note-t-il, référence aux plus de 50 ans de régimes autoritaires. Nombre de Guinéens ont émigré dans les pays de la région, mais ces derniers ont désormais du mal à employer leur propre jeunesse.

      Sia, Ivoirien de 35 ans, se repose au « Refuge » : « Regardez le nombre de jeunes Ivoiriens qui +sortent+ », lance-t-il avec colère. « Avant, quand tu voyais un Ivoirien en France, il étudiait et puis il retournait dans son pays. Aujourd’hui, ce n’est plus +bourse d’études+, c’est les zodiacs sur la mer ! ». « On nous dit qu’il y a plus de guerre, qu’il y a la richesse du cacao, que ça va, mais c’est pas vrai ! », lance-t-il.

      – Désinformation -

      Mais la désinformation règne parmi ces migrants sur les énormes difficultés qui les attendent en France : le péril des reconduites à la frontière, les parcours du combattant pour obtenir les statuts de mineurs isolés ou de demandeurs d’asile, voire la vie à la rue.

      Nés hors mariage et sans plus d’attaches familiales à Conakry, Cellou et Abou (prénoms modifiés) en ont fait l’expérience. Echoués en 2016 et 2017 à Briançon, ils se disent mineurs mais leur minorité n’a pas été reconnue. Ils attendent l’examen de leur recours, toujours hantés par leur voyage.

      Cellou raconte qu’il a failli être vendu comme esclave en Libye, puis emprisonné et frappé à Zabrata, où il a été témoin d’exactions des « Asma boys » (gangs armés libyens) contre les migrants. Il souffre d’insomnies. « Je suis venu pour étudier et faire une formation dans la cuisine, j’aime ça trop », confie-t-il.

      Depuis des mois, c’est grâce à la solidarité de Briançonnais qu’ils sont logés, nourris, formés au français. Ce soir là, pour se remettre d’un cours intense « sur les pourcentages », ils taquinent leur « Vieux » (un bénévole), pestent contre le froid et se cuisinent des spaghettis tomates-piments.

      « Cette attente est difficile mais j’ai pas le choix ; retourner en Guinée, ça veut dire retourner à la rue », confie Abou. « Quand il se passe des choses là-bas, le plus souvent, c’est les jeunes qu’on tue ».

      Une douzaine de personnes - dont plusieurs mineurs - y ont été tuées dans des violences après des élections locales en février. Le 26 février, Conakry a été transformée en « ville morte » à l’appel des enseignants, en grève depuis deux semaines.

      – ’Appel d’air’ -

      Alors à l’heure des réseaux sociaux, nombre sont attirés par les messages de « ceux qui sont partis ». Pour le sociologue Bano Barry, les arrivées de Guinéens à Briançon sont le résultat d’un « appel d’air, un mimétisme ». « Les candidats au départ à Conakry savent que d’autres sont passés par là, qu’ils pourront s’appuyer sur quelqu’un qui pourra leur servir de guide ».

      Mais le drame, « c’est que les images de leurs difficultés en France ne sont jamais véhiculées ». Et même si certains confient leur galère, les candidats au départ les accusent de ne pas vouloir partager leur « réussite »...

      M. Barry cite le cas d’un de ses anciens étudiants. « Il ne le dira jamais à ses proches, pour ne pas être humilié ; je l’ai revu dans la famille qui l’héberge à Paris : sa chambre, c’est un matelas dans un placard à manteaux ».

      Ibrahim, migrant guinéen de 22 ans, veut dire aux parents « de ne pas encourager leurs enfants à venir ici ». Le destin a été cruel : il a fait une chute de 40 mètres au col de l’Echelle en août 2017, après avoir pris peur en voyant des gendarmes. Hémiplégique, le corps et la parole martyrisés, Ibrahim arpente avec un déambulateur un centre médical de Briançon. « Ce voyage, cette montagne, c’est trop dangereux ».

      https://www.lexpress.fr/actualites/1/societe/pour-les-jeunes-perdus-de-guinee-et-cote-d-ivoire-des-mois-d-odyssee-jusqu-

    • Migrants : « Jamais le gouvernement actuel n’a été aussi loin dans le mépris des droits humains »

      TRIBUNE. « L’accueil qu’on leur réserve est le dossier critique de notre temps », estime l’historien #Patrick_Boucheron.

      C’est le moment. Le moment où tout peut se jouer d’un destin collectif. Le moment où mille victoires de détail risquent d’être, d’un coup, submergées par la faillite morale d’une nation. N’imaginez pas de vastes chambardements, des trahisons spectaculaires, des infamies de grand style : non, il suffirait que nous continuions ainsi, pas à pas, suivant la pente de la mesquine indifférence aux malheurs des hommes, toujours plus prompts à considérer pour nul ce qui n’est pas strictement nous-mêmes, ne voyant plus rien des dangers véritables du monde à force de le confondre avec la vision rétrécie et hargneuse qu’en donnent les idéologues.

      Cette pente implacable qui nous éloigne imperceptiblement de nous-mêmes, rien ne la dessine plus nettement aujourd’hui que l’indignité de l’Etat dans la gestion – prenons-le au mot – de ce qu’il est convenu d’appeler la crise des migrants. Quels que soient ses préférences politiques ou ses choix moraux, il n’est pas un seul professionnel de cette question qui ne partage ce déplorable constat : alors qu’on continue de nous bercer de discours humanistes, le gouvernement actuel n’a jamais été aussi loin dans le mépris des droits humains et dans l’ignorance des situations concrètes, lorsqu’il refuse de porter secours à ceux qui souffrent tout en s’en prenant à ceux qui leur viennent en aide.

      Ce n’est pas d’hier que nous la dévalons, cette pente. Combien en a-t-il fallu de renoncements à nos valeurs et à nos espérances, mais aussi, beaucoup plus prosaïquement, à l’intelligence des choses du monde pour que nous parvenions à une telle situation ? Car aux pouvoirs injustes on ne doit jamais opposer la beauté des principes mais la vérité des pratiques. Il ne s’agit pas seulement de dire que le tri entre les migrants économiques et les demandeurs d’asile est immoral, il s’agit de rappeler qu’il ne correspond à rien dans la réalité. Tout, dans les changements politiques, économiques et environnementaux du monde d’aujourd’hui, vient contredire cette dichotomie sommaire, et ce n’est pas à force de l’asséner qu’elle finira pas devenir vraie.
      Le dossier critique de notre temps

      S’il est une pente fatale, c’est bien celle qui, au nom d’une politique prétendument réaliste, nous éloigne de la réalité de ce que nous sommes. La réalité : la France est, historiquement, un pays d’immigration, c’est là sa force et sa grandeur, et ceux qui depuis des décennies parlent d’une France repliée sur ses frontières et menacée par des hordes d’envahisseurs discourent d’un pays qui n’existe pas. La réalité : les migrants seront de plus en plus nombreux, on doit les accueillir, c’est un devoir et c’est une chance. La réalité : partout on le fait, plus qu’on ne le dit, plus qu’on ne le croit, car la France n’est étriquée et moisie que dans l’esprit de certains de ses dirigeants qui, à force de n’écouter que les polémistes les plus bruyants ou les manieurs de sondages les plus subtils, ont fini par ne plus rien comprendre de ce qui l’animait vraiment.

      Car regardez, si vous voulez vous en convaincre, les cartes que dressent en temps réel les associations qui s’occupent aujourd’hui de défendre les migrants, et de les défendre parfois contre l’Etat qui devrait les protéger. Vous y verrez s’étoiler les bonnes volontés, les initiatives, les solidarités, et cette constellation d’engagements fait une image plutôt ressemblante de la France d’aujourd’hui. C’est en son nom qu’on doit agir désormais, si l’on refuse d’acquiescer au récit de nos défaites, si l’on croit encore possible de ne pas se laisser vaincre par la honte et le découragement.

      Aussi, si l’un d’entre vous a l’oreille du président de la République, et s’il estime qu’on a plus de chances de l’émouvoir en évoquant sa fortune au regard de l’histoire que l’infortune des plus démunis, qu’il lui dise ceci : c’est le moment. Le moment où, grisé par ses succès, il risque de tout perdre. Car l’histoire est aussi cruelle que la mémoire est sélective : elle ne se souviendra que de cela. Il est bien d’autres problèmes politiques sans doute que celui des migrants, mais l’accueil qu’on leur réserve est le dossier critique de notre temps. S’y décide, et pour longtemps, ce que nous voulons être, s’y prépare, et de manière profonde et durable, notre futur dans l’Europe et dans le monde.
      Une contradiction hurlante

      Nombreux ont été ceux qui, moins parce qu’ils adhéraient à son discours que parce qu’ils y trouvaient l’occasion de faire un pari raisonnable sur l’avenir, attendaient du président de la République qu’il aille, sur ce sujet au moins, à contre-pente d’une histoire désespérante. Car celle-ci s’autorisait d’une vision fondamentalement pessimiste de la société française, incapable d’entrain, de jeunesse et d’audace. Le pays serait plus fort s’il était plus libre et plus ouvert, s’il larguait les amarres du vieux monde, s’il cessait de se complaire dans ses rancœurs recuites.

      Ils n’ont pas rêvé : cela a été dit. Et c’est encore dit aujourd’hui, sur un ton plus enjoué, presque insolent, quand des hommes, des femmes et des enfants, venus de l’autre rive de la Méditerranée, piétinent dans la neige. La France, si fière et conquérante à nouveau, serait en même temps ce pays trop faible, trop craintif et trop vieux pour leur offrir l’hospitalité à laquelle ils ont droit ? Un destin politique ne peut survivre longtemps à une contradiction aussi hurlante.

      On nous parle de concorde, de fraternité et de grandeur nationale. On nous parle de ressaisissement et de renaissance française. On nous parle même d’engagement, d’héroïsme et de courage. Mais ne sont-ils pas courageux ceux qui risquent tout pour échapper à la misère et la mort ? Et comment penser qu’un pays ne s’enrichirait pas d’une telle énergie ? Pour l’avoir compris, des hommes et des femmes s’engagent aujourd’hui à les accueillir dignement. Ne sont-ce pas eux qui agissent fraternellement et donnent sens à l’idée de concorde ? Le moment est venu de prouver à la jeunesse de ce pays que nos principes ne sont pas des vains mots. Le moment est venu de comprendre que la première des valeurs est celle de la vérité elle-même, et qu’on ne peut longtemps gouverner dans le mensonge, le déni ou l’ignorance des réalités. Le moment est venu ; peut-être ne reviendra-t-il pas.

      https://www.nouvelobs.com/monde/migrants/20180110.OBS0436/migrants-jamais-le-gouvernement-actuel-n-a-ete-aussi-loin-dans-le-mepris-

    • Bardonecchia, le Lampedusa de la montagne

      Dans les Alpes italiennes, Bardonecchia, à quelques kilomètres de la frontière, devient un nouveau point de passage pour les migrants qui veulent entrer en France. Ils ont bravé les traversées d’un désert et de la Méditerranée, alors le franchissement d’un col ne les effraie pas. Julie Pietri rentre de Bardonecchia.

      https://www.franceinter.fr/emissions/profession-reporter/profession-reporter-25-fevrier-2018

    • Migrants : les maraudeurs sauvent une maman enceinte dans la tourmente du Montgenèvre. Le petit garçon voit le jour à l’hôpital de Briançon

      La situation déjà compliquée devient intenable pour ne pas dire insoutenable à la frontière franco-italienne des Hautes-Alpes et ce, quel que soit le point de vue que l’on puisse avoir sur le problème des migrants. C’est en tout cas ce qui apparaît selon ce témoignage que nous avons reçu sachant que les autorités auront à priori une version différente des faits.

      Ce samedi soir, les maraudeurs sont comme presque tous les soirs au pied des pistes de la station près de la douane. C’est la que chaque nuit les migrants essayent de passer la frontière. C’est alors que les bénévoles du Refuge Solidaire tombent sur une famille : le père, la mère et deux enfants de 2 et 4 ans en pleine tourmente. Ils apprennent alors que la maman est enceinte de 8 mois et demi et décident de l’évacuer tout de suite sur l’hôpital de Briançon.

      Ils tombent alors sur un contrôle des douanes à la Vachette mis en place pour arrêter les passeurs comme une trentaine l’ont été en 2017. Mais la maman va accoucher. Après discussion, ce sont les pompiers qui viennent évacuer la maman vers l’hôpital de Briançon et le reste de la famille est ramené en Italie.

      Quelques heures plus tard, la maman donne naissance à un petit garçon et, selon les bénévoles, c’est sur l’insistance du corps médical que les policiers vont rechercher la famille en Italie qui est finalement réunie en pleine nuit à Briançon. Du côté des autorités, on précise que le reste de la famille n’a pas fait l’objet d’une reconduite à la frontière.

      Un témoignage bouleversant et glaçant comme l’écrit Joël Pruvost qui l’a adressé.

      Ce dernier invite à un rassemblement ce mercredi à 9h devant la PAF de Montgenèvre pour soutenir le bénévole convoqué par la Police.

      Le témoignage :

      Pour ou contre les migrants, c’est inhumain ce qu’il arrive à la frontière.

      Témoignage glaçant, on atteint le sommet de l’abjection au col de Montgenèvre
      Une maraude ordinaire comme il s’en passe tous les jours depuis le début
      de l’hiver.
      Au pied de l’obélisque, une famille de réfugiés marche dans le froid. La
      mère est enceinte. Elle est accompagnée de son mari et de ses deux enfants
      (2 et 4 ans). Ils viennent tout juste de traverser la frontière, les
      valises dans une main, les enfants dans l’autre, à travers la tempête.
      Nous sommes 2 maraudeurs à les trouver, à les trouver là, désemparés,
      frigorifiés. La mère est complètement sous le choc, épuisée, elle ne peut
      plus mettre un pied devant l’autre. Nos thermos de thé chaud et nos
      couvertures ne suffisent en rien à faire face à la situation de détresse
      dans laquelle ils se trouvent. En discutant, on apprend que la maman est
      enceinte de 8 mois et demi. C’est l’alarme, je décide de prendre notre
      véhicule pour l’ emmener au plus vite à l’hôpital. Dans la voiture, tout
      se déclenche. Arrivés au niveau de la Vachette(à 4 km de Briançon), elle se
      tord dans tous les sens sur le siège avant. Les contractions sont bien là…
      c’est l’urgence. J’accélère à tout berzingue. C’est la panique à bord.
      Lancé à 90 km/h, j’arrive à l’entrée de Briançon...et là, barrage de
      douane.
      Il est 22h. « Bon sang, c’est pas possible, merde les flics ! ». Herse
      au milieu de la route, ils sont une dizaine à nous arrêter. Commence
      alors un long contrôle de police. "Qu’est ce que vous faites là ? Qui
      sont les gens dans la voiture ? Présentez-nous vos papiers ? Ou est-ce
      que vous avez trouvé ces migrants ? Vous savez qu’ils sont en situation
      irrégulière !? Vous êtes en infraction !!!"… Un truc devenu habituel
      dans le Briançonnais. Je les presse de me laisser l’emmener à l’hôpital
      dans l’urgence la plus totale. Refus ! Une douanière me lance tout
      d’abord « Comment vous savez qu’elle est enceinte de 8 mois et demi ? »
      puis elle me stipule que je n’ai jamais accouché, et que par conséquence
      je suis incapable de juger l’urgence ou non de la situation. Cela
      m’exaspère, je lui rétorque que je suis pisteur secouriste et que je
      suis à même d’évaluer une situation d’urgence. Rien à faire, la voiture
      ne redécollera pas. Ils finissent par appeler les pompiers. Ces derniers
      mettent plus d’une heure à arriver. On est à 500 mètres de l’hôpital. La
      maman continue de se tordre sur le siège passager, les enfants pleurent
      sur la banquette arrière. J’en peux plus. Un situation absurde de plus.
      Il est 23h passées, les pompiers sont là... ils emmènent après plus d’une
      heure de supplice la maman à l’hosto. Les enfants, le père et moi-même
      sommes conduits au poste de police de Briançon à quelques centaines de
      mètres de là. Fouille du véhicule, de mes affaires personnelles, contrôle
      de mon identité, questions diverses et variées, on me remet une
      convocation pour mercredi prochain à la PAF de Montgenèvre. C’est à ce
      moment-là qu’on m’explique que les douaniers étaient là pour arrêter des
      passeurs. Le père et les deux petits sont quant à eux expulsés vers
      l’Italie. Pendant ce temps-là , le premier bébé des maraudes vient de
      naître à Briançon. C’est un petit garçon, né par césarienne. Séparé de
      son père et de ses frères, l’hôpital somme la PAF de les faire revenir
      pour être au côté de la maman. Les flics finissent par obtempérer. Dans
      la nuit, la famille est à nouveau réunie.

      La capacité des douaniers à évaluer une situation de détresse nous
      laisse perplexe et confirme l’incapacité de l’État à comprendre le drame
      qui se trame à nos maudites frontières.
      Quandtà nous, cela nous renforce dans la légitimité et la nécessité de
      continuer à marauder... toutes les nuits.*

      Rendez-vous mercredi 14 mars à 9h à la PAF de Montgenèvre pour soutenir le
      camarade maraudeur convoqué.

      Pas un jour en tout cas ou presque sans qu’on ne frôle le drame à la frontière franco-italienne. Ce vendredi, un migrant a été sauvé par les secouristes en montagne alors qu’il tentait en plein hiver de rejoindre la France par le col de l’Echelle pourtant énormément enneigé.

      Et c’est le moment que choisit le Front National pour s’insurger et cibler Aurélie Poyau, conseillère départementale et adjointe au maire de Briançon.

      Le responsable départemental l’accuse d’avoir volontairement fait passer des migrants (le communiqué du FN ci dessous).

      Par ailleurs, une manifestation aura lieu mardi au sujet du centre d’hébergement de Veynes (communiqué ci-dessous).

      Le communiqué de Patrick Deroin du FN

      Ce jeudi, à Montgenèvre, deux militants du Front National distribuaient des tracts, dénonçant les méfaits de l’immigration massive pour les Français.

      S’apercevant de cela, une voiture s’arrête, deux personnes hystériques en sortent, abreuvant d’injures nos militants surpris par un déferlement si soudain de haine. Le conducteur, un homme, s’avance menaçant, alors que la femme exhibe une carte, qu’elle brandit comme un laissez-passer supposé la mettre au-dessus des lois. Qu’elle n’est pas la surprise d’y découvrir le nom d’Aurélie Poyau, maire adjointe de Briançon et conseillère départementale représentant La France Insoumise. Elle ajoute qu’elle a aidé 4 migrants à franchir la frontière dans la nuit du 7 au 8 mars ; par le col de Montgenèvre.

      Madame Poyau, à l’instar des élus de son parti, ne peut supporter que l’on puisse ne pas penser comme elle et voudrait interdire à ses adversaires le simple droit de s’exprimer. Les médias commencent à relever les dérives mélenchonistes nationales, on ne s’attendait pas à voir ses affidés pratiquer la même terreur intellectuelle dans notre département.

      Messieurs Jean-Marie Bernard et Gérard Fromm vont être informés des agissements de leur élue.

      Le communiqué relatif au centre de Veynes

      Depuis le 9 septembre 2017, le Centre d’Hébergement d’Urgence de Mineurs exilés (CHUM) de Veynes a accueilli plus d’une centaine de jeunes arrivant de la frontière italienne, car ni le Conseil Départemental ni l’État n’ont eu la volonté de mettre en place des dispositifs d’hébergement suffisants, pourtant de leur responsabilité ! Face à ces lamentables moyens institutionnels, ce lieu occupé et autogéré veut montrer qu’un accueil digne et réactif est possible.

      Le 13 mars aura lieu à Gap, le procès d’expulsion du CHUM : ce lieu autogéré, organisé par des gens qui demandent à minima que les institutions respectent la loi, et qui proposent beaucoup mieux qu’elles. Ce procès, c’est la seule réponse officielle de l’État face à nos dénonciations, et l’on voit que pour protéger ses remparts, le rouage est huilé : huissiers, traitement des demandes d’expulsion, dans ce sens cela fonctionne bien ! Fait de bric et de broc, le CHUM est un lieu de vie, de passage, d’échange, d’entraide qui répond à l’urgence constante et à un besoin criant d’humanité.

      Au quotidien, écœuré par cette triste politique, le CHUM est rythmé de récups, de dons, de permanences médicales, d’accompagnements juridiques, de moments de partage, de visites prévues ou spontanées qui font du bien. Il continue à vivre, malgré nos grosses cernes qui nous empêchent d’oublier cette triste réalité.

      MOBILISONS NOUS POUR DÉFENDRE CE LIEU D’ACCUEIL SOLIDAIRE ET CONTINUONS À DÉNONCER LA POLITIQUE ANTI-MIGRATOIRE DE L’ÉTAT FRANÇAIS !!!!

      RDV le 13 mars 9h30 devant le tribunal de Gap pour un petit déjeuner déterminé, avant le début du procès d’expulsion prévu à 10h30
      Prises de paroles et discussions autour de la sale politique d’accueil des exilé-e-s par l’État français. Focus particulier sur les très difficiles prises en charge des soins et de la scolarisation des mineurs exilés dans les Hautes-Alpes
      Et à midi : cantine collective devant le parvis du Conseil Départemental pour lui rappeler ses obligations d’accueil digne des mineurs exilés

      Les élections législatives en Italie dimanche dernier et la montée du populisme ont relancé le débat sur les migrants dont le passage en Italie serait à l’origine

      de la montée des populismes. Dans notre région, l’afflux de migrants s’est un peu ralenti à la faveur de l’hiver et de la fermeture du col de l’Echelle.

      Pour autant, quasiment chaque nuit, certains essayent toujours de rejoindre la France via le col puis les pistes de Montgenèvre. Ce sont des passeurs mal intentionnés qui leur proposent cette solution en gare de Turin non sans les délester de leur argent. Comble de tout, ils donnent, pour contact en France, le numéro des bénévoles de Briançon qui ne sont là que pour éviter des drames. Résultat, Elie, l’un d’entre eux, a décidé comme beaucoup d’autres de ne plus répondre au téléphone pour ne pas faire le jeu des passeurs. ils continuent cependant bien sûr à porter secours et à accueillir ceux qui sont passés au refuge solidaire à Briançon.

      Regardez ce reportage édifiant de Paul Gypteau de l’AFP.

      Retour en arrière :

      On a de nouveau frôlé le drame cet hier dans la vallée de la Clarée. Un migrant a failli perdre la vie alors qu’il essayait de franchir la frontière franco-italienne malgré l’épaisse couche de neige et au moment même ou plus de 300 personnes réalisaient une cordée symbolique pour démontrer leur solidarité avec les migrants et mettre en valeur l’engagement de dizaines de bénévoles qui vont secourir ou qui accueillent chez eux ces migrants qui prennent des risques énormes en tentant de passer la frontière en plein hiver. Preuve, s’il le fallait, de l’utilité de ces maraudes et de cette assistance des montagnards auprès des migrants : au moment même où se déroulait cette "cordée" , l’un des accompagnateurs est intervenu en urgence ce dimanche sur le versant nord du col de l’Echelle. Il a littéralement sauvé la vie à Moussa, Guinéen de 22 ans, un migrant qui était en détresse, gelé et à bout de forces alors qu’il essayait de passer le col en pleine neige et dans des températures glaciales comme on les connaît en ce moment. Ce sont les secouristes du PGHM qui sont ensuite intervenus pour héliporter Moussa sur l’hôpital de Briançon.

      Une vie de plus sauvée par les montagnards et les secouristes mais qui fait suite à des accidents devenus presque quotidiens : pieds ou mains gelés, hypothermie ou plus grave comme on l’a vu les pieds amputés comme ceux de Mamadou ou des accidents graves comme ce migrant toujours paralysé après avoir sauté dans le vide au col de l’Échelle par peur des gendarmes au mois d’août dernier.

      Au moment même de ce sauvetage, plus de 300 personnes s’étaient retrouvées comme prévu à Névache, sur le chemin du col de l’Échelle, pour former des cordées solidaires avec les migrants, et s’étaient engagées dans la neige sur le chemin du col, encadrées par des professionnels de la montagne. Au-delà de l’esprit de solidarité des montagnards, il s’agissait plus largement de célébrer la journée internationale des migrants.

      Les images de l’intervention :

      En savoir plus sur https://www.dici.fr/actu/2018/03/11/migrants-maraudeurs-sauvent-une-maman-enceinte-tourmente-montgenevre-petit-garc

      https://www.dici.fr/sites/dici.fr/files/styles/homepage_une_big/public/2018/03/11/1116445-capturedecran2017-12-18a082756.png?itok=FD2UCW_B

      https://www.dici.fr/actu/2018/03/11/migrants-maraudeurs-sauvent-une-maman-enceinte-tourmente-montgenevre-petit-garc

      Avec ce commentaire de Olivier Clochard via la newsletter de Migreurop :

      À Briançon (France), à la frontière franco-italienne, des bénévoles du Refuge Solidaire sauvent une famille dont la maman est sur le point d’accoucher. Mais quelques instants plus tard, la douane et la PAF séparent la famille avant que l’hôpital somme la PAF de les réunir.
      Ainsi des agents des autorités françaises se plaisent à faire subir de véritables supplices à des personnes étrangères, il faut que ces personnes répondent de leurs actes ainsi que celles et ceux qui les ordonnent.

    • Sauvetage d’une migrante enceinte dans les Alpes : « Si on n’avait pas été là, la maman et son bébé seraient morts »

      #Benoît_Ducos est pisteur-secouriste en montagne et bénévole au Refuge solidaire. Depuis décembre, il participe à des maraudes pour sauver les migrants qui franchissent la frontière franco-italienne dans les massifs des Alpes malgré la neige et le froid. Il a raconté à InfoMigrants le sauvetage d’une jeune femme enceinte de 8 mois et demi et de sa famille.

      "Samedi 10 mars, vers 20 heures, je marchais avec un autre bénévole du Refuge solidaire à Montgenèvre, comme tous les jours depuis le début de l’hiver, pour secourir des migrants qui franchissent la frontière franco-italienne à pieds.

      Nous sommes tombés sur un groupe de six personnes : une jeune femme enceinte, deux petits enfants de deux et quatre ans, le papa et deux autres personnes que la petite famille, originaire du Nigeria, avait rencontrées en Italie.

      Tous venaient de Turin, ils étaient descendus à la gare d’Oulx, puis avaient rejoint en bus Claviere, le dernier village italien avant la frontière. De là, ils ont trouvé un chemin pour passer la frontière sans se faire repérer.

      À cet endroit-là, nous sommes à 1 900 mètres d’altitude, c’est complètement enneigé et il y a de gros risques d’avalanches. Les deux personnes portaient la maman qui ne pouvait plus mettre un pied devant l’autre, le papa, lui, portait les deux petits.

      « Est-ce que les gens qui sont avec vous ont des papiers ? »

      On leur a donné des vêtements et de nouvelles chaussures parce qu’ils avaient les pieds trempés. On les a réchauffés avec des boissons chaudes, on leur a donné de la nourriture. On a discuté un peu avec eux pour leur expliquer ce qu’on faisait.

      Mais on voyait que la maman allait de plus en plus mal. On a posé des questions sur sa grossesse et on s’est dit qu’il fallait qu’on descende le plus vite possible vers Briançon parce que la pauvre dame semblait sur le point d’accoucher. Sur le chemin de l’hôpital, elle souffrait tellement que j’ai accéléré. On est alors tombés sur un barrage.

      Les policiers nous ont posé les questions habituelles : ’Qu’est-ce que vous transportez ? Est-ce que les gens qui sont avec vous ont des papiers ?’ J’ai dit que ces personnes étaient dans le froid, en situation difficile, que je les avais prises en stop pour les mettre à l’abri à Briançon et que dans le groupe il y a avait une femme enceinte qui avait besoin de soins de toute urgence.

      Les policiers m’ont répondu que, étant un homme, je n’étais pas en mesure de savoir si la dame était à deux doigts d’accoucher alors qu’elle se tordait de douleur sur le siège passager à cause des contractions. Nous avons attendu une heure qu’ils se décident à appeler les pompiers. Ces derniers ont emmené la dame à l’hôpital de Briançon, à 500 mètres de là où nous nous trouvions.

      « Si on n’avait pas été là, la maman et son bébé y seraient passés »

      Elle a donné naissance à un petit garçon par césarienne. Cela aurait été un drame si elle avait dû accoucher dans la neige ou dans la voiture.

      Alors que la dame était emmenée à l’hôpital, le père, les enfants et moi avons été emmenés au poste. J’ai été auditionné 5 minutes et convoqué à une audition libre à la police aux frontières (PAF) mercredi matin. On m’a rappelé que j’étais en infraction parce que je transportais des personnes qui étaient en situation irrégulière. Moi j’ai dit que j’avais juste porté assistance à des personnes en danger. On sait bien que si on n’avait pas été là, la maman et son bébé y seraient passés.

      Pendant que la dame était à l’hôpital, le père et les enfants ont été renvoyés en Italie. Sommée par l’hôpital de les faire revenir pour être auprès de la jeune mère, la PAF a obtempéré. Ils ont alors été placés par le 115 à Gap, à plus de 100 kilomètres de Briançon. Ça non plus, ce n’est pas très humain."

      http://www.infomigrants.net/fr/post/8027/sauvetage-d-une-migrante-enceinte-dans-les-alpes-si-on-n-avait-pas-ete

    • Migrants : un secouriste poursuivi pour avoir secouru une réfugiée sur le point d’accoucher

      « J’ai l’esprit tranquille. Si je ne l’avais pas fait... » : pour ce délit de solidarité, #Benoît_Ducos risque jusqu’à 5 ans de prison.

      Ce mercredi 14 mars, Benoît Ducos, pisteur-secouriste dans le Briançonnais (Hautes-Alpes), à la lisière de la frontière franco-italienne, est convoqué par la police aux frontières (PAF). Il doit s’expliquer sur les circonstances qui lui ont valu d’être interpellé dans la nuit de samedi au dimanche 11 mars. Son délit : avoir embarqué dans son véhicule une famille de quatre personnes sans papiers, dont deux enfants de 2 et 4 ans ainsi qu’une femme enceinte de huit mois et demi prise de contractions, pour les emmener à l’hôpital de Briançon.

      Le fait divers n’aurait pas franchi les limites de la sous-préfecture s’il n’avait pas été dénoncé par un membre de l’association Refuges solidaires qui vient en aide aux migrants qui tentent, souvent dans la neige et au péril de leur vie, de franchir à pied la frontière alpine depuis l’Italie.

      « Le premier bébé des maraudes »

      Le témoignage de Benoît Ducos recueilli par Joël Pruvot livre un regard glaçant sur le « délit de solidarité » qui s’est déroulé ce week-end. Samedi soir, la maraude de deux bénévoles de l’association leur fait croiser le chemin d’une famille de réfugiés au col de Montgenèvre.

      « La mère est enceinte. Elle est accompagnée de son mari et de ses deux enfants (2 et 4 ans). Ils viennent tout juste de traverser la frontière, les valises dans une main, les enfants dans l’autre, à travers la tempête. La mère est complètement sous le choc, épuisée, elle ne peut plus mettre un pied devant l’autre », raconte Benoît Ducos qui va prendre la décision d’emmener la famille à l’hôpital. Dans la voiture, il raconte les contractions, la panique qui s’installe.

      À quatre kilomètres de Briançon, aux alentours de 22h selon le témoignage du secouriste, la voiture doit s’arrêter à un barrage douanier. Immobilisés, les passagers vont réclamer le droit de conduire la mère à l’hôpital, mais se heurtent au refus des agents. Joint par Le HuffPost, Benoît Ducos se remémore « les interminables questions d’usage », les « tergiversations des douaniers » soucieux d’appliquer la procédure tandis que « la mère se tord de douleurs à l’arrière de son véhicule ».

      Toujours selon le bénévole, les pompiers n’arriveront qu’à 23h sur les lieux. La mère accouchera finalement d’un petit garçon à l’hôpital, par césarienne. « Le premier bébé des maraudes », écrit Benoît Ducos, qui finira au poste. Quant au père et aux deux enfants, le secouriste assure que c’est à la demande de l’hôpital qu’ils ne seront pas reconduits en Italie, mais ramenés auprès de la mère.

      « On a frôlé la catastrophe »

      Relayée et dénoncée par l’ancienne ministre écologiste Cécile Duflot, cette version des faits comme sa chronologie sont contestées par la préfecture des Hautes-Alpes. « L’action de l’État a été irréprochable et ses agents ne sauraient être mis en cause alors qu’ils ont agi avec humanité, et dans le respect des Lois de la République », a-t-elle répondu via un communiqué diffusé sur Twitter.

      https://twitter.com/CecileDuflot/status/973145444032401408

      À en croire les représentants de l’État, il se serait déroulé moins de trente minutes entre l’arrêt du véhicule par les six personnels de la brigade de surveillance intérieure et l’arrivée de la mère à l’hôpital de Briançon, bien avant 23h. « Moi, à 23h04, j’étais encore arrêté sur le parking avec la mère à l’arrière. Mon téléphone en témoigne : j’ai adressé un message à mon fils », jure Benoît Ducos.

      Au-delà des divergences sur le déroulé de la soirée, le secouriste ne revient toujours pas « de ces douaniers qui restent impassibles face à la souffrance de cette femme. » S’il ne les met pas en cause personnellement, Benoît Ducos accuse en revanche un système légal en décalage criant avec la gravité de la crise humanitaire qui se déroule sur le territoire français. « La migration, ce n’est pas une croisière en quête d’exotisme. Les douaniers appliquent des consignes sans réfléchir, ce qui fait qu’on aboutit à ce sommet d’absurdité ».

      5 ans de prison et 30.000 euros d’amende

      Les exemples de ce type ne sont pas légion. Ils ne sont toutefois pas exceptionnels à la frontière franco-italienne qui court des Hautes-Alpes aux Alpes-Maritimes. Les associations qui viennent en aide aux migrants dénoncent des « poursuites de migrants en moto-neige », des « reconduites à la frontière de femmes enceintes en pleine nuit », en plus des risques parfois mortels encourus par les réfugiés qui cherchent à accéder au territoire français.

      En février, Amnesty International estimait à 27.000 le nombre de réfugiés et migrants renvoyés en Italie entre janvier et juillet, « y compris des mineurs non accompagnés », sans respecter leur droit de demander l’asile en France.

      Une situation dénoncée par les associations Tous Migrants (qui a lancé une pétition de soutien) et La Cimade qui ont interpellé Emmanuel Macron et le ministre de l’Intérieur Gérard Collomb sur « la mise en danger de la vie d’un nouveau né et de sa mère par l’acharnement des contrôles de police ». Dans un communiqué le parti Europe-Écologie Les Verts voit dans cette affaire « l’insupportable grand écart devenu la marque de fabrique du président de la République, entre beaux discours humanistes et répression inhumaine ».

      Une proposition de loi communiste et écologiste propose par ailleurs de supprimer le « délit de solidarité » en modifiant la législation pour ne réprimer que l’aide au passage à but lucratif. Le texte devrait être examiné en mai.

      En attendant, Benoît Ducos s’expose théoriquement à la peine dévolue aux passeurs, à savoir un maximum de 30.000 euros d’amende et de 5 ans d’emprisonnement. « Moi, j’ai l’esprit tranquille. Si je ne l’avais pas fait... », confie-t-il. Un rassemblement de soutien est prévu ce mercredi à 9h devant les locaux de la police aux frontières de Montgenèvre.

      https://www.huffingtonpost.fr/2018/03/13/migrants-un-secouriste-poursuivi-pour-avoir-secouru-une-refugiee-sur-

    • Conférence : Migrations dans les Hautes-Alpes

      Une conférence de #Sarah_Mekdjian qui répond à la question, comment on en est arrivé là ?


      –-> Sarah : « la frontière est bien plus complexe et bien plus épaisse que la ligne ! Pour ce camarade afghan la frontière a commencé en Afghanistan et elle se poursuit aujourd’hui dans la ville de Grenoble. »

      http://lalongueurdelachaine.org/conference-migrations-dans-les-hautes-alpes

    • Briancon : à la frontière franco italienne, les douaniers contrôlent même les naissances

      Le Gisti reproduit ci-dessous le récit, édifiant, d’un maraudeur Briançonnais racontant comment une opération de secours à une femme sur le point d’accoucher et frigorifiée a été interrompue pendant plusieurs heures par les douanes. Ou comment, les services douaniers font primer l’obsession du contrôle des frontières sur les réflexes humanitaires les plus élémentaires.

      La situation décrite n’a rien d’inédit. Depuis des mois, les contrôles policiers à la frontière franco-italienne et particulièrement dans le Briançonnais sont menés en violation des droits fondamentaux des personnes. Lors d’une mission sur place et d’entretiens avec les citoyens solidaires des migrants, le Gisti a constaté une banalisation des pratiques illégales mettant en danger les exilé.e.s qui tentent de passer les cols au péril de leur vie.

      Le Gisti réaffirme son soutien aux exilé.e.s et aux militants engagés à leur côté à Briançon et tout au long de la frontière italienne. Il s’attachera à dénoncer les pratiques qui font primer le contrôle des frontières sur l’obligation de porter secours aux personnes en danger.
      14 mars 2018

      Une maraude ordinaire comme il s’en passe tous les jours depuis le début de l’hiver.

      Au pied de l’obélisque, une famille de réfugiés marche dans le froid. La mère est enceinte. Elle est accompagnée de son mari et de ses deux enfants (2 et 4 ans). Ils viennent tout juste de traverser la frontière, les valises dans une main, les enfants dans l’autre, à travers la tempête.

      Nous sommes 2 maraudeurs à les trouver, à les trouver là, désemparés, frigorifiés. La mère est complètement sous le choc, épuisée, elle ne peut plus mettre un pied devant l’autre. Nos thermos de thé chaud et nos couvertures ne suffisent en rien à faire face à la situation de détresse dans laquelle ils se trouvent. En discutant, on apprend que la maman est enceinte de 8 mois et demi. C’est l’alarme, je décide de prendre notre véhicule pour l’ emmener au plus vite à l’hôpital. Dans la voiture, tout se déclenche. Arrivés au niveau de la Vachette (à 4km de Briançon), elle se tord dans tous les sens sur le siège avant. Les contractions sont bien là… c’est l’urgence. J’accélère à tout berzingue. C’est la panique à bord.

      Lancé à 90 km/h, j’ arrive à l’entrée de Briançon... et là, barrage de douane. Il est 22h. « Bon sang, c’est pas possible, merde les flics ! ». Herse au milieu de la route, ils sont une dizaine à nous arrêter. Commence alors un long contrôle de police. « Qu’est ce que vous faites là ? Qui sont les gens dans la voiture ? Présentez nous vos papiers ? Ou est ce que vous avez trouvé ces migrants ? Vous savez qu’ils sont en situation irrégulière !? Vous êtes en infraction !!! »… Un truc devenu habituel dans le briançonnais. Je les presse de me laisser l’emmener à l’hôpital dans l’urgence la plus totale. Refus !

      Une douanière me lance tout d’abord « comment vous savez qu’elle est enceinte de 8 mois et demi ? » puis elle me stipule que je n’ai jamais accouché, et que par conséquence je suis incapable de juger l’urgence ou non de la situation. Cela m’exaspère, je lui rétorque que je suis pisteur secouriste et que je suis à même d’évaluer une situation d’urgence. Rien à faire, la voiture ne redécollera pas. Ils finissent par appeler les pompiers. Ces derniers mettent plus d’une heure à arriver. On est à 500 mètres de l’hôpital. La maman continue de se tordre sur le siège passager, les enfants pleurent sur la banquette arrière. J’en peux plus. Une situation absurde de plus.

      Il est 23h passés, les pompiers sont là...ils emmènent après plus d’une heure de supplice la maman à l’hosto. Les enfants, le père et moi-même sommes conduits au poste de police de Briançon à quelques centaines de mètres de là. Fouille du véhicule, de mes affaires personnelles, contrôle de mon identité, questions diverses et variés, on me remet une convocation pour mercredi prochain à la PAF de Montgenèvre. C’est à ce moment-là qu’on m’explique que les douaniers étaient-là pour arrêter des passeurs. Le père et les deux petits sont quant à eux expulsés vers l’Italie. Pendant ce temps-là , le premier bébé des maraudes vient de naître à Briançon. C’est un petit garçon, naît par césarienne. Séparé de son père et de ses frères, l’hôpital somme la PAF de les faire revenir pour être au côté de la maman. Les flics finissent par obtempérer. Dans la nuit, la famille est à nouveau réunit.

      La capacité des douaniers à évaluer une situation de détresse nous laisse perplexe et confirme l’incapacité de l’État à comprendre le drame qui se trame à nos maudites frontières.

      Quand à nous, cela nous renforce dans la légitimité et la nécessité de continuer à marauder... toutes les nuits.

      http://www.gisti.org/spip.php?article5878

    • Message de @sinehebdo

      Et celui ci aussi :

      Convoqué par la police après avoir sauvé du froid une femme enceinte et deux enfants
      Basta, le 13 mars 2018
      https://seenthis.net/messages/676118

      Tout ceci rappelle ce qu’on voit dans le documentaire d’Arte que j’ai enfin eu le temps de regarder, et qui n’est vraiment pas mal. Je suppose d’ailleurs que ce sont les mêmes « acteurs » :

      Secourir les migrants sur la route des Alpes
      ARTE Regards, le 5 mars 2018
      https://www.arte.tv/fr/videos/079473-004-A/arte-regards

    • Convoqué par la police après avoir sauvé du froid une femme enceinte et deux enfants

      Le week-end dernier, lors d’une maraude dans les Alpes, à la recherche de migrants perdus dans le froid de l’hiver, un citoyen a secouru une famille transie et épuisée. Il a donné aux deux jeunes enfants de 2 et 4 ans et à leurs parents de quoi se réchauffer. Puis, comprenant que la femme est enceinte de 8 mois et demi, il décide de l’emmener à l’hôpital. Arrêté en chemin par les douaniers, il se voit reprocher de transporter des personnes en situation irrégulières et il est sommé de se présenter à la Police aux frontières le mercredi 14 mars à 9h. Un rassemblement de soutien aura lieu ce même jour. Témoignage.

      https://www.bastamag.net/Convoque-par-la-Police-apres-avoir-sauve-du-froid-une-femme-enceinte-et-de

    • Respinta confine incinta, muore migrante

      Incinta di poche settimane e con un grave linfoma, è stata respinta alla frontiera di Bardonecchia dalle autorità francesi e, dopo il parto cesareo, è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino. B.S., nigeriana di 31 anni, era stata soccorsa dai volontari di Rainbow4Africa. «Le autorità francesi sembrano avere dimenticato l’umanità», dice all’ANSA Paolo Narcisi, presidente dell’associazione che da dicembre ha aiutato un migliaio di migranti. La nascita del bimbo, appena 700 grammi, è stata un miracolo dei medici del Sant’Anna ed è gara di solidarietà per aiutarlo.
      Secondo Narcisi, respingere alla frontiera una donna incinta e malata «è un atto grave che va contro tutte le convenzioni internazionali e al buon senso come criminalizzare chi soccorre». E’ dei giorni scorsi la notizia di una guida alpina francese che rischia una condanna fino a cinque per avere soccorso una migrante incinta.

      http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2018/03/23/respinta-confine-incinta-muore-migrante_486c0338-4600-4d9c-9325-521e8094817f.ht

    • Message de @colporteur

      Destinity stava cercando di raggiungere la Francia perché era malata, sapeva che forse non ce l’avrebbe fatta e voleva che il suo bambino avesse qualcuno accanto dopo al nascita. Con lei, la notte del 9 febbraio quando, al settimo mese di gravidanza, ha tentato la traversata del Colle della Scala c’era il marito, nigeriano anche lui, richiedente asilo. La gendarmeria francese li ha intercettati e riportati in Italia. «Li hanno lasciati davanti alla saletta di Bardonecchia senza nemmeno bussare alla dottaressa che era di turno all’interno», racconta Paolo Narcisi, presidente dell’associazione Rainbow4 Africa che dall’inizio dell’inverno ha assistito almeno un migliaio di migranti a Bardonecchia.
      #gendarmerie #non_assistance_à_personne_en_danger #homicide_involontaire #impunité

    • Polémique autour d’une migrante enceinte et malade reconduite à la frontière

      Beauty, une Nigériane de 31 ans, avait été déposée à la frontière avec l’Italie en pleine nuit par les gendarmes français. Elle est morte un mois plus tard à Turin.

      Une information judiciaire a été ouverte samedi 24 mars à Turin après la mort d’une migrante nigériane enceinte et malade qui avait tenté en vain de gagner la France avec son mari, rapportent la presse et des associations italiennes.

      Beauty, 31 ans, est morte la semaine dernière dans un hôpital de Turin. Son bébé, né par césarienne juste avant, est un grand prématuré mais se porte plutôt bien, selon les médecins.

      La jeune femme et son mari vivaient près de Naples. Quand Beauty a réalisé qu’elle souffrait d’un lymphome, elle a souhaité finir sa grossesse auprès de sa sœur en France, mais les gendarmes français ont bloqué le couple à la frontière le 9 février.

      Déposée devant la gare

      Alors que Beauty était enceinte de 6 mois et peinait à respirer à cause du lymphome, les gendarmes l’ont juste déposée en pleine nuit devant la gare de Bardonnèche, selon Rainbow4Africa. « Les courriers traitent mieux leurs paquets », a dénoncé Paolo Narcisi, un responsable de cette association qui participe à l’aide aux migrants du côté italien des Alpes.

      Le mari a ensuite précisé à des médias italiens que c’est lui qui avait été bloqué à la frontière, et que Beauty, autorisée à entrer en France, avait choisi de rester avec lui. Hospitalisée à Rivoli, au pied du Val de Suse, puis dans un service spécialisé à Turin, elle n’a survécu que quelques semaines.
      Précédent

      Son bébé, Israël, né le 15 mars à 29 semaines de grossesse, pesait alors 700 grammes. En une semaine, passée essentiellement sur le ventre de son père, il a atteint près de 1 kg, selon les services médicaux.

      L’histoire est largement reprise dans les médias italiens, qui rappellent les déboires en France d’un bénévole convoqué après avoir porté assistance à une famille nigériane, dont une femme enceinte.

      Selon ce bénévole, Benoît Ducros, les douaniers français ont tardé à appeler les pompiers pour aider la femme et ont aussi envisagé un temps de renvoyer le père et deux enfants de 2 et 5 ans en Italie.

      http://www.lemonde.fr/societe/article/2018/03/25/polemique-autour-d-une-migrante-enceinte-et-malade-reconduite-a-la-frontiere

    • Clavières (05) : Communiqué-invitation du squat de l’église de Clavières

      Les passages clandestins d’exilé·es sont de plus en plus difficiles au col de Montgenèvre, près de Briançon : les migrant·e·s venant d’Italie arrivent plus nombreu·ses que cet hiver, et ne peuvent passer rapidement la frontière française. Jeudi soir, onze d’entre elleux, dont quatre femmes et trois enfants, ont passé la nuit dans la salle paroissiale, sous l’église de Clavières, située à deux kilomètres de la frontière française.

      Illes ont été rejoint par une quarantaine d’autres vendredi, et une quinzaine samedi, ce qui aurait pu créer une situation humanitaire dramatique. Environ vingt personnes vivant des deux côtés des Alpes les soutiennent, sans appartenir aux associations d’aide aux migrant·e·s habituelles qui ont été beaucoup citées par les médias à propos de Briançon depuis décembre. Une vingtaine d’exilé·es ont décidé de passer en France à pied dans la journée, par leurs propres moyens.

      L’État italien, resté passif cet hiver, a envoyé la police antiémeute contrôler ces passages en fin d’après-midi.

      Deuxième communiqué de Chez Jésus

      Vous recevez ce communiqué en raison de la situation préoccupante sur la frontière briançonnaise.

      Depuis jeudi, nous occupons une salle à l’église de Clavières. À la frontière la situation s’est complexifiée ces dernières semaines. Le flux de personnes arrivant à la frontière est toujours plus important et les actions de solidarité mises en œuvre ces derniers mois ne sont plus suffisantes. Pour cela, nous ressentons encore plus le besoin de soulever le réel problème qu’est la frontière. Nous avons aussi occupé ces locaux de l’église car la nécessité d’avoir des temps et des espaces pour s’organiser et parler avec les personnes, arrivant chaque jour par dizaines pour traverser cette frontière, se fait de plus en plus sentir.

      Dans le même temps, cette occupation ne veut pas invoquer une intervention des pouvoirs publics qui pourraient nous donner une réponse partielle d’accueil que la plupart de ces personnes fuient.

      Nous préférons nous organiser en auto-gestion. Nous ne voulons pas « gérer » des personnes. Au contraire, nous voulons chercher la complicité avec celles et ceux qui se battent pour leur propre liberté de mouvement, à l’inverse du système d’accueil que nous connaissons qui ne fait rien d’autre que de légitimer le dispositif au frontière.

      Nous vous invitons toutes et tous à nous rejoindre pour un repas partagé. Rendez-vous demain dimanche 25 mars chez Jésus (sous l’église de Clavières) à partir de midi.

      C’est cool si vous pouvez apportez votre repas, des couvertures, des gants, des écharpes, etc.

      [Publié le 25 mars 2018 sur Indymedia Grenoble : https://grenoble.indymedia.org/2018-03-25-Communique-invitation-de-squat-de]


      https://fr.squat.net/2018/03/25/clavieres-05-communique-invitation-du-squat-de-leglise-de-clavieres

    • Emotion après la mort d’une migrante enceinte en Italie

      #Beauty, 31 ans, est morte la semaine dernière dans un hôpital de Turin. Son bébé, né par césarienne juste avant, est un grand prématuré mais se porte plutôt bien selon les médecins.

      La jeune femme et son mari vivaient près de Naples. Quand Beauty a réalisé qu’elle souffrait d’un lymphome, elle a souhaité finir sa grossesse auprès de sa sœur en France, mais les gendarmes français ont bloqué le couple à la frontière le 9 février.

      https://www.voaafrique.com/a/emotion--apres-la-mort-d-une-migrante-enceinte-en-italie/4314540.html

    • Torino, migrante incinta respinta alla frontiera di Bardonecchia muore dopo il parto. Salvo il bimbo: pesa 700 grammi

      La donna, 31 anni, era affetta anche da un grave linfoma. Ong: «Francesi hanno dimenticato l’umanità». Gara di solidarietà per salvare il bambino, ricoverato nella Terapia Neonatale del Sant’Anna

      È stata respinta alla frontiera di Bardonecchia, nonostante fosse incinta di poche settimane e affetta da un grave linfoma. I militari francesi non le hanno permesso di entrare in Francia e lei, una migrante nigeriana di 31 anni, soccorsa dai volontari di Rainbow4Africa, è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino dopo il parto cesareo.

      “Le autorità francesi sembrano avere dimenticato l’umanità“, dice Paolo Narcisi, presidente dell’associazione che da dicembre ha aiutato un migliaio di migranti. Salvo il suo bimbo, che al momento della nascita pesava 700 grammi. Il fatto che sia in vita è considerato “un miracolo” dai medici.

      La nigeriana è stata ricoverata un mese a Torino, seguita dall’Ostetricia e Ginecologia diretta dalla professoressa Tullia Todros e dall’ematologia ospedaliera delle Molinette diretta dal dottor Umberto Vitolo. È stata tenuta in vita il più possibile, per consentirle di portare avanti la gravidanza. Il neonato è ora ricoverato nella Terapia Neonatale del Sant’Anna, diretta dalla professoressa Enrica Bertino, assistito dal padre, anche lui respinto alla frontiera.

      “I corrieri trattano meglio i loro pacchi”, continua Narcisi, secondo cui respingere alla frontiera una donna incinta e malata “è un atto grave – dice ai microfoni del Tg3 – che va contro tutte le convenzioni internazionali e al buon senso, proprio come criminalizzare chi soccorre”.

      La notizia si aggiunge a quella della guida alpina francese che rischia una condanna fino a cinque per avere soccorso un’altra migrante incinta. “Tutto questo è indice di una paura strisciante, ma non bisogna avere paura”, aggiunge il presidente di Rainbow4Africa, che ha lanciato la campagna Facebook ‘Soccorrere non è un crimine’.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/23/torino-migrante-incinta-respinta-alla-frontiera-di-bardonecchia-muore-dopo-il-parto-salvo-il-bimbo-pesa-700-grammi/4247449

    • Une enquête ouverte après la mort d’une migrante enceinte et malade reconduite à la frontière

      Beauty, 31 ans, a tenté en vain de gagner la France avec son mari, mais les gendarmes ont bloqué le couple à la frontière. Elle est morte dans un hôpital de Turin, après avoir accouché.
      Une migrante nigériane, enceinte et malade, qui avait tenté en vain de gagner la France avec son mari est morte la semaine dernière dans un hôpital de Turin. Son bébé, né par césarienne juste avant, est un grand prématuré mais se porte plutôt bien selon les médecins. Une information judiciaire a été ouverte à Turin samedi.
      La jeune femme, prénommée Beauty, et son mari vivaient près de Naples. Quand Beauty a réalisé qu’elle souffrait d’un lymphome, elle a souhaité finir sa grossesse auprès de sa sœur en France, mais les gendarmes français ont bloqué le couple à la frontière le 9 février. Alors que Beauty était enceinte de 6 mois et peinait à respirer à cause du lymphome, les gendarmes l’ont juste déposée en pleine nuit devant la gare de Bardonecchia, selon l’association Rainbow4Africa. « Les courriers traitent mieux leurs paquets », a dénoncé Paolo Narcisi, un responsable de cette association qui participe à l’aide aux migrants du côté italien des Alpes.

      Le mari a ensuite précisé à des médias italiens que c’est lui qui avait été bloqué à la frontière, et que Beauty, autorisée à entrer en France, avait choisi de rester avec lui. Hospitalisée à Rivoli, au pied du Val du Suze, puis dans un service spécialisé à Turin, elle n’a survécu que quelques semaines. Son bébé Israël, né le 15 mars à 29 semaines de grossesse, pesait alors 700 grammes. En une semaine, passée essentiellement sur le ventre de son père, il a atteint près de 1 kg, selon les services médicaux.

      L’histoire est largement reprise dans les médias italiens, qui rappellent les déboires en France d’un bénévole convoqué après avoir porté assistance à une famille nigériane, dont une femme enceinte. Selon ce bénévole, Benoît Ducos, les douaniers français ont tardé à appeler les pompiers pour aider la femme et ont aussi envisagé un temps de renvoyer le père et deux enfants de 2 et 5 ans en Italie.

      http://www.liberation.fr/planete/2018/03/25/une-enquete-ouverte-apres-la-mort-d-une-migrante-enceinte-et-malade-recon

    • CHEZ JESUS

      da giovedì abbiamo occupato alcuni spazi pertinenti alla chiesa di Claviere.
      Alla frontiera la situazione in queste ultime settimane si è complicata. Il flusso di persone che arriva al confine è sempre più forte e le pratiche di solidarietà diretta messe in atto in questi mesi non sono più sufficienti. Per questo sentiamo sempre di più la volontà di sollevare il vero problema, che è la frontiera, con forza maggiore.
      Abbiamo occupato i locali sottostanti la chiesa anche perché si è resa sempre più evidente la necessità di avere tempi e spazi per organizzarci e parlare con le persone che a decine ormai ogni giorno cercano di attraversare questo confine.
      Al tempo stesso questa occupazione non vuole invocare un intervento da parte delle istituzioni che potrebbero darci una risposta con la solita impalcatura dell’accoglienza dalla quale la maggior parte delle persone con cui ci stiamo confrontando fugge.
      Preferiamo organizzarci in modo autogestito. Noi non vogliamo “gestire” delle persone; al contrario del sistema di accoglienza che conosciamo, che non fa altro che legittimare il dispositivo frontiera, vogliamo cercare complicità con chi si batte in prima persona per la propria libertà di movimento.

      Invitiamo tutt* i/le solidali a raggiungerci per un pranzo condiviso.
      Appuntamento domani, domenica 25 marzo, Chez Jesus (sotto la chiesa di Claviere) da mezzogiorno.
      Graditi cibo (già pronto), coperte, scarponi, indumenti caldi (guanti e sciarpe etc).


      Vu sur FB, le 25.03.2018 :
      https://www.facebook.com/briserlesfeontieres/photos/a.1522408807851238.1073741828.1522389147853204/1635042483254536/?type=3&theater

    • L’incontro tra il prefetto e i sindaci della #Valsusa sul problema dei migranti

      ”Un presidio mobile a Oulx con mediatori culturali che nell’area della stazione cercherà di intercettare i profughi per dissuaderli da proseguire il cammino verso il confine”

      «Al più presto un presidio mobile anche a Oulx, con mediatori culturali che nell’area della stazione cercherà di intercettare i profughi per dissuaderli da proseguire il cammino verso il confine. L’occupazione di Claviere non sarà interrotta, ma a condizione che non si verifichino tensioni tra gli attivisti, i residenti e i turisti». I sindaci dell’alta Valsusa, Francesco Avato per Bardonecchia, Paolo De Marchis di Oulx e Franco Capra di Claviere, sono appena scesi in piazza Castello dopo l’incontro con il prefetto di Torino, Renato Saccone.

      Tema al centro del tavolo di questa mattina, martedì 27 marzo, il flusso di migranti che raggiungono le stazioni ferroviarie delle città montane per tentare di superare, a piedi, le frontiere con la Francia. Un’emergenza prima di tutto umanitaria, a cui si aggiunge la preoccupazione per le possibili tensioni con gli attivisti dei centri sociali e del movimento Briser le frontieres, che da giovedì scorso ha occupato i locali della parrocchia sotto la chiesa di Claviere.

      «La cosa più importante, adesso, è far comprendere ai cittadini stranieri in viaggio verso la Francia che il sistema italiano, malgrado le possibili criticità, è decisamente più accogliente di quello francese. È quindi inutile affrontare i pericoli dei sentieri, avendo quasi la certezza di essere fermati dalla Gendarmerie e riportati a valle».

      http://www.lastampa.it/2018/03/27/cronaca/lincontro-tra-il-prefetto-e-i-sindaci-della-valsusa-sui-migranti-by0wQeX1qoThPHbngAnPgO/pagina.html

    • Migranti, l’irruzione a Bardonecchia diventa un caso politico. «Non siamo la toilette di Macron». Farnesina chiede spiegazioni

      Il ministero degli Esteri invia una richiesta formale a governo francese e all’Ambasciata di Francia. Tutte le forze politiche chjiedono un intervento del governo con Parigi.
      Dal Pd a Fratelli d’Italia l’irruzione degli agenti francesi nel centro migranti di Bardonecchia suscita sdegno e rabbia e assume sempre di più le caratteristiche di un incidente internazionale. La Farnesina fa sapere di aver chiesto «spiegazioni al governo francese e all’Ambasciata di Francia in Italia, attendiamo risposte chiare prima di intraprendere qualsiasi eventuale azione». Intanto i volontari i
      Rainbow4Africa , dopo l’irruzione degli agenti della Dogana francese nei loro locali di Bardonecchia, dicono:. «Adesso è il momento di tornare a fare il nostro lavoro di medici, infermieri, mediatori, avvocati»


      https://www.youtube.com/watch?v=4Jv1pmMN7BI

      http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/03/31/news/coro_di_proteste_contro_l_irruzione_dei_francesi_non_siamo_la_toil

    • Bardonecchia – L’Italia si è ristretta

      Sono tanti i punti di domanda, resta il fatto che le frontiere italiane non pare si siano ristrette.

      Appurato che la polizia francese, agenti della dogana per la precisione, è arrivata armata fino a Bardonecchia e che avrebbe potuto farlo solo previo accordo dei colleghi italiani. Appurato che le forze dell’ordine italiane sia alla frontiera francese sia a quella austriaca hanno già lamentato invasioni di campo.

      Appurato che abbiamo visto quanto siano state collaborative le autorità francesi sulla questione dei migranti a Ventimiglia e che gli europei in generale hanno lasciato la nostra penisola arrangiarsi. Tutto ciò appurato sarebbe interessante sapere chi ha dato l’ordine di spingersi sino alla stazione di Bardonecchia e se hanno avvisato il commissariato del posto. Se ciò non è stato fatto significa che l’Italia lascia entrare uomini armati nel proprio territorio come se nulla fosse?

      Se il commissariato di Bardonecchia è stato avvisato, la polizia francese poteva entrare in territorio italiano armata. Ma il blitz dei francesi che hanno fatto irruzione in una saletta della stazione di Bardonecchia, dove opera la Ong Rainbow 4 Africa, per un’operazione “antidroga” su un nigeriano intimandogli di urinare per un controllo rivelatosi negativo pare che non fosse autorizzato. Restiamo nel condizionale. Se la polizia francese ha agito senza autorizzazione per quale ragione non è stata posta in stato di fermo? Vogliamo dire che l’Italia è tenuta in così “alta” considerazione che ognuno fa quel che vuole sul nostro territorio? L’estate scorsa gli austriaci avevano messo i blindati alla frontiera del Brennero per poi tirarli indietro di 800 metri. Forse si sono accorti che eravamo ad un pelo dalla dichiarazione di guerra? L’unica a non accorgersene è stata l’Italia?

      Le forze dell’ordine straniere vanno e vengono dal nostro territorio? Le operazioni si fanno in comune e semmai nel quadro dell’antiterrorismo. Ha qualcosa di surreale questa ricerca del nigeriano drogato…

      I media francesi tacciono, ad eccezione di FranceInfo che riporta che l’Italia sostiene… Non “sostiene” nulla. I fatti sono quelli.

      In attesa di sapere, se mai si saprà, chi ha avuto la felice idea di dare l’ordine ai poliziotti francesi di fare irruzione a 20 chilometri da Modane, perché si spera che non fossero in gita oltrefrontiera, e perché le autorità italiane non li abbiano fermati, cerchiamo di non fare ulteriori figuracce e di imporre all’Europa un atteggiamento molto ma molto più rispettoso nei confronti degli Stati membri in materia di migranti e di smetterla di vederci come una sottoappendice del continente europeo. Questo atteggiamento non giova al futuro dell’Europa al quale il Presidente Macron sembra tenere tanto!

      http://www.lavalledeitempli.net/2018/03/31/bardonecchia-litalia-si-ristretta

    • Snow may hide dead migrants on Alps route

      Mountain guides in the Italian Alps are warning that when the snow melts there this spring they may find bodies of migrants who have been attempting to make the treacherous land crossing from Italy into France.
      The tightening of border controls between France and Italy in recent years has prompted some migrants — often teenagers — to abandon coastal routes, in favor of a perilous two-kilometer trek through the southern Alps, the same slopes visited by skiers enjoying winter vacations.

      https://edition.cnn.com/2018/01/18/europe/alps-migrants-border-crossing-intl/index.html

    • #Beauty, 31 ans, enceinte, morte à Turin sur la route de la France

      C’est une histoire que vous avez peut-être lue dans la presse ces derniers jours, celle de la mort tragique d’une jeune femme nigériane, Beauty. Notre journaliste Julie Pietri l’avait rencontrée à Bardonecchia, dans le cadre d’un reportage. Elle raconte ici son histoire et pourquoi il est important de ne pas l’oublier.

      https://www.franceinter.fr/societe/beauty-31-ans-enceinte-et-morte-a-turin-sur-la-route-de-la-france

    • Migranti, la rotta alpina che passa da Bardonecchia: un viaggio duro e pericoloso

      Negli ultimi mesi, sulla rotta alpina che passa da Bardonecchia, sono transitati oltre duemila migranti: un viaggio duro e pericoloso in cui si arriva a camminare anche fino a quasi duemila metri. Non tutti ce la fanno: come la giovane nigeriana morta subito dopo aver dato alla luce il proprio bambino. Angela Caponnetto

      http://www.rainews.it/dl/rainews/media/sulla-rotta-alpina-che-passa-da-Bardonecchia-sono-transitati-oltre-duemila-m

    • Bardonecchia, i doganieri francesi fanno irruzione nella sede dei medici che difendono i migranti

      Non era mai accaduto ed è verosimile che diventi un caso diplomatico l’irruzione di cinque uomini della dogana francese, questa sera (30 marzo) intorno alle 19, nella base di «Freedom Mountain» a Bardonecchia, dove medici e infermieri dell’associazione Rainbow for Africa con mediatori culturali del Comune, pagati con fondi del ministero dell’Interno, assistono i migranti che mettono a rischio la loro vita nel tentativo di passare oltreconfine.

      http://www.lastampa.it/2018/03/30/cronaca/bardonecchia-i-doganieri-francesi-fanno-irruzione-nella-sede-dei-medici-che-difendono-i-migranti-V3CrBDNZMNfxgJHchjYdvJ/pagina.html

      Commentaire de #Andrea_Segre sur FB:

      Se noi riteniamo giusto mandare i nostri soldati in Libia, Tunisia, Niger per fermare i migranti, perché ci dovremmo stupire se i francesi fanno lo stesso mandando i loro nel nostro territorio? Sono stato personalmente a Bardonecchia e ho visto con i miei occhi i poliziotti francesi portare migranti nel territorio italiano senza alcuna autorizzazione, spesso con auto bianche senza alcun simbolo e senza curarsi minimamente delle condizioni dei migranti stessi o della presenza di operatori italiani pronti ad accoglierli. Arrivano, li scaricano e non si occupano delle conseguenze. Unico scopo è tenerli fuori, farli rimanere a casa..."nostra"! Oggi hanno anche deciso di fare irruzione in uno spazio di accoglienza allestito da Comune e associazioni. Il sindaco, Francesco Avato, ha giustamente protestato con fermezza. Il Ministero degli Interni per ora tace. E forse dovrà continuare a farlo se vuole che i francesi ci aiutino ad agire nello stesso modo in Africa sul nostro confine sud. Una volta che la la spirale securitaria prende il via le linee di confine diventano sempre più strette. Preferiamo aspettare che blocchino anche la nostra libertà di movimento prima di accorgercene e reagire?

    • France-Italie. “Macron l’envahisseur” : pourquoi la presse italienne est-elle en colère ?

      Le 30 mars, des douaniers français ont fait irruption du côté italien de la frontière, dans un local réservé à l’accueil des migrants. La France défend la légalité de l’opération ; les journaux italiens, eux, dénoncent une “violation de la souveraineté nationale” et tirent à boulet rouge sur le cynisme français.


      https://www.courrierinternational.com/article/france-italie-macron-lenvahisseur-pourquoi-la-presse-italienn

    • Des douaniers français poursuivent un migrant en Italie, l’incident devient diplomatique

      Vendredi 30 mars, les douaniers français sont intervenus sans ménagement dans un local d’une ONG en territoire italien. L’incident provoque l’indignation en Italie et tend les relations diplomatiques franco-italiennes.

      L’incident est passé assez inaperçu en France, mais fait les gros titres en Italie. L’intervention, vendredi 30 mars, d’une patrouille de douaniers français à Bardonecchia, sur le versant italien des Alpes, pour contraindre à un contrôle urinaire un migrant soupçonné de trafic de drogue a provoqué de vives réactions en Italie.

      Que s’est-il passé ? L’édition turinoise de La Repubblica tente d’établir les faits connus. Vers 21 heures, vendredi soir, la douane française intercepte dans le train Paris-Milan un jeune Nigérian qui possède un billet valable pour Naples. À la station frontière italienne de Bardonecchia, ils font descendre le jeune homme qu’ils soupçonnent apparemment de trafic de drogue pour le soumettre à un test urinaire. Pour réaliser ce test, les douaniers français ont utilisé le local de l’ONG turinoise Rainbow4Africa.

      Ce local, prêté par la mairie de Bardonecchia, est utilisé pour venir en aide aux migrants qui tentent de passer la frontière française par le col de l’Échelle et qui sont repoussés. Il est réservé aux personnels de l’ONG, aux médecins et aux responsables locaux. Selon les responsables de l’ONG sur place, les douaniers français seraient entrés armés, auraient fait preuve de brutalité, intimidant les personnes présentes pour parvenir à leurs fins. Le test d’urine a finalement été effectué et s’est révélé négatif. Le Nigérian a été libéré. Mais l’intervention musclée de la douane française a choqué bien au-delà de la commune piémontaise.

      L’affaire a pris une tournure diplomatique sérieuse. Comme le rapporte Il Fatto Quotidiano, l’ambassadeur de France à Rome, Christian Masset, a été convoqué, samedi 31 mars, par le ministère des affaires étrangères italien. Une convocation qui n’a pas, loin de là, apaisé les esprits. Le directeur général italien pour l’UE, Giuseppe Buccino Grimaldi, a « fermement protesté sur la conduite des agents français » et a jugé leur comportement « inacceptable ». La Farnesina, le Quai d’Orsay italien, s’est émue de l’absence d’explications de la partie française et indique que l’incident aura des conséquences sur le « fonctionnement concret (…) de la collaboration frontalière ».

      Côté français, on a tenté de désamorcer timidement la crise. Le ministre de l’action et des comptes publics, Gérald Darmanin, ministre de tutelle des douanes, s’est fendu d’un tweet dans la langue de Dante pour expliquer que l’intervention des agents français s’était effectuée dans le cadre d’un accord sur le contrôle transfrontalier de 1990 et que les douaniers avaient demandé et obtenu le droit d’utiliser le local de l’ONG Rainbow4Africa à Bardonecchia. Cette réponse n’est pas « satisfaisante » pour la Farnesina, qui indique, toujours selon Il Fatto Quotidiano, que les douaniers français savaient qu’ils ne pouvaient pas utiliser le local de la gare piémontaise. Le journal italien évoque un mail des douaniers français daté du 13 mars envoyé à RFI qui, précisément, se lamente de ne pouvoir occuper ce local « occupé par d’autres gens ». Rome réfléchirait désormais à interdire toute incursion française sur son territoire.

      L’affaire n’en reste cependant pas au niveau diplomatique. La Stampa, quotidien piémontais, annonce que le parquet de Turin vient d’ouvrir ce 1er avril une enquête contre X, dans l’attente de connaître l’identité des fonctionnaires français impliqués, pour « abus de pouvoir, violence privée et violation de domicile », le délit de « perquisition illégale » serait également en cours d’évaluation par le parquet. Cette enquête fait suite à une information envoyée par le commissariat de Bardonecchia. Selon celui-ci, les témoignages sont sans appel : les douaniers français sont entrés dans le local armés et sans demander la permission. Lorsqu’un membre de l’ONG a tenté de s’interposer par la parole en demandant du respect, on lui a intimé l’ordre de se taire.

      Cette affaire délie les langues dans une région qui est devenue un passage important des migrants. Dans un reportage sur place, La Stampa, rend compte de multiples témoignages sur les pratiques des douaniers français. Moussa, membre de l’ONG Raimbow4Africa, affirme que les Français « font ce qu’ils veulent, dans les trains et à la frontière (…), ils agissent comme s’ils étaient les patrons, très durement, avec très peu d’humanité ». Le journaliste italien constate effectivement qu’à Bardonecchia, la douane et les gendarmes français contrôlent tout le monde, migrants et Italiens. « Ils opèrent en territoire italien de façon indépendante, dans une sorte d’activité extraterritoriale en pleine autonomie, sans l’appui des autorités italiennes qui serait pourtant nécessaire selon le droit international », résume La Stampa.

      En attendant, l’incident a déclenché une vague de protestations. Les éditorialistes n’ont pas de mots assez durs contre la France et Emmanuel Macron. La Repubblica parle ainsi de « principes violés » et dénonce le « vrai visage » de la France qui serait apparu dans cette affaire. L’éditorialiste du quotidien de centre gauche estime que l’Italie est ravalée par son voisin au rang de « province méridionale d’une forteresse assiégée ». Dans le Corriere della Sera, Massimo Nava, élargit le propos et souligne que « Emmanuel Macron ne sort pas de la logique nationale, que ce soit sur les migrants, sur les chantiers navals ou sur les opérations militaires ». Celui qui devait incarner l’avenir de l’Europe déçoit, selon l’éditorialiste : « L’impression que donne Macron, c’est que plus qu’à des projets ambitieux, il est en train de penser avant tout aux prochaines élections. »

      Sur le plan politique, tous les partis italiens ont dénoncé l’attitude française, de la gauche radicale à l’extrême droite, comme le souligne le Huffington Post Italia. À gauche, Nicola Fratoianni, du parti Liberi e Uguali ( qui se situe à gauche du parti démocrate), parle d’un « acte de guerre contre ceux qui pratiquent la solidarité ». Même Enrico Letta, Europhile convaincu, ancien président du conseil et professeur à Sciences-Po Paris, a dénoncé dans un tweet « l’énième erreur sur les migrants ». Et de conclure : « Ensuite, on s’étonne du résultat des élections italiennes. » De son côté, le vainqueur des élections politiques du 4 avril, le Mouvement 5 Étoiles, soupçonné selon le quotidien libéral Il Foglio, de vouloir s’allier après les élections européennes à Emmanuel Macron, a publié un communiqué demandant des « clarifications » à la France et soutenant l’attitude de la Farnesina.

      Mais la réaction la plus vive est venue de Matteo Salvini, le leader de la Ligue, ce mouvement d’extrême droite qui est l’autre grand vainqueur des élections du 4 mars et donné dans les derniers sondages en deuxième position avec près de 25 % des intentions de vote. « Plutôt que d’expulser des diplomates russes, il faut éloigner les diplomates français », a-t-il déclaré.

      Cet incident traduit également une dégradation générale des relations franco-italiennes non seulement sur le plan des migrants, mais aussi des relations économiques. On se souvient que la nationalisation temporaire des chantiers de l’Atlantique pour obtenir des garanties de la société publique italienne qui rachetait le groupe à l’été 2017 avait suscité beaucoup d’indignations en Italie.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010418/des-douaniers-francais-poursuivent-un-migrant-en-italie-l-incident-devient

    • La Francia agisca nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone e delle norme internazionali, europee e nazionali

      In seguito alla richiesta di spiegazioni da parte del Governo italiano, le autorità francesi hanno affermato che i controlli effettuati dagli agenti della Dogana francese nei locali della stazione di Bardonecchia in cui operano i medici di Rainbow4Africa e i mediatori culturali del Comune si sarebbero svolti nel rispetto della normativa vigente.

      Le norme europee e gli accordi tra Italia e Francia, intervenuti nel corso degli anni per disciplinare la cooperazione transfrontaliera in materia di polizia e dogana così come le operazioni congiunte di polizia, prevedono che gli agenti francesi possano operare sul territorio italiano, nelle zone di frontiera, ma stabiliscono determinate procedure e specifici limiti e condizioni, che nella vicenda svoltasi venerdì sera sono state palesemente violate.

      https://www.asgi.it/ingresso-soggiorno/bardonecchia-francia-violazioni-parere-asgi

    • Chez Jésus à Clavière, frontière franco-italienne
      Des nouvelles de Clavières, à la frontière franco-italienne

      Message émis par un habitant du squat de migrant·e·s Chez Marcel à Briançon, présent sur le squat de #Clavière dès le premier jour.

      Bonjour !

      Depuis jeudi 22 mars, la salle paroissiale de l’église de Clavières est occupée au bénéfice des exilé·e·s qui veulent entrer en France. L’ouverture de la salle est d’abord une action directe de mise à l’abri de personnes arrivées par le bus de vingt heures, et qui ne pouvaient arriver en France la nuit même. C’est la cinquième ou sixième fois depuis cet hiver que des migrant·e·s sont ainsi mis à l’abri provisoirement, avec à chaque fois une fermeture de la salle par le curé de la paroisse. Cette fois, la salle est restée occupée et rebaptisée #Chez_Jésus : le mouvement de soutien aux exilé·e·s sort ainsi du strict humanitaire et dispose d’un lieu pour changer ses modes d’action et politiser sa lutte, mettre en accusation le système de la frontière et ceux qui contribuent et qui profitent de ce système inhumain, des passeurs aux politiques en passant par les entreprises de sécurité et les flics de tous poils, et ceux qui se taisent et s’enkystent dans l’humanitaire, collaborant par leur silence au système de la frontière.

      Après la forte présence policière du week-end du 24-25 mars (DIGOS, carabinieri, police, police anti-émeute côté italien ; gendarmerie, PAF, police nationale et PSIG côté français), le #squat s’installe de manière un peu plus pérenne. L’aménagement intérieur s’améliore et rend le lieu plus agréable et plus fonctionnel, les risques d’expulsion (de la part de l’Église, propriétaire du lieu, et de la préfecture) s’apaisent, reste la mairie qui paie la facture d’électricité et veut envoyer un contrôle d’hygiène. Restent aussi de nombreux soutiens individuels, à Briançon et au Val-de-Suse. Reste encore la division des mouvements, en France et en Italie : que ce soit Tous Migrants à Briançon ou le réseau Briser les frontières en Italie, et même le mouvement No-Tav, les organisations les plus proches et les plus concernées se désolidarisent toutes officiellement de cette occupation (on trouve même le qualificatif de « sabotage » à propos de ce lieu).

      Pourtant, c’est bien là que les exilé·e·s quittent la route pour trouver un chemin qui leur permettra de rejoindre la France. C’est bien là que les exilé·es peuvent prendre un peu de repos, des forces, des conseils, un temps de réflexion... et ainsi envisager une traversée moins dangereuse. C’est aussi là qu’illes peuvent revenir s’illes sont refoulé·e·s par la police, et s’abriter la journée avant de tenter un nouveau passage. C’est donc une nouvelle façon de fonctionner sur la frontière, pour les personnes de la maraude comme pour les exilé·e·s. Elle présente l’avantage de permettre aux personnes qui franchissent le col de se réapproprier la façon dont elles souhaitent ou peuvent entreprendre la fin de leur parcours vers la France, sans l’espèce de fonctionnement en « agence de voyage » de la maraude qui leur est parfois vendu et qui semblait chargée d’aller systématiquement et immédiatement les mettre à l’abri. Cette idée d’autonomisation nous semble un concept riche de sens, mais pas seulement à nous. Quelque chose d’inquantifiable et d’immatériel nous le confirme, ce sont, chaque matin après la traversée, les sourires et l’énergie des gens arrivés à pied, comparés à ceux transportés en voiture il y a une semaine.

      Le lieu offre aussi une opportunité de contrer le système des passeurs, et donc d’atteindre la frontière dans un de ses maillons. L’existence de ce lieu, si l’information circule bien en Italie, permet aux migrant·e·s d’esquiver le paiement de 200 à 300 € à un passeur qui ne fait de toute façon pas le travail, se reposant sur les maraudeurs dont la présence systématique assurait aux passeurs de faire entrer leurs clients en France facilement et sans risque. La frontière crée les passeurs, mais les passeurs justifient la présence policière et la répression des individus solidaires des migrants.

      Nous invitons donc tous ceux qui le souhaitent à venir prendre un café à la salle paroissiale de l’église de Clavière (à deux kilomètres de la frontière française) pour voir ce qui s’y passe et éventuellement donner un coup de main, sachant que la première façon d’aider est d’en parler autour de soi.

      Mise à jour du 01 avril 2018

      Les deux dernières nuits ont été plus agitées à la frontière, marquées par un renforcement des rondes de police : patrouilles, pick-up, voitures banalisées. Logiquement, on a vu une reprise des arrestations de cell-eux qui essaient de passer sans les bons papiers.

      Un groupe de six personnes a été bloqué vendredi soir à la sortie de Montgenèvre par la police française. Refoulés en Italie, ils ont tenté la traversée à nouveau samedi soir, de même que dix autres candidats. Ces derniers ont été surpris à Montgenèvre et refoulés, quant aux premiers, c’est aux Alberts (à mi-chemin de Briançon) qu’ils ont été interpellés. La scène dont ils témoignent est la suivante : à 3 heures du matin environ, ils ont été surpris et arrêtés sur la route. Le groupe au complet a pris la fuite soudainement, dont les deux voyageurs déjà montés à bord du véhicule de patrouille. L’un d’entre eux est tombé à travers la glace d’un petit plan d’eau et a pu être secouru ; il se repose actuellement.

      L’euphorie consécutive à la consolidation de l’occupation de Clavière après deux semaines retombe quelque peu. Preuve est faite une nouvelle fois de la mise en danger persistante par les « autorités ». Par l’action de sa police aux frontières, la France réitère ses entraves manifestes à la liberté de circulation et en particulier au droit de se rendre à la préfecture la plus proche pour y effectuer une demande d’asile.

      Un dernier point, non moins marquant, d’après le témoignage d’un candidat à la traversée, bloqué la nuit dernière : lors de l’interpellation, face à son refus premier d’obtempérer à l’ordre de monter dans la voiture, l’agent de la PAF a porté la main à son arme (sans la dégainer) et réitéré son ordre. Comment faire autrement que se soumettre au rapport de force et accepter d’être renvoyé ? Que penser d’un geste aussi suggestif dans la menace ?

      A Montgenèvre comme partout ailleurs, la police joue son rôle de cadenas contre les libertés. Encore une fois, interrogeons, exposons et refusons de subir son action.

      Solidarité avec qui souhaite circuler de part et d’autre des frontières.

      https://grenoble.indymedia.org/2018-04-02-Chez-Jesus-a-Clavieres-frontiere

    • Criminalizzazione della solidarietà, diritto di fuga, città solidali

      Lo spazio-frontiera italo-francese

      In un contesto segnato da una criminalizzazione della solidarietà senza precedenti, in Italia come altrove in Europa e nelle sue vicinanze si assiste a un’escalation inquietante degli episodi di razzismo istituzionale e di strada. Gli interventi arbitrari delle forze di polizia e delle guardie di frontiera si moltiplicano in nome della lotta congiunta al terrorismo e alle migrazioni “irregolari”. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente al primo posto per l’intensità della scossa diplomatica che ha prodotto, è la vicenda dell’irruzione armata da parte di cinque agenti della dogana francese all’interno dei locali della stazione ferroviaria di Bardonecchia per effettuare un test delle urine a un ragazzo nigeriano che viaggiava regolarmente da Parigi verso Napoli. In questo caso, il cittadino nigeriano è stato fermato e sottoposto a un controllo anti-droga sotto pressione di agenti francesi armati esclusivamente sulla base di un racial profiling (identificazione razziale) che di fatto regola le pratiche di controllo sui treni che attraversano i confini nazionali. Quello avvenuto a Bardonecchia è un attacco che va situato all’interno della serie di atti di intimidazione da parte delle forze dell’ordine contro chi si sta mobilitando in sostegno dei migranti bloccati o respinti alle frontiere.
      A pochi chilometri da Bardonecchia, al confine italo-francese, dal 24 marzo una stanza interna alla chiesa di Claviere è occupata da migranti e attivisti che dichiarano: “Il problema non è la neve, non sono le montagne; il problema è la frontiera”. Gli occupanti si oppongono al registro dell’emergenza, ribadendo che a causare le morti al confine franco-italiano non sono le condizioni meteo, ma è l’esistenza stessa del confine e il suo attuale funzionamento. In quest’ottica, costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione” dei migranti e, al contrario, significa aprire spazi comuni di lotta e di permanenza – dicono gli occupanti di Claviere.
      Da Catania a Calais, così come da Melilla a Edirne, le nostre speranze sono alimentate da un variegato movimento di solidarietà ai migranti che comprende gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides sans Frontieres nelle Alpi francesi. L’eterogeneità di esperienze e pratiche di solidarietà rappresenta la vera ricchezza del movimento a sostegno dei migranti. Tale movimento è animato da gruppi organizzati così come da cittadini che autonomamente decidono di mobilitarsi per reagire alla criminalizzazione della solidarietà. Tra questi ultimi, il caso che più di altri ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato quello di Cedric Herrou, contadino francese della Val Roia, al confine italiano-francese, accusato nel 2016 di aver aiutato a superare la frontiera italiana e aver offerto ospitalità a un gruppo di migranti. È stata poi la volta del ricercatore francese Pierre-Alain Mannoni, accusato di aver soccorso tre donne eritree.
      Secondo il “Codice di Entrata e Soggiorno degli Stranieri e del Diritto di Asilo” (CESEDA), chi viene accusato di aver “facilitato o tentato di facilitare l’ingresso, la circolazione o il soggiorno irregolare di uno straniero” è punibile dalle autorità francesi con multe che ammontano fino a 30 mila euro, nonché con la reclusione in carcere di due anni. Insieme a Mannoni e Herrou, decine di cittadini e cittadine sono stati (o sono tutt’ora) sotto processo per aver fornito cibo e ospitalità ai migranti. Tali accuse fanno leva su leggi nazionali che richiamano la Direttiva europea del 2002 sul “Favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali”. In alcune località, come Calais, il formarsi di infrastrutture autonome di solidarietà e sostegno materiale ai migranti ha fatto venire alla luce contrasti fino ad allora rimasti sotto traccia tra i diversi livelli istituzionali: amministrazioni locali contro magistratura, governo nazionale contro procure.
      La “guerra delle docce”, vale a dire la vertenza messa in campo da gruppi spontanei e associazioni locali per la fornitura di servizi igienici ai migranti di passaggio a Calais, è divenuta una vera e propria icona del movimento di solidarietà con i migranti che tentano di attraversare il confine italo-francese. Alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei diritti negli spazi di emergenza umanitaria si risponde dunque con la moltiplicazione delle iniziative spontanee e organizzate, individuali e collettive, di solidarietà attiva.

      http://www.euronomade.info/?p=10506

    • Crossed boundaries? Migrants and police on the French-Italian border

      An eyewitness account and analysis of what it means for French customs officials to force a Nigerian man to urinate in Italy.

      The strengthening of migration controls at the internal frontiers of Europe is not a smooth affair. Far from only trying to gain control over migrant crossings, EU member states are reshaping border policies to project sovereign power and support state prerogatives, such as anti-terrorism. This work has included the implementation of bilateral agreements between national police forces, as well as measures aimed at intimidating solidarity networks that support migrants. The forced entry into a room of the Bardonecchia railway station, located a few kilometres inside Italy, and the diplomatic row that followed glaringly shows the political stakes that are behind inter-state border cooperation.

      I was there, conducting interviews with the NGO Rainbow for Africa for my research project on migrant solidarity networks, when the police burst in. It is a small room that Rainbow for Africa uses, with the authorisation of the municipality of Bardonecchia, to host migrants at night as they try to cross into France. The French customs officers arrived around 8 pm. They had guns and Tasers, and they were holding a Nigerian citizen that they arrested on the train. Their right to enter, they said, was based on a bilateral agreement signed with the Italians in the sixties.

      They had guns and Tasers, and they were holding a Nigerian citizen that they arrested on the train.

      A cultural-linguistic mediator of the Italian NGO, a non-white person, tried to dissuade them. “No weapons here”, he said. “Nobody is authorised to do arbitrary anti-drugs tests in this room”. One of the customs officers shouted “shut up, this is none of your business”, and proceeded with the Nigerian gentleman towards the toilet, at the back of the room. The Nigerian citizen was travelling from Paris to Naples, with a regular train ticket and a permit to stay in Italy, and he could not understand what the French officers were shouting. They spoke in French only.

      He tested negative so they released him, throwing his stuff on the floor and leaving before the Italian police arrived. A diplomatic crisis has since erupted. The Italian Home Office demanded an explanation from the French ambassador to Rome, who cited a bilateral trans-border agreement signed with Italy in 1990 according to which "French customs officers are allowed to intervene in the Italian territory”. Italy replied that the room can no longer be used by the French, as it is now reserved for hosting migrants. Moreover, as the Italian Association of Juridical Studies (ASGI) explains, the bilateral agreements between France and Italy establish that “the French police can act in the Italian territory but on the basis of specific and detailed conditions […] and always through a collaboration with the Italian police”. Therefore, the arbitrary stop and search of the Nigerian citizen, and a forced urine test on the basis of racial profiling (a black man spotted by the French police on a high speed train), also reveal the broader political stakes that go beyond migration.
      Sovereignty over what?

      What does this event tell us? How should it be analysed in light of the current French-Italian border police cooperation? The day after the event, Italian politicians claimed the need to regain control over national frontiers. “We should kick the French diplomats out of Italy”, declared Matteo Salvini, the leader of the populist right party the League. His and others’ reactions put national sovereignty at the forefront, shifting the whole debate from the arbitrary intervention made on the migrant to the French armed intrusion on Italy.

      Trans-border police cooperation between the two countries has a long history, including the 1997 Chambery agreement that establishes rules for police cooperation. Most recently, on 15 March, the prefectures of Turin and Gap signed a new, bilateral trans-border agreement aimed at controlling migration movements and arresting suspected terrorists. Political tension at the border has visibly increased over the past three years, in particular due to two main political issues: France’s suspension of Schengen in May 2015, and the increasing number of migrants risking their lives to evade French border controls by crossing through the Alps.

      “You should not dare crossing here. Crossing the Alps it is too dangerous now. With this amount of snow, you will die for sure”, an Italian policeman told four Somali migrants who arrived in Bardonecchia by regional train from Turin. “If you want to be alive tomorrow, don’t try to cross. And also, if you manage now, the French will take you back here, in Italy”. In part a well-intended warning, in part an illustration of the deterrence tactics being deployed along the border, these words demonstrate the different attitudes on the two sides of the borders.

      The Italians have little interest in tracking the migrants nor in blocking them – it’s the French who incessantly patrol the frontier.

      The Italians have little interest in tracking the migrants nor in blocking them – it’s the French who incessantly patrol the frontier and actively push migrants back into Italy when they find them. For this reason both local NGOs and the Italian police try to discourage migrants from crossing. They know that the chance of dying is very high, and those who succeed initially are very likely sent back. When migrants are detected by the French police, they are returned by van to the town of Bardonecchia and dropped in the main square next to the rail station.

      “Sometimes they give a paper to the migrants, some other they do not officially register the push-back”, an activist of the NoTav movement said. “Migrants know that it is extremely hard to cross. Only about 10% manage to reach France at the first attempt, the others try again and again. For their part, the police counts on the fact that, also due to the extreme weather conditions and the difficulty of crossing high mountains, migrants are exhausted after few attempts and give up, claiming asylum in Italy.”
      "The problem is not the snow, the problem is the border”

      Behind the struggle over border cooperation and national sovereignty, the question of the implementation of the Dublin Regulation comes to the fore. Both states try not to take in potential asylum seekers, with France actively confining migrants in Italy. These repeated pushbacks have severe impacts on the migrants, who are forced to repeatedly undertake the same journey and to constantly divert their routes.

      Furthermore, when French customs officers pushed their way past the NGO workers in the Bardonecchia train station they not only intimidated them, but also – I would ague – sent a message to all migrant solidarity networks that are mobilised in the Susa Valley. Alongside Rainbow for Africa, which is authorised by the municipality to manage this temporary medical clinic and hosting space, activists and citizens in the village of Claviere are running a solidarity space without the support of local authorities.

      Claviere, which is located just two kilometres from the French border, is the other main crossing point for the migrants. Unlike in Bardonecchia, the municipality did not open any space for them, and therefore a group of citizens decided on 24 March to occupy a room inside the church. The priest took position against the occupation, but in the end the local authorities could not evict the people inside, due to the extra-territorial status of the church. Moreover, the occupation has received quite a lot of support from many citizens in the area and beyond.

      The mountains are not the problem, the snow is not an emergency. The problem is the border.

      The occupied church is not merely a place for the migrants to stay and rest before trying to cross to France. Its existence as a place of solidarity is an active challenge to the state logics of “managing migration”. In the face of the repeated pushback operations at the border and the risky journeys that migrants undertake on the Alps, the occupants of the church refuse the humanitarian emergency discourse that considers migrants as desperate people to save from the snow. As one said, “the mountains are not the problem, the snow is not an emergency. The problem is the border, that forces these migrants to cross from here and in these conditions”.

      The French-Italian frontier is marked by border cooperation activities as well as disputes over arbitrary police interventions, yet at the same time it is a place of growing trans-border solidarity infrastructures. These are under attack due to their support of migrants’ struggles for movement, support which goes beyond the humanitarian gesture of giving something to the migrants. Against inter-state police cooperation, and beyond disputes over border sovereignty, trans-border cooperation is multiplying as citizens defy their own governments to become “criminals of solidarity”.

      https://www.opendemocracy.net/beyondslavery/martina-tazzioli/crossed-boundaries-migrants-and-police-on-french-italian-border

    • Raid at NGO on the French-Italian border puts France and Italy at odds

      On 30 March 2018, French border guards raided the NGO Rainbow for Africa, which operates at the train station of the Italian city of Bardonecchia at the Alpine border with France. The guards, who were armed, entered the NGO facility, forced a migrant to take a urine test and intimidated doctors, cultural mediators and lawyers. The NGO provides social, health and legal support to migrants and asylum applicants at the border.

      The French authorities claimed that the border guards suspected one of the passengers, a Nigerian national resident in Italy, of carrying drugs and proceeded with “asking his consent” to provide a urine sample, using the facility at the Bardonecchia station for that purpose. The authorities put forward that the procedure respected the guidelines laid down in 1990 regarding National Joint Border Control Facilities. The French Minister for Public Accounts called the incident a “misunderstanding”.

      The Mayor of Bardonecchia, Francesco Avato, said the French had no right to enter the facility, which he said the city operates as a “neutral” space to try to persuade migrants not to make the dangerous Alpine crossing into France.

      A day after the incident, the French ambassador in Italy, Christian Masset, was summoned over what Rome termed “a serious act considered outside the scope of cooperation between states sharing a border”. The Italian Foreign Ministry added that the two countries will address the issue further at a meeting in Turin on April 16.

      On 1 April 2018, the public prosecutor’s office in Turin opened an inquiry into the incident and will assess whether there has been an abuse of power, domestic violence, trespassing, and, if there are grounds for it, also illegal search from the part of the French border guards.

      The president of ASGI, an Italian NGO that provides legal assistance at Bardonecchia station and is a member of ECRE , stated that the incident was “a very serious violation not only of that human rights system (…) but also a violation of the basic principles of human dignity, intolerable towards people who come to seek international protection”. The Mayor of Bardonecchia reiterated his support to the work carried out by NGOs and categorically stated: “The project won’t stop; our goal is to continue to work so that our town doesn’t become a new Ventimiglia”.

      As stated in the ECRE/AIDA Updated Country Report on France, to circumvent the controls set up in Menton, migratory routes have shifted towards riskier journeys through the Alps, with police checks and unlawful summary returns being frequently documented.

      https://www.ecre.org/raid-at-ngo-on-the-french-italian-border-puts-france-and-italy-at-odds

    • Vu sur twitter, le 08.04.2018 :
      https://twitter.com/LouisMRImbert/status/982529486494359552
      #Collomb #Gérard_Collomb #fake_news #Alternative_facts

      Source :

      Mais elle a accepté de le retravailler pour la séance. M. Collomb a fait une distinction entre ceux qui aident « occasionnellement » les migrants et une « catégorie extrêmement dangereuse de personnes totalement irresponsables (…) qui appellent à la suppression des frontières ».

      « On a incité des migrants à franchir un certain nombre de cols [dans les Alpes] pour venir en France : s’il n’y avait pas eu la gendarmerie de haute montagne, on aurait eu des morts », a-t-il dit.

      http://www.lemonde.fr/politique/article/2018/04/06/apres-28-heures-de-debats-et-l-etude-de-850-amendements-le-projet-de-loi-asi

    • Je suis passée il y a quelques jours, en rentrant de Grenoble depuis la Suisse italienne, à Claviere... J’y suis restée uniquement quelques minutes pour leur laisser un peu d’argent.
      Panneau à l’entrée de l’église :

      Une des choses qui m’a frappée c’est l’#invisibilité des exilés dans ce petit village.
      Le grand portail de l’église est fermée, ce n’est pas l’espace supérieur de l’église qui est occupée, mais la #crypte. On y entre par une petite porte latérale.
      Un seul exilé était dehors, assis sur une pierre. La seule personne noire que j’ai vu dans Claviere.
      Claviere qui était pleine de skieurs, de randonneurs, qui s’amusaient comme si de rien n’était...

      A Claviere comme à Côme, et comme déjà vu sur des plages en Méditerranée, #migrants et #touristes entrent en collision dans des endroits presque improbables :

      À Côme, les taxis ne se battent pas pour conduire des Somaliens ou des Érythréens. Ils recherchent plutôt les « autres » étrangers : les touristes aisés. Migrants et touristes ne se croisent pratiquement jamais, mais en raison des fermetures successives des routes migratoires et des points de passage dans l’espace Schengen, les premiers voyageant du Sud vers le Nord, avec pour tout bagage des sacs en plastique, croisent les seconds qui débarquent avec leurs lourdes valises sur le chemin de l’hôtel. Les migrants, eux, ne possèdent qu’une simple couverture, au mieux une tente. La plupart dorment à la belle étoile dans le parc.


      https://visionscarto.net/touristes-et-migrants-collision-a-come

      Ou ce que @reka a appelé, dans son billet sur la Méditerranée, « croisements touristiques et migratoires »

      Commentaire de cette carte :

      –->

      Elle montre en particulier que des centaines de milliers de personnes migrantes se déplaçant dans le sens sud-nord croisent quelques centaines de milliers de touristes qui eux, se déplacent dans le sens inverse nord-sud. Sans jamais les voir. Ou presque. Il y a de temps en temps des collisions, comme celle, immortalisée par le photographe espagnol Antonio Rodriguez en 2006 sur une plage des îles Canaries. Une jeune vacancière réconforte un migrant d’origine africaine arrivé épuisé à la nage après le naufrage de son embarcation. Petit crash de deux mondes qui n’auraient jamais dû se rencontrer.


      https://visionscarto.net/la-mediterranee-plus-loin

      Et mon commentaire de la même carte dans un article publié dans @vivre (2016) :

      Dans le même temps, les touristes débarquent sans problèmes sur cette même plage pour visiter le pays et s’amuser. Un « petit clash entre deux mondes qui n’auraient jamais dû se rencontrer », commente le cartographe et géographe Philippe Rekacewicz, qui illustre ces points de frictions avec la carte « Au voisinage touristique de l’Europe, la guerre, les réfugiés et les migrants »

      https://asile.ch/2016/12/13/regard-dune-geographe-murs-frontieres-fantasme-controle-migratoire

      #visibilité

    • Info urgentes, de la part de Tous Migrants, message reçu par email le 09.04.2018 :

      En réponse à l’appel d’urgence de Refuges Solidaires, la gare est occupée par depuis dimanche soir par des bénévoles et des exilées
      Cette occupation permet de mettre à l’abri dans l’urgence une cinquantaine de personnes que le Refuge ne peut accueillir faute de place. La paroisse et des citoyens accueillent également plusieurs familles avec enfants.
      Merci d’avance pour le soutien que chacune et chacun pourra apporter, ne serait-ce que par votre présence quand vous pouvez, à toute heure du jour et de la nuit.
      N’hésitez pas à apporter de la nourriture préparée, des couvertures.
      C’est aussi le moment de renforcer ou soulager les équipes de refuges Solidaires surchargées.

      En accord avec les responsables du Refuge, nous avons réactivé notre SOS pour que les associations nationales nous aident et pèsent de tous leur poids pour que l’Etat prenne ses responsabilités dans le respect des droits fondamentaux des personnes. Dans l’immédiat, l’ouverture d’un autre lieu à taille humaine un peu en aval de Briançon permettrait de poursuivre l’engagement citoyen en impliquant d’autres collectivités locales. L’idée est que ce genre d’initiatives se multiplient pour que la France d’en-bas tout en entière renoue avec ses valeurs de fraternité, ce qui finira par obliger ceux qui nous gouvernent à changer de politique.

    • Evacuation de la gare de Briançon.
      Message de TousMigrants sur twitter (10.04.2018) :

      #Évacuation de la gare sncf #briancon occupée par une cinquantaine de #CRS ce soir. Migrants à l’abri. Sans violence mais par la force. Quand la #prefete05 s’ouvrira t elle au dialogue avec les associations ? Et maintenant, on fait quoi ?...50 personnes ce soir à #Clavière....


      https://twitter.com/MigrantsTous/status/983808511292428288

    • A la frontière, les nouveau-nés pèsent 700 grammes

      La mort d’une femme nigériane après qu’elle eut tenté de passer la frontière italo-française indigne autant dans la presse que sur les réseaux

      Des hommes, une frontière, des tragédies. Les faits remontent au mois de février. Beauty a 31 ans et vient du Nigeria. Enceinte, elle vit avec son mari, Destiny, 33 ans, près de Naples. Lorsqu’elle réalise qu’elle souffre d’un lymphome, elle décide de poursuivre sa grossesse en France où réside sa sœur. Elle s’engage donc sur la route que suivent de plus en plus de migrants, celle qui passe par Turin et traverse les Hautes-Alpes par les cols pour aboutir à Briançon.

      Cette route, Le Temps l’avait déjà évoquée au mois de novembre, lors d’un reportage au col de l’Echelle, à 1762 mètres, alors que – malgré les premières neiges de l’hiver qui venaient de se déposer – le flux migratoire ne faisait que s’accentuer. Depuis 2016, la région subit une pression migratoire croissante. Certains exilés parviennent sains et saufs en France et d’autres sont refoulés en Italie. Difficile de connaître les critères qui président à l’expulsion ou au laissez-passer.

      Le 9 février, alors qu’ils traversaient la frontière, Beauty et son mari sont arrêtés par les gendarmes. Elle est enceinte de six mois, et peine à respirer. Selon l’ONG italienne Rainbow4Africa ils auraient été déposés en pleine nuit devant la gare de Bardonecchia, du côté italien.
      Bébé prématuré

      La semaine passée, Beauty est décédée, dans un hôpital à Turin. Son bébé, Israël, né prématurément, ne pesait à sa naissance que 700 grammes. Sur le ventre de son père depuis une semaine, il en aurait déjà pris 200 autres, et les médecins se disent confiants quant à son avenir.

      Le drame ne laisse personne indifférent. Selon la presse et les associations italiennes, une information judiciaire a été ouverte à Turin ce samedi. La région transfrontalière vit ce que ses habitants décrivent comme un drame humanitaire. Et des civils s’organisent pour éviter que des accidents ne surviennent dans leurs montagnes. Mais, le nombre de passages augmentant, la pression sur ces bénévoles humanitaires s’accentue. Ils se savent surveillés par les autorités, et certaines mises en garde à vue ont été rapportées.
      Secouriste appréhendé

      La dernière en date est celle de Benoît Ducos. Le 10 mars, le militant avait porté assistance à un groupe de migrants dont faisait partie une femme enceinte soumise à des contractions. En chemin vers l’hôpital de Briançon, l’homme est arrêté par un contrôle de douane qui retarde la prise en charge de la future mère. Selon les propos du Français relayés par Le Monde, il a été question d’expulser vers l’Italie le père et les deux enfants, avant que les forces de l’ordre ne se ravisent et ne les conduisent au chevet de la mère, qui les réclamait. Une enquête est en cours afin de définir le rôle précis du secouriste.

      Déjà, cet incident avait été « celui de trop ». A la frontière, sur le col de Montgenèvre, des manifestants dénonçaient une oppression inhumaine et répétaient les slogans « Protégeons les humains, pas les frontières » ou « France, pleure ! Ton humanité a foutu le camp ». Sur les réseaux, l’indignation n’est plus contenue.
      Un Etat aveugle

      Le décès de Beauty vient s’ajouter au tableau des tragédies. Sur le Net, certains internautes ont honte. « La France est morte ! » s’exclame l’un d’eux, regrettant le manque d’humanité des autorités de l’Hexagone. « La peur de l’« invasion » étrangère aveugle l’Etat et lui fait oublier les fondements de notre République », s’indigne un autre sur Twitter.

      Les mêmes commentaires apparaissent sur les réseaux italiens. Toutefois, le témoignage du mari de Beauty, diffusé sur le site de La Repubblica, apporte de l’eau au moulin des récalcitrants aux arrivées de migrants, des deux côtés de la frontière. Le veuf précise que lui seul avait été interdit de territoire français. Son épouse, autorisée, quant à elle, à entrer en France, aurait choisi de rester avec lui en Italie.

      Sur la page Facebook de Libération, un lecteur soudain relativise : « Elle a fait cela de son plein gré. Pas la peine de culpabiliser la France. » Son message a été effacé dans l’après-midi.

      https://www.letemps.ch/opinions/frontiere-nouveaunes-pesent-700-grammes

    • [Hautes-Alpes] Occupation de l’ancienne école du Prorel (Briançon) : venez nombreux !

      Cette nuit, une salle de l’ancienne école du Prorel a été réquisitionnée pour y accueillir des personnes exilées arrivant d’Italie. Ceci en réponse à l’expulsion de la gare du 10 avril, qui fut seulement une manière de rendre invisible la situation à Briançon en déplaçant le problème ailleurs. Il n’y a pas de réelles solutions proposées, tous les espaces d’accueil sont saturés. Actuellement, une soixantaine de personnes dorment au Refuge Solidaire, et à Clavière vingt à cinquante personnes arrivent quotidiennement.

      Rappelons que les exilé-es arrivent pour la plupart de Libye, où l’esclavage et la torture sont omniprésent, avant de traverser la Méditerranée dans des embarcations « de fortune » puis de rejoindre les campos d’Italie souvent gérés par la mafia. En France, Collomb et Macron leur promettent l’invisibilité dans les PRAHDA (Programme d’Accueil et d’Hébergement des Demandeurs d’Asile) et l’enfermement dans des CRA (Centres de Rétention Administrative).

      Il est temps de se questionner sur la « politique d’accueil digne et responsable » de l’Etat, considérant les personnes en exil comme une menace, ou au mieux des victimes. Jamais comme des êtres humains. Il est temps de refuser les logiques de tri et d’enfermement. En réaction à cette politique dissuasive par « l’horreur » quotidienne et silencieuse, la réappropriation d’espaces communs est nécessaire. Nous avons toutes et tous besoin de lieux vivants, ouverts, en interaction avec la population. Des lieux où les gens peuvent témoigner de leur réalité respective. Des lieux où nous pouvons commencer à imaginer du commun (ou du être ensemble) et faire l’expérience d’un partage concret.

      Lundi 16 Avril, sera examinée en première lecture à l’assemblée, la « monstrueuse » loi « Asile et Immigration » . Nous devons refuser la logique de criminalisation et de pénalisation qui accentue la déshumanisation. Des appels sur tout le territoire ont été lancé pour des mobilisations afin d’ exprimer et de rendre visible notre refus catégorique et notre détermination d’empêcher l’émergence d’une telle loi et des idées qu’elle véhicule.

      L’occupation d’un lieu fait partie de cette mobilisation.

      Solidarité inconditionnelle avec toutes les personnes matraquées par l’Etat !

      https://grenoble.indymedia.org/2018-04-12-Occupation-de-l-ancienne-ecole-du

    • Dans le rapport du HCR #desperate_journeys, mention est faite sur la frontière sud-alpine...
      https://data2.unhcr.org/en/documents/download/63039

      Déjà dans cette carte on voit apparaître des points jaunes le long de la frontière sud-alpine, il s’agit de personnes mortes aux frontières :


      #mourir_aux_frontières #morts #cartographie #visualisation
      Pour l’instant, pas de points jaunes vers Bardonnecchia et Briançon...

      Et puis, dans le rapport, il y a aussi quelques références à cela :

      Improved registration upon arrival and increased controls at land borders in northern Italy have contributed to the majority of sea arrivals registering their asylum applications in Italy and remaining in the country, however, some still tried to move on irregularly in 2017. At the border between France and Italy, there have been reports that many persons, including unaccompanied children, have been summarily returned from France. 10 At least 16 refugees and migrants died along the route between the Italian border town of Ventimiglia and Nice between September 2016 and the end of 2017 with most being hit by vehicles or trains or else electrocuted while trying to cross the border hiding on a train. As a result of the difficulties of crossing the border near Ventimiglia, some refugees and migrants have started to take an even more dangerous route through the Alps from near Bardonecchia.

      (pp.9-10)

    • Claviere - Il rifugio #Chez_Jesus per migranti in transito: «qua nessuna è straniero»

      Il rifugio autogestito Chez Jesus si trova a Claviere in Alta Val di Susa, a ridosso della frontiera franco-italiana del Monginevro: da sabato 24 marzo i locali sottostanti la piccola chiesa sono stati occupati dalla rete solidale che da mesi agisce per dare sostegno ai migranti che cercano di oltrepassare il confine.

      «Questo luogo - scrivono gli attivisti - ha visto passare centinaia di persone di decine di nazionalità diverse, tutte in cammino verso la Francia ed il resto d’Europa, ognuno ed ognuna con il proprio valido motivo per partire, ognuna ed ognuno con una giusta voglia di arrivare.
      Sono stati occupati i locali sottostanti la chiesa di Claviere perchè questi passaggi di montagna sono stati resi pericolosi dalla presenza arrogante della polizia di frontiera ed i passaggi di montagna pericolosi hanno bisogno almeno di un bivacco in cui riprendere fiato. Ma anche perché si è resa sempre più evidente la necessità di avere tempi e spazi per conoscersi, condividere le proprie esperienze ed organizzarsi.
      A Chez Jesus ogni giorno passano decine di persone con cui vengono fatte assemblee in tre lingue diverse, organizzate iniziative, condivisi pranzi, cene, chiacchiere e risate.
      Durante queste ore passate assieme abbiamo potuto conoscere al meglio la
      situazione dei centri di accoglienza, da cui la maggior parte delle persone di passaggio fugge. Abbiamo conosciuto le logiche di ricatto e di infantilizzazione che avvengono al loro interno ed è per questo che è nata l’esigenza di aprire uno spazio autogestito. Un luogo in cui, se pur per poche ore, non c’è bisogno di possedere dei documenti o di compilare dei dannati questionari. Un luogo in cui non si cataloga ed esclude nessuno e nessuna. Un luogo in cui ognuno ed ognuna è pienamente responsabile di se e della cura del luogo che lo circonda».

      Gli attivisti Chez Jesus ogni domenica condividono un pranzo nella piazza
      antistante la chiesa di Claviere. «Solidali, migranti e gente di passaggio; un pranzo all’aperto per rompere l’invisibilizzazione di tanta gente costretta ad attraversare di notte, a piedi e nella neve questa frontiera attraversabile senza problemi solo per i turisti e per le merci».

      Dalla pagina facebook del rifugio autogestito lanciano un appello: «questo posto vive con le energie di tutte e di tutti, dunque l’invito è a passare, fermarsi e contribuire. Servono cibo, scarponi, guanti, giacconi e soprattutto contributi pratici, idee e voglia di organizzarsi insieme».

      Per contattarli: rifugioautogestito@inventati.org


      http://www.meltingpot.org/Claviere-Il-rifugio-Chez-Jesus-per-migranti-in-transito-qua.html

    • Point de vue : La communauté alpine ne doit pas oublier les réfugiés !

      Pendant que la SUERA s’efforce de réunir les régions alpines, des migrantes et des migrants meurent aux frontières des pays alpins. Francesco Pastorelli, directeur de CIPRA Italie, s’interroge : qu’est devenue l’Europe hospitalière, solidaire et tolérante ?

      Une jeune nigériane est morte dans un hôpital de Turin après avoir mis son enfant au monde. Les policiers qui l’avaient arrêtée de nuit alors qu’elle traversait dans la neige le Col de l’Échelle entre l’Italie et la France avec d’autres migrants l’ont ramenée en Italie et laissée seule dans le froid à la gare de Bardonecchia/I.

      Un guide de montagne français encourt jusqu’à cinq ans de prison pour avoir aidé une migrante enceinte de huit mois au poste frontière de Montgenève. À Bardonecchia, des policiers ont pris d’assaut un centre d’accueil pour les réfugiés. Les incidents de ce type se multiplient aux frontières alpines.

      Pendant que les régions alpines travaillent à unifier les Alpes dans le cadre de la Stratégie de l’Union européenne pour la région alpine (SUERA), les États ferment leurs frontières. Où est resté l’esprit solidaire de l’Union européenne ? Pouvons-nous continuer à travailler sur l’environnement, le paysage, le trafic et le tourisme dans le cadre de la Convention alpine pendant que des personnes risquent leur vie dans le froid et la neige des cols alpins après avoir bravé les dangers de la traversée du désert et des mers ? Trouver des solutions aux problèmes de l’immigration n’est pas simple, et il ne s’agit pas ici de décider de la répartition des réfugiés, de leur accueil ou de leur expulsion. Mais nous ne devons pas accepter que des gens qui fuient la guerre et la famine se heurtent à des murs et à des fils barbelés dans les Alpes, dans cette Europe prospère, qu’on ne les aide pas dans leur dénuement et que ceux qui les aident soient menacés de procès et de peines de prison. En même temps, les petites communes des zones frontalières ne doivent pas être laissées seules face à ce problème.

      Des organisations humanitaires et des initiatives locales s’engagent heureusement pour les réfugiés, comme à Briançon en France ou à Bardonecchia en Italie. Les petites communes de montagne font elles aussi ce qu’elles peuvent pour aider, à l’exemple d’Ostana, qui accueille avec ses 80 habitants six réfugiés du Pakistan.

      Les organisations alpines comme la CIPRA ou le Réseau de communes « Alliance dans les Alpes » sont conscientes de l’importance d’une société bien intégrée, pluraliste et multiculturelle dans les Alpes et s’engagent dans ce sens. Nous ne devons toutefois pas nous limiter à mettre en route des projets de coopération sur les thèmes sociétaux. Il faut ouvrir les yeux des institutions internationales qui assistent avec passivité et indifférence à ces événements dramatiques aux frontières, et montrer que les manifestations d’ouverture et d’accueil sont souvent en réalité contrecarrées par la peur et le rejet de l’autre.

      L’histoire des populations alpines est marquée par les migrations. Des générations entières de montagnards ont quitté autrefois leur pays pour fuir la misère et chercher leur subsistance dans les plaines, les villes industrielles, dans d’autres pays ou sur d’autres continents. Beaucoup sont revenus après avoir fait fortune, riches en expériences, en compétences et en contacts, et ont ainsi contribué au développement de leurs pays. Nous pouvons apprendre de leur histoire pour relever les défis d’aujourd’hui.

      http://www.cipra.org/fr/nouveautes/la-communaute-alpine-ne-doit-pas-oublier-les-refugies

    • « Mesdames, Messieurs les députés : abolissez le #délit_de_solidarité ! »

      Accusé d’avoir porté secours à une nigériane enceinte – qui accouchera d’un petit Daniel cette nuit là – , #Benoît_Ducos fut convoqué par la police aux frontières le 13 mars dernier. À mi-chemin entre la beauté et le drame, récit d’une nuit invraisemblable.

      10 mars au soir, aux alentours de 21h20. Près de l’obélisque du village de #Montgenèvre, nous apercevons un groupe de réfugiés, pétrifiés de froid. Nous nous approchons d’eux pour engager la conversation. Le groupe est constitué d’une famille – avec deux enfants de un an et demi et cinq ans – accompagnée de deux autres exilés croisés en chemin. Lorsque nous les rencontrons, ils sont fatigués et apeurés. Ils ne savent ni à qui ils ont à faire, ni où ils sont. Rapidement, nous les rassurons sur nos intentions en leur expliquant qui nous sommes.

      Marcella, enceinte, se tord de douleurs

      Je constate qu’ils restent méfiants. De nos jours, le voyageur n’ose plus venir frapper à la porte de quiconque. Il se cache, se sent traqué. Se méfie de tout. De tous. La moindre personne rencontrée est une menace potentielle. La police rôde et n’est jamais loin.

      En discutant, nous apprenons que Marcella – la maman – est enceinte de 8 mois et demi et qu’elle a dû se faire porter jusqu’ici. Sous le choc, épuisée, elle ne peut plus mettre un pied devant l’autre. Nos thermos de thé chaud et nos couvertures ne suffisent pas à faire face à leur détresse.

      21h50. C’est l’alarme, Marcella ne va pas bien. Nous sommes face à une situation très délicate. Il faut agir vite. Je décide de prendre mon véhicule pour l’emmener à l’hôpital de Briançon. Chaque minute va être précieuse. Une fois dans la voiture, tout se déclenche. Quand nous arrivons au niveau de #la_Vachette – à 4 kilomètres de Briançon –, elle se tord dans tous les sens sur le siège avant. Elle souffre. Les contractions sont là, elle hurle de douleur. J’accélère. Courage #Marcella, nous sommes tout proches…

      22h10. À l’entrée de Briançon – au champ de Mars – je suis arrêté par un barrage de douane. J’enrage. Nous sommes à 500 mètres de l’hôpital, dans une situation d’urgence absolue. Ils sont une dizaine à orchestrer le contrôle de police et à dérouler la litanie des questions habituelles, parfaitement inappropriées et malvenues en la circonstance. « Qu’est-ce que vous faites là ? Qui sont les gens dans la voiture ? Présentez nous vos papiers ? Où est-ce que vous avez trouvé ces migrants ? Vous savez qu’ils sont en situation irrégulière ? Vous êtes en infraction ! ».

      Bloqués par le barrage de douane

      J’insiste pour qu’ils me laissent emmener Marcella à l’hôpital en leur expliquant qu’elle est en danger. Les douaniers m’opposent un refus catégorique. Inspirée, l’une d’entre eux me lance « mais comment savez-vous qu’elle est enceinte de 8 mois et demi ? » avant d’enchaîner « et puis, quelles compétences avez-vous pour vous permettre de juger du degré d’urgence de la situation ? », « Vous n’êtes pas une femme, vous ne savez pas ce que c’est ». J’ai beau lui rétorquer que je suis pisteur secouriste, que j’ai quelques notions de secourisme me permettant d’être à même d’évaluer une situation d’urgence, elle ne m’écoute pas. Rien à faire, la voiture ne repartira pas.

      Autour de la voiture, ça rigole franchement. Marcella continue de serrer les dents, son mari essayant de l’aider comme il peut. Pas un regard, pas un mot, pas le moindre petit geste d’attention de la part des douaniers. La maman continue de se tordre sur le siège passager, les enfants pleurent sur la banquette arrière. J’essaye de garder mon calme. Cette situation me révolte.

      Les douaniers finissent par appeler le procureur pour savoir ce qu’ils doivent faire. Longs moments de flottements. Finalement, ils prennent la décision d’appeler l’Officier de Police Judiciaire (OPJ) de permanence à la Police aux Frontières qui arrivera quelques minutes plus tard.

      23h15. Marcella se plie de douleur. Les pompiers arrivent et séparent la famille : la maman est emmenée à l’hopital tandis que les enfants et le papa restent avec moi. Ils se mettent à pleurer, car ils ne comprennent pas ce qu’il se passe.

      Le « premier bébé des maraudes » est né

      Nous sommes conduits dans la foulée au poste de police de Briançon, tels des criminels, escortés par la voiture de l’#OPJ à l’avant et un fourgon de la douane à l’arrière. Après la fouille de mon véhicule et de mes affaires personnelles, le contrôle de mon identité, et une série de questions diverses, on me remet une convocation en audition libre pour le mercredi 14 mars à 9h à la Police aux Frontières (PAF) de Montgenèvre. C’est à ce moment-là que les douaniers m’expliquent qu’ils étaient là pour arrêter des passeurs ! Vingt minutes plus tard, je quitte le poste de police. Il est près de minuit. Le lendemain matin, j’apprendrai par l’hôpital la tentative d’expulsion – vers l’Italie – du papa et des enfants pendant que Marcella était sur le point d’accoucher. L’hôpital a donc dû insister auprès de la PAF pour qu’ils reviennent dans les plus brefs délais. Celle-ci a fini par obtempérer, et dans la nuit la famille a été réunie.

      Le premier « bébé des maraudes » est donc né à Briançon le 11 mars 2018. C’est un petit garçon, né par césarienne. Il s’appelle Daniel, comme son papa.

      Le 11 mars au soir, le papa et les enfants sont placés par le 115 à Gap, à 100 kilomètres de Briançon, sans moyens de communication avec Marcella. De mon côté, il m’a été impossible d’obtenir leur adresse : au 115 on me dit que des instructions ont été données pour ne pas communiquer cette information – hautement sensible !

      Le 12 mars, une soixantaine de militants s’est rendue devant le 115 de Gap pour manifester. Au bout d’une heure et demie de bras de fer, ils ont fini par obtenir l’adresse du papa et des enfants. Des militants lui rendront visite pour être sûrs que tout va bien, puis le ramèneront à Briançon. La capacité des douaniers à évaluer une situation de détresse et celle de l’administration à faire preuve d’humanité me laissent encore perplexe.

      Comment peut-on, à ce point, perdre toute capacité de discernement ? À quel déni d’humanité peut conduire l’application bête et méchante des lois et des instructions ? Comment peut-on oser ne pas regarder avec compassion, ne pas daigner aider celui qui endure une souffrance de plus dans son difficile périple jusqu’à nous ?

      Convocation de la Police aux frontières

      14 mars. Devant les bâtiments de la PAF qui m’a convoqué ce jour-là, nous organisons une manifestation dans le but de dénoncer ce qui se passe sur cette frontière. À l’occasion, une personne a très justement rappelé, comment, pendant la dernière guerre, une résistante travaillant à la Préfecture de Paris fabriquait des faux papiers pour les juifs en danger dans l’intention de leur éviter la déportation, considérant que parfois, « désobéir, c’est se couvrir d’honneur »...

      J’ose espérer que ce témoignage aura fait réfléchir les forces de « l’ordre » présentes en nombre ce jour-là. Je ne souhaite pas que le geste accompli par devoir le 10 mars au soir soit célébré. Tous les jours des militants solidaires prennent des risques et osent se porter au devant des migrants. Dans l’ombre, ils accomplissent aussi des gestes remarquables qui ont tout autant de valeur à mes yeux. Les maraudes ne sont que la partie émergée d’un réseau de solidarité envers les exilés mobilisant un grand nombre de personnes.

      À ce jour, nous avons été une quarantaine d’individus convoqués à la PAF, inquiétés en raison du « transport de personnes en situation irrégulière » ainsi que pour avoir « facilité le maintien irrégulier sur le territoire français de personnes étrangères ». Aujourd’hui ce délit, qui avait été créé à l’origine pour lutter contre ceux qui font du business avec l’immigration clandestine, porte un nom, le délit de solidarité.

      Il sert à intimider et à décourager ceux qui ont choisi simplement de rendre service, de porter secours, mais cela ne marche pas : « On ne peut rien contre la volonté d’un homme ».

      Pour moi – comme pour beaucoup d’autres qui chaque jour prennent des risques – aller à la rencontre de ces exilés, leur donner à manger, à boire, les couvrir, leur donner des vêtements chauds, leur proposer un abri pour la nuit, leur parler, les écouter, quelle que soit leur nationalité, leur couleur de peau et leur situation, est un devoir, un geste d’humanité, un acte de fraternité. Moi qui suis un professionnel de la montagne, je fais le lien avec la formation que j’ai reçue et dans laquelle il est dit que l’initiative de secours aux personnes en danger en montagne est une obligation surpassant tous les autres textes de loi. N’importe quel montagnard aguerri vous le dira : en montagne on n’abandonne jamais quelqu’un en difficulté.

      Criminalisation de la solidarité

      Pour tous ces exilés, comme le dit Jean-Marie Gustave Le Clézio, la migration n’a rien d’une croisière en quête d’exotisme ou de sensations fortes. Ces gens sont des #fugitifs et ils ne se retrouvent pas ici – à franchir des cols au péril de leur vie – par hasard. Il faut savoir par où ils sont passés, quels sacrifices ils ont faits, les dangers auxquels ils ont fait face, les violences qu’ils ont subies pour marcher jusqu’à nous, jusqu’à ce pays qui fait briller leurs yeux et qu’ils veulent atteindre coûte que coûte.

      Quel soulagement d’ailleurs pour eux lorsqu’on leur dit « vous êtes arrivés » même si, au fond de nous, nous désespérons des obstacles qui les attendent encore ici.

      Je ne peux pas croire que ces gens vêtus de leurs habits de pays chauds franchissant nos montagnes en hiver, après avoir traversé déserts et mer, au risque de perdre leur vie, aient eu le « choix ». Je crois que leur exil est un déchirement, puisqu’ils ont dû abandonner tout ce qui leur est cher, leur famille, leur amis, tout ce qu’ils possédaient…

      L’objectif des #maraudes est d’aider ces personnes en détresse, harassées par des années de voyage, apeurées, fuyant les dangers auxquels elles sont exposées dans leur pays et dont les droits élémentaires sont bafoués. Elles méritent bien notre admiration et notre respect, elles méritent qu’on les regarde, qu’on les considère. Pour toutes ces raisons, je souhaite qu’on en finisse avec cette criminalisation des actes de solidarité et d’humanité. Si comme d’autres, je suis amené à me plonger dans la nuit pour distribuer à manger, donner des vêtements, mettre à l’abri des personnes qui veulent demander la protection de la France, c’est aussi parce que l’État faillit à des devoirs.

      La Déclaration Universelle des Droits de l’Homme nous dit pourtant que tout homme a le droit de quitter librement son pays et de choisir avec la même liberté le pays dans lequel il souhaite vivre. Nous ne sommes que des « veilleurs, des passeurs, des colporteurs d’humanité ». Tous nous aurons besoin un jour ou l’autre que quelqu’un nous tende la main et nous nous rappellerons combien ce moment aura été fondateur pour nous. Les rencontres qui ont lieu dans nos montagnes contribuent aussi à nous forger, à faire de nous ce que nous sommes. Les sourires de ces exilés dans le froid de la nuit sont inestimables.

      Les accueillir parce qu’ils « frappent à notre porte » est quelque chose de finalement on ne peut plus simple, modeste et humain, quelque chose que nous ne pouvons pas ne pas faire. Je pense que cela devrait être un devoir plus qu’un choix. Il est grand temps qu’une #immunité_humanitaire soit enfin accordée aux associations et citoyens dont les actions sont guidées par la seule volonté d’aider, de porter assistance et d’offrir un accueil digne et respectueux aux exilés, de défendre et protéger leurs droits auxquels porte atteinte chaque jour l’État français. Pour mettre la République en conformité avec les valeurs qu’elle proclame, Mesdames, Messieurs les députés : abolissez le délit de solidarité !


      https://www.nouveau-magazine-litteraire.com/idees/benoit-ducos-abolissez-le-delit-de-solidarite

      Je mets en exergue ici la question de la #montagne et des #montagnards :

      Pour moi – comme pour beaucoup d’autres qui chaque jour prennent des risques – aller à la rencontre de ces exilés, leur donner à manger, à boire, les couvrir, leur donner des vêtements chauds, leur proposer un abri pour la nuit, leur parler, les écouter, quelle que soit leur nationalité, leur couleur de peau et leur situation, est un devoir, un geste d’humanité, un acte de fraternité. Moi qui suis un professionnel de la montagne, je fais le lien avec la formation que j’ai reçue et dans laquelle il est dit que l’initiative de secours aux personnes en danger en montagne est une obligation surpassant tous les autres textes de loi. N’importe quel montagnard aguerri vous le dira : en montagne on n’abandonne jamais quelqu’un en difficulté.

      Et pour @sinehebdo, peut-être un nouveau #mot, #fugitifs :

      Pour tous ces exilés, comme le dit Jean-Marie Gustave Le Clézio, la migration n’a rien d’une croisière en quête d’exotisme ou de sensations fortes. Ces gens sont des #fugitifs et ils ne se retrouvent pas ici – à franchir des cols au péril de leur vie – par hasard. Il faut savoir par où ils sont passés, quels sacrifices ils ont faits, les dangers auxquels ils ont fait face, les violences qu’ils ont subies pour marcher jusqu’à nous, jusqu’à ce pays qui fait briller leurs yeux et qu’ils veulent atteindre coûte que coûte.

    • Chroniques de frontières alpines – 1 / Réprimer les solidarités : La stratégie de la peur

      Depuis 2015, dans le cadre de la « lutte anti-terroriste » menée par l’Etat français, on a assisté à une intensification de la répression policière et juridique vis-à-vis des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es, notamment aux zones frontalières. L’inculpation, entre juillet 2015 et janvier 2017, de 9 citoyen·nes des Alpes Maritimes, a vu ressusciter les débats autour du poussiéreux « délit de solidarité », institué en 1938 (dans un climat dont chacun·e devine qu’il était particulièrement xénophobe…)

      Le dossier en ligne du Gisti sur le délit de solidarité montre comment les évolutions progressives du droit sont devenues de plus en plus floues de sorte qu’il n’ait plus vocation à réprimer les trafics et réseaux mafieux à la frontière, mais à englober dans le champ des répressions les pratiques d’aide gratuite et solidaires vis-à-vis des étrangers. Cette évolution est le fruit d’une représentation de continuité entre l’immigration clandestine et le terrorisme : ainsi, dès 1996, l’aide au séjour irrégulier est intégrée parmi les infractions à visée potentiellement terroriste. Depuis les années 2000, on assiste à une extension des immunités (notamment pour « motifs humanitaires ») mais aussi, simultanément, à une aggravation des sanctions et de la répression des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es sans-papiers.

      Tout un arsenal législatif a ainsi vocation à limiter les activités bénévoles de citoyen·nes solidaires : l’ « aide à l’entrée et au séjour irréguliers », punis de 5 ans d’emprisonnement et de 30 000 euros d’amende, mais aussi les « délits d’outrage, d’injure et de diffamation ou de violences à agent publics », utilisés selon le Gisti pour » défendre l’administration et la police contre les critiques dont leurs pratiques font l’objet ». A ces motifs s’ajoutent des pratiques plus sournoises de dissuasion, qui procèdent de la même volonté politique : « Il s’agit de priver l’étranger en situation irrégulière en France de toute forme de soutien : amical, politique ou juridique mais aussi, au-delà, de signifier à la population en général et aux militant·es en particulier qu’on ne peut s’opposer impunément à la politique gouvernementale quelles que soient la détresse humaine et les horreurs qui lui sont inhérentes. »

      Outre le choquant paradoxe de l’expression « délit de solidarité », la défense juridique lors des procès des citoyen·nes de la Roya remet en cause les pratiques de l’Etat : que fait-il du droit international qui consacre le droit pour chacun « de participer à des activités pacifiques pour lutter contre les violations des droits de l’homme et des libertés fondamentales » ? Que fait-il de l’injonction d’assistance à personne en danger, surtout en contexte de montagne ?

      Le positionnement politique des citoyen·nes inculpé·es, qui assument leur solidarité avec les sans-papiers, va encore plus loin : si les personnes mettent leur vie en péril en passant par des chemins dangereux, c’est parce qu’elles se cachent de la police, et ont peur d’être arrêtées. En tant que personnes vulnérables en montagne, c’est à la gendarmerie de haute montagne de leur porter secours ; en tant que demandeuses d’asile (pour la quasi-totalité d’entre elles), ou mineures (pour la moitié d’entre elles) ces personnes devraient être prises en charge par la police, puis par la préfecture, dans une logique de protection prévue par le droit français. Ce sont les pratiques illégales par la police de refoulement aux frontières qui (re)mettent en danger les personnes migrantes (souvent abandonnées en montagne dans un froid extrême après leur arrestation).

      Le délinquant, le criminel, c’est l’Etat, objectent donc les collectifs de soutien, qui ne respecte ni les traités internationaux, ni les lois, ni aucune des valeurs d’asile de fraternité de la République. Dans les Alpes-Maritimes, l’heure est donc à la mobilisation collective, juridique et politique aux côtés de ces « délinquant·es solidaires » pour les soutenir dans leur procès et montrer que la société civile n’adhère pas au discours qui fait d’elles et eux des criminel·les.

      Qu’en est-il dans les Hautes-Alpes ? La route qui s’est ouverte progressivement au cours de l’année 2017 en fait, depuis plus de six mois, un des principaux passages vers la France. Dans le Briançonnais, les mêmes événements se sont enchaînés, rapidement, qu’à Menton et dans la Roya : augmentation brutale du nombre de personnes traversant la région pour entrer en France, organisation citoyenne pour faire face à une situation humanitaire d’urgence, militarisation de la frontière grâce à des équipements et des renforts policiers, répression des personnes clandestines… Et prise en étau des bénévoles solidaires au coeur de ce dispositif de répression, lequel vise avant tout les personnes étrangères, mais également tous les gens qui leur viennent en aide.

      L’association Tous Migrants estime que depuis le printemps 2017, entre 40 et 50 personnes ont été arrêtées et convoquées à la PAF, principalement pour délit d’ »Aide à la circulation, à l’entrée ou au séjour de personnes en situation irrégulière ». On peut estimer que plus du double ont été interpelé-es par des agents de police ou de gendarmerie dans l’exercice d’un acte de solidarité. On compte également au moins 5 gardes-à-vue. Benoît Ducos, un de nos camarades dont le nom a été relayé par les médias pour être venu en aide à une femme nigérianne enceinte, est à la fois menacé d’un procès, et sollicité par de grandes ONG italiennes pour recevoir des prix pour son « héroïsme »… Cela résume aussi bien le contexte absurde et paradoxal (et ironique) dans lequel nous oeuvrons.

      Jusqu’à maintenant, dans les Hautes-Alpes, les convocations sont restées sans suite ; mais comme les événements de la Roya sont un sombre présage pour leur futur proche, les nombreux·ses citoyen·nes solidaires du Briançonnais sont plongé·es dans l’anxiété. La répression, à défaut d’être judicaire, est policière ; et elle prend parfois des formes plus détournées encore : pressions morales, psychologiques, financières… A Briançon et dans la vallée de la Clarée, tout se joue encore sur le terrain, dans l’informel, dans les interactions directes avec les officiers de police et gendarmerie, ou les agents de l’Etat. Leur caractère aléatoire, mouvant, complexe, entraîne une invisibilisation de cette répression par l’Etat des activités solidaires.

      Les témoignages recueillis ci-dessous évoquent différentes manières grâce auxquelles l’Etat développe sa stratégie d’intimidation des personnes solidaires dans le Briançonnais. Un recueil de ces témoignages et une mise en commun des expériences individuelles sont indispensables pour dénoncer ces phénomènes qui ne sont pas isolés, mais s’inscrivent au contraire dans une politique calculée de l’Etat français à travers une stratégie de la peur.

      La méthode atmosphérique : création d’un climat de tension

      Le nombre relatif d’arrestations n’évacue pas le contact au quotidien, pour les habitant·es du Briançonnais et particulièrement celles et ceux de la vallée de la Clarée, avec une présence policière lourde et un contrôle incessant, particulièrement féroce durant la période de la fin de l’été à début décembre 2017. A la gendarmerie locale, la douane, la Police de l’Air et des Frontières, le PSIG, la Police et Gendarmerie de Haute-Montagne initialement présents, se sont ajoutés les renforts venus de la région entière, dont des groupe d’interventions spécialisés comme la Brigade Anti-Criminelle, les CRS, des renforts de la vallée de la Roya, et même les sentinelles de l’armée.

      Les habitant·es et touristes témoignent des barrages quotidiens sur la route qui imposaient parfois quatre contrôles par jour aux personnes désirant descendre dans la vallée. Barrages, brigades mobiles, postes de surveillance, les renforts policiers de toute la région ne se sont pas contentés de sillonner les cols ou les routes durant cette période, mais aussi d’installer leur présence au coeur des bourgs de Névache, Val-des-Prés, de Briançon, de sorte à ce qu’aucun jour, et aucune nuit, ne se passe sans avoir le sentiment d’être surveillé·e par la police. Deux habitants de Névache décrivent la présence dans le centre du village de voitures de police avec leurs phares à 4h du matin, au pied de tous les d’immeubles. « On se fait du cinéma », conclut l’un d’entre eux, conséquence logique du fait que le petit village semble s’être transformé durant cette période en décor de cinéma.

      Au même moment, les hélicoptères sillonnent régulièrement le ciel. « Le pire c’est l’hélico, c’est vraiment un sentiment d’oppression. Quand ils font des rondes, on sait que ce n’est pas pour le sauvetage, mais pour la surveillance », dénonce une habitante de Névache.

      Plus bas à Briançon, un Refuge a ouvert cet été pour permettre aux personnes migrantes de s’abriter après leur difficile traversée de la montagne. Bien que les sans papiers puissent être arrêté·es partout dans la ville, le Refuge a bénéficié d’une sorte d’immunité humanitaire. Malgré tout, pendant l’été et l’automne 2017, les rondes régulières des véhicules de gendarmerie devant le Refuge semblent menacer sa sécurité : « Ils roulent à une vitesse d’escargot, 20km/h, on se sent observés : t’es toujours suspect… J’ai pensé à d’autres pays où les gens sont sous surveillance et je me suis dit « on connaît ça ici ». On devient nous mêmes suspects« , confie une bénévole. Ces rondes s’ajoutent aux gendarmes en civil postés sur le parking devant le Refuge, et à la présence certifiée des renseignements généraux sur la même place. Cela renforce la croyance chez les bénévoles qu’ils et elles sont tou·te·s repéré·es, fiché·es, leurs voitures enregistrées.

      Alors que je recueille le témoignage de l’une de ces bénévoles, assises au soleil sur cette place, elle coupe son récit pour dire : « Et tu peux m’expliquer pourquoi il y a une voiture de police qui est plantée à côté de nous depuis 8 minutes ? ». Au moment où je tourne la tête, la voiture de gendarmes démarre. Cette pression est discrète, mais elle développe chez tous les volontaires des réflexes anxieux, d’auto-surveillance de leurs faits et gestes. Cela fait dire à une vieille dame bénévole « Ah, c’est encore la Gestapo ».

      Cette stratégie est développée aussi lors d’événements collectifs plus militants : « A chaque fois qu’on a fait des manifs à la PAF, ils nous ont photographiés, ainsi que les bagnoles… »

      Côté italien, les montées à la frontière de la police et des gendarmes ne concernent pas les migrant-es mais bien les militant·es. Dès le premier jour de l’occupation, une montée massive de la police (polizia, carabinieri, police politiques, voitures civiles) vers le lieu a ancré cette action dans un contexte de confrontation. Des voitures postées en observation devant le lieu que nous occupons, des tentatives régulières par des hommes en civil ou en uniforme discret (la police politique) d’entrer dans le lieu, suffisent à poser le climat. Interpellations sans justification, juste parce qu’on a un véhicule français, prise d’identité. Pour les personnes qui arrivent depuis la vallée par le bus, que nous accueillons dans le lieu en tentant de les mettre en sécurité, cette surveillance menaçante fait s’écrouler tout ce que nous avons mis en place en termes d’accueil. Alors que la police a tenté de rentrer dans le lieu, et que nous n’avons pas eu le temps de barricader, j’ai dû crier à des sans-papiers que nous accueillions depuis la veille de se cacher vite, pour ne pas qu’ils les trouvent : comment prétendre essayer de créer un climat de sécurité, dans ces conditions ?

      Les touristes qui ont fréquenté la région à la fin de l’été manifestent de manière unanime un choc vis-à-vis de cette présence policière démentielle et apparemment injustifiée. « Pendant l’automne, la vallée ressemblait plus à une scène de guerre qu’à une région touristique », s’accordent de nombreux·ses habitant·es. « On a senti un moment d’occupation. Quand ils sont partis, on a enfin pu respirer. »
      La tactique du « cow-boy » : courses-poursuites et mise en scène d’arrestations

      La stratégie favorite dans le Briançonnais est ainsi celle de l’intimidation. Celle-ci possède une dimension spectaculaire, au sens propre du terme : comme si la vallée était un théâtre, où après avoir planté un décor de guerre, des acteurs jouent aux opérations militaires de grande envergure.

      Les course-poursuites ont vocation à produire cet effet impressionnant. Une femme du Refuge raconte qu’en septembre, alors que la police surveillait constamment la gare de Briançon, empêchant le départ des migrant-es vers le reste de la France, des bénévoles avaient organisé un petit convoi pour descendre une dizaine de personnes vers la gare suivante, à l’Argentière, afin qu’elles puissent prendre leur train vers Paris. « On attendait dans l’herbe à côté de la gare, tranquillement, quand la police est arrivée : il a fallu se précipiter, en rampant, dans les voitures. On s’est précipités vers la gare suivante, Saint-Crepin, à toute vitesse. Là on attend, on surveille la gare. Pendant ce temps les jeunes sont dans la voiture et attendent que le train arrive. Quand il arrive on leur dit de courir. Ils montent dans le train, et direct après, horreur, on voit arriver la police ! Ils ont tous été arrêtés à Gap. »

      Une autre femme, habitante de la Clarée, raconte : « J’allais au boulot à quatre heure du matin, et il y a un gars qui m’appelle, qui venait de descendre l’Echelle et d’arriver dans la vallée. Je l’ai pris en voiture pour l’aider à descendre et il y en avait plein d’autres qui marchaient sur le bord de la route, ils couraient au milieu des voitures, dévalaient la pente. Alors je les ai emmenés aussi.

      Les gendarmes à Val-des-Prés en avaient déjà arrêté une vingtaine. Moi je les ai vus, et j’ai eu peur : j’ai accéléré. Ils m’ont poursuivie. Au village suivant, je me suis arrêtée « Sortez, courez ! », je leur ai dit. Les gendarmes nous ont tous poursuivis, un seul gars a réussi à s’évader, se cacher dans un jardin. J’étais prise au piège dans mon propre village. J’ai eu une sacrée frayeur ! »

      Comme beaucoup d’autres, cette femme n’a pas été re-convoquée par la suite, malgré son arrestation : les interventions musclées sur le terrain, confirment les bénévoles, ne comportent pas pour l’instant de suites judiciaires, elles se suffisent à elles-mêmes pour impressionner les citoyen-nes solidaires.

      La dimension dissuasive de ces course-poursuites est plus évidente encore quand elles concernent des gens qui ne transportent pas de migrant·es, mais qui se contentent de leur parler. Moi-même, alors que je me contentais d’observer, j’ai été prise en chasse par une voiture de police… qui n’avait rien d’autre à me reprocher que de rouler les phares éteints.

      L’intimidation se joue aussi dans la mise en scène de l’arrestation. Le ton de la voix, la manière d’interpeler, font partie du jeu de scène. On me raconte, à chaque contrôle du véhicule, les phares de voiture et lampes en pleine figure pour éblouir, les arrestations à grands cris, contrôles d’identité, fouille du véhicule – même quand il n’y a rien à signaler.

      Un militant raconte son arrestation récente : les armes braquées sur lui, une ouverture à coups de pieds de la portière de la voiture, les personnes agrippées brutalement, menottées avant d’être conduites à la gendarmerie. Un autre homme arrêté au col de l’Echelle alors qu’il transportait une femme enceinte et sa famille a fait l’objet d’une arrestation brutale : ses voisins racontent que les gendarmes lui ont esquinté les bras, et qu’il a eu très mal par la suite.

      Enfin, pour certaines personnes arrêtées, la violence verbale grossière est utilisée pour forcer la peur. Une militante me raconte : « J’ai une copine qui a été arrêtée à la PAF alors qu’elle emmenait des mineurs se signaler, à la demande de la gendarmerie. Elle a été cuisinée, a raconté qu’elle avait aidé les gens à prendre leurs billets de train. La personne qui l’interrogeait lui a tenu des propos odieux, sexistes, racistes, machistes, et des gestes obscènes. Pendant un mois, elle a arrêté ses activités bénévoles. Elle ne veut pas témoigner, elle est très intimidée. »

      Enfin, le cas le plus grave recensé à la frontière a été une violence physique contre un manifestant, en mai 2017, renversé par un véhicule de police alors qu’il était venu soutenir avec une trentaine d’autres citoyen·nes solidaires des réfugié·es et une travailleuse sociales qui avaient été arrêté·es par la PAF. Voici le témoignage relayé par la presse de la victime de cette violence : « Une voiture de police part sur les chapeaux de roues (…) à son bord 2 ou 3 réfugiés, direction le poste de police en Italie. (…). Spontanément, une dizaine d’entre nous décident de se mettre au milieu de la route et de mettre nos simples corps comme barrière naturelle à l’expulsion. Le chauffard essaye de forcer le passage en faisant vrombir le moteur, et en avançant pare-choc contre tibias. L’une d’entre nous tombe devant la voiture. Le reste des flics présents mettent des coups pour nous dégager de la chaussée. La voiture de police (…) active une grande marche arrière( à contre-sens) puis repasse en marche avant et se met soudainement à accélérer. Elle fonce, 50 peut-être 60 kilomètres heure, Pas de gyrophare. Pas de sirène.

      Je suis au milieu de la chaussée, je regarde la voiture de police arriver, elle ne décélère pas. (…) La bagnole continue sa course et me percute. (…) Je me retrouve ensuite sur le bitume et la roue arrière du véhicule me passe sur la jambe, au-dessus de la cheville. La voiture continue sa course comme si de rien n’était. Une fois au sol je m’ aperçois que plein de gens hurlent. J’hurle aussi. Sur ma droite un mec en costard, un cadre la PAF, ou de la préfecture me regarde comme un déchet. Il fait demi -tour et retourne sur ses pas pour aller se planquer dans le bâtiment du ministère de l’intérieur. Il est témoin direct de l’action. (…)

      Un policier de la PAF […] me lance « fallait pas te jeter sur la voiture »…on suppose que ce sera la version officielle. Les gendarmes ne prennent aucun témoignage des faits qui viennent de se passer. Certains policiers esquisse[nt] des sourires. Je suis pris en charge par les pompiers avec une atèle au pied droit. Les gendarmes n’ont toujours pris aucun renseignement auprès des témoins présents. J’arrive à l’hôpital. » Cet événement qui aurait pu entraîner la mort du manifestant, dénoncé avec force par les associations locales et par la presse, a été vécu comme une violence extrême à l’encontre des citoyen·nes solidaires, marquant une ère de confrontation définitive entre la police et les gens locaux.
      La méthode Stasi : menaces individuelles

      La stratégie de la peur ne se limite pas aux arrestations ponctuelles : elle fonctionne aussi de manière préventive, sous la forme de la menace. En Italie, la dernière fois que la police politique a pris mon identité, ils nous ont assuré qu’ils connaissaient les visages de chacun-e d’entre nous, savaient parfaitement qui entrait et qui quittait le lieu, à toutes les heures, et que prochainement une arrestation massive tomberait sur tou-te-s les occupant-es.

      L’été dernier, un habitant de la Clarée connu pour avoir accueilli beaucoup de jeunes migrants a bénéficié d’une visite à son domicile de la gendarmerie doublée d’une perquisition : « Ils sont venus, ils ont évacué les gars, ils ont retourné les matelas… » Au printemps, deux gendarmes s’étaient déjà baladés chez tous les commerçants avec deux photos dont la sienne, en demandant : « Est-ce que vous connaissez cet homme ? ».

      Une autre militante, que nous appellerons ici Séraphine Loulipo, relate un épisode de cet été avec des amis. Après avoir accompagné au Refuge un jeune homme, ils se rendent compte qu’ils sont observés sur le parking du refuge par un homme en civil, assis sur le muret, qui leur lance : « De toutes façons j’ai toutes les images, j’ai tout filmé…. Votre voiture est fichée, nous on ne va pas vous lâcher, ça ne va pas se passer comme ça. »

      Trois jours plus tard, Mme Loulipo se heurte à un barrage de police sur la route de la Clarée. « Ah, Séraphine Loulipo », dit immédiatement le gendarme qui la contrôle, à la seule vue de son véhicule. « Ca va bien, le trafic des migrants ? ». Puis d’ajouter : « Mettez vous sur le côté, on va bien lui trouver quelque chose à cette voiture. » Alors qu’elle cherche le gilet jaune obligatoire dans tous les véhicules, il prépare d’avance sa contravention et se gausse : « Je l’apporterai directement chez vous ». Alors qu’elle retrouve le gilet, le gendarme se met alors en colère, et la menace : « Ca ne va pas se passer comme ça, vous allez finir en garde-à-vue. » Mme Loulipo est ainsi rentrée chez elle persuadée que la police connaissait ainsi, en plus de son nom et de son véhicule, l’adresse où elle vit avec ses enfants.

      Le mois dernier, un autre bénévole a bénéficié d’une de ces séances d’intimidations. « Ils sont venus me voir à mon boulot, sur mes horaires de travail. Ils étaient 3, en uniforme. Ils m’ont engueulé. « On t’a vu ! (…) Tu vas te faire choper, on peut te faire fermer ton commerce, on va saisir ton véhicule. » Puis on a discuté, j’ai réagi calmement, le gendarme s’est calmé. A la fin, il m’a même dit : « C’est bien, fais selon tes convictions. Mais si je te chope, je t’aurai. » L’homme qui me confie cette histoire ajoute en conclusion : « Mais moi je sais que je ne crains rien. Quand on fait peur aux gens, c’est qu’on ne va pas vraiment les arrêter. »
      L’effet des arrestations sur l’activité des bénévoles . Une stratégie efficace ?

      Ainsi les méthodes de contrôle policier des activités solidaires dans le Briançonnais fonctionnent-elles plus sur l’intimidation et la menace que la punition. Elles ont un caractère anticipatoire : faire en sorte que les personnes renoncent, d’elles-mêmes, à aider les sans-papiers qui arrivent par la montagne.

      Les moyens mobilisés au profit de cette stratégie ont nécessairement eu un impact. La simple présence policière a un effet dissuasif, comme me le raconte une bénévole dont la propriétaire est une dame âgée, qui aimerait bien accueillir des migrant·es qu’elle voit quotidiennement sous sa fenêtre, mais qui est terrorisée par la police ! « Ne dites pas que je vous l’ai dit », a-t-elle confié à sa locataire.

      Il y a de nombreux cas de bénévoles qui, suite à leur arrestation, ne reviennent pas au Refuge pendant plusieurs semaines ou plusieurs mois, ou qui limitent leurs activités à des choses pour lesquelles elles ne peuvent pas être arrêtées (ne plus aller à la gare, ne plus faire de transport ou de covoiturage…). La bénévole du Refuge qui a été poursuivie à la gare de l’Argentière, m’a raconté que : « Moi depuis, je ne fais plus rien [en transport]. J’ai eu tellement peur, le coeur qui battait. J’étais pas bien. J’ai ma fille, je peux faire une garde à vue, à la limite, quand elle n’est pas là, mais pas quand elle est là… (…) J’étais dans un film. C’est pas ma vie, ça, c’est pas ma vie. »

      Mais pour l’écrasante majorité des citoyen-nes solidaires, la conviction profonde de la légitimité de leur engagement est un moteur plus puissant que la peur d’être arrêté·e, même d’être poursuivi·e.

      Malgré tout, beaucoup ont, depuis un an, perdu totalement confiance et développé une peur vis-à-vis de la police et des institutions étatiques : cela peut se traduire par une nervosité dès que la police est dans les parages (c’est-à-dire constamment), une boule dans le ventre en permanence, une angoisse pour ses enfants et sa famille… Certain·es témoignent d’une paranoïa quotidienne avec l’impression d’être observé·es en permanence, surtout via leur téléphone. Cette question de la surveillance hante les conversations quotidiennes, renforcé par la rapidité de circulation des rumeurs : j’ai vu une voiture de police ici, là ils contrôlaient, ils sont restés plantés longtemps, ça m’a paru étrange…

      J’ai moi-même ressenti cette évolution au fil de mon temps à Briançon : les premières maraudes en montagne, alors que je ne connaissais personne qui avait été arrêté-e, me paraissaient la chose la plus naturelle du monde, un geste évident de mise à l’abri. Ce n’est qu’à force de voir se multiplier les arrestations autour de nous, de recueillir ces témoignages individuels de pression policière, que l’angoisse un peu sourde du contexte Briançonnais m’a gagnée. Un mois et demi plus tard, quand je suis seule en voiture, les sentiments qui m’envahissent sont de l’ordre du qui-vive, de la mise en garde, car je suis à moitié persuadée que ma voiture est repérée aussi. Je ne discute plus au téléphone sans douter que quelqu’un m’écoute, je ne parle plus aussi librement quand il y a un téléphone, même éteint, dans la pièce…

      « La peur d’être arrêtée ça déclenche beaucoup de tensions chez moi. J’avais tellement peur en roulant », se souvient une dame solidaire. Mais quand je lui demande si elle a déjà considéré arrêter d’aider les jeunes migrants à cause de sa peur, elle écarquille les yeux : « Non, bien sûr que non !« . On continue, donc, et on s’habitue à la peur.

      En effet, certaines personnes solidaires ont développé une sorte de nonchalance lasse, déjà habituée, vis-à-vis des arrestations : quand je demande à une amie arrêtée la semaine dernière si « Ca va ? », elle hausse les épaules : « Tu sais, moi je m’en fiche, on est habitué·es ». Je garde en tête une scène qui a eu lieu sous mes yeux au Refuge, tout à fait caractéristique de cet état d’esprit de relativisation par l’habitude : un couple âgé vient proposer de donner un coup de main de temps en temps et offre de descendre des personnes jusqu’à Gap si jamais elles en ont besoin.

      Une bénévole, immédiatement : « Vous savez ce que vous risquez, hein ?

      (haussent les épauples) Oui, bah…
      Parce que moi, j’ai été poursuivie par les flics ! Je vous assure que ça ne s’oublie pas…
      Oui, mais on peut prendre le risque. (souriant) On n’a pas d’enfants, on a 75 ans, on ne risque pas grand-chose…
      Et Martine, de la Roya ? Elle aussi, elle a 75 ans !
      Bah, vous savez, au pire, la prison, c’est un truc que je n’ai encore jamais fait dans ma vie !

      J’en profiterai pour lire des livres… »

      Comme dans d’autres zones de violence policière généralisée, une sorte d’habitude cynique s’est développée chez beaucoup de bénévoles. Lors de la journée d’étude du 15/12/2017 organisée par le groupe BABELS sur la police et les migrants, Lou Einhorn, psychologue pour Médecin du Monde à Calais, soulignait justement le danger de cette intériorisation par les bénévoles de la banalité de la violence : ils et elles peuvent avoir tendance à relativiser la violence due à la police également auprès des personnes migrantes qu’ils et elles accueillent. Or, cette violence, ou cette tension, peuvent raviver des traumatismes et certaines personnes peuvent les ressentir comme insoutenables ; si les bénévoles, habitué·es à ce que la violence ou la surveillance fasse désormais partie du quotidien, ont mis en place des mécanismes de protection en banalisant et relativisant cette violence, ils et elles peuvent ne pas être à l’écoute des personnes qui en sont affectées.

      Par ailleurs, la menace d’être arrêté·e agit comme une contrainte lourde sur l’activité solidaire : elle exige beaucoup plus d’organisation. Elle renforce la nécessité de toujours envoyer une voiture éclaireuse, qu’elle vienne du haut ou du bas de la vallée, pour vérifier que la voie est libre ; potentiellement d’y être à deux personnes pour pouvoir prévenir les autres par téléphone tout en conduisant. Elle implique de calculer les marges de temps avant chaque départ, d’observer les roulements des gardes policières pour passer au bon moment, d’impliquer potentiellement d’autres habitant·es solidaires sur le trajet pour ouvrir leur maison comme lieu de repli au cas où.

      Tout cela a deux effets majeurs : d’abord, la mobilisation nécessaire de toujours plus de bénévoles pour prendre des précautions afin d’assurer la sécurité des personnes migrantes et des bénévoles eux-mêmes. Or, quand les réseaux de solidarité sont petits, cela oblige les mêmes personnes à se mobiliser deux fois plus : en journée, alors que certains travaillent, en soirée, très souvent au milieu de la nuit, voire toute la nuit… Plus il y a besoin de monde, plus les mêmes personnes enchaînent les nuits passées en montagne, au lieu de se reposer. La fatigue physique s’ajoute donc à la tension psychologique des bénévoles, épuisant les troupes jusqu’à mettre en péril leur organisation. A long terme, la surveillance agit ainsi comme une stratégie indirecte d’auto-épuisement des bénévoles et de leurs activités.

      Le deuxième effet qui découle d’une organisation minutieuse des trajets d’aide aux personnes migrantes est la sensation pour certain-es d’organiser un trafic, bien que celui-ci soit bénévole et à vocation solidaire. Or, il est intéressant de constater que les discours de la préfète des Hautes-Alpes1 condamnent précisément tout ce qui est de l’ordre du « réseau organisé », alors qu’elle dit tolérer qu’on vienne en aide, individuellement, à la personne vulnérable qui passe sous sa fenêtre. Dans les faits, c’est précisément le contrôle policier incessant et la remise en danger, en montagne, des personnes arrêtées, qui oblige les bénévoles à mettre en place un réseau organisé de transport : la préfecture provoque ainsi elle-même l’activité dont elle accuse les habitant·es solidaires.

      Ce glissement d’une activité qui se veut simplement solidaire vers une activité dite « illégale » est vécu par les habitant·es comme quelque chose qui leur est imposé par le contrôle policier : « Nous on veut travailler avec les secours en montagne et on se présente comme secours en montagne. Sauf qu’avec les pratiques politiques, dès qu’ils sont dans la rue, ils ne sont plus en sécurité. Du coup on organise des convois : notre démarche, c’est qu’on ne veut pas en perdre un seul, et on ne veut pas que les Français aient des ennuis », dit l’un d’eux. Cela implique donc une grande organisation qui, sur le terrain, s’apparente à un « jeu de cache-cache » extrêmement anxiogène pour les personnes exilées. Leur arrivée en France se fait ainsi dans un contexte de peur qui peut raviver des traumatismes récents.
      Bavures policières ? Le plan de Macron

      Vis-à-vis de ces pratiques quotidiennes d’intimidation, il serait facile pour le gouvernement d’argumenter qu’il s’agit de glissements locaux liés à un terrain particulier, à une « zone de tension » ou « zone de crise », bref, des situations ponctuelles et exceptionnelles qui n’ont rien d’emblématique. Or, à chaque fois que les habitant·es solidaires ont eu l’occasion de discuter avec des agents de police sur le terrain, et notamment en ce qui concerne leurs pratiques illégales de refoulement de demandeur·euses d’asile et de mineurs, ceux-ci ont eu pour simple discours que tous les ordres venaient « d’en haut ».

      Par ailleurs, d’autres moyens de pression plus discrets mais encore plus efficaces prouvent que la volonté d’interrompre par tous les moyens les activités bénévoles vient aussi de la préfecture, et à travers elle, de l’Etat. Notamment, la préfecture a fait barrage aux demandes de subventions nationales et européennes de la MJC, lieu central à Briançon, qui agit à la fois comme centre social et comme moteur d’activités culturelles pour la ville. Cette MJC a été un des premiers lieu d’accueil des personnes migrantes à Briançon quand la frontière des Hautes-Alpes est devenue un lieu de passage, parce qu’elle disposait déjà de la MAPE-monde, un dispositif d’accès aux droits pour les étrangers : sans subventions, la MAPE-monde ne peut plus continuer ses activités d’aide à la demande d’asile. Le motif invoqué, de manière très claire, par la préfète, pour justifier ce blocage des demandes de subventions, est que « l’Etat ne peut pas soutenir des associations qui vont à l’encontre de sa politique. »

      Comme les périodes de resserrement des contrôles à la frontière sont entrecoupées de périodes beaucoup plus laxistes de la part des contrôles policiers, au point que la politique menée semble contradictoire, les bénévoles se posent des questions : quand trop de personnes arrivent d’un coup au Refuge solidaire, il est vrai que la situation à Briançon devient explosive pour tout le monde. Quand l’occupation de la gare SNCF a été délogée par une intervention massive de CRS, cela faisait trois jours qu’il n’y avait aucun contrôle à la frontière et que tout le monde descendait. Certain-es se demandent si un « jeu du pourrissement » à Briançon n’est pas mis en place de manière stratégique pour justifier une intervention militaire plus massive… L’avenir le dira.

      Les différents éléments de terrain décrits dans cet article sont épars, divers, inégaux ; ils témoignent d’un répertoire très large des moyens de pressions employés dans le Briançonnais pour décourager les citoyen·nes solidaires. Cette diversité joue également le jeu d’un discours qui les présenterait comme des phénomènes ponctuels et séparés. Or, il est nécessaire de les présenter ensemble, non pas comme des faits distincts mais comme un continuum du contrôle policier, un ensemble de moyens au profit de la même stratégie étatique de lutte contre l’entrée sur le territoire de personnes étrangères en situation irrégulière, et de répression des gens locaux qui les aident.

      CONCLUSION.
      Pression, contre-pression : des débats sur la résistance à mettre en oeuvre

      Localement, des résistances sont à l’oeuvre contre la répression des solidarités. Les voisins et voisines, même celles et ceux qui ne partagent pas les idées politiques des bénévoles, font preuve d’une complicité passive quand ils et elles les avertissent discrètement d’un barrage de police plus bas dans la vallée. Une sorte de résistance de fond de la population locale, ulcérée de toutes part par l’omniprésence et la démesure des contrôles, permet une solidarité discrète entre les habitant·es de la vallée, au-delà des désaccords idéologiques.

      De la part des habitant·es menacé·es par les contrôles, de nombreuses tentatives de dialogue vis-à-vis des institutions policières ont été entreprises. Une tentative d’entretien avec les secours en montagne, pour mettre en place une stratégie commune de sauvetage des personnes en danger, qui s’est soldée par un relatif échec de la discussion ; entretien avec l’officier de police judiciaire pour vérifier leur droit à dénoncer les pratiques illégales constatées par les citoyen·nes de la part des agents de police, qui n’a pas abouti non plus. La fermeture totale des institutions policières, l’opacité et le secret dans lequel elles agissent, empêchent tout dialogue avec les citoyen·nes solidaires.

      La stratégie de mobilisation mise en oeuvre par l’association Tous Migrants2 a été de répondre à la pression policière par une pression médiatique. Grâce à ce travail de médiatisation, il a été possible, lors de l’arrestation de Benoît Ducot le 10 mars dernier pour avoir voulu conduire à l’hôpital Marcella, une femme nigérianne en train d’accoucher, de mobiliser immédiatement les médias sur ce sujet et d’organiser une manifestation à la PAF lors de la convocation de Benoît. La pression médiatique maintenue par les citoyen·nes, surtout dans une région à haut revenu touristique, a très certainement un impact positif sur la diminution du contrôle policier ainsi que des condamnations des gens solidaires.

      Mais au quotidien, les stratégies à adopter pour faire face aux menaces qui pèsent sur les activités d’aide aux personnes étrangères divisent les bénévoles. Le fait de s’organiser pour être le moins visible possible, d’aider les migrant·es à partir le plus vite possible de la vallée pour ne pas que trop de gens y restent, en un mot, de jouer le jeu de cache-cache imposé par la police, ne fait pas consensus au sein des militant·es. Car faire le jeu de la police, c’est aussi assurer le secours en montagne à la place de la gendarmerie de haute-montagne, par peur qu’elle mette en péril des personnes en les refoulant à la frontière et en toute illégalité ; c’est aussi prendre en charge bénévolement et dans le secret l’accueil des demandeur·euses d’asile qui relève normalement du devoir de l’Etat ; c’est aussi financer soi-même les trajets hebdomadaires des mineurs jusqu’au conseil départemental à Gap, ce qui relève de la reponsabilité de l’Etat. C’est enfin assumer le fait d’envoyer rapidement dans les grandes villes des personnes qui n’ont pas de contacts là-bas et se retrouvent à la rue, invisibles, sans réseau de solidarité sur lequel s’appuyer.

      La stratégie de la peur pousse les bénévoles à agir toujours plus dans l’ombre, discrètement, et continuer de faire fonctionner une situation qui relève d’une imposture de la part de l’Etat. Or, tout le monde n’est pas d’accord pour continuer d’accepter cela, alors que les arrivées sont toujours plus nombreuses et que la répression ne cesse pas : mettre en pleine lumière la responsabilité de l’Etat, les pratiques illégales et inhumaines de ses agents, est ce que souhaitent la plupart des citoyen·nes solidaires… qui se contraignent pourtant au silence, par peur de la répression et surtout par peur que celle-ci s’exerce sur les personnes étrangères pour lesquelles cette solidarité est mise en oeuvre.

      Des débats politiques sur la stratégie à adopter continuent donc d’avoir lieu parmi les citoyen·nes solidaires. Au quotidien, les bénévoles acceptent toutes ces charges, parce qu’ils et elles ont la conviction qu’offrir un accueil digne aux personnes étrangères est ce qu’il y a de plus important. Mais quand les citoyen·nes solidaires manquent de relais, manquent de force, manquent de sommeil ou n’ont plus assez d’argent pour faire tourner les lieux de vie collective, la question du bras-de-fer avec l’Etat ressurgit : n’est-on pas la dupe d’une manipulation, qui nous oblige à prendre en charge dans le secret l’accueil des migrant·es dans la région, tout en nous réprimant et nous menaçant ?

      19 avril 2018 derootees

      Depuis 2015, dans le cadre de la « lutte anti-terroriste » menée par l’Etat français, on a assisté à une intensification de la répression policière et juridique vis-à-vis des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es, notamment aux zones frontalières. L’inculpation, entre juillet 2015 et janvier 2017, de 9 citoyen·nes des Alpes Maritimes, a vu ressusciter les débats autour du poussiéreux « délit de solidarité », institué en 1938 (dans un climat dont chacun·e devine qu’il était particulièrement xénophobe…)

      Le dossier en ligne du Gisti sur le délit de solidarité montre comment les évolutions progressives du droit sont devenues de plus en plus floues de sorte qu’il n’ait plus vocation à réprimer les trafics et réseaux mafieux à la frontière, mais à englober dans le champ des répressions les pratiques d’aide gratuite et solidaires vis-à-vis des étrangers. Cette évolution est le fruit d’une représentation de continuité entre l’immigration clandestine et le terrorisme : ainsi, dès 1996, l’aide au séjour irrégulier est intégrée parmi les infractions à visée potentiellement terroriste. Depuis les années 2000, on assiste à une extension des immunités (notamment pour « motifs humanitaires ») mais aussi, simultanément, à une aggravation des sanctions et de la répression des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es sans-papiers.

      Tout un arsenal législatif a ainsi vocation à limiter les activités bénévoles de citoyen·nes solidaires : l’ « aide à l’entrée et au séjour irréguliers », punis de 5 ans d’emprisonnement et de 30 000 euros d’amende, mais aussi les « délits d’outrage, d’injure et de diffamation ou de violences à agent publics », utilisés selon le Gisti pour » défendre l’administration et la police contre les critiques dont leurs pratiques font l’objet ». A ces motifs s’ajoutent des pratiques plus sournoises de dissuasion, qui procèdent de la même volonté politique : « Il s’agit de priver l’étranger en situation irrégulière en France de toute forme de soutien : amical, politique ou juridique mais aussi, au-delà, de signifier à la population en général et aux militant·es en particulier qu’on ne peut s’opposer impunément à la politique gouvernementale quelles que soient la détresse humaine et les horreurs qui lui sont inhérentes. »

      Outre le choquant paradoxe de l’expression « délit de solidarité », la défense juridique lors des procès des citoyen·nes de la Roya remet en cause les pratiques de l’Etat : que fait-il du droit international qui consacre le droit pour chacun « de participer à des activités pacifiques pour lutter contre les violations des droits de l’homme et des libertés fondamentales » ? Que fait-il de l’injonction d’assistance à personne en danger, surtout en contexte de montagne ?

      Le positionnement politique des citoyen·nes inculpé·es, qui assument leur solidarité avec les sans-papiers, va encore plus loin : si les personnes mettent leur vie en péril en passant par des chemins dangereux, c’est parce qu’elles se cachent de la police, et ont peur d’être arrêtées. En tant que personnes vulnérables en montagne, c’est à la gendarmerie de haute montagne de leur porter secours ; en tant que demandeuses d’asile (pour la quasi-totalité d’entre elles), ou mineures (pour la moitié d’entre elles) ces personnes devraient être prises en charge par la police, puis par la préfecture, dans une logique de protection prévue par le droit français. Ce sont les pratiques illégales par la police de refoulement aux frontières qui (re)mettent en danger les personnes migrantes (souvent abandonnées en montagne dans un froid extrême après leur arrestation).

      Le délinquant, le criminel, c’est l’Etat, objectent donc les collectifs de soutien, qui ne respecte ni les traités internationaux, ni les lois, ni aucune des valeurs d’asile de fraternité de la République. Dans les Alpes-Maritimes, l’heure est donc à la mobilisation collective, juridique et politique aux côtés de ces « délinquant·es solidaires » pour les soutenir dans leur procès et montrer que la société civile n’adhère pas au discours qui fait d’elles et eux des criminel·les.

      Qu’en est-il dans les Hautes-Alpes ? La route qui s’est ouverte progressivement au cours de l’année 2017 en fait, depuis plus de six mois, un des principaux passages vers la France. Dans le Briançonnais, les mêmes événements se sont enchaînés, rapidement, qu’à Menton et dans la Roya : augmentation brutale du nombre de personnes traversant la région pour entrer en France, organisation citoyenne pour faire face à une situation humanitaire d’urgence, militarisation de la frontière grâce à des équipements et des renforts policiers, répression des personnes clandestines… Et prise en étau des bénévoles solidaires au coeur de ce dispositif de répression, lequel vise avant tout les personnes étrangères, mais également tous les gens qui leur viennent en aide.

      L’association Tous Migrants estime que depuis le printemps 2017, entre 40 et 50 personnes ont été arrêtées et convoquées à la PAF, principalement pour délit d’ »Aide à la circulation, à l’entrée ou au séjour de personnes en situation irrégulière ». On peut estimer que plus du double ont été interpelé-es par des agents de police ou de gendarmerie dans l’exercice d’un acte de solidarité. On compte également au moins 5 gardes-à-vue. Benoît Ducos, un de nos camarades dont le nom a été relayé par les médias pour être venu en aide à une femme nigérianne enceinte, est à la fois menacé d’un procès, et sollicité par de grandes ONG italiennes pour recevoir des prix pour son « héroïsme »… Cela résume aussi bien le contexte absurde et paradoxal (et ironique) dans lequel nous oeuvrons.

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      Rassemblement de soutien à Benoît Ducos, SB mars 2018

      Jusqu’à maintenant, dans les Hautes-Alpes, les convocations sont restées sans suite ; mais comme les événements de la Roya sont un sombre présage pour leur futur proche, les nombreux·ses citoyen·nes solidaires du Briançonnais sont plongé·es dans l’anxiété. La répression, à défaut d’être judicaire, est policière ; et elle prend parfois des formes plus détournées encore : pressions morales, psychologiques, financières… A Briançon et dans la vallée de la Clarée, tout se joue encore sur le terrain, dans l’informel, dans les interactions directes avec les officiers de police et gendarmerie, ou les agents de l’Etat. Leur caractère aléatoire, mouvant, complexe, entraîne une invisibilisation de cette répression par l’Etat des activités solidaires.

      Les témoignages recueillis ci-dessous évoquent différentes manières grâce auxquelles l’Etat développe sa stratégie d’intimidation des personnes solidaires dans le Briançonnais. Un recueil de ces témoignages et une mise en commun des expériences individuelles sont indispensables pour dénoncer ces phénomènes qui ne sont pas isolés, mais s’inscrivent au contraire dans une politique calculée de l’Etat français à travers une stratégie de la peur.

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      Manifestation devant la PAF, source : Libération
      La méthode atmosphérique : création d’un climat de tension

      Le nombre relatif d’arrestations n’évacue pas le contact au quotidien, pour les habitant·es du Briançonnais et particulièrement celles et ceux de la vallée de la Clarée, avec une présence policière lourde et un contrôle incessant, particulièrement féroce durant la période de la fin de l’été à début décembre 2017. A la gendarmerie locale, la douane, la Police de l’Air et des Frontières, le PSIG, la Police et Gendarmerie de Haute-Montagne initialement présents, se sont ajoutés les renforts venus de la région entière, dont des groupe d’interventions spécialisés comme la Brigade Anti-Criminelle, les CRS, des renforts de la vallée de la Roya, et même les sentinelles de l’armée.

      Les habitant·es et touristes témoignent des barrages quotidiens sur la route qui imposaient parfois quatre contrôles par jour aux personnes désirant descendre dans la vallée. Barrages, brigades mobiles, postes de surveillance, les renforts policiers de toute la région ne se sont pas contentés de sillonner les cols ou les routes durant cette période, mais aussi d’installer leur présence au coeur des bourgs de Névache, Val-des-Prés, de Briançon, de sorte à ce qu’aucun jour, et aucune nuit, ne se passe sans avoir le sentiment d’être surveillé·e par la police. Deux habitants de Névache décrivent la présence dans le centre du village de voitures de police avec leurs phares à 4h du matin, au pied de tous les d’immeubles. « On se fait du cinéma », conclut l’un d’entre eux, conséquence logique du fait que le petit village semble s’être transformé durant cette période en décor de cinéma.

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      Barrage quotidien à Névache, été 2017, source : La Provence

      Au même moment, les hélicoptères sillonnent régulièrement le ciel. « Le pire c’est l’hélico, c’est vraiment un sentiment d’oppression. Quand ils font des rondes, on sait que ce n’est pas pour le sauvetage, mais pour la surveillance », dénonce une habitante de Névache.

      Plus bas à Briançon, un Refuge a ouvert cet été pour permettre aux personnes migrantes de s’abriter après leur difficile traversée de la montagne. Bien que les sans papiers puissent être arrêté·es partout dans la ville, le Refuge a bénéficié d’une sorte d’immunité humanitaire. Malgré tout, pendant l’été et l’automne 2017, les rondes régulières des véhicules de gendarmerie devant le Refuge semblent menacer sa sécurité : « Ils roulent à une vitesse d’escargot, 20km/h, on se sent observés : t’es toujours suspect… J’ai pensé à d’autres pays où les gens sont sous surveillance et je me suis dit « on connaît ça ici ». On devient nous mêmes suspects« , confie une bénévole. Ces rondes s’ajoutent aux gendarmes en civil postés sur le parking devant le Refuge, et à la présence certifiée des renseignements généraux sur la même place. Cela renforce la croyance chez les bénévoles qu’ils et elles sont tou·te·s repéré·es, fiché·es, leurs voitures enregistrées.

      Alors que je recueille le témoignage de l’une de ces bénévoles, assises au soleil sur cette place, elle coupe son récit pour dire : « Et tu peux m’expliquer pourquoi il y a une voiture de police qui est plantée à côté de nous depuis 8 minutes ? ». Au moment où je tourne la tête, la voiture de gendarmes démarre. Cette pression est discrète, mais elle développe chez tous les volontaires des réflexes anxieux, d’auto-surveillance de leurs faits et gestes. Cela fait dire à une vieille dame bénévole « Ah, c’est encore la Gestapo ».

      Cette stratégie est développée aussi lors d’événements collectifs plus militants : « A chaque fois qu’on a fait des manifs à la PAF, ils nous ont photographiés, ainsi que les bagnoles… »

      Côté italien, les montées à la frontière de la police et des gendarmes ne concernent pas les migrant-es mais bien les militant·es. Dès le premier jour de l’occupation, une montée massive de la police (polizia, carabinieri, police politiques, voitures civiles) vers le lieu a ancré cette action dans un contexte de confrontation. Des voitures postées en observation devant le lieu que nous occupons, des tentatives régulières par des hommes en civil ou en uniforme discret (la police politique) d’entrer dans le lieu, suffisent à poser le climat. Interpellations sans justification, juste parce qu’on a un véhicule français, prise d’identité. Pour les personnes qui arrivent depuis la vallée par le bus, que nous accueillons dans le lieu en tentant de les mettre en sécurité, cette surveillance menaçante fait s’écrouler tout ce que nous avons mis en place en termes d’accueil. Alors que la police a tenté de rentrer dans le lieu, et que nous n’avons pas eu le temps de barricader, j’ai dû crier à des sans-papiers que nous accueillions depuis la veille de se cacher vite, pour ne pas qu’ils les trouvent : comment prétendre essayer de créer un climat de sécurité, dans ces conditions ?

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      Arrivée du bus de Clavière, cernée par les voitures de police et des renseignements généraux, SB avril 2018

      Les touristes qui ont fréquenté la région à la fin de l’été manifestent de manière unanime un choc vis-à-vis de cette présence policière démentielle et apparemment injustifiée. « Pendant l’automne, la vallée ressemblait plus à une scène de guerre qu’à une région touristique », s’accordent de nombreux·ses habitant·es. « On a senti un moment d’occupation. Quand ils sont partis, on a enfin pu respirer. »
      La tactique du « cow-boy » : courses-poursuites et mise en scène d’arrestations

      La stratégie favorite dans le Briançonnais est ainsi celle de l’intimidation. Celle-ci possède une dimension spectaculaire, au sens propre du terme : comme si la vallée était un théâtre, où après avoir planté un décor de guerre, des acteurs jouent aux opérations militaires de grande envergure.

      Les course-poursuites ont vocation à produire cet effet impressionnant. Une femme du Refuge raconte qu’en septembre, alors que la police surveillait constamment la gare de Briançon, empêchant le départ des migrant-es vers le reste de la France, des bénévoles avaient organisé un petit convoi pour descendre une dizaine de personnes vers la gare suivante, à l’Argentière, afin qu’elles puissent prendre leur train vers Paris. « On attendait dans l’herbe à côté de la gare, tranquillement, quand la police est arrivée : il a fallu se précipiter, en rampant, dans les voitures. On s’est précipités vers la gare suivante, Saint-Crepin, à toute vitesse. Là on attend, on surveille la gare. Pendant ce temps les jeunes sont dans la voiture et attendent que le train arrive. Quand il arrive on leur dit de courir. Ils montent dans le train, et direct après, horreur, on voit arriver la police ! Ils ont tous été arrêtés à Gap. »

      Une autre femme, habitante de la Clarée, raconte : « J’allais au boulot à quatre heure du matin, et il y a un gars qui m’appelle, qui venait de descendre l’Echelle et d’arriver dans la vallée. Je l’ai pris en voiture pour l’aider à descendre et il y en avait plein d’autres qui marchaient sur le bord de la route, ils couraient au milieu des voitures, dévalaient la pente. Alors je les ai emmenés aussi.

      Les gendarmes à Val-des-Prés en avaient déjà arrêté une vingtaine. Moi je les ai vus, et j’ai eu peur : j’ai accéléré. Ils m’ont poursuivie. Au village suivant, je me suis arrêtée « Sortez, courez ! », je leur ai dit. Les gendarmes nous ont tous poursuivis, un seul gars a réussi à s’évader, se cacher dans un jardin. J’étais prise au piège dans mon propre village. J’ai eu une sacrée frayeur ! »

      Comme beaucoup d’autres, cette femme n’a pas été re-convoquée par la suite, malgré son arrestation : les interventions musclées sur le terrain, confirment les bénévoles, ne comportent pas pour l’instant de suites judiciaires, elles se suffisent à elles-mêmes pour impressionner les citoyen-nes solidaires.

      La dimension dissuasive de ces course-poursuites est plus évidente encore quand elles concernent des gens qui ne transportent pas de migrant·es, mais qui se contentent de leur parler. Moi-même, alors que je me contentais d’observer, j’ai été prise en chasse par une voiture de police… qui n’avait rien d’autre à me reprocher que de rouler les phares éteints.

      L’intimidation se joue aussi dans la mise en scène de l’arrestation. Le ton de la voix, la manière d’interpeler, font partie du jeu de scène. On me raconte, à chaque contrôle du véhicule, les phares de voiture et lampes en pleine figure pour éblouir, les arrestations à grands cris, contrôles d’identité, fouille du véhicule – même quand il n’y a rien à signaler.

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      Barrage sur la route de Briançon à Montegenèvre, SB, avril 2018

      Un militant raconte son arrestation récente : les armes braquées sur lui, une ouverture à coups de pieds de la portière de la voiture, les personnes agrippées brutalement, menottées avant d’être conduites à la gendarmerie. Un autre homme arrêté au col de l’Echelle alors qu’il transportait une femme enceinte et sa famille a fait l’objet d’une arrestation brutale : ses voisins racontent que les gendarmes lui ont esquinté les bras, et qu’il a eu très mal par la suite.

      Enfin, pour certaines personnes arrêtées, la violence verbale grossière est utilisée pour forcer la peur. Une militante me raconte : « J’ai une copine qui a été arrêtée à la PAF alors qu’elle emmenait des mineurs se signaler, à la demande de la gendarmerie. Elle a été cuisinée, a raconté qu’elle avait aidé les gens à prendre leurs billets de train. La personne qui l’interrogeait lui a tenu des propos odieux, sexistes, racistes, machistes, et des gestes obscènes. Pendant un mois, elle a arrêté ses activités bénévoles. Elle ne veut pas témoigner, elle est très intimidée. »

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      Manifestation à la PAF contre l’arrestation d’une bénévole, le soir de l’attaque de la voiture de police, source : Le Dauphiné Libéré, 24 mai 2017

      Enfin, le cas le plus grave recensé à la frontière a été une violence physique contre un manifestant, en mai 2017, renversé par un véhicule de police alors qu’il était venu soutenir avec une trentaine d’autres citoyen·nes solidaires des réfugié·es et une travailleuse sociales qui avaient été arrêté·es par la PAF. Voici le témoignage relayé par la presse de la victime de cette violence : « Une voiture de police part sur les chapeaux de roues (…) à son bord 2 ou 3 réfugiés, direction le poste de police en Italie. (…). Spontanément, une dizaine d’entre nous décident de se mettre au milieu de la route et de mettre nos simples corps comme barrière naturelle à l’expulsion. Le chauffard essaye de forcer le passage en faisant vrombir le moteur, et en avançant pare-choc contre tibias. L’une d’entre nous tombe devant la voiture. Le reste des flics présents mettent des coups pour nous dégager de la chaussée. La voiture de police (…) active une grande marche arrière( à contre-sens) puis repasse en marche avant et se met soudainement à accélérer. Elle fonce, 50 peut-être 60 kilomètres heure, Pas de gyrophare. Pas de sirène.

      Je suis au milieu de la chaussée, je regarde la voiture de police arriver, elle ne décélère pas. (…) La bagnole continue sa course et me percute. (…) Je me retrouve ensuite sur le bitume et la roue arrière du véhicule me passe sur la jambe, au-dessus de la cheville. La voiture continue sa course comme si de rien n’était. Une fois au sol je m’ aperçois que plein de gens hurlent. J’hurle aussi. Sur ma droite un mec en costard, un cadre la PAF, ou de la préfecture me regarde comme un déchet. Il fait demi -tour et retourne sur ses pas pour aller se planquer dans le bâtiment du ministère de l’intérieur. Il est témoin direct de l’action. (…)

      Un policier de la PAF […] me lance « fallait pas te jeter sur la voiture »…on suppose que ce sera la version officielle. Les gendarmes ne prennent aucun témoignage des faits qui viennent de se passer. Certains policiers esquisse[nt] des sourires. Je suis pris en charge par les pompiers avec une atèle au pied droit. Les gendarmes n’ont toujours pris aucun renseignement auprès des témoins présents. J’arrive à l’hôpital. » Cet événement qui aurait pu entraîner la mort du manifestant, dénoncé avec force par les associations locales et par la presse, a été vécu comme une violence extrême à l’encontre des citoyen·nes solidaires, marquant une ère de confrontation définitive entre la police et les gens locaux.
      La méthode Stasi : menaces individuelles

      La stratégie de la peur ne se limite pas aux arrestations ponctuelles : elle fonctionne aussi de manière préventive, sous la forme de la menace. En Italie, la dernière fois que la police politique a pris mon identité, ils nous ont assuré qu’ils connaissaient les visages de chacun-e d’entre nous, savaient parfaitement qui entrait et qui quittait le lieu, à toutes les heures, et que prochainement une arrestation massive tomberait sur tou-te-s les occupant-es.

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      Surveillance des gendarmes italiens sur la place de l’église à Clavière, SB, avril 2018

      L’été dernier, un habitant de la Clarée connu pour avoir accueilli beaucoup de jeunes migrants a bénéficié d’une visite à son domicile de la gendarmerie doublée d’une perquisition : « Ils sont venus, ils ont évacué les gars, ils ont retourné les matelas… » Au printemps, deux gendarmes s’étaient déjà baladés chez tous les commerçants avec deux photos dont la sienne, en demandant : « Est-ce que vous connaissez cet homme ? ».

      Une autre militante, que nous appellerons ici Séraphine Loulipo, relate un épisode de cet été avec des amis. Après avoir accompagné au Refuge un jeune homme, ils se rendent compte qu’ils sont observés sur le parking du refuge par un homme en civil, assis sur le muret, qui leur lance : « De toutes façons j’ai toutes les images, j’ai tout filmé…. Votre voiture est fichée, nous on ne va pas vous lâcher, ça ne va pas se passer comme ça. »

      Trois jours plus tard, Mme Loulipo se heurte à un barrage de police sur la route de la Clarée. « Ah, Séraphine Loulipo », dit immédiatement le gendarme qui la contrôle, à la seule vue de son véhicule. « Ca va bien, le trafic des migrants ? ». Puis d’ajouter : « Mettez vous sur le côté, on va bien lui trouver quelque chose à cette voiture. » Alors qu’elle cherche le gilet jaune obligatoire dans tous les véhicules, il prépare d’avance sa contravention et se gausse : « Je l’apporterai directement chez vous ». Alors qu’elle retrouve le gilet, le gendarme se met alors en colère, et la menace : « Ca ne va pas se passer comme ça, vous allez finir en garde-à-vue. » Mme Loulipo est ainsi rentrée chez elle persuadée que la police connaissait ainsi, en plus de son nom et de son véhicule, l’adresse où elle vit avec ses enfants.

      Le mois dernier, un autre bénévole a bénéficié d’une de ces séances d’intimidations. « Ils sont venus me voir à mon boulot, sur mes horaires de travail. Ils étaient 3, en uniforme. Ils m’ont engueulé. « On t’a vu ! (…) Tu vas te faire choper, on peut te faire fermer ton commerce, on va saisir ton véhicule. » Puis on a discuté, j’ai réagi calmement, le gendarme s’est calmé. A la fin, il m’a même dit : « C’est bien, fais selon tes convictions. Mais si je te chope, je t’aurai. » L’homme qui me confie cette histoire ajoute en conclusion : « Mais moi je sais que je ne crains rien. Quand on fait peur aux gens, c’est qu’on ne va pas vraiment les arrêter. »
      L’effet des arrestations sur l’activité des bénévoles . Une stratégie efficace ?

      Ainsi les méthodes de contrôle policier des activités solidaires dans le Briançonnais fonctionnent-elles plus sur l’intimidation et la menace que la punition. Elles ont un caractère anticipatoire : faire en sorte que les personnes renoncent, d’elles-mêmes, à aider les sans-papiers qui arrivent par la montagne.

      Les moyens mobilisés au profit de cette stratégie ont nécessairement eu un impact. La simple présence policière a un effet dissuasif, comme me le raconte une bénévole dont la propriétaire est une dame âgée, qui aimerait bien accueillir des migrant·es qu’elle voit quotidiennement sous sa fenêtre, mais qui est terrorisée par la police ! « Ne dites pas que je vous l’ai dit », a-t-elle confié à sa locataire.

      Il y a de nombreux cas de bénévoles qui, suite à leur arrestation, ne reviennent pas au Refuge pendant plusieurs semaines ou plusieurs mois, ou qui limitent leurs activités à des choses pour lesquelles elles ne peuvent pas être arrêtées (ne plus aller à la gare, ne plus faire de transport ou de covoiturage…). La bénévole du Refuge qui a été poursuivie à la gare de l’Argentière, m’a raconté que : « Moi depuis, je ne fais plus rien [en transport]. J’ai eu tellement peur, le coeur qui battait. J’étais pas bien. J’ai ma fille, je peux faire une garde à vue, à la limite, quand elle n’est pas là, mais pas quand elle est là… (…) J’étais dans un film. C’est pas ma vie, ça, c’est pas ma vie. »

      Mais pour l’écrasante majorité des citoyen-nes solidaires, la conviction profonde de la légitimité de leur engagement est un moteur plus puissant que la peur d’être arrêté·e, même d’être poursuivi·e.

      Malgré tout, beaucoup ont, depuis un an, perdu totalement confiance et développé une peur vis-à-vis de la police et des institutions étatiques : cela peut se traduire par une nervosité dès que la police est dans les parages (c’est-à-dire constamment), une boule dans le ventre en permanence, une angoisse pour ses enfants et sa famille… Certain·es témoignent d’une paranoïa quotidienne avec l’impression d’être observé·es en permanence, surtout via leur téléphone. Cette question de la surveillance hante les conversations quotidiennes, renforcé par la rapidité de circulation des rumeurs : j’ai vu une voiture de police ici, là ils contrôlaient, ils sont restés plantés longtemps, ça m’a paru étrange…

      J’ai moi-même ressenti cette évolution au fil de mon temps à Briançon : les premières maraudes en montagne, alors que je ne connaissais personne qui avait été arrêté-e, me paraissaient la chose la plus naturelle du monde, un geste évident de mise à l’abri. Ce n’est qu’à force de voir se multiplier les arrestations autour de nous, de recueillir ces témoignages individuels de pression policière, que l’angoisse un peu sourde du contexte Briançonnais m’a gagnée. Un mois et demi plus tard, quand je suis seule en voiture, les sentiments qui m’envahissent sont de l’ordre du qui-vive, de la mise en garde, car je suis à moitié persuadée que ma voiture est repérée aussi. Je ne discute plus au téléphone sans douter que quelqu’un m’écoute, je ne parle plus aussi librement quand il y a un téléphone, même éteint, dans la pièce…

      « La peur d’être arrêtée ça déclenche beaucoup de tensions chez moi. J’avais tellement peur en roulant », se souvient une dame solidaire. Mais quand je lui demande si elle a déjà considéré arrêter d’aider les jeunes migrants à cause de sa peur, elle écarquille les yeux : « Non, bien sûr que non !« . On continue, donc, et on s’habitue à la peur.

      En effet, certaines personnes solidaires ont développé une sorte de nonchalance lasse, déjà habituée, vis-à-vis des arrestations : quand je demande à une amie arrêtée la semaine dernière si « Ca va ? », elle hausse les épaules : « Tu sais, moi je m’en fiche, on est habitué·es ». Je garde en tête une scène qui a eu lieu sous mes yeux au Refuge, tout à fait caractéristique de cet état d’esprit de relativisation par l’habitude : un couple âgé vient proposer de donner un coup de main de temps en temps et offre de descendre des personnes jusqu’à Gap si jamais elles en ont besoin.

      Une bénévole, immédiatement : « Vous savez ce que vous risquez, hein ?

      (haussent les épauples) Oui, bah…
      Parce que moi, j’ai été poursuivie par les flics ! Je vous assure que ça ne s’oublie pas…
      Oui, mais on peut prendre le risque. (souriant) On n’a pas d’enfants, on a 75 ans, on ne risque pas grand-chose…
      Et Martine, de la Roya ? Elle aussi, elle a 75 ans !
      Bah, vous savez, au pire, la prison, c’est un truc que je n’ai encore jamais fait dans ma vie !

      J’en profiterai pour lire des livres… »

      Comme dans d’autres zones de violence policière généralisée, une sorte d’habitude cynique s’est développée chez beaucoup de bénévoles. Lors de la journée d’étude du 15/12/2017 organisée par le groupe BABELS sur la police et les migrants, Lou Einhorn, psychologue pour Médecin du Monde à Calais, soulignait justement le danger de cette intériorisation par les bénévoles de la banalité de la violence : ils et elles peuvent avoir tendance à relativiser la violence due à la police également auprès des personnes migrantes qu’ils et elles accueillent. Or, cette violence, ou cette tension, peuvent raviver des traumatismes et certaines personnes peuvent les ressentir comme insoutenables ; si les bénévoles, habitué·es à ce que la violence ou la surveillance fasse désormais partie du quotidien, ont mis en place des mécanismes de protection en banalisant et relativisant cette violence, ils et elles peuvent ne pas être à l’écoute des personnes qui en sont affectées.

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      Bénévoles sur le parking de la MJC, SB, mars 2018

      Par ailleurs, la menace d’être arrêté·e agit comme une contrainte lourde sur l’activité solidaire : elle exige beaucoup plus d’organisation. Elle renforce la nécessité de toujours envoyer une voiture éclaireuse, qu’elle vienne du haut ou du bas de la vallée, pour vérifier que la voie est libre ; potentiellement d’y être à deux personnes pour pouvoir prévenir les autres par téléphone tout en conduisant. Elle implique de calculer les marges de temps avant chaque départ, d’observer les roulements des gardes policières pour passer au bon moment, d’impliquer potentiellement d’autres habitant·es solidaires sur le trajet pour ouvrir leur maison comme lieu de repli au cas où.

      Tout cela a deux effets majeurs : d’abord, la mobilisation nécessaire de toujours plus de bénévoles pour prendre des précautions afin d’assurer la sécurité des personnes migrantes et des bénévoles eux-mêmes. Or, quand les réseaux de solidarité sont petits, cela oblige les mêmes personnes à se mobiliser deux fois plus : en journée, alors que certains travaillent, en soirée, très souvent au milieu de la nuit, voire toute la nuit… Plus il y a besoin de monde, plus les mêmes personnes enchaînent les nuits passées en montagne, au lieu de se reposer. La fatigue physique s’ajoute donc à la tension psychologique des bénévoles, épuisant les troupes jusqu’à mettre en péril leur organisation. A long terme, la surveillance agit ainsi comme une stratégie indirecte d’auto-épuisement des bénévoles et de leurs activités.

      Le deuxième effet qui découle d’une organisation minutieuse des trajets d’aide aux personnes migrantes est la sensation pour certain-es d’organiser un trafic, bien que celui-ci soit bénévole et à vocation solidaire. Or, il est intéressant de constater que les discours de la préfète des Hautes-Alpes1 condamnent précisément tout ce qui est de l’ordre du « réseau organisé », alors qu’elle dit tolérer qu’on vienne en aide, individuellement, à la personne vulnérable qui passe sous sa fenêtre. Dans les faits, c’est précisément le contrôle policier incessant et la remise en danger, en montagne, des personnes arrêtées, qui oblige les bénévoles à mettre en place un réseau organisé de transport : la préfecture provoque ainsi elle-même l’activité dont elle accuse les habitant·es solidaires.

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      Maraude, hiver 2017, source : comunita di destinu

      Ce glissement d’une activité qui se veut simplement solidaire vers une activité dite « illégale » est vécu par les habitant·es comme quelque chose qui leur est imposé par le contrôle policier : « Nous on veut travailler avec les secours en montagne et on se présente comme secours en montagne. Sauf qu’avec les pratiques politiques, dès qu’ils sont dans la rue, ils ne sont plus en sécurité. Du coup on organise des convois : notre démarche, c’est qu’on ne veut pas en perdre un seul, et on ne veut pas que les Français aient des ennuis », dit l’un d’eux. Cela implique donc une grande organisation qui, sur le terrain, s’apparente à un « jeu de cache-cache » extrêmement anxiogène pour les personnes exilées. Leur arrivée en France se fait ainsi dans un contexte de peur qui peut raviver des traumatismes récents.
      Bavures policières ? Le plan de Macron

      Vis-à-vis de ces pratiques quotidiennes d’intimidation, il serait facile pour le gouvernement d’argumenter qu’il s’agit de glissements locaux liés à un terrain particulier, à une « zone de tension » ou « zone de crise », bref, des situations ponctuelles et exceptionnelles qui n’ont rien d’emblématique. Or, à chaque fois que les habitant·es solidaires ont eu l’occasion de discuter avec des agents de police sur le terrain, et notamment en ce qui concerne leurs pratiques illégales de refoulement de demandeur·euses d’asile et de mineurs, ceux-ci ont eu pour simple discours que tous les ordres venaient « d’en haut ».

      Par ailleurs, d’autres moyens de pression plus discrets mais encore plus efficaces prouvent que la volonté d’interrompre par tous les moyens les activités bénévoles vient aussi de la préfecture, et à travers elle, de l’Etat. Notamment, la préfecture a fait barrage aux demandes de subventions nationales et européennes de la MJC, lieu central à Briançon, qui agit à la fois comme centre social et comme moteur d’activités culturelles pour la ville. Cette MJC a été un des premiers lieu d’accueil des personnes migrantes à Briançon quand la frontière des Hautes-Alpes est devenue un lieu de passage, parce qu’elle disposait déjà de la MAPE-monde, un dispositif d’accès aux droits pour les étrangers : sans subventions, la MAPE-monde ne peut plus continuer ses activités d’aide à la demande d’asile. Le motif invoqué, de manière très claire, par la préfète, pour justifier ce blocage des demandes de subventions, est que « l’Etat ne peut pas soutenir des associations qui vont à l’encontre de sa politique. »

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      Manifestation des exilé-es dubliné-es du CAO, juin 2017, source : Alpes 1

      Comme les périodes de resserrement des contrôles à la frontière sont entrecoupées de périodes beaucoup plus laxistes de la part des contrôles policiers, au point que la politique menée semble contradictoire, les bénévoles se posent des questions : quand trop de personnes arrivent d’un coup au Refuge solidaire, il est vrai que la situation à Briançon devient explosive pour tout le monde. Quand l’occupation de la gare SNCF a été délogée par une intervention massive de CRS, cela faisait trois jours qu’il n’y avait aucun contrôle à la frontière et que tout le monde descendait. Certain-es se demandent si un « jeu du pourrissement » à Briançon n’est pas mis en place de manière stratégique pour justifier une intervention militaire plus massive… L’avenir le dira.

      Les différents éléments de terrain décrits dans cet article sont épars, divers, inégaux ; ils témoignent d’un répertoire très large des moyens de pressions employés dans le Briançonnais pour décourager les citoyen·nes solidaires. Cette diversité joue également le jeu d’un discours qui les présenterait comme des phénomènes ponctuels et séparés. Or, il est nécessaire de les présenter ensemble, non pas comme des faits distincts mais comme un continuum du contrôle policier, un ensemble de moyens au profit de la même stratégie étatique de lutte contre l’entrée sur le territoire de personnes étrangères en situation irrégulière, et de répression des gens locaux qui les aident.

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      Evacuation de la gare de Briançon par 60 CRS, SB, avril 2018
      CONCLUSION.
      Pression, contre-pression : des débats sur la résistance à mettre en oeuvre

      Localement, des résistances sont à l’oeuvre contre la répression des solidarités. Les voisins et voisines, même celles et ceux qui ne partagent pas les idées politiques des bénévoles, font preuve d’une complicité passive quand ils et elles les avertissent discrètement d’un barrage de police plus bas dans la vallée. Une sorte de résistance de fond de la population locale, ulcérée de toutes part par l’omniprésence et la démesure des contrôles, permet une solidarité discrète entre les habitant·es de la vallée, au-delà des désaccords idéologiques.

      De la part des habitant·es menacé·es par les contrôles, de nombreuses tentatives de dialogue vis-à-vis des institutions policières ont été entreprises. Une tentative d’entretien avec les secours en montagne, pour mettre en place une stratégie commune de sauvetage des personnes en danger, qui s’est soldée par un relatif échec de la discussion ; entretien avec l’officier de police judiciaire pour vérifier leur droit à dénoncer les pratiques illégales constatées par les citoyen·nes de la part des agents de police, qui n’a pas abouti non plus. La fermeture totale des institutions policières, l’opacité et le secret dans lequel elles agissent, empêchent tout dialogue avec les citoyen·nes solidaires.

      La stratégie de mobilisation mise en oeuvre par l’association Tous Migrants2 a été de répondre à la pression policière par une pression médiatique. Grâce à ce travail de médiatisation, il a été possible, lors de l’arrestation de Benoît Ducot le 10 mars dernier pour avoir voulu conduire à l’hôpital Marcella, une femme nigérianne en train d’accoucher, de mobiliser immédiatement les médias sur ce sujet et d’organiser une manifestation à la PAF lors de la convocation de Benoît. La pression médiatique maintenue par les citoyen·nes, surtout dans une région à haut revenu touristique, a très certainement un impact positif sur la diminution du contrôle policier ainsi que des condamnations des gens solidaires.

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      Manifestation de soutien à Benoît Ducos, SB, mars 2018

      Mais au quotidien, les stratégies à adopter pour faire face aux menaces qui pèsent sur les activités d’aide aux personnes étrangères divisent les bénévoles. Le fait de s’organiser pour être le moins visible possible, d’aider les migrant·es à partir le plus vite possible de la vallée pour ne pas que trop de gens y restent, en un mot, de jouer le jeu de cache-cache imposé par la police, ne fait pas consensus au sein des militant·es. Car faire le jeu de la police, c’est aussi assurer le secours en montagne à la place de la gendarmerie de haute-montagne, par peur qu’elle mette en péril des personnes en les refoulant à la frontière et en toute illégalité ; c’est aussi prendre en charge bénévolement et dans le secret l’accueil des demandeur·euses d’asile qui relève normalement du devoir de l’Etat ; c’est aussi financer soi-même les trajets hebdomadaires des mineurs jusqu’au conseil départemental à Gap, ce qui relève de la reponsabilité de l’Etat. C’est enfin assumer le fait d’envoyer rapidement dans les grandes villes des personnes qui n’ont pas de contacts là-bas et se retrouvent à la rue, invisibles, sans réseau de solidarité sur lequel s’appuyer.

      La stratégie de la peur pousse les bénévoles à agir toujours plus dans l’ombre, discrètement, et continuer de faire fonctionner une situation qui relève d’une imposture de la part de l’Etat. Or, tout le monde n’est pas d’accord pour continuer d’accepter cela, alors que les arrivées sont toujours plus nombreuses et que la répression ne cesse pas : mettre en pleine lumière la responsabilité de l’Etat, les pratiques illégales et inhumaines de ses agents, est ce que souhaitent la plupart des citoyen·nes solidaires… qui se contraignent pourtant au silence, par peur de la répression et surtout par peur que celle-ci s’exerce sur les personnes étrangères pour lesquelles cette solidarité est mise en oeuvre.

      Des débats politiques sur la stratégie à adopter continuent donc d’avoir lieu parmi les citoyen·nes solidaires. Au quotidien, les bénévoles acceptent toutes ces charges, parce qu’ils et elles ont la conviction qu’offrir un accueil digne aux personnes étrangères est ce qu’il y a de plus important. Mais quand les citoyen·nes solidaires manquent de relais, manquent de force, manquent de sommeil ou n’ont plus assez d’argent pour faire tourner les lieux de vie collective, la question du bras-de-fer avec l’Etat ressurgit : n’est-on pas la dupe d’une manipulation, qui nous oblige à prendre en charge dans le secret l’accueil des migrant·es dans la région, tout en nous réprimant et nous menaçant ?

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      Manifestation de soutien à Benoît Ducos, source : Tous Migrants

      ¤ Sarah ¤

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      (1) Source : reportage RTS, 18/02/2018

      (2) Association locale responsable du plaidoyer et de la sensibilisation sur la question des personnes migrantes à Briançon

      https://derootees.wordpress.com/2018/04/19/chroniques-de-frontieres-alpines-1-reprimer-les-solidarites-la-

    • Bardonecchia, estremisti di destra francesi al confine con l’Italia: «Così respingiamo i migranti»

      Al Colle della Scala una rete di respingimento. «Prenderemo possesso del passo alpino e ci assicureremo che nessun clandestino possa entrare in Francia»

      Estremisti di destra francesi da questa mattina presidiano il confine con l’Italia al Colle della Scala per respingere i migranti che cercano di raggiungere la Francia.
      Si tratta di un centinaio di persone, al momento ferme in territorio transalpino, che hanno aderito alla campagna Defende Europe lanciata da Génération Identitaire, una formazione neofascista con addentellati in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia. “Prenderemo possesso del passo alpino e ci assicureremo che nessun clandestino possa entrare in Francia – dice un loro portavoce Romain Espino - Spiegheremo ai migranti che ciò che non è umano è far credere loro che attraversare il Mediterraneo o scalare il passo innevato non sia pericoloso. Non troveranno un El Dorado”. I militanti di destra stanno installando delle reti per segnare il confine tra i due Stati: “Le nostre squadre stanno perlustrando la zona e fermeranno ogni tentativo di entrare illegalmente in Francia – scrivono in un comunicato - Dall’estate del 2017 il flusso di clandestini che percorre questo passaggio continua a crescere. Oltre 2mila immigrati clandestini sono già stati ufficialmente registrati. Quanto sono in realtà quelli arrivati? Il Governo Macron si rifiuta di proteggere il confine: gli dimostriamo che con la volontà è perfettamente possibile. Piuttosto che sbloccare fondi per creare nuovi centri di accoglienza per i migranti clandestini, dovrebbe rimpolpare i bilanci della polizia di frontiera”.
      L’idea, per ora, è quella di respingere in Italia i migranti – che peraltro da alcuni mesi usano la rotta di Montgenevre e non del Colle della Scala, troppo difficile da attraversare con le temperature invernali e con la neve: “Chiediamo lo stop dell’immigrazione di massa e il blocco definitivo del passaggio del Colle della Scala. Nessun clandestino deve poter entrare illegalmente in Francia percorrendo questa strada – precisano - I francesi non vogliono più immigrazione Il posto di questi migranti clandestini non è né in Francia, né in Italia, ma nel loro paese d’origine”. La situazione è monitorata dalla Gendarmerie francese che dovrebbe impedire sconfinamenti, ma difficilmente gli attivisti raggiungeranno il territorio italiano che si trova a circa 4 chilometri dalla sommità della montagna. Né il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, né il suo omologo oltre confine di Nevache, Jean-Louis Chevalier, erano stati informati dell’iniziativa.
      Nelle scorse settimane, dopo le polemiche per il blitz dei doganieri francesi alla stazione di Bardonecchia, i primi cittadini dei due versanti della Alpi avevano
      rinnovato la loro amicizia e collaborazione con un incontro proprio nella città dell’Alta Valsusa. “L’immigrazione è un problema che non possiamo affrontare da soli – avevano spiegato – Serve l’intervento degli Stati, ma noi non smetteremo mai di soccorrere le persone in difficoltà perché questo è il nostro dovere”. Posizioni molto diverse, insomma, da quelle della formazione di estrema destra che manifesta ora.


      http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/04/21/news/bardonecchia_estremisti_di_destra_francesi_al_confine_con_l_italia

    • Des militants d’extrême droite bloquent un col des Alpes, lieu de passage de migrants

      Des militants de Génération Identitaire ont investi samedi un col des Hautes-Alpes emprunté par les migrants cherchant à passer d’Italie en France, suscitant l’indignation d’une partie de la gauche.
      En matinée, une centaine de militants d’extrême-droite ont pris position au col de l’Echelle, culminant à 1.762 mètres à six kilomètres de la frontière italienne.
      L’endroit est devenu un « point stratégique de passage des clandestins » depuis plusieurs mois. Génération Identitaire entend « veiller à ce qu’aucun (d’entre eux) ne puisse rentrer en France », a expliqué à l’AFP un porte-parole, #Romain_Espino. Ce dernier dénonce « un manque de courage des pouvoirs publics » car « avec un petit peu de volonté, on peut contrôler l’immigration et les frontières ».

      Le groupe de militants, qui réclame « le blocage définitif » de ce col, compte majoritairement des Français, mais aussi des Italiens, Hongrois, Danois, Autrichiens, Anglais et Allemands.

      Matérialisation d’une « #frontière_symbolique »

      Après avoir gravi en raquettes le col enneigé, ils ont matérialisé une « frontière symbolique » avec du grillage de chantier pour « notifier » aux migrants « que la frontière est fermée et qu’ils doivent rentrer chez eux ».

      Une banderole géante, déployée à flanc de montagne, relaie ce message en anglais. Et si certains migrants devaient passer outre, « nous appellerions la gendarmerie (...). La justice fera après son travail », a assuré Romain Espino.

      Deux hélicoptères affrétés par GI survolaient le site samedi à la mi-journée. Des drones devaient suivre, ainsi qu’un avion biplace dimanche.

      Pour M. Espino, il s’agit d’« expliquer aux migrants éventuels que ce qui n’est pas humain, c’est de faire croire à ces gens qui traversent la Méditerranée ou les Alpes enneigées que ces parcours ne présentent aucun risque. C’est faux ». « Ils ne vont pas trouver l’Eldorado, c’est immoral. Ceux qui en payent les frais, ce sont les Français », a-t-il ajouté.

      Les services de l’Etat « pleinement mobilisés »

      Cette opération a fait réagir sur les bancs de la gauche, dans l’hémicycle de l’Assemblée, en plein débat prolongé sur le projet de loi asile-immigration.

      Le chef de file des Insoumis, Jean-Luc Mélenchon, a fustigé la « petite bande d’une centaine de personnes », des « amis de Madame Le Pen », qui « prétend régler le problème de la frontière » et « repousser dans la neige de pauvres gens qui s’y trouvent ». Ce à quoi, Gilbert Collard (FN) a vertement répliqué, accusant M. Mélenchon de « planer ».

      La ministre auprès du ministre de l’Intérieur, Jacqueline Gourault, a assuré que « les services de l’Etat (étaient) pleinement mobilisés pour assurer l’ordre public au col de l’Echelle ». Sur place, aucune force de l’ordre n’était visible samedi après-midi.

      Depuis un an, les #Hautes-Alpes connaissent un afflux exponentiel de migrants, essentiellement d’Afrique de l’Ouest. Selon la préfecture, 315 personnes en situation irrégulière ont été refoulées vers l’Italie en 2016 et 1.900 en 2017.

      Reconnaissant que la pression migratoire reste « forte » à la frontière franco-italienne, le ministre de l’Intérieur Gérard Collomb, s’est inquiété vendredi soir à l’Assemblée de la poursuite de la coopération franco-italienne avec la montée des populismes en Europe. « En 2017, 50.000 non-admissions ont été prononcées à cette frontière. Parce que cette pression reste forte, nous avons décidé de renouveler les contrôles aux frontières pour six mois », a-t-il dit.

      Fondé en 2012, Génération identitaire (GI) avait affrété en juillet 2017 le navire C-Star dans le cadre de sa campagne « Defend Europe » en Méditerranée, pour dissuader les ONG de secourir les migrants en mer. Arrivée le 5 août au large de la Libye, l’opération avait pris fin le 17 août.

      Le mouvement privilégie des actions au fort retentissement médiatique, comme la construction d’un mur devant un futur centre d’accueil pour demandeurs d’asile à Montpellier en septembre 2016 ou encore, à l’hiver 2013, des maraudes pour venir en aide aux sans-abris, destinées uniquement aux « Français de souche ».

      Le coût de l’opération « #Alpes_Defend_Europe » est estimé au minimum à 30.000 euros par les organisateurs, financé « sur fonds propres des militants, avec des parrains et des donateurs ».
      AFP


      http://www.liberation.fr/france/2018/04/21/des-militants-d-extreme-droite-bloquent-un-col-des-alpes-lieu-de-passage-

      Depuis un an, les #Hautes-Alpes connaissent un afflux exponentiel de migrants, essentiellement d’Afrique de l’Ouest. Selon la préfecture, 315 personnes en situation irrégulière ont été refoulées vers l’Italie en 2016 et 1.900 en 2017.

      –-> "#afflux_exceptionnel pour la vallée et pour les personnes mobilisées à leur venir en aide, mais c’est un chiffre ridiculement bas à l’échelle de la France !
      #préjugés #afflux #invasion

    • Alpes : des militants d’extrême droite bloquent le col de l’Echelle, lieu de passage de migrants

      Plusieurs politiques, notamment sur les bancs de l’Assemblée lors du débat sur le texte asile-immigration, ont fait part de leur indignation après l’action de Génération identitaire.

      L’action d’une centaine de militants de Génération identitaire (GI), samedi 21 avril, au le col de l’Echelle (Hautes-Alpes), s’est invitée dans les débats sur la loi asile et immigration à l’Assemblée nationale. Alors que des membres du mouvement d’extrême droite bloquaient ce point de passage de migrants, pour « veiller à ce qu’aucun clandestin ne puisse rentrer en France », Jean-Luc Mélenchon a interpellé le ministre de l’intérieur, Gérard Collomb.

      Le président de la France insoumise a demandé au gouvernement « ce qu’il compte faire pour empêcher que dorenavant les frontières soient protégées par les amis de Marine Le Pen ». L’intervention des militants de Génération identitaire a suscité une vague de réactions indignées de la part de plusieurs politiques.

      Ce col, qui culmine à 1 762 mètres et est situé à six kilomètres de la frontière, est un « point stratégique de passage des clandestins » depuis l’Italie, a fait valoir un porte-parole de GI, Romain Espino, en dénonçant « un manque de courage des pouvoirs publics ». « Avec un petit peu de volonté, on peut contrôler l’immigration et les frontières. »
      Le groupe de militants, composé majoritairement de Français, compte aussi des Italiens, Hongrois, Danois, Autrichiens, Anglais et Allemands.
      Après une ascension commencée après 9 heures, en raquettes sur la neige, ses membres ont matérialisé une « frontière symbolique » à l’aide de grillage en plastique de chantier et prévoient de passer la nuit au col. Il s’agit d’« expliquer aux migrants éventuels que ce qui n’est pas humain, c’est de faire croire à ces gens qui traversent la Méditerranée ou les Alpes enneigées que ces parcours ne présentent aucun risque. C’est faux », a déclaré Romain Espino. « Ils ne vont pas trouver l’Eldorado, c’est immoral. Ceux qui en paient les frais, ce sont les Français », a-t-il ajouté.

      Selon la préfecture des Hautes-Alpes, l’opération s’est « jusqu’à présent déroulée dans le calme » et une « partie » des militants avaient « déjà quitté le site » en début de soirée. « La préfecture et les forces de l’ordre continuent de suivre avec attention et vigilance la poursuite de cette opération, afin de prévenir tout trouble à l’ordre public et de garantir le respect du droit », souligne-t-elle dans un communiqué. Sur place, aucune force de l’ordre n’était visible samedi après-midi.

      « Sale climat »

      Au délà des bancs de l’Assemblée, de nombreux politiques, principalement de gauche, ont dénoncé l’intervention des militants d’extrême droite. La sénatrice socialiste de l’Oise et ancienne ministre des familles a évoqué un « sale climat » dans un tweet. La sénatrice Europe Ecologie-Les Verts, Esther Benbassa a elle aussi fait un parralèle entre les étudiants occupants leur université et qui sont délogés et « la milice partant à la chasse aux migrants », pour qui « c’est ok ? », dénoncant un Etat de droit à deux vitesses. La secrétaire nationale du Parti de Gauche, Laurence Pache interpelle Gérard Collomb, qu’elle accuse de « laisser faire la chasse au migrants ».

      Ian Brossat, adjoint communiste à la mairie de Paris dénonce « un déni de saloperie », qui ne serait pas autant condamné que « le délit de solidarité ». Nathalie Goulet, sénatrice UDI de l’Orne déplore « des pratiques ignobles et indignes ». Le député LREM des Bouches du Rhône, François-Michel Lambert parle, lui, « d’une bande de connards ». La ministre auprès du ministre de l’intérieur, Jacqueline Gourault, a assuré que « les services de l’Etat (étaient) pleinement mobilisés pour assurer l’ordre public au col de l’Echelle ».
      La pression migratoire reste « forte »

      Depuis un an, les Hautes-Alpes connaissent une augmentation exponentielle d’arrivées de jeunes, majoritairement de Guinée (Conakry) et de Côte d’Ivoire (pourtant première puissance économique d’Afrique de l’Ouest). Ces nationalités arrivent loin devant celles des autres migrants, très majoritairement ouest-africains. Selon la préfecture, 315 personnes en situation irrégulière ont été refoulées vers l’Italie en 2016 et 1 900 en 2017.

      La pression migratoire reste « forte » à la frontière franco-italienne dans son ensemble, a indiqué vendredi soir le ministre de l’intérieur Gérard Collomb, rappelant que 50 000 non-admissions avaient été prononcées en 2017. « Nous avons décidé de renouveler les contrôles aux frontières pour six mois », a-t-il ajouté devant les députés lors des débats du projet de loi asile immigration, texte très controversé qualifié à la fois de « petite loi » par Les Républicains et d’« inhumaine » par la gauche.

      Fondé en 2012, Génération identitaire (GI) avait affrété en juillet 2017 le navire C-Star dans le cadre de sa campagne « Defend Europe » en Méditerranée, pour dissuader les ONG de secourir les migrants en mer. Arrivée le 5 août au large de la Libye, l’opération avait pris fin le 17 août. Le mouvement privilégie des actions au fort retentissement médiatique, comme la fabrication d’un mur devant un futur centre d’accueil pour demandeurs d’asile à Montpellier en septembre 2016 ou encore, à l’hiver 2013, des maraudes pour venir en aide aux sans-abri, destinées uniquement aux « Français de souche ».

      http://www.lemonde.fr/europe/article/2018/04/21/alpes-des-militants-d-extreme-droite-vont-bloquer-le-col-de-l-echelle-lieu-d

    • Hautes-Alpes : des militants d’extrême droite grimpent le col de l’Echelle pour « barrer la route » des migrants

      Contactée par franceinfo, la sous-préfecture de Briançon a confirmé « être au courant » et « suivre l’affaire » mais a refusé de « commenter » l’opération, qui rappelle celles des milices anti-migrants, observées en Bulgarie, en 2016.

      « Les quelques fois où on a fait des rassemblements pacifistes, avec un discours d’accueil, les forces de l’ordre étaient là pour vérifier les papiers, dénonce Anne Chavanne, responsable de l’association Tous Migrants, auprès de franceinfo. Il y avait un barrage de police qui filtrait les voitures. Aujourd’hui ça ne semble pas être le cas. »

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/hautes-alpes-des-militants-d-extreme-droite-veulent-barrer-la-route-des

    • Chronologie des événements publiée sur le site du Dauphiné :

      Névache : des militants identitaires bloquent le col de l’Echelle, lieu de passage de migrants

      20 h 30 : Les militants de Génération identitaire sont toujours présents au col de l’Echelle où ils comptent passer la nuit. Les membres du groupement constituent des équipes pour se relayer au sommet du col et annoncent vouloir le faire survoler par un avion dans la journée de demain.

      19 h 50 : Les deux hélicoptères utilisés par Génération identitaire pour survoler le col de l’Echelle ont été loués à la société Héli-Max, basée à l’aérodrome de Saint-Crépin (Hautes-Alpes).

      Contacté par téléphone, le gérant assure ne pas avoir été au courant de l’utilisation qui allait être faite de ses appareils. Dans le cas contraire, il aurait alors refusé la location nous a-t-il assuré.

      « Comment ça se fait que l’Etat les ont laissé aller là-haut ? »

      19 h 40 : Joint par téléphone, Michel Rousseau, l’un des porte-parole du collectif Tous migrants, s’étonne cependant de la réaction des services de l’Etat face à l’occupation de Génération identitaire au col franco-italien : « Comment ça se fait que l’Etat les ont laissé aller là-haut ? Qu’ils peuvent faire survoler le col avec des hélicoptères et faire la police à la frontière ? Lorsqu’il y a eu des manifestations en faveur des migrants, il y avait des CRS présents. Là, on ne les a pas vu à Névache. »

      Michel Rousseau réitère la volonté du collectif de ne pas entrer dans la provocation : « Ce n’est pas à nous de faire la police. On ne va pas rentrer dans leur jeu. Le principal, cependant, est que la sécurité des personnes qui sont recueillies soit assurée. »

      19 h 30 : Dans un communiqué, la préfecture des Hautes-Alpes réagit à l’action menée depuis ce matin au col de l’Echelle.

      « La préfecture et les forces de l’ordre continuent de suivre avec attention et vigilance la poursuite de cette opération, afin de prévenir tout trouble à l’ordre public et de garantir le respect du droit. Elle s’est jusqu’à présent s’est déroulée dans le calme. Une partie des membres de Génération Identitaire ont déjà quitté le site. »

      Les bénévoles pro-migrants réunis devant le Refuge solidaire

      18 H 55 : Des bénévoles des différents mouvements brianconnais venant en aide aux migrants se sont donné rendez-vous au Refuge solidaire afin débattre des suites à donner à l’action de Génération Identitaire au col de l’échelle.

      Leur principal inquiétude est de protéger les lieux recueillant les migrants venant de traverser la frontière, notamment Chez Marcel et le Refuge solidaire.

      "On en a vu [des militants identitaires] faire des repérages dans la ville et devant le refuge" assure un militant "pro-migrants".

      De son côté, le collectif Tous Migrants appelle à ne pas céder à la provocation du mouvement d’extrême-droite.

      17 H : L’actualité du col de l’Echelle s’est invitée à l’assemblée Nationale et a donné lieu à un bras-de-fer entre Jean-Luc Mélenchon et Gilbert Collard

      15 h 30 : Un groupe de militants Génération identitaire « s’est également placé du côté italien pour prévenir les migrants que la frontière est fermée », nous a précisé Clément Galant, porte-parole du mouvement extrémiste. Celui-ci affirme qu’une « dizaine de migrants » ont tenté de franchir la frontière : « Ils ont fait demi-tour ».

      14 heures : D’après un correspondant de l’AFP les membres du groupe identitaire ont matérialisé une « frontière symbolique » à l’aide de grillage en plastique de chantier et ont déployé une banderole géante.

      Les militants restés en bas du col de l’échelle, nous ont également confié que des hélicoptères, ainsi que des drones, affrétés par Defend Europe, survolaient le site. Selon les propos recueillis par l’AFP auprès des organisateurs, cette opération se chiffrerait au minimum à 30 000 euros.

      Les militants de Génération identitaire ont affrété des hélicoptères et déployé un filet le long de la frontière.

      12 heures : Antoine, se présentant comme un militant identitaire, nous a affirmé « qu’avec de la volonté, on peut bloquer une frontière ». Souhaitant se positionner à la frontière franco-italienne, les militants d’extrême droite veulent empêcher le passage de migrants par le col de l’Échelle. « Si certains passent en force, on préviendra la gendarmerie et nous les suivrons jusqu’à ce que la gendarmerie intervienne », assure Antoine.

      Le col de l’Échelle est l’un des points de passage des migrants venus d’Italie, avec le col de Montgenèvre, dans les Hautes-Alpes. Cependant, le col de la vallée de la Clarée est encore complètement enneigé et, cet hiver, le flux de migrants passant par Briançon s’est concentré à Montgenèvre.

      11 heures : Des militants des mouvements d’extrême-droite Defend Europ et Génération identitaire sont actuellement au col de l’Échelle, à la frontière franco-italienne, pour mener une action coup de poing sous le nom de « Mission Alpes ».

      Comme le révélait nos confrères de La Provence, les militants sont une centaine, depuis ce samedi matin, à grimper le col en raquettes « pour contrôler la frontière ».

      « Nous allons prendre possession du col et veiller à ce qu’aucun clandestin ne puisse entrer en France. Nous allons expliquer aux migrants que ce qui n’est pas humain c’est de leur faire croire que traverser la Méditerranée ou grimper le col enneigé n’est pas dangereux. Ils ne vont pas trouver un Eldorado », explique l’un des porte-parole de Génération identitaire Romain Espino au quotidien régional.

      Contacté par Le Dauphiné Libéré, le maire de Névache, Jean-Louis Chevalier, n’était « pas au courant d’une telle manifestation », même s’il a constaté la présence d’une quinzaine de véhicules au bas du col de l’Échelle.


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/04/21/nevache-des-militants-de-generation-identitaire-au-col-de-l-echelle-migr

    • Migranti, militanti di estrema destra “bloccano” il confine tra Italia e Francia: “Stop all’immigrazione di massa”

      Un gruppo di attivisti di di «Génération Identitaire» ha piantato nella neve una rete di plastica per simboleggiare un muro di frontiera e posato sulla neve uno striscione con la scritta «Closed Border» (Frontiere chiuse). E’ lo stesso movimento che la scorsa estate aveva affittato la nave C-Star cui aveva affidato il compito di ostacolare i salvataggi dei migranti nel Mediterraneo e di cui non si è saputo più nulla.

      Un gruppo di militanti di estrema destra, attivisti di di Génération Identitaire, manifestano contro il passaggio dei migranti al confine tra Italia e Francia, nella regione di Haute-Alpes. In gran parte sono francesi, ma a loro si sono uniti anche attivisti giunti da altre nazioni europee. Oltre allo striscione posato sulla neve con la scritta “Closed Border” (Frontiere chiuse), i manifestanti hanno piantato nella neve una rete di plastica arancione, di quelle usate normalmente per delimitare i cantieri, piazzata per simboleggiare un muro di frontiera. Lo scopo dichiarato: respingere i migranti che cercano di raggiungere la Francia. Hanno anche noleggiato un elicottero che ha sorvolato la zona.

      I manifestanti hanno aderito alla campagna ‘Defende Europe. Mission Alpes’ promossa dal movimento nato nel 2012 in Francia “per combattere la massiccia immigrazione e l’islamizzazione dell’Europa”. Lo stesso movimento estremista che la scorsa estate aveva affittato la nave C-Star cui aveva affidato il compito di ostacolare i salvataggi dei migranti nel Mediterraneo e di cui non si è saputo più nulla. La protesta è a 25 chilometri da Briancon (Francia) e a 14 da Bardonecchia (Torino). “Fermeremo qualsiasi tentativo di entrare in Francia illegalmente – spiega un comunicato pubblicato sul loro sito – dall’estate del 2017 il flusso di immigrati che utilizzano questo passaggio continua a crescere. Il governo Macron si rifiuta di rendere sicuro il confine; gli dimostreremo che, volendo, è perfettamente possibile”. Il movimento di estrema destra francese chiede “lo stop dell’immigrazione di massa e il blocco definitivo del Colle della Scala”.

      Gli attivisti di Generazione Identitaria Italia, succursale italiana del movimento, hanno incontrato questa mattina i clandestini nella città di Oulx, punto di passaggio per la Francia. Li hanno avvertiti che il colle della scala era stato chiuso e che fosse quindi inutile tentare la sua scalata.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/04/21/migranti-militanti-di-estrema-destra-bloccano-il-confine-tra-italia-e-francia-stop-allimmigrazione-di-massa/4307834/6/#foto

    • Un message de #SAF_HELICOPTERES et #HELI-MAX, posté sur FB :


      https://www.facebook.com/cristina.delbiaggio/posts/10155118272790938?notif_id=1524405721909076&notif_t=feedback_reaction_gene
      #escroquerie

      Europe 1 reprend la nouvelle sur son site :

      La société qui a loué des hélicoptères à Génération identitaire se dit victime d’une escroquerie

      La société qui regroupe les entreprises SAF Hélicoptères et Heli-Max, qui a loué des hélicoptères aux militants de Génération identitaire samedi pour leur opération anti-migrants s’est dite "victime d’une escroquerie. Sur Facebook, la société a indiqué avoir été contactée par les militants pour « une simple mission de prises de vues aériennes banales avec deux hélicoptères ». L’entreprise indique ne pas cautionner « ces mouvements extrémistes » et envisage de porter #plainte.

      http://www.europe1.fr/societe/les-militants-de-generation-identitaire-ont-quitte-le-col-de-lechelle-363278

      signalé par @isskein

    • Chasse aux migrants dans les Alpes : les xénophobes au sommet

      Prétendant « contrôler la frontière », l’organisation de jeunesse du mouvement d’extrême droite Les Identitaires s’est mise en scène sur l’une des voies de passage entre France et Italie qu’empruntent les migrants.

      Col de l’Echelle, 1 762 mètres d’altitude, dimanche matin. Trente-cinq minutes de montée sur la route fermée et enneigée qui mène vers l’Italie depuis Névache, en vallée de la Clarée (Hautes-Alpes), suffisent à rallier le camp sommaire monté la veille par les militants de Génération identitaire (GI), organisation de jeunesse du mouvement d’extrême droite les Identitaires. La vraie frontière avec l’Italie est à trois kilomètres, au pied de l’autre versant du col, mais le lieu, l’une des voies de passage entre France et Italie pour les migrants, est symbolique. C’est ici que les identitaires ont décidé de monter le décor d’une des opérations de communication dont ils se sont fait une spécialité.

      Une barrière souple de chantier orange de deux cents mètres court d’un bord à l’autre de la haute vallée, à l’exception d’une interruption au milieu, qui figure un checkpoint encadré de deux tentes-mess. Autour d’un feu qui a creusé un cratère dans la neige durcie par le gel, 50 jeunes militants, dont quelques femmes, attendent l’arrivée du soleil. La plupart sont français, mais il y a quelques Hongrois, Allemands, Italiens, Autrichiens et Britanniques. Tous portent la même veste bleue flambant neuve, siglée « Defend Europe – mission Alpes ». Ils ont passé la nuit là, côté Clarée. De l’autre coté de leur barrière, des dizaines de panneaux carrés sont plantés, affichant « No way. Frontière fermée. Vous ne ferez pas de l’Europe votre pays. Rentrez dans votre pays. »
      « Juste un show pour les journalistes »

      Le porte-parole de GI, Clément Galant, répond de bonne grâce aux questions : « Notre but c’est d’avoir de l’écho, et nous avons réussi. Nous voulons montrer que ce que les dirigeants politiques ne font pas, à savoir matérialiser la frontière, est possible puis que des militants politiques le font. Un simple checkpoint fait que les migrants se posent des questions ! » Il poursuit : « Nous contrôlons la frontière, on reste dans la légalité. Si des migrants veulent poursuivre, nous les suivrons et alerterons la gendarmerie. » Il assure que la veille, un groupe de GI a découragé « une dizaine » de migrants au pied du col, versant italien.

      Mensonge, selon Paolo Narcisi, de l’ONG Rainbow for Africa, qui prend soin des migrants à Bardonecchia, première ville italienne derrière le col : « Nous n’avions que cinq migrants la nuit dernière. Les identitaires était bien au pied du col, mais ils n’ont repoussé personne. C’est juste un show pour les journalistes ! ». Samedi, les militants de GI ont même croisé sans rien faire un migrant pakistanais qui passait le col vers la France, selon un membre du réseau de citoyens de Névache qui secourent les migrants…
      Posture martiale et jumelles

      « Des habitants sont venus nous apporter leur soutien », assure encore Galant. Impossible à vérifier, mais un homme s’approche : Michel, habitant de Névache. Il est venu voir et souffle : « On se croirait dans les années 30, ça me fait vomir. » Il a un échange avec un identitaire : « Vous n’empêcherez jamais la misère du monde de passer. Des cols, il y en a plein d’autres, autour… C’est ridicule. » Le militant lui dévide des phrases déjà entendues dans la bouche de son porte-parole qui vient de tourner le dos, sollicité pour « faire un rappel des éléments de langage à l’équipe ». Il veille ensuite à mettre en scène son groupe, aligné sur la « frontière », posture martiale, jumelles, pour le drone vidéo de GI. Il poursuit : « On va rester autant que nécessaire ; des jours ou des semaines, on est prêts ! ». Mensonge encore : un quart d’heure plus tard, le « camp » est plié, la barrière plastique enroulée : le démontage du décor ne prend que quelques minutes.

      De retour à Névache, la troupe retrouve 40 militants supplémentaires, qui étaient redescendus dormir en vallée, et prend la pose pour la photo et la vidéo-drone officielle. Galant, interpellé sur ses mensonges, répond sèchement : « Tout ce que nous faisons est construit, réfléchi. » La séance finie, tous les militants s’engouffrent dans leurs véhicules. Les gendarmes présents ont pour consigne de les escorter « jusqu’aux limites du département » pour éviter tout trouble à l’ordre public.
      « Regard humain »

      Il est 13h30 et c’est sur un autre col frontalier, celui de Montgenèvre, situé à quelques kilomètres et ouvert celui-là au trafic routier, qu’une petite centaine de militants pro-migrants italiens et français improvisent la réponse aux identitaires : ils passent en cortège la frontière, accompagnant une quinzaine de migrants et scandant « Brisez les frontières ! ». Un éphémère cordon de gendarmes tente de bloquer la manif qui le déborde sans violence et poursuit sa route vers Briançon. Le sous-préfet, Jean Bernard Iché : « Notre mission était d’éviter tout contact potentiellement explosif entre les identitaires, engagés dans une opération de communication parfaitement orchestrée, et les pro-migrants. L’ordre public est assuré : le col de l’Echelle est libre, les identitaires reconduits hors du département, la manifestation des pro-migrants canalisée pour éviter les violences et dans le respect du droit qu’ont les migrants désireux de déposer une demande d’asile de le faire. » Le tout avec « un regard humain », assure-t-il. Samedi soir à l’Assemblée, l’opération des identitaires avait suscité une réaction de condamnation de Gérard Collomb, le ministre de l’Intérieur estimant que « tomber dans le panneau de ces gesticulations, c’est faire une publicité à une force qui n’en est pas une ».

      http://www.liberation.fr/france/2018/04/22/chasse-aux-migrants-dans-les-alpes-les-xenophobes-au-sommet_1645146

    • Migrants dans les Alpes françaises : renforts « importants » pour contrôler les frontières

      Le ministre de l’intérieur Gérard Collomb a annoncé ces mesures, alors que dans les Alpes, des militants d’extrême droite ont bloqué ce week-end le col de l’Echelle.
      Alors que les Hautes-Alpes, ont été le théâtre ce week-end d’actions menées par des activistes d’ultra droite et d’autres pro-migrants, le ministre de l’intérieur, Gérard Collomb a annoncé des renforts « importants » pour « s’assurer du respect absolu du contrôle des frontières ».

      « Des renforts de police et de gendarmerie importants seront mis en place dès ce soir, en provenance des départements voisins, afin de prêter leur concours, avec la retenue nécessaire, aux forces déjà en place et s’assurer du respect absolu du contrôle des frontières », a affirmé le ministre de l’intérieur dans un communiqué.

      Politiques indignés

      Les militants d’extrême droite de Génération Identitaire (GI) ont bloqué ce week-end le col de l’Echelle, lieu de passage de migrants pour passer d’Italie en France. Le groupuscule d’extrême droit avait déclaré qu’il souhaitait « veiller à ce qu’aucun clandestin ne puisse rentrer en France ».

      Ce col, qui culmine à 1 762 mètres et est situé à six kilomètres de la frontière, est un « point stratégique de passage des clandestins » depuis l’Italie, avait fait valoir un porte-parole de GI, Romain Espino, en dénonçant « un manque de courage des pouvoirs publics ». « Avec un petit peu de volonté, on peut contrôler l’immigration et les frontières. » Cette opération a fait réagir, samedi, sur les bancs de la gauche, dans l’hémicycle de l’Assemblée, en plein débat prolongé sur le projet de loi asile et immigration.

      Génération identitaire a annoncé, dimanche 22 avril, que les militants quittaient les lieux en début d’après-midi. Le porte-parole de ce groupuscule d’extrême droite a précisé que « depuis son installation », le groupe n’a « pas été en contact avec des migrants ». Toutefois, se félicite-t-il, « la mission est une réussite, nous avons réussi à attirer l’attention médiatique et politique sur le col de l’Echelle ».
      « Provocations, gesticulations »

      Le même jour, « un groupe de plus d’une centaine d’activistes pro-migrants français et italiens s’est présenté ce midi au Col du Montgenèvre, en provenance d’Italie, en vue de faire franchir la frontière illégalement et en force à une trentaine de migrants », a précisé le ministre.

      A cette occasion, a-t-il dit, « des violences ont été commises vis-à-vis des forces de l’ordre et un véhicule de la gendarmerie nationale a été dégradé. Ces individus ont ensuite poursuivi leur action en direction de Briançon où leur présence fait l’objet de la plus grande vigilance ».

      M. Collomb « condamne avec la plus grande fermeté l’ensemble des provocations, gesticulations et incidents qui ont marqué ce week-end dans les Hautes-Alpes et dont des groupes d’activistes d’ultra droite et d’ultra gauche sont respectivement à l’origine ».

      Le ministre de l’intérieur, qui défend son projet controversé sur l’asile et l’immigration à l’Assemblée nationale, a rappelé « sa volonté de combattre ceux qui souhaitent faire échec aux contrôles des frontières comme ceux qui prétendent se substituer aux forces de l’ordre dans ces missions ».

      http://www.lemonde.fr/immigration-et-diversite/article/2018/04/22/migrants-dans-les-alpes-francaises-renforts-importants-pour-controler-les-fr

    • Monginevro: migranti e solidali passano il confine sfondando il blocco della Gendarmerie

      Centinaia di migranti e solidali sfondano i cordoni della Gendarmerie al confine italo-francese; i fascisti di Defend Europe fanno i bagagli e rimuovono il «blocco» alla frontiera.

      Nella giornata di ieri un gruppo di fascisti italiani e francesi della rete Defend Europe/Generazione Identitaria aveva raggiunto il colle della Scala, al confine tra Italia e Francia, installando una rete da cantiere lunga diverse decine di metri con l’intenzione di bloccare l’attraversamento della frontiera attraverso la montagne da parte dei migranti. Una pagliacciata degna di questi infami, che peraltro hanno pensato bene di piazzarsi in un punto della montagna a rischio valanghe che da tempo non viene più utilizzato dai migranti che cercano di raggiungere la Francia. I media nostrani hanno però subito abboccato, dedicando alla notizia tutti gli onori del caso. Una provocazione inaccettabile per un territorio come la Valle di Susa da sempre fieramente antifascista, e per i tanti solidali che in questi mesi si sono organizzati per sostenere i migranti al confine.

      In seguito alla notizia era stato quindi lanciato un appello immediato a mobilitarsi per raggiungere il confine e cacciare i fascisti e nella tarda mattinata di oggi una carovana composta da circa 300 migranti e solidali è partita da Claviere in direzione della frontiera. All’altezza di Monginevro il corteo ha sfondato il cordone della gendarmerie schierato a difesa del confine, prima costringendolo a indietreggiare per diversi metri e poi travolgendo gli agenti della polizia francese e aggirando il blocco. Nonostante alcuni tentativi della gendarmerie di effettuare fermi in maniera disordinata, tutte le persone della carovana sono riuscite a passare e il corteo ha proseguito in direzione di Briancon, dove si trova ancora in questo momento. Nel frattempo è arrivata la notizia che i fascisti di Defend Europe, dopo aver presidiato per alcune ore la frontiera sbagliata, avevano già fatto i bagagli rimuovendo il blocco.

      A pochi giorni dal 25 aprile la giornata di oggi ha violato il dispositivo di un confine che governanti, fascisti e polizia vorrebbero impermeabile, per ribadire che nessuno spazio verrà lasciato a chi vorrebbe alzare muri e fare della Valle di Susa la caserma d’Europa.

      Aggiornamento ore 20:30 SITUAZIONE GRAVISSIMA. Dopo la clamorosa figura che hanno fatto oggi i gendarmi e i fascisti, i vigliacchi di Francia tornano alla carica.
      La polizia francese si sta scatenando in una caccia all’uomo nel centro di Briançon. Cercano gli italiani. Ci segnalano già diversi fermi.
      Per quanto riguarda i fascisti, dopo essersi squagliati come neve al sole davanti ai valsusini stanno ora minacciando di attaccare con bombe incendiarie uno dei ricoveri in cui fanno tappa in migranti nel loro percorso. Seguiranno aggiornamenti, intanto facciamo girare queste informazioni…


      https://www.infoaut.org/prima-pagina/monginevro-migranti-e-solidali-passano-il-confine-sfondando-il-blocco-della

      Sur ce site, il y a aussi une vidéo, avec interview à un Italien ("valsusien") qui a participé à la manifestation:


      Il dit:

      «Siamo valsusini e le montagne decidiamo noi come viverle, non lasciamo che 30 persone arrivino sulle nostre montagne, tra l’altro al Colle della Scala dove non passa nessuno da parecchio tempo, dicendo che stanno bloccando le frontiere. Erano una trentina questi esaltati, noi oggi siamo riusciti a far passare 50 persone. Siamo stati sulla strada, siamo arrivati da Clavière fino a Briançon. Man mano che siamo entrati nel paese anche la gente francese, la gente di Briançon si è unita al corteo e... una bellissima giornata. Siamo riusciti ad ottenere quello che volevamo. Ogni volta che queste persone decideranno di fare qualche pagliacciata mediatica come quella che abbiamo fatto in questi giorni sappiano che la risposta sarà questa. Queste montagne non sono per i fascisti, sono montagne partigiane. Lo sono sempre state e lo rimarranno sempre.»

      Lien vers la vidéo: https://www.infoaut.org/media/k2/videos/20077.mp4


      #partisans

    • Dans les Alpes, des militants d’extrême-droite veulent bloquer le passage des migrants : en ont-il le droit ?

      Ce week-end, des membres du groupuscule raciste et anti-immigration Génération identitaire ont pris position sur le col de l’Échelle, dans les Alpes françaises, afin d’empêcher que des migrants venant d’Italie ne traversent la frontière et rentrent en France. Mais de simples citoyens peuvent-ils contrôler les frontières ?

      http://www.infomigrants.net/fr/post/8816/dans-les-alpes-des-militants-d-extreme-droite-veulent-bloquer-le-passa

    • On a marché sur la gueule de la frontière [MàJ]

      Seule la lutte et la solidarité paient : 240 oiseaux de liberté et chat·tes sauvages ont relié Clavières, Italie, à Briançon, France, en manif’ sauvage, permettant à 40 exilé·es de franchir une nouvelle étape. Les flics se sont laissés déborder, les fachos n’ont pas réagi. Pour aujourd’hui, la peur a changé de camp.
      Photo volée à ces fachos de D !CI

      Ces derniers jours, l’État français a amorcé une fermeture particulièrement sévère de la frontière au col de Montgenèvre. Trois soirs de suite, la chasse à l’homme noir (mais pas que, deux groupes de Kurdes très soudés ont traversé) a mobilisé un ballet de scooters des neiges, police et chasseurs alpins armés en guerre mêlés.

      Samedi 21, deux initiatives se sont croisées du côté français du col. Ces fils de flics de Defend Europe sont venus se faire un coup de comm’ et se redorer la cerise à moindre frais, en montant un simulacre de garde au col de l’Échelle. En mobilisant quand même deux hélicoptères (normalement interdits dans la zone), un bus, un avion et en réservant tout un hôtel. Et ces acharné·es des squats d’Italie et des Hautes-Alpes et alentours ont jugé (et brûlé) la frontière à l’issue d’un chouette carnaval (j’écrirai sauvage si je ne craignais le pléonasme) à Gap. La préfète Bigote-Kayserine a décliné l’invitation à venir se défendre.

      Dans la nuit, la présence de 80 à 90 crânes vides près de Briançon à incité les carnavaleux à venir protéger avec quelques Briançonnais·es les principaux lieux hébergeant des exilé·es : refuge de la CRS, squat Chez Marcel, squat Chez Jésus en Italie.

      Le dimanche 22, un rassemblement Chez Jésus à Clavières part en manifestation sauvage : 170 Français·es, Italien·nes, exilé·es arrivant en France et exilé·es ayant des papiers, tous·tes solidaires. La manif part sur les pistes avant de prendre la route au milieu de Montgenèvre, suivant un itinéraire courant des arrivant·es. L’opposition policière est faible : moins de 50 decks, pas déters du tout, malgré la présence du PSIG (peloton spécial d’intervention de la gendarmerie). Le barrage de flics à pied est neutralisé à la sortie du tunnel de Montgenèvre par des militant·es, tandis que le reste de la manifestation le contourne et s’ouvre la route vers Briançon. La manif’ prend ensuite les lacets de la nationale 94 (19 km de marche en tout de Clavières à la CRS) et arrive à Briançon en se grossissant de renforts. En chemin, les flics suivent en marronnant derrière, les touristes montant à la station de ski patientent gentiment… sauf quelques identitaires isolés dans la circulation, dont une voiture pleine qui se fait un peu bousculer pour n’avoir pas su fermer sa grande gueule et contenir sa haine. À l’entrée de Briançon, sur le Champ de Mars, les flics se regroupent dans un coin et laissent passer 240 oiseaux de liberté et chat·tes sauvages. L’itinéraire classique passe devant la sous-préf’, le comico et la gendarmerie où les bleus sont tout affolés et ne savent comment mettre en place leur défense. Pour aujourd’hui, la peur a changé de camp. Et une quarantaine d’exilé·es ont changé de pays.

      Après s’être fait marcher deux fois sur la gueule dans la journée, les flics l’avaient mauvaise, comme les fachos qui se font voler la vedette dans le week-end. Les uns comme les autres brûlent leur gasoil dans la soirée en rondes dans la ville, jusqu’à ce qu’un militant qui emmerdait les autorités depuis trop longtemps à Briançon se fasse serrer par six flics véners sous les yeux de la manif qui discutait à deux pas. Tout se finit bien, et les No-Borders viennent le tirer de leurs sales pattes avec une menotte à un poignet et sous les jets de lacrymo.

      Clé de Mandrin


      http://lacanardesauvage.free.fr/spip.php?article414

      Déjà signalé par @sinehebdo, mais je copie-colle ici le contenu de l’article

    • Renforts dans les Alpes françaises, théâtre d’actions anti et pro-migrants

      Le gouvernement français a condamné dimanche les actions d’extrémistes de droite et de gauche hostiles et favorables aux migrants dans les Hautes-Alpes. Des renforts de police vont être déployés.

      https://www.rts.ch/info/monde/9511668-renforts-dans-les-alpes-francaises-theatre-d-actions-anti-et-pro-migrant

      Interview de #Romain_Espino et reportage vidéo de la RTS :
      "On a décidé aujourd’hui de montrer au pouvoirs publics que, avec un petit peu de volonté et des moyens quand même relativement sommaires, il est possible de reprendre le contrôle de nos frontières et d’empêcher les clandestins de rentrer dans notre pays"
      https://www.rts.ch/play/tv/12h45/video/un-mouvement-dextreme-droite-bloque-le-col-de-lechelle-entre-la-france-et-litali

      Petit commentaire sur ce courte reportage...

      La journaliste dixit : « Le Col de l’Echelle est devenu un autre emblème d’une pression migratoire exponentielle… »

      « Pression migratoire exponentielle »… alors que les statistiques montrent une diminution nette des arrivées en Europe (laissons de côté les raisons). Et alors qu’un militant antifa qui a participé aux actions côté italien a indiqué, dans une autre vidéo déjà signalée ici :
      "tra l’altro al Colle della Scala dove non passa nessuno da parecchio tempo »
      https://www.infoaut.org/media/k2/videos/20077.mp4


      #invasion #préjugés #afflux

      Et en vue de ce que le militant antifa dit, les mots du porte-parole de Générations identitaires, Romain Espino, sonnent juste ridicules :
      "On a décidé aujourd’hui de montrer au pouvoirs publics que, avec un petit peu de volonté et des moyens quand même relativement sommaires, il est possible de reprendre le contrôle de nos frontières et d’empêcher les clandestins de rentrer dans notre pays »
      Et c’est vrai que… pendant leur action, ils ne sont rentrés en contact avec aucun migrant…
      Je pense qu’on peut utilisé le tag #crétins_abissaux

      Et elle ajoute… le passage de « clandestins » (yes) via le col de l’Echelle a « creusé un fossé entre ceux qui souhaitent les aider et ceux qui souhaitent les aider »
      --> en réalité, ce n’est pas une question de « souhaits », c’est une question de loi, c’est un droit… et la loi dit qu’il est possible de traverser les frontières, même irrégulièrement et sans documents, en vue du dépôt d’une demande d’asile !

    • Hautes-Alpes : l’Intérieur renvoie dos à dos les militants d’extrême droite et ceux solidaires des migrants

      Vous souvenez-vous de la fois où Donald Trump, le président américain, a renvoyé dos à dos des militants racistes et antiracistes à la suite d’affrontements dans la ville de Charlottesville ? L’idée a peut-être inspiré notre ministère de l’Intérieur, qui a publié dimanche soir un communiqué (à lire ici : https://twitter.com/Place_Beauvau/status/988133316145664000) dénonçant les « provocations, gesticulations et incidents qui ont marqué ce week-end dans les Hautes-Alpes ». Ce communiqué met sur le même plan les militants d’extrême droite qui ont tenté de bloquer la frontière avec l’Italie pour empêcher des migrants de passer, et ceux qui se sont opposés à cette opération, en soulignant que quand les premiers sont partis « dans le calme », les seconds ont commis « des violences ». Et il choisit, in fine, de donner raison aux premiers en annonçant des renforts policiers sur la zone afin de « s’assurer du respect absolu du contrôle des frontières ».

      http://www.liberation.fr/direct/element/hautes-alpes-linterieur-renvoie-dos-a-dos-les-militants-dextreme-droite-e

    • Communiqué de presse de M. Gérard COLLOMB, ministre d’Etat, ministre de l’Intérieur

      Gérard COLLOMB, ministre d’Etat, ministre de l’Intérieur condamne avec la plus grande fermeté l’ensemble des provocations, gesticulations et incidents qui ont marqué ce week-end dans les Hautes-Alpes et dont des groupes d’activistes d’ultra droite et d’ultra gauche sont respectivement à l’origine. Il tient à saluer l’action de la préfète qui s’est constamment assurée de l’engagement des forces de l’ordre dans l’exécution de cette mission pour prévenir les atteintes à l’#ordre_public.
      D’une part des activistes du groupuscule d’ultra droite Génération Identitaire se sont rendus au Col de l’Echelle en prétendant y « tenir la frontière ». Cette action de gesticulation, consistant à déployer des banderoles s’est tenue sous l’étroite surveillance des forces de l’ordre qui ont veillé à prévenir tout trouble à l’ordre public. Ces activistes ont quitté les lieux ce midi, dans le calme, en présence d’un important dispositif de gendarmerie.
      D’autre part, un groupe de plus d’une centaine d’activistes pro-migrants français et italiens s’est présenté ce midi au Col du Montgenèvre, en provenance d’Italie, en vue de faire franchir la frontière illégalement et en force à une trentaine de migrants. A cette occasion des violences ont été commises vis-à-vis des forces de l’ordre et un véhicule de la gendarmerie nationale a été dégradé. Ces individus ont ensuite poursuivi leur action en direction de Briançon où leur présence fait l’objet de la plus grande vigilance.
      Face à ces actions inacceptables, Gérard COLLOMB rappelle l’attachement indéfectible de l’Etat au respect absolu de l’#ordre_républicain et sa volonté de combattre ceux qui souhaitent faire échec aux contrôles des frontières comme ceux qui prétendent se substituer aux forces de l’ordre dans ces missions. En outre, il condamne avec la plus grande fermeté toutes les violences envers les forces de l’ordre chargées de faire appliquer le droit.
      En conséquence, des renforts de police et de gendarmerie importants seront mis en place dès ce soir, en provenance des départements voisins, afin de prêter leur concours, avec la retenue nécessaire, aux forces déjà en place et s’assurer du respect absolu du contrôle des frontières. Des renforts d’unités mobiles, qui seront également présents en soirée sur zone seront déployés dès demain pour assister, sous l’autorité de la préfète des Hautes Alpes, l’ensemble des services de la sécurité publique et de la gendarmerie territoriale engagés dans cette mission.
      Service de presse de Gérard COLLOMB, ministre d’Etat, ministre de l’Intérieur
      01 49 27 38 53 - sec1.pressecab@interieur.gouv.fr

      https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=2ahUKEwiCsffIytPaAhUpMewKHUoJC_

    • Les suites des événements sur le col de l’Echelle —> la manifestation de Defend Europe.
      Des suites qui touchent les citoyens solidaires.

      Vu sur twitter :

      Les 3 militants qui comparaissaient cet après-midi à #Gap pour avoir aidé une 20aine de #migrants à entrer irrégulièrement en France ce dimanche sont en détention provisoire, dans l’attente de leur jugement (ils ont demandé un renvoi). Extrait du communiqué du procureur de Gap :

      https://twitter.com/mathildemathieu/status/988819970669858823

    • Répression à la frontière franco-italienne : deux genevois en préventive

      Deux camarades genevois ont été interpellés et mis en #détention_préventive à Gap en France et sont accusés d’ « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée ». Une troisième personne est détenue à Marseille pour le même chef d’accusation.

      Les trois personnes ont été arrêtées suite à une manifestation qui a eu lieu entre Montgenèvre et Briançon et qui avait pour but de répondre à l’action des fascistes de Génération Identitaire, qui avaient déjà fait parler d’eux quand ils avaient affrété le bateau C-Star pour empêcher le sauvetage des personnes en exil en Méditerranée. La contre-manifestation a réuni 170 personnes - exilé.e.s et solidaires - afin de passer la frontière pour rejoindre Briançon.

      Après plus de 24h de #garde-à-vue, les deux camarades ont été mis en détention préventive à la maison d’arrêt de Gap en attente de la première audience de leur procès, qui se tiendra le 31 mai au Tribunal de Gap. La situation est semblable pour la personne détenue à Marseille.

      La répression qui répond à cette manifestation de solidarité avec les personnes en exil est totalement démesurée et fait froid dans le dos. Le gouvernement français, après avoir réitéré son intention de fermer ses frontières en augmentant son dispositif policier et militaire, tente de montrer l’exemple en sortant son arsenal judiciaire dont personne n’est dupe. La réponse politique qu’apporte le gouvernement Macron aux actes de solidarité révèle très clairement la tournure autoritaire de l’Etat français.

      Les personnes qui tentent de franchir la frontière depuis des mois dans les Hautes-Alpes, subissent quotidiennement le contrôle et la répression de la police française. La tentative de s’organiser collectivement contre ce dispositif répressif fait peur à l’Etat, qui voit bien son pouvoir être attaqué de toute part.

      Nous sommes conscient.e.s que la peine que nos camarades pourraient encourir n’est pas négligeable, c’est pourquoi nous appelons à la solidarité internationale, pour elleux et toutes celleux qui subissent la répression !


      https://renverse.co/Repression-a-la-frontiere-franco-italienne-deux-genevois-en-preventive-1507

    • Dans les Alpes, la solidarité avec les migrants l’a emporté sur la xénophobie

      Samedi 21 avril, en plein débat parlementaire sur le projet de loi Asile et Immigration, le groupe d’extrême droite Génération identitaire a mené une action anti-migrants au col de l’Echelle, dans les Hautes-Alpes. Dimanche, militants italiens et français ont franchi la frontière au col de Montgenèvre pour mettre à l’abri une quarantaine de migrants à Briançon.

      Les fachos escortés par la police :

      Puis le gradé des gendarmes assure « entre guillemets, une sorte d’escorte » pour raccompagner les militants d’extrême droite en dehors du département, « en évitant toute confrontation » avec les militants anti-fascistes qui se rassemblent sur le versant italien du col de Montgenèvre. « Éviter tout trouble à l’ordre public et garantir le respect du droit » a été le leitmotiv de la préfecture des Hautes-Alpes tout le week-end. Écoutez sur ce point Jean-Bernard Iché, le Sous-préfet de Briançon.

      La contre-manifestation est aussi « escortée » par les flics, mais d’une toute autre manière :

      Après des heures de marche sous la surveillance des forces de gendarmerie, les manifestants parviennent à rejoindre Le Refuge, lieu de premier accueil à Briançon, aux cris de « Liberta, liberta ». Soulagement pour les migrants. Mattias, qui vient du Cameroun, se dit « fier d’avoir échappé à beaucoup de choses », sur tout son parcours de migration. Alex, originaire du Sénégal, n’a pas trouvé de « solution d’asile en Italie ». Il espère que ce sera le cas en France. Briançon, dont 2 % des habitants seraient des « aidants », ce qui représente 250 personnes au quotidien, offre un nouveau départ. « Nous n’avons abandonné nos montagnes ni aux fascistes, ni à la police », se réjouit Agnès, militante de Tous Migrants. « Ensemble, Italiens et Français, nous rappelons que l’esprit montagnard n’a pas de frontière », poursuit-elle. « Ils voulaient fermer la frontière. Nous, on va l’ouvrir », dit Lisa qui s’investit dans le squat Chez Marcel. Ce dimanche, comme beaucoup d’autres avant eux et beaucoup qui suivront, 40 exilés sont placés sous la protection des citoyens de Briançon.

      https://reporterre.net/Dans-les-Alpes-la-solidarite-avec-les-migrants-l-a-emporte-sur-la-xenoph

      Je copie-colle ici une référence à la #montagne :

      « Nous n’avons abandonné nos montagnes ni aux fascistes, ni à la police », se réjouit Agnès, militante de Tous Migrants. « Ensemble, Italiens et Français, nous rappelons que l’esprit montagnard n’a pas de frontière », poursuit-elle.

    • #Col_de_Montgenèvre : trois militants devant la justice pour avoir aidé des migrants à passer la frontière

      Par François Carrel, Grenoble, de notre correspondant — 25 avril 2018 à 18:46

      En réponse à la manifestation antimigrants de Génération identitaire ce week-end dans les Hautes-Alpes, des militants engagés dans le soutien aux réfugiés avaient décidé d’aider des migrants à entrer sur le territoire français dans le même périmètre. Trois d’entre eux seront bientôt jugés à Gap.
      Le sinistre happening de militants d’extrême droite, ce week-end au col de l’Echelle (Hautes-Alpes), itinéraire de passage de la frontière franco-italienne pour les migrants, avait provoqué une #contre-manifestation de militants engagés dans le soutien aux migrants. Partis d’Italie dimanche à la mi-journée, une centaine de militants avait passé en groupe la frontière gardée par la police sur le col voisin de Montgenèvre. Avec eux, une vingtaine de réfugiés qui ont pu sous leur protection contourner les forces de l’ordre et gagner Briançon en fin d’après-midi.

      Le soir même, la police interpellait six militants à Briançon. Si trois Italiens ont été remis en liberté à l’issue de leur garde à vue, trois autres militants, un Belgo-Suisse âgé de 23 ans, un Suisse de 26 ans et une étudiante italienne de 26 ans, ont été présentés mardi en comparution immédiate devant le tribunal correctionnel de Gap (Hautes-Alpes) pour ce « passage en force de la frontière », selon les mots du procureur de la République de Gap, Raphaël Balland. Le chef d’accusation : « avoir facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France de plus d’une vingtaine d’étrangers, avec cette circonstance que les faits ont été commis en #bande_organisée ». La peine maximale qu’ils encourent est de dix ans d’emprisonnement, 750 000 euros d’amende et l’interdiction du territoire français.

      Placés en #détention_provisoire

      Les trois manifestants ont obtenu le renvoi de l’examen du dossier et du jugement au 31 mai, « pour préparer leur défense et en raison du contexte extrêmement tendu », explique Yassine Djermoune, avocat de Théo, le jeune Belgo-suisse. Tous trois ont en revanche été placés en détention provisoire dans l’attente de leur jugement « en raison de l’insuffisance des garanties de représentation et pour prévenir toute réitération des faits », précise Raphaël Balland. Décision « incompréhensible » pour Yassine Djermoune : « Ce sont des personnes insérées socialement dans leurs pays et qui n’ont jamais eu affaire à la justice. » Les avocats ont fait appel de la mise en détention provisoire et vont déposer une demande de mise en liberté.

      Le procureur a en outre précisé, concernant la manifestation des identitaires au col de l’Echelle, qu’« aucune plainte, ni aucun fait susceptible de qualifications délictuelles » n’avait été porté à sa connaissance.

      http://www.liberation.fr/france/2018/04/25/col-de-montgenevre-trois-militants-devant-la-justice-pour-avoir-aide-des-

    • Deux Suisses détenus en France après une manifestation pro-migrants

      Le Tribunal de Gap a prononcé la détention provisoire de manifestants ayant favorisé l’entrée illégale de migrants à la frontière franco-italienne
      Deux jeunes Suisses, ainsi qu’une ressortissante italienne, ont été placés en détention provisoire par le Tribunal correctionnel de Gap (Hautes-Alpes), mardi, en raison de leur participation dimanche à une manifestation d’aide aux migrants à la frontière franco-italienne.

      Partie du village italien de Clavière, cette action a rassemblé 160 personnes, en majorité des Italiens et des Français. « La manifestation a permis l’entrée en France de 30 à 40 migrants, bloqués à la frontière depuis plusieurs jours », explique Benoît Ducos, de l’association Tous Migrants. C’est la première fois en France que des « délinquants solidaires » vont en prison. »

      Sans violence, les manifestants ont entouré les migrants pour les protéger des forces de l’ordre, ajoute ce militant. Ils ont franchi la frontière en marchant sur les pistes de ski de Montgenèvre encore enneigées. Puis, sur la route, ils ont passé un cordon d’une vingtaine de gendarmes, dans une grande bousculade, avant de poursuivre jusqu’à Briançon. C’est dans la soirée que les trois jeunes gens ont été arrêtés.
      Jusqu’à 10 ans de prison

      Poursuivis pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée », les trois prévenus sont en attente de leur procès, qui se tiendra le 31 mai. Ils encourent jusqu’à 10 ans de prison et 750 000 euros d’amende avec une interdiction du territoire français. Présentés en comparution immédiate, ils ont demandé le report de l’audience. Le parquet a alors requis la détention provisoire, « en raison de l’insuffisance des garanties de représentation et pour prévenir toute réitération des faits ».

      Des éléments que conteste leur avocat, Me Yassine Djermoune. « Nous avons versé au dossier des attestations d’hébergement le temps de la procédure. La réitération des faits n’est pas fondée, mes clients n’ayant jamais été condamnés. » Les deux citoyens helvètes sont amis, domiciliés en Suisse, et l’un d’entre eux a une promesse d’embauche comme maître-nageur à Genève pour la saison estivale. « De passage à Clavière, ils ont rencontré les migrants au lieu d’accueil », poursuit l’avocat, qui se dit choqué par la mesure de détention provisoire. Contacté, le Département fédéral des affaires étrangères (DFAE) n’a pas souhaité s’exprimer sur cette affaire.
      Une contre-manifestation

      Le week-end dernier était tendu dans les Hautes-Alpes. Samedi, des militants d’extrême droite, venus de toute l’Europe, se sont installés au col de l’Echelle pour une action anti-migrants. La manifestation de soutien à ceux-ci s’est faite en réaction. Le ministre de l’Intérieur, Gérard Collomb, a annoncé le renforcement des forces de l’ordre et du contrôle de la frontière. Ce mercredi, les identitaires poursuivaient leur opération au col du Montgenèvre.

      https://www.letemps.ch/suisse/deux-suisses-detenus-france-apres-une-manifestation-promigrants

    • Réaction aux incidents et tensions à la frontière franco-italienne
      –-> Communiqué de presse de la municipalité de Briançon
      Briançon, le 23 avril 2018

      La municipalité tient à condamner avec la plus grande fermeté les incidents qui se sont déroulés ce week-end à la frontière franco-italienne et dans le Briançonnais et appelle à l’apaisement des tensions autour de la question migratoire au niveau du territoire.

      Nous invitons les associations, les bénévoles et toutes les personnes impliquées dans l’accueil d’urgence des exilés à ne pas répondre par la surenchère aux provocations des identitaires. Ni à la polémique nauséabonde alimentée par certains responsables politiques qui ne font que mettre de l’huile sur le feu. Les victimes des tensions exacerbées seraient une nouvelle fois les migrants.

      La municipalité rappelle que face à ce drame humanitaire elle a toujours tenu une position humaniste et responsable afin d’éviter que la situation ne devienne incontrôlable.

      Contrairement aux affirmations graves portées par les auteurs de la pétition « Voulez-vous d’un mini-Calais à Briançon ? », il n’y a jamais eu dans notre commune de campements, de dégradations ou d’incidents liés à la présence de migrants. Il faut veiller à ne pas créer d’amalgame laissant penser que les exilés accueillis temporairement à Briançon - et qui ne souhaitent pas y rester - seraient à l’origine de problèmes d’insécurité. Ces allégations infondées risquent d’entraîner le rejet de la part d’une partie des Briançonnais et de renforcer les attaques racistes de ceux qui professent la haine des étrangers.

      Si l’élan de solidarité qui s’est organisé localement pour faire face à la crise migratoire qui s’impose à nous a permis de répondre à l’urgence dans la dignité, les élus locaux se retrouvent à gérer au quotidien une question qui ne devrait pas rentrer dans les prérogatives de la commune.

      S’agissant des accusations portées par le conseiller départemental du canton de Briançon – 1 à l’encontre de la ville de Briançon, la municipalité rappelle que l’ouverture en juillet 2017 de la maison d’accueil d’urgence « #Refuges_Solidaires » a été décidé collégialement par les vice-présidents de la Communauté de Communes du Briançonnais (CCB). A ce titre la CCB, propriétaire du bâtiment, prend en charge les frais de fonctionnement (chauffage, eau…) pour préserver la salubrité des locaux et garantir une bonne hygiène aux occupants.

      Quant à la notion « d’#appel_d’air » selon laquelle il faudrait veiller à ne pas « trop bien » accueillir les migrants afin que d’autres ne soient pas encouragés à prendre le même chemin, il ne s’agit que d’un mythe. Cette incantation finit par convaincre certains à force d’être répétée, produisant des effets déplorables. C’est ignorer que la perméabilité des passages par le sud de la France étant de plus en plus réduite, l’itinéraire des exilés s’est naturellement déplacé vers le nord. Le Briançonnais n’est devenu une route migratoire privilégiée que depuis que les contrôles se sont intensifiés à la frontière franco-italienne dans les Alpes Maritimes.

      Il convient de préciser que la mise en place d’un dispositif de contrôle garantissant l’imperméabilité des frontières est totalement impossible et illusoire en montagne où les itinéraires sont multiples. Cette politique est incompatible avec les principes propres à un régime démocratique et à une économie libérale.



      http://ville-briancon.fr/reaction_aux_incidents_et_tensions_a_la_frontiere_franco_italienne.ht

    • Au Col de l’Échelle, impunité pour les identitaires d’un côté, prison ou tabassage pour les soutiens pacifiques des migrants de l’autre... Jusqu’où iront le gouvernement, la police et la justice pour décourager la solidarité ?

      Communiqué du Collectif « Délinquants solidaires », 26 avril 2018, reçu via la mailing-list du Gisti

      Alors que des citoyen·ne·s, associations et collectifs locaux se mobilisent depuis de longs mois pour organiser l’accueil de personnes exilées sur leur territoire face aux pratiques irrégulières des forces de l’ordre, les évènements de ce week-end à Briançon montrent bien que le #délit_de_solidarité a encore de beaux jours devant lui.

      Dans le cadre d’une mise en scène médiatique au col de l’Échelle à la frontière franco-italienne, le groupe d’extrême-droite Génération Identitaire a bloqué la frontière entre le 21 et 22 avril, étalant des messages haineux en pleine montagne, barrant la route à des personnes épuisées par un trajet en montagne, les mettant ainsi potentiellement en danger, puis relayant les photographies de leurs faits d’armes sur les réseaux sociaux à grand renfort de commentaires xénophobes. Ainsi, à l’instar de ce qui s’est passé lors de l’action organisée en Méditerranée à l’été 2017 pour saborder les sauvetages de personnes migrantes, des militant⋅e⋅s d’extrême droite de plusieurs pays européens sont venues bloquer symboliquement la frontière sans que les forces de l’ordre interviennent ou que les autorités condamnent clairement cette action, se bornant à évoquer des « gesticulations ».

      Le dimanche 22 avril, une manifestation pacifique composée de plus de 150 personnes exilées et de leurs soutiens est partie de Clavière en Italie pour rejoindre Briançon à pieds et ainsi protester contre la militarisation de la frontière et la non prise en charge des personnes mineures ou en demande d’asile par les autorités françaises. Les organisations locales et régionales alertent depuis 2015 sur les atteintes systématiques aux droits des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, de Menton à Briançon sans qu’elles soient entendues par les responsables politiques.

      A l’issue de cette manifestation spontanée, six personnes ont été interpellées par les forces de l’ordre. Trois ont finalement été relâchées mais trois autres sont toujours en détention provisoire, enfermées à Gap et à Marseille. Poursuivies pour « avoir par aide directe ou indirecte, facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France de plus d’une vingtaine d’étrangers, avec cette circonstance que les faits ont été commis en bande organisée », elles risquent selon la loi française jusqu’à 10 ans de prison assortie de 750 000 euros d’amende. Le jugement ayant été renvoyé au 31 mai 2018, ces trois personnes originaires de Suisse et d’Italie resteront donc potentiellement enfermées jusqu’à cette date.

      En marge de la manifestation, cinq participant·e·s attablé·e·s à la terrasse de l’Hôtel de la Gare à Briançon vont faire l’objet d’un contrôle d’identité. Les policiers demandent à l’une des personnes de les suivre, refusant d’en donner la raison. « On va pas te le répéter deux fois » lance un policier. La personne sort son téléphone pour prévenir un avocat, les policiers le lui arrachent et la projettent au sol, lui sautent dessus. Face contre terre, coups de matraque, clef de bras, coup de genoux, pouces enfoncés dans les yeux, étranglement, la personne est finalement traînée par les pieds dans les escaliers, toujours face contre terre, puis jetée sur le goudron deux mètres plus loin. Alertés par les cris, des gens arrivent, les policiers gazent tout le monde, y compris la personne gisant au sol, visage tuméfié, en sang, la mâchoire gonflée, respirant difficilement et aveuglée par les gaz lacrymogènes. Souffrant de multiples contusions, d’un énorme hématome à la mâchoire, d’une entorse aux cervicales, et de douleur au niveau de la trachée, cette victime de la #violence_policière est amenée aux urgences. Résultat : 10 jours d’interdiction totale de travail.

      Il est inadmissible que ces personnes soient actuellement privées de liberté ou violentées alors qu’elles ont été interpellées dans le cadre d’une manifestation pacifique. En outre, ces militant·e·s de la solidarité ont participé à de nombreuses opérations de sauvetage en montagne, se rendant juste « coupables » d’assistance à personne en danger. Un cas de plus de dissuasion de la solidarité.

      Le collectif Délinquants solidaires s’inquiète du peu de cas qui est fait par les pouvoirs publics de l’expression sans complexes d’une xénophobie et du blocage des frontières par des militant·e·s d’extrême-droite, qui a pour conséquences immédiates la mise en danger des personnes migrantes parmi lesquels des mineur·e·s, ainsi que le déni pur et simple du droit d’asile, qui est encore une obligation conventionnelle de la France.

      Le collectif Délinquants solidaires condamne fermement la détention de soutiens des exilé⋅e⋅s et appelle à leur libération immédiate. Par ailleurs, il répète que la solidarité et l’accueil sur nos territoires manifestés par des milliers de citoyens et citoyennes doivent être encouragés au lieu d’être systématiquement dénigrés ou réprimés. Si les député·e·s ont raté l’occasion d’abroger le délit de solidarité, nous restons mobilisé·e·s et solidaires des personnes exilées pour réclamer un accès aux droits effectifs pour toutes et tous et le droit de s’organiser collectivement.

    • Genevois incarcérés pour délit de solidarité à Gap : la gauche du canton demande leur libération

      Depuis lundi, deux Genevois sont en détention préventive à Gap, accusés “d’aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national ”. Ces interpellations se sont produites lors d’une manifestation conjointe de migrants et de personnes solidaires de la cause. 

      Celle-ci faisait suite à la provocation du mouvement d’extrême droite “Génération Identitaire” qui a bloqué la frontière franco-italienne. « Cette procédure ultra-répressive est révoltante » dénoncent syndicats et partis de gauche genevois ce jeudi. « Les accusés ne présentent aucun danger pour la société.

      Il s’agit donc d’un acte de zèle parfaitement déplacé de la justice française, qui criminalise les actions de solidarité et la lutte pour le respect des droits des migrants ». Et de demander « l’abandon des procédures à l’encontre des militants et, à défaut, leur mise en liberté immédiate jusqu’à la date de l’audience » prévue le 31 mai.

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/04/26/genevois-incarceres-pour-delit-de-solidarite-a-gap-la-gauche-du-canton-d

    • Vidéo : ce qu’il s’est passé ce week-end aux cols de l’Échelle et de Montgenèvre

      Week-end agité au col de l’Échelle dans les Hautes-Alpes. Samedi, des militants d’extrême-droite sont montés au sommet de ce col pour « bloquer » la frontière entre la France et l’Italie. Dimanche, après leur départ, c’est une manifestation antifasciste qui a franchi la frontière en passant par les pistes de Montgenèvre. Retour en vidéo sur ces deux jours.

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/04/23/video-ce-qu-il-s-est-passe-ce-week-end-au-col-de-l-echelle

    • Frontière franco-italienne : « une réponse pacifique » à Génération Identitaire

      La qualification par le procureur de la République de “bande organisée” passe mal. Tout comme le fait d’avoir “facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France d’une vingtaine d’étrangers”. Maraudeur et ancien pisteur-secouriste, Benoit Ducos a souhaité revenir sur le déroulé de la manifestation de dimanche dernier, partie de Claviere en Italie, pour se rendre à Briançon, en réaction à l’action du mouvement d’ultra-droite Génération identitaire (GI), la veille.
      Manifestation qui s’est conclue par six interpellations et trois personnes – une Italienne et deux Suisses – jugées en comparution immédiate, ce mardi à Gap.

      « Une réponse pacifique » à Génération identitaire

      « Après l’action de Génération identitaire samedi matin, on a décidé de se réunir au Refuge solidaire [à Briançon] dans l’après-midi, raconte Benoit Ducos. On était choqués par le deux poids, deux mesures : au col de l’Échelle, ces gens qui prônent la haine raciale ont pu s’installer sans la moindre réaction des forces de l’ordre, alors que nous, au moindre truc, on nous envoie les CRS. » Les bénévoles du Refuge solidaire, de chez Marcel et de Chez Jesus (de Claviere), veulent mettre en place « une réponse pacifique » à l’installation des GI. « La première décision a déjà été de ne pas se rendre au col de l’Échelle : pour ça, il a fallu faire de la pédagogie », assure Benoit Ducos. Un premier appel samedi soir sur les réseaux sociaux par des militants italiens envisageait en effet cette option.

      « Mais comme le dimanche, une journée de conférence était déjà prévue à Claviere sur le thème des exilés, l’envie de faire une marche a fait son chemin, poursuit le maraudeur de Briançon. C’était une manifestation spontanée, où de nombreuses personnes ne se connaissaient même pas : on est très loin de la bande organisée, au contraire de ceux du col de l’Échelle ! » Quant à la présence de migrants au sein du cortège et leur passage, avec lui, en France, Benoit Ducos insiste : « Le dimanche matin, ce sont les exilés qui ont souhaité participer à la marche avec nous. C’étaient des marcheurs parmi les marcheurs, et eux aussi étaient là pour défendre les droits fondamentaux des êtres humains. » Les participants de la marche se défendent d’avoir voulu leur « faire passer la frontière » à la vingtaine de migrants : « D’ailleurs, on était tous persuadés qu’on ne la passerait pas ! »

      https://www.ledauphine.com/faits-divers/2018/04/25/on-est-loin-de-la-bande-organisee

    • Les deux Suisses, interpellés pour avoir aidé des migrants, transférés aux Baumettes

      Trois personnes avaient été interpellées lors de la manifestation antifascites de dimanche à Montgenèvre et jugées en comparution immédiate pour avoir « facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France d’une vingtaine d’étrangers en bande organisée ». Elles ont été placées en détention provisoire mardi dans l’attente de leur audience qui se tiendra fin mai. Une première mobilisation a eu lieu ce matin au parc de la Schappe à Briançon pour les soutenir. Une seconde était prévue ce vendredi, devant la maison d’arrêt de Gap où les deux Suisses sont incarcérés, à 18 heures (la troisième, une Italienne a été placée aux Baumettes à Marseille).

      « Ayant été informée de l’organisation imminente d’une manifestation de soutien à ces deux détenus, l’administration pénitentiaire a transféré ce jour ces deux détenus au centre pénitentiaire des Baumettes à Marseille, pour des raisons de sécurité, compte tenu des incidents graves déjà subis par cette maison d’arrêt lors de la manifestation pro migrants du 21 avril dernier », a révélé le Parquet de Gap ce jeudi. Lors du « carnaval contre les frontières » organisé samedi dernier à Gap la maison d’arrêt avait subi des dégradations et un surveillant pénitentiaire avait été blessé.


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/04/26/manifestation-de-soutien-les-deux-suisses-transferes-aux-baumettes-fait-

    • Briançon, leçons de solidarité

      La route des Alpes empruntée par les migrants est particulièrement dangereuse. Pour pallier les rigueurs de l’hiver comme les défaillances des pouvoirs publics, un important réseau de solidarité s’est mobilisé dans le Briançonnais. Mais au retour des beaux jours, les bonnes volontés ne suffisent plus.

      https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/briancon-lecons-de-solidarite/commentaires

    • Dans les Hautes Alpes, l’Etat préfère le bruit des bottes aux chants de solidarité...

      Retour sur un week-end sous Très Haute Tension dans la #vallée_de_la_Durance. Voici une compilation de différents textes... d’autres seront à venir.

      Les fascistes et l’ Etat ont un ennemi commun : les gens solidaires, et ce week end, en bande organisée ( nazis et cols blancs ) ont tenté d’ imposer leur vision nauséabonde d’un monde où les droits humains sont bafoués , piétinés , d’un monde où fascisme et grand capital ne font qu’un.
      Les solidarités se sont organisées à la frontière avec plusieurs dizaines d’exilés bloqués là-haut depuis plusieurs jours. En effet, une présence massive de militaires depuis une semaine à la frontière, Famas en bandoulière, ont raflé toutes les nuits les exilés qui tentaient de traverser la ligne imaginaire dans la neige. Ligne qui d’ailleurs n’a d’autre utilité que de délimiter un point à partir duquel on change la couleur des panneaux de signalisation.
      C’est alors que dimanche 22 avril, un #cortège s’est formé de Clavière (Italie) à Briançon (France), français, italiens, africains, asiatiques, papiers, sans-papiers ont marché... a alors soufflé un vent de liberté dans nos montagnes, sous un ciel bleu azur.
      Face à cette France de la matraque, nous nous sommes organisés et avons piétiné à notre tour, pendant quelques heures, leur projet politique mortifère. De la Zad de Notre Dame des Landes, en passant par les cheminots, par les facs et les Alpes, une bande réprime de manière systématique toute pensée, toute alternative, tout projet de société basé sur la solidarité, le partage des richesses.
      Sur une chose alors oui, nous sommes toutes et tous d’accords, il s’agit bien d’une bande organisée qui mène une guerre idéologique dans une France prête à basculer : Collomb Macron Philippe, les ultras c’est vous !

      ******

      Les 3 camarades ont été placé en détention provisoire en attendant leur jugement le 31 mai. Stupéfaction...

      Hier, dimanche 22 avril, 300 personnes sont parties depuis Clavière, pour traverser la frontière. Après une matinée de discussions et de rencontres sur le thème « Alpes, frontières et résistances » et un repas partagé devant le Refuge Autogeré Chez Jésus, nous nous sommes organisé·es, exilé·es et solidaires, contre toutes les frontières.

      Nous avons marché ensemble et uni·es, et nous avons bloqué la route qui va de Clavière jusqu’à Briançon. Ceci pour donner un signal clair aux fascistes et à la police, et en réponse à la militarisation qui s’est accrue et a complètement bloqué la frontière ces derniers jours. Il s’agissait bien d’une chasse à l’homme, nocturne et diurne. La traversée de la frontière était aussi une réponse à la manifestation des néo-fascistes de Génération identitaire au col de l’Échelle.

      https://rebellyon.info/Dans-les-Hautes-Alpes-l-Etat-prefere-le-19080

    • Col de l’Échelle : impunité d’un côté, tabassage de l’autre. Jusqu’où iront-ils pour décourager la solidarité ?

      Alors que des citoyen·ne·s, associations et collectifs locaux se mobilisent depuis de longs mois pour organiser l’accueil de personnes exilées sur leur territoire face aux pratiques irrégulières des forces de l’ordre, les évènements de ce week-end à Briançon montrent bien que le délit de solidarité a encore de beaux jours devant lui.

      Dans le cadre d’une mise en scène médiatique au col de l’Échelle à la frontière franco-italienne, le groupe d’extrême-droite Génération Identitaire a bloqué la frontière entre le 21 et 22 avril, étalant des messages haineux en pleine montagne, barrant la route à des personnes épuisées par un trajet en montagne, les mettant ainsi potentiellement en danger, puis relayant les photographies de leurs faits d’armes sur les réseaux sociaux à grand renfort de commentaires xénophobes. Ainsi, à l’instar de ce qui s’est passé lors de l’action organisée en Méditerranée à l’été 2017 pour saborder les sauvetages de personnes migrantes, des militant⋅e⋅s d’extrême droite de plusieurs pays européens sont venues bloquer symboliquement la frontière sans que les forces de l’ordre interviennent ou que les autorités condamnent clairement cette action, se bornant à évoquer des « gesticulations ».

      Le dimanche 22 avril, une manifestation pacifique composée de plus de 150 personnes exilées et de leurs soutiens est partie de Clavière en Italie pour rejoindre Briançon à pieds et ainsi protester contre la militarisation de la frontière et la non prise en charge des personnes mineures ou en demande d’asile par les autorités françaises. Les organisations locales et régionales alertent depuis 2015 sur les atteintes systématiques aux droits des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, de Menton à Briançon sans qu’elles soient entendues par les responsables politiques.

      A l’issue de cette manifestation spontanée, six personnes ont été interpellées par les forces de l’ordre. Trois ont finalement été relâchées mais trois autres sont toujours en détention provisoire, enfermées à Gap et à Marseille. Poursuivies pour « avoir par aide directe ou indirecte, facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France de plus d’une vingtaine d’étrangers, avec cette circonstance que les faits ont été commis en bande organisée », elles risquent selon la loi française jusqu’à 10 ans de prison assortie de 750 000 euros d’amende. Le jugement ayant été renvoyé au 31 mai 2018, ces trois personnes originaires de Suisse et d’Italie resteront donc potentiellement enfermées jusqu’à cette date.

      En marge de la manifestation, cinq participant·e·s attablé·e·s à la terrasse de l’Hôtel de la Gare à Briançon vont faire l’objet d’un contrôle d’identité. Les policiers demandent à l’une des personnes de les suivre, refusant d’en donner la raison. « On va pas te le répéter deux fois » lance un policier. La personne sort son téléphone pour prévenir un avocat, les policiers le lui arrachent et la projettent au sol, lui sautent dessus. Face contre terre, coups de matraque, clef de bras, coup de genoux, pouces enfoncés dans les yeux, étranglement, la personne est finalement traînée par les pieds dans les escaliers, toujours face contre terre, puis jetée sur le goudron deux mètres plus loin. Alertés par les cris, des gens arrivent, les policiers gazent tout le monde, y compris la personne gisant au sol, visage tuméfié, en sang, la mâchoire gonflée, respirant difficilement et aveuglée par les gaz lacrymogènes. Souffrant de multiples contusions, d’un énorme hématome à la mâchoire, d’une entorse aux cervicales, et de douleur au niveau de la trachée, cette victime de la violence policière est amenée aux urgences. Résultat : 10 jours d’interdiction totale de travail.

      Il est inadmissible que ces personnes soient actuellement privées de liberté ou violentées alors qu’elles ont été interpellées dans le cadre d’une manifestation pacifique. En outre, ces militant·e·s de la solidarité ont participé à de nombreuses opérations de sauvetage en montagne, se rendant juste « coupables » d’assistance à personne en danger. Un cas de plus de dissuasion de la solidarité.

      Le collectif Délinquants solidaires s’inquiète du peu de cas qui est fait par les pouvoirs publics de l’expression sans complexes d’une xénophobie et du blocage des frontières par des militant·e·s d’extrême-droite, qui a pour conséquences immédiates la mise en danger des personnes migrantes parmi lesquels des mineur·e·s, ainsi que le déni pur et simple du droit d’asile, qui est encore une obligation conventionnelle de la France.

      Le collectif Délinquants solidaires condamne fermement la détention de soutiens des exilé⋅e⋅s et appelle à leur libération immédiate. Par ailleurs, il répète que la solidarité et l’accueil sur nos territoires manifestés par des milliers de citoyens et citoyennes doivent être encouragés au lieu d’être systématiquement dénigrés ou réprimés. Si les député·e·s ont raté l’occasion d’abroger le délit de solidarité, nous restons mobilisé·e·s et solidaires des personnes exilées pour réclamer un accès aux droits effectifs pour toutes et tous et le droit de s’organiser collectivement.

      http://www.delinquantssolidaires.org/item/col-de-lechelle-impunite-identitaires-dun-cote-prison-tabassa

    • Communiqué de presse de Tous Migrants

      COMMUNIQUE DE PRESSE – LUNDI 23 AVRIL 2018

      Le droit d’asile en danger
      Contre la loi asile et immigration, contre la militarisation de la frontière, résistons à bras ouverts.

      Depuis des mois le mouvement citoyen Tous Migrants, avec les associations, les collectivités, les citoyens mobilisés dans le Briançonnais tentent d’alerter l’Etat et de demander de l’aide pour faire face dignement aux arrivées de migrants, pour que soient respectés les droits fondamentaux.

      L’Etat n’a pas répondu à nos sollicitations répétées.

      Ce week-end, après une opération médiatique du groupuscule Génération Identitaire qui a suscité l’indignation de nombreux citoyens ainsi qu’une marche de solidarité avec des demandeurs d’asile de l’Italie à Briançon, la réponse du Ministre de l’Intérieur ne s’est pas fait attendre. Dès dimanche soir, des renforts policiers ont été annoncés et mis en place à la frontière.
      Non seulement cette manifestation haineuse en pleine montagne, par ceux qui tentent également de saborder les sauvetages en Méditerranée, a pu se dérouler sans entrave policière, mais elle atteint un de ses objectifs : faire croire qu’il suffit de militariser une frontière pour bloquer les migrations.
      Au même moment était voté en première lecture à l’Assemblée nationale le projet de loi asile et immigration. Cette loi reste essentiellement tournée vers la répression et la restriction des droits des personnes étrangères : enfermement des enfants en rétention, restriction au droit d’asile, généralisation du refoulement aux frontières...
      C’est une loi dangereuse, qui attise les peurs et les fantasmes plutôt que de prendre en compte les réalités de l’asile, des migrations et les impasses actuelles.

      Face à la haine, aux peurs, Tous migrants continuera d’encourager la solidarité et l’hospitalité. Très nombreux sont les citoyens qui partout en France et en Europe accueillent, protègent, accompagnent...

      Nous continuerons de résister à bras ouverts.

      https://www.facebook.com/tousmigrants/posts/2141213332776901

    • Communiqué RESF-Rhône, reçu via email

      Sur les évènements dans le Briançonnais.

      TROIS POTES EN PRISON

      Cela fait des mois que des personnes s’organisent depuis
      la vallée de la haute Durance jusqu’en Italie en solidarité avec les
      migrant-es et contre les frontières.

      Dimanche, suite à une rencontre-débat sur le thème des
      frontières en Italie, une marche spontanée est organisée de Clavière à
      Briançon. Elle aura pour but de permettre le passage de la frontière a
      une trentaine d’exilé-es. Elle fait aussi réaction au renforcement
      croissant du dispositif policier et militaire , et à la présence, le
      même weekend, du groupe fasciste « Génération identitaire » sur le
      territoire.

      Cette manifestation s’est déroulée sans encombre jusqu’au
      refuge solidaire. En fin d’après midi, 6 personnes ont été interpelées
      de manière arbitraire et placées en garde à vue, un camarade s’est
      fait violement tabassé et des personnes gazées. Le motif de la garde à
      vue : « aide à l’entrée d’étranger-es en situation irrégulière », avec
      comme circonstance aggravante, le délit en bande organisée.

      Trois d’entre eux-elles ont été relâché-es, et les 3
      autres se sont vus prolongé-es leur garde à vue. Ce mardi, ils-elles
      comparaissaient en comparution immédiate à Gap (l’info est venue de
      l’avocat commis d’office, il semble que tout ait été fait pour que
      personne ne soit au courant). Ils-elles ont refusé la comparution
      immédiate et demandé le report de l’audience, fixée finalement au 31
      mai. D’ici l’audience, le tribunal a décidé de les placer en détention
      préventive.

      Nous étions une trentaine à assister à l’audience sous
      haute surveillance : 8 camions de crs devant le tribunal, PSIG et
      police dans la salle. L’entrée au tribunal était conditionnée à la
      présentation et la photocopie d’une pièce d’identité.

      Dans la mesure où la comparution immédiate a été refusée,
      le tribunal devait statuer sur le devenir des 3 personnes en attendant
      l’audience.

      Le procureur basait son réquisitoire sur le contexte
      politique local. Il a en effet tenté de faire porter aux prévenu-es
      tous les événements du week end (citant le texte du carnaval sauvage
      contre les frontières, un communiqué de tous migrants, et bien sûr la
      marche de dimanche). Le carnaval de gap n’a rien à voir avec la marche
      de dimanche, et si l’objectif est de juger les participant-es à ces
      événements, alors pourquoi ne sommes nous pas 600 en prison ???? Il a
      ensuite fait part de sa crainte d’une réitération des actes tant que
      les personnes ne sont pas jugées. Il serait préférable d’incarcérer
      les potes plutôt que de leur laisser la possiblité de commettre de
      nouveaux délits … de solidarité. N’étant pas sûr de lui, le proc
      requiert la détention préventive mais ouvre la porte à un simple
      contrôle judicaire pour s’assurer que les prévenu-es ne se
      volatilisent pas.

      Face à ce réquisitoire hasardeux, les avocat-es
      fournissent divers documents : promesse d’embauche pour l’un,
      attestations d’inscription en fac pour les autres, contrats de
      location et même attestations d’hebergement en france en attendant
      l’audience. Ce qui constitue des garanties de représentations
      suffisantes. Les avocat-es mentionnent ne jamais avoir eu des dossiers
      aussi complets pour une comparution immédiate.

      Avant la délibération, une sorte de sérénité était
      palpable dans la salle. Mais quelques minutes plus tard le délibéré
      est rendu : mandat de dépôt et détention préventive. A gap pour les
      copains (le proc aura même l’indecence de signaler au juge que la
      prison est déjà pleine à craquer) et à marseille pour la copine. Nous
      sommes sous le choc.

      Désormais les choses sont claires, tu peux faire de la
      prison pour avoir participé à une manifestation ayant permis à une
      trentaine de personnes de traverser la frontière.

      Un cap est clairement franchi en matière repressive est
      c’est insupportable. Encore plus insupportable lorque l’on entend le
      proc parler des individus de génération identiaire comme pacifistes.
      Rappelons qu’ils avaient affrété un bateau l’an passé pour empêcher
      l’assistance des secouristes en mediterrannée, et que là ils
      s’improvisent police aux frontières avec de gros moyens, qu’ils ont
      saccagé une partie de la montagne,qu’ils incitent la mise en danger de
      personnes, et que l’état choisit de ne pas les poursuivre...

      Nous constatons sans surprises que police, justice et état
      veulent prendre ces 3 personnes en exemple et stopper la solidarité.
      Nous ne sommes pas dupes. Ne répondons pas aux tentatives
      d’intimidation et de division du pouvoir. Soyons tous délinquants
      solidaires ! Nous appelons à des rassemblements massifs. Plus que
      jamais nous avons besoin de soutiens physiques !

      Face à une décision si politique, la réponse doit être
      massive, politique et médiatique.
      Nos camarades sont en prisons. Pour certain-es, venu-es pour la
      première fois dans le briançonnais et sans savoir exactement dans quoi
      ils-elles mettaient les pieds. Ils-elles risquent des mois et des mois
      de prison encore, suite au jugement. D’autres arrestations,
      incarcérations, sont à prévoir ! Faisons pression sur le gouvernement
      pour qu’il comprenne qu’on ne laisse rien passer !

    • Non, la France n’est pas à l’image des « indentitaires » #crétins_des_Alpes

      Le trompe l’œil des militants identitaires

      Le périple du week-end dernier, très médiatique et à grands frais, des identitaires dans les Alpes pourrait donner une image désastreuse de la mentalité de notre pays face au malheur des migrants ! Cependant, il faut mettre ses images de quelques dizaines de militants qui n’ont, dans leur escapade, rencontré, heureusement, aucun migrant, en face de la réalité de la réaction de la population française : ces identitaires ne sont rien face à l’activité de milliers de bénévoles à travers la France qui, dans des associations ou de façon individuelle, aident et portent secours aux migrants, participent à des maraudes dans leurs villes, donnent de leur temps pour dispenser des cours de français, distribuer des repas, trouver des lieux d’accueils … les identitaires militants ne pèsent rien face aux centaines de milliers de Français qui financent chaque année par leurs dons, Médecins du Monde, MSF, France terre d’Asile, la Croix rouge, l’Odre de Malte, la Cimade, les Secours Catholiques et Populaires … Mais aussi face à tant de petites associations qui fleurissent dans des grandes villes (beaucoup dans le quart nord-est de Paris), citons par exemple Accueil Goutte d’Or, l’Île aux Langues, Solidarité Château-Rouge, La Table Ouverte… ou encore JRF-France, le service jésuite des réfugiés…Bien sûr, une grande majorité des Français est inquiète (et parfois même en colère) devant une vague migratoire dont on sait qu’elle a peu de raisons de se tarir. L’angoisse sécuritaire et même identitaire est une réalité, le vote pour l’extrême-droite en est l’illustration… Mais aucune manifestation populaire hostile de masse, quasiment aucune action violente n’est à déplorer. Pour l’instant du moins, on peut dire que la population française manifeste plus d’humanité que d’inhumanité dans cette période. Les conditions indignes dans lesquels survivent des milliers de migrants, par exemple dans le nord de Paris, près de la porte de la Villette, montrent, bien sûr, que l’effort de solidarité n’est pas encore suffisant.

      La solidarité, en tout cas, ne se manifeste pas que dans les grandes villes…

      https://www.franceinter.fr/emissions/l-edito-politique/l-edito-politique-26-avril-2018

    • Le gouvernement en renfort de Génération identitaire ?

      En envoyant des forces de police surveiller la frontière après l’opération antimigrants de la milice d’extrême droite au col de l’Échelle le 21 avril, le gouvernement laisse entendre qu’il lui donne raison.

      Gesticulations ou menace ? L’opération antimigrants lancée par le groupe d’extrême droite Génération identitaire au col de l’Échelle le 21 avril provoque des réactions qui vont de l’indifférence à la peur en passant par la stupeur. D’une part, parce qu’elle est intervenue la veille et le jour même du vote à l’Assemblée de la loi asile et immigration dans un hémicycle clairsemé où une bonne part des députés avaient préféré s’absenter plutôt que de prendre part à 61 heures de vains débats. D’autre part, parce que l’encadrement policier de l’opération est apparu bien léger en regard de celui réservé aux défenseurs des migrants qui ont escorté le lendemain une quarantaine de personnes passant la frontière.

      « Gesticulations », c’est le terme employé par le ministre de l’Intérieur pour caractériser le blocage préparé par les membres de Génération identitaire à un point de passage entre la France et l’Italie dans les Alpes, où ils entendaient « veiller à ce qu’aucun clandestin ne puisse rentrer en France ». Interpellé à l’Assemblée le soir même, Gérard Collomb a ainsi regretté que certains députés puissent « tomber dans le panneau de ces gesticulations » et faire de la publicité « à une force qui n’en est pas une ». Il a ensuite été relancé par Jean-Luc Mélenchon, leader de la France insoumise, au motif que « c’est précisément parce que ce sont des pitres un peu dérangés qu’il sont dangereux ».

      « Qu’adviendra t-il si un migrant tombe dans les mains de cette milice ?, a tweeté Stéphane Peu, député communiste de Seine-Saint-Denis. L’état de droit s’appliquerait-il dans une géométrie variable ? » « C’est bien des limites de l’État de droit qu’il est question dans cette affaire », peste Guillaume Gontard. Si le sénateur divers gauche n’irait pas jusqu’à parler de « complaisance » du gouvernement avec la milice antimigrants, il trouve « complètement fou » que Génération identitaire ait pu « faire ça »... : « Comme si on les avait "laissés faire", avec cette symbolique très forte "qui touche aux frontières"... Cette opération n’était pas improvisée... »
      Un coup de com’ ?

      C’est d’ailleurs ce qui a le plus choqué dans la réaction du ministre de l’Intérieur : qu’il fasse mine de condamner l’action de Génération identitaire tout en dépêchant des forces supplémentaires sur place. « Des renforts importants de forces de l’ordre vont être envoyés pour faire respecter le contrôle des frontières dans les Hautes-Alpes », a-t-il annoncé. Comme si les forces de l’ordre avait besoin de renfort. Comme si Génération identitaire avait raison. Le groupe ne s’y est d’ailleurs pas trompé. Il a publié un communiqué clamant « Les cinq victoires de la mission » : « 1 – Nous avons prouvé qu’il est possible de stopper les migrants si on le veut. Si 100 jeunes Français et Européens le peuvent, le gouvernement de la 5e puissance mondiale aussi. 2 – Les effectifs Police-Gendarmerie et les contrôles sont renforcés. Selon les déclarations du ministère de l’Intérieur… »

      « Coup de com’ ! », commente le sociologue Samuel Bouron pour qui Génération identitaire « fonctionne comme une agence de pub ». « Coup de com’ ! », confirme Éric Dupin, auteur de La France identitaire. Enquête sur la réaction qui vient (La Découverte). Pour le journaliste qui a infiltré Génération identitaire en 2014 et 2015, ce groupe n’est pas « ouvertement violent » : « Ce qu’il veut, c’est marquer les esprits, imprégner les consciences… D’ailleurs, ses membres n’ont stoppé personne à la frontière le week-end dernier. Tandis que les défenseurs des migrants ont réussi à faire passer des migrants… » Raison pour laquelle il dit « comprendre » que les forces de l’ordre aient été plus « actives » contre les défenseurs des migrants « qui eux, faisaient ouvertement quelque chose d’illégal ». Reste à savoir si s’autoproclamer surveillant de frontière quand on n’est pas fonctionnaire de police est légal.

      L’opération au nom sans équivoque #StopMigrantsAlpes qui a commencé le 21 avril ne serait pas terminée. Cet après-midi encore, Génération identitaire a posté une photo sur Twitter montrant trois de ses militants avec leurs blousons bleus estampillés « Defend Europe », et cette mention : « Nos patrouilles de surveillance et de renseignement continuent ! » Le 21 avril, ils étaient escortés de deux hélicoptères, un bleu et un rouge, loués par la société Heli-Max, qui ignorait la nature exacte de la mission. La compagnie, qui pratique également le sauvetage en montagne, a cru louer son matériel « pour une opération de communication ». Au moment d’embarquer, les membres de Génération identitaire auraient expliqué que Defend Europe était en lien avec l’écologie… Arrivés au col de l’Échelle en raquettes, entre 80 et 90 membres français et italiens de Génération identitaire, accompagnés de 4x4 et de drones, ont déployé une grande banderole dans la neige avec ce message : « No way, back to your homeland » (« Sans issue, retournez dans votre pays »).
      Re-militarisation de la frontière ?

      Côté défenseurs des migrants, deux personnes ont été interpellées dimanche et placées en garde à vue. Ces deux hommes, dont un ressortissant étranger, auraient participé aux débordements survenus au col de Montgenèvre. Le parquet de Gap a annoncé qu’il y avait eu « plusieurs interpellations » et placement en garde à vue pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée ».

      Sur le terrain, des défenseurs des migrants témoignent pour leur part d’une « re-militarisation de la frontière », qui aurait eu lieu toute la semaine avec un dispositif de contrôle renforcé par une vingtaine de militaires présents sur la route la nuit et des motoneiges. Le 21 au soir, des discussions auraient eu lieu pour savoir comment contrer l’action de Génération identitaire et accompagner une quarantaine d’exilés qui dormaient à Clavière. Le lendemain un cortège de plus de 150 personnes exilées et solidaires serait parti à pied de Clavière. Les manifestants étaient, semble-t-il, 170 en haut de Montgenèvre. Une militante mal informée serait passée en voiture avec trois exilés avant le cortège. Elle aurait passé huit heures en garde-à-vue où elle aurait subi des humiliations.

      Quant au cortège, il était attendu à la sortie du tunnel de Montgenèvre par un barrage de police. En sous-effectifs, les forces de l’ordre ont reculé « sans faire usage de moyens de dispersion ». Et le barrage a été contourné « sans difficulté ». Il a continué sa route vers Briançon en agrégeant des soutiens pour arriver au Refuge solidaire, joyeux, fort de près de 250 personnes. Mais le week-end a été tendu à Briançon où des forces de l’ordre arrivées auraient empêché les exilés de se déplacer. Depuis, la situation serait « critique » dans la ville où il y aurait près de 200 policiers et gendarmes. Une vingtaine de membres de Génération identitaire seraient restés sur place « pour surveiller ».

      « En marge de la manifestation, cinq participant·e·s attablé·e·s à la terrasse de l’Hôtel de la Gare à Briançon vont faire l’objet d’un contrôle d’identité, relate le collectif Délinquants solidaires dans un communiqué intitulé "Col de l’Échelle : impunité d’un côté, tabassage de l’autre". Les policiers demandent à l’une des personnes de les suivre, refusant d’en donner la raison. « On va pas te le répéter deux fois » lance un policier. La personne sort son téléphone pour prévenir un avocat, les policiers le lui arrachent et la projettent au sol, lui sautent dessus. Face contre terre, coups de matraque, clef de bras, coup de genoux, pouces enfoncés dans les yeux, étranglement, la personne est finalement traînée par les pieds dans les escaliers, toujours face contre terre, puis jetée sur le goudron deux mètres plus loin. Alertés par les cris, des gens arrivent, les policiers gazent tout le monde, y compris la personne gisant au sol, visage tuméfié, en sang, la mâchoire gonflée, respirant difficilement et aveuglée par les gaz lacrymogènes... ».

      Sur Twitter, des proches de Génération identitaire diffusent un article du code pénal disant (art. 73) : « Dans les cas de crime ou de flagrant délit puni d’une peine d’emprisonnement, toute personne a qualité pour en appréhender l’auteur et le conduire devant l’officier de police le plus proche »._ _Processus d’autojustification ?
      Provocation à la haine ?

      « Vous n’êtes pas sans savoir que l’organisation d’extrême droite Génération identitaire s’est livrée le samedi 21 avril à une opération provocatrice d’une extrême gravité à l’encontre de migrants », a écrit la Ligue des droits de l’homme le 23 avril au ministre de l’Intérieur. Cette opération, menée à six kilomètres de la frontière italienne, a pris des allures de manœuvres militaires (…) Indépendamment de sa dimension symbolique scandaleuse, la provocation de Génération identitaire aurait pu tourner au drame. »

      Si les membres de Génération identitaire, des « jeunes » avec un « turn over important », ne seraient guère plus d’un millier en France, Éric Dupin note en effet une « gradation » dans leurs actions. Ils se sont d’abord illustrés par l’occupation d’un toit d’une mosquée à Poitiers le 20 octobre 2012, ce qui leur vaut une poursuite pour provocation « à la discrimination, à la haine ou à la violence ». Puis trois ponts à Calais en mars 2016. Surtout, ils ont réussi à lever des fonds pour mener une opération antimigrants en Méditerranée qui a eu un grand retentissement médiatique l’été dernier, à l’heure où des humanitaires et ceux qu’ils secouraient se disaient l’objet de menaces croisées dont des tirs de provenance inconnue...

      Pour Éric Dupin, Génération identitaire ne cherche pas « l’affrontement », et les 30 000 euros récoltés pour l’opération au col de l’Échelle sont une somme « facile à réunir avec le soutien de quelques chefs d’entreprises ». Nul besoin de l’intervention de mystérieux donateurs ni des « consciences morales » du groupe : Eric Zemmour, Renaud Camus ou Alain Finkielkraut…

      À la suite de l’opération en Méditerranée, la dissolution de Génération identitaire a été demandée à Gérard Collomb. Le 23 avril, c’est le directeur de France Terre d’asile, Pierre Henry, qui l’a réclamée à son tour : « Ce qui se passe au col de l’Échelle est grave, la dissolution de cette milice d’extrême droite "Génération identitaire" doit être engagée ». Pour Éric Dupin, la dissolution n’apparaît « pas justifiée, sinon il faudrait interdire beaucoup de monde... » Mais entre dissoudre une milice et la raffermir, il y a un fossé.

      https://www.politis.fr/articles/2018/04/le-gouvernement-en-renfort-de-generation-identitaire-38746

    • L’appel pour la Marche de l’Hospitalité à Gap initialement prévue demain à Gap et transformé en 2 événements ce soir et demain.

      Message reçu via email de la part de Tous Migrants, le 27 avril 2018 :

      Pour le rassemblement prévu demain de 16h à 18h Esplanade de la Paix, nous vous proposons de venir non seulement avec nos slogans habituels pour le respect des droits des personnes exilées mais également avec des pancartes indiquant : « je suis #Bastien, #Eleonora, #Théo », qui sont les prénoms des 3 personnes placées en détention à la prison des Beaumettes, à Marseille.
      Vous pouvez également reprendre les slogans utilisés par le collectifs de soutiens italien et suisse que nous avons rencontré ce matin :
      « Liberté pour les 3 de Briançon » / Liberté sans Frontières : Solidarité sans Frontières
      D’autres slogans peuvent aussi valoriser l’action des bénévoles, par ex « j’accueille » , « je loge » , « je nourris » , « j’enseigne » , "je lave", "je cuisine", « j’invite", « je prends en stop », « marraine », « parrain », « élu solidaire », « avocat solidaire », « journaliste solidaire »... décrivant ce qui est pour chacun sa/ses solidarité.

      Merci également à toutes et à tous de contribuer au calme, à la dignité et à la fraternité au cours de cette nouvelle manifestation pacifique. C’est essentiel pour espérer la libération des personnes incarcérées, pour la cohérence de notre action, et pour gagner la bataille de l’opinion publique.

    • Trois militants « solidaires » des migrants placés en détention

      Mardi 24 avril, le tribunal de Gap a prononcé la détention provisoire de deux Suisses et d’une Italienne. Ils ont participé dimanche à la manifestation en réponse à l’action anti-migrants d’un groupe d’extrême droite. Ils sont poursuivis pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière et en bande organisée ». Le groupe d’extrême droite n’a pas été, quant à lui, inquiété.

      C’est la première fois qu’en France, des « délinquants solidaires », comme disent les associations d’aide aux migrants, vont en prison. Ce mardi 24 avril, le tribunal correctionnel de Gap (Hautes-Alpes) a placé Bastien et Théo, deux Suisses, et Elenora, une Italienne, en détention provisoire, à la suite de leur participation à une manifestation pro-migrants à la frontière franco-italienne.

      Partie du village italien de Clavière, à deux kilomètres de la frontière, cette manifestation du dimanche 22 avril avait rassemblé cent soixante personnes, en majorité des Italiens et des Français. Elle a permis l’entrée en France de trente à quarante migrants, « qui étaient bloqués à Clavière depuis plusieurs jours », nous dit Benoît Ducos, de l’association Tous Migrants. Elle s’était « improvisée le matin même, en réaction à la présence des Identitaires », nous explique Anne [*], une militante qui s’implique pour l’aide aux migrants dans le Briançonnais. La veille, revendiquant une centaine de participants venus de toute l’Europe, le groupe d’extrême droite Génération identitaire commençait une démonstration anti-migrants au col de l’Échelle.

      En réponse aux Identitaires, les manifestants déterminés et pacifiques entouraient les migrants pour les protéger des forces de l’ordre. Ils ont franchi la frontière en marchant sur les pistes de ski encore enneigées, le long de la route qui relie Turin à Briançon. Puis, sur la route, ils ont passé un cordon d’une vingtaine de gendarmes dans une grande bousculade, avant de continuer sur les onze kilomètres qui descendent à Briançon. Dans la soirée, alors que « la manifestation était dispersée », nous confirme Benoît Ducos, Bastien, Théo et Eleonora ont été arrêtés dans la rue, sur la base, semble-t-il, de photos prises par la police attestant de leur présence avant et après le passage de la frontière. Ils ont été placés en garde à vue. Celle-ci a été prolongée jusqu’à la comparution immédiate, tenue à Gap mardi 24 avril.

      Jusqu’à 10 ans de prison et 750.000 euros d’amende

      Les trois jeunes gens, âgés de 23 à 26 ans, sont poursuivis pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée ». Ils encourent une peine allant jusqu’à 10 ans de prison et 750.000 euros d’amende avec une interdiction de pénétrer sur le territoire français. Avec leurs avocats, ils avaient demandé le report de l’audience pour mieux préparer leur défense. Le parquet avait alors requis la détention provisoire, « en raison de l’insuffisance des garanties de représentation et pour prévenir toute réitération des faits ». La requête a été suivie par les juges.

      Pour les avocats, comme pour les personnes solidaires présentes à l’audience, la décision fait l’effet d’un « choc ». Théo et Bastien sont transférés à la maison d’arrêt de Gap. Eleonora a rejoint le quartier des femmes de la prison des Baumettes, à Marseille. Jeudi 26 avril, les deux Helvètes ont été transférés également aux Baumettes, « pour des raisons de sécurité ». Le parquet craint un rassemblement de soutien annoncé devant la maison d’arrêt de Gap ce vendredi soir. Les prévenus sont en attente de leur procès, qui se tiendra le 31 mai.

      Les éléments retenus sont contestés par Me Yassine Djermoune, l’un des avocats de la défense. « Nous avons versé au dossier des attestations d’hébergement pour le temps de la procédure. La réitération des faits n’est pas fondée. Mes clients n’ont jamais été condamnés et ils étaient seulement de passage dans la région au moment des faits. » Il espère pouvoir les faire sortir par « une remise en liberté conditionnelle ». Une décision qui pourrait intervenir sous une dizaine de jours.

      L’avocat décrit ses clients comme de jeunes étudiants et travailleurs. Au dossier de Théo, il y a une promesse d’embauche comme maître-nageur à Genève pour la saison estivale. Les deux garçons sont amis. Bastien est étudiant. « Ils étaient de passage pour voir des amis à Clavière. Ils ont rencontré les migrants au lieu d’accueil Chez Jésus », poursuit Me Djermoune. « Ils ne sont pas connus dans les réseaux de soutien des migrants des Hautes-Alpes », nous dit Anne, qui a rencontré Théo au cours de la manifestation. Quant à Eleonora, étudiante elle aussi, « elle s’était rendue à Clavière avec des amis pour une conférence-débat », expose son avocat. Chaque dimanche, Chez Jésus, organise un événement public, suivi d’un déjeuner. Les clients de Me Djermoune « ne sont pas des premiers de cordée no border », dit-il. « D’un côté, on a trois personnes solidaires qui sont en détention et de l’autre l’impunité pour l’action des Identitaires ainsi que pour l’État qui ramène des exilés illégalement à la frontière », s’insurge Benoît Ducos, de Tous Migrants.

      Le sujet va s’inviter au « rassemblement pour l’hospitalité » organisé par une vingtaine d’associations d’aide aux migrants à Gap ces vendredi 27 et samedi 28 avril. La situation est sous tension dans les Hautes-Alpes. Le renforcement des forces de l’ordre et du contrôle de la frontière annoncée dimanche soir par le ministre de l’Intérieur, Gérard Collomb, sont appliqués. Ce jeudi, les identitaires poursuivaient encore leur « opération de contrôle », cette fois-ci au col du Montgenèvre. À Genève, les partis de gauche, syndicats et organisations antiracistes dénoncent dans un communiqué, « un acte de zèle parfaitement déplacé de la justice française, qui criminalise les actions de solidarité et la lutte pour le respect des droits des migrant·e·s ». Contacté, le département fédéral suisse des Affaires étrangères n’a pas souhaité s’exprimer.


      https://reporterre.net/Trois-militants-solidaires-des-migrants-places-en-detention

    • Deux Suisses détenus en France après une manifestation pro-migrants
      Le Tribunal de Gap a prononcé la détention provisoire de manifestants ayant favorisé l’entrée illégale de migrants à la frontière franco-italienne.

      Deux jeunes Suisses, ainsi qu’une ressortissante italienne, ont été placés en détention provisoire par le Tribunal correctionnel de Gap (Hautes-Alpes), mardi, en raison de leur participation dimanche à une manifestation d’aide aux migrants à la frontière franco-italienne.

      Partie du village italien de Clavière, cette action a rassemblé 160 personnes, en majorité des Italiens et des Français. « La manifestation a permis l’entrée en France de 30 à 40 migrants, bloqués à la frontière depuis plusieurs jours », explique Benoît Ducos, de l’association Tous Migrants. C’est la première fois en France que des « délinquants solidaires » vont en prison. »

      Sans violence, les manifestants ont entouré les migrants pour les protéger des forces de l’ordre. Ils ont franchi la frontière en marchant sur les pistes de ski de Montgenèvre encore enneigées. Puis, sur la route, ils ont passé un cordon d’une vingtaine de gendarmes, dans une grande bousculade, avant de poursuivre jusqu’à Briançon. C’est dans la soirée que les trois jeunes gens ont été arrêtés.
      Jusqu’à 10 ans de prison

      Poursuivis pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée », les trois prévenus sont en attente de leur procès, qui se tiendra le 31 mai. Ils encourent jusqu’à 10 ans de prison et 750 000 euros d’amende avec une interdiction du territoire français. Présentés en comparution immédiate, ils ont demandé le report de l’audience. Le parquet a alors requis la détention provisoire, « en raison de l’insuffisance des garanties de représentation et pour prévenir toute réitération des faits ».

      https://www.letemps.ch/suisse/deux-suisses-detenus-france-apres-une-manifestation-promigrants

    • Deux Genevois transférés pour « raisons de sécurité »

      Samedi et dimanche passé, les Hautes-Alpes (F) ont été le théâtre de deux manifestations antagonistes. La première a vu les nationalistes de Génération identitaire bloquer la frontière au niveau du col de l’Echelle « pour barrer la route aux migrants ». Ce col alpin, au-dessus de Briançon, est effectivement devenu ces derniers mois un passage pour de nombreux réfugiés, emprunté même au plus fort de l’hiver.

      http://m.20min.ch/ro/news/geneve/story/21553452

    • Migrants à la frontière France - Italie : heurts entre policiers et manifestants

      Des tensions opposent des activistes d’extrême-gauche en majorité italiens et les forces de police françaises à la frontière franco-italienne au col de Montgenèvre. La manifestation a été organisée en réponse au rassemblement la veille d’une centaine de militants d’extrême-droite de Génération identitaire (GI) qui avait bloqué le col de l’Echelle, point de passage de migrants dans les Hautes-Alpes, pour « veiller à ce qu’aucun clandestin ne puisse rentrer en France ». I

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=22&v=z6NguB2ClxU

    • Des citoyen·ne·s solidaires en prison et une milice d’extrême droite qui agit en toute liberté

      Le gouvernement franchit un pas supplémentaire dans sa politique migratoire indigne. Après avoir regardé passivement une bande bien organisée d’extrême droite bloquer illégalement une frontière internationale dimanche dernier au Col de l’Echelle, la police du ministre de l’intérieur Collomb a prétendu empêcher le passage au même endroit de migrant·e·s accompagné·e·s de citoyen·ne·s solidaires en provenance d’Italie. Leur but était de protéger les migrant·e·s d’exactions de cette bande d’extrême droite.


      https://france.attac.org/actus-et-medias/salle-de-presse/article/des-citoyen-ne-s-solidaires-en-prison-et-une-milice-d-extreme-droite-q

    • Accusés de ‘délit de solidarité’

      Proches, militants et politiques ont dénoncé vendredi la mise en détention provisoire de deux Genevois à Marseille. Le soutien s’organise pour leur libération.

      Vendredi, le Comité de soutien « Liberté pour les 3 de Briançon » a exigé, lors d’une conférence de presse, la libération de deux Genevois et d’une Italienne, emprisonnés en France. Théo, Bastien et Eleonora sont accusés d’avoir aidé, « en bande organisée », des migrants à rentrer dans l’Hexagone et sont en détention provisoire à la prison des Baumettes, à Marseille. Ils risqueraient jusqu’à dix ans d’emprisonnement et 750 000 euros d’amende.

      Familles, politiques, représentants d’associations de défense des migrants et des étudiants s’inquiètent d’une incarcération qu’ils jugent disproportionnée. L’Université de Genève est aussi préoccupée par le sort d’un de ses étudiants. Des manifestations en France et en Suisse sont attendues la semaine prochaine.

      « Je suis atterrée par ce traitement incompréhensible. Il faut dénoncer clairement cette criminalisation de la solidarité ! » La conseillère nationale Lisa Mazzone (Verts) a donné le ton du mouvement de soutien pou Théo et Bastien. Des proches de ce dernier, ainsi que des personnes solidaires, ont créé jeudi soir un comité qui s’active pour leur sortie de détention provisoire, en attendant une audience prévue le 31 mai. « Cette solidarité fait chaud au cœur et il faut maintenant que les autorités se mobilisent elles aussi », a plaidé la mère de Théo.

      A ce jour, une vingtaine de parlementaires de la gauche genevoise se sont aussi joints par pétition à la condamnation de la « répression des personnes accusées de ‘délit de solidarité’. » L’Université de Genève, où étudie Bastien, a fait savoir que le recteur avait interpellé le Consulat général de Suisse à Marseille et demandé une visite à Bastien. Contacté, le Département fédéral des affaires étrangères assure être « en contact avec les autorités compétentes » et assister les deux jeunes, « dans le cadre de la protection consulaire. »

      Deux poids, deux mesures ?

      L’arrestation de personnes solidaires des exilés choque. Pour rappel, aucune interpellation n’a suivi le blocage samedi de la frontière franco-italienne par des militants du groupe d’extrême-droite Génération Identitaire. Ces derniers protestaient contre la venue de migrants. La Municipalité de Briançon rappelait par communiqué que leur région est « devenue une route migratoire privilégiée », alors que les contrôles s’intensifiaient au sud des Alpes.

      « Le transfert de Théo et Bastien à la prison des Baumettes, connue pour détenir des criminels violents, donne l’impression qu’ils sont dangereux », déplore l’avocat et conseiller national socialiste Carlo Sommaruga. Jean, du Collectif de défense des migrants Perce-Frontières explique : « Les autorités se défaussent de leurs responsabilités et accusent de délit de solidarité. C’est en fait un déni d’humanité dont sont frappés les exilés. »

      Mobilisations à venir

      Les secrétaires de la Conférence universitaire des associations d’étudiantEs (CUAE) ont appelé à soutenir et rejoindre une manifestation qui aura lieu la semaine prochaine à Gap, où les autorités statueront sur la mise en liberté des trois incarcérés – en attendant leur audience à la fin du mois de mai. Gala, du Comité de soutien, a aussi expliqué qu’une délégation se rendra au consulat français, à la suite de la manifestation du 1er mai. Elle déposera plusieurs lettres de solidarité, dont une munie des paraphes de personnalités comme Jean Ziegler ou Rémy Pagani, maire de Genève.

      Un comité italien de soutien se met aussi en place, en solidarité avec la ressortissante italienne, également détenue aux Baumettes. Par ailleurs, un fonds de soutien a été ouvert, afin d’aider les prévenus à faire face aux frais de justice .


      https://lecourrier.ch/2018/04/27/accuses-de-delit-de-solidarite

    • Mise au point de la situation en 9 points.
      Liste de « Liberté pour les 3 de Briançon », sur FB, le 28.04.2018

      1. Théo et Bastien sont dans le nouveau bâtiment des Baumettes.
      2. ls sont au quartier des arrivants (QA), le plus protégé.
      3. Ils n’ont quasiment aucun contact avec les autres détenus.
      4. Ils restent confinés sans activités car soumises à autorisation.
      5. Ils n’ont pas encore l’autorisation de recevoir des appels de la famille.
      6. Lundi prochain une commission se réunira pour décider où ils vont aller après le QA.
      7. Audience jeudi prochain à Gap pour discuter de la demande de mise en liberté conditionnelle. Apparemment, ils ne seront pas à l’audience et resterons aux Baumettes !
      8. Bientôt plus d’infos pour Eleonora.
      9. Ils sont touchés par toutes les actions de soutien !

    • Pas de poursuites pour les Identitaires qui disent avoir remis des migrants à la police

      Des militants d’extrême droite affirmaient avoir « raccompagné » des migrants à la frontière franco-italienne dans la nuit de jeudi à vendredi dans les Hautes-Alpes : l’enquête ouverte par le parquet de Gap a été classée sans suite, faute « d’infraction constatée ».

      Depuis le week-end dernier et une première action au col de l’Échelle, au-dessus de Briançon, ces militants du mouvement « Defend Europe », lié au groupe Génération Identitaire, affirment sillonner la région pour « veiller à ce qu’aucun clandestin ne puisse rentrer en France ».

      Sur leur page Facebook, ils assurent ce vendredi dans un communiqué traduit en sept langues, vidéo à l’appui, avoir raccompagné au poste-frontière quatre clandestins, « sous la supervision d’un officier de police judiciaire ». Sur la vidéo, on aperçoit deux hommes en train d’en escorter un troisième en direction de la police.

      Voyant ces militants « revendiquer » ces faits « par voie de presse », le procureur de la République à Gap a ouvert vendredi une enquête préliminaire, révélée par « le Monde ». Mais les investigations, « notamment l’audition de migrants », n’ont permis de recueillir « aucune plainte », « ni de constater aucune infraction pénale susceptible d’être reprochée à l’encontre de quiconque », a écrit Raphaël Balland dans un communiqué vendredi soir, concluant qu’en l’état, cette enquête serait « classée sans suite ».

      Demande de dissolution

      Le magistrat n’a pas précisé les faits qui auraient pu apparaître comme délictueux, « Defend Europe » assurant de son côté avoir agi en respectant scrupuleusement la loi. Le week-end dernier, des voix à gauche s’étaient élevées contre leur action en reprochant à l’État de ne pas réagir assez fermement – certains ont réclamé depuis la dissolution de Génération Identitaire.

      Après l’action de « Defend Europe », des militants pro-migrants avaient participé à l’entrée en France de clandestins et le ministre de l’Intérieur, Gérard Collomb, a alors renvoyé dos à dos « ultra droite » et « ultra gauche » en annonçant l’envoi de renforts policiers dans les Hautes-Alpes pour « s’assurer du respect absolu du contrôle des frontières ».

      Trois des militants pro-migrants, deux Suisses et une Italienne, sont poursuivis pour leur action et détenus dans l’attente de leur jugement.

      https://www.nouvelobs.com/monde/migrants/20180427.OBS5903/pas-de-poursuites-pour-les-identitaires-qui-disent-avoir-remis-des-migran

    • A Briançon, « ne cédons pas à la peur véhiculée par l’extrême-droite »

      Au moment où l’Assemblée nationale adoptait en première lecture, ce week-end, le projet de loi sur sur l’asile et l’immigration, très contesté pour son tournant répressif, des militants d’extrême-droite investissaient la frontière franco-italienne près de Briançon pour y mener une grande opération de communication anti-migrants. Comme un symbole de la tension qui règne dans les Hautes-Alpes, où les exilés continuent d’arriver en nombre. Basta ! fait le point sur la situation sur place.

      La situation autour de l’accueil des migrants se complique un peu plus chaque jour à Briançon et dans les vallées voisines. Ce ne sont pas les événements de ce week-end – qui a vu la loi Asile et Immigration adoptée à l’Assemblée Nationale pendant qu’une milice d’extrême-droite se mettait en scène au col de l’Echelle, lieu de passage des migrants vers Briançon – qui vont aider l’ « écosystème de solidarités » à retrouver calme et sérénité pour poursuivre l’important travail d’hospitalité et de soutien mené par la population briançonnaise depuis plusieurs mois (lire à ce sujet notre précédent reportage à Briançon, ici).

      Cette mobilisation en faveur d’un accueil digne fait aujourd’hui face à trois sources de tension distinctes. La première concerne les flux de migrants traversant la frontière italienne, en constante hausse ces dernières semaines. A tel point que le « Refuge Solidaire », l’ancienne caserne réquisitionnée en juillet 2017 pour accueillir chaque jour les exilés, n’est plus en capacité de tenir un recensement précis des arrivées : « Environ 250 personnes ont été hébergées sur les quinze premiers jours d’avril », estime Alain Mouchet, l’un des bénévoles investis au Refuge – soit deux à trois fois plus que lors des mois d’hiver. La capacité d’accueil, estimée à une trentaine de places, est chaque jour allègrement dépassée. D’autres lieux ont été temporairement occupés afin d’y loger les nouveaux arrivants : la gare de Briançon il y a deux semaines, puis une ancienne école quelques jours plus tard.

      Familles avec enfants, femmes enceintes, personnes en situation de handicap

      Sur place, le niveau d’épuisement des bénévoles est manifeste. Les témoignages se font de plus en plus graves face à cette situation jugée « intenable » : « Il y a toujours plus de gens qui arrivent, dans des conditions toujours plus dantesques, mais nous avons toujours moins de moyens pour les accueillir… C’est un enfer », résume Agnès Antoine, membre du réseau Tous migrants. D’autres profils entreprennent désormais le périlleux passage de la frontière : « Nous voyons arriver de plus en plus de familles, parfois avec de jeunes enfants, parfois des femmes enceintes. Il y a aussi des gens en situation de handicap », rapporte Michel [1], qui a participé à l’ouverture d’un nouveau lieu d’accueil fin mars, nommé « Chez Jésus », une salle dans une église située à Claviere, sur la frontière franco-italienne.

      Des drames ont parfois été évités de peu, comme lorsque cette maraude en mars a permis de sauver une femme enceinte de 8 mois et demi. Ce cas de figure risque de se représenter à l’avenir : avec la fonte des neiges, le rythme des arrivées pourrait augmenter dans les prochaines semaines. « Nous sommes déjà à saturation ! Comment va-t-on faire ? » interroge Alain Mouchet.

      Un État hors-la-loi qui refuse aux migrants leurs droits fondamentaux

      Une situation dégradée dont tout le monde s’accorde à identifier le principal responsable : l’État, deuxième grande source de tension locale. « On peut gesticuler autant qu’on veut, le problème est finalement assez simple : nous avons un État hors-la-loi qui refuse aux migrants leurs droits fondamentaux ! » explique Michel Rousseau, trésorier et cofondateur de Tous Migrants. Depuis plusieurs mois, le constat est établi : rien n’est fait pour offrir la possibilité aux demandeurs d’asile d’instruire normalement leur dossier, tandis que les mineurs ne bénéficient jamais de la protection particulière qui leur est dû. Des associations italiennes accusent même la police française d’avoir falsifié l’âge de mineurs pour leur interdire de demander l’asile selon le Guardian. « L’État devrait réquisitionner des locaux décents, mettre du personnel qualifié à disposition, et organiser un premier accueil : ce n’est pas à des bénévoles épuisés de gérer de telles situation d’urgence ! » poursuit Alain Mouchet.

      Pour les organisations sur place, le gouvernement mise sur une stratégie du chaos : « Tous les moyens sont bons pour laisser pourrir la situation », explique un responsable local en contacts réguliers avec l’administration sur ces questions. Même tonalité du côté de la municipalité : « Si l’élan de solidarité qui s’est organisé localement (...) a permis de répondre à l’urgence dans la dignité, les élus locaux se retrouvent à gérer au quotidien une question qui ne devrait pas rentrer dans les prérogatives de la commune », écrit la mairie de Briançon, dirigée par Gérard Fromm (PS), dans un communiqué. « Face à ce drame humanitaire, [la mairie] a toujours tenu une position humaniste et responsable afin d’éviter que la situation ne devienne incontrôlable ».

      Opération de communication d’un groupuscule l’extrême-droite

      Votée dimanche soir à l’Assemblée nationale, la loi Asile et Immigration ne change d’ailleurs rien aux obligations de l’État en matière d’asile. « Tout mineur doit être pris en charge par le conseil départemental et tout demandeur d’asile doit pouvoir faire sa demande. Cela au moins, ce n’est pas remis en cause ! », insiste ainsi à dessein Agnès Antoine.

      C’est dans ce contexte que la mouvance d’extrême-droite, Génération identitaire, a mené une opération de communication de grande envergure, le 21 avril, sur le col de l’Echelle, où une cinquantaine de militants ont symboliquement pris « possession » de la frontière en y déployant des banderoles « No way » et en inondant les réseaux sociaux de leurs photos. « C’était une vraie démonstration de force, avec location d’hélicoptères et de 4x4 pour l’occasion. Cela nécessite de gros moyens financiers, on serait curieux de savoir d’où ils viennent… », s’interroge Alain Mouchet. Il a demandé une protection policière dès ce week-end autour du « Refuge ».

      « Deux poids, deux mesures face à une manifestation ouvertement raciste »

      Le groupuscule fascisant n’a en tout cas pas été inquiété par la police, qui l’a escorté jusqu’au col du Lautaret dimanche en début d’après-midi. Au même moment à Claviere, une contre-manifestation réunissait entre 150 et 200 personnes, Français et Italiens mélangés, qui ont rallié Briançon avec une trentaine de migrants. Avec un peu moins de considération de la part de la police française : six militants ont ainsi été placés en garde-à-vue pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière » [2] – autrement dit, le fameux « délit de solidarité » qui figure toujours bel et bien au menu du nouveau projet de loi. Par ailleurs, selon nos informations, une plainte serait sur le point d’être déposée à la suite de l’agression d’un militant par plusieurs policiers, à l’issue de la manifestation, devant la gare de Briançon. La victime aurait été touché aux cervicales et reçu des blessures entraînant une incapacité totale de travail (ITT) de 10 jours.

      « Il y a vraiment deux poids, deux mesures dans l’attitude des autorités, qui laissent une manifestation ouvertement raciste propager son discours de haine sous la quasi-protection des policiers », accuse Michel Rousseau, le cofondateur de Tous Migrants. « Ce qui nous surprend, c’est que cette action puisse se dérouler sans encombre dans cette zone particulièrement militarisée et surveillée dans laquelle les migrants et les personnes pacifiques qui leur viennent en aide sont pourchassés quotidiennement », dénonce de son côté le Collectif départemental contre les idées d’extrême droite Hautes Alpes.

      Le ministre de l’Intérieur Gérard Collomb s’est contenté de renvoyer dos-à-dos les « groupes d’activistes d’ultra droite et d’ultra gauche [qui] sont respectivement à l’origine [des incidents] ». Avant d’annoncer un renforcement des contrôles et de la présence policière sur place, dès le 22 avril. « Cette instrumentalisation des extrêmes au profit d’une logique répressive ne doit pas masquer le travail de fond que mènent les Briançonnais. Ne répondons pas aux manœuvres de l’État, ne cédons pas à la peur véhiculée par l’extrême-droite, mais continuons d’affirmer nos valeurs de fraternité ! », exhorte Michel Rousseau. Un message qui n’était pas encore tout à fait parvenu aux autorités : lundi, on faisait état d’un important dispositif policier dans la sous-préfecture des Hautes-Alpes.

      https://www.bastamag.net/A-Briancon-ne-cedons-pas-a-la-peur-vehiculee-par-l-extreme-droite

    • Gap : plus de 200 personnes manifestent en soutien aux jeunes migrants

      Plus de 200 personnes se sont rassemblées ce samedi après-midi devant le commissariat de Gap à l’appel du Réseau Hospitalité pour soutenir les jeunes migrants.


      https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/hautes-alpes/gap/gap-200-personnes-manifestent-soutien-aux-jeunes-migran

    • Migrants : dans les Hautes-Alpes, les raisons d’un « deux poids, deux mesures »

      Les militants de Génération identitaire se prévalent d’avoir « intercepté » quatre migrants vendredi dans les Hautes-Alpes. À peine ouverte, l’enquête est déjà classée. De leur côté, des participants à la marche « pro-migrants » du week-end sont en détention provisoire. Explications.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/280418/migrants-dans-les-hautes-alpes-les-raisons-dun-deux-poids-deux-mesures

    • Briançon Solidaire

      A Briançon, dans les Hautes Alpes, les citoyens se mobilisent depuis presque deux ans pour accueillir dignement les exilés qui franchissent la frontière franco-italienne par la montagne au péril de leur vie. Ni la neige, ni le froid, ni les contrôles policiers ne les arrêtent.


      https://www.franceinter.fr/emissions/comme-un-bruit-qui-court/comme-un-bruit-qui-court-28-avril-2018

    • Cet après-midi à Gap, trois personnes sont passées en comparution immédiate pour « aide à l’entrée irrégulière sur le territoire en bande organisée« .

      Article paru le 24.04.2018

      Samedi dernier, une centaine de membres du groupe d’extrême droite « Génération Identitaire » ont bloqué la frontière au Col de l’Echelle sans être inquiétées par les forces de l’ordre qui se sont contentées d’observer. Aucun plainte n’a été déposée malgré les dégradations qu’ils ont commis (dans et autour d’un refuge d’altitude en zone protégée) et le fait qu’ils aient d’autorité interdit la libre circulation à la frontière.

      Dimanche une marche solidaire s’est spontanément organisée au départ de Clavière (Italie) pour accompagner une trentaine de migrants qui risquaient d’être pris à partie par les « identitaires » restés dans le Briançonnais (Hautes Alpes). Parvenus à Montgenève, un cordon de gendarmes barrait la route pour interdire au cortège de passer la ligne frontalière. Ce cordon quasi-symbolique a tout d’abord reculé devant les marcheurs avant d’être contourné, sans heurts, ni violence. L’ensemble des personnes, pour la plus grande part des « non-ressortissants français » est ainsi descendu ensuite jusque Briançon où les migrants ont pu être accueillis par les centres d’accueil solidaires installés en ville.

      En soirée, alors que la manifestation était dissoute, les forces de l’ordre ont mené plusieurs interpellations en ville et six personnes, parmi les quelques cent cinquante participants, ont ainsi été déférées devant le procureur de Gap. Trois ont été retenues, les trois autres n’ayant pas pu être identifiées sur des photos prises lors du passage de la frontière.

      Trois personnes donc, un suisse, une italienne et un jeune homme ayant la double nationalité suisse et belge ont comparu cet après-midi, assistés par deux avocats commis d’office. Une trentaine de citoyens solidaires ont pu assister à l’audience après avoir dû produire leurs pièces d’identité (qui ont été photocopiées…) lors du passage du sas de sécurité.

      L’audience a permis d’entendre que ces trois marcheurs solidaires avaient un casier judiciaire vierge, en France comme dans leur(s) pays d’origine, deux étaient inscrits dans des cursus universitaires avec prochainement des examens à passer, l’autre devait tout aussi prochainement être embauché (comme maître-nageur). Aucunes marques de délinquance ou d’immoralité n’ont pu leur être attribuées par le procureur qui a d’ailleurs répété plusieurs fois « qu’ils étaient fort sympathiques »…

      Compte-tenu de la lourdeur de la peine qu’ils encourraient (7 à 10 ans puisque la circonstance aggravante de « bande organisée » a été retenue par le procureur), ce dernier a demandé au tribunal de les placer sous mandat de dépôt. Si, selon lui, ces jeunes personnes devaient pouvoir assumer leur responsabilité pour avoir participé à ce qu’il considérait comme un grave délit, il considérait par contre que du fait de leurs nationalités, un simple contrôle judiciaire ne pouvait suffire à garantir qu’elles viennent se présenter lors de leur procès à venir (le 31 mai). Dans le cas où les juges ne retiendraient pas la mise en détention, il a subsidiairement proposé de prononcer ce contrôle judiciaire dont il avait dit douter de l’efficacité…

      Lors de leur plaidoirie les deux avocats ont très bien su démontrer l’inutilité d’une mise en détention, d’autant que les trois jeunes personnes étaient tout à fait d’accord pour se présenter au procès.

      Bien que cela n’ait pas été dit lors de l’audience, le fait qu’elles soient déjà représentées par des avocats n’imposait même pas qu’elles assistent physiquement à ce futur procès.

      Après délibération, les juges ont prononcé la mise en détention. L’assistance en est restée abasourdie, tout comme les avocats pour qui cela représente un précédent juridique. Aucune personne ayant participé à une marche solidaire n’avait encore jamais été mise en détention provisoire jusqu’à ce jour. Les deux avocats vont voir les recours dont ils disposent pour demander la libération de leurs clients.

      Le réseau de citoyens est en alerte.

      Tout le monde est choqué.

      En dehors d’un positionnement politique cette décision n’a aucun sens et ce positionnement n’augure rien de bon en matière de justice. En termes de « convergence » s’approcherait-on de celle des brutes ?

      Claude WEISMAN

      https://alpternatives.org/2018/04/24/tribunal-de-gap-05-un-petit-air-de-tarnac

    • Trois potes en prison

      Cela fait des mois que des personnes s’organisent depuis la vallée de la haute Durance jusqu’en Italie en solidarité avec les migrant-es et contre les frontières.

      Dimanche, suite à une rencontre-débat sur le thème des frontières en Italie, une marche spontanée est organisée de Clavière à Briançon. Elle aura pour but de permettre le passage de la frontière a une trentaine d’exilé-es. Elle fait aussi réaction au renforcement croissant du dispositif policier et militaire , et à la présence, le même weekend, du groupe fasciste « Génération identitaire » sur le territoire.

      Cette manifestation s’est déroulée sans encombre jusqu’au refuge solidaire. En fin d’après midi, 6 personnes ont été interpellées de manière arbitraire et placées en garde à vue, un camarade s’est fait violemment tabassé et des personnes gazées. Le motif de la garde à vue : « aide à l’entrée d’étranger-es en situation irrégulière », avec comme circonstance aggravante, le délit en bande organisée.

      Trois d’entre eux-elles ont été relâché-es, et les 3 autres se sont vus prolongé-es leur garde à vue. Ce mardi, ils-elles comparaissaient en comparution immédiate à Gap (l’info est venue de l’avocat commis d’office, il semble que tout ait été fait pour que personne ne soit au courant). Ils-elles ont refusé la comparution immédiate et demandé le report de l’audience, fixée finalement au 31 mai. D’ici l’audience, le tribunal a décidé de les placer en détention préventive.

      Nous étions une trentaine à assister à l’audience sous haute surveillance : 8 camions de crs devant le tribunal, PSIG et police dans la salle. L’entrée au tribunal était conditionnée à la présentation et la photocopie d’une pièce d’identité.

      Dans la mesure où la comparution immédiate a été refusée, le tribunal devait statuer sur le devenir des 3 personnes en attendant l’audience.

      Le procureur basait son réquisitoire absurde sur le contexte politique local. Il a en effet tenté de faire porter aux prévenu-es tous les événements du week end (citant le texte du carnaval sauvage contre les frontières, un communiqué de tous migrants, et bien sûr la marche de dimanche). Le carnaval de gap et la marche de dimanche sont deux événements distinct, et si l’objectif est de juger les participant-es à ces événements, alors pourquoi ne sommes nous pas 600 en prison ???? Il a ensuite fait part de sa crainte d’une réitération des actes tant que les personnes ne sont pas jugées. Il serait préférable d’incarcérer les potes plutôt que de leur laisser la possibilité de commettre de nouveaux délits … de solidarité. N’étant pas sûr de lui, le proc requiert la détention préventive mais ouvre la porte à un simple contrôle judiciaire pour s’assurer que les prévenu-es ne se volatilisent pas.

      Face à ce réquisitoire hasardeux, les avocat-es fournissent divers documents : promesse d’embauche pour l’un, attestations d’inscription en fac pour les autres, contrats de location et même attestations d’hébergement en france en attendant l’audience. Ce qui constitue des garanties de représentations suffisantes. Les avocat-es mentionnent ne jamais avoir eu des dossiers aussi complets pour une comparution immédiate.

      Avant la délibération, une sorte de sérénité était palpable dans la salle. Mais quelques minutes plus tard le délibéré est rendu : mandat de dépôt et détention préventive. A gap pour les copains (le proc aura même l’indécence de signaler au juge que la prison est déjà pleine à craquer) et à marseille pour la copine. Nous sommes sous le choc.

      Désormais les choses sont claires, tu peux faire de la prison pour avoir participé à une manifestation ayant permis à une trentaine de personnes de traverser la frontière.

      Un cap est clairement franchi en matière répressive est c’est insupportable. Encore plus insupportable lorsque l’on entend le proc parler des individus de génération identitaire comme pacifistes. Rappelons qu’ils avaient affrété un bateau l’an passé pour empêcher l’assistance des secouristes en méditerranéenne, et que là ils s’improvisent police aux frontières avec de gros moyens, qu’ils ont saccagé une partie de la montagne,qu’ils incitent la mise en danger de personnes, et que l’état choisit de ne pas les poursuivre…

      Nous constatons sans surprises que police, justice et état veulent prendre ces 3 personnes en exemple et stopper la solidarité. Nous ne sommes pas dupes. Ne répondons pas aux tentatives d’intimidation et de division du pouvoir. Soyons tous délinquants solidaires ! Nous appelons à des rassemblements massifs. Plus que jamais nous avons besoin de soutiens physiques !

      Face à une décision si politique, la réponse doit être massive, politique et médiatique.
      Nos camarades sont en prisons. Pour certain-es, venu-es pour la première fois dans le briançonnais et sans savoir exactement dans quoi ils-elles mettaient les pieds. Ils-elles risquent des mois et des mois de prison encore, suite au jugement. D’autres arrestations, incarcérations, sont à prévoir ! Faisons pression sur le gouvernement pour qu’il comprenne qu’on ne laisse rien passer !

      https://valleesenlutte.noblogs.org/post/2018/04/25/trois-potes-en-prison

    • Chasse à l’antifasciste dans Briançon

      Nos camarades Italiens et solidaires ont durement été réprimés en soirée suite à leur mobilisation contre la vermine fasciste qui s’était permise de se pavaner au col de l’Echelle pendant plus de 24H, sans que cela ne dérange ni les autorités et surtout pas Collomb qui en bon complice qu’il est, en profite dans la foulée, pour renforcer à l’avenir cette frontière.
      C’est à se demander si Collomb lui même n’a pas supervisé toute cette mise en scène dégoûtante et même piloté l’hélico.
      Par ailleurs, la police française a lancée une chasse à l’homme acharnée dans le centre de Briançon afin de chercher des Italiens. Il y a eu plusieurs arrestations.
      Quant aux fascistes, après avoir fondu comme neige au soleil, ils ont menacé d’attaquer avec des bombes incendiaires des refuges dans lesquels font étape des migrants sur leur parcours.
      Nous vous tiendrons informé(e)s dés que nous aurons d’autres nouvelles.
      soutien à nos camarades Italiens et solidaires !!

      http://lahorde.samizdat.net/2018/04/23/defend-europe-un-autre-coup-rate-sur-le-col-de-lechelle-et-repress

    • Communiqué : Des militant·e·s Genevois incarcérés pour délit de solidarité

      Lundi 23 avril, deux Genevois ont été interpellés et mis en détention préventive à Gap en France. Ils sont accusés d’« aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée ». Une troisième personne est détenue à Marseille pour le même chef d’accusation. Quatre ressortissant·e·s italiens ont également été arrêtés.


      https://www.solidarites.ch/geneve/immigration-racisme/1155-2018-cdp-solidarite-militants

    • Un message posté sur facebook du groupe InfoAut (22.04.2018)

      SITUAZIONE GRAVISSIMA. Dopo la clamorosa figura che hanno fatto oggi i gendarmi e i fascisti, i vigliacchi di Francia tornano alla carica.
      La polizia francese si sta scatenando in una caccia all’uomo nel centro di Briançon. Cercano gli italiani. Ci segnalano già diversi fermi.
      Per quanto riguarda i fascisti, dopo essersi squagliati come neve al sole davanti ai valsusini stanno ora minacciando di attaccare con bombe incendiarie uno dei ricoveri in cui fanno tappa in migranti nel loro percorso. Seguiranno aggiornamenti, intanto facciamo girare queste informazioni…

      https://www.facebook.com/infoaut.org/photos/a.10150119959964604.293655.29686934603/10156540336154604/?type=3&theater

    • Vu sur la page Facebook de Roberto Saviano :

      À Génération identitaire : vous montez la garde le long des frontières française pou empêcher l’entrée des migrants. Sur ces montagnes et dans la neige, des centaines de personnes vivent dans des conditions désespérées et risquent leur peau pour trouver un lieu qui les accueille. Vous êtes arrivés en hélicoptère, chaudement habillés et bien nourris, affichant des sourires arrogants. Vous croyez être plus dangereux que les nuits à l’air libre, dans le noir, traqués par les chiens policiers ? Vous ne l’êtes pas. Vous n’arrêterez pas des gens qui ont deux possibilités : marcher ou mourir. Ce ne sont pas vos grillages à poules ni vos banderoles de stade qui les arrêteront. Il n’y a rien à faire contre ceux qui n’ont pas le choix. Vous, vous l’avez. Il faut un autre courage pour bloquer l’argent sale qui entre en France que pour arrêter des familles de réfugiés. Empêcher l’évasion fiscale au Luxembourg signifie s’exposer à des procès pour diffamation et à des menaces personnelles. Mais c’est plus facile de s’en prendre à des désespérés qui n’ont rien et pas même la force de se défendre. Courageux descendants de Vercingétorix que vous êtes.
      Vous pouviez choisir de vous taire, d’éviter ce cirque. De quel droit montez-vous ces opérations ? Ce que vous faites est illégal. La police française a le devoir de vous interpeller quand vous vous dite prêts à passer les bois au peigne fin à la recherche de clandestins. L’Europe connaît votre lâcheté, elle viend de Vichy et du pire de l’histoire française. Comme les démocrates français répondirent à Vichy, je vous réponds aujourd’hui : NO PASARAN !

      Génération identitaire, presidiate i confini francesi contro l’arrivo di migranti. Vi sentite coraggiosi? Su quelle rocce, in mezzo a quella neve, centinaia di persone in condizioni disperate rischiano la vita per trovare un posto dove sopravvivere. Voi siete arrivati con comodi cappotti, nuovi elicotteri, ben nutriti, con sorrisi arroganti. Credete di essere più pericolosi delle notti all’addiaccio, del buio, dei cani della polizia? Non lo siete. Non fermerete chi ha due possibilità: andare avanti o morire. Non lo faranno i vostri recinti, dove volete rinchiudervi come polli, né striscioni da stadio. Non riuscirete a fermare chi non ha scelta, voi invece avete scelta. A fermare i capitali illeciti che entrano in Francia ci vuole più coraggio che a fermare famiglie di profughi; fermare l’evasione di capitale che va in Lussemburgo significa rischiare processi per diffamazione e minacce personali. Più facile prendersela con disperati senza nulla, nemmeno la forza di difendersi. Coraggiosi eredi di Vercingetorige! Potevate scegliere di tacere, evitare la pagliacciata. A quale titolo presidiate i confini? È illegale quello che state facendo. La polizia francese ha il dovere di fermarvi quando pronunciate la volontà di setacciare i boschi alla ricerca di clandestini. La vostra codardia l’Europa la conosce: è figlia della peggior storia francese, è figlia di Vichy. Come i francesi democratici risposero a Vichy, così anche io oggi rispondo a voi: NO PASARAN!

      https://www.facebook.com/RobertoSavianoFanpage/photos/a.402350881863.180175.17858286863/10155551239596864/?type=3&theater

    • Hautes-Alpes : les Identitaires, ces « supplétifs » qui encombrent les autorités

      Les autorités ont annoncé lundi avoir mis un terme aux patrouilles « néfastes » des « supplétifs » de Génération identitaire (GI) à la frontière franco-italienne, ce que dément le groupuscule d’extrême droite qui assure rester sur place et agir en conformité avec la loi.

      Depuis leur démonstration d’hostilité aux migrants, au col de l’Échelle près de Briançon le 21 avril, des militants identitaires affirment participer au contrôle de la frontière aux côtés des forces de l’ordre, sous la bannière de « Defend Europe », mouvement qui a déjà fait parler de lui l’été dernier en Méditerranée.

      Après avoir revendiqué, vidéo à l’appui, la remise de quatre « clandestins » la semaine dernière, ils affirmaient samedi sur Twitter que la police aux frontières avait arrêté sept migrants « repérés et signalés » par leurs soins.

      La préfecture des Hautes-Alpes dénonce « une opération de communication (...) visant à faire croire qu’ils contribuent à la lutte contre l’immigration clandestine ». « La mission régalienne de contrôle aux frontières relève des seuls services de l’État » et « en aucun cas cette mission ne concerne GI, qui n’est en rien habilité à agir dans ce domaine », a-t-elle martelé lundi dans un communiqué.

      Alors que huit Identitaires, dans la nuit de samedi à dimanche, « ont tenté une nouvelle fois de se faire passer pour des supplétifs des services de l’État », les forces de l’ordre leur ont ordonné « de stopper immédiatement leurs agissements néfastes », qui ne servent à rien et « ne font qu’exacerber les tensions autour de la question migratoire », a poursuivi la préfecture en assurant que le groupe avait depuis quitté les lieux.

      Joint par l’AFP, le porte-parole de GI a cependant démenti la fin des patrouilles. « Nos équipes sont toujours sur place, leur mission continue et nous n’avons pas reçu de demande de partir », a déclaré #Romain_Espino, évoquant la présence d’une « vingtaine de militants », en majorité des Français.

      – « La loi de notre côté » -

      « Juridiquement, on peut intervenir car on a la loi de notre côté et l’article 73 du code pénal protège notre action », a-t-il ajouté. Ce texte prévoit que « dans les cas de crime ou délit flagrant puni d’une peine d’emprisonnement, toute personne a qualité pour appréhender l’auteur et le conduire devant l’officier de police judiciaire le plus proche ».

      Vendredi, le parquet de Gap avait ouvert une enquête sur les agissements de GI, classée sans suite dans la journée faute d’infraction ou de plainte.

      Cette absence de sanction, alors que trois personnes sont poursuivies par la justice pour avoir franchi la frontière avec des migrants le 22 avril, passe mal parmi ceux qui viennent en aide aux réfugiés depuis des mois. Ils dénoncent « deux poids, deux mesures » dans la réaction des autorités et s’interrogent sur la légalité de l’action des Identitaires, au-delà des articles de loi qu’ils invoquent.

      Me Yassine Djermoune, défenseur d’un des trois prévenus actuellement détenus à Marseille, n’y voit qu’une « couverture », un « subterfuge », car si « l’entrée sur un territoire en situation irrégulière est effectivement un délit », « GI n’est pas en mesure d’apprécier les situations » de chacun. Sans compter que « le droit de solliciter l’asile est un droit inconditionnel ».

      Pour lui, les conditions de l’article 73 « ne sont pas remplies : pour preuve, on ne poursuit pas les personnes entrées de manière irrégulière sur le territoire ».

      « En se comportant comme ça, ils instaurent une sorte de confusion dans l’esprit des migrants, qui pensent avoir affaire à une autorité de l’État, ce qui n’est pas le cas. Et ça, c’est un délit puni par le code pénal », souligne l’avocat en citant l’article 433-13 déjà évoqué samedi par Mediapart.

      Autre argument opposé aux Identitaires, Me Djermoune fait valoir un arrêt rendu par la cour d’appel de Grenoble en 1978, selon lequel « le pouvoir d’arrestation que l’article 73 donne à tout citoyen permet seulement d’appréhender ceux qui, selon toute apparence, ont commis une infraction » et « ne peut justifier un contrôle systématique ».

      Le parquet de Gap n’a pu être joint lundi par l’AFP.

      https://www.la-croix.com/France/Hautes-Alpes-Identitaires-suppletifs-encombrent-autorites-2018-04-30-13009

    • Aggiornamenti sui tre arrestati di Briançon per delitto di solidarietà

      Alcuni aggiornamenti sui tre giovani arrestati per essersi opposti ai pattugliamenti di un gruppetto fascista al confine tra Italia e Francia.

      Oltre ad Eleonora, che vi era stata tradotta subito dopo la convalida del fermo, nelle ultime ore sono stati trasferiti nel carcere di Baumettes (Marsiglia) anche Theo e Bastien. I tre ragazzi, arrestati domenica scorsa a Briancon in seguito alla grande giornata di lotta che ha visto centinaia di migranti e solidali attraversare collettivamente il confine italo francese del Monginevro, continuano quindi a rimane in carcere in Francia.

      Nonostante l’evidente arbitrarietà di questi arresti, effettuati durante una «caccia all’uomo» per le vie di Briancon alcune ore dopo l’arrivo del corteo in città, la procura sembra voler mantenere un atteggiamento intransigente, tanto che la prima udienza del processo è stata fissata per il 31 di maggio, a più di un mese dal fermo e tenendo in regime di carcere preventivo i tre accusati mentre il gruppetto neo-fascista continua sporadicamente a “pattugliare” il confine senza che ciò ponga problemi di sorta alle autorità francesi.

      Anche il reato che viene loro contestato, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in concorso (en bande organisée) per il quale si rischiano pene fino a 10 anni di prigione e 750.000 euro di ammenda, rivela la volontà di dare una «punizione esemplare» a chi collettivamente e alla luce del sole ha messo in discussione il disciplinamento imposto dalle frontiere.

      Paragonare i tre arrestati di Briancon a dei passeurs che trafficano sulle vite dei/delle migranti è il tentativo di mettere a tacere la solidarietà e l’autorganizzazione dei passaggi della frontiere che da mesi gli abitanti francesi e italiani che vivono nei pressi dei valichi alpini stanno portando avanti dando aiuto materiale a coloro che vogliono attraversarli. A ciò si unisce la necessità delle istituzioni francesi di mantenere il pugno di ferro perché, proprio in concomitanza con la marcia da Claviere a Briancon, è stata votata oltralpe una nuova e maggiormente restrittiva legge sull’immigrazione, la cui tenuta è stata immediatamente messa in crisi dal passaggio del corteo al Monginevro.

      Gli avvocati francesi che difendono i tre ragazzi, insieme ai loro colleghi italiani e svizzeri, stanno cercando di mantenere alta l’attenzione sulle sorti del processo, non arrendendosi ad aspettare inermi il 31 maggio.

      Giovedì 3 maggio si terrà a Gap il riesame per Eleonora, Theo e Bastien. Le autorità giudiziarie però hanno negato ai tre il trasferimento da Marsiglia, impedendogli quindi di poter presenziare in aula al loro riesame. Una palese violazione del diritto di difesa, che, tuttavia va a confermare il timore della procura francese verso le espressioni di solidarietà che si stanno moltiplicando in Italia, in Svizzera e in Francia nei confronti dei tre accusati. Una paura che era già stata dimostrata nella scelta di trasferire Theo e Bastien per evitare presidi pubblici sotto il carcere di Gap.

      Il processo a cui Eleonora, Theo e Bastien verranno sottoposti sarà il primo in Europa che vede accusati dei cittadini comunitari di avere attraversato, pubblicamente e in un corteo, una frontiera insieme a tante e tanti migranti. Per questo, tocca a noi rimanere al loro fianco, non solo esprimendo la maggiore solidarietà possibile, ma anche rivedicando come nostre le loro stesse accuse: se la solidarietà è un reato, a Monginevro c’ero anch’io!

      Il 3 maggio si terrà il riesame senza gli imputati, in un’aula vuota, ma fuori moltiplicheremo i presidi e le azioni di solidarietà. Del resto, siamo una «bande organisée»!

      #SolidaritéSansFrontières #OnEstToutesDeLaBandeOrganisée


      https://www.infoaut.org/migranti/aggiornamenti-sui-tre-arrestati-di-briancon-per-delitto-di-solidarieta

    • Quelques #banderoles et #slogans récupéré ici et là sur les réseaux sociaux à l’occasion du 1er mai ou des occupations des fac notamment.


      https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1690064314407731&set=pcb.1690065241074305&type=3&theater


      https://twitter.com/sillage12/status/991302563361419265


      https://twitter.com/Soutien3db/status/991291153231302657


      https://twitter.com/murmoq/status/991250793394208769

      Au salon du livre à Genève :


      https://twitter.com/Soutien3db/status/990239514877624320

      « Maison verte » à Genève :


      https://twitter.com/amankharkarim/status/990939253130645504

      Cortège 1er mai, devant ambassade de France à Genève :

      Pancarte en soutien aux 3 de #Briancon pour la manifestation du #1erMai à #Grenoble :


      https://twitter.com/reseau_urbain/status/991283644135243777

      Siamo tutt* bande organisée.
      Pancarte à la Conférence de presse pour les trois de Briancon :


      https://www.facebook.com/photo.php?fbid=448537548937661&set=a.120771655047587.1073741826.1000134425

    • Mgr #Xavier_Malle, évêque de Gap, appelle à davantage de solidarité avec les migrants

      Monseigneur Xavier Malle, évêque de Gap et d’Embrun (Hautes-Alpes) était ce lundi, l’invité du matin de RFI. Il évoque au micro d’Arnaud Pontus en ligne de Gap, notamment, la question de la solidarité avec les migrants, quelques jours après le vote de la loi asile et immigration.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/8947/mgr-xavier-malle-eveque-de-gap-appelle-a-davantage-de-solidarite-avec-

    • Col de l’Échelle : impunité d’un côté, tabassage de l’autre ? Jusqu’où iront-ils pour décourager la solidarité ?

      Alors que des citoyen·ne·s, associations et collectifs locaux se mobilisent depuis de longs mois pour organiser l’accueil de personnes exilées sur leur territoire face aux pratiques irrégulières des forces de l’ordre, les évènements de ce week-end à Briançon montrent bien que le délit de solidarité a encore de beaux jours devant lui.

      Alors que des citoyen·ne·s, associations et collectifs locaux se mobilisent depuis de longs mois pour organiser l’accueil de personnes exilées sur leur territoire face aux pratiques irrégulières des forces de l’ordre, les évènements de ce week-end à Briançon montrent bien que le délit de solidarité a encore de beaux jours devant lui.

      Dans le cadre d’une mise en scène médiatique au col de l’Échelle à la frontière franco-italienne, le groupe d’extrême-droite Génération Identitaire a bloqué la frontière entre le 21 et 22 avril, étalant des messages haineux en pleine montagne, barrant la route à des personnes épuisées par un trajet en montagne, les mettant ainsi potentiellement en danger, puis relayant les photographies de leurs faits d’armes sur les réseaux sociaux à grand renfort de commentaires xénophobes. Ainsi, à l’instar de ce qui s’est passé lors de l’action organisée en Méditerranée à l’été 2017 pour saborder les sauvetages de personnes migrantes, des militant⋅e⋅s d’extrême droite de plusieurs pays européens sont venues bloquer symboliquement la frontière sans que les forces de l’ordre interviennent ou que les autorités condamnent clairement cette action, se bornant à évoquer des « gesticulations ».

      Le dimanche 22 avril, une manifestation pacifique composée de plus de 150 personnes exilées et de leurs soutiens est partie de Clavière en Italie pour rejoindre Briançon à pieds et ainsi protester contre la militarisation de la frontière et la non prise en charge des personnes mineures ou en demande d’asile par les autorités françaises. Les organisations locales et régionales alertent depuis 2015 sur les atteintes systématiques aux droits des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, de Menton à Briançon sans qu’elles soient entendues par les responsables politiques.

      A l’issue de cette manifestation spontanée, six personnes ont été interpellées par les forces de l’ordre. Trois ont finalement été relâchées mais trois autres sont toujours en détention provisoire, enfermées à Gap et à Marseille. Poursuivies pour « avoir par aide directe ou indirecte, facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France de plus d’une vingtaine d’étrangers, avec cette circonstance que les faits ont été commis en bande organisée », elles risquent selon la loi française jusqu’à 10 ans de prison assortie de 750 000 euros d’amende. Le jugement ayant été renvoyé au 31 mai 2018, ces trois personnes originaires de Suisse et d’Italie resteront donc potentiellement enfermées jusqu’à cette date.

      En marge de la manifestation, cinq participant·e·s attablé·e·s à la terrasse de l’Hôtel de la Gare à Briançon vont faire l’objet d’un contrôle d’identité. Les policiers demandent à l’une des personnes de les suivre, refusant d’en donner la raison. « On va pas te le répéter deux fois » lance un policier. La personne sort son téléphone pour prévenir un avocat, les policiers le lui arrachent et la projettent au sol, lui sautent dessus. Face contre terre, coups de matraque, clef de bras, coup de genoux, pouces enfoncés dans les yeux, étranglement, la personne est finalement traînée par les pieds dans les escaliers, toujours face contre terre, puis jetée sur le goudron deux mètres plus loin. Alertés par les cris, des gens arrivent, les policiers gazent tout le monde, y compris la personne gisant au sol, visage tuméfié, en sang, la mâchoire gonflée, respirant difficilement et aveuglée par les gaz lacrymogènes. Souffrant de multiples contusions, d’un énorme hématome à la mâchoire, d’une entorse aux cervicales, et de douleur au niveau de la trachée, cette victime de la violence policière est amenée aux urgences. Résultat : 10 jours d’interdiction totale de travail.

      Il est inadmissible que ces personnes soient actuellement privées de liberté ou violentées alors qu’elles ont été interpellées dans le cadre d’une manifestation pacifique. En outre, ces militant·e·s de la solidarité ont participé à de nombreuses opérations de sauvetage en montagne, se rendant juste « coupables » d’assistance à personne en danger. Un cas de plus de dissuasion de la solidarité.

      Le collectif Délinquants solidaires s’inquiète du peu de cas qui est fait par les pouvoirs publics de l’expression sans complexes d’une xénophobie et du blocage des frontières par des militant·e·s d’extrême-droite, qui a pour conséquences immédiates la mise en danger des personnes migrantes parmi lesquels des mineur·e·s, ainsi que le déni pur et simple du droit d’asile, qui est encore une obligation conventionnelle de la France.

      Le collectif Délinquants solidaires condamne fermement la détention de soutiens des exilé⋅e⋅s et appelle à leur libération immédiate. Par ailleurs, il répète que la solidarité et l’accueil sur nos territoires manifestés par des milliers de citoyens et citoyennes doivent être encouragés au lieu d’être systématiquement dénigrés ou réprimés. Si les député·e·s ont raté l’occasion d’abroger le délit de solidarité, nous restons mobilisé·e·s et solidaires des personnes exilées pour réclamer un accès aux droits effectifs pour toutes et tous et le droit de s’organiser collectivement.

      http://emmaus-france.org/col-de-lechelle-impunite-dun-cote-tabassage-de-lautre-jusquou-iront-i

    • Génération Identitaire : les nazillons traquent les militants solidaires

      Ce mardi premier mai, fin d’après-midi, un copain rentre de Briançon avec des exilés dans sa voiture. Il est pris en filature par les Génération Identitaire depuis Briançon jusqu’à chez lui. Les nazillons le filment et le menacent.

      Ce lundi 30 avril, la préfète après dix jours de collaboration fortuite avec les GI annonce la fin du partenariat par voie de presse. Ces derniers démentent par voie de presse. Ils affirment être toujours présents sur le territoire. Comme expliqué ci-dessus, c’est bien le cas. Depuis Nice, Marine Le Pen rend hommage à l’action des GI dans les Hautes-Alpes. Ce même premier mai, une action du groupe fasciste italien Forza Nuova avec banderoles prend place au col de Montgenèvre.

      Situation nauséabonde dans le briançonnais. Après avoir subi une répression étatique féroce (incarcérations, tabassage), les militants solidaires se retrouvent traqués jusque chez eux.

      Tout ceci n’a pu se mettre en place qu’avec le soutien de l’État aux groupuscules fascisants (encore une fois fortuit), et de ce fait avec l’usage de la matraque et de la cage contre celles et ceux qui les combattent.

      https://grenoble.indymedia.org/2018-05-01-Generation-Identitaire-les

    • Solidarietà con i 3 di Briançon - Solidarité avec les 3 de Briançon

      Lo scorso 21 aprile i militanti di un gruppuscolo neo-fascista e suprematista hanno inscenato un’operazione di «blocco delle frontiere» tra la Francia e l’Italia.

      Il giorno dopo, un gruppo di abitanti delle valli vicine, impegnati nella solidarietà concreta con i migranti in transito, attraversano simbolicamente la frontiera insieme a una cinquantina di migranti e arrivano senza alcun problema fino a Briancon, dove la gendarmerie francese effettua sei fermi di polizia in maniera completamente arbitraria.
      L’accusa del procuratore è semplice quanto brutale nella sua chiarezza: aiuto all’immigrazione illegale con l’aggravante di aver compiuto il fatto in maniera collettiva ("en bande organisée”).
      Per tre dei fermati Eleonora, Théo e Bastien viene convalidato l’arresto, con detenzione in carcere fino all’inizio del processo che si svolgerà il 31 maggio nella cittadina di Gap. Rischiano fino a 10 anni di prigione e 750’000 euro di multa.

      Noi siamo e ci sentiamo tutti gente di montagna, accompagniamo da secoli chi deve oltrepassare le frontiere per mettersi in salvo. Le montagne ci aiutano con i loro sentieri innumerevoli. Continueremo a farlo. Rivendichiamo come legittimo il nostro aiuto. Dichiariamo illegittima la legge che ci incrimina, perché contraria alla fraternità. Come in mare così in terra: dichiariamo che proseguiremo a soccorrere chi ha bisogno dei nostri sentieri.

      Non esistono i clandestini. Esistono ospiti di passaggio sulle nostre montagne.

      https://firmaperitre.blogspot.fr

      En français :

      Ce 21 avril les militants d’un groupuscule néo-fasciste et suprémaciste, ont mis en scène une opération de « blocage des frontières » entre la France et l’Italie largement médiatisée.

      Le lendemain, un groupe d’habitants des vallées frontalières, engagés dans la solidarité concrète avec les migrants transitant dans cette région, traversent symboliquement la frontière sans aucun problème de Clavière jusqu’à Briançon, où la gendarmerie française effectue 6 interpellations complètement arbitraires.
      L’accusation du procureur est aussi simple que brutale dans sa clarté : aide à l’immigration illégale avec l’aggravante d’avoir commis les faits de manière collective ("en bande organisée"). Pour 3 des personnes, la garde-à-vue se transforme en prison préventive jusqu’au début du procès qui aura lieu le 31 mai à Gap. Ils risquent jusqu’à 10 ans de prison et 750 000 € d’amende.

      Nous sommes et nous nous sentons tous des montagnards, nous accompagnons depuis des siècles ceux qui doivent traverser la frontière pour se mettre à l’abri. Les montagnes et leurs innombrables sentiers nous aident.
      Nous continuerons à le faire. Nous revendiquons notre aide comme légitime. Nous déclarons illégitime la loi qui nous incrimine, parce que contraire à la fraternité. En mer comme sur terre : nous déclarons que nous continuerons à secourir ceux qui ont besoin de nos sentiers.

      Personne n’est clandestin. Dans nos montagnes, il n’y a que des hôtes de passage.
      Pour adhérer : firmaperitre@gmail.com

      https://firmaperitre.blogspot.fr

    • Aide aux migrants : « Les 3 de Briançon » retrouvent la liberté avant leur procès

      Poursuivis pour avoir « facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France » de migrants le 23 avril, à l’occasion d’une marche de soutien aux migrants à la frontière franco-italienne, trois jeunes étrangers ont été incarcérés à Marseille. Désormais ils attendent leur jugement libres, qui aura lieu le 31 mai.
      Le tribunal de Gap (Hautes-Alpes) a levé la détention provisoire prononcée dix jours plus tôt à l’encontre de trois jeunes manifestants à l’issue d’une marche de militants engagés dans le soutien aux migrants, le 22 avril au col de Montgenèvre, à la frontière franco-italienne. En se mêlant à cette manifestation improvisée en réaction à l’opération de communication antimigrants du groupuscule d’extrême droite Génération identitaire, au même moment sur le col de l’Echelle tout proche, une vingtaine de migrants avaient pu passer la frontière. Cela avait valu aux trois manifestants interpellés le soir même à Briançon d’être poursuivis pour avoir « facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France » de migrants, « faits commis en bande organisée ».
      Ce jeudi, à l’issue d’une audience dense, le tribunal a justifié sa décision de libérer Théo, Belgo-Suisse de 23 ans, Bastien, Suisse de 26 ans, et Eleonora, Italienne de 24 ans, et de les placer sous contrôle judiciaire strict dans l’attente de leur jugement le 31 mai, par le fait que « les risques de réitération des faits ont changé » depuis sa première décision et que le contrôle judiciaire permettait « d’assurer la représentation » des prévenus à leur procès et « d’éviter de nouveaux troubles ».
      Aucun démêlé judiciaire

      Les avocats des jeunes incarcérés à la prison des Baumettes à Marseille n’ont pas caché leur émotion à l’annonce de la décision. Ils avaient eu des mots très forts pour dénoncer l’incarcération de leurs clients. « Rien ne justifie le mandat de dépôt » de « cette marcheuse qui n’a fait que manifester pacifiquement, sans haine ni colère, dans la dignité, et passer une frontière », a tonné Me Philippe Chaudon, défenseur d’Eleonora, étudiante qui n’a, comme ses deux camarades, jamais eu de démêlé judiciaire ou policier. L’avocat Yassine Djermoune a, lui, dénoncé « l’usage totalement disproportionné de la force » à l’égard de son client Théo, « jeune humaniste brillant ». Il a raconté son « incompréhension totale » face à « la profonde injustice » de son incarcération « dans des conditions inadmissibles » aux Baumettes alors qu’il présentait de solides garanties de représentation et n’entendait « aucunement se soustraire à la justice ».

      C’est sans compter avec son transfert « pieds et poing liés » de Gap à Marseille… Me Cécile Faure-Brac a décrit son client Bastien comme un « sapeur-pompier, étudiant intelligent, courtois et engagé », fort des soutiens écrits du doyen et du recteur de l’université de Genève, qui décrivent un « étudiant brillant », avant de solennellement demander au tribunal « d’arrêter cette violence qui s’abat sur lui ».
      « Un procès politique »

      Devant le tribunal, une clameur a salué l’annonce de la libération de ceux qu’on appelle désormais « les 3 de Briançon ». Leur comité de soutien avait réuni près de 200 personnes pour demander « un point d’arrêt à la criminalisation des citoyens solidaires des migrants » et dénoncer « une incarcération insupportable ». Une dizaine de membres du comité suisse de soutien aux 3 de Briançon avaient fait le déplacement, comme les parents d’Eleonora, abasourdis par la situation de leur fille. Pour tous, rendez-vous est pris le 31 mai, devant le même tribunal : « Un procès politique pensé pour écœurer, dissuader les citoyens solidaires des migrants », gronde Pascale, Gapençaise engagée.

      Ils ne seront pas seuls : un texte signé de l’écrivain et alpiniste italien Erri De Luca a déjà recueilli plus de 1 000 signatures, dont celles de Mgr Gaillot, Cédric Herrou, du chercheur Philippe Meirieu, Jean-Luc Mélenchon, Edwy Plenel, Alain Badiou, Eric Piolle (maire EE-LV de Grenoble), Patrick Boucheron, José Bové et de nombreuses personnalités suisses et italiennes. « Nous sommes et nous nous sentons tous des montagnards, nous accompagnons depuis des siècles ceux qui doivent traverser la frontière pour se mettre à l’abri, clame le texte. […] Nous déclarons illégitime la loi qui nous incrimine, parce que contraire à la fraternité. En mer comme sur terre : nous déclarons que nous continuerons à secourir ceux qui ont besoin de nos sentiers. » De quoi donner « une autre dimension » au procès à venir, espère Agnès Antoine, du comité de soutien aux 3 de Briançon : une partie des signataires sont prêts à venir.


      http://www.liberation.fr/futurs/2018/05/03/aide-aux-migrants-les-3-de-briancon-retrouvent-la-liberte-avant-leur-proc

    • « Mission Alpes », un théâtre d’opération des identitaires sans conséquences judiciaires

      L’enquête ouverte vendredi pour s’assurer qu’aucune infraction n’avait été commise lors de la chasse antimigrants des identitaires va être classée sans suite faute d’infraction constatée, a annoncé le parquet dans la soirée.
      En lançant son opération « Defend Europe, mission Alpes », l’organisation d’extrême droite Génération identitaire (GI) se targuait samedi dernier de vouloir « barrer la route aux immigrants clandestins. Nos équipes quadrillent la zone et stopperont toute tentative de s’introduire illégalement en France ». Sur le terrain, 90 identitaires ont effectivement occupé de samedi à dimanche derniers le col de l’Echelle (Hautes-Alpes), lieu de passage surtout estival des migrants entre Italie et France, actuellement fermé en raison de son enneigement. L’essentiel de l’activité des identitaires a cependant été consacré à la production d’images. Le long d’une « frontière » constituée d’un filet de plastique barrant le col et flanquée de panneaux d’interdiction, ils ont joué les gardes-frontières pour les objectifs. Et ont loué deux hélicos pour produire des images spectaculaires (1). Leur porte-parole sur place disait vouloir rester « dans la légalité » et affirmait qu’ils ne feraient que tenter de dissuader les migrants sans leur interdire le passage. Le dimanche matin, c’est sous les yeux et avec l’escorte de nombreux gendarmes (dont une patrouille héliportée) que les identitaires avaient quitté la vallée de la Clarée.
      Vidéo.
      La « seconde phase » de l’opération de com de GI avait commencé dès le dimanche après-midi, avec des images de « surveillance » de la frontière à bord d’un avion de tourisme, mais aussi, tous les soirs depuis, à bord d’un pick-up, sur la route du col frontalier de Montgenèvre, ouvert toute l’année et utilisé par les migrants. Dès samedi dernier, la préfecture affirmait « suivre avec attention » l’opération « afin de prévenir tout trouble à l’ordre public et de garantir le respect du droit », tandis que Gérard Collomb dénonçait une « action de gesticulations » qui s’était tenue « sous l’étroite surveillance des forces de l’ordre ». Les pouvoirs publics assuraient n’avoir rien à reprocher sur le plan pénal à ce « rassemblement » : « aucune plainte ni aucun fait susceptible de qualifications délictuelles n’a été porté à ma connaissance », déclarait mardi le procureur de Gap, Raphaël Balland. Vendredi, il ouvrait tout de même une enquête préliminaire pour « vérifier si une infraction [avait] été commise » : seule la police peut procéder à des interpellations… De son côté, Génération identitaire a publié vendredi soir une vidéo sur les réseaux sociaux visant à prouver que ses membres n’avaient pas fait que « gesticuler » : on y voit certains d’entre eux remettre une personne aux autorités.

      (Mise à jour vendredi 27 avril à 22h55 : Par communiqué, le procureur de Gap a fait savoir vendredi dans la soirée que l’enquête ouverte par le parquet de Gap a été classée sans suite, faute « d’infraction constatée ». Les investigations, « notamment l’audition de migrants », n’ont permis de recueillir « aucune plainte », « ni de constater aucune infraction pénale susceptible d’être reprochée à l’encontre de quiconque », a écrit Raphaël Balland.)

      L’initiative du parquet d’ouvrir une enquête était intervenue dans le contexte de la puissante vague d’indignation suscitée par les mises en scène des identitaires, qui n’a pas tardé à tourner à la mise en cause des pouvoirs publics. Dans la contre-manifestation spontanée, dimanche dernier au col de Montgenèvre, les militants de l’aide aux migrants dénonçaient le « deux poids deux mesures » : « Dès qu’on est là, la police nous tombe dessus, tandis que ceux qui agissent contre les droits de l’homme ne sont pas inquiétés. » Une vingtaine de migrants ayant profité de la cohue pour passer la frontière, trois manifestants ont été arrêtés et sont en détention préventive à la prison des Baumettes, à Marseille.
      « Unité ».
      La présence des forces de l’ordre a été dès le début de cette semaine renforcée à Briançon, où l’on parle de « militarisation de la frontière ». La réaction la plus inattendue est venue de l’évêque de Gap, Xavier Malle. Dans une tribune publiée jeudi par France Info, il dénonce « l’instrumentalisation » des migrants et appelle à « la solidarité nationale » s’agissant particulièrement de l’arrivée des mineurs non accompagnés. « C’est l’unité, la cohésion de la France qui est en jeu. Ne croyons pas que cette "crise migratoire" est passagère. Elle est mondiale et durable », a insisté l’évêque.


      http://www.liberation.fr/france/2018/04/27/mission-alpes-un-theatre-d-operation-des-identitaires-sans-consequences-j

    • Les jeunes Genevois détenus à Marseille vont sortir de prison

      Poursuivis pour avoir aidé des migrants en situation irrégulière à entrer en France, deux Genevois et une Italienne vont pouvoir quitter la prison des Baumettes
      C’est au cri de « liberté ! » et par des applaudissements que la décision de la libération des Trois de Briançon a été accueillie par la foule réunie devant le palais de justice de Gap. Les deux Genevois, Bastien et Théo ainsi que l’italienne Eleonora vont pouvoir sortir de la prison de Marseille où ils sont actuellement placés en détention provisoire. Le tribunal a approuvé leur demande de mise en liberté. De quoi faire exploser de joie la douzaine de Genevois venus manifester son soutien aux Trois à Gap.

      Mais aussi la maman de Théo, restée à Genève aux côtés de ses parents dans l’attente de la décision de justice. « On vient d’apprendre la nouvelle, réagit-elle. On est soulagé. Ils vont enfin sortir de ce trou des Baumettes. » Les deux Genevois sont assignés à résidence en France voisine et devront se rendre régulièrement au commissariat en attendant leur procès le 31 mai. « Un pas après l’autre, poursuit la mère du Genevois. L’important, c’est qu’ils soient libres. Qu’ils retrouvent la nature et leurs proches. »

      De cinq à dix ans de prison

      Pour rappel, arrêtés dimanche 22 avril dans les Hautes-Alpes à l’issue de la marche organisée le long de la frontière franco-italienne en soutien aux migrants, ces trois jeunes, âgés respectivement de 23, 26 et 27 ans, étaient en détention provisoire aux Baumettes, la prison marseillaise. Et ce, en attendant l’audience devant le Tribunal correctionnel de Gap agendée au 31 mai.

      La justice française leur reproche d’avoir aidé une trentaine de personnes à entrer illégalement en France, un délit passible de cinq ans de prison et 30 000 euros d’amende. Sans compter qu’ils sont accusés d’avoir agi en « bande organisée », de quoi faire passer la peine encourue à dix ans de prison et 750 000 euros d’amende.

      Transférés menottés

      Mercredi, leurs avocats ont pu leur rendre visite en prison. Selon Me Yassine Djermoune, qui défend Théo, « ils sont étonnamment en forme. Mentalement très solides. Reste que cette épreuve est difficile ». Depuis leur prison, les deux Genevois ont fait passer le message aux militants que leur transfert de Gap à Marseille s’est fait menottes aux poignets et aux pieds. « Un sort réservé habituellement aux criminels dangereux », commente Aurélie Valletta, avocate à Genève et amie du duo.

      La demande de mise en liberté ayant été approuvée, les trois jeunes gens vont quitter leur geôle. Ils reviendront devant la justice le 31 mai.

      https://www.tdg.ch/geneve/actu-genevoise/trois-briancon-liberes/story/31440125

    • Montgenèvre : #Emmaüs installe des #portes_ouvertes à la frontière

      Cette opération, baptisée « #Article_13 », se base sur l’article de Déclaration universelle des droits de l’homme. Celui-ci déclare que « toute personne à le droit de circuler librement et de choisir sa résidence à l’intérieur d’un état ». Ou encore que « toute personne a le droit de quitter tout pays y compris le sien, et de revenir dans son pays ».

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/05/04/montgenevre-emmaus-installe-des-portes-ouvertes-a-la-frontiere
      #installation

      D’autres images, publiée par Emmaüs sur twitter :


      https://twitter.com/emmaus_france/status/992371655598108672

      #portes

    • Les montagnards solidaires des migrants

      Deuxième partie de notre reportage dans les Hautes-Alpes. Aujourd’hui à Névache et à Clavière, où simples citoyens et militants solidaires s’organisent pour venir en aide aux naufragés de la frontière.


      https://www.franceinter.fr/emissions/comme-un-bruit-qui-court/comme-un-bruit-qui-court-05-mai-2018

    • Préfacé par J.M.G. Le Clézio, HUMAINS interroge notre vivre ensemble et notre projet européen, confronté aux migrations politiques aujourd’hui et climatiques demain, et nous rappelle que ce que les états qualifient de flux, représente en fait, de précieuses vies humaines.
      https://lassociation.tumblr.com/post/173065469898/d%C3%A8s-demain-19-avril-en-librairie-humains-de


      #La_Roya #Baudoin #Troubs #BD

    • From the Sea to the Mountains: The Increasing Criminalization of Solidarity

      After the Proactiva Open Arms ship was impounded by Italian authorities and the staff accused of saving the lives of 100 people who were trying to cross the Mediterranean, there is greater focus on the increasing criminalization of solidarity.

      The passage of migrants through the Alps has become very common since the Italy-France border was closed.

      According to reports from volunteers, this remains true despite the fact that most migrants are given ample information on the dangers they will encounter by crossing the mountains on foot.

      It is not uncommon for volunteers to find 20 or 30 migrants stranded along the route each day.
      Risking years in prison

      This was the case of Benoit Duclos, who on 10 March came upon a family of a father, mother (who was eight months pregnant) and their two children.

      Duclos used his car to drive them to the hospital. On the way to the hospital he was stopped by the French gendarmerie and accused of facilitating the illegal entry of migrants.

      At that moment, the woman started to have the contractions, but Duclos had to remain with the officers while an ambulance was called and the family taken to the nearest hospital.

      Had he not helped them, she would have probably given birth on the way to France. Now he is facing five years in prison for having given aid to this migrant family.
      Pregnant, ill and still rejected

      Another case with a tragic ending is that of a migrant couple who tried to cross the border with France. They were stopped before they could make the crossing.

      Beauty, a 31-year-old Nigerian, was expecting a child and was gravely ill with lymphoma. She had a regular residence permit, but it had expired and she was awaiting the renewal.

      On the other hand, her husband, Destiny, had no documents and could neither stay nor travel in either Italy or France.

      Despite Beauty’s condition, French authorities rejected them on 9 February; she was then taken to the hospital, at first in Rivoli and then in Turin, where she arrived in critical condition.

      The doctors, understanding that she would not have made it, did all that they could to keep her alive as long as possible so that at least her child could be saved.

      The baby boy, Israel, was born on 15 March by cesarean section. The doctors said that the fact that he managed to remain alive is a miracle.

      Now Destiny wishes to remain in Italy to give his son a better future. However, he still needs documents and a job because “in the street there is no future.”
      ’Rescue is not a crime’

      Rainbow4Africa, the NGO that gives assistance to migrants, gives information on the risks of crossing the Alps on foot and manages a room in the station of Bardonecchia, has launched a campaign in three languages called “Rescue is not a crime” (“Soccorrere non è un crimine”, “Sauver n’est pas un crime”).

      The aim of the campaign is to stress that to rescue someone is a duty and to give aid has nothing to do with the facilitation of illegal entry of migrants.

      https://www.liberties.eu/en/news/from-the-sea-to-the-mountains-other-crimes-of-solidarity/14768
      #montagne #mer

    • Hautes-Alpes : les identitaires auraient pu être poursuivis

      Une circulaire du ministère de la justice, dont Mediapart a pris connaissance, rappelle aux procureurs que les « comportements hostiles à la circulation des migrants » sont passibles de poursuites pénales, après que les identitaires des Hautes-Alpes y ont échappé.
      Fin avril, le procureur de la République de Gap n’avait rien trouvé à reprocher aux militants d’extrême droite de Génération identitaire qui s’étaient livrés à une chasse aux migrants très médiatisée, dans les Hautes-Alpes. En à peine 24 heures, ce magistrat avait clos l’enquête préliminaire pour des faits éventuels de « #violences_en_réunion », expliquant dans un communiqué diffusé le 27 avril que les investigations, confiées à la gendarmerie de Briançon et la direction interdépartementale de la PAF de Montgenèvre, « notamment l’audition de migrants », n’avaient permis de recueillir « aucune plainte, ni de constater aucune infraction pénale susceptible d’être reprochée à l’encontre de quiconque ». Cela alors que des militants des droits de l’homme et des avocats, indignés par la passivité du parquet et des gendarmes face aux identitaires, trouvaient dans le Code pénal des délits pouvant être poursuivis (lire notre article : https://www.mediapart.fr/journal/france/280418/migrants-dans-les-hautes-alpes-les-raisons-dun-deux-poids-deux-mesures?pag).

      Sans désavouer explicitement son collègue de Gap, le directeur des affaires criminelles et des grâces (DACG) du ministère de la justice, Rémy Heitz, est lui aussi d’un avis contraire. Dans une circulaire datée du 4 mai et expédiée dans tous les tribunaux de France, dont Mediapart a pris connaissance, le DACG rappelle qu’il existe deux infractions « visant les comportements hostiles à la circulation des migrants ».

      Le premier de ces deux délits, assez peu connus, est « l’#immixtion_dans_une_fonction_publique ». « L’#article_433-12 du #code_pénal réprime le fait, par toute personne agissant sans titre, de s’immiscer dans l’exercice d’une fonction publique, en accomplissant l’un des actes réservés au titulaire de cette fonction. Cette infraction est punie d’une peine de trois ans d’emprisonnement et de 45’000 euros d’amende », expose la circulaire.

      « Le contrôle du respect des frontières, par la surveillance visuelle ou l’édification d’obstacles, par des personnes hostiles à la circulation des migrants (notamment des militants se revendiquant de la mouvance identitaire) est susceptible de constituer une immixtion intentionnelle dans les fonctions des forces de l’ordre. La reconduite à la frontière des migrants par ces mêmes personnes, y compris sans violence, est également susceptible de caractériser le délit prévu par l’article 433-12 du code pénal », écrit Rémy Heitz.

      Selon la jurisprudence, il n’est pas besoin d’usurper le titre de policier ou de gendarme pour que cette infraction soit constituée, précise le directeur des affaires criminelles.

      En revanche, explique la circulaire, « la seule appréhension d’une personne entrant illégalement sur le territoire et sa remise immédiate à l’officier de police judiciaire le plus proche ne semble pas entrer dans le champ de cette incrimination, dès lors qu’il s’agit d’une action isolée n’intervenant pas à l’issue d’une opération de surveillance », toute personne pouvant appréhender l’auteur d’une « infraction flagrante » punie d’une peine de prison (ce qui est théoriquement le cas pour l’entrée irrégulière sur le territoire).

      Le second délit qui aurait pu être reproché aux identitaires des Hautes-Alpes est « l’exercice d’une activité ou l’usage de document créant la confusion avec une fonction publique ». « L’article 433-13 du code pénal réprime le fait par toute personne d’exercer une activité dans des conditions de nature à créer dans l’esprit du public une confusion avec l’exercice d’une fonction publique. Cette infraction est punie d’une peine d’un an d’emprisonnement et de 15 000 euros d’amende », rappelle la circulaire.

      « Faire croire, par son comportement ou par un ensemble de manœuvres, que l’on possède la qualité pour exercer la surveillance et le contrôle des frontières, même sans usurper les signes réservés à l’autorité de police, est susceptible de caractériser l’infraction », lit-on.

      La circulaire se conclut par l’énumération des #infractions pouvant être reprochées aux groupes de soutien aux migrants, pourtant déjà largement poursuivis par les tribunaux alors que les identitaires ne l’ont pas été. L’aide à l’entrée et au séjour irrégulier est passible d’une peine de cinq ans de prison et d’une amende de 30’000 euros, voire plus si l’infraction est commise en réunion, rappelle ainsi le directeur des affaires criminelles.

      Mais le Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (#Ceseda, retouché récemment avec la loi asile) prévoit plusieurs immunités, précise Rémy Heitz. Notamment pour « toute personne physique et morale, lorsque l’acte reproché n’a donné lieu à aucune contrepartie directe ou indirecte et consistait à fournir des conseils juridiques ou des prestations de restauration, d’hébergement ou de soins médicaux destinés à assurer des conditions de vie dignes et décentes à l’étranger, ou bien toute autre aide visant à préserver la dignité ou l’intégrité physique de celui-ci ».

      Et le magistrat de conclure prudemment : « Dans le cadre de l’exercice de l’action publique, il appartient au procureur de la République d’apprécier au cas par cas si les conditions de cette #immunité sont réunies ».

      https://www.mediapart.fr/journal/france/090518/hautes-alpes-les-identitaires-auraient-pu-etre-poursuivis

    • « La lutte pour #Theo et #Bastien continue »

      Les Genevois arrêtés à Briançon après une manifestation de soutien aux migrants sont sous contrôle judiciaire en Haute-Savoie dans l’attente de leur procès.

      Jeudi dernier, le Tribunal de Gap, dans les Hautes-Alpes, libérait les Genevois Theo et Bastien sous contrôle judiciaire dans l’attente de leur procès. Ils avaient été arrêtés à Briançon le dimanche 22 avril, tout comme une jeune Italienne, Eleonora, après avoir participé à une manifestation de soutien aux migrants à la frontière franco-italienne. Ils sont poursuivis pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée ». Leur interpellation puis leur incarcération a soulevé une vague d’#indignation et un fort mouvement de soutien. « La lutte pour Theo et Bastien continue », affirme Catherine, la mère de Theo. Interview.

      Dans quelle situation se trouvent Theo et Bastien ?

      Catherine : Ils ont été libérés dans l’attente de leur procès, le 31 mai. Mais sous plusieurs conditions. On leur a d’abord interdit de quitter le territoire français. Nous avons donc dû nous organiser pour qu’ils soient accueillis chez des proches en Haute-Savoie. Depuis, ils doivent rester dans ce département. Ils sont obligés de se présenter tous les jours dans le commissariat de leur commune respective. Ils n’ont pas le droit de s’exprimer sur les réseaux sociaux, et par extension dans la presse. Le plus dur, c’est qu’ils sont écartés de leur vie quotidienne. Theo devait commencer ces prochains jours un travail à la piscine de Carouge, mais il ne peut pas quitter la Haute-Savoie. Son avocat doit désormais présenter au Tribunal de Gap une demande d’autorisation pour qu’il puisse venir travailler. Quant à Bastien, il fait des études, et il a bientôt des examens. Cette situation est donc vraiment problématique pour eux.

      Ils risquent, en plus, d’être condamnés par la justice française…

      Ils vivent avec une épée de Damoclès au-dessus de leur tête. On entend parler de dix ans de prison ! C’est choquant. De plus, le Tribunal a été très virulent à leur encontre. Mais eux rejettent toutes les charges qui leur sont imputées. Tout ce qu’ils ont fait, c’est se montrer solidaires avec des personnes qui traversaient la frontière. Ce n’est pas un délit. Ce sont des jeunes engagés, humains, humanistes, mus par la notion d’entraide. Ils se battent pour un monde différent, plus ouvert, et ils l’ont exprimé au travers d’une manifestation, une marche de solidarité. La justice française veut les punir pour ça. Pour s’être montrés solidaires. C’est scandaleux. D’autant plus que la police n’a absolument rien fait contre les militants d’extrême droite qui avaient bloqué le col la veille.

      Comment leur arrestation s’est-elle déroulée ?

      Ça c’est passé de manière totalement arbitraire. Comme les policiers n’étaient pas assez nombreux pour procéder à des arrestations pendant la manifestation, ils ont attendu que celle-ci soit terminée. Que certains se séparent du groupe. Ils se sont mis à dix pour attraper Theo et Bastien lorsqu’ils allaient chercher leur bus.

      Ensuite, la garde à vue a été extrêmement pénible. Ils n’avaient pas assez à manger et un seul matelas pour les deux. Après cela, ils ont été transférés à Gap, où c’était un peu moins pire. Puis aux Baumettes à Marseille. Ils y ont été emmenés poings et pieds liés, comme des criminels. Là-bas, ils ont obtenu de rester dans la même cellule, pour se soutenir. Mais niveau nourriture c’était compliqué : l’un est végétarien et l’autre vegan. Ils n’ont pas eu grand-chose à manger. Et jusqu’à leur libération, nous n’avons pas pu avoir le moindre contact direct avec eux.

      Dans quel état d’esprit sont-ils ?

      Plutôt bon. Ils sont positifs, vont de l’avant. Mais ils sont aussi très conscients de ce qu’ils risquent. Theo et Bastien sont par ailleurs extrêmement reconnaissants envers cet extraordinaire mouvement de solidarité qui les soutient. Ils restent également en contact régulier avec leurs avocats, pour préparer leur défense. Ils vont notamment se battre sur la notion de « délit de solidarité ». C’est aberrant que la France criminalise ceux qui aident leur prochain.

      Il n’empêche que nous sommes tous choqués et un peu sonnés par ce qui arrive, par cette menace qui pèse sur eux. On a vraiment l’impression que la justice française veut juste faire un exemple de leur cas. C’est très dur à vivre. Mais nous allons continuer à nous battre pour Theo et Bastien.


      https://lecourrier.ch/2018/05/08/la-lutte-pour-theo-et-bastien-continue-2

    • Élan collectif pour les « 3 de Briançon »

      Libérés mais sous surveillance. Sans possibilité de se déplacer ni de s’exprimer publiquement en attendant leur procès. Menacés d’écoper jusqu’à dix ans de prison ! Face à la déplorable situation de Theo et Bastien – arrêtés en France en même temps qu’une jeune Italienne pour avoir participé à une marche solidaire avec des migrants –, on ne peut que se réjouir du formidable élan collectif qui les soutient ainsi que leurs proches.

      Il reste aussi l’espoir qu’au lieu de faire de leur cas un exemple de répression, la justice française reconnaisse que la solidarité entre êtres humains ne devrait pas constituer un délit. En ce moment, le parlement travaille en effet à assouplir le tristement connu « délit de solidarité ». Malheureusement, le projet vise seulement à le lisser, et non à le faire disparaître. Il prétend « adapter le délit en fonction des circonstances » : une souplesse qui ne s’appliquerait que pour le soutien une fois en France et non pour l’assistance au moment de passer une frontière.

      Pendant que cette adaptation est débattue, voilà la police qui se jette sur quelques jeunes à la frontière franco-italienne. Dix agents ont plongé sur Theo et Bastien lorsqu’ils se sont éloignés de la mobilisation. Tout ça pour quoi ? Pour la gloire d’être parvenus à embastiller trois militants ? Pour en faire un exemple, en pensant saper les mouvements qui refusent l’inhumanité de la politique européenne envers les réfugiés ? Face à l’engagement de ces jeunes, répondre par la force n’est que l’aveu de faiblesse d’un Etat qui ne parvient plus à voir des êtres humains en détresse derrière les statistiques de la migration.

      Parlons des circonstances. Si ces jeunes ont marché dans ce col, c’était en réaction à un mouvement raciste et xénophobe qui menaçait les migrants. Leurs intentions étaient évidentes. Ils se trouvaient là pour assurer un petit socle de soutien et de dignité à des personnes dans le besoin. L’Etat français osera-t-il comparer cette solidarité aux pratiques criminelles des passeurs en Méditerranée en condamnant les « 3 » à de lourdes peines ?

      En ces temps, rien n’est certain. Et leurs proches témoignent de l’injustice profonde qu’ils affrontent. Les contraintes et le bâillon qui leur sont imposés ne suffiront toutefois pas à briser l’élan qui les porte. Ils ne peuvent s’exprimer ? Leurs idées ont trouvé de multiples relais. Et l’exemple de leur engagement suscite déjà de nouvelles actions solidaires.

      https://lecourrier.ch/2018/05/08/elan-collectif-pour-les-3-de-briancon

    • Migrants dans les Hautes-Alpes : “Ne pas trouver des cadavres à la fonte des neiges...”
      Un article qui date de décembre 2017... et que je mets ici pour archivage

      Depuis un an, bravant les forces de l’ordre, des habitants du Briançonnais se mobilisent pour apporter soutien et assistance aux centaines de migrants qui franchissent le col de l’Echelle. Entre révolte et découragement. En cette Journée internationale des migrants (18 décembre), reportage aux côtés de ces militants.

      http://www.telerama.fr/monde/migrants-dans-les-hautes-alpes-ne-pas-trouver-des-cadavres-a-la-fonte-des-n

    • À propos des #maraudes

      Bonjour à tous,

      La police barrant la route entre Clavière et Briançon, les exilés qui souhaitent effectuer la traversée doivent s’aventurer dans la montagne et parfois traverser la Durance gonflée par la fonte des neiges.
      Aujourd’hui même nous avons recueilli le témoignage d’un jeune homme qui a failli être emporté par la rivière dans la nuit.

      L’ accident dramatique de cette semaine (une jeune femme retrouvée morte noyée dans la Durance) met clairement en lumière le fait que le vrai danger vient de la Police et donc de l’Etat qui empêchent les demandeurs d’asile d’accéder à leurs droits en les refoulant systématiquement.

      Une fois de plus, il témoigne du manque de discernement des forces de l’ordre : comment peut – on oser poursuivre et mettre en fuite, en pleine nuit, des femmes et des hommes épuisés par la route, à proximité d’un torrent de montagne gonflé par la fonte des neiges ? C’est juste impensable.

      Nous espérions avoir réussi à éviter cela depuis le début de cet hiver en nous plongeant dans les nuits glaciales maraudes après maraudes.

      Depuis le mois de Mars, la salle paroissiale de l’Eglise de Clavière s’est transformée petit à petit, grâce aux énergies, des uns et des autres en un lieu sympathique à partir duquel les exilés cherchent un chemin pour rejoindre la France.
      L’hiver prenant fin, notre présence ici à Clavière a permis de rendre moins difficile et moins dangereuse la traversée vers la France et l’arrivée au Refuge Solidaire, au 115, chez Marcel, à l’hôpital ou dans une famille accueillante.
      Pour les équipes ‘maraudes’, cela a été une nouvelle façon d’apporter de l’aide en permettant aux exilés qui franchissent le col de Montgenèvre de se réapproprier la façon dont ils souhaitent ou peuvent entreprendre la fin de leur parcours vers la France.

      Nous avons donc arrêté les maraudes nocturnes. Nous restions cependant inquiets, parce que les risques encourus restent nombreux et sont exacerbés par la présence de la Police, des militaires et , depuis 3 semaines, des identitaires, présents jusque dans la ville de Briançon.

      Les équipes du Refuge le constatent également tous les jours : les éxilés arrivent dans un état de fatigue beaucoup plus important, souvent avec des blessures, après des périples de parfois plusieurs jours dans la montagne, des nuits passées dehors dans le froid… Tout cela rend le travail des bénévoles plus difficile.

      Nous en avons la preuve aujourd’hui : la nécessité de réorganiser notre présence sur le terrain est donc plus que justifiée par cet accident.
      Nous devons pouvoir continuer à être présents et à apporter notre aide dans le but de sauver des vies. On retrouve là ce qui a été la motivation première de la mise en place des maraudes.
      Personne ne doit mourir en montagne, ni par le froid, ni par épuisement, ni sous une avalanche, ni par noyade dans la Durance !…
      Si nous y croyons, ne nous laissons pas décourager, soyons fidèles aux valeurs qui sont les nôtres, continuons à les mettre en pratique. Il faut qu’on s’habitue à notre présence nécessaire dans la montagne tant que la police ne respectera pas les lois et les droits des exilés..

      Tout l’hiver nous avons bataillé pour essayer de faire reconnaître la place de l’équipe ‘maraude’ au sein des autres équipes du Refuge Solidaire.
      Aujourd’hui, nous espérons que l’on comprend pourquoi.

      Nous pensons qu’il faut que cette ‘action de terrain’ soit reconnue et portée par les Associations, Refuge Solidaire et Tous Migrants ( ce qui est déjà le cas pour cette dernière).

      Nous pensons qu’aucun d’entre nous ne voudrait être à l’image de ces femmes tunisiennes qui refusent désormais d’aller à la pêche parce qu’elles savent que les poissons de leurs filets se sont nourris de la chair de leurs enfants. Et nous ? Jusqu’à quand pourrons nous encore boire l’eau de nos sources et parcourir nos montagnes sereinement ?
      Tout l’hiver,nous avons bataillé pour essayer de faire reconnaître la place de l’équipe ‘maraude’ au sein des autres équipes du Refuge.
      Aujourd’hui nous espèrons que l’on comprend pourquoi.

      Nous pensons qu’une réunion s’impose pour repenser notre présence sur le terrain.
      Nous vous proposons qu’on se retrouve jeudi 17 mai à 18h30 à la MJC pour en parler.

      https://valleesenlutte.noblogs.org/post/2018/05/15/a-propos-des-maraudes

    • Les Alpes : le nouveau front de la migration

      Depuis ce qu’il est convenu d’appeler la crise des migrants et la suspension des accords de Schengen en 2015, les Alpes sont devenus un point sur la route des migrants en dépit de la neige, du froid et des chutes des pierres. C’est l’histoire de ces hommes et de ces femmes qui, loin des questions de politique globale de migration, interviennent auprès de ces populations menacées par une nature hostile dont ils ne connaissent rien. C’est aussi l’histoire de ces élus de terrain, de tous bords politiques, qui, persuadés que leur territoire montagnard resterait à l’abri des bouleversements du monde, se mobilisent pour remédier à cette question qui les touche au quotidien. Le village de Briançon par exemple, peuplé de 12 000 habitants, a vu traverser l’année dernière près de 2 000 nouveaux arrivants, principalement originaires d’Afrique de l’Ouest. Son maire Gérard Fromm, élu divers gauche, se mobilise au côté de Jean-Louis Chevalier, le maire divers droite de Névache, le village frontière. Au centre de cet engagement, les guides de montagne de la région qui s’organisent pour, chaque jour, parcourir le col de l’Échelle et le col de Montgenèvre, afin de venir en aide aux naufragés des Alpes.

      https://www.publicsenat.fr/emission/c-est-vous-la-france/les-alpes-le-nouveau-front-de-la-migration-85213

    • Hautes-Alpes : un migrant retrouvé décédé dans le col du Montgenèvre côté français

      C’est tout simplement terrible. Un jeune homme de couleur noire, très probablement un migrant, a été retrouvé décédé ce vendredi dans la descente du col de Montgenèvre au-dessus de Briançon.

      Quelques jours seulement après la noyade dans la Durance d’une jeune Nigériane de 20 ans, c’est un nouveau migrant qui a été retrouvé sans vie à quelques kilomètres de la frontière au-dessus des Alberts sur la commune de Montgenèvre.

      Ce sont des promeneurs qui ont découvert le corps vendredi après-midi et alerté la gendarmerie.

      Dans le Briançonnais tous les élus et toute la population sont sous le choc de ces drames à répétition qui tendent à donner raison à tous ceux qui alertent du danger depuis des mois et à l’aube d’une saison touristique que ce (très) triste sujet vient reléguer au second plan.

      Le communiqué de presse de Monsieur Raphaël BALLAND, procureur de la République près le TGI de Gap :

      Le vendredi 18 mai 2018, en fin d’après midi, la gendarmerie nationale était informée par des promeneurs de la découverte du corps sans vie d’un homme à la peau de couleur noire dans un bois situé sur la commune de MONTGENEVRE, en amont du hameau des ALBERTS.

      Le parquet de Gap a ouvert une enquête du chef de « recherche des causes de la mort » en application des dispositions de l’article 74 du code de procédure pénale aux fins d’identifier ce jeune homme et de de connaître les circonstances de son décès. Les investigations sont diligentées par la brigade de recherche de Briançon et la brigade de Saint Chaffrey.

      https://www.dici.fr/actu/2018/05/19/hautes-alpes-un-migrant-retrouve-decede-col-montgenevre-cote-francais-1138392

    • Reçu par email via Tous Migrants, le 19 mai 2018

      Bonjour à tous,
      La police barrant la route entre Clavière et Briançon, les exilés qui souhaitent effectuer la traversée doivent s’aventurer dans la montagne et parfois traverser la Durance gonflée par la fonte des neiges. Aujourd’hui même nous avons recueilli le témoignage d’un jeune homme qui a failli être emporté par la rivière dans la nuit. L’ accident dramatique de cette semaine (une jeune femme retrouvée morte noyée dans la Durance) met clairement en lumière le fait que le vrai danger vient de la Police et donc de l’Etat qui empêchent les demandeurs d’asile d’accéder à leurs droits en les refoulant systématiquement. Une fois de plus, il témoigne du manque de discernement des forces de l’ordre : comment peut-on oser poursuivre et mettre en fuite, en pleine nuit, des femmes et des hommes épuisés par la route, à proximité d’un torrent de montagne gonflé par la fonte des neiges ? C’est juste impensable. Nous espérions avoir réussi à éviter cela depuis le début de cet hiver en nous plongeant dans les nuits glaciales maraudes après maraudes. Depuis le mois de Mars, la salle paroissiale de l’Eglise de Clavière s’est transformée petit à petit, grâce aux énergies des uns et des autres en un lieu sympathique à partir duquel les exilés cherchent un chemin pour rejoindre la France. L’hiver prenant fin, notre présence ici à Clavière a permis de rendre moins difficile et moins dangereuse la traversée vers la France et l’arrivée au Refuge Solidaire, au 115, chez Marcel, à l’hôpital ou dans une famille accueillante. Pour les équipes ’maraudes’, cela a été une nouvelle façon d’apporter de l’aide en permettant aux exilés qui franchissent le col de Montgenèvre de se réapproprier la façon dont ils souhaitent ou peuvent entreprendre la fin de leur parcours vers la France. Nous avons donc arrêté les maraudes nocturnes. Nous restions cependant inquiets, parce que les risques encourus sont nombreux et exacerbés par la présence de la Police, des militaires et, depuis 3 semaines, des identitaires, présents jusque dans la ville de Briançon. Les équipes du Refuge le constatent également tous les jours : les éxilés arrivent dans un état de fatigue beaucoup plus important, souvent avec des blessures, après des périples de parfois plusieurs jours dans la montagne, des nuits passées dehors dans le froid... Tout cela rend le travail des bénévoles plus difficile. Nous en avons la preuve aujourd’hui : la nécessité de réorganiser notre présence sur le terrain est donc plus que justifiée par cet accident. Nous devons pouvoir continuer à être présents et à apporter notre aide dans le but de sauver des vies. On retrouve là ce qui a été la motivation première de la mise en place des maraudes. Personne ne doit mourir en montagne, ni par le froid, ni par épuisement, ni sous une avalanche, ni par noyade dans la Durance !... Si nous y croyons, ne nous laissons pas décourager, soyons fidèles aux valeurs qui sont les nôtres, continuons à les mettre en pratique. Il faut qu’on s’habitue à notre présence nécessaire dans la montagne tant que la police ne respectera pas les lois et les droits des exilés... Tout l’hiver nous avons bataillé pour essayer de faire reconnaître la place de l’équipe ’maraude’ au sein des autres équipes du Refuge Solidaire. Aujourd’hui, nous espérons que l’on comprend pourquoi.

      Nous pensons qu’il faut que cette ’action de terrain’ soit reconnue et portée par les Associations, Refuge Solidaire et Tous Migrants (ce qui est déjà le cas pour cette dernière).
      Nous pensons qu’aucun d’entre nous ne voudrait être à l’image de ces femmes tunisiennes qui refusent désormais d’aller à la pêche parce qu’elles savent que les poissons de leurs filets se sont nourris de la chair de leurs enfants. Et nous ? Jusqu’à quand pourrons nous encore boire l’eau de nos sources et parcourir nos montagnes sereinement ? Nous pensons qu’une réunion s’impose pour repenser notre présence sur le terrain.
      Nous vous proposons qu’on se retrouve jeudi 17 mai à 18h30 à la MJC pour en parler.
      Bises à tous,
      Anne et Benoit

      Courrier envoyé par Anne et Benoît -Tous Migrants- pour appeler à la réunion de jeudi 17.05.2018

    • Le corps d’un migrant a été retrouvé à la frontière franco-italienne

      Des randonneurs ont découvert, vendredi, le corps d’un jeune homme noir dans un bois de la commune de Montgenèvre, à proximité de la frontière franco-italienne. La justice cherche à l’identifier. Il pourrait s’agir d’un migrant. Une enquête est en cours pour préciser les circonstances de sa mort.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/9359/le-corps-d-un-migrant-a-ete-retrouve-a-la-frontiere-franco-italienne?r

    • Hautes-Alpes : Génération identitaire, es-tu toujours là ?

      Le porte parole du mouvement Romain Espino apporte une réponse très claire et sans équivoque « oui nous sommes toujours là , nous sommes toujours en mission dans le Briançonnais »
      À la question, Génération identitaire es-tu encore là dans le Briançonnais ? Le porte parole du mouvement #Romain_Espino apporte une réponse très claire et sans équivoque : « oui nous sommes toujours là, nous sommes toujours en mission dans le Briançonnais, nous sommes entrés dans la 3ème phase de l’opération. La première phase était de bloquer le Col de l’Echelle pour attirer l’attention des médias et de faire en sorte que les politiques se positionnent sur cette question. Ensuite nous sommes passés sur une phase où des équipes mobiles de surveillance qui avaient pour vocation d’attirer d’attention sur l’ensemble de la zone et plus uniquement sur le Col de l’Echelle et puis là nous sommes dans une phase où l’on réalise un vrai travail d’investigation. » Depuis leur présence dans le Briançonnais du 21 avril, le mouvement Génération Identitaire engagé dans l’opération répondant au nom de code « #Mission_Alpes » a enclenché la phase 3 de l’opération qui consiste à mener des investigations.
      Une dizaine de membres du mouvement se relaie chaque semaine pour mener des opérations d’investigations avec la même conviction que celles menées en Méditerranée en août 2017 comme précise Romain Espino, « les réseaux de passages clandestins sont constitués souvent de la même façon, on a d’un côté des passeurs au sens propre du terme qui se font rémunérer pour pouvoir passer des clandestins et de l’autre côté des associations ou militants qui agissent par idéologie et qui utilisent les clandestins pour servir leurs idées au détriment donc des clandestins comme on l’a vu en Méditerranée et au col de l’Echelle et surtout au détriment des Français et des Européens. »

      Une présence remarquée des activistes de Génération Identitaire qui n’est pas du tout au goût de la municipalité.

      Le maire de Briançon a tenu à informer la préfecture au travers d’une lettre précisant la présence de ce mouvement. La municipalité ne comprend pas « l’inaction de l’Etat ».
      « Ce qui est vraiment gênant, c’est que nous sommes amené à les croiser en ville comme par exemple sur le marché où ils étaient présents pour faire signer des pétitions, ils font du collage sauvage dans plusieurs endroits de la ville. On a même recueilli plusieurs témoignages de migrants via l’association Refuge Solidaire qui disent avoir été traqués par les personnes de Génération Identitaire. Nous trouvons que ces activistes cherchent à alimenter un climat de peur », souligne sur Alpes 1 Vincent Faubert, directeur de cabinet du maire de Briançon

      « La loi est de notre côté , et on va pas s’en priver », R. Espino

      Le Procureur du parquet de Gap est en train d’enquêter sur les membres du groupe, afin de déterminer s’ils auraient usurpé la fonction publique lors des maraudes en zone frontalière et annonces de leur part d’enquêtes sur les associations pro-migrantes. Pas de quoi inquiéter outre mesure le porte parole de Génération identitaire Romain Espino : « en effet on a entendu parler de ce délit d’immixtion dans un travail de la fonction publique, la réalité est tout autre, car notre but était d’attirer l’attention et de montrer que les pouvoirs publics ne faisaient pas leur travail. Pour preuve, nous avons constaté que maintenant il y a une reprise en main du col de l’Echelle. Aujourd’hui nous faisons un travail d’investigation et nous avons tout à fait le droit de le faire, la loi est de notre côté, et on va pas s’en priver. »

      D’un côté une municipalité qui conteste la présence et les actions d’un tel mouvement au titre d’un risque important de débordement à l’ordre publique et de l’autre un mouvement européen déterminé à rester sur le territoire pour mener à bien sa mission. Un bras de fer qui risque de durer encore un certain temps.

      http://alpesdusud.alpes1.com/news/hautes-alpes/68897/hautes-alpes-generation-identitaire-es-tu-toujours-la

    • A Briançon, les migrants meurent et leurs soutiens passent en procès

      « Il y a un an, quand on dépliait une banderole « les frontières tuent », tout le monde trouvait ça exagéré. Aujourd’hui… ». Aujourd’hui, tout le monde est malheureusement d’accord avec Agnès Antoine, du collectif Tous Migrants. Ce n’est pourtant pas faute d’avoir « crié au loup » assez tôt. Cela fait maintenant plus d’un an que la ville de Briançon et ses habitants alertent sur les terribles conditions dans lesquelles des milliers de migrants ont tenté, et continuent de tenter chaque jour, la traversée de la frontière franco-italienne, au niveau du col de l’Echelle, puis, lorsque ce dernier est entièrement enneigé pendant les mois d’hiver, au col de Montgenèvre (voir notre précédent article à ce sujet).

      C’est à cet endroit, en amont du hameau des Alberts, à l’entrée de la vallée de la Clarée, à quelques encablures de Montgenèvre, qu’a été découvert vendredi 18 mai le corps d’un migrant, mort. Il s’agirait de Mamadou, d’origine sénégalaise. Jusqu’à présent, les autorités officielles n’ont pas encore confirmé l’identité de ce « jeune homme noir » tel qu’il est présenté dans la presse. Mais en récupérant la veille un autre migrant sénégalais, à bout de force et en état de choc, le « Refuge » [1] de Briançon a établi la triste connexion. « Ibrahim a raconté avoir perdu son compagnon de route après plusieurs jours et plusieurs nuits, égarés dans la montagne. Ils venaient tous deux du même village au Sénégal », rapporte Agnès Antoine. Les circonstances du drame restent encore floues pour le moment : une chute dans le ravin ? une mort par épuisement ? Le parquet a ouvert une enquête pour rechercher les causes de la mort. Ibrahim, le survivant, a été pris en charge en tant que mineur par le Conseil départemental dans le centre de Sorges.

      Mort de deux migrants en dix jours

      Il s’agit du deuxième décès en dix jours dans le briançonnais. Le 9 mai, le corps de Blessing était repêché dans la Durance. Cette Nigériane de 20 ans se serait noyée en tentant d’échapper à un contrôle des forces de l’ordre au niveau de La Vachette, quelques kilomètres avant Briançon mais bien après la frontière. Difficile également d’en savoir plus sur les circonstances précises de ce décès, comme en atteste le bouleversant récit qu’en livre Mediapart : ni les services de police et de gendarmerie, ni le parquet de Gap ne souhaitent s’exprimer sur le dossier.

      Une chose est sûre, le « petit miracle », celui de ne pas avoir encore découvert de cadavres au pied de leur montagne, s’est définitivement brisé pour tous ces citoyens qui assurent maraudes, hébergement et ravitaillement depuis le début. Avec Blessing puis Mamadou, le Briançonnais a rejoint Vintimille ou la vallée de la Roya au rang des points meurtriers de la frontière franco-italienne (Voir notre article sur le sujet). « Il y a un effet de sidération, confirme Agnès Antoine. On se retrouve à devoir gérer des choses que l’on n’imaginait pas : comment prévenir la famille du défunt ? comment rapatrier son corps ? ».

      Génération identitaire continue sa traque aux migrants

      La succession de ces deux drames coïncide avec l’arrivée sur le territoire du groupuscule Génération Identitaire. Depuis le samedi 21 avril, des militants d’extrême-droite se mettent en scène régulièrement, sur les réseaux sociaux et en toute impunité, comme gardiens de la frontière. « Nous sommes toujours en mission dans le briançonnais, assurait ainsi ce lundi Romain Espino, le porte-parole du mouvement, auprès de la radio locale Alpes 1. Nous sommes dans une phase où l’on réalise un vrai travail d’investigation ». La stratégie a semble-t-il désormais dépasser le simple stade de la communication : plusieurs échos font état d’une véritable traque de migrants entreprenant le passage (voir ici).

      Ce ne sont pourtant pas eux qui seront poursuivis par la justice à la fin du mois – bien que les procureurs auraient pu se saisir d’une infraction pour « comportements hostiles à la circulation des migrants » [2]. Le 31 mai prochain doit s’ouvrir à Gap le procès des « trois de Briançon » : Bastien, Théo et Eleonora, arrêtés le lendemain de la démonstration de force de la mouvance fasciste, le 22 avril, lors d’une contre-mobilisation pacifique reliant le col de Montgenèvre à Briançon.

      « Ce qui se passe est très très grave, analyse Michel Rousseau, cofondateur du réseau Tous Migrants. C’est tout notre système d’État de droit que l’on détricote peu à peu. Et qui nous mène à assimiler la défense d’un droit collectif à quelque chose de délictuel. Ce sont des assimilations particulièrement dangereuses, on marche sur la tête ». Pour cette manifestation de solidarité, requalifiée donc en « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière », les trois prévenus risquent 10 ans de prison et 750 000 Euros d’amende. Plusieurs mobilisations de soutien sont prévues les prochains jours, notamment ce dimanche 27 mai à Paris, à 15h30, à l’issue des États généraux des migrations. Pendant ce temps-là, Génération Identitaire continue à relayer sur Twitter photos et autres appels à la chasse aux migrants, dans le silence général. Celui-là même qui accompagne les drames qui se jouent actuellement dans les Alpes briançonnaises…

      https://www.bastamag.net/A-Briancon-les-migrants-meurent-et-leurs-soutiens-passent-en-proces

    • #Erri_De_Luca : « Porter secours n’est pas un choix mais un devoir »

      Selon Erri De Luca, quand la #fraternité est illégale, il faut désobéir. L’écrivain italien a lancé un appel en soutien aux « trois de Briançon », une Italienne et deux Suisses qui encourent dix ans de prison pour avoir aidé des migrants à passer la frontière.

      https://www.politis.fr/articles/2018/05/erri-de-luca-porter-secours-nest-pas-un-choix-mais-un-devoir-38845
      #désobéissance

    • Theo et Bastien sortent du silence

      Les deux Genevois qui ont participé à une marche de solidarité avec les migrants dans les Hautes-Alpes se disent victimes d’un procès politique pour délit de solidarité.

      « Nous sortons du silence, car l’Etat français n’a aucune raison valable de nous museler », déclare Theo, 24 ans, face aux journalistes convoqués jeudi à Annemasse, ville aux portes de Genève. A ses côtés, Bastien, 26 ans, explique que leurs avocats les ont prévenus que s’exprimer de la sorte était risqué mais qu’ils assumaient ce risque. Sous contrôle judiciaire en attendant leur procès jeudi prochain à Gap (Hautes-Alpes), ils ont l’interdiction de s’exprimer publiquement.

      Theo et Bastien sont ces deux Genevois qui, avec l’Italienne Eleonora, sont poursuivis par le Tribunal de Gap pour aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national en bande organisée. Ils risquent jusqu’à dix ans de prison et 750 000 euros d’amende. Ces jeunes défenseurs des migrants, dits les « 3 de Briançon », et les comités de soutien qui se sont formés en Suisse, en France et en Italie, dénoncent un « procès politique » pour « délit de solidarité ».

      Ils avaient participé à une marche près de Briançon, dans les Hautes-Alpes, le long de la frontière franco-italienne en compagnie d’une trentaine de migrants le 22 avril. Une action qui répondait à celle, la veille, du groupe Génération identitaire au col de l’Echelle, visant à bloquer ce passage de migrants.
      Inégalités de traitement

      Theo, Bastien et Eleonora avaient alors été arrêtés puis placés en détention provisoire à la prison des Baumettes à Marseille. Le 3 mai, le Tribunal de Gap les a libérés en attendant leur procès, les plaçant sous contrôle judiciaire. Accueillis chez des proches en Haute-Savoie (Eleonora est à Marseille), Theo et Bastien ne peuvent quitter ce département et doivent régulièrement se présenter dans une gendarmerie, à 30-40 minutes d’où ils logent. Chaque jour pour Theo. Chaque semaine pour Bastien. Une inégalité que ce dernier ne s’explique pas.

      Etudiant en histoire économique, il a des examens en juin. Theo, maître nageur, devait travailler dès le 11 mai à la piscine de Carouge. « Nous ne pouvons pas rentrer chez nous, la répression est dure à vivre. Nous sommes stoppés dans nos études et notre travail. Mais si notre expérience aura aidé à une prise de conscience du calvaire que vivent les migrants, alors elle n’aura pas été vaine. »

      Car Theo et Bastien ne veulent pas qu’on s’attarde sur leurs personnes. S’ils se mettent sous le feu des projecteurs, c’est « pour préciser leur positionnement politique dans ce qui semble un procès politique » visant à « casser la solidarité internationale » envers les migrants, avait introduit Anna, une étudiante du comité de soutien genevois. Elle dénonce la « chasse à l’humain » des autorités. « En moins de deux semaines, deux personnes sont mortes à la frontière près de Briançon, dont une jeune femme qui s’est noyée après avoir fui un contrôle de police. »

      Theo ne décolère pas : « La situation aux frontières est de plus en plus désastreuse, nous ne pouvons nous taire. Malgré la répression, nous ne baissons pas la tête. Elle vise à faire peur aux gens solidaires, mais nous n’avons pas peur. Notre objectif est de recentrer la question sur l’inhumanité orchestrée par l’Etat et que les migrants subissent. »

      « Notre séjour en prison a appuyé notre détermination, enchaîne Bastien. Les privilèges ressentis en tant que Blancs, de classes aisées, ont été très forts. Cela reflète l’injustice de cette société que les réfugiés et détenus racisés subissent. »
      Contre une société injuste

      Le jeune homme précise ses convictions : « Nous sommes jeunes, nous devons nous positionner, il s’agit de ce que nous avons dans le cœur. Le monde va vers toujours plus d’inégalités, ravagé par l’exploitation humaine et animale, les guerres, le racisme, le fascisme, le sexisme. Cette violence inouïe nous pousse à nous engager, en questionnant le problème à la racine et avec radicalité. La cause de ces violences, c’est le capitalisme. Que dire à un réfugié dont le territoire a été est pillé par la mondialisation ? Tant qu’on vivra dans cette société injuste, il y aura des gens pour traverser la Méditerranée. Leur venir en aide ne devrait même pas être une question. »

      Theo croirait être revenu à la Seconde Guerre mondiale, « quand le délit de solidarité a été beaucoup utilisé à l’encontre de ceux qui ont aidé les juifs ». Le tout alors que les autorités ferment les yeux sur les actes des « fascistes de Génération identitaire », preuve de la « partialité de la justice ». « Il fallait enfermer quelqu’un, c’est tombé sur nous. »


      https://lecourrier.ch/2018/05/24/theo-et-bastien-sortent-du-silence

    • Un nouveau corps de migrant retrouvé dans les Hautes Alpes.
      Troisième.
      Ce que les professionnels de la montagne redoutaient devient hélas réalité.

      "Bardonecchia, il corpo di un migrante affiora tra neve e detriti dell’Orrido del Frejus"

      E’ il terzo in pochi giorni, il primo sul versante italiano. In corso il recupero del soccorso alpino delle Fiamme Gialle.

      Lo hanno trovato poco prima di mezzogiorno lungo il torrente Frejus, nel sentiero che conduce all’orrido omonimo. Sopra l’abitato di Bardonecchia, il migrante con ogni probabilità si era perso e vista l’impossibilità di passare dal tunnel ferroviario, da tempo presidiato dai militari, aveva cercato di raggiungere la valle Stretta e il colle della Scala, sbagliando però strada e inririzzandosi verso un sentiero troppo difficile.
      Il primo a vedere i resti è stato un escursionista che ha subito chiamato i soccorsi. Gli uomini della guardia di finanza che hanno recuperato il corpo non sono riusciti a identificarlo perché il migrante non aveva con sé dei documenti. Il poco che si sa è che si tratta di un maschio dalla pelle scura, ma per stabilirne la nazionalità ci vorrà tempo.

      Il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, impegnato nella gestione della tappa del Giro d’Italia che arriverà oggi in cima allo Jafferau, è stato subito informato della tragedia: «Si tratta di una notizia orribile che getta un velo di tristezza su una giornata che doveva essere di festa - commenta il primo cittadino - Quanto successo dimostra ancora una volta che il primo impegno di tutti deve essere la garanzia dell’incolumità di chi cerca di passare queste montagne. I volontari che operano nel punto di assistenza aperto alla stazione si sono occupati di più di 1500 migranti in questi mesi, ma purtroppo non è bastato per evitare la morte di uno di loro. Questo ci divide il cuore a metà nel giorno del Giro, tra la bellissima festa di popolo che stiamo vivendo e le notizie ferali che arrivano dalla montagna». Durante l’inverno sono decine le chiamate di soccorso raccolte da volontari e soccorso alpino, ma quella del migrante ignoto, morto sopra Bardonecchia, non è mai arrivata.

      Nei giorni scorsi i corpi di altri due migranti, morti nel tentativo di varcare la frontiera, erano stati recuperati sul versante francese delle Alpi:
      la nigeriana Blessing Matthew era stata ripescata nella Durance dove era annegata cercando di sfuggire all’inseguimento della Gendarmerie, mentre il senegalese Mamadou era stato ritrovato sul sentiero che dal Monginevro discende a Briançon, dove si era perso morendo di sfinimento.

      http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/05/25/news/bardonecchia_il_corpo_di_un_migrante_affiora_tra_neve_e_detriti_su

    • Merci @sinehebdo, j’ajoute tout le texte de l’article ici aussi :
      Militants promigrants : « Notre réaction, c’est la solidarité et on nous réprime pour nos idéaux »

      Alors qu’ils doivent être jugés le 31 mai, deux Suisses interpellés pour avoir fait passer la frontière franco-italienne à une vingtaine de migrants ont donné ce jeudi une conférence de presse.

      « Nous sommes en colère. Nous ne baisserons pas la tête, malgré la répression. On cherche à faire peur aux personnes solidaires des migrants, mais nous n’avons pas peur. » Une semaine avant leur procès qui se tiendra le 31 mai à Gap (Hautes-Alpes), Bastien, 26 ans, et Théo, 24 ans, deux Suisses de la région de Genève, ont décidé de s’exprimer devant la presse, jeudi à Annemasse, petite ville haut-savoyarde proche de Genève. Ils sont poursuivis pour avoir « facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France » de migrants, des « faits commis en bande organisée » selon le parquet de Gap et passibles d’une peine de dix ans de prison, de 750 000 euros d’amende et d’interdiction du territoire français.

      Le 22 avril, ils avaient participé à une marche de militants engagés promigrants, au col de Montgenèvre, sur la frontière franco-italienne, en réaction au happening de militants d’extrême droite de Génération identitaire organisé au même moment sur le col voisin de l’Echelle. En se mêlant à cette manifestation improvisée, une vingtaine de migrants avaient pu passer la frontière. Bastien et Théo, ainsi qu’une Italienne de 24 ans, Eleonora, avaient été interpellés à l’issue de la marche. Présentés devant les juges en comparution immédiate, ils avaient obtenu le report de leur procès mais avaient été placés en détention provisoire, aux Baumettes à Marseille. Leurs avocats avaient obtenu leur libération onze jours plus tard, sous strict contrôle judiciaire, avec obligation de résider en France et l’interdiction de s’exprimer sur les réseaux sociaux. Ils avaient reçu le soutien d’un millier de personnalités françaises, suisses et italiennes, toutes signataires d’un texte de l’écrivain italien Erri de Lucas.

      « Deux poids deux mesures »

      « Nous sortons du silence, pour alerter sur ce que nous avons vu. La situation aux frontières est désastreuse », précisent Théo et Bastien, expliquant que si « la répression est dure à vivre pour nous, elle l’est encore plus pour les migrants ». « Notre séjour en prison a amplifié notre détermination », précise Bastien, mais c’est surtout la situation à la frontière qui révolte les deux jeunes au discours anticapitaliste assumé : « La répression de la solidarité avec les migrants est une honte, alors que des vies sont en jeu. Nous, Européens, passons cette frontière sans la voir, mais les migrants, eux, y meurent. Génération identitaire et la police ont une responsabilité. Dernièrement, deux personnes sont mortes, dont une qui se serait noyée en voulant échapper à la police. Il ne nous est pas possible de rester impassibles face à ça », insiste Théo.

      Deux corps de migrants ont effectivement été découverts près de Briançon ces dernières semaines. Le 9 mai, une jeune Nigériane de 20 ans, Blessing Matthew, a été retrouvée noyée dans la Durance. Le réseau d’aide aux migrants de Briançon est affirmatif : la jeune femme, après avoir passé la frontière et peu avant sa disparition, avait été poursuivie en pleine nuit et sans succès par la police. Une enquête pour « recherche des causes de la mort » est en cours sous la direction du parquet de Gap. Le 18 mai, le corps d’un homme noir a été découvert dans un bois sous le col de Montgenèvre, « mort d’épuisement » selon le collectif local Tous migrants qui s’appuie là encore sur le témoignage d’un de ses compagnons d’infortune. Une autre enquête a été ouverte par le parquet. « Notre réaction, c’est la solidarité, et on nous réprime pour nos idéaux, ajoute Théo. Le fait de fermer les yeux sur les délits de Génération Identitaire et de nous mettre aux Baumettes parce qu’on a fait une marche solidaire montre la partialité du parquet de Gap ! C’est deux poids deux mesures, il y a un réel acharnement contre nous. Nous avons été pris comme boucs émissaires, de façon arbitraire. »

      « Crier leur souhait de plus de justice »

      A l’issue de la conférence de presse, Bastien avoue : « Nous ne sommes pas très à l’aise avec le fait de nous mettre en avant quand d’autres sont directement concernés… Mais cela nous est tombé dessus ! » Sa mère, Laurence Stauffer-Cart, dit, sereine : « Bastien est cohérent, authentique, il ne triche pas. Théo et lui ont à mes yeux beaucoup de mérite de ne pas s’arrêter à leur petite cause et de prendre le risque de dire ce qu’ils doivent dire. Ils ne peuvent faire autrement que de s’offusquer et de crier leur souhait de plus de justice, d’un monde qui soit bon. Ils ont tout mon soutien ». Le 31 mai devant le tribunal de Gap, leurs avocats seront accompagnés pour plaider leur cause du pénaliste Henri Leclerc, avocat entre autres de la Ligue des droits de l’homme.


      http://www.liberation.fr/france/2018/05/24/militants-promigrants-notre-reaction-c-est-la-solidarite-et-on-nous-repri

    • Erri de Luca : Appel pour la libération des 3 de Briançon.
      Eugénio Populin, Médiapart, le 3 mai 2018
      https://blogs.mediapart.fr/eugenio-populin/blog/030518/erri-de-luca-appel-pour-la-liberation-des-3-de-briancon

      Erri de Luca : « Rien au monde ne peut empêcher les migrants de venir »
      Politis, Youtube, le 23 mai 2018
      https://www.youtube.com/watch?v=Ji0R3Mb8EQQ

      Erri De Luca : « Porter secours n’est pas un choix mais un devoir »
      Ingrid Merckx et Vincent Richard, Politis, le 23 mai 2018
      https://www.politis.fr/articles/2018/05/erri-de-luca-porter-secours-nest-pas-un-choix-mais-un-devoir-38845

      Aussi là :
      https://seenthis.net/messages/697047
      #paywall

    • LA FRONTIERA HA UCCISO ANCORA

      Terzo morto in meno di venti giorni

      Blessing, 21 anni, morta nel fiume mentre fuggiva da un inseguimento della Police National.
      Mamadou, morto nei boschi per sfinimento in seguito un respingimento della polizia.

      Ieri un altro cadavere è stato trovato nell’orrido del Frejus, lato italiano. Un corpo in stato avanzato di decomposizione, ritrovato solo ora che la neve si sta sciogliendo.

      3 morti in meno di venti giorni.

      Questa frontiera sta diventando velocemente un cimitero.

      Polizia. Gendarmerie. PAF (la polizia di frontiera). Chasseurs alpin (gli alpini). Sono loro i responsabili diretti di queste morti. La frontiera uccide attraverso le sue divise. Le «forze dell’ordine» sono il braccio armato di questo dispositivo di selezione ed esclusione che ultimamente è anche qui diventato assassino.

      Se non ci fosse la polizia che controlla i documenti, chi vuole spostarsi potrebbe farlo in treno, in aereo o in bus.

      La repressione delle «forze dell’ordine» verso i «migranti», i «sans papiers», si traduce in omicidio visibile su queste montagne, ma inizia da molto più lontano. Sono le retate nelle strade delle città, dove la polizia effettua sempre più blocchi specifici a caccia di chi un documento non ce l’ha, per minacciarlo o chiuderlo in un CPR. Sono le guardie dei Centri Permanenti per il Rimpatrio, i nuovi CIE che Minniti ha deciso di aumentare e mettere più vicino agli aeroporti per facilitare le deportazioni. Sono i dipendenti delle questure delle varie Commissioni Territoriali che hanno il potere di decidere se dare un pezzo di carta o meno ai «richiedenti asilo».
      È ogni divisa che risponde all’imperativo di selezione che chiedono le varie istituzioni politiche ed economiche.

      La frontiera ha ucciso di nuovo.
      Le «forze dell’ordine» ne sono state l’esecutore materiale.

      Non dimentichiamo, non perdoniamo.


      Vu sur la page FB de « Chez Jésus », le 26.05.2018 :
      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=379301939221875&id=362786637540072

    • Primavera a Bardonecchia

      Un cadavere che sbuca dalla neve.
      Qualche riga di agenzia tra le notizie dal giro d’Italia. Nessun nome, solo ossa e lembi di pelle scura, tutto quello che ha lasciato la montagna. Nessuna lacrima, il giorno dopo il mondo ha dimenticato che eri un uomo con i tuoi sogni oltre quella montagna. Con la tua storia che aveva attraversato il deserto e il mare e si è fermata sotto la neve. Pensiamoci, in silenzio.

      https://www.facebook.com/Rainbow4Africa/photos/a.474468992873.250931.40318577873/10155635334837874/?type=3&theater
      #Mauro_Biani

    • Solidarité avec les 3 de Briançon
      Texte trouvé sur FB, avec le commentaire « L’humanité du jour », j’en déduis que c’est la source, donc : L’Humanité, 25.05.2018


      https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10155175212072820&set=a.10152617350107820.1073741828.718017

      C’est en effet l’extrait du texte que j’ai entendu à la place de la République à Paris, lors de la manifestation en soutien aux 3 de Briançon.
      Hélas, pas beaucoup de monde à la manif...

    • Hautes-Alpes : les 3 de Briançon, « s’ils sont incriminés alors, je suis leur complice » E. de Luca

      Annoncé présent lors d’un appel à l’action à la Roche-de-Rame, l’écrivain italien a envoyé une vidéo de soutien à Bastien, Théo et Eleonora.
      Déjà présent pour lancer un appel à la libération des « 3 de Briançon » le 2 mai dernier, l’écrivain italien Erri de Luca (prix Femina étranger en 2002, Prix européen de littérature en 2013 ainsi que le Prix Ulysse pour l’ensemble de son œuvre), s’engage à nouveau pour les deux Suisses, Bastien et Théo, ainsi que l’Italienne Eleonora.

      Jugés pour aide à l’entrée de personnes en situation irrégulière et en bande organisée, leur procès aura lieu ce jeudi 31 mai. L’écrivain qui devait être présent lors d’un appel à l’action ce mercredi à la Roche-de-Rame, a envoyé cette vidéo de soutien dans laquelle il indique « si les trois jeunes poursuivis sont incriminés alors je suis leur complice. »

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=70&v=IoMKoNHWcEo


      http://alpesdusud.alpes1.com/news/hautes-alpes/69105/hautes-alpes-les-3-de-briancon-s-ils-sont-incrimines-alors-je-sui

    • Le procès des « 3 de Briançon » pourrait être renvoyé

      C’est une audience très attendue qui doit se tenir devant le tribunal correctionnel de Gap ce jeudi. Celui de Bastien, Théo et Eleonora poursuivis pour aide à l’entrée et à la circulation sur le territoire national d’étrangers en situation irrégulière. Ceux qu’on surnomme les « 3 de Briançon » avaient été interpellés le dimanche 22 avril à la suite d’une manifestation à la frontière franco-italienne. Une manifestation en réponse à l’action organisée par le groupe d’extrême-droite, Génération identitaire.

      L’audience pourrait être renvoyée à une date ultérieure. Pour cause ? Une question prioritaire de constitutionnalité transmise au Conseil constitutionnel le 9 mai dernier par deux plaignants, dont le militant de la vallée de la Roya, Cédric Herrou. En somme, les Sages doivent trancher : est-ce que le délit d’aide à l’entrée est compatible au principe constitutionnel de fraternité ?

      Concernant l’audience des « 3 de Briançon », le parquet devrait soulever cet élément et la défense pourrait soulever le même point. Le tribunal pourrait donc renvoyer l’audience en prononçant un sursis à statuer jusqu’à la décision du Conseil constitutionnel. Car si les Sages déclarent la disposition législative contraire à la Constitution, elle est abrogée et disparaît de l’ordre juridique.

      La question posée au Conseil constitutionnel : « En édictant les dispositions des dispositions combinées des articles L. 622-1 et L. 622-4 du code de l’entrée et de séjour des étrangers et du droit d’asile – en ce que, d’une part, elles répriment le fait pour toute personne d’avoir, par aide directe ou indirecte, facilité ou tenté de faciliter l’entrée, la circulation ou le séjour irréguliers, d’un étranger en France même pour des actes purement humanitaires qui n’ont donné lieu à aucune contrepartie directe ou indirecte et, d’autre part, elles ne prévoient une possible exemption qu’au titre du seul délit d’aide au séjour irrégulier d’un étranger en France et non pour l’aide à l’entrée et à la circulation –, le législateur a-t-il porté atteinte au principe constitutionnel de fraternité, au principe de nécessité des délits et des peines et au principe de légalité des délits et des peines ainsi qu’au principe d’égalité devant la justice garantis respectivement par les articles 8 et 6 de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen ? »

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/05/29/le-proces-des-3-de-briancon-poursuivis-pour-avoir-aide-des-migrants-lors

    • Alpha. Ce matin, ton inhumation aux Alberts. Demain soir, à 20h30, nous t’y rendrons un dernier hommage.

      Alpha
      Surtout et par dessus tout, il faut te rendre hommage.
      Toi l’enfant, l’homme, le frère
      Ici la terre pleure ton âme échouée.
      Pardonne nous Alpha car nous n’avons pas su te sauver.
      Nous avons cru être forts, parfaits, encore convaincus d’avoir évité le pire. Mais te voici avec ton corps d’adolescent, ayant tout perdu, ayant tout donné.
      Tu es une brèche Alpha, une faille par laquelle nous pouvons laisser entrer tant de choses.
      Qu’allons nous décider de faire entrer dans cette brèche ?
      La brèche est l’espace qui nous laisse entrevoir l’obscurité ou la lumière. Tout dépend de la place qu’on décide d’adopter.
      Que choisissons nous de voir à travers toi Alpha ?
      La noirceur de l’inhumanité, de la haine, de la peur et de l’ignorance ? Non
      Il ne faut pas s’habituer Alpha et on te promet de ne pas s’habituer à la banalité des mots qui vous qualifient, à l’anonymat, à l’injustice ou au spectaculaire éphémère utilisé sans vergogne et sans honte.
      Du fond de la brèche, on entend gronder la colère de tous. Les hommes, les femmes, les frères.
      Du fond de cette brèche nous allons prendre soin de l’ordinaire, du cadeau de vos rencontres sur ce chemin d’exil et sur cette terre que nous voulons souriante.
      De cette brèche, il nous faut nous tourner vers la lumière.
      La lumière de vos regards brillants et nourris d’espoir, la lumière de vos mains maintes fois serrées dans les nôtres, la lumière de nos fraternités incontournables et indispensables.

      Repose en paix parmi nous

      https://www.facebook.com/tousmigrants/posts/2160116644219903

    • Migrants : la solidarité est-elle punissable ?

      On les appelle les « Trois de Briançon ». Deux Genevois, Bastien et Théo, et une Italienne, Eleonora. Ils seront jugés ce jeudi 31 mai pour avoir aidé des migrants à entrer illégalement en France. Un scandale, affirment leurs nombreux soutiens, pour qui la compassion n’a pas à être criminalisée.

      Alors faut-il sévir contre ceux qui aident les migrants à franchir illégalement nos frontières ? La solidarité est-elle punissable ?

      https://www.rts.ch/emissions/infrarouge/9602122-migrants-la-solidarite-est-elle-punissable-.html

      Dans l’émission, ces deux infographies ont été montrées :


      #statistiques #chiffres
      –-> malgré ce qui a été dit durant l’émission, je pense qu’il ne s’agit pas de chiffres sur le nombre de PERSONNES qui ont traversé la frontière, mais le nombre de CAS appréhendés (une personne tentant à plusieurs reprises de traverser la frontière serait comptée plusieurs fois).
      Ceci est le cas des statistiques du corps des gardes-frontière en Suisse, je pense que c’est la même chose pour les statistiques sur la frontière italo-française, mais il faudrait vérifier...

      Suite à l’émission, j’ai écrit ce message à une personne qui était présente sur le plateau pour le comité de défense des 3 de Briançon... pour clarifier un peu ce qui se passe sur la frontière et qui a le droit de faire quoi...

      J’ai vu Infrarouge hier soir
      ça ne volait vraiment pas très haut, hélas...
      Si jamais, pour une prochaine fois, peut-être ce texte peut être intéressant pour votre comité :
      https://asile.ch/2016/12/15/regard-dune-citoyenne-mineurs-non-accompagnes-lacte-de-lisa-bosia-mirra-legiti
      Regarde surtout l’encadré en bas de la page
      J’ai pas pensé à vous l’envoyer AVANT l’émission, pardon
      Une chose à laquelle il faut faire attention la prochaine fois : les « contre » disait souvent « les migrants économiques qui entrent illégalement sur le territoire français »... en fait, ce n’est pas aux gardes-frontière à juger... une personne sans documents PEUT entrer sur le territoire si il « manifeste la volonté de demander l’asile » (c’est le texte de la loi suisse, mais les autres lois européennes sont similaires —> La définition du réfugié étant déclarative, les pays ne peuvent pas refouler une personne qui DECLARE être en danger si renvoyée !)... c’est APRES, quand sa demande sera examinée, que le pays en question peut prononcé un renvoi, si la personne n’est pas considérée réfugiés ou en besoin de protection. Mais ça se décide sur le territoire, après une procédure, et non pas par la frontière et pas par les gardes-frontières !!!
      C’est pour cela qu’il faut insister sur le fait que les migrants ont le DROIT d’entrer sur le territoire français en vue de déposer une demande d’asile. Alors que les gardes-frontière et la police, eux, n’ont pas le droit de les refouler ! Ce sont les forces de l’ordre à être dans l’illégalité, non pas les migrants.
      Ce que les manifestants ont fait ne peut donc pas être considéré illégal, car ils ont permis aux demandeurs d’asile de pouvoir exercer leur droit !
      --> Il faut donc complètement retourner le discours…

      Je pense que c’est important de garder cela en tête pour un prochain futur débat
      Tu peux aussi lire :
      https://asile.ch/2016/12/08/regard-dune-juriste-droits-fondamentaux-asile-frontieres-paradoxe-refugies
      et
      https://asile.ch/2016/12/13/regard-dune-geographe-murs-frontieres-fantasme-controle-migratoire

    • « Trois de Briançon » : Théo et Bastien vont pouvoir rentrer en Suisse

      Le contrôle judiciaire visant les deux Suisses et l’Italienne, poursuivis pour avoir aidé des migrants à entrer en France fin avril, a été levé.

      Les Genevois Théo et Bastien ainsi que l’Italienne Éléonora pourront rentrer chez eux. Le contrôle judiciaire qui les contraignaient à rester en France a été levé, a-t-on appris lors de l’ouverture de leur procès, ce jeudi matin, à Gap. C’est le soulagement pour les familles et leur comité de soutien. Le procès est renvoyé au 8 novembre 2018.

      Le 22 avril dernier, plus d’une centaine de personnes dont « les trois de Briançon », comme les surnomment leurs soutiens, avaient franchi la frontière italo-française avec des migrants au col de Montgenèvre. Le trio est accusé « d’aide à l’entrée irrégulière » d’étrangers, avec comme circonstance aggravante selon le parquet d’avoir commis ces faits « en bande organisée ».

      Le Conseil constitutionnel devra examiner, probablement d’ici fin août, si le délit d’aide à l’entrée sur le territoire français est compatible avec le principe de fraternité garanti par la Constitution française. La défense comme le procureur ont plaidé pour le renvoi, dans l’attente de la réponse du conseil constitutionnel à cette question.


      https://www.24heures.ch/news/standard/Trois-de-Briancon-Theo-et-Bastien-vont-pouvoir-rentrer-en-Suisse/story/10172490

    • Scarcerati i tre manifestanti arrestati a Briancon durante il corteo pro migranti

      La decisione del giudice di Gap: ma hanno l’obbligo di firma e dovranno rimanere in Francia.
      Sono stati scarcerati i tre manifestanti arrestati il 22 aprile dopo un corteo che era partito dal Monginevro ed era arrivato a Briançon per manifestare in difesa del diritto alla solidarietà nei confronti dei migranti e contro la presenza del gruppo di estrema destra Generation Identitaire al colle della Scala. Sette persone erano state fermate, quattro liberate poco dopo ma tre sono stata arrestate con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato che in Francia prevede pene fino a 10 anni. Questo pomeriggio il tribunale di Gap ha accolto la richiesta di scarcerazione formulata dai legali dei tre arrestati. Poco dopo le 16 il tribunale si è espresso in favore della scarcerazione sostituendo la misura cautelare in carcere con l’obbligo di firma e di rimanere nel dipartimento di Briançon.
      Eleonora Laterza, di Torino, Theo Buckmaster e Bastien Stauffer sono liberi, ma costretti a rimanere in Francia, in attesa del processo che inizierà il 31 maggio. “ La libertà è la regola, la detenzione un’eccezione”, hanno spiegato i legali dei tre, in aula secondo quanto riporta il quotidiano Le Dauphinè Libèrè.
      Circa 150 persone si sono
      radunate davanti al tribunale di Gap questo pomeriggio per attendere la decisione dei giudici.
      Nei giorni scorsi erano state raccolte circa 800 firme, tra Italia, Francia e Svizzera per chiedere l’immediata scarcerazione dei tre ragazzi. Il primo firmatario dell’appello era stato lo scrittore Erri De Luca.

      http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/05/03/news/scarcerati_i_tre_manifestanti_arrestati_a_briancon_durante_il_cort

    • Disputes Over Migrants Along the Italy-France Border Expose Ongoing EU Policy Gaps

      Last month, authorities in Italy requested a formal investigation of five French border patrol agents in the Alps who entered Italy to perform an unauthorized drug test on a Nigerian citizen, in what the authorities say was a violation of Italian sovereignty. It was just the latest episode in months-long tensions at the French-Italian border near Col de l’Echelle, or Colle Della Scala, a high mountain pass in northwestern Italy that has become a popular route for migrants trying to enter into France.

      In March, a volunteer mountain guide on the French side of the border was charged with facilitating illegal immigration after he rescued a migrant woman on the pass; she was nearly nine months pregnant. In April, an anti-migrant protest organized by a mainly French far-right group with branches in other countries, including Italy, led to clashes with the Italian police and pro-migrant activists.

      Since France re-introduced border checks with Italy in the wake of the refugee and migrant crisis in 2015, migration routes have shifted to more remote areas—initially mountain passages like those in the Roya Valley near the Mediterranean town of Ventimiglia bordering the French Riviera. But this year, as those parts of the border became more heavily patrolled, migrants were pushed to find alternative routes that are even more remote, such as Col de l’Echelle, high in the Alps.

      A 7-mile trail around Col de l’Echelle connects the Italian town of Bardonecchia with Nevache, a French village just across the border. During winter months, it is covered by heavy snow and temperatures at its summit plunge far below zero at night. Most migrants are not equipped to survive for long in such extreme conditions; many set off for the hike wearing jeans and sneakers.

      According to Paolo Narcisi, the president of Rainbow for Africa, an Italian NGO that runs a first aid clinic inside the train station in Bardonecchia, the majority of migrants transiting through the Alpine town are from countries in sub-Saharan Africa, such as Cote d’Ivoire, Mali, Senegal, Gambia, Niger, Nigeria and Sudan. Many are seeking asylum. Under the current Common European Asylum System and related Dublin Regulation, in force since 1997, migrants or refugees must seek asylum in the “country of first arrival”—in this case, Italy—and cannot seek asylum elsewhere for six months. The few men and women who actually manage to cross the dangerous mountain pass are often arrested by French border patrol agents and transported back to Bardonecchia.

      As Narcisi explains, at least 15 percent of the people who visit his clinic would have the right to enter France under a Dublin Regulation rule that allows migrants to travel to another European country for family reconciliation. But in most cases, French border patrol agents do not take the time to verify migrants’ rights under the EU. “French agents patrol the pass to look for migrants and simply drive them back across the border,” Narcisi says. “There is no effort to understand their legal circumstances.”

      Since the re-introduction of border checks, border patrol is increasingly a matter of national security rather than of EU coordination. As Lina Vosyliute, a researcher at the Center for European Policy Studies, a Brussels-based think tank, explains, law-enforcement agents are under political pressure to deliver on border security. This can often lead to extreme policing that violates migrants’ rights.

      EU member states have an obligation under the Dublin Regulation to accept migrants who are minors and not accompanied by an adult. But last month, eight NGOs that operate in Ventimiglia, the town near the Roya Valley that has been a hub for migrant passages, filed an official report to the European Commission to denounce the “systematic forgeries” of minors’ identification documents by French authorities. Narcisi says this happens in the northern part of the border, too. “They trick people who can’t speak French into signing documents that state they are over 18, so they can send them back to Italy.”

      This kind of policing can also result in what refugee and migrant advocates call the “criminalization of solidarity.” That was the case with Benoit Ducos, the French mountain guide who now faces a five-year prison sentence for aiding a pregnant migrant along the French-Italian border.

      According to the Center for European Policy Studies, the lack of a common EU framework on human smuggling is partly to blame. “EU anti-smuggling rules are very vague and provide a large margin of discretion for member states’ policies,” Vosyliute says. For instance, the EU does not require member states to specifically exempt humanitarian assistance from the range of activities that can be considered “human smuggling,” which results in effectively criminalizing some of the aid offered to migrants and refugees.

      Both Narcisi and Vosyliute point to the same issue when asked what could improve migrants’ safety and ease border tensions. “The introduction of legal pathways to enter EU member countries is the elephant in the room when we speak about these issues,” Vosyliute says.

      But the chances for that to happen in the near future appear slim. Bulgaria, the current president of the European Council, is evaluating proposed changes to the Dublin Regulation, including the introduction of a quota system to deal with asylum applications—something that was briefly attempted in 2016 before being called off amid fierce opposition from countries like Hungary and Poland. The newly proposed system would allow for the voluntary relocation of refugees to “willing” countries, which would in part be compensated with financial inducements.

      But so-called frontline countries like Italy, Spain, Malta, Greece and Cyprus strongly oppose the proposed change. Instead, they ask for a more “equitable” common asylum policy based on a mandatory redistribution of asylum applicants across the entire EU. Given such polarized stances, it is unlikely that the European Council will find an agreement over a new asylum system before the end of Bulgaria’s presidency in June. Austria then takes over, and is unlikely to put the issue at the top of the council’s agenda.

      Making matters worse, a strict new asylum law in France, which passed in April, could further hamper migrants’ rights and increase border tensions between France and Italy, according to Marie-Laure Basilien-Gainche, an expert on migration law at the University Jean Moulin Lyon 3. The law doubles the amount of time that authorities can detain undocumented migrants and makes illegal immigration a criminal offense that could result in a year-long prison sentence, continuing a trend across Europe of national criminal justice measures being used as tools to manage migration.

      According to a recent report by the Center for European Policy Studies, the ideal EU asylum system would include the principle of “mutual recognition of positive decisions.” That is, if a migrant is granted refugee status in one EU member country, other EU countries would automatically recognize that status. This way, asylum-seekers would not be stuck in countries like Italy and Greece, but would be able to move legally across borders.

      “The Dublin Regulation puts pressure on external member states and was not designed for big numbers of arrivals,” Vosyliute says. “Without a coordinated asylum system, we risk putting into question the very principle of free movement of people in Europe.”


      https://www.worldpoliticsreview.com/articles/24805/disputes-over-migrants-along-the-italy-france-border-expose-ong

    • Eleonora, Théo et Bastien : La #Fraternité sur le banc des accusés.

      Elle est de la devise républicaine la notion qui lui élève l’esprit. Si la liberté et l’égalité s’entendent en droit juridique, la fraternité est la somme morale commune qui découle de l’équation de cette devise. Elle est la valeur ajoutée. Disputée, malmenée, manipulée ou reniée, elle fut tout au long du processus révolutionnaire tantôt rejetée, tantôt affirmée. Mais au fond, qu’est-ce qu’une devise si ce n’est un chemin de conscience collective pour lequel on accepte que le droit, les règlements, le vivre-ensemble s’articulent ?


      https://alpternatives.org/2018/06/01/eleonora-theo-et-bastien-la-fraternite-sur-le-banc-des-accuses

    • Alpi, nuovo cimitero dei migranti

      Di solito qui a Clavière ci vengono gli appassionati di sci. Alle porte del piccolo comune della Val di Susa però in questa giornata di primavera si nota un inusuale spiegamento di forze dell’ordine.

      Poche centinaia di metri più in là, dall’altro lato del confine con la Francia, all’entrata di un’altra nota località sciistica, il comune di Monginevro, alcune decine di francesi e italiani sono venuti a manifestare e a esprimere la loro rabbia davanti alla stazione di polizia.

      «Una donna è morta - denuncia un manifestante -. Blessing è stata ritrovata mercoledì nei pressi della diga di Presle nella Durance, il fiume che attraversa Briançon. Una donna nera senza documenti di cui nessuno ha denunciato la scomparsa».

      Un suo compagno prosegue: «Signore e signori poliziotti e gendarmi, non vogliamo che dopo l’inferno libico e il cimitero mediterraneo, l’attraversamento di questa frontiera si trasformi in un nuovo ostacolo mortale per gli esuli che desiderano venire in Francia».

      I locali aiutano regolarmente i migranti che affrontano la montagna per raggiungere la regione di Briançon. Anche a rischio di farsi perseguire dalla legge.

      «Abbiamo evitato molti incidenti - dice Benoît, guida di montagna -. Oggi con la fine dell’inverno ci si rende conto che non sono più il freddo e la neve a causare problemi: è il forte aumento della presenza di polizia e forze militari su questa frontiera, che costringe gli esuli a prendere sentieri sempre più tortuosi, a correre dei rischi per arrivare in Francia».

      Un’inchiesta è stata aperta per accertare le cause della morte della ventenne nigeriana. Ma i manifestanti non dubitano delle testimonianze dei suoi compagni di sventura: per loro è colpa degli agenti che li hanno inseguiti mentre cercavano di raggiungere un paese vicino. La polizia, interpellata, nega energicamente: «Per me è stato un passeur», accusa un poliziotto.

      Ma per la ragazza che legge il comunicato in italiano, «Questa morte non è una fatalità. È un omicidio, con mandanti e complici ben facili da individuare. In primis i governi e le loro politiche di chiusura della frontiera e ogni uomo e donna in divisa che le porta avanti. Gendarmi, polizia di frontiera, chasseurs alpins, e ora pure quei ridicoli neofascisti di Generazione Identitaria pattugliano i sentieri e le strade a caccia di migranti».

      Migranti che sono più di 3 mila ad aver sfidato la montagna negli ultimi due anni per andare a chiedere l’asilo in Francia.
      Generazione identitaria arresta... no, «segnala» i migranti

      Rinforzi di polizia e gendarmeria sono apparsi in questa regione delle Alpi francesi pochi giorni dopo una spettacolare operazione dell’estrema destra europea, lo scorso aprile, venuta a chiedere la chiusura dell’area. Alcune decine di militanti del gruppo Generazione Identitaria hanno eretto una barriera simbolica contro i migranti sul Colle della Scala.

      ​Abbiamo incontrato qualche giorno dopo gli attivisti del gruppo rimasti nella regione, che affermano di essere lì per aiutare le forze dell’ordine a pattugliare la zona in cerca di migranti: ​"Svolgiamo missioni di sorveglianza alla frontiera - spiega Aymeric, portavoce di Generazione Identitaria - e stiamo conducendo un’indagine sulla popolazione, che ci sostiene in massa, per raccogliere informazioni sulle reti dei passeur e sul passaggio dei migranti clandestini e trasmettere poi queste informazioni ai servizi di polizia. In quindici giorni abbiamo arrestato una ventina... - si ferma, si corregge - abbiamo denunciato una ventina di clandestini. Segnaliamo la loro presenza alla polizia e ne indichiamo la posizione perché possano venire ad arrestarli".

      ​"E voi vi sentite legittimati - chiede la nostra inviata Valérie Gauriat - a cercare di bloccare queste persone che hanno fatto non solo questa traversata, ma che sono partiti da molto lontano e hanno sofferto di tutto?"

      «Certo - è la risposta -. Siamo cittadini solerti e vogliamo difendere il nostro popolo, gli europei. Quindi sì, se lo Stato ha deciso di abbandonare il suo popolo, noi siamo qui. Siamo qui per gli europei, per la difesa della nostra identità».
      L’Odissea sulle montagne

      Torniamo sull’altro lato della frontiera, a Clavière, verso un rifugio che è uno dei punti da dove parte chi tenta il passaggio in Francia. Ma all’interno le telecamere non sono benvenute.

      E c’è una ragione. Qui i candidati al passaggio alla frontiera venuti da tutta Italia vengono accolti da volontari francesi e italiani che li aiutano a recuperare le forze prima della partenza. Volontari che solo per questo sono perseguibili penalmente, e che a loro volta denunciano abusi e illeciti da parte delle autorità.

      «Per legge un richiedente asilo dovrebbe potersi presentare senza documenti alla frontiera e dire che ha bisogno di protezione - spiega una militante che è voluta restare anonima -. Invece se qualcuno cerca di passare normalmente, in pullman per esempio, viene riportato alla frontiera e di conseguenza è costretto a passare per sentieri di montagna che sono molto pericolosi per evitare di essere rispedito in Italia».

      Una di queste persone ha accettato di condividere con noi in modo anonimo la sua esperienza. Il giorno prima ha cercato di passare il confine con il fratello minorenne. Sono stati intercettati dalla polizia italiana che ha lasciato passare solo il più giovane.

      «Ci hanno chiesto dove andavamo - racconta il giovane -. Ho detto che stavamo andando in Francia. Ci hanno perquisito gli zaini e ci hanno chiesto l’età. Il piccolo ha detto di essere nato nel 2000 e allora l’hanno lasciato andare. Io ho detto di essere nato nel 1999, e mi hanno risposto: be’, allora sei maggiorenne».

      Ci riproverà il giorno stesso, insieme ad altri. «Perché non voglio più vivere qui. Il vero problema è innanzi tutto la lingua» - dice. Impossibile andare con loro, aumenterebbe il rischio di essere intercettati. Quel giorno, il gruppo riuscirà a passare.
      Un Rifugio Solidale per una prima accoglienza che manca

      È nella città di Briançon, una quindicina di chilometri più in là, che i migranti potranno tirare un po’ il fiato. L’ambita meta per loro si chiama Rifugio Solidale. Qui sono appena arrivati sei uomini da Clavière, sono sfiniti.

      ​"A che ora siete partiti?" chiediamo. «Alle 9 del mattino - risponde uno di loro, e siamo arrivati qui alle 15. Abbiamo fatto tutto il percorso a piedi»

      Un secondo narra la sua esperienza: «Ho preso la montagna, e sono partito sul... come si dice... il ponticello che bisogna attraversare... Sull’asfalto non si può, bisogna prendere i sentieri in alto, per potersi nascondere dalla polizia. Spesso la polizia frena. Se frenano, freni anche tu»:

      È bagnato e sporco. Gli chiediamo se è caduto. La risposta è sì: «Non è facile. Ho sofferto».

      I pasti, l’alloggio, gli abiti, le cure mediche... decine di volontari si alternano qui per soddisfare le necessità dei loro ospiti di passaggio. Dopo aver ripreso le forze, la maggior parte di loro ripartirà verso altre città francesi dove presenterà domanda d’asilo.

      L’attività al rifugio non si ferma mai, spiega Anne, una volontaria: «Accogliamo i nuovi arrivati, andiamo all’ospedale, ci occupiamo dei trasporti, dei biglietti del treno, di contattare i loro parenti e amici se hanno un posto dove andare. Hanno un gran bisogno di essere rassicurati. Hanno molta paura di venire arrestati, anche se hanno il diritto di chiedere l’asilo in Francia, ma anche questo è diventato più che difficile. Per cui loro sono sempre più preoccupati e noi non possiamo garantire loro nulla».

      Justin, camerunense, ha presentato richiesta d’asilo come rifugiato politico sette mesi fa. In attesa della risposta non è autorizzato a lavorare, e allora nel frattempo dà una mano ai volontari del rifugio. Ma essendo arrivato in Europa dall’Italia, potrebbe essere rimandato indietro, sulla base del regolamento di Dublino che prevede che la richiesta d’asilo debba essere presentata nel primo paese in cui si è stati identificati.

      «C’è chi pensa che si viva bene solo qui - dice Justin -. Eppure, piuttosto che vivere la vita che vivo qui, penso che starei meglio nel mio paese con la mia famiglia, con mio figlio, e con la mia vita. Per cui se siamo qui è per una buona causa».

      Progettato inizialmente per una ventina di persone, il rifugio solidale ne ospita regolarmente un centinaio. Joël, uno dei responsabili del rifugio, lamenta la mancanza di centri di prima accoglienza in Francia per coloro che non hanno ancora potuto presentare la richiesta d’asilo: «Non spetta alla polizia decidere se la loro domanda d’asilo è legittima. C’è un organismo in Francia che si chiama Ofpra, l’Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi, che ha il compito di occuparsi di queste pratiche, istruirle e poi emettere un verdetto. Nell’attesa ci dovrebbe essere una politica di prima accoglienza in Francia. Ed è questo lavoro che non viene fatto dallo Stato, che facciamo invece noi volontari. Ma non spetterebbe a noi farlo. Soprattutto ci viene chiesto di accogliere anche dei minori, ma questo in realtà sarebbe illegale».

      Il giorno dopo alcuni dei volontari del rifugio organizzano un sit-in con 23 minorenni di fronte al commissariato di polizia di Briançon. È qui che vengono registrati i minori non accompagnati, e una volta registrati il Consiglio provinciale è tenuto per legge a prendersene carico immediatamente. Ma alcuni di questi ragazzi sono in attesa al rifugio già da 15 giorni.

      Ne sarà valsa la pena: alla fine della giornata 18 dei 23 giovani partiranno per Gap, sede del Consiglio provinciale.
      Movado: un sogno da realizzare un passo dopo l’altro

      Noi abbiamo appuntamento al liceo di Briançon. Movado è arrivato un anno e mezzo fa. Al liceo segue una formazione nei mestieri dell’edilizia.

      Il giovane guineano è stato salvato durante l’attraversamento della montagna. Dal momento del suo arrivo è stato ospitato da una coppia con cui vive in un paesino a una ventina di chilometri da Briançon.

      Una coppia che descrive come «persone molto care. Si prendono molta cura di me. Mi hanno anche aiutato a entrare al liceo. Non sono un altro figlio per loro, ma si prendono cura di me e io comunque le considero come dei sostituti di mio padre e mia madre».

      Al suo arrivo, Yves e Fanfan l’hanno accolto in casa loro. Era malato e gravemente assiderato. L’hanno fatto curare e sono stati al suo fianco instancabilmente nelle pratiche per la richiesta d’asilo.

      La coppia ospita anche altri tre giovani. Deserto, carceri libiche, traversata del Mediterraneo... Tutti hanno conosciuto l’inferno. E nonostante l’affetto e il sostegno della coppia i timori per il futuro restano, dice Fanfan: «Stanno bene, ma pensare al dopo è straziante. Non si può dire che è finita, che stanno bene e siamo contenti. No. Fino a quando staranno bene? Le leggi stanno cambiando. Fra qualche mese saranno ancora più rigide. Che cosa ne sarà di loro? Di tutti, intendo».

      Yves non si pente di averli aiutati: «A parte questo, bisogna dire che ci danno anche una bella energia... Perché questa forza di volontà che hanno avuto per tutto questo tempo carica anche noi in qualche modo».

      A 19 anni Movado sogna di fare l’idraulico e di restare a vivere in Francia per molti anni. Un sogno appeso al filo dell’accettazione dello status di rifugiato.

      «In questo momento non mi sento davvero libero - confessa -, perché sono in attesa, non ho documenti, devo aspettare una risposta. Se la risposta è positiva avrò i documenti, se è negativa bisognerà fare ricorso. E tutto questo è sempre nei miei pensieri, ci penso molto, ma ho anche molta speranza. Poco a poco ci arriverò, un passo dopo l’altro».

      Yves e Fanfan fanno tutto quel che possono per sostenere i loro protetti, con l’aiuto degli avvocati. Ma sanno che non bisogna dare nulla per scontato.

      «Penso che la cosa più importante sia che hanno più fiducia in se stessi - commenta Fanfan -. E se hanno più fiducia in se stessi diventano più forti. E se sono più forti forse avranno più chance. È tutto quel che si può dire».

      Yves denuncia: «Questa storia dell’accoglienza e della solidarietà dei montanari è stata molto mediatizzata. Ma non serve a molto se consideriamo le avversità che ci troviamo ad affrontare nel modo in cui i poteri della politica trattano la questione. E allora siamo un po’ arrabbiati».

      ​Una rabbia mista a tristezza, condivisa la sera del giorno dopo da alcune decine di abitanti della vallata, venuti a rendere un ultimo omaggio alla giovane nigeriana il cui corpo senza vita è stato ritrovato in questo fiume.

      http://it.euronews.com/2018/06/01/alpi-nuovo-cimitero-dei-migranti

    • Chroniques de frontières alpines / 2 – Violer sans entrave les droits des étranger-es : la frontière, fabrique d’exclusion politique

      Le contrôle aux frontières terrestres de la France, donc intérieures à l’espace Shenghen, a été rétabli le 13 novembre 2015, avec l’instauration de l’Etat d’urgence. Le rétablissement des contrôles aux frontières intérieures a institué un nouveau dispositif, celui des Points de Passage Autorisés, constitué d’une part de points de contrôles fixes, et d’autre part de zones surveillées par des patrouilles mobiles, de manière dynamique, ponctuelle, sur la base de signalements des services de renseignement et des polices étrangères. Dans les deux cas, les contrôles d’identité systématiques sont autorisés. Le 31 novembre 2017, une nouvelle loi sur la sécurité intérieure a acté la fin de l’Etat d’Urgence, alors que, selon l’Anafé (2017), elle en banalise la logique ; notamment, elle autorise les contrôles systématiques dans une borne de 10km autour des frontières.

      https://derootees.wordpress.com/2018/05/24/chroniques-de-frontieres-alpines-2-violer-sans-entrave-les-droi

    • Dans les Alpes, la fonte des neiges révèle les corps de migrants morts en tentant de passer en France

      Des riverains et l’association Tous migrants se battent pour retrouver l’identité et comprendre le parcours des victimes. Et pour pouvoir leur offrir une sépulture.

      Des vêtements devenus linceul autour d’un cadavre sans nom. Vendredi 25 mai, sur le flanc italien des Alpes, pas loin de Bardonecchia (bourgade frontière d’où partent les migrants qui rallient la France par le col de l’Echelle), un corps sans vie, recroquevillé dans une anfractuosité du sol, est retrouvé par un chasseur. Selon la police transalpine, il « aurait passé l’hiver là ».

      « Cet homme a dû se perdre, puisqu’il a été retrouvé sur le chemin qui remonte vers Modane », spécule Sylvia Massara, une Italienne qui s’interroge sur cette mort : « Le froid ou l’épuisement ? » Elle qui a essayé de dissuader des traversées hivernales ceux qui se croyaient immortels après le Sahara et la mer savait que les Alpes sont une petite Méditerranée, neigeuse l’hiver, rocailleuse l’été ; mais meurtrière en toute saison et capable d’engloutir jusqu’au nom de ses victimes.

      Pour l’heure, la police italienne tente de décrypter les empreintes de la main la moins abîmée du cadavre, de faire résonner les stries encore lisibles des doigts avec un nom, une date de naissance enfouis quelque part dans un fichier. « Cela permettrait au moins de contacter un consulat, qu’une famille puisse faire le deuil d’un fils ou d’un frère », ajoute Mme Massara.

      Cette mort sur le flanc italien a encore ajouté à la douleur du Briançonnais. Côté français, deux décès ont ponctué le mois de mai. Si ces cadavres ont conservé un prénom et un nom, reste à écrire leur histoire : celle du Sénégalais Mamadou-Alpha Diallo et celle de la Nigériane Blessing Matthew. Alors, à l’instar de l’Antigone de Sophocle, capable de l’impossible pour offrir une sépulture à son frère, l’association Tous migrants veut rendre une justice posthume à ces « victimes des politiques migratoires ».

      Le reste de l’article : #paywall
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2018/06/07/dans-les-alpes-la-fonte-des-neiges-revele-les-corps-de-migrants-morts-en-ten

    • Migranti. Sulle Alpi si scioglie la neve e affiorano i corpi degli uomini morti in cammino

      Su Le Monde di oggi la storia di uno dei tanti migranti morti per il gelo e gli stenti nel tentativo di raggiungere la Francia dall’Italia attraversando le Alpi.

      La storia risale a due settimane fa quando, sul versante italiano delle Alpi, non lontano da Bardonecchia, la città di confine da dove partono i migranti per raggiungere la Francia attraverso il Colle della Scala, la neve sciogliendosi ha rivelato il corpo senza vita di un uomo rannicchiato in un anfratto del terreno. A trovarlo è stato un cacciatore e secondo la polizia transalpina, «avrebbe trascorso l’inverno lì.» "Deve essersi perso, perché è stato ritrovato sulla via che torna verso Modane", racconta Sylvia Massara al giornale, «Sarà stato il freddo o la spossatezza a ucciderlo?» La polizia intanto sta cercando di decifrare le impronte digitali della mano meno danneggiata del cadavere per poterlo identificare. «Almeno si potrebbe contattare un consolato, e informare la famiglia», dice Massara. Questo sul versante italiano del sentiero mortale che i migranti tentano di affrontare ignari dei pericoli che si nascondono anche d’estate tra le rocce, nella neve e nel gelo notturno che affrontano sprovvisti di qualsiasi protezione e attrezzatura a cominciare da buone scarpe per camminare. Nel febbraio scorso un reportage del New York Times raccontava la storia di Vincent Gasquet un pizzaiolo che vive e lavora in un piccolo paese sulle pendici delle Alpi francesi al confine con l’Italia e che di notte, sulla base di segnalazioni, insieme a un gruppo di volontari parte per perlustrare i boschi alla ricerca dei migranti che, per evitare i posti di blocco della polizia vi si inoltrano, tentano ogni notte di atttraversare le montagne dove devono resistere a temperature sotto zero coperti di giacche leggere e, se va bene, in scarpe da ginnastica. Ai reporter del New York Times Gasquiet dichiarò: «Se le Alpi diventassero un cimitero, mi vergognerei per il resto dei miei giorni.» Questi volontari fanno un’opera di soccorso rischiosa perché secondo le leggi francesi aiutare qualcuno ad entrare nel paese senza documenti in regola è reato. Il 31 marzo scorso un episodio avvenuto proprio a Bardonecchia provocò una certa tensione nelle relazioni tra Italia e Francia. Quattro agenti della polizia doganale transalpina entrarono in un centro di migranti gestito dalla ONG Rainbow for Africa e ospitato nei locali della stazione di Bardonecchia con l’intenzione di fare un controllo delle urine ad un uomo nigeriano fermato e sospettato di essere uno spacciatore. Il campione risultò poi negativo e i rappresentanti della Ong denunciarono l’atteggiamento intimidatorio degli agenti nei confronti di medici, operatori e migranti. Anche sul lato francese con l’arrivo della primavera sono stati rinvenuti cadaveri. Due di questi sono stati identificati: il senegalese Mamadou-Alpha Diallo e il nigeriano Blessing Matthew.

      http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Migranti-Sulle-Alpi-si-scioglie-la-neve-e-affiorano-i-corpi-degli-uomini-mor

      –-> Piccola nota, giusto per mettere i puntini sulle i... Blessing era una donna... Rettifico il titolo: «Migranti. Sulle Alpi si scioglie la neve e affiorano i corpi di UOMINI e DONNE morti in cammino».
      #écriture_inclusive

    • « Nous avons piraté les frontières » - Récit sur le camp itinérant « Passamontagna » du 8 au 10 Juin
      IndyMedia Grenoble, le 11 juin 2018
      https://seenthis.net/messages/701347

      Comment faire pour rendre caduques les frontières ? C’est devenu nécessaire avec la militarisation de celles-ci dans le cadre de la guerre aux migrant-es qui a été enclenchée en Europe. Après la marche du 22 Avril de Montgenevre à Briançon, il fallait recommencer. Surtout quand 3 migrant-es ont été retrouvé-es mort-es dans la vallée, tué-es non pas par le froid mais par la répression policière. Surtout quand 3 personnes ont été placées en prison suite à cette précédente marche.

    • Da #Corato (Puglia) a #Grenoble, « Quando sul #Fréjus passavamo noi »

      Negli anni Venti per sfuggire al fascismo erano gli italiani a percorrere la stessa rotta che oggi utilizzano i migranti per passare in Francia

      https://www.corriere.it/esteri/18_maggio_18/01-esteri-documentogcorriere-web-sezioni-0512f99a-5a10-11e8-89bf-cebd5db44a

      Et le choix de l’illustration...
      Une longue queue de personnes dans la neige sur le flanc de la montagne. Si on ne le sait pas qu’il s’agit de la cordée solidaire (https://www.lacite.info/hublot/cordee-solidaire-vs-frontiere) organisée en décembre 2017, on a l’impression qu’il s’agit de migrants qui envahissent la montagne... arrghhh


      #préjugés #invasion #image

      Traduction en français de l’article (Courrier international) :
      La route des Alpes, ancien chemin de migration des Italiens vers la France

      Aujourd’hui, ils viennent de Somalie, d’Érythrée ou du Moyen-Orient. Mais la route des migrants entre la France et l’Italie a pendant longtemps été celle des Italiens fuyant la crise et le fascisme, raconte ce journal de Milan.

      “Lorsque je suis arrivé de nuit en haut de la montagne, quand nous traversions à pied le
      col du Fréjus, j’ai vu tout en bas les lumières de Modane. La France. Il neigeait et je me
      suis dit : ‘Mais où sommes-nous ? C’est le mois de juin et il neige.’ J’étais avec mon
      père, j’avais 14 ans et, en voyant ces lumières, j’ai été impressionné : j’ai compris qu’une
      nouvelle vie commençait.”

      Assis à une table dans le local de l’Association des Coratins de Grenoble, à 84 ans, le
      signore Savino Ferrara parle du temps où c’était lui qui faisait le périple
      qu’entreprennent aujourd’hui des migrants somaliens ou érythréens, qui traversent à
      pied les montagnes séparant l’Italie de la France et peuvent rencontrer, selon les jours,
      des gendarmes qui les arrêtent, des bénévoles qui les aident ou des extrémistes de
      droite qui leur crient de retourner d’où ils viennent.

      Travailler ou fuir le fascisme

      Il y a soixante-dix ans, “Nino” Ferrara arrivait ainsi non pas du Soudan mais de Corato,
      une petite commune située à 40 kilomètres de Bari, dans les Pouilles. “J’étais un
      clandestin comme ces migrants, je n’avais pas de papiers. En 1948, ce n’était pas
      comme aujourd’hui, on ne pouvait pas quitter un pays pour un autre sans un contrat de
      travail. Le voyage a duré cinq jours, un guide, un passeur est venu nous trouver dans la
      montagne, mon père l’a payé et il nous a accompagnés jusqu’à une route où nous
      attendait une voiture qui nous a ensuite conduits à Grenoble.”

      Les habitants de Corato ont commencé à migrer vers Grenoble au début des années
      1920, pour travailler ou pour fuir le fascisme. “Mes parents faisaient partie de cette
      première vague, raconte Victor Tarantini, 80 ans, vice-président de l’association, mais à
      l’époque c’était plus facile parce que presque tous les gens avaient un travail qui les
      attendait dans une usine, et donc des papiers en règle. Moi, je suis né ici, à Grenoble.

      J’ai épousé une Française, j’ai pu faire des études, je suis ingénieur.”

      La vague d’émigration de Corato vers Grenoble, qui a duré presque un siècle, était si
      massive qu’aujourd’hui la région compte entre 25 000 et 30 000 Coratins ou Français
      d’origine coratine. En 1984, Ferrara a fondé cette association car il ne voulait pas “que
      se perde le souvenir de [leurs] origines”. Les anciens jouent aux cartes et parlent
      cyclisme. Les deux villes sont jumelées : au bout de la voie de Corato, à Grenoble, se
      dresse un olivier, et sur la piazza Grenoble à Corato, un noyer. Le 10 avril dernier, le
      maire grenoblois, Éric Piolle, rencontrait à Corato son homologue Massimo Mazzilli.
      Bien avant le programme Erasmus, l’Europe, ou ce qu’il en reste, ce sont aussi des
      personnes comme Ferrara et Tarantini qui l’ont faite. Ces migrants qui, pendant des
      années, se sont fait traiter avec mépris de “macaroni” et qui, aujourd’hui, sont fiers de
      se sentir intégrés, de sentir que les Français sont des amis, mais, surtout, des enfants,
      des gendres ou des belles-filles, des petits-enfants. On parle français, puis on passe à
      l’italien et aussi, un peu, au dialecte des Pouilles.

      Après la guerre, le climat était différent. Les Italiens vivaient entassés dans le quartier
      Saint-Laurent, de l’autre côté de l’Isère. Le pont suspendu les reliait au reste de la ville,
      mais aucun Français n’osait le traverser dans l’autre sens, “parce que des légendes
      terribles circulaient selon lesquelles, chez nous, il y avait chaque jour des bagarres, des
      vols et des homicides, raconte Tarantini. Comme ce qu’on entend aujourd’hui sur les
      banlieues de Paris.”

      Saint-Laurent, à Grenoble, est un ancien quartier populaire, aujourd’hui rénové et à la
      mode, comme tant d’autres. On y trouve des espaces culturels, des galeries d’art, et
      les pierres du XVIIe siècle sur les façades des habitations restaurées ont été remises à
      nu. À un coin, un panier attend que l’on vienne jouer au basket. “Mais, avant, il y avait le
      lavoir des Coratins, indique Tarantini, les maisons n’avaient pas l’eau courante et on
      venait ici laver son linge.”

      La trésorière de l’association, Lucie Giannone, se souvient qu’à l’école la maîtresse la
      traitait mal “quand [ils parlaient] de la guerre et de l’invasion italienne”. Elle le raconte
      avec le sourire, comme on le fait d’un danger auquel on a échappé. Tout cela, c’est du
      passé. Ferrara a épousé Antonietta, une Italienne de Corato “née ici et rencontrée un
      soir en allant danser”. “Après deux rendez-vous, je l’ai embrassée, nous sommes mariés
      depuis soixante-deux ans. J’étais forgeron, je travaillais énormément et je gagnais bien
      ma vie. Quand j’étais jeune, j’avais une Fiat 124, et aujourd’hui j’ai une maison au bord
      de la mer, près de Montpellier. Nous avons deux enfants, Aldo et Maria, qui ont fait des
      études.” Les migrants de Corato, eux, en tout cas, ont réussi.

      https://www.courrierinternational.com/article/la-route-des-alpes-ancien-chemin-de-migration-des-italiens-ve

    • A la frontière

      Entre le col de l’Echelle et le Montgenèvre dans les Hautes Alpes, alors qu’un groupe d’extrême droite revendique fièrement de barrer le passage aux migrant•e•s, la ville de Briançon continue d’accueillir les exilé•e•s et pleure les premier•e•s mort•e•s de cette frontière.

      https://www.franceculture.fr/emissions/les-pieds-sur-terre/a-la-frontiere

      Enterrement de #Alpha, un migrant retrouvé mort, à l’identité inconnue :


      #tombe #cadavre #enterrement #identification

    • French police cut soles off migrant children’s shoes, claims Oxfam

      French border police have been accused of detaining migrant children as young as 12 in cells without food or water, cutting the soles off their shoes and stealing sim cards from their mobile phones, before illegally sending them back to Italy.

      A report released on Friday by the charity Oxfam also cites the case of a “very young” Eritrean girl, who was forced to walk back to the Italian border town of Ventimiglia along a road with no pavement while carrying her 40-day-old baby.

      The allegations, which come from testimony gathered by Oxfam workers and partner organisations, come two months after French border police were accused of falsifying the birth dates of unaccompanied migrant children in an attempt to pass them off as adults and send them back to Italy.

      “We don’t have evidence of violent physical abuse, but many [children] have recounted being pushed and shoved or shouted at in a language they don’t understand,” Giulia Capitani, the report’s author, told the Guardian.

      “And in other ways the border police intimidate them – for example, cutting the soles off their shoes is a way of saying, ‘Don’t try to come back’.”

      Daniela Zitarosa, from the Italian humanitarian agency Intersos, said: “Police [officers] yell at them, laugh at them and tell them, ‘You will never cross here’.

      “Some children have their mobile phone seized and sim card removed. They lose their data and phonebook. They cannot even call their parents afterwards.”

      Italy accused France of hypocrisy this week for failing to share the burden of the ongoing migrant crisis. The spat developed when the French president, Emmanuel Macron, criticised what he called Italy’s “cynicism and irresponsibility” in turning away a migrant rescue ship with 629 people on board.

      Matteo Salvini, Italy’s new anti-migrant interior minister, who blocked the Aquarius rescue vessel from docking in Sicily, accused France of turning its back on 10,524 migrants at the border between January and May this year.

      Capitani said unaccompanied minors had for some time been sent back to Italy by French police, although it was only in March that they allegedly began falsifying birth dates on “refusal of entry” documents – one month after a court in Nice ruled that border authorities had illegally detained and returned children to Italy in 20 cases.

      Under the Dublin regulation, child migrants in France cannot be sent back to Italy if they request asylum. EU law stipulates that unaccompanied minors must be protected, and that those seeking asylum in one member state have the right to be transferred to another where they have family members.

      Charities operating at the border have also taken aim at Italy for failing to implement adequate procedures for family reunification, leaving many children stranded and with no choice but to attempt the journey by themselves. The Oxfam report said Italy’s overstretched and bureaucratic system leaves migrants living under the radar in dangerous conditions.

      Capitani said Italian border police had recently started to accompany minors rejected by France back to the neighbouring country.

      France tightened rules at its border after 84 people were killed in a terror attack in Nice in July 2016.

      Ventimiglia has become a bottleneck for people attempting to cross from Italy into France. Oxfam said that at least 16,500 migrants, a quarter of them children, passed through the town in the nine months to April.

      Most attempt to cross the border by train or via a dangerous mountain path known as the “passage of death”. Charities estimate that at least 12 people died last year while trying to cross into France, either along the mountain route or by being hit by vehicles along a motorway. A 17-year-old from Sudan drowned in June 2017 while trying to retrieve a shoe washed away by a strong current in Ventimiglia’s Roia river.

      According to Oxfam, 17,337 children arrived in Italy in 2017, 15,779 (91%) of whom were unaccompanied.

      French authorities have been contacted for comment.

      https://www.theguardian.com/world/2018/jun/14/french-border-police-accused-of-cutting-soles-off-migrant-childrens-sho

    • Droits des personnes migrantes : la frontière italienne ne peut pas être une zone de non-droit

      A la veille de la journée mondiale des réfugiés, la Commission nationale consultative des droits de l’homme lance un cri d’alerte sur la situation extrêmement préoccupante des migrants à la frontière italienne. Face aux violations des droits de l’homme qu’elle a constatées pendant ses deux missions d’investigation dans les Alpes-Maritimes et dans les Hautes-Alpes, la #CNCDH appelle les pouvoirs publics à cesser des pratiques illégales, inhumaines et contraires aux valeurs de solidarité de la France.

      Les atteintes flagrantes portées aux droits et à la dignité des migrants à la frontière italienne ne sont plus tolérables ; l’Etat doit sortir du déni, s’indigne Christine Lazerges, présidente de la CNCDH. Si la mobilisation de la société civile permet d’apporter des solutions d’urgence, les pouvoirs publics doivent assumer leurs responsabilités, respecter le droit et les valeurs de la République.

      http://www.cncdh.fr/fr/publications/droits-des-personnes-migrantes-la-frontiere-italienne-ne-peut-pas-etre-une-zon

    • « Nous avons piraté les frontières. »

      Un récit du camp itinérant « #Passamontagna », de l’Italie à Briançon.

      Un lecteur de lundimatin était présent au « camp itinérant contre les frontières » dit « Passamontagna », qui se déroulait du 8 au 10 juin, de #Melezet à Briançon en passant par le col de l’Échelle. Il nous a envoyé son récit de ces 3 jours de marche et de discussions.

      Comment faire pour rendre caduques les frontières ? C’est devenu nécessaire avec la militarisation de celles-ci dans le cadre de la guerre aux migrant-es qui a été enclenchée en Europe. Après la marche du 22 Avril de Montgenevre à Briançon, il fallait recommencer. Surtout quand 3 migrant-es ont été retrouvé-es mort-es dans la vallée, tué-es non pas par le froid mais par la répression policière. Surtout quand 3 personnes ont été placées en prison suite à cette précédente marche.

      C’est dans ce contexte que s’est monté Passamontagna, un #camp_itinérant contre les frontières, partant de Melezet en Italie, passant par le col de l’Échelle et arrivant à Briançon. 3 jours collectifs et autogérés, de marche mais aussi de discussions et de reflexion autour de ces frontières, réunissant des personnes italiennes, françaises et d’ailleurs luttant contre les frontières.

      On s’est retrouvé dans une prairie côté Italien, le lieu utilisable le plus proche possible de la frontière avec la France. L’ambiance était belle, ça se retrouvait entre copaines, des discussions collectives avaient lieu. La question qui a le plus occupé les débats était celle de la prise ou non de papiers d’identité pendant la marche. Face à une potentielle répression policière, si les marcheurs subissaient un contrôle d’identité, que faire des personnes qui n’avaient pas les bons papiers, ou pas vraiment le droit d’être là ? Fallait-il profiter de son privilège, s’extirper d’une nasse et laisser tout seuls les personnes vulnérables ? La stratégie collective était que personne n’emporte ses papiers (ou alors les cachent et ne les sortent qu’en dernier recours) et de faire un refus massif de décliner son identité en cas de contrôle.

      Avec la répression subie par les 3 de Briançon, avec la présence de la #DIGOS, les personnes étaient prudentes. Le premier matin, quand le camp était encore en Italie, ils étaient sur la route à prendre des photos des gens présents. Apparemment ils étaient déjà là la veille, c’est une police politique qui semble tout droit venue de l’ère fasciste, entre la BAC et la DGSI. Cela entraînait un rejet des caméras collectif, à part la personne en charge de l’automédia, il était déconseillé de prendre des photos des personnes. C’est pour cela que les photos de ce texte ne comportent personne dans le champ. Par respect pour celle-ux qui se bougent pour entretenir la solidarité dans les Alpes, pour celle-ux qui les traversent. Pour ne pas donner d’arme à la police ou aux fascistes.

      Le cortège s’est mis en marche et a pris la route, après avoir soigneusement évité les DIGOS qui ne les ont pas suivi. Dès l’entrée sur le territoire français, il a été accueilli par un hélicoptère de la gendarmerie, qui ne restera pas longtemps. Une voiture de la gendarmerie précédait le cortège, partant rapidement quand celui-ci s’approchait. Le cortège ne coupait pas la circulation, la route du col était la seule dans le coin, et il s’écartait pour laisser passer les voitures après leur avoir distribué un tract leur expliquant le but de cette marche. Il chantait des slogans comme « murs par murs, pierre par pierre, nous détruirons toutes les frontières » ou reprenait l’air d’un vieux tube de dance « no border no nation no deportation ». Des messages ont fleuri sur la route, contre les frontières, contre la PAF. On pouvait lire « Ni patrie ni patron, ni Salvini ni Macron ». Il y avait deux banderoles, aucun drapeaux syndicaux, uniquement deux drapeaux noirs où étaient brodés ’No Border’ et ’No Nation’ dessus.

      Après une halte au col de l’Echelle, la marche repartit pour #Plampinet, le premier village dans la vallée. A un moment un migrant qui était allé se soulager, marchait seul dans un chemin en contrebas, parallèle à la route prise par la marche. Une voiture de gendarmerie arrive alors en trombe derrière lui, s’arrêtent à sa hauteur et tentent de le contrôler. Alors que celui-ci va pour s’enfuir, une cinquantaine de personne dévalent la pente pour s’opposer à ce contrôle arbitraire et l’empêchent en faisant déguerpir les 2 gendarmes. Une sorte de cortège de tête va alors se former, chassant les véhicules de gendarmes loin de la marche. Le terrain étant favorable, iels ont pu les faire reculer sans risque de nasse ou de réponse, faisant juste un peu peur aux habitant-es quand iels sont entré-es dans le village.

      Le cortège finit peu après ses 14 kms de marche dans une clairière, où un camp avec tente pour la cuisine, pour les conférences et chapiteau fleurirent en peu de temps. La cantine était à prix libre et à moitié issue de récup’, un concert a même eu lieu sous le chapiteau. L’organisation était bonne pour un événement autogéré, on se serait cru dans une colonie avec toutes les tentes dispersées. L’enjeu était toutefois plus sérieux, une intervention policière dans le camp aurait pu avoir lieu au petit matin.

      Après que le camp soit replié et que les grappes de tente aient disparu de la clairière, une petite discussion collective eu lieu. Les villages où l’on allait passer étaient solidaires, et il fallait aller à leur rencontre plus que se constituer en bloc, sauf si nécessité d’autodéfense comme la veille. Les militant-es du coin subissant plus facilement le harcèlement que leurs homologues urbains. Tout le monde s’y connaît, pourrait leur mettre dessus toute erreur stratégique, surtout à un moment où la question migratoire cristallise les environs. Le mot a aussi tourné que Génération Identitaire allait être de retour dans la région. Après avoir créé une barrière artificielle sur les pistes pour les médias, et fait des maraudes en traquant des migrant-es et en les dénonçant à la PAF (police aux frontières), ils avaient prévenu les médias d’une nouvelle action qui allait commencer le lundi matin.

      La marche s’est alors élancée direction Briançon, avec cette fois-ci un camion sono pour entraîner les gens. En passant dans les différents villages de la vallée, où de temps en temps les habitant-es étaient sur le bas côté pour voir la marche passer, il permettait de faire des interventions. De rappeler pourquoi cette marche avait lieu, face à la militarisation, aux morts, à la repression et surtout contre les frontières. Une fois dans la route pour Briançon, on apprit qu’il y avait 6 camions de gendarme mobile disponible si besoin, plus des effectifs de police. La marche décida alors de se séparer des véhicules et d’éviter toute confrontation en quittant la route pour des sentiers.

      4/5 véhicules qui suivaient jusqu’alors la marche furent contrôlés sur le chemin pour Briançon. Les véhicules ont été fouillé, des bombes de peintures et des masque à gaz ont été saisi, mais les conducteurs ont pu repartir libre. L’ambiance était aussi tendue pendant la marche, des flics étaient au loin avec des appareils photos, poussant les marcheurs à se masquer puis démasquer quand ils étaient dans leur champ. Au final, le cortège entra dans Briançon par des petites ruelles sans tomber sur une seule ligne de police.

      Il fit un crochet par le refuge solidaire avant de se terminer dans un parc. Consigne était donnée de faire attention à la dispersion, pour ne pas répéter la mésaventure du 22 Mars, où 3 personnes ont fini en prison après s’être fait contrôlées en allant à leur voiture. Normalement ce n’est pas arrivé aujourd’hui. La marche n’est pas entrée dans Briançon pour se jeter dans la gueule du loup, pour se donner à la répression. Elle a pu profiter du terrain montagneux qui lui était favorable pour imposer son rapport de force victorieux.

      Au final, la mission a été réussie. Une brèche a pu être ouverte dans les frontières et surtout dans le dispositif policier de contrôle de celles-ci. Plus de 200 personnes ont pu se balader sur 30 kilomètres sans avoir à justifier de leur présence, à devoir montrer un papier absurde, à risquer l’emprisonnement, la déportation et la mort. Les passes montagnes ont répondu à leur façon à la loi asile immigration. Iels ont pu s’opposer à cette gestion déshumanisée des frontières et des vies, où les flux financiers ou les biens peuvent se déplacer bien plus facilement que des humains.


      https://lundi.am/Nous-avons-pirate-les-frontieres
      #marche
      signalé par @isskein

    • De sneeuw smelt, de eerste lichamen van migranten worden gevonden in de Alpen

      Afrikaanse migranten die vanuit Italië verder willen, trekken bij Briançon door de bergen naar Frankrijk. Daar komen ze vrieskou en rechts-extremisten tegen.

      Maandag waren het er twintig. Dinsdag arriveerden ongeveer tien nieuwe mensen bij het opvangcentrum voor migranten in het Franse skistadje Briançon. Afrikanen vooral, meest uit het westelijke deel van het continent. In kleine groepjes steken ze via de Alpen de Frans-Italiaanse grens over. „Veel andere mogelijkheden zijn er niet meer”, zegt de 27-jarige Johnson uit Ghana, die de vorige dag de lange wandeltocht ondernomen heeft. „Maar in Italië wilde ik niet blijven.”

      Sinds de zuidelijke grens tussen het Franse Menton en het Italiaanse Ventimiglia voor migranten praktisch onneembaar is geworden, is dit nog een van de weinige routes die migranten zonder reisdocumenten kunnen nemen om Frankrijk te bereiken. Volgens hulpverleners en lokale autoriteiten neemt het aantal mensen dat de gevaarlijke oversteek door de bergen waagt sinds een paar weken gestaag toe. Spectaculaire acties van rechtsextremistische milities, die met patrouilles in het hooggebergte probeerden mensen af te schrikken, hebben daar niets aan veranderd.

      „De politieke situatie in Italië zal daar wel iets mee te maken hebben”, vermoedt Anne Moutte van het Collectif Refuge Solidaire in Briançon, verwijzend naar de scherpe antimigrantenkoers van Matteo Salvini, de nieuwe minister van Binnenlandse Zaken. In het chaotische kantoortje van de hulporganisatie tegenover het station van Briançon registreert Moutte de nieuwe aanmeldingen en geeft ze logistieke hulp aan mensen die verder het land in willen.

      Frankrijk en Italië wisselen al weken stekeligheden uit over wederzijds vreemdelingenbeleid. Frankrijk, dat vorig jaar ruim 100.000 asielaanvragen verwerkte, zou volgens Salvini niet de Europese afspraken voor de verdeling van migranten nakomen. De Franse autoriteiten erkennen dat alleen al bij de grens bij Ventimiglia in 2017 49.000 mensen zijn teruggestuurd naar Italië. Terwijl links Frankrijk president Emmanuel Macron verwijt niet ruimhartig genoeg te zijn, vindt volgens een recente peiling van bureau Elabe 61 procent van de Fransen de regering juist „te laks”. „Wie nog twijfelde”, zegt Moutte, „maakt nu nog snel de oversteek.”

      De spieren willen niet meer

      Zoals Johnson. Op het stoffige plaatsje voor het opvangcentrum hangt hij onderuit in een plastic stoel. Hij is nogal gespierd. Maar de spieren willen even niet meer. „Alles doet pijn”, grijnst hij, wrijvend over zijn kuiten. Na tien uur lopen is de gedrongen jongen hier gisterochtend, via de Col de Montgenèvre (1.854 meter hoog), gearriveerd. „We zijn een paar keer verkeerd gelopen”, zegt hij. Om politiecontroles te omzeilen, probeerde hij met een vriend, ook uit Ghana, zo ver mogelijk van de autoweg te blijven en vooral steile bospaadjes te nemen. „Maar als het donker is dan is het moeilijk de weg terug te vinden.” Hij wil nu naar Barcelona, waar hij iemand kent. „Heb je daar ook dit soort bergen?” vraagt hij bezorgd.

      Wintersportplaatsen in zinderende zomerhitte hebben altijd iets surrealistisch. Als de flatterende dekmantel van sneeuw verdwenen is, resteert niet meer dan een grauw provinciestadje tegen een feeëriek decor. De skiliften hangen er ongebruikt bij, winkels met vrieskoubestendige kleding hebben de rolluiken neergelaten. Maar de winter had hier niet veel langer moeten duren. De sneeuw, die pas in mei ging smelten, heeft in de bergen tenminste drie slachtoffers gemaakt. „Zonder sneeuw is de oversteek iets minder gevaarlijk”, zegt Anne Moutte. „Maar mensen die de weg niet kennen lopen nog steeds enorm risico.”

      Ze kan het weten. Moutte is in het dagelijks leven berggids en sportleraar. Zoals zoveel mensen die hier in de streek het hooggebergte kennen, leidde ze de afgelopen maanden meerdere expedities om afgedwaalde, gewonde of uitgeputte migranten op te sporen. Meer dan een meter sneeuw lag er op de Col de l’Échelle (1.762 meter) en de Col de Montgenèvre, de twee belangrijkste doorgangsroutes.

      ‘De grens doodt’, hebben activisten op de weg naar de Col de Montgenèvre gekalkt

      „In de bergen heb je dezelfde reflex als op zee”, zegt Jean-Gabriel Ravary (66), een berggids uit het nabijgelegen Névache. „Als mensen in nood zijn, dan bied je hulp en ga je niet eerst kijken wat voor kleurtje ze hebben.” Mensen die de afgelopen winter bij hem aanklopten, kregen voor hij ze naar Briançon bracht te eten en een slaapplaats. Bij hem of bij een van de andere inwoners van het bergdorp van nauwelijks 360 inwoners. Halverwege de Col de l’Échelle liet hij in een berghut eten, drinken en warme dekens achter zodat mensen in nood zichzelf konden bedienen.

      Op die bergtop liepen in april de gemoederen hoog op. Een groep van ongeveer honderd rechts-extremisten uit heel Europa arriveerde op een zaterdagochtend met helikopters, pick-uptrucks en speciale winterjassen met de tekst ‘Defend Europe’ om migranten in de sneeuw duidelijk te maken dat ze niet welkom zijn. „Grens dicht, Europa wordt niet je thuis, no way” stond op een immens spandoek. Enkele dagen werd gepatrouilleerd om, zegt initiatiefnemer Romain Espino van Génération Identitaire telefonisch, „aan de politiek duidelijk te maken dat het wel degelijk mogelijk is om de grens te bewaken”. De hulphut van Ravary werd gesloopt. Officieel zouden de acties nu voorbij zijn, maar „waar mogelijk proberen we de politie nog te helpen om illegalen op te pakken”, zegt Espino.

      Beter om bergroute te mijden

      Maar ook hulporganisaties probeerden migranten in de winter duidelijk te maken dat ze de bergroute zonder speciale uitrusting beter konden mijden. „Maar mensen die in hun hoofd hebben dat ze die grens over willen, houd je gewoon niet tegen”, zegt Moutte. Jongeren in half kapotte gympjes of zonder handschoenen, begonnen aan de klim. Moeders met kinderen op hun rug door de sneeuw. Het ziekenhuis in Briançon moest meerdere mensen met bevroren ledematen behandelen. Bij een enkeling was amputatie onvermijdelijk.

      En dat zijn de mensen die het kunnen navertellen. „De grens doodt”, hebben activisten op de weg naar de Col de Montgenèvre gekalkt. Bij het smelten van de sneeuw, vorige maand, werden de eerste lichamen gevonden van migranten die onderweg in problemen zijn gekomen. De 21-jarige Nigeriaanse Blessing Matthew verdronk in het smeltwater van de rivier de Durance toen ze door de politie werd achtervolgd. Monteurs van energiebedrijf ERDF vonden haar op 9 mei. Wandelaars aan de Italiaanse kant van de grens vonden later in de maand bij het dorpje Bardonecchia het levenloze lichaam van een nog altijd niet geïdentificeerde man.

      Vlak bij Briançon zelf, in het gehucht Les Alberts, werd de 20-jarige Senegalees Mamadou-Alpha Diallo gevonden. Hij was samen met een vriend onderweg naar Briançon toen hij uitgeput naar beneden stortte. Pas drie dagen nadat de vriend zich in staat van shock bij de hulpverleners in Briançon meldde, werd zijn lichaam opgespoord. Diallo heeft een provisorisch graf gekregen naast de dorpskerk van het gehucht Les Alberts. Er liggen verse bloemen op.

      „Als je de Sahara doorgekomen bent, dan kun je alles aan”, zegt de 27-jarige Issa uit Ivoorkust. „Of dat denk je in ieder geval”, verbetert hij zichzelf. In de Sahara was het bijna 60 graden boven nul. Toen hij bijna drie maanden geleden de Alpen overstak was het 20 onder nul. Terwijl de meeste andere mensen hier snel doorreizen naar grotere Franse steden waar ze asiel kunnen aanvragen, werkt hij nu tijdelijk als vrijwilliger bij de opvang van andere Afrikanen. Hij wil na de zomer in Grenoble zijn studie scheikunde hervatten. Via de televisie volgt hij de Europese discussies over migratie op de voet. „Frankrijk is het land van de mensenrechten, leerde ik in Ivoorkust altijd op school”, lacht hij „Leren ze dat in Frankrijk eigenlijk ook nog?”

      https://www.nrc.nl/nieuws/2018/06/27/eerst-de-sahara-daarna-de-alpen-a1608067

    • Réponse à ce que j’ai écrit ci-dessous:
      Identificato il migrante morto nell’orrido di Fréjus: era stato respinto alla frontiera francese

      Mohamed Fofana veniva dalla Guinea Conakry ed era poliomielitico: gli stenti e il freddo lo hanno ucciso mentre tentava la faticosa traversata al Colle della Scala.
      E’ stato identificato il migrante trovato morto il 25 maggio nell’orrido del Fréjus, ucciso probabilmente dalla fatica e dagli stenti. Lo stesso giorno in cui è morto era stato respinto alla frontiera francese. Si chiamava Mohamed Fofana, aveva 28 anni ed era partito dalla Guinea Conakry. Il suo corpo era riemerso dalla neve con la riapertura del Colle della Scala.

      I carabinieri di Susa hanno ricostruito la storia del ragazzo, sbarcato in Italia a giugno dell’anno scorso a Messina. Sulla sua morte il pm Manuela Pedrotta ha aperto un’indagine. Il suo nome è registrato in un centro di accoglienza in provincia di Teramo. Poi di lui si perdono le tracce fino a quando non viene bloccato dalla gendarmeria francese al confine il 26 gennaio di quest’anno. Insieme con altre decine di persone stava tentando la traversata più pericolosa per arrivare in Francia. Secondo i riscontri del medico legale che ha esaminato il corpo, il ragazzo potrebbe essere morto lo stesso giorno in cui è stato respinto alla frontiera tra Italia e Francia. Il richiedente asilo era affetto da poliomelite, una malattia che di certo ha reso ancora più complicata e faticosa la sua traversata. Secondo l’esito dell’autopsia è morto per ipotermia.

      Per settimane il corpo ritrovato in fondo all’orrido del Fréjus è rimasto senza nome. Poi le ricerche degli investigatori hanno ricostruito l’identità del ragazzo in fuga, il terzo cadavere ritrovato da quando il confine italo-francese è diventato terra di migrazione. Ora la procura di Torino ha dato il nulla osta per la sepoltura. La rete Tous Migrants, attiva per la difesa dei migranti e la loro tutela, ha annunciato che la cerimonia funebre sarà celebrata domani con un rito interreligioso a Bardonecchia.

      http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/07/03/news/identificato_il_migrante_morto_nell_orrido_di_fre_jus_era_stato_re

    • Reçu via la mailing-list des «3 de Briançon», le 12.07.2018:

      Plusieurs personnes sont convoquées ce mardi 17 juillet à la gendarmerie de Briançon pour une garde à vue
      Ils sont suspectés , comme Bastien , Théo et Eléonora d’avoir aider à l’entrée irrégulière d’étrangers en France en bande organisée le 22 avril 2018 à la frontière franco italienne lors de cette marche pacifiste en réaction à l’occupation de nos montagnes par Génération identitaire
      Le harcèlement judiciaire à l’encontre des solidaires se poursuit ,le procureur se sent pousser des ailes après l’avis du conseil constitutionnel ...

    • Notre fraternité n’a pas de frontières. rassemblement pacifique mardi 17 juillet devant la gendarmerie de Briançon

      Mardi 17 juillet, 4 personnes sont convoquées pour une garde-à-vue à la gendarmerie de Briançon. Le motif : avoir « aidé à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire français, en bande organisée », à l’occasion de la marche de solidarité du 22 avril dernier. Rappelons que cette manifestation pacifique s’est déroulée spontanément en réponse aux provocations haineuses et dangereuses d’un groupuscule suprémaciste ayant bloqué depuis la veille le col de l’Echelle.

      Cette convocation groupée s’inscrit dans le cadre de l’enquête ouverte lors du procès des « 3 de Briançon », dont le jugement est reporté au 8 novembre. Elle prend la suite de nombreuses pressions et tentatives d’intimidation (convocations en audition libre, harcèlement téléphonique, surveillance des domiciles) que subissent depuis des mois des personnes solidaires dans la région.

      Suite à la décision du Conseil constitutionnel du 6 juillet dernier, beaucoup ont proclamé que « le délit de solidarité était désormais abrogé » en France. Le Conseil constitutionnel consacre en effet le principe de fraternité pour ne pas pénaliser l’aide gratuite « au séjour » et « à la circulation », mais il ne lève pas les ambiguïtés de l’article L. 622-1 du CESEDA ayant conduit aux condamnations de bénévoles au motif d’une « action militante ». En outre, la décision n’étend pas l’exemption pour l’aide désintéressée « à l’entrée » sur le territoire.

      Selon le communiqué du ministère de l’Intérieur publié le même jour « l’exemption pénale pour l’aide apportée dans un but humanitaire ne doit pas s’étendre à l’aide apportée dans un but militant ou aux fins de faire obstacle à l’application de la loi ou à l’action de l’État ».

      Pour l’Etat, la solidarité devrait donc se réduire à apporter une aide humanitaire ponctuelle, côté français, à celles et ceux qui sont parvenus au péril de leur vie à passer la frontière. Autrement dit, dans le pays de la fraternité, seraient hors de cause les personnes qui aideraient par hasard et sans remettre en cause les politiques migratoires, et condamnables celles qui s’organiseraient en solidarité. Nous refusons cette stratégie de division. Les différentes pratiques de solidarité répondent toutes à la même nécessité de faire face aux violences des politiques migratoires actuelles.

      Rappelons que :

      Le contrôle aux frontières des personnes à la peau noire contraint celles-ci à mettre leur vie en danger pour éviter les barrages et les refoulements quasi systématiques. Sans cela, tout le monde pourrait prendre le train, le bus ou un covoiturage pour voyager de l’Italie à la France.

      Pour appliquer les consignes de la Préfecture et du Ministère, la police aux frontières traque les exilé·e·s dans la montagne, jusqu’à provoquer des blessé·e·s et des mort·e·s, comme Blessing Matthew le 7 mai 2018.

      Comme l’attestent de nombreux témoignages, certains policiers poursuivent, piègent, giflent, déshabillent, volent, menacent à l’arme à feu des personnes, en toute impunité, dans l’invisibilité de la montagne.

      Dans le même temps, la fraternité qui refuse cette mise en danger de personnes, est passible d’une accusation de trafic d’êtres humains, alors qu’elle cherche à prévenir les risques mortels en montagne, en accord avec les libertés fondamentales.

      Ces lois contredisent les droits humains fondamentaux et veulent nous imposer de mettre des frontières dans nos pratiques de solidarité.

      Le pays de la fraternité ne saurait être celui où des personnes exilées, qui tentent d’y trouver refuge, meurent à sa frontière.
      Nous appelons la population à un rassemblement pacifique de soutien
      Mardi 17 juillet, dès 8h30, devant la gendarmerie de Briançon

      Pendant la durée de la garde-à-vue, créons des espaces d’échange et de rencontre : apportez vos instruments de musique, pique-nique, textes, etc !

      https://www.gisti.org/spip.php?article5952

    • Marche du 22 avril 2018 : Comme une odeur de couvre feu...texte d’un gardé à vue.

      Je sors de garde à vue (17/07/18). Privé de liberté pendant toute une journée. J’ai longtemps réfléchi à ce que je pourrais exprimer en sortant d’ici. Essayer de comprendre les motivations jusque boutistes du procureur de la république de Gap.

      Je me suis dit, au début, que le proc’ avait du essuyer quelques
      traumatismes dans sa jeunesse pour être d’une détermination aussi extrême.
      Peut-être était-il étudiant en décembre 95, lorsque la France a été secouée par une grève générale. Peut-être que sa faculté de droit avait été taguée « fac de droite » à ce moment-là. Que les entrées avaient été barricadées par des montagnes de poubelles, de tables, de chaises, et que peut-être de là coulait son esprit de revanche contre la gauche et les militants de ses rangs.

      Puis après, je me suis dit que peut-être avait-il tout simplement envie d’être muté. Devenir multi-récidiviste dans la négation des droits pour énerver sa hiérarchie. Humilier nationalement le tribunal de Gap en requérant la mise en détention des premiers solidaires. Et ainsi se barrer
      d’ici, être envoyer n’importe où, même substitut du procureur dans la Creuse, mais à tout prix se barrer d’ici.

      Puis finalement, à bien y réfléchir et au vu des notes du ministère de l’intérieur concernant le délit de solidarité, et bien je me suis dit que comme dans toute bonne république qui se respecte, que les chefs avaient des chefs et qui eux-mêmes avaient des chefs. Et que les ordres tombaient.
      Que le procureur, malgré sa qualité de chef, restait un subordonné et agissait en tant que tel.
      Au programme : Liquider la résistance en #Haute-Durance, piétiner les solidarités aux frontières, effrayer les populations pour régner en vainqueur. Faire en sorte qu’un africain n’ait pour avenir en France qu’une prison, un charter ou une tombe. Et que tout ça c’était des ordres, le choix d’une politique très claire, une politique d’extrême droite.
      Le procès qui se tiendra le 8 novembre se devra d’être notre tombeau.
      Celui qui asphyxiera les solidarités. Celui qui plongera nos rêves et nos luttes au plus profond des poubelles de l’ Histoire. Ce procès se devra d’être le coup de semonce final sur la tête des vaincus.

      J’ai toujours pensé que l’Etat de Droit, du moins son concept érigé en doctrine, permettait à une classe sociale d’en subjuguer une autre. Que ces 3 mots Etat-De-Droit revenaient sans cesse dans la bouche de certains pour justifier l’idéologie des puissants, et ainsi assujettir notre liberté pour faire de nous des sujets. Sujets du roi, sujets du prince, sujets des multinationales...
      Nos frères et soeurs africainEs, en choisissant la route de l’exil ont décidé de redevenir maître de leur destinée, après ces centaines d’années passées les chaînes aux pieds.
      En tant que vaincu, je les considère comme mes semblables.
      En tant que vainqueurs, vous les voyez comme une menace. Vous avez raison.
      Leur exil nous montre à quel point la guerre économique que vous menez en Afrique et ailleurs est définitivement perdue.
      Les sous-sols du continent africain que vous vous disputez entre vainqueurs s’épuisent à mesure que grandit votre bêtise. Votre bêtise, construite sur une idéologie du passé qui se résume elle en 5 mots : Augmentation-Du-Taux-De-Profit.

      Bolloré et consorts, vous rappelez-vous sûrement des mots esclavage, colonie, pillage, FrançAfrique... Vous qui vous gavez ici, là-bas, partout, vous essaieriez de nous faire croire que le problème serait nos frères et soeurs africainEs ? Le problème, C’EST VOUS ! La destruction que vous engendrez vous tétanise déjà. Vous avez peur, partout. Vous érigez des murs, vous surarmez les pandores, vous construisez des cages. A mesure que la vérité éclate sur l’effondrement prochain de votre civilisation capitaliste, vous agressez, vous violentez.
      Et pourtant c’est inéluctable, la fin d’un monde approche.

      Nous sommes à un point de non retour, d’un côté le chaos climatique, guerrier poussant des dizaines de millions d’individus sur les routes de l’exil et de l’autre le glissement totalitaire des sociétés dites démocratiques. Humiliation des syndicats, répression des mouvements sociaux, suppression des libertés, surveillance à outrance, militarisation des frontières...
      Bref, ras l’bol !

      En Marche, préparez-vous à courir !

      Mathieu, un des 3+4 de Briançon.

      Texte reçu via la mailing-list du comité de soutien des 3 de Briançon

    • France : l’aide aux migrants toujours traquée, nouvelles poursuites judiciaires dans les Alpes

      Malgré le rappel par le Conseil constitutionnel du "principe de fraternité", quatre personnes ont été placées en garde à vue mardi matin à Briançon (Hautes-Alpes) dans le cadre de l’enquête sur une manifestation qui avait permis l’entrée en France d’une vingtaine de migrants et déjà donné lieu à des emprisonnements. Relachées, elles comparaitront le 8 novembre pour "aide à l’entrée irrégulière" d’étrangers "en bande organisée". Une rigueur qui tranche avec l’indulgence de la justice en d’autres circonstances.

      Une femme et trois hommes de 20 à 50 ans - dont deux responsables du collectif "Tous migrants", ont été entendus ce 17 juillet sous le régime de la garde à vue en relation avec une marche qui, le 22 avril dernier, avait occasionné le passage en France de plusieurs étrangers.

      Relachés dans l’après-midi, ils comparaitront le 8 novembre prochain pour "aide à l’entrée irrégulière" d’étrangers "en bande organisée", cette dernière notion étant de plus en plus fréquemment invoquée contre les manifestations.

      Trois militants - une Italienne, un Suisse et un Belgo-Suisse âgés de 23 à 27 ans - sont déjà poursuivis dans cette affaire.

      Surnommés les « trois de Briançon », ils avaient été mis en examen et placés dix jours en détention provisoire avant d’être libérés le 3 mai dernier.

      Ils avaient comparu le 31 mai devant le tribunal correctionnel de Gap mais leur procès avait été renvoyé également au 8 novembre dans l’attente d’une décision du Conseil constitutionnel.
      "principe de fraternité"
      Celle-ci a été rendue le 6 juillet : les Sages ont affirmé qu’une aide désintéressée au "séjour" irrégulier des étrangers ne saurait être passible de poursuites au nom du "principe de fraternité". En revanche, l’aide à "l’entrée" irrégulière reste illégale.

      Le ministère de l’Intérieur indique dans un communiqué que " l’exemption pénale pour l’aide apportée dans un but humanitaire ne doit pas s’étendre à l’aide apportée dans un but militant ou aux fins de faire obstacle à l’application de la loi ou à l’action de l’Etat."

      "Nous refusons cette stratégie de division. Les différentes pratiques de solidarité répondent toutes à la même nécessité", souligne le collectif "Tous migrants". "J’ai la conscience tranquille, je n’ai rien à me reprocher, on a juste aidé des personnes, le principe de fraternité n’a pas de frontières", a déclaré Benoit, 48 ans, un des militants convoqués, avant d’entrer dans la gendarmerie.

      Pour Me Yassine Djermoune, un avocat des mis en cause, les militants y voient "une tentative d’intimidation".

      Le 22 avril, près de 150 militants antifascistes avaient franchi la frontière franco-italienne par les pistes de ski du col de Montgenèvre avec une vingtaine de migrants africains. Après de brefs heurts avec les forces de l’ordre, le cortège avait rejoint Briançon sous escorte. Pour le collectif, cette manifestation "pacifique" répondait "spontanément" aux "provocations haineuses et dangereuses d’un groupuscule suprémaciste ayant bloqué depuis la veille le col de l’Échelle".
      Rigueurs en mansuétudes
      Le 21 avril, une centaine de militants d’extrême droite de Génération identitaire, agissant sous la bannière du mouvement "Defend Europe", avaient bloqué ce col frontalier voisin pour marquer leur hostilité à l’entrée de migrants. Les jours suivants, ils avaient mené des "patrouilles" dans les vallées de la région, agissements qui font l’objet d’enquêtes diligentées par le parquet de Gap mais aucune poursuite n’a encore été engagée.

      "Je regrette que ce ne soit pas les mêmes mesures pour Génération identitaire", a dit une autre avocate des militants pro-migrants placés en garde à vue, Me Cécile Faure-Brac.

      La rigueur avec laquelle la justice traque actuellement - sur instruction du parquet - les actions de solidarité avec les migrants, en particulier dans cette région de montagnes, n’hésitant pas devant le recours effectif à l’emprisonnement, tranche en tout cas avec sa mansuétude envers d’autres délits d’une tout autre trempe.

      Les dossiers de grande délinquance impliquant les hauts personnages de la classe politique ne donnent quasiment jamais lieu à détention provisoire et même les peines prononcées dans ces cas s’achèvent classiquement par des aménagements permettant à ces justiciables spéciaux d’éviter la case prison.

      Celle-ci a également été dernièrement épargnée aux dirigeants de Lafarge sur qui pèsent pourtant des charges gravissimes de complicité de financement d’entreprise terroriste (l’Etat islamique), tandis que leur société l’est pour "complicité de crime contre l’humanité". Il est moins risqué d’aider Daech que des migrants perdus dans les Alpes.

      https://information.tv5monde.com/info/france-l-aide-aux-migrants-toujours-traquee-nouvelles-poursuit

    • Bericht über eine Tour in der französisch-italienischen Grenzregion, Mai 2018

      Im Mai 2018 besuchten drei Freund*innen, die mit Moving Europe vernetzt sind, die Grenzregion zwischen Italien und Frankreich und schrieben einen Bericht über die aktuelle Situation in Ventimiglia, in den Tälern der französisch-italienischen Grenzregion und in der Region PACA (Provence Alpes Côte d’Azur). Hier ist eine Zusammenfassung des Berichts:
      Ventimiglia

      Die kleine Stadt Ventimiglia ist seit 2015 einer der wichtigsten Knotenpunkte der Migration von Italien nach Frankreich. Die Grenze liegt fünf Meilen westlich des Ortes. Die Passage auf dem direkten Weg entlang der Küste nach Menton ist jedoch selten erfolgreich. Auf dieser Straße sahen wir viele Migrant*innen, darunter mehrere Familien mit Kindern. Sie wurden an der Grenze zurückgewiesen und kehrten nach Ventimiglia zurück.

      Entlang des Flusses, neben der Via Tenda, wurden das informelle Lager und das No-Border-Camp, das im Jahr 2015 voller Leben war, zerstört. Der wiederholte Wiederaufbau informeller Lager hat immer wieder zu raschen Vertreibungen geführt. Das Gebiet entlang des Flusses ist nun durch Tore verschlossen. Eine starke Polizeipräsenz stellt sicher, dass keine neuen Lager errichtet werden. Wir haben auch eine starke Polizeipräsenz an den Lebensmittelverteilungsstellen beobachtet: auf dem Parkplatz vor dem Friedhof und vor dem Infopoint an der Via Tenda 8c. Die Stadt ist voller Polizisten. Die Situation ist scheinbar ruhig, aber die Spannung ist spürbar. Unzählige Menschen hängen am Bahnhof herum: Migrant*innen, Polizisten und Schmuggler. Später erfahren wir, dass es etwa 300 Schmuggler – sogenannte Passeurs – in Ventimiglia gibt. Am Ende schaffen es fast alle Migrant*innen, die Grenze zu überqueren – ob in den Autos von Schmugglern oder mit Unterstützung von Aktivist*innen und/oder auf mehr oder weniger autonome Weise – einige gar mit dem Zug (es gibt Kontrolleure, die in die andere Richtung schauen), andere zu Fuß über die Berge. Viele versuchen dies mehrmals. Für Familien ist es am schwierigsten. Um die Polizeikontrollen zu vermeiden, versuchen einige von ihnen, auf gefährlichen Strecken auszuweichen, Passagen, die bereits zu schweren, manchmal tödlichen Unfällen geführt haben.

      In der Nähe des Bahnhofs, in der Via Sir T. Hanbury, befindet sich die Hobbit Bar. Abgesehen vom Infopoint ist es der einzige Ort, an dem die Migrant*innen Unterstützung in ihrem täglichen Leben finden können, die einzige Bar in der Stadt, in der sie willkommen sind. Es gibt Spiele für die Kinder, einen kostenlosen Second-Hand-Laden, Handy-Ladestationen und Zahnbürsten in der Toilette. Die Gäste werden von Delia, der Besitzerin, und ihrem Personal herzlich empfangen. Die meisten der ehemaligen Kund*innen sind abgesprungen, seit die Hobbit Bar ein Ort der Solidarität geworden ist.

      Viele der Aktivist*innen aus der Region Ventimiglia können auch nicht mehr in die Stadt kommen. Sie wurden über Gebietsverbote («follio di via», wohl analog Wegweisungsverfügungen und Rayonverboten) kriminalisiert, ausgestellt durch die Polizei – administrative und nicht-strafrechtliche Entscheidungen, die anzufechten eine sehr langwierige und komplizierte Sache wäre – und es wurde ihnen verboten, die Stadt zu betreten. Was die ursprünglich in Ventimiglia aktiven Netzwerke ARCI und presidio no border betrifft, waren diese dadurch gelähmt. Aber es gibt immer noch Menschen aus Frankreich und anderen Teilen Italiens, die jede Woche Lebensmittel, Medikamente und andere nützliche Dinge vorbei bringen.

      Das offizielle Camp befindet sich 4 km außerhalb der Stadt und wird vom Roten Kreuz verwaltet. Der Eingang wird von Personal mit schusssicheren Westen bewacht. Im Camp stehen 500 Plätze zur Verfügung. Bei ihrer ersten Ankunft werden den Flüchtlingen die Fingerabdrücke genommen. Eine OXFAM-Mitarbeiterin erklärte einer Familie, dass es nur um die Sicherheit des Lagers gehe und dass die Fingerabdrücke nicht an die Behörden weitergegeben würden. Aktivist*innen bezweifeln das.
      Das Vallée de la Roya

      Der Fluss Roya fließt bei Ventimiglia ins Meer. Die Grenze liegt circa 10 km nordwestlich, dem Flusslauf entlang hoch. Die Roya fliesst durch die ligurischen Alpen. Es gibt mehrere Möglichkeiten, die Grenze zu überqueren und die französische Seite des Roya-Tals zu erreichen. Es gibt Straßensperren der Polizei auf den normalen Straßen. In Ventimiglia können sich die Migrant*innen für die Überquerung mit einem Kurier arrangieren. Der Preis beträgt 150€ und beinhaltet die Adresse des nächstmöglichen Anlaufpunktes in Frankreich. Die Routen sind nicht ungefährlich: Seit 2015 sind dort 17 Menschen gestorben, die letzten im Frühjahr 2018.

      Im Vallée de la Roya gibt es mehrere Gruppen, die Flüchtlinge unterstützen – aus humanitären Gründen, aber auch als politische Kollektive oder als autonome Individuen. Einige Einwohner*innen publizieren eine Zeitung, die gewöhnlich über die verschiedenen Probleme des Vallée de la Roya berichtet (Raumplanung, große Autobahninfrastrukturen, Verteidigung der Eisenbahn und der ländlichen Gebiete, Verurteilung der Militarisierung, das Tunnelprojekt Tende-bis, die Trinkwasserversorgung usw.). Diese Zeitung wird von etwa 1.000 Menschen gelesen. Eine faschistische Gruppe versuchte auch, eine Zeitung zu veröffentlichen, aber sie verschwand nach drei Ausgaben wieder, weil die Leser und Leserinnen, eher rechtsgerichtet, schlussendlich von den vielen gefälschten Nachrichten dieser Boulevardzeitung abgestoßen wurden.

      Unter den Gruppen, die humanitäre Hilfe leisten, sind jene, die sich um Cédric Herrou herum konstituieren, die wichtigsten (die historische „Roya Citoyenne“, und seit kurzem „DTC défends ta citoyenneté“). Cédric Herrou wurde für seine Hilfe für die Flüchtlinge verurteilt, ohne dass ihn dies beirrte; er tut, was er für richtig hält, und Politik mag er nicht. Die Aktivist*innen handeln, ohne externe Unterstützung zu suchen, mit Ausnahme von Sachspenden. Sie tun, was ihnen ihr Gewissen vorschreibt, die Vertriebenen, die Migrant*innen sind da und müssen versorgt werden, die Aktivisten reagieren auf eine Notsituation.
      Campingplatz de Cédric Herrou, Val de Roya

      Die Straße, die zum Camp Saorgin in Breil-sur-Roya führt, geht über die Berge: sie ist leicht zu kontrollieren. In Sospel, etwa 10 km vor Breil, errichtete die Polizei eine Straßensperre, ebenso auf der D6205 aus Richtung Ventimiglia. Auch der Standort selbst steht unter ständiger polizeilicher Überwachung.

      Alles begann, als Cedric und sein Netzwerk den Flüchtlingen halfen, die Grenze zu überqueren. Heute ist der Ort bei Flüchtlings- und Schmugglernetzwerken so bekannt, dass das Lager oft an seine Kapazitätsgrenzen stößt. Es waren bis zu 300 Personen vor Ort. Cédric kümmert sich mit Hilfe einiger Freiwilliger um sie. Im Sommer 2017 haben 1.500 Flüchtlinge sein Grundstück passiert.

      Der Ort selbst wirkt informell, die Infrastruktur improvisiert. Es ist ein idyllischer Ort, sicher schlammig im Regen, was in dieser Region glücklicherweise selten ist. Von der Straße nehmen wir einen steilen Pfad hoch zur Hühner- und Olivenfarm von Cedric. Im felsigen Olivenhain gibt es Zelte, eine Außenküche, Trockentoiletten, improvisierte Duschen. Der Weg ist ein kleiner Kletterpfad. Wasser ist knapp. Als wir ankommen, sind nur wenige Leute vor Ort, die sich waschen, ihre Kleidung reinigen, ihre Smartphones aufladen, telefonieren und Essen zubereiten. Alle kamen am Abend zuvor an. Am Morgen ging eine Gruppe von Flüchtlingen nach Nizza.

      Es gibt eine Vereinbarung mit der Polizei: Cedric erstellt eine Liste mit den Namen der Flüchtlinge, macht Fotos von ihnen und schickt diese Daten per E-Mail an die Polizei, um damit die Asylanträge stellen zu können. Die Migrant*innen können sich 3 Tage lang von ihrem Weg durch die Berge ausruhen, dann erhalten sie temporäre Papiere. Anschließend fahren sie in Gruppen, begleitet von Freiwilligen, mit dem Zug nach Nizza. Von dort aus werden sie in andere Regionen geschickt. Der Campingplatz fungiert zum Teil als informelles Empfangszentrum.
      Ein offenes Haus im Hinterland von Nizza: die Karawanserei

      Etwa zwanzig Kilometer von Nizza entfernt, auf dem Land, liegt Huberts Haus und Grundstück. Zwischen 10 und 40 Menschen sind da, auf der Durchreise oder zum Ausruhen: Flüchtlinge und Aktivist*innen, Besucher*innen und viele andere, die sich einfach nur entspannen wollen. Bevor er über humanitäre oder politische Fragen spricht, spricht Hubert über Gastfreundschaft. Das ist sein Grundwert, ob selbst auf Reisen oder als Gastgeber. Er nennt seinen Ort deshalb auch die Karawanserei.
      Sein Haus steht allen Reisenden offen und er macht keinen Unterschied zwischen Migrant*innen, Exilierten oder Urlauber*innen. Das Haus von Hubert arbeitet mit der Organisation „Habitat & Citoyenneté“ zusammen, einer Solidaritätsinitiative, die den Idealen des Netzwerks Solidary-City entspricht. „Habitat & Citoyenneté“ ist ein Informationszentrum mit einem Netzwerk in vielen europäischen Ländern. Es macht es möglich, den Menschen innerhalb von 48 Stunden eine Orientierung zu geben. Die überwiegende Mehrheit von ihnen ging mit eigenen Mitteln, zu Fuß, mit dem Auto, mit dem Zug und sie haben die Adresse des Vereins. Vom Lokal von „Habitat & Citoyenneté“ werden sie zu Hubert gebracht, wenn es dort Platz gibt. Auch Leute, die in Nizza auf der Straße schlafen und an den Verein verwiesen wurden, kommen zu ihm nach Hause, manchmal sind es die Sozialämter oder sogar die Präfektur, die den Aufenthalt in seinem Haus vorschlagen.

      Hubert ist ein charismatischer, pragmatischer und optimistischer Mensch, jeder dort nennt ihn Baba (Vater). Der Unterschied zwischen diesem Lebensort und denen von Cédric und den anderen ist, dass es im Vallée de la Roya notwendig ist, den Notstand zu bewältigen. Was tun, wenn in der Nacht 50 Personen ankommen? Bei Hubert haben die Gäste keine Hindernisse, Barrieren, Mauern, Demütigungen mehr. Hubert fragt sie nicht, wann sie gehen wollen. Sie verfügen selber über ihre Zeit. Diese verschiedenen Aufnahmeorte arbeiten eng zusammen und teilen die gleiche Analyse. Die Karawanserei ist die Etappe, die der ersten Ankunft nach der Grenze folgt, sowohl in der Aufnahme als auch in der Orientierung.

      Der Alltag in diesem Haus verläuft ohne Regeln: keine Planung, keine Meetings, jedeR tut, was er/sie will und kann. Als wir ankamen, waren etwa 15 junge Männer vor Ort. Einige von ihnen bauten eine neue Tür für den Hühnerstall, andere hörten Musik oder putzten das Haus, nochmals andere führten Reparaturen aus, die letzten ruhten oder schliefen.

      Es ist ein ständiges Kommen und Gehen: Freund*innen kommen mit (oder ohne) Spenden vorbei und bleiben ein paar Tage, Migrant*innen aus anderen Regionen kommen zurück, um „ihre Familie“ zu besuchen und Ruhe zu finden oder ein Konzert zu besuchen. Hubert möchte, dass sein Zuhause ein ruhiger Ort bleibt, an dem die Reisenden wieder zu Kräften kommen und darüber nachdenken können, wo und wie sie ihre Reise fortsetzen können. Er interessiert sich für Gäste und spricht gerne mit ihnen. Der Verein „Habitat & Citoyenneté“ erhält Lebensmittel von der Banque Alimentaire de Nice. Reisende müssen wieder zu Kräften kommen und viel essen, so Hubert.

      Zum Thema Repression erklärt Hubert, dass innerhalb des Vereins jedeR die Verantwortung für sein/ihr Handeln übernimmt: sie agieren offen und verstecken sich nicht. Einige von ihnen wurden bereits oft verhaftet, aber in der Regel nach 48 Stunden wieder freigelassen. Auch Hubert wurde bereits in Polizeigewahrsam genommen und etwa 15 Flüchtlinge wurden nach Italien zurückgeschickt. Zwei Tage später war er wieder frei, und nach zwei weiteren Tagen waren alle Flüchtlinge wieder zurück bei ihm auf dem Gelände.

      Hubert glaubt, dass die Toleranz der Polizei und der Behörden damit erklärt werden kann, dass die Flüchtlinge nicht in Nizza auf der Straße rumhängen und der Staat sie nicht unterstützen muss. „Habitat & Citoyenneté“ erhält keine staatliche Förderung, sie leben von Spenden. Sie haben aktuell finanzielle Probleme – nächsten Monat werden sie nicht genug Geld haben, um die Miete für ihre Räumlichkeiten in Nizza zu bezahlen.*

      In der Region von Nizza ist der Front National sehr stark, aber Hubert hat keine Probleme mit seinen Nachbar*innen. Einige sind „fachos“, aber sie handeln nicht konkret. Die Dorfgemeinschaft und der Bürgermeister bereiten ihm keine Probleme, manchmal sind sie sogar freundlich.
      Unterstützungskollektive, im Var und in Marseille

      Nordwestlich von Nizza liegt die Bergregion des Haut-Var, wo es auch Gruppen gibt, die Flüchtlinge unterstützen. Die bekannteste, „Haut-Var Solidarité“, wurde 2016 gegründet und unterstützt Migrant*innen durch Unterbringung, gegenseitige Unterstützung und im Kampf gegen Polizeipraktiken an der Grenze und gegen alle Grenzen. Die Kollektive stehen in engem Kontakt mit dem selbstverwalteten Sozialzentrum von Marseille „Manba“ sowie mit anderen Kollektiven aus Marseille, die sich mit dem Empfang und der Beherbung von Migrant*innen, dem Kampf gegen Vertreibungen und der französischen und europäischen Migrationspolitik beschäftigen. Ein Treffen der südöstlichen Koordination all dieser Kollektive soll im Herbst organisiert werden.
      Über die Alpen, von Italien nach Briançon, eine Stadt der Solidarität

      Die Flüchtlingsroute durch Italien führt hauptsächlich durch Mailand. Von dort fahren die Flüchtlinge entweder nach Südwesten in Richtung Ventimiglia oder nach Westen in Richtung Turin. Dort teilt sich die Straße wieder: eher nach Norden in Richtung Bardonecchia oder etwas weiter nach Süden in Richtung Claviere und weiter über den Montgenèvre-Pass nach Briançon.

      Auf der italienischen Seite dieses Passes, in Claviere, befindet sich ein besetztes Untergeschoss in der Kirche, das „Chez Jésus“. Die Kirche toleriert es, weil der Papst 2018 zum Jahr der Obdachlosen erklärt hat. Es gibt einige Matratzen, aber die meisten Flüchtlinge benutzen das „Chez Jesus“ als letzten Informationspunkt vor der Grenze, wo sie sich ausruhen und ernähren können, bevor sie die Grenze überschreiten. Diese ist circa 1 Kilometer vom Dorf entfernt. Das „Chez Jesus“ ist teilweise von denselben Aktivist*innen besetzt wie das „Chez Marcel“ in Briançon (von dem wir später noch berichten werden), aber auch Leute aus Italien sind beteiligt. Der Ort wird von der italienischen Geheimpolizei überwacht, bisher ohne größere Zwischenfälle. Ende Juli haben wir aber erfahren wir, dass das selbstverwaltete „Chez Jésus“ von der Räumung bedroht ist.

      In Claviere treffen wir zwei Gruppen von Migranten, die mit dem Bus aus Turin gekommen sind. Das Ticket kostet 10 Euro, die Passeure aber nehmen bis zu 300 € für die gleiche Strecke und „liefern ihre menschliche Fracht“ direkt vor dem „Chez Jesus“ ab. Es kommen 20 bis 50 Personen pro Tag. Meistens bleiben die Migrant*innen bis zur Dämmerung, benutzen dann die Wege und überqueren die Hügel und warten im Waldgebiet nahe der Grenze auf die Nacht. Sie überqueren die Grenze im Dunkeln und versuchen, Briançon in der Nacht zu erreichen. Wenn sie sich nicht verirren und in guter körperlicher Verfassung sind, brauchen sie 3 bis 4 Stunden, um diese 15 Kilometer zu bewältigen, aber in der Regel dauert die Strecke eher 8 Stunden, in komplizierten Fällen bis zu 15 oder 20 Stunden. Der Weg ist markiert und es gibt Menschen, die den Weg bei Schneefall vorbereiten. Bei winterlichen Bedingungen dauert es sogar noch länger, um voranzukommen. Es braucht auch länger, wenn die Menschen sich vor der Polizei verstecken müssen, oder für Familien mit Kindern. Viele Menschen wurden durch die Kälte verletzt, und mindestens drei Menschen starben auf der Straße, darunter eine Frau, die in einen Hochwasser führenden Bergfluss fiel, als sie davonrannte bei dem Versuch, der Polizei zu entkommen. Der Grenzübertritt ist eigentlich ganz einfach, aber je näher man der Stadt Briançon kommt, desto schwieriger wird es. Ein Golfplatz (im Winter eine Skipiste) auf beiden Seiten der Grenze muss direkt am Pass überquert werden. Die letzten hundert Meter sind die gefährlichsten: eine verstärkte Polizeipräsenz, das stärker werdende Tageslicht, die zunehmende Erschöpfung machen diese letzten Meter zum schwierigsten Teil der Reise.

      Die Polizei hat feste Kontrollpunkte entlang der Straße vom und am Montgenèvre-Pass und mobile Kontrollpunkte entlang der Wanderwege und Pfade eingerichtet. Außerhalb des festen Grenzübergangs führt die Polizei mobile Kontrollen auf den Straßen und Wegen durch. Sowohl auf italienischer als auch auf französischer Seite scheinen die Einstiegspunkte in die Route als auch die Besetzungen respektiert zu werden. Sobald die Flüchtlinge Briançon erreicht haben und wissen, wohin sie gehen sollen, sind sie sicher und können trotz starker Polizeipräsenz in der Stadt Asyl beantragen.

      Mitte Juni wurde am Montgenèvre-Pass ein Lager eingerichtet. Drei Tage lang überquerten fast 400 Aktivist*innen die Grenze mit Musik, Liedern und Megaphonen. Diese Demonstration entlang der normalerweise von Flüchtlingen benutzten Wege sollte die Durchlässigkeit der Grenze aufzeigen und gegen die Kontrollen protestieren. Nach dieser Aktion wurde inzwischen gegen 7 Personen ein Strafverfahren eröffnet (siehe Beilage). Ein neues Treffen ist vom 19. bis 23. September geplant.

      In Briançon sind die Menschen, die aktiv sind, politisiert und eng miteinander vernetzt. Es gibt mehrere Besetzungen oder Unterkünfte, in denen Flüchtlinge untergebracht sind. Die größte ist die „CRS“, eine ehemalige Kaserne, die sich im Besitz der Stadt befindet und von Aktivist*innen verwaltet wird, um Flüchtlinge aufzunehmen. Man sagt, dass es sogar ein oder mehrere Alarmtelefone gibt. Das erinnert uns an eine Art von underground railroad für Leute, deren Bewegungsfreiheit beschränkt ist.

      Es ist auch wichtig zu betonen, dass der Bürgermeister von Briançon linksgerichtet und konziliant ist. Die Stadtverwaltung ist aufgeschlossen und weiß es zu schätzen, dass Flüchtlinge nicht die Straßen oder Parks besetzen, was die Touristen stören könnte. Dies mag einer der Gründe sein, warum die 13 Bürgermeister der grenznahen Gemeinden gemeinsam beschlossen haben, die Flüchtlinge aufzunehmen und ihnen Unterschlupf zu gewähren. Die Verwaltung und die Solidaritätsaktivist*innen sind besorgt über die derzeitige Präsenz der Identitären (französische Rechtsradikale der Bewegung der Identitären), auch wenn diese derzeit keine festen Verbindungen in der Kleinstadt haben. Die Identitären versuchen, die Flüchtlinge auf den Pfaden zu verhaften, sie zurückzuschicken und der Polizei zu melden, und sie bespitzeln die Solidarischen, aber es sind kaum mehr als 15 von ihnen. Im Frühjahr 2018 organisierte das Netzwerk „Defend Europe“, ein fremdenfeindliches und faschistisches europäisches Netzwerk, Grenzsperraktionen auf dem Col de l’Echelle. Obwohl es nicht gelungen ist – wie im Vorjahr der Versuch, mit dem Boot „C-Star“ Migrant*innen im Mittelmeer zu blockieren –, löste die Aktion dennoch einen großen Medienrummel aus.

      Die Zusammenarbeit der Verwaltung mit den vielen Aktivist*Innen und Freiwilligen funktioniert in Harmonie; der Geist des Willkommens hat hier bis heute überlebt. Derzeit gibt es über 300 Flüchtlinge in Briançon, aber die meisten bleiben nicht lange und setzen ihre Reise innerhalb von drei Tagen nach ihrer Ankunft Richtung Lyon, Paris, Marseille oder anderswo fort. In letzter Zeit gab es am Bahnhof von Lyon einige Zurückweisungen von Migrant*innen, als der Zug ankam.

      „Chez Marcel“ ist ein altes besetztes Haus in der Nähe des Stadtzentrums, das an einem steilen Hang gebaut wurde. Es gibt ein Untergeschoss mit einem Raum für die Aktivist*innen, einer Dusche, einem Keller und einer Tür zum Garten. Im Erdgeschoss führt ein kleiner Flur zu zwei Schlafzimmern für die Flüchtlinge, einer Küche und einem Versammlungsraum. Im Obergeschoss gibt es weitere Schlafzimmer und einen Gemeinschaftsraum, im Dachgeschoss gibt es weitere Schlafmöglichkeiten. Im Garten befinden sich zwei Wohnwagen und eine Trockentoilette. Es ist eng, aber freundlich, jeder teilt sein tägliches Leben. Jeden Montag gibt es eine Suppenküche. Die Verpflegung erfolgt durch das Rote Kreuz und die Nachbar*innen. Die Aktivist*innen, die wir trafen, sagten uns, dass sie finanzielle Unterstützung brauchen, aber auch, dass sie zahlreicher sein müssten, um dort leben und an politischen Kämpfen teilnehmen zu können.

      „Chez Marcel“ ist nicht nur ein Ort, an dem sich Flüchtlinge ausruhen und informieren können, sondern auch ein Ort, an dem Interventionen gegen das Grenzregime entwickelt werden. Die Menschen dort sind eindeutig Aktivist*innen, aber sie wollen sich selber nicht von den Flüchtlingen unterscheiden, sie alle sehen sich als kämpfende Menschen. Es gibt natürlich Unterschiede, aber diese sind Gegenstand ständiger und bewusster Überlegungen, zumindest bei einigen Aktivist*innen. Während unseres Besuchs trafen wir etwa zwanzig westafrikanische Migranten, alle französischsprachig. Es gab eine Diskussion über die Möglichkeit, ein Sommercamp am Col de Montgenèvre zu organisieren, aber auch über die Angst, die Aufmerksamkeit der Ordnungskräfte und möglicherweise der Identitären auf sich zu ziehen.

      Die Aktivist*innen verbergen ihr Engagement nicht, aber sie prahlen auch nicht damit. Gewiss kennen die Behörden ihr Engagement, die Stadtverwaltung toleriert sie und unterstützt sie sogar. Es ist ein Arrangement, das wie bei Cedric und Hubert auf einer Form von stillschweigender Toleranz beruht: Jede laute Handlung könnte dieses fragile Gleichgewicht stören. Schon vor 2015 wurden zwischen Italien und Frankreich Rückübernahmeabkommen geschlossen. Wir sind besonders an vorbildlichen Aktivitäten in dieser Grenzregion interessiert, weil Deutschland ähnliche Abkommen mit Frankreich und Österreich schließen will. Scheuen wir uns nicht, an diesen Grenzen ähnliche Aktivitäten zu entwickeln!
      Unterstützungsstrukturen im Hinterland Briançonnais – Gap und Veynes

      Das „Chum“ (centre d’hébergement d’urgence pour mineurs exilés – Notunterkunft für im Exil lebende Minderjährige) ist ein autonomer Raum in der Stadt Veynes, etwa dreißig Kilometer westlich von Gap. Es empfängt und beherbergt unbegleitete Minderjährige. Seit September 2017 sind rund 180 Minderjährige hier vorbeigekommen. Das „Chum“ von Veynes befindet sich im alten, verlassenen Haus des Bahnhofsvorstands. Das Bürgermeisteramt hätte dort ein soziales Projekt organisieren sollen, tat dies aber nie.

      Aktivist*innen besetzten das Haus im Sommer 2017 – damals waren etwa 80 Minderjährige in Gap auf der Straße – und errichteten ein selbstverwaltetes Notaufnahmezentrum für minderjährige Migrant*innen mit einer maximalen Kapazität von 25 Personen (durchschnittlich zehn Migrant*innen sind anwesend).

      Derzeit sind die Aktivist*innen entmutigt, weil sie nicht sehr zahlreich sind und die Situation schwierig ist. Es gibt immer weniger Freiwillige, die sich engagieren, und Meetings, zunächst wöchentlich, werden immer seltener.

      Die Organisationen France Terre d’Asile und PASS (permanence d’accès aux soins de santé) sind vom Staat offiziell beauftragt, sich um unbegleitete Minderjährige zu kümmern, tun aber nicht viel, um schnell eine Unterkunft für sie zu finden oder ihnen den Zugang zu ihren Rechten zu garantieren.

      Die Aktivist*Innen kümmern sich daher freiwillig um die Aufnahme von Migrant*Innen, ihren Zugang zur Betreuung und Befriedigung ihrer Bedürfnisse und ihren Verwaltungsakten. Sie fühlen sich isoliert.

      Außerdem gibt es Spannungen innerhalb der Aktivist*innen, die nicht alle den gleichen Ansatz haben; eine humanitäre Vision (Betreuung von Migranten, handeln für diese) steht libertären Praktiken (Organisation des Kampfes und des täglichen Lebens mit Exilierten, gemeinsames Handeln) gegenüber.

      Das „Maison Cézanne“ ist ein besetztes Haus in Gap, der Hauptstadt des Departements Hautes-Alpes. Es bietet derzeit Platz für 17 Personen in drei bis vier Zimmern. Das „Maison Cézanne“ wurde vom Kollektiv „un toit un droit“ besetzt, steht aber kurz vor der Räumung. Es gibt immer noch zwei oder drei Aktivist*innen im Kollektiv, aber keineR von ihnen lebt dort. Die Selbstorganisation mit den Migrant*innen im Haus ist schwierig, da diese meist nur auf der Durchreise sind. Das „Maison Cézanne“ wurde Anfang August vor Gericht gestellt: Urteil, das Haus ist verwertbar, um einen Immobilienbetrieb zu ermöglichen, die Bewohner werden auf die Straße zurückkehren.

      http://moving-europe.org/bericht-ueber-eine-tour-in-der-franzoesisch-italienischen-grenzregion

    • La Frontière au quotidien : passages à tabac et délations

      –-> Communiqué du refuge autogéré Chez Jesus.

      Clavières est un village italien à deux kilomètres de la frontières française. Depuis l’hiver dernier, c’est un lieu de passage pour les exilé.e.s qui veulent entrer en France. Cela fait quelques semaines que les violences à la frontière s’intensifient. Des militaires et des flics [1], volent, tabassent, menacent et insultent celles et ceux qu’ils arrêtent. Nous rapportons quelques témoignages qui montrent un peu le vécu quotidien à la frontière.
      Paroles de flics

      Lors de l’arrestation d’un mineur : « Même si t’avais dix ans je te laisserai pas passer »
      Au poste de police, un flic met une musique : « Tu connais cette musique ? Regarde le titre tu vas comprendre ! Ça s’appelle White paradise. »
      Une patrouille procède à une interpellation dans la montagne, un des flics appelle son supérieur : « c’est bon on a trouvé le gibier ».

      #Délation

      A Clavière le sous-sol de l’église a été ouvert pour en faire un refuge autogéré, Chez Jésus. Le prêtre habite le même bâtiment. Toute la journée il tourne dans les environs pour insulter exilé.e.s et personnes solidaires, mais aussi dénoncer celles et ceux qui tentent de passer la frontière. Dernier exploit en date : dénoncer une femme enceinte et sa petite fille de 12 ans pour que la police les interpelle.

      Côté français, certain.e.s habitant.e.s prêtent volontiers main forte à l’État pour renforcer son dispositif de répression raciste. Le 12 août au matin, une femme blanche voit quatre personnes noires et sort immédiatement son téléphone. Deux minutes plus tard, la police déboule en trombe.

      A Briançon, le 13 août au matin un groupe de six personnes tente de rejoindre le refuge, premier lieu après la frontière à l’abri de la traque policière. Un couple les voit, monte dans leur voiture et revient dix minutes plus tard suivi d’une voiture de gendarmes.

      Les cow-boys dans la montagne

      Lorsque les exilé.e.s tentent de passer la frontière, des gendarmes en treillis sont régulièrement présents sur la route pour bloquer le passage. Dans la nuit du 12 août, un groupe d’exilé.e.s a été braqué au fusil et sommé de se coucher au sol par des militaires en embuscade derrière un rocher. « Ils sont sorti en criant couchez vous, couchez vous ! Une personne leur a demandé s’ils avaient le droit de nous tirer dessus, le policier a répondu qu’il ne sait pas courir (...) Ils sont effrayants, si tu as mal au cœur tu peux mourir. Mais moi je ne suis pas un voleur. » raconte M., un adolescent de 15 ans.

      Pour procéder à ces interpellations musclées et démesurées, gendarmes et policiers sont bien équipés : lunettes de vision nocturne, chiens, quads, motoneiges... Ces derniers jours, la présence autour de Chez Jésus d’#hélicoptères de la gendarmerie et de #drones dont on ne connaît pas la provenance a de quoi inquiéter.

      Passages à tabac

      Lors des interpellations, la police aux frontières se livre de plus en plus régulièrement à des actes de #violence, particulièrement pour forcer les personnes interpellées à donner leurs #empreintes_digitales. Ci-dessous, un témoignage recueilli le 13 août, suite à l’arrestation d’un jeune de seize ans.

      « On m’a attrapé à Montgenèvre. J’étais au téléphone, j’ai vu la police passer, puis revenir pour me demander mes papiers. Je n’en ai pas. Ils m’ont fouillé, ils ont vidé mon sac. Puis ils m’ont amené au poste de police à la frontière. Dès qu’on est rentré ils m’ont demandé de signer des papiers, j’ai refusé. Ils m’ont demandé de prendre mes empreintes digitales, j’ai aussi refusé. Après, ils ont commencé à me frapper, pour m’obliger à donner mes empreintes. Une fois, puis une deuxième fois, plus fort. Deux personnes sont venues en renfort. Ils s’y sont mis à quatre pour m’attraper, pour me forcer à ouvrir la main, deux de chaque côté. J’ai résisté. Alors, un des quatre policiers m’a saisi à la nuque et m’a jeté à terre dans une pièce. Il a sorti sa matraque et a commencé à me frapper, au front puis au genoux. Je leur ai dit qu’ils pourraient me tuer, que je donnerai pas mes empreintes. Après ils m’ont mis dans une voiture et m’ont jeté sur le trottoir, juste de l’autre coté de la frontière. Je suis resté là, par terre, trente ou quarante minutes. J’avais trop mal pour me lever, jusqu’à ce que des personnes me trouvent et appellent une ambulance. »

      Le 12 août un exilé est allé au poste de la police aux frontières pour se déclarer comme mineur. Légalement, la police est tenue d’enregistrer sa déclaration et de le prendre en charge. Arrivé là bas, les policiers sur place ont refusé de l’enregistrer et lui ont ordonné de donner ses empreintes. Suite à son refus, ils l’ont frappé deux fois, à la tête et au flanc. La veille, une personne mineure s’était également faite frapper dans les mêmes conditions.

      Au quotidien les #fouilles humilient les personnes de passage avec régulièrement des #attouchements, des #insultes et un #racisme ouvertement exprimé.

      Les responsables politiques nous le martèlent : nous vivons dans un État de droit. Ce que nous tenons à faire comprendre ici, c’est ce que cela signifie dans le cas particulier de la frontière : c’est la #traque, les ratonnades, les #humiliations et les droits bafoués des personnes racisées et sans papiers, de façon systématique. C’est aussi dix ans de prison ferme encourus pour « aide au passage en bande organisée » pour celles et ceux qui luttent contre ce dispositif et ce qu’il représente. C’est encore l’intimidation et la mise en danger délibérée comme seul ordre républicain à la frontière.

      Il n’y a ici ni bavures, ni dérives : tous ces faits constituent autant d’exemples de ce qu’est la politique frontalière européenne. Ce sont les pratiques quotidiennes des personnes et des institutions qui invoquent l’État de droit pour mieux justifier la violence nécessaire à leur pouvoir.

      Face aux violences policières, étatiques, nous continuerons à passer les frontières, à les ouvrir, à les abattre.

      https://mars-infos.org/la-frontiere-au-quotidien-passages-3308

      Le ps est intéressant :

      [1] Nous ne féminisons pas la police car elle est l’émanation d’un État patriarcal et machiste.

    • Comité de soutien à #Madjid_MESSAOUDENE

      Une centaine de militants du groupe d’extrême droite Génération identitaire se sont rendus au col de l’Echelle fin avril 2018 afin d’empêcher le passage des migrants en territoire français. Ce groupe n’en est pas à son premier exploit xénophobe. C’est déjà lui qui avait affrété le funeste C-STAR afin d’empêcher les opérations de sauvetage de migrants en mer. Ils ont dû mettre fin à leur activité détestable autant qu’illégale. Les « Identitaires » ont démontré à de nombreuses reprises le mépris qu’ils vouent aux hommes et aux femmes fuyant leurs pays, les guerres, la misère, l’oppression, dans l’espoir d’un avenir meilleur.

      En l’absence des réactions qui auraient dû s’imposer depuis les plus hauts sommets de l’Etat, Madjid Messaoudène, élu et militant, a choisi de dénoncer sur le réseau social Twitter les actes inqualifiables commis par cette milice d’extrême droite. Génération identitaire a engagé à son encontre des poursuites devant le tribunal, pour #injures_publiques. Par ce #procès ils souhaitent faire taire les voix déjà trop peu nombreuses qui combattent le racisme et la xénophobie sous toutes ses formes, tout en se donnant un air de respectabilité.

      Nous ne pouvons accepter qu’un élu, qu’un camarade, soit pris pour cible de la sorte, pour avoir fait ce que sa conscience lui dictait. Dans un contexte où, dans toute l’Europe, les populismes et les gouvernements xénophobes se banalisent, nous décidons plus que jamais de faire front. Aussi, dans la pluralité de nos parcours et de nos engagements nous apportons notre soutien à Madjid Messaoudène face aux tentatives d’intimidation d’une extrême droite toujours vivace.

      Marie-Christine Vergiat (Députée européenne) et Bally Bagayoko (Adjoint au maire de Saint-Denis)
      Co-président.e.s du comité de soutien

      http://comitedesoutien.madjid.fr

    • Chronique printanière d’une frontière meurtrière

      Dans les montagnes du Briançonnais, plusieurs exilés ont perdu la vie en tentant de rejoindre l’Hexagone. Traqués par la police et l’extrême droite, ils sont secourus par des militants solidaires, que l’État cherche à intimider. Trois d’entre eux ont même passé neuf jours en prison.

      C’était un petit miracle : depuis deux ans que les migrants franchissent les cols des Hautes-Alpes pour passer en France, aucun n’avait perdu la vie sur ce périlleux chemin. Hélas, au mois de mai, les beaux jours ont révélé trois cadavres. Les premiers dans le Briançonnais.

      À la frontière franco-italienne, le droit d’asile est foulé aux pieds. Chaque jour, la police hexagonale repousse des exilés, même mineurs, au mépris des procédures légales et de l’humanité. Sous Hollande comme sous Macron, l’État français refuse de prendre sa part dans l’accueil des pauvres hères débarqués en Italie par centaines de milliers. Que Rome se débrouille ! Rome s’est débrouillée : à la suite d’accords troubles avec la Libye, les flux de réfugiés ont ralenti. Combien sont-ils désormais, ces Subsahariens coincés sur la rive sud de la Méditerranée, dans ce pays de torture, de racket, d’emprisonnement arbitraire et d’esclavage ? Ce pays où l’épouvantable député Éric Ciotti (LR) voudrait que l’Aquarius ramène les rescapés des naufrages, puisqu’en Italie, le gouvernement néofasciste a commencé à fermer ses ports.

      Heureusement, dans ce grand drame de notre époque qu’est la question migratoire, d’autres choisissent la fraternité. Une option de plus en plus risquée.

      Montgenèvre, 10 mars

      Dans les Hautes-Alpes, Benoît Ducos est menuisier. Cet hiver, il multiplie les maraudes pour porter secours aux migrants qui tentent de traverser la frontière. Mal équipés, non habitués à de telles altitudes, les exilés risquent leur vie en tentant d’esquiver les forces de l’ordre. Ce soir-là, Benoît repère six personnes dans la nuit, dont un couple avec ses deux enfants.

      « La maman était vraiment épuisée. En discutant, on a appris qu’elle était enceinte de huit mois et demi, se souvient-il. On s’est donc dit qu’il fallait la descendre à l’hôpital le plus rapidement possible. On a essayé de se dépêcher, mais on a été arrêtés à l’entrée de Briançon. Et il n’y a pas eu moyen de faire comprendre à la dizaine de douaniers rigolant autour de mon véhicule que cette femme souffrait atrocement et qu’il y avait une urgence vitale... On a perdu beaucoup de temps. » Selon la préfecture, l’attente n’a duré que 16 minutes. Mais d’après Benoît Ducos, entre le début du contrôle et l’arrivée des pompiers, il s’est passé plus d’une heure…

      « Vers 23 h 10 ou 23 h 15, la maman a enfin été transportée à l’hôpital. Et nous, avec le papa et les enfants, on a été emmenés au poste de police. Moi, j’ai été relâché rapidement. Mais le lendemain, on a appris que l’hôpital avait dû insister auprès de la police aux frontières pour faire revenir le papa et les enfants, qui étaient en train d’être reconduits en Italie alors que la maman accouchait ! C’était un accouchement par césarienne, donc difficile et risqué, qui ne pouvait se faire ni dans la neige, ni dans une voiture. »

      Quelques jours plus tard, Benoît sera convoqué par la police aux frontières, soupçonné d’aide à « l’entrée, à la circulation ou au séjour irrégulier d’un étranger en France ». Tarif potentiel ? Cinq ans de prison.

      Col de L’Échelle, 21 avril

      L’été dernier, le groupuscule Génération identitaire avait affrété un bateau en Méditerranée, pour refouler les migrants vers les eaux libyennes.

      Cette année, même concept, mais à la montagne. Une petite centaine d’activistes d’extrême droite, issus de plusieurs pays d’Europe, se retrouvent au col de l’Échelle. D’après eux, à la frontière franco-italienne, l’État fait preuve de laxisme. Les néofascistes installent donc une clôture en plastique pour matérialiser cette frontière, qui se trouve en réalité quelques kilomètres en contrebas.

      Des 4x4 rutilants, des hélicoptères tournant dans le ciel : pour cette opération de propagande, les moyens sont considérables.

      Dans une vidéo diffusée sur le Web, les militants xénophobes expliquent leur théorie : « L’immigration massive » est un « danger mortel ». Il faudrait donc que la jeunesse européenne « reprenne son avenir en main et défende sa civilisation ».

      Clavière, 22 avril

      Le lendemain, les soutiens des migrants répliquent par une manifestation. Parties de Clavière, dernier village italien avant le col de Montgenèvre, quelque 120 personnes, accompagnées d’une trentaine d’exilés, prennent la direction de la France. À la frontière, les forces de l’ordre les attendent. Une petite bousculade plus tard, le barrage est forcé. Dans l’après-midi, le cortège solidaire arrive à Briançon. Victoire… provisoire.

      Car le soir même, plusieurs marcheurs sont interpellés. Devant les médias, Gérard Collomb, le ministre de l’Intérieur, renvoie dos à dos fascistes et solidaires. Il affirme vouloir « combattre ceux qui souhaitent faire échec aux contrôles des frontières, comme ceux qui prétendent se substituer aux forces de l’ordre dans ces missions ». Mais il choisit son camp : les Identitaires, eux, ne sont pas inquiétés. Et surtout, des renforts de police et de gendarmerie sont envoyés dans les montagnes.

      Gap, 24 avril

      Deux jours plus tard, au tribunal, trois des marcheurs solidaires passent en comparution immédiate : une Italienne, Eleonora, un Belgo-suisse, Theo, et un Suisse, Bastien. Âgés de 23 à 26 ans, ils sont vite surnommés, « les 3 de Briançon ». La justice leur reproche notamment d’avoir « par aide directe ou indirecte, facilité ou tenté de faciliter l’entrée irrégulière en France de plus d’une vingtaine d’étrangers ». Circonstance aggravante, aux yeux du procureur, « les faits ont été commis en bande organisée ». Le tarif double donc : les prévenus risquent dix ans de prison et 750 000 € d’amende.

      Ils demandent le report du procès, le temps de préparer leur défense. Le tribunal accepte, mais les place en détention provisoire. Ces dernières années, des peines d’amende ou de prison avec sursis avaient déjà été prononcées contre des défenseurs des migrants. Mais c’est la première fois que des « délinquants solidaires » sont effectivement incarcérés.

      Gap, 3 mai

      Neuf jours plus tard, le tribunal de Gap revient à de meilleurs sentiments. Bastien, Theo et Eleonora sont libérés. Ils quittent la prison des Baumettes, à Marseille, mais restent soumis à un contrôle judiciaire strict : interdiction de s’exprimer sur les réseaux sociaux et obligation de demeurer dans un département français, avec pointage régulier à la gendarmerie.

      Briançon, 29 mai

      En 2011, le mariage avait défrayé la chronique : Marcel Amphoux, paysan hirsute, épousait une Parisienne de 25 ans sa cadette. La belle s’était vite retrouvée accusée d’en vouloir au copieux héritage du vieil ermite. Depuis sa mort en voiture, un an plus tard, l’héritage fait l’objet d’une épique bataille judiciaire. Et la maison de Marcel, dans tout ça ? Sur les hauteurs de Briançon, en attendant l’épilogue de l’histoire, elle est squattée par des militants libertaires, qui en ont fait un havre pour les migrants de passage.

      Dans le jardin, voici Destin, qui vient du Cameroun. Qu’en pense-t-il, lui, de ce « délit de solidarité » ? « Déjà, les droits de l’homme le disent : tout être humain en situation de détresse doit être protégé. » Puis il désigne les cimes frontalières : « Nous sommes passés dans cette brousse-là, avec de la neige. Avant de ressortir, certains ne sentaient même plus leurs jambes. Si une personne trouve un gars couché au bord de la route et qu’elle décide de l’aider, on ne peut pas l’emprisonner pour ça. Si elle l’avait laissé là, il allait mourir. Et les policiers auraient alors dû lui dire : “ Non, tu as laissé un être humain mourir, il fallait que tu l’aides. ” Mais du coup, si elle l’aide, les policiers disent encore : “ Non, pourquoi l’aider ? ” Moi finalement, je ne comprends pas cette histoire... »

      Briançon, 30 mai

      Sur le marché, Anaïs distribue des tracts contre les frontières. « Après leur manifestation au col de l’Échelle, une quinzaine d’Identitaires sont restés dans la région, raconte-t-elle. On a recueilli des témoignages expliquant qu’ils montaient sur les cols et s’amusaient à traquer les exilés, à les bloquer, à appeler la police pour qu’elle les arrête et les ramène côté italien. Ça a duré quelques semaines. On nous a même rapporté que parfois, la police les félicitait de leur travail... Après, ils sont venus dans Briançon et au moment où les exilés arrivaient en ville, épuisés, après avoir marché depuis la frontière, ils s’amusaient encore à les poursuivre. En essayant de leur échapper, un gars a sauté par-dessus un grillage et s’est complètement déchiré la main. Il y a une vraie mise en danger, de l’intimidation… »

      Clavière, 30 mai

      À Briançon, il y a donc « Chez Marcel ». Et à Clavière, le squat solidaire s’appelle « Chez Jésus ». De fait, c’est une salle paroissiale attenante à l’église qui est occupée par des libertaires. Elle sert d’abri aux migrants sur le point de tenter la traversée de la frontière. Après les événements d’avril, Yann a décidé de venir y donner un coup de main : « Quand on aborde le sujet des “ groupustules ” identitaires, on a tendance à focaliser sur eux. Mais depuis que je suis là, ce sont vraiment les forces de l’ordre qui posent problème. Ce sont elles qui traquent et qui sont à l’origine des morts qu’on a eus dernièrement. »

      Gap, 31 mai

      Aujourd’hui, les « 3 de Briançon » vont être jugés. Pour les soutenir, près de 200 personnes sont venues de Suisse, d’Italie et de France. « À bas l’État, les flics et les frontières ! », « Siamo tutti antifascisti ! », scandent-elles devant le tribunal.

      Dans la salle d’audience, la défense passe à l’attaque. Ce ne sera pas le procès des trois prévenus, mais celui de la loi elle-même. Me Henri Leclerc commence par rappeler l’origine du « délit de solidarité » : « C’est un décret-loi de Daladier de 1938. De quoi s’agissait-il à l’époque ? De pallier l’afflux massif d’une misère du monde tout à fait particulière : les juifs d’Allemagne et de Pologne. » Me Aurélie Valetta, dans la même veine : « Ceux qui sont condamnés pour crime d’humanité en des temps d’injustice seront reconnus demain comme des Justes. […] Une question reste en suspens : comment voulez-vous que l’histoire se souvienne de ce tribunal ? » Applaudissements dans la salle. Me Cécile Faure-Brac, elle, cite Antoine de Saint-Exupéry : « Une démocratie doit être une fraternité, sinon c’est une imposture. »

      Pour les avocats de Theo et Bastien, le « délit de solidarité » est incompatible avec la notion de « fraternité » proclamée par la Constitution. Ils demandent donc au tribunal de reporter le procès, le temps de soumettre leur point de vue au Conseil constitutionnel, qui pourrait alors décider d’abroger la loi.

      Eleonora, elle, ne souhaite pas s’associer à cette démarche. Son avocat, Me Philippe Chaudon, s’en explique : « [Ma cliente] considère que “ l’anarchie organisée […] est le plus haut degré de liberté et d’ordre auquel l’humanité puisse parvenir ”. […] Elle nous dit : “ Je suis l’ennemie de votre république. Je ne vous reconnais donc pas le droit à vous, mon avocat, de demander au Conseil constitutionnel de dire si ce que j’ai fait est légal ou illégal. Je sais que ce que j’ai fait est légal, humain, conforme à mes valeurs. ” »

      Gap, 31 mai

      Le procureur passe un sale moment. Ça fait deux heures qu’on le traite quasiment de nazi et voilà qu’au moment où il prend la parole, les manifestants massés devant le tribunal entonnent le fameux « Tout le monde déteste la police ! ». Visiblement mal à l’aise, il botte en touche : « La justice n’a pas pour mission de prendre part à des débats politiques, encore moins idéologiques. » Puis il se défend sur le fond : « Qui a été poursuivi devant les juridictions des Hautes-Alpes pour avoir donné du pain, ouvert sa porte ? Personne. » Me Yassine Djermoune rappellera plus tard que des dizaines de militants solidaires ont été auditionnés au commissariat : « Ce n’est jamais innocent d’être convoqué devant la police. »

      Gap, 31 mai

      Le tribunal rend sa décision : la question des avocats ne sera pas transmise au Conseil constitutionnel. Mais, saisis dans une autre affaire, les « Sages » doivent de toute façon décider cet été si le « délit de solidarité » est compatible ou non avec la « fraternité ». Alors, il est urgent d’attendre : l’affaire est renvoyée au 8 novembre. D’ici là, les « 3 de Briançon » recouvrent leur liberté : leur contrôle judiciaire est levé. Ils peuvent rentrer dans leur pays et reprendre leur vie là où ils l’avaient laissée.

      À la sortie, Bastien et Theo prennent le micro : « La question de fond, c’est : “ Pourquoi les gens migrent ? ” Les inégalités, les misères, les guerres, les désastres écologiques et autres… Un point les relie tous : le capitalisme et son histoire, qui passe par l’esclavagisme, le colonialisme et l’impérialisme. » La foule applaudit. Les deux jeunes reprennent : « Ce sont les mêmes pays qui criminalisent l’exil qui en sont les coupables. »

      Gap, 1er juin

      Dans son bureau, Cécile Bigot-Dekeyzer, préfète des Hautes-Alpes, répond à la radio publique belge [1] : « Non seulement les forces de police ne mettent pas les migrants en danger, mais elles vont même, à travers les secours en montagne, chercher toutes les personnes qui se retrouvent en difficulté, sans se demander si elles sont en situation régulière ou irrégulière. Par ailleurs, elles ont l’obligation de respecter des règles de déontologie, la dignité humaine, les valeurs de la République. J’ai toute confiance dans la façon dont elles travaillent. »

      Et quid des miliciens d’extrême droite ? « Ils ont été très surveillés tout au long de leur présence par la police et la gendarmerie [2]. […] Il n’y a jamais eu, en aucune manière, de collaboration avec les forces de l’ordre de la part de Génération identitaire. Savoir si, par ailleurs, ils ont mis des personnes en danger ou s’ils ont usurpé les fonctions de tel ou tel, à ce stade rien n’a été mis en évidence, mais une enquête judiciaire a été ouverte par le procureur. C’est lui qui dira, à l’issue de cette enquête, si des infractions ont été commises ou non. »

      Pas de quoi rassurer les militants solidaires, qui estiment que l’État a clairement pris parti pour les néofascistes, qui ont pu vaquer à leur basse besogne en toute tranquillité, pendant que les « 3 de Briançon » étaient embastillés. « La question n’est pas de savoir s’il y a deux poids deux mesures, si on est d’accord avec tel positionnement ou tel autre sur le plan politique, assure la préfète. La seule question qu’il faut se poser, c’est : “Est-ce que les lois ont été respectées ou non ? ” »

      La Roche-De-Rame, 1er juin

      Depuis son jardin, Agnès Antoine, de l’association Tous Migrants, réfute l’argument : « Les lois sont adaptées selon le bon vouloir des politiques qui sont en place. Le droit en lui-même n’existe pas, on en fait ce qu’on veut. »

      Les Alberts, 1er juin

      Au cimetière du hameau des Alberts, il y a une tombe fraîche. Celle d’Alpha Diallo, mort en traversant la frontière. Ce soir, plusieurs dizaines d’autochtones et d’exilés sont venus se recueillir. Une montagnarde prend la parole : « Alpha, surtout et par-dessus tout, il faut te rendre hommage. Toi, l’enfant, l’homme, le frère. Ici, la terre pleure ton âme échouée. Pardonne-nous, Alpha, car nous n’avons pas su te sauver. Nous avons cru être forts, parfaits, encore convaincus d’avoir évité le pire. Mais te voici, avec ton corps d’adolescent, ayant tout perdu, ayant tout donné. [...] Repose en paix parmi nous. »

      Quelques semaines avant Alpha [3], il y avait eu Blessing, une jeune Nigériane morte noyée dans la Durance. Elle serait tombée dans l’eau en essayant d’échapper aux forces de l’ordre. Puis un autre corps a été retrouvé, à la fonte des neiges, sur le versant italien du col de l’Échelle. Depuis combien de mois reposait-il là ?

      Aux Alberts, alors que la nuit tombe au pied des pentes qui mènent à l’Italie, un montagnard s’adresse aux disparus : « Vous qui avez traversé le désert, les prisons de Libye, les risques de la Méditerranée, qui avez failli mourir peut-être cent fois, vous aviez fini de traverser les montagnes, vous étiez enfin arrivés à bon port... Et non, il a fallu qu’à trois, vous mouriez les uns après les autres. Continuons à nous battre, pour mettre à l’abri les jeunes qui sont en détresse, quelles que soient leur race, leur appartenance politique ou religieuse. »


      http://cqfd-journal.org/Chronique-printaniere-d-une

    • Clavières (Italie) : Sur l’expulsion (prochaine ?) du refuge autogéré « Chez Jésus »

      llez, le jeu est découvert.

      C’est bien le prêtre qui nous a dénoncé. Don Angelo Bettoni, 78 ans. Personne n’est surpris.

      Mains derrière le dos, il passe ses journées à observer et insulter les gens de passage ainsi que les solidaires dans les rues de Clavière. « Revenez chez vous », « sauvages », « dégueulasses », « connasses », « sorcière »…

      Qu’une plainte ait été déposée contre cette occupation, on le savait. Que le prêtre en ait été a l’initiative, c’est bon à savoir. La nouvelle sort maintenant. Pourquoi ?

      Peut être parce que les temps sont murs pour l’expulsion. Parce que l’été est sur le point de finir, et le tourisme avec lui.
      Parce qu’ils sont en train de tenter de donner un visage propre à cette expulsion, comme ils l’ont fait pour l’expulsion des palazzine de l’ex Moi (occupation sur Turin).
      Parce que le « nouveau lieu », l’alternative institutionnelle au Refuge Occupé de Clavière est désormais prêt et va ouvrir à la mi-septembre. Du coup, ils préparent le terrain médiatiquement.

      Ces locaux appartiennent à l’Église. Le prêtre de Clavière dénonce. « Occupation et dommage et intérêt ». La préfecture expulse. Et le nouveau lieu qui sera ouvert à Oulx se trouvera dans les bâtiments des salésiens.

      Et tout le monde est content. L’Église se débarrasse du poids économique et politique que lui cause l’occupation de ses locaux par des exilé·e·s et des solidaires : les salésiens s’enrichissent d’un loyer, et consolident leur stature politique avec la bénédiction des autorités locales. Les assoc’ qui vont travailler au sein du lieu se réjouissent. La mairie de Clavière, qui semble seulement souhaiter la riche tranquillité des lieux, s’enchante de voir expulses ceux qui ne participent pas du devenir carte postale du village, oubliant qu’il s’agit dune zone frontalière, donc de passage, et pas seulement d’un parc a touristes.

      La Préfecture met un terme a ses hésitations dans les tensions avec la France concernant les politiques migratoires à la frontière. La France se réjouit de voir chasses ceux qui déconstruisent et combattent sa politique raciste et répressive sur le lieu même de son déploiement : la frontière.

      Ici, il n’y a pas d’étrangers. Pour nous, chacun devrait être libre de choisir sur quel bout de terre il veut vivre. Sans états ni frontières qui sélectionnent, divisent, tuent.
      Peut-être diront-ils que la cause de cette expulsion sont les dessins sur les mur, une porte abîmée, des problèmes avec quelques habitant de Clavière ou le camping auto-organisé contre les frontières, vive la créativité. Peut-être que c’est tout simplement le souhait de l’État d’effacer toute forme possible d’organisation qui sort de ses paramètres et qui ne contrôle pas, n’identifie pas, ne sélectionne pas. Qui ne gère personne mais qui en appelle à la liberté et à l’auto-organisation.

      Et personne ici n’insulte ou n’accuse « les habitants » de Clavière. Comme dans chaque lieu, il y a des solidaires. Il y a des gens qui sont passés amener de la nourriture ou des habits, nous connaître, comprendre ce qu’on faisait ici dans ce local sous l’église. Mais il y a aussi des racistes et des personnes qui ne veulent simplement pas de nous ici. Et qui sont venus plusieurs fois nous insulter ou nous attaquer.

      La solidarité seule est bienvenue. Le reste non.
      Tant que les frontières existeront il y aura des personnes prêtes à s’engager pour les abattre.

      Une expulsion n’arrêtera pas cette lutte.

      https://fr.squat.net/2018/09/11/italie-sur-lexpulsion-prochaine-du-refuge-autogere-chez-jesus

    • Relaxe pour les #7_de_Briançon !

      Bastien, Benoit, Eleonora, Juan, Lisa, Mathieu et Théo vont être jugé·e·s le 8 novembre 2018 au tribunal de Gap. Poursuivis pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national, en bande organisée », ils risquent jusqu’à 10 ans de prison et 750 000 euros d’amende. Leur seul tort : avoir participé à une marche solidaire pour dénoncer les agissements de Génération identitaire qui bloquait la frontière au col de l’Echelle pour s’en prendre à des personnes exilées.

      C’est encore une fois le délit de solidarité qui sera jugé à Gap le 8 novembre prochain : sept hommes et femmes, dont deux Suisses, quatre Français·e·s et une Italienne, membres de collectifs citoyens, notamment Tous Migrants, et pour deux d’entre eux membres de La Cimade, comparaîtront pour avoir participé en avril 2018 à une manifestation pacifique en soutien aux personnes migrantes, au col de Montgenèvre près de Briançon.

      Nombreuses sont les personnes exilées, y compris mineures, qui ont risqué leur vie en 2017 et 2018 en tentant de franchir à pied, sans équipement ni expérience, les montagnes de la frontière franco-italiennes. La répression policière et les risques de refoulement illégaux ont poussé les exilé·e·s à prendre toujours plus de risques. Plusieurs corps ont été retrouvés au printemps, et une femme est morte noyée en tentant d’échapper à la police. C’est dans ce contexte dramatique que, le 21 avril 2018, le groupe d’extrême-droite Génération Identitaire se rassemble au col de l’Echelle pour bloquer la frontière et relaie son action sur les réseaux sociaux. En réaction, le 22 avril, plus de 150 personnes, migrantes et solidaires, partent de Clavière en Italie pour rejoindre le col de Montgenèvre et marcher jusqu’à Briançon. La manifestation est pacifique, mais ce sont bien les solidaires qui sont inquiétés, et non les membres de Génération Identitaire, dont l’action a pourtant mis des vies en danger.

      Les marcheurs sont suivis tout le long par la police et la gendarmerie, qui les prennent en photo. A l’issue de la marche, plusieurs personnes sont arrêtées, et un manifestant attablé à un café est carrément tabassé par des policiers. Parmi les personnes arrêtées, trois sont placées en garde à vue : Bastien, Eleonora et Theo. Elles sont ensuite enfermées en détention préventive à la prison des Baumettes, à Marseille. Ils ne retrouveront la liberté que onze jours après leur arrestation, et sont depuis sous contrôle judiciaire.

      Le 6 juillet 2018, une nouvelle venait donner de l’espoir aux personnes exilées et à leurs soutiens : le Conseil constitutionnel proclamait la valeur constitutionnelle de la fraternité, affirmant « la liberté d’aider autrui, dans un but humanitaire, sans considération de la régularité de son séjour sur le territoire national » (lire l’analyse de La Cimade). Mais les poursuites ne s’arrêtent pas, bien au contraire : le 17 juillet, quatre autres personnes ayant participé à la marche du 22 avril, dont deux membres de La Cimade, sont interpellées et placées en garde à vue. Benoit, Lisa, Juan et Mathieu sont également poursuivi·e·s pour avoir facilité ou tenté de faciliter l’entrée de personnes en situation irrégulière en France, avec pour circonstance aggravante, d’avoir commis cette action en bande organisée, en lien avec Bastien, Eleonora et Theo.

      Prévue par la loi pour sanctionner la criminalité organisée, cette accusation est aujourd’hui utilisée pour intimider les citoyennes et les citoyens solidaires des personnes migrantes qui traversent les Alpes.

      Le procureur a donc choisi de poursuivre en justice des militant·e·s pacifiques et solidaires, et en même temps garantir l’impunité aux membres de Génération identitaire qui n’ont fait l’objet d’aucune poursuite judiciaire.

      La solidarité avec les exilé·e·s doit être encouragée, et non criminalisée. En écho à la consécration de la fraternité comme un principe constitutionnel, La Cimade demande l’abrogation du délit de solidarité, l’abandon de toutes les charges qui pèsent contre Bastien, Benoit, Eleonora, Juan, Lisa, Mathieu et Théo, et la fin de toutes les poursuites judiciaires à l’encontre des citoyennes et citoyens qui viennent en aide aux personnes migrantes.

      https://www.lacimade.org/relaxe-pour-les-7-de-briancon

    • « T’accuse la police de vol, ce soir t’es en garde à vue ici et demain t’es dans un avion »
      Marseille Infos Autonomes, le 1er octobre 2018
      https://seenthis.net/messages/726412

      Après s’être fait arrêtées dans la montagne par les gendarmes, des personnes exilées déclarent à la PAF qu’on leur a volé 800 euros. Suivent menaces et bousculades, triste banalité de la frontière, sauf que cette fois tout a été enregistré.

      Violence policière @ Col du Montgenèvre
      Chez Jesus, Youtube, le 27 sept. 2018
      https://www.youtube.com/watch?v=6umyXxqXBXM

      Sur la violence de la police à la frontière
      Lougar Raynmarth, Kedistan, le 2 octobre 2018
      https://seenthis.net/messages/726412

    • « T’accuse la police de vol, ce soir t’es en garde à vue ici et demain t’es dans un avion »

      Après s’être fait arrêtées dans la montagne par les gendarmes, des personnes exilées déclarent à la PAF qu’on leur a volé 800 euros. Suivent menaces et bousculades, triste banalité de la frontière, sauf que cette fois tout a été enregistré.

      Une nuit d’août.

      Le quotidien à la frontière du Montgenèvre, entre la France et l’Italie, ce que vivent les exilé.es et solidaires, cela nous l’avons maintes fois raconté.

      Ce soir là comme chaque soir, des personnes exilé.es partent, avec chacunE un sac où illes ont fourré habits, casse-dalle, argent. Illes se font attraper par les gendarmes sur les terrains de golf. Illes finissent par sortir de la PAF, reviennent à Chez Jésus. Là, illes découvrent que leur argent a disparu. Cet enregistrement raconte la suite des événements.
      Sans préjuger des réflexions ou émotions qui pourraient vous assaillir, nous tenons à rappeler que ceci est le témoignage exceptionnel d’une situation habituelle.

      https://mars-infos.org/t-accuse-la-police-de-vol-ce-soir-3396

    • Communiqué #Mountain_Wilderness de janvier 2018 :
      Pour que l’#humanisme l’emporte dans nos montagnes

      Mountain Wilderness est une ONG qui œuvre au maintien ou au recouvrement des équilibres humains et non-humains dans les zones de montagne. À cet égard, elle s’émeut et s’interroge sur le sort accordé aux migrants qui tentent de passer la frontière italo-française, notamment dans la région du Briançonnais.

      Notre association rappelle ainsi le souci humaniste qui doit présider à toutes les décisions politiques et institutionnelles à l’égard de ces personnes, en grande détresse et en grand danger. La #solidarité, qui a toujours guidé les #montagnards lors de l’#assistance à un pair en difficulté ne doit pas, en montagne comme ailleurs, devenir un délit. Elle doit rester la #valeur mise en pratique et fièrement revendiquée qui unit les habitants, les travailleurs, les pratiquants et les passants venus d’ailleurs.

      Les #Alpes ont toujours été un point de passage de migrations. Aujourd’hui, un phénomène sans commune mesure pour notre génération fait irruption. Des milliers d’Hommes, pour la plupart venus d’Afrique de l’Ouest, majoritairement mineurs, traversent les Alpes. Ils ont traversé le désert, ils ont vécu la Libye, ils ont survécu à la Méditerranée. Ils ont été vendus, ils ont été torturés, ils ont été esclaves, ils ont été enfermés et ont subis des persécutions. Traverser ou trépasser, leur instinct de survie, profondément marqué, ne leur offre d’autres alternatives. Alors, maintenant qu’ils traversent nos montagnes froides et enneigées, quel sort leur offre t-on ?

      Animés par des #valeurs_humanistes, acquises en pratique par un lent apprentissage de la montagne, nous tenons à réaffirmer notre soutien aux citoyens locaux qui s’impliquent courageusement pour offrir un accueil digne à ces personnes en détresse. Souvent mal équipés, toujours très mal préparés, sans aucune expérience de ces milieux contraignants et potentiellement dangereux, ces hommes venus d’ailleurs sont particulièrement vulnérables. Les citoyens qui s’engagent pour que la solidarité montagnarde l’emporte sur le repli sur soi portent assistance à ces personnes en danger. Par ailleurs, ils se suppléent aux missions régaliennes, et sont pour cela obligés d’agir à la frontière de l’illégalité. Est-ce normal ?

      Nous en appelons à la #responsabilité des politiques, pour que cesse cette double #oppression physique et morale, qui conduit à la #mise_en_péril de la vie d’autrui. Oppression de personnes venus d’ailleurs qui trouvent un mur en arrivant à la porte du pays des droits de l’homme. Oppression des habitants et citoyens, qui s’engagent tous les jours sur leur temps libre, en lieu et place de l’État, pour que les valeurs humanistes l’emportent dans nos montagnes.
      Nous nous positionnons donc pour l’abandon du « délit de solidarité », et pour que l’État prennent enfin ses responsabilités au regard de l’assistance de ces personnes en danger. Nous refusons que nos espaces montagnards se transforment en lieu de souffrances ou de mort. Nous voulons continuer à vivre et à habiter dans des territoires de vie.


      https://www.mountainwilderness.fr/se-tenir-informe/actualites/pour-que-l-humanisme-l-emporte-dans-nos-montagnes.html

    • Claviere: sgomberato “Chez Jesus”

      Ieri mattina, all’alba, è arrivato (come annunciato “profeticamente” dai media) anche lo sgombero di Chez Jesus – Rifugio Autogestito a Claviere (Alta Val di Susa) sul confine tra Italia e Francia. I locali seminterrati della parrocchia, lo ricordiamo, erano stati occupati nel mese di marzo da alcuni anarchici italiani e francesi, che avevano realizzato all’interno delle “opere di consolidamento” di porte e finestre finalizzate ad impedire o ritardare eventuali operazioni di sgombero, come ha precisato con dovizia la stampa.

      «Stanno sgomberando il rifugio e stanno distruggendo tutto. Accorrete», hanno annunciato ieri sulla pagina Facebook gli attivisti, ma l’appello è quasi caduto nel vuoto. L’ingente dispiegamento di Polizia e Carabinieri ha avuto la meglio. Le forze dell’ordine sono entrate nel rifugio e hanno devastato ogni cosa. Per scongiurare nuove occupazioni, intanto, la zona resta presidiata a vista giorno e notte.

      Uno sgombero fortemente caldeggiato dal Ministro dell’Interno (anche alla luce della sua recente circolare, ndr). Ma contro l’occupazione della chiesetta, già settimane fa si era levata la voce del parroco, Don Angelo Bettoni, che definiva “insostenibile” la situazione e la “gestione” degli attivisti No Borders che agivano, secondo lui, nell’illegalità. Contro, è sempre stato anche il sindaco Franco Capra, il quale ha dichiarato, quasi con un senso di “liberazione”: “Lo sgombero era doveroso anche per una questione di sicurezza e igiene. Essere contro le frontiere può essere giusto, ma far entrare illegalmente in Francia i migranti non ha senso: una volta individuati vengono rimandati indietro. In più, tra gli occupanti c’erano poche persone convinte di lottare per il bene dei migranti. Tante, invece, li strumentalizzavano per affermarsi contro il sistema”.

      Ma il resto del coro dei contrari non sposta di una virgola la questione. Anzi, nessuno cerca di guardare oltre il proprio naso. E cosi si susseguono dichiarazioni dal gusto di proclami da campagna elettorale, oramai perennemente in corso. “Lo sgombero ha messo fine a una situazione di illegalità intollerabile”, commentano, per Fratelli d’Italia, la parlamentare Augusta Montaruli e il dirigente nazionale Maurizio Marrone. “I nostri paesi non diventino accampamenti di confine per stranieri. Si vigili per evitare che episodi simili si ripetano”, aggiunge il segretario torinese della Lega, Fabrizio Ricca. La parlamentare di Forza Italia Daniela Ruffino definisce lo sgombero “una rondine”, sostenendo che “la primavera può arrivare solo con la fine dell’assedio No Tav al cantiere di Chiomonte della Torino-Lione”. Invita infine a riflettere “sulle responsabilità di molti esponenti della Val di Susa che hanno ignorato la pericolosa presenza di anarchici e centri sociali”, Osvaldo Napoli, anche lui parlamentare di Forza Italia.

      Gli agenti hanno identificato 18 persone: quindici sono “anarchici” (riferiscono fonti di polizia), di cui nove italiani e sei francesi; ma ci sono altri ricercati dalla Digos, che potrebbero essere scappati prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. All’interno del rifugio, anche tre migranti: due cittadini marocchini e uno gambiano. Per uno di loro è scattata l’espulsione; gli altri, richiedenti asilo, sono stati rilasciati.

      L’associazione Rainbow4Africa, da Bardonecchia, stigmatizza “il modo in cui le forze dell’ordine si sono presentate a Claviere, in tenuta antisommossa e con blindati, con l’ariete per sfondare la porta, quasi fosse in corso un’azione antiterrorismo, e non un intervento di sgombero di volontari in azione di aiuto verso i più deboli”.

      L’inverno è alle porte, mentre si continua a sgomberare. Questo luogo, un rifugio in tutti i sensi, è stato un punto di riferimento determinante per le centinaia di persone che lo hanno attraversato: per non perdersi sulla montagna e rischiare di morire.

      Ma è così facile scaricare la “colpa” sui “soliti buonisti”, in questo caso attivisti e volontari, invece di richiamare le responsabilità politiche di chi, al contrario di quei “buonisti” al limite con la legalità, ostacola la libertà di movimento, innalza muri, chiude frontiere e porti, alimentando un circolo vizioso fatto di esclusione e razzismo.

      Intanto, sui social e nelle chat degli attivisti “no border” è partita una chiamata per una manifestazione in solidarietà quest’oggi e nei prossimi giorni nel piccolo paese dell’Alta Valsusa.


      http://www.cronachediordinariorazzismo.org/claviere-sgomberato-chez-jesus

    • Claviere – Il rifugio autogestito Chez Jesus è sotto sgombero

      Il Rifugio Autogestito Chez Jesus, il sottochiesa occupato di Claviere, è sotto sgombero.
      C’è una denuncia pendente sul posto da più di due mesi e sembra che il Prefetto stia mettendo sempre più pressioni per sgomberare. Nel mentre stato e chiesa si stanno “impegnando” nel trovare “un’alternativa”. Un luogo dei salesiani affittato dalla fondazione Magnetto e gestito da due operatori della fondazione Talità Kum. Una sorta di spazio di transito che aprirà a Oulx, a 15 chilometri dalla frontiera. Un luogo che avrà 15 posti letto e una cucinina per chi è di passaggio.
      “Un’alternativa” a Chez Jesus, come ci ripete il prete impegnato in questo progetto. Come se un luogo gestito da una fondazione privata a 15 chilometri dalla frontiera che svolgerà la sola funzione di dormitorio, con due operatori pagati per fare assistenza, possa essere “un’alternativa” a tutto quello che è Chez Jesus. Al rifugio è da mesi che passano centinaia di persone, si fermano, vivono questo spazio insieme condividendo la loro quotidianità con i solidali, scambiandosi esperienze e consigli preziosi. A Chez Jesus si trova sempre una porta aperta dopo ogni respingimento. Qui si può di condividere ogni esperienza di abuso da parte della polizia, oltre che, magari, costruire assieme un modo per non subirne più.
      A Oulx il progetto dovrebbe partire per metà settembre. L’idea sembra quella di aprire un posto controllato e gestito, puramente “assistenziale”, e sgomberare così più tranquillamente il sottochiesa occupato di Claviere che invece vive di autogestione e ha sempre rifiutato l’idea di gestire e controllare le persone di passaggio.
      Chiesa e stato si stanno mettendo d’accordo per far finire questa esperienza e lo faranno pulendosi la faccia con l’apertura di questo nuovo spazio, chiaramente inutile agli occhi di chiunque sia stato presente in frontiera nell’ultimo anno e di chi sia consapevole di come funziona il dispositivo frontiera.
      Il sottochiesa occupato dà noia allo stato francese, e alla sua polizia che ci “accusa” di essere dei “passeur”, di facilitare il passaggio dei “sans-papier” in Francia. Dà fastidio a tante attività commerciali di Claviere, ricco Comune montano la cui economia è in buona parte basata sul turismo, che teme di perdere soldi con l’immagine di una montagna come rotta migratoria. Dà fastidio alla chiesa, che si ritrova un sottochiesa occupato e delle bollette da pagare in guerra col Comune di Claviere a cui aveva ceduto in parte i locali e che aveva il compito di pagare luce e acqua.
      Dà fastidio allo Stato italiano, il cui ministro dell’interno rivendica la chiusura delle frontiere per i migranti e gioca a fare il duro con Macron. Un primo ministro che ha come assillante cavallo di battaglia la chiusura dei posti occupati e la guerra ai migranti, e che si è recentemente riunito con i vari prefetti dei capoluoghi per rafforzare e rendere esecutiva la propria linea repressiva.
      La fondazione Magnetto (finanziatore del nuovo progetto su Oulx) “è stata pensata come continuazione nel tempo del suo impegno per il territorio quale modello dell’impegno sociale dell’imprenditore moderno. La Fondazione, creata e sostenuta dalla Famiglia (Magnetto), interviene preferibilmente nei luoghi di origine del cavaliere, la Valle di Susa. I contributi sono raramente di origine privata.” La Fondazione Talita Kum è strettamente legata ad interessi economici della chiesa. Lei stessa ha cercato e ottenuto i finanziamenti dalla fondazione privata Magnetto.
      Non vogliamo trarre conclusioni affrettate. Ma sicuramente qualche domanda ce la poniamo. Sappiamo che c’è un diverbio tra Comune e vescovo sul pagamento delle bollette di Chez Jesus. Il Prefetto vuole lo sgombero perché sta subendo “varie pressioni”, ma vorrebbe apparire politicamente accettabile. Si tratta comunque di sgomberare con la forza un sottochiesa occupato dove passano centinaia di uomini, donne e bambini. Un luogo che questo inverno ha protetto moltissime persone dal freddo e cercato di evitare i morti.

      Questo rifugio permette di organizzarsi di fronte alla violenza sistematica e selettiva della frontiera.
      Lo Stato non ci vuole più tra queste montagne. Forse non accetta un luogo dove non si identifica né si scheda nessun*, dove non c’è gestione né controllo, ma dove ci si auto-organizza in libertà. La chiesa cede volentieri alle pressioni e alla fine non è scontenta di togliersi il problema di Claviere, la questione delle spese e del conflitto politico con Comune e Prefettura.
      I salesiani fino ad ora non si sono mai attivati sulla questione dei migranti in Alta val di Susa. Solo ora che si parla di soldi e di interessi economici, sembrano interessarsi alla situazione.

      Lo ripetiamo ancor più forte e chiaro: noi da Claviere non ce ne andremo. E ci teniamo a sottolineare l’utilizzo strumentale che si farà di questo sgombero.

      https://hurriya.noblogs.org/post/2018/07/14/claviere-chez-jesus-sotto-sgombero

    • FRONTIÈRE FRANCO-ITALIENNE / À Briançon, les violations systématiques des droits des personnes exilées doivent cesser

      [Communiqué interassociatif]

      COMMUNIQUÉ DE PRESSE
      Mardi 16 octobre 2018

      Les 12 et 13 octobre 2018, nos organisations se sont mobilisées à la frontière franco-italienne, vers Briançon, afin de témoigner des pratiques illégales et des violences commises contre les personnes exilées. Ce que les observateurs ont constaté confirme les alertes émises par les associations locales depuis plusieurs mois :
      #refoulements de personnes exilées dont des mineurs ;
      #contrôles_discriminatoires ;
      #courses-poursuites dans la montagne ;
      – propos menaçants et insultants ;
      – entraves à l’enregistrement des demandes d’asile ;
      – absence d’interprètes, etc.

      « La liste des pratiques illégales est longue, et nous joignons nos voix à celles des ONG locales afin que le gouvernement français ne fasse plus la sourde oreille et que cessent ces pratiques illégales et dégradantes », a déclaré Agnès Lerolle*, chargée de coordination des acteurs à la frontière franco-italienne.

      Lors de l’observation continue à la frontière qui s’est déroulée les 12 et 13 octobre 2018, 60 personnes se sont mobilisées dont six avocats du barreau de Gap et trois avocats italiens. De multiples violations des droits ont été constatées :
      – refoulements de 26 personnes depuis le poste de la police aux frontières de Montgenèvre vers Clavière, premier village italien, sans examen individuel de leur situation ni possibilité de demander l’asile ;
      – non-prise en compte de la minorité de 8 personnes, qui se sont pourtant déclarées mineures auprès des forces de l’ordre.

      Les avocats français et les avocats italiens qui se sont relayés sur le terrain pendant les deux jours afin de permettre aux personnes refoulées de faire valoir leurs droits, ont pu déposer 11 « référés-libertés » devant le tribunal administratif de Marseille, dont huit pour des mineurs isolés refoulés.

      Aucune protection n’est possible à la frontière, malgré le passage périlleux tenté par les personnes migrantes dans le froid, sans nourriture et sans eau.

      Moussa*, originaire de Côte d’Ivoire, refoulé vendredi 12 octobre vers l’Italie, a raconté son interpellation : poursuivi dans un sentier par les gendarmes qui lui ont dit « arrête-toi, on va tirer », il a alors paniqué et glissé, son genou a claqué. Au poste de police, il a demandé à voir un médecin, ce qui lui a été refusé. Il a ensuite été refoulé vers l’Italie et ce n’est qu’à ce moment-là qu’il a pu rencontrer un médecin bénévole qui a pu le soigner.

      Les observateurs ont pu collecter de nombreux témoignages d’incompréhension, de violation des droits et d’absence de prise en charge des personnes vulnérables, ainsi que des menaces proférées par les policiers.

      Mineur isolé originaire également de Côte d’Ivoire, Ibrahim* a été interpellé par des gendarmes le samedi 13 octobre, dans les sentiers de montagne. Après son refoulement, il a raconté aux militants les propos des gendarmes : « Vous n’êtes pas Français, vous ne pouvez pas vivre en France sans être Français et vous n’êtes pas près de devenir Français ». Emmené au poste de police, il a déclaré sa minorité mais les policiers lui ont alors répondu « La plupart des personnes mentent sur leur date de naissance, pourquoi je te croirais ? ». Ibrahim a ensuite été reconduit en Italie, sans accès à la protection à laquelle il a droit.

      Ces témoignages confortent ceux recueillis depuis plusieurs mois par les acteurs locaux qui soutiennent au quotidien les personnes refoulées à la frontière.

      Simon* a ainsi témoigné aux militants, fin avril 2018 : « J’ai dit que j’étais mineur, ils ont éclaté de rire (…). J’ai présenté mes papiers guinéens et un homme [un policier] (…) a dit que ces papiers étaient des faux, il les a déchirés. »

      Bakary* a également témoigné des propos des policiers lors de son arrestation, toujours en juin 2018 : « La prochaine fois que vous essayez de traverser, on vous renvoie direct en Libye. »

      Ces pratiques illégales et ces comportements sont inacceptables dans un État de droit. L’inhumanité et l’hypocrisie de ces atteintes sont intolérables. Comme lors de nos dernières observations en juin 2018 du côté de Menton, nous réitérons notre demande au gouvernement français de cesser ces violations de toute urgence et de protéger ces personnes tel que l’exige le droit.

      *Agnès Lerolle coordonne un an les actions des associations nationales (CAFFIM) et locales engagées auprès des personnes migrantes à la frontière franco-italienne.

      *Les prénoms ont été changés afin de respecter l’anonymat des témoins.

      Associations signataires
      Amnesty International France
      Anafé
      La Cimade
      Médecins du Monde
      Médecins sans frontières
      Secours Catholique Caritas France
      Chemins pluriels
      Emmaüs France
      GISTI
      Icare 05
      Refuges Solidaires
      Tous Migrants

      Reçu par email, le 17.10.2018

    • AFP 16 octobre 2018

      Migrants : #Salvini n’« accepte pas d’#excuses » de la France

      Le ministre italien de l’Intérieur, Matteo Salvini, a affirmé mardi qu’il n’acceptait « pas d’excuses » de la France pour les migrants reconduits en territoire italien, « une offense sans précédent contre notre pays ».
      M. Salvini, homme fort du gouvernement italien et patron de la Ligue (extrême droite), avait déjà réclamé lundi des « réponses claires » après ce que les autorités françaises ont qualifié d’« incident » et d’« erreur ».
      Vendredi matin, dans le cadre d’une mission de reconduite à la frontière, une fourgonnette de la gendarmerie française avait franchi la frontière pour déposer des personnes en situation irrégulière à Clavière.
      La préfecture des Hautes-Alpes, département français concerné à la frontière italienne, a évoqué lundi un « incident » et reconnu qu’il y avait eu une « erreur, dont les circonstances doivent être clarifiées ».
      « C’est une erreur d’être passé en territoire italien sans autorisation de la police italienne. Les gendarmes n’avaient pas vocation à entrer sur le territoire italien », a expliqué à l’AFP Cécile Bigot-Dekeyzer, préfète des Hautes-Alpes.
      « Abandonner des immigrés dans un bois italien ne peut pas être considéré comme une erreur ou un incident. Ce qui s’est passé à Clavière est une offense sans précédent à l’encontre de notre pays », a estimé mardi sur les réseaux sociaux M. Salvini.
      « Pour Paris qui se targue de civilité, est-il normal de jeter des personnes dans un bois ? (...) Nous sommes face à une honte internationale, et Monsieur Macron ne peut pas faire semblant de rien. Nous n’acceptons pas d’excuses », a-t-il poursuivi.
      Chaque année, des milliers de migrants cherchant à passer en France sont interceptés et reconduits à la frontière italienne. L’AFP a constaté l’hiver dernier que nombre d’entre eux étaient déposés directement par une fourgonnette de la police française devant la gare de Bardonecchia, en Italie.
      Mais les relations entre Rome et Paris se sont tendues ces derniers mois. L’Italie accuse ses partenaires européens, à commencer par la France, de l’avoir laissée seule gérer la crise migratoire et les quelque 700.000 migrants arrivés sur ses côtes depuis 2013.
      En mars, un contrôle opéré par des douaniers français dans la gare de Bardonecchia avait provoqué un autre incident entre les deux pays. Une partie de la classe politique italienne s’était enflammée et l’ambassadeur de France à Rome avait été convoqué au ministère.
      Il l’a été une autre fois en juin après des critiques du président français, Emmanuel Macron, sur le refus de l’Italie d’accueillir le navire humanitaire Aquarius.

      –-> reçu via la mailing-list de Migreurop

    • À la frontière franco-italienne, des violations systématiques

      A Briançon, la liste des pratiques illégales des autorités est longue à l’encontre des personnes exilées. Nos équipes se sont rendues sur place.

      A Briançon, la liste des pratiques illégales des autorités est longue à l’encontre des personnes exilées. Nos équipes se sont rendues sur place.

      Les 12 et 13 octobre 2018, nos organisations se sont mobilisées à la frontière franco-italienne, vers Briançon, afin de témoigner des pratiques illégales et des violences commises contre les personnes exilées.

      Une longue liste de pratiques illégales

      Ce que les observateurs ont constaté confirme les alertes émises par les associations locales depuis plusieurs mois :

      – refoulements de personnes exilées dont des mineurs ;

      – contrôles discriminatoires ;

      – courses-poursuites dans la montagne ;

      – propos menaçants et insultants ;

      – entraves à l’enregistrement des demandes d’asile ;

      – absence d’interprètes, etc.

      Agnès Lerolle coordonne depuis un an les actions des associations nationales (CAFFIM) et locales engagées auprès des personnes migrantes à la frontière franco-italienne.

      La liste des pratiques illégales est longue, et nous joignons nos voix à celles des ONG locales afin que le gouvernement français ne fasse plus la sourde oreille et que cessent ces pratiques illégales et dégradantes

      Lors de l’observation continue à la frontière qui s’est déroulée les 12 et 13 octobre 2018, 60 personnes se sont mobilisées dont six avocats du barreau de Gap et trois avocats italiens. De multiples violations des droits ont été constatées :

      – refoulements de 26 personnes depuis le poste de la police aux frontières de Montgenèvre vers Clavière, premier village italien, sans examen individuel de leur situation ni possibilité de demander l’asile ;

      – non-prise en compte de la minorité de 8 personnes, qui se sont pourtant déclarées mineures auprès des forces de l’ordre.

      Les avocats français et les avocats italiens qui se sont relayés sur le terrain pendant les deux jours afin de permettre aux personnes refoulées de faire valoir leurs droits, ont pu déposer 11 « référés-libertés » devant le tribunal administratif de Marseille, dont huit pour des mineurs isolés refoulés.

      De nombreux témoignages

      Aucune protection n’est possible à la frontière, malgré le passage périlleux tenté par les personnes migrantes dans le froid, sans nourriture et sans eau.

      C’est le cas de Moussa*, originaire de Côte d’Ivoire, refoulé vendredi 12 octobre vers l’Italie, a raconté son interpellation : poursuivi dans un sentier par les gendarmes qui lui ont dit « arrête-toi, on va tirer », il a alors paniqué et glissé, son genou a claqué. Au poste de police, il a demandé à voir un médecin, ce qui lui a été refusé. Il a ensuite été refoulé vers l’Italie et ce n’est qu’à ce moment-là qu’il a pu rencontrer un médecin bénévole qui a pu le soigner.

      Les observateurs ont pu collecter de nombreux témoignages d’incompréhension, de violation des droits et d’absence de prise en charge des personnes vulnérables, ainsi que des menaces proférées par les policiers.

      Mineur isolé originaire également de Côte d’Ivoire, Ibrahim* a été interpellé par des gendarmes le samedi 13 octobre, dans les sentiers de montagne. Après son refoulement, il a raconté aux militants les propos des gendarmes : « Vous n’êtes pas Français, vous ne pouvez pas vivre en France sans être Français et vous n’êtes pas près de devenir Français ». Emmené au poste de police, il a déclaré sa minorité mais les policiers lui ont alors répondu « La plupart des personnes mentent sur leur date de naissance, pourquoi je te croirais ? ». Ibrahim a ensuite été reconduit en Italie, sans accès à la protection à laquelle il a droit.

      Ces témoignages confortent ceux recueillis depuis plusieurs mois par les acteurs locaux qui soutiennent au quotidien les personnes refoulées à la frontière.

      J’ai dit que j’étais mineur, ils ont éclaté de rire (…). J’ai présenté mes papiers guinéens et un homme [un policier] (…) a dit que ces papiers étaient des faux, il les a déchirés.

      Simon* a ainsi témoigné aux militants, fin avril 2018

      Bakary* a également témoigné des propos des policiers lors de son arrestation, toujours en juin 2018 : « La prochaine fois que vous essayez de traverser, on vous renvoie direct en Libye. »

      Ces pratiques illégales et ces comportements sont inacceptables dans un État de droit. L’inhumanité et l’hypocrisie de ces atteintes sont intolérables.

      Associations signataires et participant à cette action d’observation

      Amnesty International France, Anafé, La Cimade, Médecins du Monde, Médecins sans frontières, Secours Catholique Caritas France, Chemins pluriels, Emmaüs France, ASGI, GISTI, Icare 05, Refuges Solidaires, Tous Migrants

      https://www.amnesty.fr/refugies-et-migrants/actualites/a-la-frontiere-franco-italienne-des-violations-systematiques

    • Altro che confini. Rifugiati: il vero cuore del problema

      Gli sconfinamenti dei gendarmi francesi che depositano migranti al di là della frontiera italiana sono diventati l’occasione per un nuovo scontro tra Roma e Parigi e per una corrispondente esibizione di orgoglio nazionale ferito. In realtà, intorno all’accoglienza dei richiedenti asilo si consuma non da oggi una sorda e poco onorevole partita.
      Per anni l’Italia come la Grecia ha fatto da ponte per il transito delle persone in cerca di asilo verso l’interno del continente. Gli interessati del resto non chiedevano di meglio. Milano negli anni di picco della cosiddetta “crisi dei rifugiati” funzionava da centro di snodo tra gli arrivi dal Sud Italia e le nuove partenze verso il Centro e Nord dell’Europa. Gli sbarcati venivano informalmente avviati alle stazioni e consigliati di prendere determinati treni a lunga percorrenza.
      Le autorità avvertivano Milano, dove si organizzava la prima accoglienza in stazione. Pochi giorni per i siriani, un po’ di più per gli eritrei. Il tempo di riprendere le forze, di trovare passatori affidabili, eventualmente di raccogliere il denaro necessario. Poi ripartivano. I rifugiati che si fermavano e venivano accolti a Milano erano una modesta frazione di quelli transitati.
      Tra il numero di cittadini stranieri sbarcati in Italia dal mare e richieste ufficiali di asilo si produceva dunque un’ampia forbice. Questa nel tempo si è gradualmente ridotta. La quota dei richiedenti asilo in Italia rispetto agli sbarchi è passata dal 37% del 2014 al 56% del 2015 al 68% nel 2016. Nel 2017 le richieste di asilo hanno addirittura superato gli sbarchi: 130.119 contro 119.310, a causa di arrivi dalle frontiere orientali e respingimenti da altri Paesi verso l’Italia.
      Le ragioni di questo brusco cambiamento sono due: primo, l’accordo raggiunto in sede Ue per l’istituzione dei cosiddetti hotspot nei luoghi di sbarco, con l’identificazione obbligatoria degli sbarcati e il prelievo anche forzoso delle impronte digitali. Secondo, i controlli rigidi attuati alla frontiera alpina dai nostri vicini.
      Il corrispettivo dell’identificazione dei richiedenti asilo in Italia doveva essere la loro redistribuzione nella Ue secondo quote prestabilite. L’accordo prevedeva numeri precisi, pubblicati in un’apposita tabella. Subito dopo, però, i partner hanno cominciato a sfilarsi, gruppo di Visegrad e Regno Unito in testa. In sostanza gli accordi sono stati attuati a rilento, con circospezione e riluttanza.
      Dopo appena 13.000 ricollocamenti, il programma è stato ingloriosamente chiuso, mentre rimangono in vigore le convenzioni di Dublino che gravano sui Paesi di primo ingresso. I governi dei Paesi interni alla Ue finora hanno il diritto dalla loro parte: sono legittimati a rimandare in Italia i profughi che sconfinano. Controllando in modo permanente i valichi di frontiera e i punti di passaggio interpretano invece le norme di Schengen in un modo che a molti giuristi appare illegittimo. Ma proprio dalle intercettazioni alla frontiera nasce la prassi di espulsioni rapide e informali, attuate dalle forze di polizia anche altrove, per esempio sui treni, senza passare attraverso le procedure previste.
      Lo scandalo per lo sconfinamento dei gendarmi francesi non è dunque che l’ultimo anello di un sistema inadeguato di governo del diritto di asilo. Una disinvoltura procedurale nell’attuazione di espulsioni, che i francesi avrebbero comunque il diritto di compiere. Il vero problema sta invece altrove. I richiedenti asilo sono trattati da tutti i governi come rifiuti ingombranti da scaricare sul campo dei vicini, come merce imbarazzante senza nome e senza volto.

      Source : https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/altro-che-confini

    • Briançon (05) : ouverture d’un nouveau lieu dans la vieille ville

      Un nouveau lieu a ouvert dans le cité Vauban, la vieille ville de Briançon. Il s’agit de l’ancienne maison du gouverneur de l’armée française, désormais squattée, qui vous invite à venir se rencontrer, discuter, échanger sur la thématique des frontières. Ce lieu souhaite remettre en question toutes les formes de frontières : physiques, policières, identitaires, sociales et souvent imaginaires.

      Sont conviées toutes les personnes le souhaitant, se sentant concernées de près ou de loin, désireuses d’en savoir un peu plus, ou voulant partager des expérience. Pour ce lieu, les projets sont multiples et peuvent encore largement évoluer. Il y a notamment la volonté d’ouvrir une salle informatique, alors que la MJC a du fermer la sienne suite à la suppression de ses subventions. L’une des idées principales de ce lieu est de créer un espace de rencontres. Ainsi, des discussions, des projections de films, des repas collectifs seront organisés de manière hebdomadaire.

      Le lieu vient d’ouvrir. Tout soutien matériel et humain est le bienvenu. Pendaison de crémaillère le week-end des 3 et 4 novembre. Accueil possible dès maintenant. Programme à venir…

      https://fr.squat.net/2018/10/29/briancon-05-ouverture-dun-nouveau-lieu-dans-la-vieille-ville

    • Avec ce commentaire de Herji, le dessinateur :

      Le 8 novembre prochain, 7 personnes risquent d’être condamnées à 10 ans de prison et 750’000 euros d’amende pour avoir porté assistance, « en bande organisée », à d’autres êtres humains. Elles sont traitées comme des criminels par ceux qui laissent mourir des gens en mer, en montagne ou dans la rue, tous les jours.

    • À la frontière franco-italienne, des violations systématiques
      Amnesty International, le 15 octobre 2018
      https://seenthis.net/messages/730518

      Gap : expulsés de la maison Cézanne, des migrants campent devant la préfecture
      Flavien OSANNA, Le Dauphiné, le 17 octobre 2018
      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/10/17/gap-17

      Migrants refoulés par la France : Salvini envoie des policiers à la frontière
      La Croix, le 20 octobre 2018
      https://www.la-croix.com/Monde/Migrants-refoules-France-Salvini-envoie-policiers-frontiere-2018-10-20-130

    • Occupation de l’ancien #pavillon_du_gouverneur à Briançon : appel à un week-end de rencontre les 3 et 4 Novembre

      Ouverture d’un nouveau lieu occupé à Briançon voulant s’organiser contre les frontières. Appel à un week-end de rencontre les 3 et 4 Novembre.

      Un nouveau lieu a ouvert dans la cité Vauban, la vieille ville de Briançon. Il s’agit de l’ancien pavillon du gouverneur de l’armée française désormais squatté. Nous vous invitons à venir se rencontrer, discuter et échanger sur la thématiques des frontières : physiques, policières, identitaires, sociales et morales. Sont conviées toutes les personnes le souhaitant, se sentant concerner de près ou de loin, désireuses d’en savoir plus ou voulant s’organiser et partager des expériences communes. Pour ce lieux les projets sont multiples et peuvent encore largement évolués. Il y a notamment le projet d’ouvrir une salle informatique alors que la MJC a du fermer la sienne suite à la suppression de ses subventions. L’une des idées principales de cette occupation est de créer un lieu de rencontre et d’organisation contre les frontières (projections, films, cantines hebdomadaires etc..).
      Le lieu vient d’ouvrir, tout soutient matériel et humain est le bienvenue.

      Pendaison de crémaillère le week-end des 3 et 4 novembre (Voir ci-joint le programme). Accueil possible des maintenant.

      https://rebellyon.info/home/chroot_ml/ml-lyon/ml-lyon/public_html/local/cache-vignettes/L319xH450/capture_d_e_cran_2018-11-01_a_18.14.48-1f037-4d642.png?1541170707


      https://rebellyon.info/Occupation-de-l-ancien-pavillon-du-19718

    • Hautes-Alpes : le parquet abandonne les poursuites contre un homme qui avait aidé une migrante sur le point d’accoucher

      Le parquet de Gap a invoqué « l’immunité humanitaire » de #Benoît_Ducos, qui avait porté secours à une famille nigériane en mars 2018.

      Le parquet invoque « l’immunité humanitaire ». Le procureur de Gap a abandonné les poursuites engagées contre un homme qui avait porté secours à une migrante sur le point d’accoucher, en mars 2018, à la frontière franco-italienne. L’affaire a été classée sans suite, a annoncé dans un communiqué publié vendredi 2 novembre, le procureur de la République à Gap, Raphaël Balland.

      Le 10 mars, Benoît Ducos, ancien pisteur et bénévole aidant les réfugiés qui affluent dans la région de Briançon, était tombé sur une famille nigériane, un couple et ses deux jeunes enfants, et deux autres personnes ayant porté la femme, enceinte de 8 mois et demi, dans le froid et la neige. Avec un autre maraudeur, il avait conduit la mère en voiture à l’hôpital de Briançon. Celle-ci avait été prise de contractions et, à 500 mètres de la maternité, ils avaient été arrêtés par un contrôle des douanes. Le bébé était né dans la nuit par césarienne, en bonne santé.
      Une infraction « insuffisamment caractérisée »

      Une enquête avait été ouverte pour « aide à l’entrée et à la circulation d’un étranger en situation irrégulière ». Dans son communiqué, le procureur de la République à Gap explique que, en ce qui concerne le délit d’aide à l’entrée, l’infraction était « insuffisamment caractérisée ». L’enquête n’a pas permis de déterminer si Benoît Ducos avait participé « directement ou indirectement à l’organisation du passage illégal de la frontière de ces personnes dans des conditions particulièrement périlleuses ».

      Pour le délit d’aide à la circulation, le magistrat a retenu « l’#immunité_humanitaire » compte tenu de l’absence de contrepartie et des conditions météorologiques dangereuses. La femme enceinte « a déclaré aux enquêteurs avec son conjoint avoir pris ce risque déraisonnable pour ne pas accoucher en Italie, où elle craignait que ses enfants lui soient retirés ». Cette « immunité » est prévue par les dispositions de l’article L622-4, alinéa 3, du Code de l’entrée et du séjour des étrangers et droit d’asile (Ceseda), modifié par la loi du 10 septembre 2018 sur l’immigration.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/hautes-alpes-le-parquet-abandonne-les-poursuites-contre-un-homme-qui-av

    • @DODtour sur FB, le 4 novembre 2018 :

      Parce qu’il m’est #intolérable que des êtres humains meurent pour un pointillé sur une carte,
      Parce qu’il m’est intolérable que dans les Alpes, on atteigne non plus les sommets de la #dignité mais ses bas-fonds,
      Parce qu’il m’est intolérable qu’une des vertus cardinales du montagnard- la solidarité, soit sauvagement bafouée,
      Parce qu’il m’est intolérable que la frontière, qui durant les 15 mois de mon « tour de la France, exactement » fut un formidable #trait_d’union, ne (re)devienne une sanglante #barrière,
      Parce qu’il m’est désormais intolérable de lire le mot « #fraternité » sur le frontispice des mairies, vu la répression qui sévit sur la frontière, envers les exilés et les solidaires de tout poil,
      Parce qu’il m’est intolérable qu’au moment où des identitaires font la loi- leur loi, sur la frontière en toute #impunité, sept personnes soient accusées du douloureux oxymore « délit de solidarité », et risquent 10 ans de prison et 750 000 euros d’amende,

      J’irai les soutenir lors de leur procès, le 8 novembre à Gap.

      https://www.facebook.com/dodtour/posts/2153176234713310

    • France : Poursuite du harcèlement judiciaire des « 3+4 de Briançon »

      L’Observatoire pour la protection des défenseurs des droits de l’Homme, partenariat de la FIDH et de l’Organisation mondiale contre la torture (OMCT), a reçu de nouvelles informations et vous prie d’intervenir de toute urgence sur la situation suivante en France.

      Nouvelles informations :

      L’Observatoire a été informé par des sources fiables de la poursuite du harcèlement judiciaire de Mme Eleonora, M. Théo, M. Bastien, respectivement de nationalité italienne, belgo-suisse et suisse, et M. Juan, Mme Lisa, M. Mathieu et M. Benoît, de nationalité française (ci-après « les 3+4 de Briançon »), militants pour l’aide et l’accueil des personnes migrantes et réfugiées.

      Selon les informations reçues, le 8 novembre 2018, les « 3+4 de Briançon » comparaîtront devant le Tribunal correctionnel de Gap pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée » aux termes des articles L622-1 et L622-5 (pour l’aggravante) du Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (Cedesa). Ils encourent jusqu’à 10 ans de prison et une amende de 750 000 euros ainsi que, s’agissant des ressortissants étrangers, d’une interdiction de pénétrer sur le territoire français.

      Les accusations portées à l’encontre des « 3+4 de Briançon » sont liées à leur participation à une marche de solidarité avec les personnes migrantes et réfugiées entre l’Italie et la France le 22 avril 2018 (cf. rappel des faits). Cette marche spontanée répondait à une opération de « blocage des frontières » entre la France et l’Italie organisée la veille, le 21 avril 2018, par des militants du groupuscule néo-fasciste et suprématiste « Génération Identitaire », lesquels n’ont par ailleurs aucunement été inquiétés par les autorités, ni pendant leur action, ni ultérieurement.

      L’Observatoire s’indigne du harcèlement judiciaire dont les « 3+4 de Briançon » font l’objet, qui ne vise qu’à sanctionner leurs activités légitimes de défense des droits humains, et particulièrement leurs actions en faveur des personnes migrantes et réfugiées à la frontière franco-italienne.

      L’Observatoire appelle les autorités françaises à mettre un terme à toute forme de harcèlement, y compris au niveau judiciaire, à l’encontre des 3+4 de Briançon et celle de l’ensemble des défenseurs des droits humains visés dans le cadre de leurs actions en faveur des personnes migrantes et réfugiées en France.

      Par ailleurs, alors que, le 6 juillet 2018, le Conseil constitutionnel a censuré le principe du "délit de solidarité" en décrétant qu’une aide désintéressée au "séjour irrégulier" ne saurait être passible de poursuites au nom du "principe de fraternité" [1], l’Observatoire, qui a documenté un accroissement de la criminalisation visant les actes de solidarité et de soutien aux personnes migrantes en difficulté et les défenseurs de leurs droits [2], s’inquiète d’un maintien du délit de solidarité envers les personnes accusées d’aide à l’entrée et ce en dépit du caractère « humanitaire et désintéressé » de leur action.

      Rappel des faits

      Le 22 avril 2018, Mme Eleonora, M. Théo et M. Bastien (ci-après « les 3 de Briançon ») ont été interpellés par les gendarmes à Briançon, suite à leur participation à une marche de solidarité avec les personnes migrantes et réfugiées entre l’Italie et la France.

      Le 24 avril 2018, le Tribunal correctionnel de Gap les a placés en détention provisoire. MM. Théo et Bastien ont d’abord été placés en détention à la maison d’arrêt de Gap avant d’être transférés à la prison des Baumettes à Marseille le 26 avril où se trouvait déjà Mme Eleonora. Les 3 de Briançon sont restés détenus dans la « partie des arrivants » jusqu’au 3 mai 2018, date à laquelle le Tribunal correctionnel de Gap a ordonné leur mise en liberté provisoire.

      Le 31 mai 2018, les 3 de Briançon ont comparu devant le Tribunal correctionnel de Gap pour « aide à l’entrée d’étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et en bande organisée ». Lors de cette audience le Tribunal correctionnel a levé le contrôle judiciaire et renvoyé le procès d’Eleonora, Bastien et Théo au 8 novembre 2018 en raison de la question prioritaire de constitutionnalité (QPC) du « délit de solidarité », d’aide à l’entrée et à la circulation d’étrangers en situation irrégulière, que le Conseil Constitutionnel devait trancher en juillet 2018.

      Le 17 juillet, quatre nouvelles personnes, de nationalité française, Juan, Lisa, Mathieu et Benoît ont à leur tour été placées en garde à vue et inculpées pour les mêmes motifs qu’Eleonora, Théo et Bastien. L’audience de leur procès a également été renvoyée au 8 novembre.

      Actions requises :

      L’Observatoire vous prie de bien vouloir écrire aux autorités françaises et de l’Union européenne en leur demandant de :

      i. Mettre un terme à toute forme de harcèlement, y compris au niveau judiciaire, à l’encontre des 3+4 de Briançon, ainsi que l’ensemble des défenseurs des droits humains et particulièrement des droits des personnes migrantes et réfugiées en France ;

      ii. Garantir une protection efficace contre toutes les poursuites visant des actions « humanitaires et désintéressés » en amendant les dispositions de l’article L.622 du Ceseda ;

      iii. Amender l’article 1(2) de la Directive 2002/90/CE du Conseil de l’Union européenne « définissant l’aide à l’entrée, au transit et au séjour irréguliers » afin de garantir que les États membres de l’UE n’imposent pas de sanction dans le cas où le comportement reproché a pour but d’apporter une aide humanitaire ou de garantir les droits humains de la personne migrante concernée [3] ;

      iv. Se conformer aux dispositions de la Déclaration sur les défenseurs des droits de l’Homme, adoptée par l’Assemblée générale des Nations unies le 9 décembre 1998, et plus particulièrement à ses articles 1 et 12.2 ;

      v. Plus généralement, se conformer aux dispositions de la Déclaration universelle des droits de l’Homme et instruments régionaux et internationaux relatifs aux droits de l’Homme ratifiés par la France.

      https://www.fidh.org/fr/themes/defenseurs-des-droits-humains/france-poursuite-du-harcelement-judiciaire-des-3-4-de-briancon

    • Squat à Briançon : le maire demande à l’État de jouer son rôle plein et entier

      4 novembre 2018 - Cela fait déjà deux semaines que des squatteurs occupent illégalement la maison du Gouverneur, propriété de la commune, dans la vieille ville de Briançon. Et le maire n’a toujours pas obtenu de l’État l’expulsion de ce groupe de militants ayant depuis déployé une banderole « anti-frontière », changé les serrures du bâtiment et même annoncé l’organisation d’une pendaison de crémaillère ! Le maire Gérard Fromm est choqué par l’incapacité de l’État à faire respecter le droit et demande, une nouvelle fois, à l’État de jouer son rôle plein et entier. Peut-être sera-t-il entendu lors de l’audience en référé qui se tiendra au tribunal de Gap mardi prochain, soit deux jours avant le procès dit « des 7 de Briançon ».

      https://vimeo.com/298841000

      signalé par @_kg_
      https://seenthis.net/messages/733643

  • Liberties | Fermeture “temporaire” du hotspot de Lampedusa suite à l’intervention d’ONG
    https://asile.ch/2018/03/16/liberties-fermeture-temporaire-hotspot-de-lampedusa-suite-a-lintervention-dong

    A la suite de mouvements de protestation au sein du centre d’accueil de Lampedusa, une délégation de trois organisations de droits humains a dénoncé des violations systématiques des droits de l’homme au sein du hotspot. Mardi 13 mars 2018, le ministère de l’Intérieur italien a annoncé la fermeture temporaire du hotspot de Lampedusa pour rénovations. […]

    • In un dossier la vita impossibile nell’hotspot di Lampedusa

      Ai primi di aprile, dopo il salvataggio di quasi 300 persone in mare, 72 tunisini hanno dovuto trascorrere la notte in quello che fino a poco tempo fa era l’hotspot di Lampedusa. Eppure, dell’hospot era stata annunciata da poco la chiusura temporanea - per una “ristrutturazione” con cui il Ministero dell’Interno aveva dovuto rispondere a pesanti denunce. Ora, con testimonianze, interviste e fotografie raccolte durante alcuni sopralluoghi, il dossier presentato a Roma il 10 aprile da Asgi, Cild e Indie Watch dimostra le innumerevoli ragioni di preoccupazione sul trattamento disumano riservato a chi arriva nella struttura di Lampedusa.

      http://openmigration.org/analisi/in-un-dossier-la-vita-impossibile-nellhotspot-di-lampedusa

    • Rapporto: «Scenari di frontiera: il caso Lampedusa. L’approccio hotspot e le sue possibili evoluzioni alla luce del Decreto legge n. 113/2018»

      Trattenimenti informali e limitazione della libertà personale, condizioni materiali problematiche, scarsa informazione su status legale e accesso alla procedura di protezione internazionale, differenziazione arbitraria tra richiedenti asilo e cosiddetti migranti economici, applicazione parziale delle garanzie a tutela dei minori.

      È quanto emerge dal monitoraggio dell’hotspot di Lampedusa realizzato nell’ambito del progetto pilota In Limine, nato nel marzo 2018 da una collaborazione che portiamo avanti con Asgi, Cild e Indiewatch, presentato nel report “Scenari di frontiera: l’approccio hotspot e le sue possibili evoluzioni alla luce del caso Lampedusa”.

      Un quadro che desta ancora più preoccupazione dopo l’approvazione del Decreto 113/2018 cosiddetto “Sicurezza e immigrazione”, che disciplina per legge alcune delle prassi illegittime riscontrate, con il rischio di compromettere, in modo ancor più generalizzato, l’esercizio del diritto di asilo.

      Nel corso del progetto sono state registrate - attraverso circa 60 interviste con i migranti, colloqui con associazioni, organizzazioni internazionali e istituzioni attive sull’isola e attraverso l’osservazione diretta - significative violazioni della normativa vigente.

      Dal rapporto emergono poi violazioni molto rilevanti in tema di limitazione delle libertà personali e risulta che i cittadini stranieri non vengono correttamente informati sulla propria posizione, sul proprio status legale e sulla possibilità di richiedere protezione, diversamente da quanto previsto dalla legge.

      Per quanto riguarda la classificazione dei migranti, il rapporto evidenzia che in molti casi lo status giuridico di richiedente asilo o di persona destinataria di provvedimento di respingimento sembra essere definito, contrariamente a quanto previsto nella normativa italiana e comunitaria, unicamente in ragione del paese di origine.

      Infine, il monitoraggio ha messo in luce come all’interno degli hotspot non verrebbero applicate o verrebbero applicate solo parzialmente le garanzie previste dalla normativa per la tutela dei minori anche per ciò che riguarda, ad esempio, il diritto all’unità familiare e al ricongiungimento, la nomina di un tutore che svolga un ruolo effettivo, il diritto ad essere collocati in una struttura idonea ad accogliere e tutelare i minori.

      In Limine ha messo a punto e utilizzato diversi strumenti per raggiungere obiettivi differenti: contrastare le prassi illegittime e produrre un cambiamento strutturale nell’accesso dei migranti ai diritti in frontiera. Con questo obiettivo sono stati presentati ricorsi, esposti, segnalazioni e si è data diffusione immediata alle informazioni raccolte sulle gravi violazioni rilevate. Inoltre, il progetto ha voluto esercitare una pressione costante sulle autorità attraverso il monitoraggio e la presa in carico dei migranti al fine di vigilare sull’attuazione di prassi corrette e per garantire un intervento immediato ove si fossero rilevate violazioni.

      Tutto questo appare più preoccupante dopo l’approvazione del Decreto Sicurezza (Dl 113/2018), che in sostanza disciplina diverse prassi illegittime osservate a Lampedusa e negli altri hotspot.

      Alcune norme sembrano infatti destinate a ridefinire il funzionamento degli hotspot e tre profili in particolare – trattenimento fino a 30 giorni per la determinazione e verifica dell’identità e della cittadinanza per i richiedenti asilo (a cui si sommano altri 180 giorni in un CPR in caso di mancata identificazione), applicazione accelerata e in frontiera delle procedure di valutazione della domanda di asilo, trattenimento in luoghi cosiddetti impropri dei cittadini stranieri destinatari dei provvedimenti di espulsione – suggeriscono un possibile sviluppo su larga scala della limitazione all’esercizio del diritto di asilo.

      Il recente Decreto dunque, se non sarà oggetto di modifica parlamentare, rende ancora più urgente la necessità che le procedure che si svolgono all’interno degli hotspot siano rese visibili e trasparenti, con l’obiettivo di ridurre abusi e violazioni dei diritti delle persone.

      Per questo, insieme alle altre organizzazioni che insieme a noi hanno dato vita al progetto In Limine, intensificheremo il nostro impegno, aumentando anche il raggio di azione per monitorare gli effetti delle nuove norme.

      https://www.actionaid.it/informati/notizie/decreto-sicurezza-effetti-su-hotspot
      #decreto_salvini

  • #The_harvest

    Gurwinder viene dal #Punjab, da anni lavora come bracciante delle serre dell’Agro Pontino. Da quando è arrivato in Italia, vive insieme al resto della comunità #sikh in provincia di Latina. Anche Hardeep è indiana, ma parla con accento romano, e si impegna come mediatrice culturale.
    Lei, nata e cresciuta in Italia, cerca il riscatto dai ricordi di una famiglia emigrata in un’altra epoca, lui è costretto, contro le norme del suo stesso credo, ad assumere metanfetamine e sostanze dopanti per reggere i pesanti ritmi di lavoro e mandare i soldi in India.

    La storia di Gurwinder è rappresentativa di un vasto universo di sfruttamento: un esercito silenzioso di uomini piegati nei campi a lavorare, senza pause, attraversa oggi l’Italia intera. Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12 ore al giorno filate sotto il sole; chiamano padrone il datore di lavoro, subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro euro l’ora nel migliore dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati, violenze e percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e “allontanamenti” facili per chi tenta di reagire.
    The Harvest racconta tutto questo: la vita delle comunità Sikh stanziate stabilmente nella zona dell’Agro Pontino e il loro rapporto con il mondo del lavoro. I membri di queste comunità vengono principalmente impiegati come braccianti nell’agricoltura della zona. Gli episodi di sfruttamento (caporalato, cottimo, basso salario, violenza fisica e verbale) sono stati rilevati in numerosi casi, quasi sempre da associazioni che operano sul territorio locale. A fianco di questi fenomeni è inoltre cresciuto in maniera esponenziale l’uso di sostanze dopanti per sostenere i faticosi ritmi del lavoro nei campi. Sostanze che, nello specifico, si compongono di metanfetamine, oppiacei e antispastici.
    La questione dello sfruttamento del lavoro agricolo e in particolare della manodopera migrante diventa centrale ogni qualvolta si avvicina la stagione estiva, ricevendo attenzione dai media e portando alla ribalta questioni cruciali come quella del caporalato. Ciò nonostante questa attenzione è ciclica e il fenomeno passa in secondo piano con l’arrivo dell’autunno.
    The Harvest affronta la questione attraverso una lente innovativa che coniuga lo stile del documentario con quello del musical, utilizzato come espediente narrativo per raccontare la fatica del lavoro nei campi e l’utilizzo di sostanze. Attraverso una ricerca musicale e cinematografica il film vuole far emergere una determinata condizione che sarebbe altrimenti difficile da portare all’attenzione del pubblico senza toni retorici o didascalici. Trovare una forma artistica innovativa per narrare una realtà brutale, ma che tende a nascondersi nelle pieghe della quotidianità, è il nodo stilistico che il film affronta.

    Un docu-musical che, per la prima volta, unisce il linguaggio del documentario alle coreografie delle danze punjabi, raccontando l’umiliazione dei lavoratori sfruttati dai datori di lavoro e dai caporali. Due storie che si intrecciano nel corso di una giornata, dalle prime ore di luce in cui inizia il lavoro in campagna alla preghiera serale presso il tempio della comunità.
    Un duro lavoro di semina, fatto giorno dopo giorno, il cui meritato raccolto, tra permessi di soggiorno da rinnovare e buste paga fasulle, sembra essere ancora lontano.

    https://www.silenzioinsala.com/photos/4693/locandina4693.jpeg
    https://www.theharvest.it/il-film
    #film #caporalato #Italie #Inde #agriculture #exploitation #travail #film #documentaire

  • Migranti soccorsi nel Mediterraneo, cade l’obbligo di trasferirli in Italia

    Il nuovo accordo siglato dal Dipartimento Immigrazione del Viminale con #Frontex

    I migranti soccorsi nel Mediterraneo dovranno essere trasferiti nel porto più vicino. E dunque cade l’obbligo che vengano portati direttamente in Italia, come era invece previsto dalla missione Triton. È quanto prevede il nuovo accordo siglato dall’Italia con Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Nell’intesta siglata dai rappresentati del Dipartimento di immigrazione del Viminale con i rappresentanti Ue si prevede di arretrare la linea di pattugliamento dei nostri mezzi navali a 24 miglia, restringendo in questo modo il campo d’azione.
    In una nota Frontex sottolinea come la nuova operazione nel mar Mediterraneo centrale, «servirà per assistere l’Italia nelle attività di controllo dei confini». La nuova operazione congiunta si chiamerà Themis, «inizierà il 1 febbraio e sostituirà l’operazione Triton lanciata nel 2014. L’operazione Themis continuerà a includere la ricerca e soccorso come componente cruciale. Allo stesso tempo, la nuova operazione avrà un focus rafforzato sulle forze dell’ordine». L’area in cui sarà operativa «coprirà il mar Mediterraneo centrale, dalle acque che coprono i flussi da Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Turchia e Albania».

    http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_gennaio_31/migranti-soccorsi-mediterraneo-cade-l-obbligo-trasferirli-italia-168b6

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #contrôles_frontaliers #frontières #opération_Themis #frontières_mobiles
    cc @isskein

    • Frontex lance une opération en Méditerranée centrale, nommée Thémis
      Dénommée Themis, cette opération démarre ce 1er février. Elle remplace l’opération Triton, lancée en 2014. L’opération Themis continuera d’inclure la recherche et le sauvetage. Des missions menées sous la coordination des « différents centres de coordination du sauvetage maritime responsables ». Mais la nouvelle opération aura aussi un axe plus important sur le respect de la loi. Sa zone opérationnelle s’étendra sur la mer Méditerranée centrale dans les eaux couvrant les flux venant d’Algérie, de Tunisie, Libye, Egypte, Turquie et Albanie. NB : la zone d’opération est donc plus large que celle de l’opération Sophia, puisqu’elle couvre également le flanc est (Egypte, Turquie) et le flanc ouest (Algérie) et l’Adriatique.

      Dans le cadre de cette opération, Frontex va aussi poursuivre sa présence dans les hotspots en Italie, où les agents déployés par l’agence aideront les autorités nationales à enregistrer les migrants, notamment en prenant leurs empreintes digitales et en confirmant leur nationalité.

      –-> sauf que le programme de #relocalisations n’est plus actif... pauvre Italie, obligée de prendre des empreintes digitales, mais plus possible de compter sur le programme de relocalisation (même si c’était un échec)

      Le volet sécurité de l’opération Themis comprendra également la collecte de #renseignements et d’autres mesures visant à détecter les #combattants_étrangers et autres menaces terroristes aux frontières extérieures.

      #terrorisme #ISIS #Etat_islamique

      http://www.bruxelles2.eu/2018/01/31/frontex-lance-une-operation-en-mediterranee-centrale-nommee-themis

      –-> Dans cet article il n’est pas fait mention d’un élément mis en avant par Il Corriere :

      I migranti soccorsi nel Mediterraneo dovranno essere trasferiti nel porto più vicino. E dunque cade l’obbligo che vengano portati direttamente in Italia, come era invece previsto dalla missione Triton. È quanto prevede il nuovo accordo siglato dall’Italia con Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Nell’intesta siglata dai rappresentati del Dipartimento di immigrazione del Viminale con i rappresentanti Ue si prevede di arretrare la linea di pattugliamento dei nostri mezzi navali a 24 miglia, restringendo in questo modo il campo d’azione.

      –-> les personnes sauvées en Méditerranée devront être transférées dans le #port_le_plus_proche, il n’y a plus l’obligation de les transporter en Italie... Le port le plus proche = retour en Libye, notamment...
       :-(

    • Frontex launching new operation in Central Med

      Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, is launching a new operation in the Central Mediterranean to assist Italy in border control activities.

      The new Joint Operation Themis will begin on 1 February and will replace operation Triton, which was launched in 2014. Operation Themis will continue to include search and rescue as a crucial component. At the same time, the new operation will have an enhanced law enforcement focus. Its operational area will span the Central Mediterranean Sea from waters covering flows from Algeria, Tunisia, Libya, Egypt, Turkey and Albania.

      “Operation Themis will better reflect the changing patterns of migration, as well as cross border crime. Frontex will also assist Italy in tracking down criminal activities, such as drug smuggling across the Adriatic,” said Frontex Executive Director Fabrice Leggeri.

      The security component of Operation Themis will include collection of intelligence and other steps aimed at detecting foreign fighters and other terrorist threats at the external borders.

      “We need to be better equipped to prevent criminal groups that try to enter the EU undetected. This is crucial for the internal security of the European Union,” Leggeri said.

      As part of Operation Themis, Frontex will continue its presence in the hotspots in Italy, where officers deployed by the agency will assist the national authorities in registering migrants, including taking their fingerprints and confirming their nationalities.

      Frontex vessels will continue search and rescue operations under the coordination of the responsible Maritime Rescue Coordination Centres. Last year, Frontex assisted in the rescue of 38 000 people at sea in operations in Italy, Greece and Spain.

      http://frontex.europa.eu/thumb/Images_News/2018/new_misson_planning_small.prop_300x.37d0f4e879.JPG
      http://frontex.europa.eu/news/frontex-launching-new-operation-in-central-med-OESzij

    • FRONTEX ed il governo italiano contro il diritto internazionale del mare, contro il diritto alla vita dei migranti

      Un articolo del Corriere della Sera ha anticipato la nuova operazione Themis di Frontex che dovrebbe sostituire la precedente operazione TRITON e limitare il ruolo dei mezzi italiani nelle attività di soccorso, addirittura a 24 miglia a sud di Lampedusa, con la possibilità di sbarcare i naufraghi soccorsi in alto mare ( in acque internazionali) nel “porto più vicino” e non nel “place of safetty” imposto dalle Convenzioni internazionali di Montego Bay (UNCLOS) del 1984 e di Amburgo (SAR) del 1979.

      Risalendo alla fonte della notizia le informazioni diffuse dal Corriere appaiono frutto di una visione fortemente influenzata dai rapporti con le polizie e i servizi di informazione. La posizione ufficiale di Frontex è affidata ad un comunicato. Ma un comunicato di polizia non costituisce fonte del diritto. Almeno finora.

      https://www.a-dif.org/2018/02/01/frontex-ed-il-governo-italiano-contro-il-diritto-internazionale-del-mare-cont

    • Con Themis le navi Ue riporteranno i migranti salvati in Libia? No, ma...

      La nuova Operazione dell’agenzia europea Frontex fa prevalere l’opzione del porto più vicino rispetto a quello più sicuro: stop alla prassi di arrivo esclusivo in Italia e incertezza sui futuri luoghi di sbarco, anche se Frontex stessa rassicura sul rispetto della legge marittima internazionale. Manzione, sottosegretario agli Interni: “L’Europa si conferma a due velocità sul tema migranti: per le operazioni di controllo delle frontiere si decide rapidamente, per le alternative ai drammatici viaggi in mare - come i corridoi umanitari - non si arriva mai al dunque”

      http://www.vita.it/it/article/2018/02/01/la-ue-riportera-i-migranti-salvati-in-libia-dietro-le-quinte-della-nuo/145828

    • Opération Thémis. L’agence Frontex agit-elle sans contrôle démocratique ?

      Le lancement récent d’une nouvelle opération au large de la Méditerranée par le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes (l’agence Frontex) est interpellant.

      Un objectif très flou

      Le communiqué diffusé à cette occasion laisse planer un certain flou et pose plus de questions qu’il n’en résout. La nouvelle opération s’occupe à la fois de recherche et sauvetage en mer, de renforcement de la loi, de lutte contre la criminalité, contre les réseaux terroristes (lire : Frontex lance une opération en Méditerranée centrale, nommée Thémis). Mais on ne comprend pas vraiment bien l’objectif de la nouvelle mission.

      Une proximité d’objectifs avec EUNAVFOR Med

      Nous avons demandé des précisions à Frontex (basée à Varsovie), surtout sur la façon dont les deux opérations EUNAVFOR Med et Thémis allaient se coordonner. La réponse reçue tout à l’heure (à 13h) est un peu vasouillarde…. Tout d’abord, on nous a annoncé doctement que THEMIS était civile là où EUNAVFOR Med militaire. Une vraie information ! (1). Ensuite, on nous a expliqué que cette mission n’avait pour fonction que le sauvetage en mer et n’avait pas pour tâche la lutte contre les trafics de migrants. Ce qui est, là, en pleine contradiction avec l’énoncé même du communiqué officiel.

      « At the same time, the new operation will have an enhanced law enforcement focus. Its operational area will span the Central Mediterranean Sea from waters covering flows from Algeria, Tunisia, Libya, Egypt, Turkey and Albania. « Operation Themis will better reflect the changing patterns of migration, as well as cross border crime. (…) said Frontex Executive Director Fabrice Leggeri.

      Les mots ne sont pas totalement identiques. Mais ils sont très proches des mots employés pour l’opération EUNAVFOR Med. En tout cas, rien ne permet de faire un réel distinguo entre les deux opérations.

      Une opération déployée sans contrôle démocratique

      Ce raté dans la communication révèle en fait un problème plus général. A la différence des opérations PSDC, qui opèrent dans un cadre précis, ces opérations sont menées sans aucun cadre ni autorisation légale. Certes il y a un règlement définissant l’action du corps européen, certes il y a eu un plan d’opération approuvé au sein de Frontex, en accord avec le pays d’origine. Mais tout cela se fait de façon discrète, « sous la table », à un niveau infrapolitique, sans approbation formelle, ni transparence. Bref, sans contrôle démocratique d’une façon ou d’une autre et sans aucune transparence. Ce qui est contraire aux règles, et surtout, à l’esprit européen.

      … sans aucun cadre légal publié

      Aucune autorité politique compétente au niveau de l’Union européenne — le conseil des ministres par exemple — n’a approuvé une telle opération. Aucune décision cadre n’en a fixé l’objectif, les moyens, les limites, voire la zone d’opération. Aucune décision n’a été publiée au journal officiel ou sur un autre support. Aucune information n’a été donnée sur le coût de cette opération, ni sa durée. Aucun procès verbal n’a été constaté et est accessible publiquement. Aucune information au parlement européen n’a été effectuée officiellement. Aucune traduction même dans les principales langues concernées par cette opération n’a été publiée.

      Une absence de justification expliquant l’exception

      Les bons esprits estimeront sans doute que la nécessité opérationnelle impose cette absence de formalisme. On peut douter de la pertinence de cet argument, du moins au plan européen. Une opération militaire menée au nom de l’Union européenne, financée par les seuls États membres, respecte toutes ces conditions : une décision cadre est approuvée par les ministres et publiée au journal officiel dans toutes les langues. Elle fixe l’objectif, les missions, les moyens, les règles tenant au secret et à la protection des données, donne des indications sur la zone d’opération, le budget affecté, la durée de l’opération et le contrôle politique de l’opération.

      Commentaire : les militaires respectent une certaine obligation démocratique, pourquoi pas les garde-frontières ?

      On peut se demander pourquoi une opération civile, menée toujours au nom de l’Union européenne, dans un cadre communautaire, avec de l’argent communautaire, sous une hiérarchie communautaire, puisse s’abstraire du respect de ces procédures. Quel est le raisonnement politique, démocratique, constitutionnel, juridique, qui peut justifier pareille exception ? (2) Les militaires y arrivent très bien, le corps des garde-frontières et des garde-côtes européens s’il veut garder sa pertinence et sa légitimité devrait y arriver fort bien.

      (Nicolas Gros-Verheyde)

      (1) Ce qui est un peu prendre le public européen pour un imbécile. Nos questions sur l’utilité d’avoir deux opérations plus ou moins dans la même zone, avec plus ou moins les mêmes objectifs, les moyens de coordination, l’utilisation adéquate des financements européens est en revanche restée sans réponse.

      (2) Nous avons demandé la raison d’un tel manque. Aucune réponse satisfaisante n’a été fourni.

      https://www.bruxelles2.eu/2018/02/01/lagence-frontex-est-elle-democratique

    • #Themis: la missione di Frontex voluta da Minniti di cui ora dispone Matteo Salvini

      Themis sostituisce la vecchia missione #Triton, con un mandato allargato e che poco si concentra sugli sbarchi dalla Libia. Per la prima volta una missione dell’agenzia europea Frontex supporta le forze dell’ordine marittime di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” direttamente in mare.

      Il 28 agosto 2014 la Lega non era ancora al governo, e Matteo Salvini si esprimeva così sulla sua pagina Facebook: “Secondo voi dire che FRONTEX PLUS è una PRESA PER IL CULO è troppo forte??? Il 18 ottobre TUTTI A MILANO per dire NO a Mare Nostrum, Frontex, Frontex Plus o come diavolo vorranno chiamare operazioni che, invece di respingere i clandestini, favoriscono l’invasione!”.

      #Frontex_Plus, diventata poi Triton, è stata fino a febbraio di quest’anno la missione di Frontex a difesa della frontiere marittime italiane. Non è “indipendente”: infatti lo scopo è il supporto ai mezzi italiani impiegati per la ricognizione in mare, cioè Guardia di Finanza, Guardia costiera e Polizia di stato. L’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere – Frontex appunto – finanzia e aiuta il coordinamento della missione Themis, mentre i paesi partecipanti contribuiscono mettendo a disposizione uomini e mezzi, a seconda delle esigenze espresse dall’Italia.

      Alla fine del 2016, la storia tra Salvini e Frontex ha preso un’altra piega: il Financial Times ha pubblicato il famoso report interno (ve ne raccontammo qui: http://openmigration.org/analisi/accuse-alle-ong-cosa-ce-di-falso-o-di-sviante) in cui l’agenzia sosteneva che i trafficanti dessero ai migranti “precise indicazioni prima di partire per raggiungere le navi delle Ong”. Luigi Di Maio, ad aprile 2017, ha attribuito a un altro report di Frontex (Risk Analysis 2017: https://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/Annual_Risk_Analysis_2017.pdf) la tanto citata espressione “taxi del mare” per definire le Ong. Quella frase nel report non c’è, ma ci sono critiche all’atteggiamento poco collaborativo delle Ong e a salvataggi che avverrebbero “prima di chiamate d’emergenza”.

      Quello è stato l’inizio delle intese tra Lega e Cinque Stelle sull’immigrazione, con Frontex citata a sostegno delle argomentazioni anti-Ong – il primo atto della campagna condotta dalla procura di Catania e dal suo capo Carmelo Zuccaro. “Io sto con Zuccaro, io sto con Frontex”, diceva Salvini a maggio 2017, “che certificano, sostengono e confermano quello che qualunque normodotato in Italia e nel mondo ha ormai intuito: l’immigrazione clandestina è organizzata, finanziata, è un business da 5 miliardi di euro e ha portato a 13 mila morti sul fondo del mare”.

      Ora la missione di Frontex cominciata a febbraio è cambiata per nuove esigenze dell’Italia. La “revisione” del mandato è cominciata a luglio del 2017 per volere dell’allora ministro Marco Minniti, che aveva inserito questa missione nella strategia più complessiva dell’Italia in Libia. Come vedremo, il compito principale di raccordo con le autorità marittime locali lo svolge la Marina Militare.

      La nuova missione di Frontex è stata battezzata Themis. È la prima a supporto di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” in mare.
      Da paese di frontiera, è ovvio che l’Italia sia uno dei principali interlocutori di Frontex. Il fatto che il governo Lega-Cinque Stelle abbia in animo di respingere i migranti prima che sbarchino, presumibilmente anche con l’ausilio dei mezzi messi a disposizione da Themis, è invece un fatto unico.

      Queste sono le caratteristiche della missione pensata da Minniti e che si ritroverà a gestire, invece, Matteo Salvini. E questo è il modo in cui la missione si inserisce all’interno del piano italiano ed europeo sulla Libia, spesso scoordinato e incomprensibile.
      Le novità di Themis e l’allargamento del mandato deciso dal Viminale

      Nella missione Themis partecipano insieme a Frontex 27 stati membri. La missione dispone di dieci navi, due elicotteri e altrettanti aerei e un budget annuale di 39 milioni di euro, con i quali Frontex paga sia per i propri mezzi, sia per quelli appartenenti ai paesi europei impiegati poi nella missione.

      Themis ha alcune caratteristiche differenti rispetto alla precedente Triton. In primo luogo, come spiega il Viminale, il limite dalle coste italiane della linea di pattugliamento: Triton arrivava fino a 30 miglia nautiche dalle nostre coste, Themis si fermerà a 24, ossia il confine delle cosiddette acque continue. È il limite canonico delle acque di competenza di un paese, superato in occasione della missione Triton a causa delle condizioni particolari del 2014, il suo anno di nascita. C’è da ipotizzare che il lieve indietreggiare di Themis sia anche un modo per dare maggiore spazio di manovra alle nuove autorità libiche, alle quali l’Italia sta fornendo assistenza per realizzare a Tripoli un nuovo Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli.

      Una seconda differenza tra Triton e Themis riguarda il mandato. Themis non ha come unico scopo il contrasto all’immigrazione irregolare, né si concentra solo sul Mediterraneo centrale: copre anche i flussi di uomini e droga nel Mediterraneo orientale (Albania e Turchia) e occidentale (Tunisia e Algeria), che erano fuori dal mandato di Triton. Uno spostamento di focus legato anche al calo negli sbarchi.

      Le nuove aree interessano a Frontex e agli inquirenti italiani soprattutto per gli “sbarchi fantasma” dalla Tunisia. Pescherecci, barche a vela, motoscafi con poche decine di persone a bordo che sbarcano sulle coste della Sicilia meridionale senza che i migranti a bordo passino da strutture di accoglienza o identificazione: ogni loro spostamento è gestito da organizzazioni italo-tunisine. Sono vittime di tratta? Lavoratori forzati? Manodopera criminale? Potenziali terroristi? Le ipotesi sono tutte al vaglio degli inquirenti.

      Sulla carta, poi, Themis rompe il vincolo stabilito da Triton per il quale ogni migrante salvato nella missione doveva sbarcare in un porto sicuro italiano. Al momento, però, non sono registrati sbarchi, a parte per urgenze mediche individuali, in porti diversi da quelli italiani. E il 7 giugno c’è stato l’ennesimo braccio di ferro tra Malta e l’Italia, quando le autorità dell’isola non hanno concesso a Sea Watch di sbarcare 120 migranti in un momento in cui l’imbarcazione dell’Ong era in difficoltà per le condizioni del mare. Ora, con il caso Aquarius, lo scontro con La Valletta è diventato aperto e duro.
      Poca trasparenza

      Da parte di Frontex c’è molta riservatezza sulle operazioni in corso. Piano operativo e contratti di utilizzo di ogni mezzo impiegato in mare sono i documenti fondamentali per capire esattamente cosa faccia Themis. L’agenzia per il pattugliamento delle frontiere, però, fino a oggi ha diffuso questo genere di documenti soltanto a missioni concluse.

      “Nella mia esperienza, Frontex è molto riluttante a condividere i dati delle proprie missioni, soprattutto i piani operativi”, spiega Luisa Izuzquiza, ricercatrice indipendente che da un anno e mezzo deposita richieste di accesso agli atti presso gli uffici dell’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere. La motivazione con cui le viene negato l’accesso è sempre la stessa: la pubblica sicurezza.

      A gennaio 2018, dopo l’ennesimo rifiuto, Luisa Izuzquiza ha portato Frontex di fronte alla Corte di giustizia europea per ottenere la pubblicazione dei contratti impiegati nella scorsa missione, Triton. Alcuni Stati membri, come la Svezia, non hanno avuto problemi a rendere pubblici i documenti con cui mettono a disposizione di Triton i propri mezzi. Tipologia di accordi e costi sono certamente molto simili anche nel caso di Themis. Le spese coperte interamente da Frontex sono un forte incentivo affinché i paesi diano il proprio contributo alle missioni.
      Il coordinamento e i sistemi di condivisione dei dati

      A partire da settembre 2015, la Commissione europea ha introdotto gli hotspot, sviluppati in via sperimentale in Grecia e in Italia, come prime strutture di identificazione dei migranti. A Catania c’è la sede della Task force regionale (Eurtf), che coordina le strutture italiane. Qui, per evitare sovrapposizioni fra le missioni gestite da ciascuno, siedono nello stesso ufficio uomini di Frontex, Easo (l’ufficio europeo per il sostegno all’asilo), Europol, Eurojust, operazione Sophia, polizia, Guardia di finanza e Guardia costiera.

      Meno chiara, però, è la situazione dei canali di comunicazione delle diverse missioni, specialmente fuori dai confini europei. Il principale canale di condivisione dei dati per i paesi del Mediterraneo si chiama Seahorse Mediterraneo Network, una piattaforma utilizzata dalle polizie dei paesi dell’area allo scopo di “rafforzare il controllo delle frontiere”. È un database al momento adottato da Spagna, Italia, Malta, Francia, Grecia, Cipro e Portogallo. La Commissione europea ha messo sul piatto 10 milioni di euro per fare in modo che possano partecipare allo scambio anche Libia, Egitto, Tunisia e Algeria. Se ne discute da ormai tre anni, ma l’unico paese che sembra poterci (e volerci) entrare – tramite l’Italia – è la Libia. Vuol dire che la guardia costiera locale avrà accesso, almeno via Seahorse, agli stessi database marittimi delle nostre forze dell’ordine.

      Nella “Relazione sulla performance per il 2016” (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/332676.pdf) del Viminale si legge che Seahorse “è stata installata nel Centro Interforze di Gestione e Controllo (Cigc) Sicral di Vigna di Valle (Roma), teleporto principale del Ministero della Difesa, mentre presso il Centro Nazionale di Coordinamento per l’immigrazione “Roberto Iavarone” – Eurosur, sede del Mebocc [Mediterranean Border Cooperation Center], sono stati installati gli altri apparati funzionali alla rete di comunicazione”.

      Il nodo italiano, dunque, sembrerebbe operativo: Seahorse è gestito dal Cigc Sicral, mentre il database-ombrello per mappare in tempo reale tutto ciò che sta accadendo in mare, Eurosur, è gestito dal Centro Roberto Iavarone, che è anche sede del Mebocc, la centrale operativa da cui passano le comunicazioni tra paesi europei, Frontex e paesi terzi.

      Nella stessa relazione c’è anche un secondo passaggio, che conferma la partecipazione dei libici: si legge che nel 2016 in tutto sei “ufficiali della Guardia Costiera-Marina Militare Libica” sono stati ospitati in Italia “con funzioni di collegamento con le autorità libiche e per migliorare/stimolare la cooperazione nella gestione degli eventi di immigrazione irregolare provenienti dalla Libia” nell’ambito del progetto Sea Horse Mediterranean Network. Non è chiaro, al momento, se gli ufficiali libici hanno poi avuto l’accesso al sistema Seahorse anche da Tripoli.
      La sovrapposizione fra Marina militare italiana e autorità marittima libica

      Nel Mediterraneo centrale agisce poi la Marina militare. Rispetto alle tre forze dell’ordine che collaborano con Frontex ha altre regole di ingaggio e un’altra linea di comando. Come ora vedremo, ha anche altre priorità.

      Oltre a partecipare alle operazioni congiunte di Eunavformed, infatti, la Marina militare italiana ha riattivato la cooperazione con la Libia nata nel 2002, all’epoca di Gheddafi, con il nome in codice di Nauras. Difficile sapere quali navi vengono utilizzate e quali siano gli obiettivi strategici attuali dell’accordo militare tra Roma e Tripoli.

      I pochi elementi certi sono emersi grazie al caso giudiziario che ha portato questa primavera prima al sequestro e poi al dissequestro della nave Open Arms, fermata alla fine di marzo 2018 dopo un salvataggio in zona Sar, che aveva visto un duro scontro con le motovedette libiche. Attraverso le informative del comando generale della Guardia costiera italiana, i magistrati – prima di Catania e poi di Ragusa – hanno potuto ricostruire la gestione dei salvataggi del 15 marzo, quando il Mrcc di Roma aveva affidato il coordinamento delle operazioni alle motovedette libiche. Lì emergeva che la nave Capri della Marina militare italiana era intervenuta fin dalle prime ore del mattino parlando con Roma per conto di Tripoli e chiedendo espressamente di fermare l’intervento della Ong – le informative riportano anche un messaggio partito dall’addetto militare italiano a Tripoli.

      Dai brogliacci delle comunicazioni partite e ricevute dal Mrcc di Roma durante le operazioni di salvataggio si ricava inoltre che la Marina militare è intervenuta più volte – sia da unità navali inserite nell’operazione Nauras, sia dal Comando della squadra navale (Cincinav), che dipende direttamente dallo Stato maggiore della Difesa. Tra le carte dell’inchiesta c’è anche una relazione del comando di un’altra nave militare coinvolta, la Alpino – qui nelle vesti di polizia giudiziaria e presente a poche miglia dall’area di salvataggio dove stavano agendo contemporaneamente la Open Arms e la Guardia costiera di Tripoli.

      Lo stretto legame che esiste tra la Guardia costiera libica e la Marina Militare italiana appare ancora più evidente da un messaggio inviato dal comando delle motovedette libiche al Mrcc di Roma. Il numero di telefono del mittente – ovvero dell’autorità marittima libica – ha il prefisso +39 della rete italiana, e porta direttamente alla nave Capri. In altre parole, se chiami la Guardia costiera libica risponde la Marina militare italiana. E non è l’unico caso. Un paio di mesi dopo, la nave di soccorso tedesca Sea Watch ha ricevuto una telefonata dai libici durante un’operazione di salvataggio, che appariva sul display con un numero italiano.

      Quanto siano coinvolte la Marina militare e la Guardia costiera italiana nel respingimento dei migranti è un tema che presto verrà affrontato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, chiamata a discutere una denuncia presentata nei mesi scorsi contro le autorità di Roma.


      http://openmigration.org/analisi/themis-la-missione-di-frontex-voluta-da-minniti-di-cui-ora-dispone-ma
      #Eurtf #Mebocc #Eurosur #Eunavfor_med

    • Themis: la missione di Frontex voluta da Minniti di cui ora dispone Matteo Salvini

      Themis sostituisce la vecchia missione Triton, con un mandato allargato e che poco si concentra sugli sbarchi dalla Libia. Per la prima volta una missione dell’agenzia europea Frontex supporta le forze dell’ordine marittime di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” direttamente in mare.

      http://openmigration.org/analisi/themis-la-missione-di-frontex-voluta-da-minniti-di-cui-ora-dispone-ma
      cc @albertocampiphoto

  • Non vogliamo né un castello né una villa: viaggio fra i richiedenti asilo in Veneto

    In Veneto i lasciti della guerra fredda - ex basi e infrastrutture militari - sono stati ereditati dai migranti, che stipati in condizioni indecorose attendono giorni migliori nei centri di accoglienza, da Conetta a Bibione. Sara Manisera ha parlato con loro, tra fangose stradine di campagna e bucati stesi.


    http://openmigration.org/analisi/non-vogliamo-ne-un-castello-ne-una-villa-viaggio-fra-i-richiedenti-as
    #Friuli_Venezia_Giulia #Italie #logement #Vénétie #asile #migrations #hébergements #réfugiés

  • Alla fine del viaggio: il disagio psichico dei migranti nel nord Italia

    Traumi e torture che è difficile superare, ancor più nell’incertezza del futuro che accompagna l’attesa dopo aver fatto richiesta di asilo. Soprusi subiti, ricordi incancellabili, nevrosi, sindrome da stress post traumatico, autolesionismo e tentativi di suicidio. Se ne parla poco, ma rappresentano una parte importante del disagio delle persone migranti. Matteo Congregalli ha parlato con le persone che li assistono nel nord Italia nell’ambito della psichiatria ed etnopsichiatria, e che a volte non riescono a salvarli.

    http://openmigration.org/analisi/alla-fine-del-viaggio-il-disagio-psichico-dei-migranti-nel-nord-italia/?platform=hootsuite
    #Italie #Italie_du_nord #santé_mentale #asile #migrations #réfugiés #après_l'arrivée #traumatisme #trauma #torture #incertitude

  • « Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige » - Libération
    http://www.liberation.fr/france/2017/12/17/peut-etre-qu-au-printemps-on-retrouvera-des-corps-sous-la-neige_1617327
    http://md1.libe.com/photo/1081296-migration-en-brianconnais.jpg?modified_at=1513541927&picto=fb&

    De 1 500 à 2 000 migrants arrivés d’Italie ont tenté une dangereuse traversée des Alpes depuis trois mois. Traqués par les autorités, ils voient les villageois s’organiser pour leur venir en aide.

    Col de Montgenèvre, à 1 850 mètres d’altitude sur la frontière franco-italienne, samedi soir. Le thermomètre affiche -8 degrés sous abri, il y a près de 80 centimètres de neige fraîche. Joël (1), accompagnateur en montagne, court aux quatre coins de la station de ski située sur le côté français du col. Il croise deux migrants, des jeunes Africains égarés dans une rue, les met au chaud dans son minibus, puis repart. Dans la nuit, un hélicoptère tourne sans discontinuer au-dessus du col : la police de l’air et des frontières ? Depuis des mois, les forces de l’ordre sont à cran sur les cols des Hautes-Alpes. Elles tentent d’intercepter les migrants afin de les reconduire à la frontière où, majeurs ou non, ils sont déposés sur le bord de la route quelles que soient les conditions climatiques.

    Joël trouve trois autres migrants planqués dans la neige, apeurés, grelottant, baskets légères et jeans trempés raidis par le gel, puis sept autres encore, dont plusieurs frigorifiés. La « maraude » du montagnard lui aura permis ce soir de récupérer onze jeunes Africains. Peu loquaces, hébétés, ils disent avoir marché plusieurs heures depuis l’Italie pour contourner le poste frontière de Montgenèvre. Ils arrivent du Sénégal, du Cameroun ou du Mali, tous sont passés par la Libye et ont traversé la Méditerranée.

    Miraculé.
    Joël les descend dans la vallée, à Briançon, sous-préfecture située à 10 kilomètres de là. Ils sont pris en charge par les bénévoles du centre d’hébergement d’urgence géré par l’association Collectif refuge solidarité : bains d’eau chaude pour les pieds, vêtements secs, soupe fumante… Autour de ce refuge, où se succèdent jour après jour des dizaines de migrants, gravitent une centaine de bénévoles, citoyens de la vallée, qui se relaient auprès de ces jeunes hommes, africains dans leur immense majorité. Ces trois derniers mois, ils sont sans doute de 1 500 à 2 000 à avoir transité par Briançon, tous arrivés par la montagne, estime Marie Dorléans, du collectif local Tous migrants.

    Si ce samedi soir tout s’est passé sans drame au col de Montgenèvre (qui reste ouvert tout l’hiver), ce n’est pas le cas dimanche matin du côté du col frontalier de l’Echelle, à quelques kilomètres de là (fermé tout l’hiver en raison de la neige). D’autres maraudeurs, membres comme Joël, du même réseau informel d’une quarantaine de montagnards professionnels et amateurs, découvrent sous le col un jeune Africain originaire de Guinée-Conakry, Moussa. Il est à bout de forces, affalé dans la neige à près de 1 700 mètres d’altitude. Il a perdu ses chaussures : ses pieds sont insensibles, gelés. Il a quitté l’Italie avant l’aube. C’est un miraculé. Les maraudeurs appellent le secours en montagne qui l’héliporte très vite vers l’hôpital de Briançon. Anne Moutte, l’une des accompagnatrices du réseau, multiplie les maraudes depuis un an : « Les soirs où nous ne sortons pas, nous ne dormons pas bien. Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige. Ces jeunes n’ont aucune idée des risques de la montagne, des effets du froid. Ils ne font pas demi-tour. »

    Cache-cache.
    A Névache, le premier village au pied du col de l’Echelle, il y a des mois que l’on vit au rythme de l’arrivée des migrants. Lucie (1) fait partie d’un groupe d’une trentaine de villageois qui se sont organisés spontanément pour les accueillir, en toute discrétion et avec une efficacité remarquable. D’une voix décidée, elle explique : « Ils arrivent en pleine nuit au village, affamés, frigorifiés, épuisés, blessés parfois. On ne va pas les laisser repartir dans la nuit et le froid à travers la montagne ! On les nourrit, on les réchauffe, on leur donne un lit. C’est du simple bon sens, ça coule de source. Notre seul but, c’est qu’il n’y ait pas de morts ni de gelés près de chez nous. »

    Les migrants redoutent les gendarmes qui les reconduisent en Italie. Alors, Lucie et le réseau névachais les gardent le temps qu’ils se retapent et les aident ensuite à gagner la vallée. A pied, en voiture, un cache-cache stressant avec les gendarmes, avec lesquels les rapports sont très tendus. A Névache comme à Briançon, les fouilles de véhicules sont devenues ces derniers mois la règle et les bénévoles surpris avec des migrants à bord de leur voiture sont convoqués pour des auditions, sous la charge « d’aide à la circulation de personnes en situation irrégulière ». Anne Moutte, l’accompagnatrice maraudeuse, s’emporte : « C’est l’Etat, le préfet et les forces de l’ordre qui se rendent coupables de non-assistance à personne en danger ! »

    « Cimetière ».
    Ce week-end, le collectif Tous migrants organisait à #Briançon des « états généraux des migrants ». Des débats, des échanges avec le journaliste Edwy Plenel, l’agriculteur activiste de la Roya Cédric Herrou, des chercheurs, des élus, des militants. Marie Dorléans, présidente de Tous migrants, résume : « Nous voulons nourrir le débat sur notre devoir d’hospitalité, sur une autre politique migratoire, mais nous avons aussi un devoir face à une urgence humanitaire. Nous avons tous peur d’un drame sur nos cols. La militarisation massive de la frontière conduit les migrants à des prises de risques inconsidérées. » Ce sont les professionnels de la montagne, accompagnateurs, guides, pisteurs, moniteurs qui ont porté ce dernier message.

    Constitués en un collectif « SOS Alpes solidaires », ils ont regroupé 300 personnes symboliquement encordées sur les pentes du col de l’Echelle dimanche pour lancer un appel solennel : « La Méditerranée ne stoppe pas des personnes qui fuient leur pays. La montagne ne les stoppera pas non plus, surtout qu’ils en ignorent les dangers. Nous refusons que les Alpes deviennent leur cimetière. » Stéphanie Besson, l’un des piliers de l’appel, enfonce le clou : « Nous demandons à l’Etat de nous laisser faire notre devoir de citoyens. Qu’il cesse de nous empêcher de venir au secours de personnes en danger. Que nos cols soient démilitarisés si l’on ne veut pas y laisser mourir ou geler les migrants. » Quelques minutes plus tard, l’hélicoptère du secours en montagne survole la manifestation avec à son bord le jeune Moussa miraculé du jour. Sauvé par des montagnards solidaires et déterminés.
    François Carrel

    #migrants #Alpes #traque #contrôle #racisme

    • @reka Ah oui je l’avais oublié le hippie neo-fasciste lol
      Mais c’est aussi parce que je trouve assez fascinant que le gars (ou la meuf) ne se rende absolument pas compte du ridicule de sa situation. Il·elle est là en train de vociférer des menaces au milieu d’un groupe qui ne le calcule même pas et qui ne parle pas la même langue. C’est comme si je débarquais au congrès des jeunesses identitaires en récitant des poèmes de Khalil Gibran.
      Et en même temps les gars comme ça c’est des grands peureux, parce que derrière leur clavier c’est la guerre mais quand il y a de l’opposition physique c’est autre chose. Parce que le migrant sans chaussure, @francoiscarmignola1 tu lui marcheras peut-être sur la gueule pour qu’il crève plus vite mais mon voisin dans la cité qui passe son temps à la salle de sport, tu vas t’empresser de lui faire un sourire et de t’aplatir pour lui tenir la porte, même en 1 contre 1. Vos opérations baston c’est toujours à 10 contre 1 ou contre des gens diminués physiquement, on sait jamais vous pourriez vous péter un ongle lol Mais continue à te donner l’illusion du surhomme aryen, si t’as que ça dans la vie je comprends que tu y tiennes, même si paradoxalement tu n’as pas peur du ridicule en restant ici à te prendre pour le nouveau penseur de Valeurs actuelles.

    • Migrants : « On ne peut pas accepter qu’il y ait des gens qui meurent dans nos montagnes »

      Parce qu’ils ne veulent pas laisser des personnes mourir de froid en traversant la frontière franco-italienne, collectifs et associations, dont « Tous Migrants », ont organisé ce week-end une cordée solidaire. Lors de cette cordée symbolique, ils ont secouru un jeune homme transi de froid, bloqué dans un couloir d’avalanche. #Etienne_Trautmann, qui a appelé les secours et filmé l’hélitreuillage raconte à « l’Obs » comment il a réussi porter secours à Moussa, 22 ans. Tout en insistant : « Je ne me sens pas le héros de ce secours, pour moi le vrai héros c’est Moussa, qui a bravé tous les dangers pour trouver une terre d’accueil plus hospitalière ». Voici son témoignage.

      http://tempsreel.nouvelobs.com/videos/vlz5k3.DGT/migrants-on-ne-peut-pas-accepter-qu-il-y-ait-des-gens-qui-meure

      Transcription d’une partie de l’interview de Etienne Trautmann :

      Etienne Trautmann (dans la vidéo son affiliation est la suivante "Collectif citoyens solidaires professionnels de la montagne) :
      « Nous on ne peut pas accepter qu’il y ait des gens qui meurent dans nos montagnes. Actuellement l’Etat, et je pèse mes mots, essaie de faire en sorte que la solidarité soit un délit. Nous, professionnels de la montagne on dit qu’on ne peut pas accepter cela. On essaie de nous mettre hors-la-loi en arrêtant des gens qui vont faire preuve de solidarité en prenant par exemple en stop des jeunes qui sont frigorifiés, qui ont besoin d’aide, et ça, nous, on ne peut pas l’accepter. Il y a des gendarmes qui interviennent, notamment dans la Vallée de la Clarée, et qui sont clairement là pour attraper les migrants. Il y a 2-3 semaines quand je suis passé, ils étaient dans une petite piste à la sortie d’un pont, et ils essaient d’attraper les jeunes à ce moment-là. Les informations tournent vite. D’une part ils passent par des cols extrêmement dangereux et par exemple ils traversent les rivières, non pas par les ponts, ils traversent avec leurs chaussures… Les pieds mouillés comme cela, je leur donne un quart d’heure avant que les gelures apparaissent et qu’on arrive après à l’amputation. C’est pas possible. »
      Sur le secours de Moussa : "J’ai essayé de lui dire qu’il était en sécurité là où il était, qu’il était pris en charge, qu’il allait pouvoir manger, qu’on allait pouvoir s’occuper de lui. Quand je vous en parle, c’est pas évident, parce qu’en disant cela je sais que je mentais, parce que clairement, car aujourd’hui pour un réfugié, et notamment de 22 ans, majeur, pour lui le parcours de l’enfer, il continue. Il vient de Guinée-Conakry, j’imagine qu’il a dû être confronté à toutes les horreurs qu’on peut trouver en Libye, certainement emprisonné, travailleur de force, la traversée de la Méditerranée certainement dans de mauvaises conditions… Et son parcours de l’enfer il continue ici en France, aujourd’hui. Et il va continuer. On est confronté à une valeur d’humanité, de fraternité, c’est des valeurs qu’en allant à l’école… c’est ces valeurs républicaines qu’on m’a transmises. Et aujourd’hui on me dit « non », mais mes enfants sont à l’école et devant le fronton de la mairie juste à côté c’est ces valeurs qui sont marquées : liberté, égalité, fraternité."

    • Posté par Valerio Cataldi sur FB :

      Bubbaka ha 17 anni e corre come un fulmine.
      Corre nella neve che gli arriva alla vita e gli strappa le scarpe da ginnastica dai piedi. Quando cade chiede aiuto a sua madre, poi si rialza e riparte.
      Bubbaka viene dal Mali. Vuole andare in Francia e nessuno lo potrà fermare. Non lo hanno fermato il deserto, i miliziani libici, il mediterraneo. Neanche la Gendarmerie che lo riporta indietro a Bardonecchia, in Italia.
      Non lo ferma neanche la neve.

      https://www.facebook.com/valerio.cataldi.35/posts/10214953897031357?comment_id=10214954554047782&notif_id=1514213178803818&n

      Lien vers le reportage sur le site de la télé italienne :
      http://www.tg2.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d37b0006-8998-4c51-8222-bf1e31179170-tg2.html

    • Il 7 gennaio camminata da Claviere a Montgenèvre

      Il gruppo Briser les Frontières ha organizzato per domenica 7 gennaio una camminata da Claviere a Montgenèvre dal titolo Marcher pour Briser les Frontières

      Camminata contro le frontiere, per muoversi liberamente!
      Da Claviere a Montgenèvre.

      Domenica 7 gennaio alle ore 11.00
      Appuntamento al parcheggio di via Nazionale a Claviere.
      Con abbigliamento adeguato per una camminata sulla neve.

      Le frontiere non esistono in natura,
      sono un sistema di controllo.
      Non proteggono le persone, le mettono una contro l’altra.
      Non favoriscono l’incontro, ma generano rancore.
      Le frontiere non dividono un mondo da un altro,
      c’è un solo mondo e le frontiere lo stanno lacerando!

      L’indifferenza è complicità!

      Per Info: +39 3485542295

      (In caso di maltempo l’iniziativa si farà la domenica successiva)


      https://rbe.it/2017/12/28/camminata-7-gennaio

    • ON Y VA’ - alcune storie dalla Val di Susa di confine

      Alcune interviste fatte tra le montagne della Valle di Susa. Dove da mesi moltissime persone che vogliono oltrepassare il confine verso la Francia sono costrette a farlo rischiando la vita.

      https://www.facebook.com/briserlesfeontieres/videos/1537002486391870
      #vidéo #témoignages #parcours_migratoires #itinéraire_migratoire
      Une personne dit avoir essayé déjà une fois d’aller en France (il a remonté l’Italie depuis #Crotone), mais avoir été renvoyée. Renvoyée à #Taranto, puis à #Roccasecca
      #migrerrance

    • Bilan des états généraux pour les migrants : entre inquiétudes et espoirs

      Entre tables ronde et chaîne humaine au col de l’Échelle, le week-end consacré aux migrants et aux migrations a rassemblé beaucoup de monde, près de 1000 personnes au total dont plus de 300 dans la neige et le froid du col de l’Échelle. Une conférence de presse, ouverte au public, a conclu ces deux journées. Le bilan par #Marie_Dorléans, du mouvement citoyen Tous Migrants.

      https://vimeo.com/247766714?ref=tw-share

    • Bardonecchia. Cattolici e protestanti insieme per i profughi a piedi sulle Alpi

      Parrocchie cattoliche, comunità protestanti, associazioni, volontari del soccorso alpino italiano e francese, da settimane cercano di portare al riparo i migranti che si avventurano verso la Francia

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lecumenismo-solidale-lungo-la-rotta-bianca

    • Nella neve e nel ghiaccio la marcia dei migranti attraverso le Alpi

      A decine ci provano ogni settimana, quando la temperatura scende a meno venti. Dall’Italia alla Francia. Senza equipaggiamento e nel bianco abbagliante. Senza nemmeno un paio di stivali. Ma l’anno scorso, come in questo nuovo anno, si mettono in cammino verso una nuova vita. Al gelo, affondando i piedi nel ghiaccio che copre quasi tutto, a quasi duemila metri d’altezza, lungo il passo alpino che separa il suolo francese da quello italiano: i migranti sono in marcia.

      https://left.it/2018/01/02/nella-neve-e-nel-ghiaccio-la-marcia-dei-migranti-attraverso-le-alpi

    • Bardonecchia, migrante in fuga verso la Francia sommerso da un metro e mezzo di neve: salvato in extremis

      Tragedia sfiorata. Recuperato dal soccorso alpino francese avvisato dalla moglie che con i due figli lo attendeva a Briancon. Attivisti francesi aiuteranno i migranti costreuendo un igloo di protezione

      http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/12/31/news/bardonecchia_migrante_in_fuga_verso_la_francia_sommerso_da_un_metro_e_mezzo_di_neve_salvato_in_extremis-185572545/?refresh_ce

    • Nella neve e nel ghiaccio la marcia dei migranti attraverso le Alpi

      A decine ci provano ogni settimana, quando la temperatura scende a meno venti. Dall’Italia alla Francia. Senza equipaggiamento e nel bianco abbagliante. Senza nemmeno un paio di stivali. Ma l’anno scorso, come in questo nuovo anno, si mettono in cammino verso una nuova vita. Al gelo, affondando i piedi nel ghiaccio che copre quasi tutto, a quasi duemila metri d’altezza, lungo il passo alpino che separa il suolo francese da quello italiano: i migranti sono in marcia.

      https://left.it/2018/01/02/nella-neve-e-nel-ghiaccio-la-marcia-dei-migranti-attraverso-le-alpi

    • Briançon : le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre ouverte au chef de l’État

      Au lendemain des États généraux de la migration qui se sont tenus à Briançon les 16 et 17 décembre, le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre à Monsieur Emmanuel Macron, président de la République :

      "À Névache, dans les Hautes-Alpes, la neige tombe depuis plusieurs jours, la Lombarde est parfois brutale ! Les températures nocturnes passent maintenant entre 10 et 15 degrés sous zéro, mais les migrants venant d’Italie continuent d’arriver... Jeunes, souvent mineurs, ils tentent le passage du Col de l’Échelle (1 700 m) pour rejoindre ensuite Briançon ; 20 km à pieds si aucun automobiliste ne veut ou ne peut les prendre en charge. À moins qu’un fourgon de gendarmerie ne les intercepte pour les reconduire à la frontière, de jour comme de nuit, sans tenir compte de la réglementation concernant les mineurs isolés ou les demandeurs d’asile. Ils ont des ordres, disent-ils ! Des ordres pour ne pas respecter la réglementation ? Ces migrants, d’Afrique subsaharienne et le plus souvent francophones, sont pourtant prêts à tout pour rejoindre notre pays et y rester pour reconstruire dignement leur vie en travaillant. Nous devrions en être fiers. Dans les conditions actuelles, nous les accueillons comme des terroristes en leur appliquant une législation antiterroriste qui n’a pas été faite pour eux ! La lecture du code Schengen des frontières est, à cet égard, très claire. Vous avez, nous dit-on, découvert récemment, à la suite d’un reportage de CNN, l’horreur des marchés aux esclaves de Tripoli. Quelques contacts directs avec les Névachais ou les Briançonnais vous en auraient appris bien davantage, depuis deux ans au moins. Ancien officier formé à Saint ?Cyr, je m’interroge sur ce que pouvaient bien faire nos services de renseignement !? Pourtant, mais vous n’avez pas abordé cette question en nous parlant des marchés de Tripoli, l’Union Européenne (dont l’Italie et la France) paît les gardes ?côtes libyens pour récupérer en mer un maximum de migrants et les renvoyer en Libye ; où ils les revendent peut ?être, une deuxième fois ?

      L’Union Européenne et notre pays (qui revendiquent leurs racines chrétiennes quand cela les arrange) contribuent ainsi au bon fonctionnement d’un commerce que l’on croyait à jamais disparu. Bilan de ce long voyage : lorsqu’il parvient sur notre territoire, un migrant a souvent perdu le tiers de ses compagnons de route entre le Sahara, la Libye, la Mer Méditerranée et la France. Aujourd’hui, l’hôpital de Briançon en ampute certains qui ont « pris froid » dans la montagne au péril de leur vie. Devons nous attendre des morts pour que nos institutions réagissent humainement ?
      On comprend que, pensant arriver dans la commune de Névache au terme d’un voyage qui aura souvent duré deux ans, rien ne les empêchera de s’engager dans la traversée du col de l’Échelle, quelles que soient les conditions. Pour nous, Névachais, l’impératif humanitaire s’impose même si les forces de l’ordre s’efforcent de nous en dissuader. Il faut les retrouver si possible, les recevoir, les remettre en forme, les soigner puis les conduire à Briançon où ils pourront commencer à traiter leurs problèmes administratifs avec les associations en charge de ces questions.

      Au cours du mois de décembre, nous avons dû, à six reprises au moins, faire appel au « Secours en Montagne » pour leur éviter la mort, non sans éviter gelures et traumatisme divers. Pas encore de morts reconnus, mais cela viendra, Monsieur le Président. Et tout cela avec des bénévoles non seulement sans aide de l’État mais au contraire sous la menace des forces de maintien de l’ordre. À vouloir faire oeuvre humanitaire, nous Névachais et Briançonnais, sommes traités comme des délinquants ! On nous interdit de prendre un Africain en stop, quelles que soit la température et l’heure !
      Briançon : le Collectif Citoyen de Névache adresse une lettre ouverte au chef de l’État - 2

      Depuis quand l’automobiliste devrait-il refuser un passager au seul vu de sa couleur ? Dans la Clarée, Monsieur le Président, nous refusons l’apartheid ! Quelles que soient les menaces, nous ne pouvons refuser l’action humanitaire, à commencer par le secours à personnes en danger, lorsque les pouvoirs publics abandonnent cette mission. Les ordres reçus ne sont pas de pratiquer une action dignement humaine mais de renvoyer en Italie un maximum de migrants au mépris de leurs droits. Où est la solidarité européenne, Monsieur le Président ?

      Monsieur le Président, je sais que nous ne sommes pas les seuls français dans cette situation. Vous vous trouvez dans une position qui durera aussi longtemps que l’on ne prendra pas le mal à ses sources, réchauffement climatique, sous développement de nos anciennes « colonies » et autres. Vous savez vendre des avions, pour tuer ! Pouvez-vous prendre en considération la misère de ces migrants, comme le Pape François y invite nos contemporains ?

      Les Névachais et les Briançonnais, respectueux de la loi, sont prêts à travailler avec les services de l’État pour trouver des solutions, à condition que l’État accepte de les entendre, ce qui n’a pas encore été le cas, et de les entendre sans vouloir en faire des auxiliaires de police ! Nous pourrons alors retrouver la fierté de nos cimes et redonner à notre pays l’honneur qu’il est en train de perdre et que nous perdons tous avec lui.

      Souvenons-nous de ces milliers d’Africains morts pour la France au cours des deux dernières guerres mondiales. Ce sont leurs petits-enfants que nous devrions laisser mourir dans la neige ? Pour l’ancien Saint-Cyrien que je suis, dont la promotion porte le nom d’un colonel Géorgien mort au combat, de telles perspectives sont insupportables, Monsieur le Président. Nous comptons encore sur vous mais le temps presse."

      Bernard Ligier - citoyen de Névache

      http://www.laprovence.com/article/societe/4774520/briancon-le-collectif-citoyen-de-nevache-adresse-une-lettre-ouverte-au-c

    • Histoires de frontières #1, sur Radio Canut

      Mardi 9 janvier à 20h, Radio Canut (102.2FM à Lyon ou en streaming n’importe où ailleurs) diffuse deux documentaires sur les parcours des migrantEs dans les Alpes, la militarisation des frontières, mais aussi sur les luttes et solidarités en cours.

      Deux reportages de 30min chacun sont au programme :

      Un entretien réalisé fin décembre au squat Chez Marcel à Briançon qui permet de revenir sur l’aventure de ce lieu d’accueil, la situation à la frontière italienne dans les Hautes-Alpes mais aussi sur les enjeux et les perspectives des luttes actuelles.

      Un montage de différentes interventions lors de la soirée de soutien et d’information qui a eu lieu à Lyon le 14 décembre dernier. Prise de paroles de migrants et témoignages sur la situation à Ventimiglia (Italie), Briançon et Lyon.

      En direct, mardi 9 janvier à 20h sur Radio Canut (102.2FM en région lyonnaise ou en streaming via ce lien de n’importe où ailleurs).

      Les deux reportages seront ensuite disponibles en podcast sur les sites suivants :
      https://blogs.radiocanut.org/sav
      http://www.internationale-utopiste.org

      https://rebellyon.info/HISTOIRES-DE-FRONTIERES-1-sur-Radio-Canut-18562

    • Da Bardonecchia a Briançon, in viaggio con i migranti sulle Alpi

      Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.

      https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2018/01/09/bardonecchia-briancon-alpi-migranti

    • Une cordée solidaire au lieu d’une frontière

      La frontière n’a pas de pouvoir. La frontière ne tue pas. La frontière, en soi, n’existe pas. Toute frontière est le fruit de l’esprit d’hommes et de femmes qui ont le pouvoir de décider si elle est une ligne de contact, d’échange, de partage, ou un lieu de crispation, de frottement, de crise.

      https://www.lacite.info/hublot/cordee-solidaire-vs-frontiere

    • Col de l’Echelle : une quarantaine de bénévoles convoqués pour « délit de solidarité »

      Quand ce ne sont pas les journalistes qui sont visés, les bénévoles locaux, engagés notamment dans les maraudes de soutien, sont les autres victimes de ces contrôles : une quarantaine de personnes aurait ainsi déjà été convoquée au titre de l’article L. 622-1 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, qui sanctionne l’aide à l’entrée, à la circulation et au séjour irréguliers d’un étranger en France – ce que l’on appelle plus communément le « délit de solidarité ». « Les bénévoles qui aident ne sont pas des délinquants, ce sont des héros » défend Eric Piolle. Une situation qui ne fait que confirmer le tour de vis anti-migratoire des politiques françaises en la matière, condamnées ce week-end pour « complicité de crime contre l’humanité » par le Tribunal permanent des peuples.

      https://www.bastamag.net/Col-de-l-Echelle-une-quarantaine-de-benevoles-convoques-pour-delit-de
      #délit_de_solidarité

    • Val Susa, No border in marcia sulla neve: “Migranti rischiano la vita qui sulle montagne, ospitalità è nostro dovere”

      Attivisti no borders italiani e francesi insieme, circa mille persone domenica 14 gennaio hanno marciato sulla neve, attraversando il confine italo-francese di Claviere. Un corteo che ha percorso la stessa strada dei migranti, organizzato per protestare contro la militarizzazione delle frontiere. Quella alpina, nonostante il gelo e il rischio di morire assiderati, è una rotta sempre più battuta da coloro che cercano di arrivare in Francia, soprattutto dopo la chiusura dei confini a Ventimiglia. “I migranti continuano ad arrivare rischiando la loro vita sulle montagne – raccontano gli attivisti della rete solidale Briser la frontier – e questo è il risultato delle politiche di chiusura delle frontiere a Ventimiglia e negli altri confini”

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/14/val-susa-no-border-in-marcia-sulla-neve-migranti-rischiano-la-vita-qui-sulle-montagne-ospitalita-e-nostro-dovere/4092370

    • #Migrants risk death crossing #Alps to reach #France

      It took Abdullhai (below) almost three years to get from his home in Guinea to a rocky, snow-covered Alpine mountain pass in the dead of winter, for what he hopes will be the final stage of his journey into France.

      The terrain is steep and dangerous and he and a group of five other migrants face risks ranging from losing their footing on steep drops, being struck by falling rocks or succumbing to the -9C (15°F) temperatures in clothing ill-suited to the terrain.


      https://widerimage.reuters.com/story/migrants-risk-death-crossing-alps-to-reach-france

    • Italy: March supporting migrants who make deadly Alps crossing

      Italian pro-migration activist group #Briser_les_frontières marched on the French-Italian mountain border near Claviere and Moginevro on Sunday to protest migration laws at borders preventing the sanctuary of refugees. The activists carried pro-migration banners as they travelled between the two mountains in a similar route which asylum seekers have been known to cross to get between countries often at great risk. Italian and French mountain police blocked their paths however for most of the protest, but activists eventually reached their destination by staying close to the ski slopes. Briser Les frontieres solidarity network member Daniele Brait explained: “In recent months there have been many attempts to cross the border into the Alps that seem to have become the new Mediterranean. People who have managed to survive the sea today risk their lives in these mountains.” Migrants are known to regularly attempt to traverse the Colle della Scala (Cole de l’Echelle in French) in freezing temperatures some 1800 metres above sea level between Italy and France, resulting in the death of many. SOT, Nicoletta Dosio, No-Tav movement spokesperson (Italian): “The motivations that bring us here today is to express solidarity and to reiterate that the World with the borders is a world that does not serve and we don’t want.” SOT, Nicoletta Dosio, No-Tav movement spokesperson (Italian): “This Europe, which is the Europe of Maastricht, is a fortress that exploits the countries of the South of the world with the war and does not allow the poor of the Earth, who have become poor because of this exploitation, to cross its borders.” SOT, Daniele Brait, Briser Les frontieres solidarity network member (Italian): “In recent months there have been many attempts to cross the border into the Alps that seem to have become the new Mediterranean. People who have managed to survive the sea today risk their lives in these mountains.” SOT, Daniele Brait, Briser Les frontieres solidarity network member (Italian): "One of the rules of the mountain, as well as one of the rules of the sea, is that people who need help, a warm place, a blanket, a jacket, even just something like a hot dish, are not abandoned.” SOT, Briser les frontieres Activist (Italian): “Italy has always done business with Libya where there are detention centers that are lager.” SOT, Briser les frontieres Activist (Italian): “It finances them with the excuse of fighting terrorism and managing migration flows. In these camps people are tortured and women raped.”

      https://www.youtube.com/watch?v=zxELo_bJG4c&feature=share

    • Quando non esisteranno più frontiere, nessuno morirà per attraversarle. Aggiornamenti dalla route des Alpes

      Domenica 14 gennaio la rete di solidarietà Briser les frontières (abbattere le frontiere) ha indetto una camminata lungo la frontiera con la Francia contro i confini e per la libera circolazione delle persone.

      Alla chiamata hanno risposto circa un migliaio di persone provenienti dalla Val Susa - le immancabili bandiere No Tav, stavolta insieme a quelle No Border, sventolavano tra la folla -, da Torino e dalla Francia. Una valle in cui la rete Briser les frontières non può fare a meno di sottolineare l’ipocrisia di politiche che mentre distruggono l’ambiente per far muovere liberamente merci e turisti lungo le linee ad Alta Velocità “chiudono tutti gli spazi a coloro che non gli rendono il giusto profitto, preparando il terreno di quello che rischiano di far diventare l’ennesimo cimitero a cielo aperto”, scrivono su un volantino.


      http://www.meltingpot.org/Quando-non-esisteranno-piu-frontiere-nessuno-morira-per.html

    • Autres montagnes, toujours froid et neige qui mettent les réfugiés en danger... mais là, c’est au #Liban :

      Des réfugiés, piégés par la neige, meurent de froid

      Une dizaine de réfugiés syriens — dont des femmes et des enfants — ont péri dans les montagnes libanaises enneigées.

      https://www.lematin.ch/monde/refugies-pieges-neige-meurent-froid/story/21301145

      Un ami syrien a posté sur FB cette photographie, apparemment de la famille dont parle l’article ci-dessus.

      Son commentaire :

      Cette famille syrienne est morte congelée aux frontière syro-libanaises, par l’interdiction des milices de Hozballah, ceux qu’ils échappent les bombardements les frontières les congèlent

      Le commentaire en arabe d’une autre personne, à l’origine du post sur FB :
      ماتوا بردا وألما في جبال لبنان الشرقية بالقرب من بلدة الصويري

      ...
      يارب إرحم السوريين فقد ضاقت بهم الدنيا وتسكرت أمامهم السبل .
      أردوا الدخول عبر الجبال تهريبا هربا من الموت
      فكان الموت إنتظارهم.

      La dernière partie de la citation en arabe devrait dire, si google translate fait bien son boulot :

      Ils voulaient entrer dans les montagnes pour échapper à la mort et la mort les attendait.

      Selon une brève recherche google pour essayer de trouver l’origine de l’image, voici ce qui semblerait être la première fois que cette image a été mise sur internet :
      http://www.mansheet.net/Akhbar-Aalmyh/1478462/%D9%85%D8%AC%D8%B2%D8%B1%D8%A9-%D9%84%D9%84%D8%A7%D8%AC%D8%A6%D9%8A%D9%86-

      Syria conflict : 15 refugees found frozen to death

      Fifteen Syrian refugees - some of them children - have been found frozen to death while trying to cross the mountainous border into Lebanon.

      http://www.bbc.com/news/world-middle-east-42758532

      Suite au commentaire de @ninachani, j’ai enlevé les images, que j’ai décidé tout de même de laisser sur seenthis, mais sur en faisant un billet à part :
      http://seen.li/eb37

    • Pierre, accompagnateur en montagne : « Nous ne sommes pas des passeurs »

      A la différence des guides de haute montagne, qui encadrent l’alpinisme, l’escalade ou le ski, l’activité des accompagnateurs en montagne se concentre sur la randonnée pédestre en été et en raquette l’hiver. Ils transmettent des connaissances sur le milieu montagnard, la faune, la flore, le patrimoine et l’histoire des territoires parcourus. Pierre, qui a préféré conserver l’anonymat, est accompagnateur en montagne depuis une dizaine d’années dans le Sud-Est de la France et habite dans le Briançonnais, dans le département des Hautes-Alpes. Il explique comment s’organise l’aide aux migrants qui traversent, au péril de leur vie, les cols de l’Echelle ou de Montgenèvre pour rallier la France.


      https://www.alternatives-economiques.fr/pierre-accompagnateur-montagne-ne-sommes-passeurs/00082620

    • Puntata 87 | #Briser_les_frontiers

      Domenica 14 gennaio Briser les frontiers, una marcia popolare sulla neve, si è portata al confine Italia Francia per accendere i riflettori su una frontiera (mobile per le merci ma sempre più ostica per gli umani) che racconta le nuove rotte migranti e l’inutilità del concetto stesso di confine.


      http://amonte.info/picchi-di-frequenza/puntata-87-briser-les-frontiers

    • Montagnes, migrants en péril

      Entretien depuis le Bus Cartouche à Genève avec Cristina Del Biaggio, maîtresse de conférence à l’Université de Grenoble et géographe spécialiste des questions de migration et des frontières.

      Le col de l’Échelle dans les Haute-Alpes, théâtre tragique du passage de personnes migrantes. Le froid implacable et le manque d’équipement à l’origine d’un drame humain dont on ne mesure pas encore l’étendue...

      http://audioblog.arteradio.com/post/3082548/montagnes__migrants_en_peril

    • Bardonecchia, le nouveau mur où échouent les espoirs des migrants

      « On n’a rien à perdre. Sans travail et sans argent, nous sommes prêts à prendre tous les risques pour parvenir à franchir cette frontière », assure un jeune Guinéen qui préfère ne pas donner son nom.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/bardonecchia-le-nouveau-mur-ou-echouent-les-espoirs-des-migra

    • Dodging Death Along the Alpine Migrant Passage

      Along the dangerous Alpine route from Italy to France, Annalisa Camilli of Internazionale meets young migrants desperate to reach northern Europe, and the local volunteers trying to make sure their villages are not another deadly stop on the migration trail.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2018/01/25/dodging-death-along-the-alpine-migrant-passage

    • Quand il s’agit d’une alpiniste française en difficulté dans l’Himalaya, des « secours hors normes » sont mis en place pour lui venir en aide, nous dit Ledauphine.com. Fort heureusement d’ailleurs.

      Mais s’il agit des personnes à la peau noire à la recherche d’un refuge en danger sur le Col de l’Echelle, alors là, ce ne sont pas les « secours mis en place » qui sont « hors norme », mais les forces de police, qui, au lieu de les secourir, les refoulent en Italie.

      Selon la nationalité, l’humanité n’a pas droit au même traitement.

    • GRAND FORMAT. Briançonnais, ce sont eux, les premiers de cordée solidaire !

      Plus d’un millier de Briançonnais se sont mobilisés pour parer aux urgences des migrants qui arrivaient à leurs portes dans les pires conditions. Une chaîne exceptionnelle portée par la fraternité. Rencontre avec ceux qui donnent sens à la dignité.

      https://www.humanite.fr/grand-format-brianconnais-ce-sont-eux-les-premiers-de-cordee-solidaire-6498

      signalé par @vanderling sur seenthis : http://seen.li/e9tu

    • Serait-il possible d’enlever la photo de la famille syrienne morte qui est insoutenable à regarder ? Comme en plus il n’y a pas d’avertissement, on tombe dessus sans être préparé. Par respect aussi pour leur dépouille. Mettre éventuellement un lien vers la photo avec un avertissement avant ?

    • bonjour @ninachani, je me suis beaucoup interrogée sur le fait de mettre (ou pas) cette photo. Je ne l’ai pas partagée sur les réseaux sociaux (je l’ai vu la première fois sur FB), justement pour une question de respect ou de malaise ou je ne sais pas bien pourquoi. Mais j’ai décidé de la mettre sur seenthis, petit réseau social, pour une espèce de rappel : les frontières fermées, c’est cela. C’est des morts, des cadavres, des pertes de vie. Et j’ai décidé de laisser les images pour cela, pour qu’on ne l’oublie pas... mais si ça dérange trop et trop de personnes, oui, on pourrait penser à enlever, mais je préfère personnellement laisser.

    • On sait que les frontières fermées c’est cela, surtout les personnes qui ont suffisamment lu tous les commentaires pour en arriver là où tu postes la photo. Si au moins il y avait un lien à cliquer pour ne pas que la photo apparaisse comme ça directement, mais là sans avertissement c’est pas possible (même si pour moi avertir ne suffit cependant pas).
      Ça n’apporte rien et c’est un manque de respect vis à vis des morts. Déjà qu’ils sont victimes, utiliser l’image de leurs corps morts sous couvert de militantisme c’est continuer à les exploiter.
      De plus, ces gens étaient peut-être musulmans et en Islam dès qu’on est mort il faut absolument recouvrir le corps pour les soustraire à la vue des vivants. Ce n’est pas parce que les grands medias s’autorisent à leur manquer de respect en considérant leurs corps comme des moyens de faire de l’audience qu’il faut imiter leurs pratiques.

      Voici le lien vers le texte politique d’un·e militant·e noir·e sur ce sujet que je t’invite fortement à lire :
      https://www.cases-rebelles.org/une-image-mille-mots-et-des-baffes-qui-se-perdent

      Enfin, cette image se retrouve sous l’article que j’ai mis en lien, donc associée à mon compte, et cela me gêne fortement puisque je trouve cette image indécente et irrespectueuse pour ces mort·e·s.

    • Nevica ancora sulla rotta di montagna

      Nevica ancora, sul passo del Colle della Scala, sulla rotta da Bardonecchia a Briançon, e su quella nuova che si è aperta sulla pista da sci di Claviere. I giovani migranti affrontano il cammino in scarpe da ginnastica tentando di arrivare in Francia. Lorenzo Sassi ed Emanuele Amighetti hanno passato un po’ di tempo con loro - e con gli abitanti del posto che si adoperano per aiutarli in armonia con la legge della montagna.


      http://openmigration.org/analisi/nevica-ancora-sulla-rotta-di-montagna

    • Une réflexion sur la #montagne, vue dans le cadre de l’expo/atelier « Drawing on the move » :


      Ici plus d’info sur l’atelier :
      http://blog.modop.org/post/2018/02/Atelier-participatif-Drawing-experience-on-the-move

      C’est le témoignage d’un réfugié, qui a transité par la vallée de #La_Roya (et non pas Briançon).
      Les témoignages ont été récoltées par Morgane et Mathilde chez #Cédric_Herrou

      Je transcris ici le texte d’Alex :

      « J’aime cette photo car j’ai vécu tellement d’histoires dans cette montagne : par exemple j’avais faim, j’avais soif, j’étais fatigué. C’est pour cela qu’il est important pour moi de me souvenir de l’histoire de ma vie. La police m’a aussi arrêté dans cette montagne. Je ne peux donc pas oublier cette montagne ».

    • Les citoyens passeurs au secours des migrants

      De plus en plus de migrants tentent de quitter l’Italie en franchissant les Alpes. Une des voies les plus employées se trouve en France dans une station de ski proche de Briançon. Redoutant de voir ces migrants mourir de froid dans leur périple, des citoyens leur viennent en aide au risque de finir en prison.

      https://www.rts.ch/play/tv/mise-au-point/video/les-citoyens-passeurs-au-secours-des-migrants?id=9345564&startTime=7.951655&stat

      Je transcris ici les mots prononcés par la représentante du gouvernement de la préfecture de Gap :
      « Moi je considère que c’est de l’incitation. Aider un étranger en situation irrégulière à traverser une frontière c’est illégal »
      Journaliste : « Pour vous c’est des incitateurs ou des passeurs ? »
      "C’est la même chose. Il y a une différence entre les passeurs rémunérés et les passeurs qui font cela pas pour une motivation financière. Mais l’accueil crée un #appel_d'air. Moi, je ne peux pas jeter la pierre à quelqu’un qui va voir passer sous ses fenêtres un étranger en situation irrégulière alors qu’il fait froid, alors qu’il fait nuit et que la personne soit accueillie quelques heures. Je ne peux pas leur jeter la pierre, mais tout comportement de ce type-là, a fortiori si c’est un comportement réfléchi, structuré et organisé, et c’est le cas par bien de structures associatives du briançonnais, crée une incitation, bien évidemment"

    • Rescuing Migrants Fleeing Through the Frozen Alps

      Vincent Gasquet is a pizza chef who owns a tiny shop in the French Alps.

      At night, he is one of about 80 volunteers who search mountain passes for migrants trying to hike from Italy to France.

      The migrants attempt to cross each night through sub-zero temperatures. Some wear only light jackets and sneakers, and one man recently lost his feet to frostbite.

      “If the Alps become a graveyard, I’ll be ashamed of myself for the rest of my life,” Mr. Gasquet said.

      The migrants often head for #Montgenèvre, a ski town nestled against the border. France offers them more work and a chance at a better life.

      One night, Mr. Gasquet got a call from a group that had crossed into Montgenèvre. They got his number through word of mouth.

      To evade border police checkpoints, the migrants follow paths through the forest, often at night, when it is easy to get lost.

      “Ninety percent of them have never seen snow in their lives,” he said. “Some of them say, ‘We’ve seen it on TV,’ but on the TV, you don’t feel the cold.”

      He drove to find them.

      The work is risky. Helping anybody enter or travel in France without valid paperwork is technically illegal.

      When he reached Montgenèvre, four young men from eastern Africa were shivering behind a snow bank, while another stood in the street. He hurried them into his car and drove them to a shelter.

      It would have been a perilous walk after hours in the snow.

      On another night, Mr. Gasquet and other volunteers set out by car and on foot.

      They spotted a group walking through the snow and hurried them into the car and to a shelter called Le Refuge.

      Here, the new arrivals can get warm, have a hot meal and change into dry clothes.

      “It’s not my place to say whether or not I want migrants in my country. That’s a job for the politicians,” Mr. Gasquet said.

      “All I know is that I don’t want people dying in front of my door.”

      https://www.nytimes.com/interactive/2018/02/22/world/europe/alpine-rescue.html?action=click&module=Top%20Stories&pgtype=Homepage

    • Ivorian migrant mourns ‘four lost years’ on road to Europe

      Soumahoro ploughed on, moving up through Italy, sleeping seven to a tent in the middle of winter.

      Eventually he heard that west Africans like him were heading to France through the Echelle pass in the Alps — perilous, at 1,762 metres (5,780 feet), but with no border crossing.

      He entered France in January 2017, taking two days to cross the mountain.

      With the help of local volunteers, he has finally been accepted onto a training course as a carer while still waiting for his asylum claim to be processed.

      But his days are lonely and full of uncertainty.

      “I don’t have a fixed place where I can stay, I go from family to family,” he said.

      “You ask yourself what you’re doing here. You tell yourself you’re good for nothing. A man’s life shouldn’t be about staying put and doing nothing; you want to feel useful.

      “You want to feel like you’re contributing something positive to society.”


      https://www.capitalfm.co.ke/news/2018/03/ivorian-migrant-mourns-four-lost-years-road-europe

    • A la frontière franco-italienne, migrants et bénévoles piégés par des #passeurs

      Mais depuis février, l’aide des bénévoles est compliquée par un nouveau phénomène : le business de plus en plus florissant de passeurs sévissant dans la gare de Turin (Italie). Selon les témoignages de migrants, ces passeurs sont francophones et originaires d’Afrique de l’Ouest.

      Aux migrants vulnérables arrivant du sud de l’Italie, ils facturent 100 à 350 euros le trajet en train entre les villes de Turin et Oulx et le ticket de bus entre Oulx et la commune italienne de Clavière, à quelques kilomètres de la frontière. Des trajets coûtant en réalité moins de 10 euros...

      Ils leur font miroiter un passage jusqu’en France mais les abandonnent à Clavière - y compris des femmes et des bébés - et appellent des bénévoles en se faisant passer pour des migrants. Puis ils s’éclipsent en Italie, leur bénéfice en poche.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/la-frontiere-franco-italienne-migrants-et-benevoles-pieges-pa

    • Secourir les migrants sur la route des Alpes

      Depuis que deux jeunes Maliens ont dû être amputés des pieds et des mains à la suite de la périlleuse traversée du col de l’Échelle, dans les Hautes-Alpes, les équipes de volontaires issus des villages alentour se relayent, bravant les forces de l’ordre, pour porter secours aux migrants et leur offrir un refuge.

      https://www.arte.tv/fr/videos/079473-004-A/arte-regards

      Témoignage d’un habitant, Philippe Zanetti, dans le film :

      « On prend le #risque, mais le risque est plus petit que la vie de ces gens. Une vie humaine ça n’a pas de prix, je pense. C’est ma conviction »

      Dans les Alpes, ça a toujours existé les passeurs. Pendant la guerre, et avant. L’état d’esprit c’est : porter secours.

      L’Europe se doit de les protéger, mais les pourchasse.

      Commentaire de la journaliste :

      « En montagne, l’entraide est une tradition, explique Philippe. Une conviction que semblent partager ici toutes les communes de la zone frontalière alpine »

      #entraide #maraudes

      On explique que le maire de Briançon fait partie d’un mouvement qui s’appelle La #frontière_solidaire.

      Un des refuges de montagne (ici au Col de l’Echelle) que les bénévoles approvisionnent pour les migrants :

    • Vu sur FB (publié par Laurent Grossmann)

      Chasse aux migrants à Briançon

      Messieurs Gérard Collomb et Emmanuel Macron, vous pouvez être fière de votre police des frontières. En effet, ils exécutent à merveille vos ordres à la frontière de #Montgenèvre, sur la route de Briançon. Avant-hier soir, j’ai assisté à cette incroyable #chasse_à_l'homme. Des migrants venus d’Italie se faisaient littéralement courser par des gendarmes. Je me souviens avoir joué aux gendarmes et aux voleurs quand j’étais petit mais j’étais loin d’imaginer qu’en faite c’est au gendarmes et aux migrants que notre police joue aujourd’hui. Donc j’ai vu de mes yeux, des personnes pas équipée pour la montagne, arriver en France. Et je dois dire que l’accueil est digne, digne du #Far_West. Pourquoi faites vous ça ? Quel est chez vous cette étincelle qui vous anime pour dire à des hommes de chasser d’autres hommes, alors qu’ils sont en #danger, danger de mort, danger de gelures. Car dans cette vallée des migrants ont perdu des mains et des pieds et ce printemps ont découvrira sûrement des cadavres. Mais ça, j’ai bien l’impression que ça ne vous choque pas. La petite cerise sur le gâteau c’est que votre police demande aux citoyens « avez-vous vu des migrants ? ». Ces citoyens ont demandé :" mais comment on les reconnaît". Et ils nous ont répondu logiquement :" ba en général ils sont noirs". J’ai été interloqué par cette réponse si évidente. Mais je me suis demandé pourquoi ils n’ont pas fouillé la ville et arrêté tous les noirs...ils auraient pu en arrêter encore plus.
      Bon sinon, sachez que ceux qui ont finalement réussi à passé sont bien au chaud aujourd’hui, et reprennent des forces avant de repartir sur la route de l’exil. Et ceux qui ont été redéposé en Italie, sont aussi bien arrivés, malgré le froid et l’épuisement. Donc vos efforts sont vains. Sachez aussi que grâce à des secours citoyens, plusieurs femmes et un homme handicapé ont pu éviter cette course poursuite infernale avec vos forces de l’ordre. Et que grâce à eux aussi, ils retrouvent le sourire et de l’espoir, et ça, ça n’a pas de prix !

      #couleur_de_peau #Noirs #délit_de_faciès

      https://www.facebook.com/elsassnight/posts/10215831087467814

      Ce texte était accompagné de cette image :

    • Pour les jeunes perdus de Guinée et Côte d’Ivoire, des mois d’odyssée jusqu’aux Alpes (signé AFP)

      « J’essaie de reprendre mes forces », souffle Jacques, jeune migrant guinéen, les yeux rougis et un pâle sourire creusant ses pommettes émaciées de survivant. Il a derrière lui des mois d’odyssée, avec d’autres Guinéens et Ivoiriens, dont le nombre explose dans les Alpes françaises.
      A 16 ans, il vient de frôler la mort en gravissant pendant deux jours le col de l’Echelle (Alpes) pour arracher son entrée en France dans des conditions dantesques. « Il y avait beaucoup de neige et à un certain moment, je ne savais plus si j’étais parmi les morts ou les vivants », raconte-t-il à l’AFP depuis le matelas où il se repose au « Refuge solidaire », centre d’accueil associatif à Briançon (est), à la frontière italienne.

      Parti avec d’autres à l’assaut de ce col, Jacques s’est perdu, a dormi dans une grotte... Un périple entamé en 2017 à travers le Mali, l’Algérie, la Libye, l’Italie.

      Depuis un an, la région des Hautes-Alpes connaît une augmentation exponentielle d’arrivées de jeunes de Guinée (Conakry) et de Côte d’Ivoire (pourtant première puissance économique d’Afrique de l’Ouest). Ces nationalités arrivent loin devant celles des autres migrants, très majoritairement ouest-africains.

      Selon la préfecture des Hautes-Alpes, 315 personnes en situation irrégulière ont été refoulées vers l’Italie en 2016, contre 1.900 en 2017, en majorité des Guinéens et des Ivoiriens.

      Entre juillet 2017 et février 2018, près de 3.000 migrants sont passés par le « Refuge » ; parmi eux, au moins 1.185 Guinéens (dont 793 se déclarant mineurs) et 481 Ivoiriens (dont 209 se déclarant mineurs).

      – Les raisons d’un départ -

      Parmi les raisons de départ figurent chômage et les conditions de vie très précaires de ces jeunes, des ressources captées par les élites de ces pays, les défaillances de l’enseignement public, « inadéquat » avec le marché de l’emploi, des situations familiales inextricables (enfants nés hors mariage marginalisés, compétition au sein des familles polygames), et les pressions de familles pour envoyer un enfant débrouillard « s’aventurer » (émigrer).

      « L’accès à l’emploi est extrêmement réduit en Guinée, même pour ceux qui sont diplômés (...) Pour l’essentiel, les investissements sont faits dans le secteur minier, pour la bauxite notamment », selon le sociologue guinéen Bano Barry, interrogé à Conakry.

      « Personne ne vient investir parce que le pays est instable » politiquement, note-t-il, référence aux plus de 50 ans de régimes autoritaires. Nombre de Guinéens ont émigré dans les pays de la région, mais ces derniers ont désormais du mal à employer leur propre jeunesse.

      Sia, Ivoirien de 35 ans, se repose au « Refuge » : « Regardez le nombre de jeunes Ivoiriens qui +sortent+ », lance-t-il avec colère. « Avant, quand tu voyais un Ivoirien en France, il étudiait et puis il retournait dans son pays. Aujourd’hui, ce n’est plus +bourse d’études+, c’est les zodiacs sur la mer ! ». « On nous dit qu’il y a plus de guerre, qu’il y a la richesse du cacao, que ça va, mais c’est pas vrai ! », lance-t-il.

      – Désinformation -

      Mais la désinformation règne parmi ces migrants sur les énormes difficultés qui les attendent en France : le péril des reconduites à la frontière, les parcours du combattant pour obtenir les statuts de mineurs isolés ou de demandeurs d’asile, voire la vie à la rue.

      Nés hors mariage et sans plus d’attaches familiales à Conakry, Cellou et Abou (prénoms modifiés) en ont fait l’expérience. Echoués en 2016 et 2017 à Briançon, ils se disent mineurs mais leur minorité n’a pas été reconnue. Ils attendent l’examen de leur recours, toujours hantés par leur voyage.

      Cellou raconte qu’il a failli être vendu comme esclave en Libye, puis emprisonné et frappé à Zabrata, où il a été témoin d’exactions des « Asma boys » (gangs armés libyens) contre les migrants. Il souffre d’insomnies. « Je suis venu pour étudier et faire une formation dans la cuisine, j’aime ça trop », confie-t-il.

      Depuis des mois, c’est grâce à la solidarité de Briançonnais qu’ils sont logés, nourris, formés au français. Ce soir là, pour se remettre d’un cours intense « sur les pourcentages », ils taquinent leur « Vieux » (un bénévole), pestent contre le froid et se cuisinent des spaghettis tomates-piments.

      « Cette attente est difficile mais j’ai pas le choix ; retourner en Guinée, ça veut dire retourner à la rue », confie Abou. « Quand il se passe des choses là-bas, le plus souvent, c’est les jeunes qu’on tue ».

      Une douzaine de personnes - dont plusieurs mineurs - y ont été tuées dans des violences après des élections locales en février. Le 26 février, Conakry a été transformée en « ville morte » à l’appel des enseignants, en grève depuis deux semaines.

      – ’Appel d’air’ -

      Alors à l’heure des réseaux sociaux, nombre sont attirés par les messages de « ceux qui sont partis ». Pour le sociologue Bano Barry, les arrivées de Guinéens à Briançon sont le résultat d’un « appel d’air, un mimétisme ». « Les candidats au départ à Conakry savent que d’autres sont passés par là, qu’ils pourront s’appuyer sur quelqu’un qui pourra leur servir de guide ».

      Mais le drame, « c’est que les images de leurs difficultés en France ne sont jamais véhiculées ». Et même si certains confient leur galère, les candidats au départ les accusent de ne pas vouloir partager leur « réussite »...

      M. Barry cite le cas d’un de ses anciens étudiants. « Il ne le dira jamais à ses proches, pour ne pas être humilié ; je l’ai revu dans la famille qui l’héberge à Paris : sa chambre, c’est un matelas dans un placard à manteaux ».

      Ibrahim, migrant guinéen de 22 ans, veut dire aux parents « de ne pas encourager leurs enfants à venir ici ». Le destin a été cruel : il a fait une chute de 40 mètres au col de l’Echelle en août 2017, après avoir pris peur en voyant des gendarmes. Hémiplégique, le corps et la parole martyrisés, Ibrahim arpente avec un déambulateur un centre médical de Briançon. « Ce voyage, cette montagne, c’est trop dangereux ».


      http://www.liberation.fr/planete/2018/03/07/pour-les-jeunes-perdus-de-guinee-et-cote-d-ivoire-des-mois-d-odyssee-jusq

    • Bardonecchia, le Lampedusa de la montagne

      Dans les Alpes italiennes, Bardonecchia, à quelques kilomètres de la frontière, devient un nouveau point de passage pour les migrants qui veulent entrer en France. Ils ont bravé les traversées d’un désert et de la Méditerranée, alors le franchissement d’un col ne les effraie pas. Julie Pietri rentre de Bardonecchia.

      https://www.franceinter.fr/emissions/profession-reporter/profession-reporter-25-fevrier-2018

    • Migrants : les maraudeurs sauvent une maman enceinte dans la tourmente du Montgenèvre. Le petit garçon voit le jour à l’hôpital de Briançon

      La situation déjà compliquée devient intenable pour ne pas dire insoutenable à la frontière franco-italienne des Hautes-Alpes et ce, quel que soit le point de vue que l’on puisse avoir sur le problème des migrants. C’est en tout cas ce qui apparaît selon ce témoignage que nous avons reçu sachant que les autorités auront à priori une version différente des faits.

      Ce samedi soir, les maraudeurs sont comme presque tous les soirs au pied des pistes de la station près de la douane. C’est la que chaque nuit les migrants essayent de passer la frontière. C’est alors que les bénévoles du Refuge Solidaire tombent sur une famille : le père, la mère et deux enfants de 2 et 4 ans en pleine tourmente. Ils apprennent alors que la maman est enceinte de 8 mois et demi et décident de l’évacuer tout de suite sur l’hôpital de Briançon.

      Ils tombent alors sur un contrôle des douanes à la Vachette mis en place pour arrêter les passeurs comme une trentaine l’ont été en 2017. Mais la maman va accoucher. Après discussion, ce sont les pompiers qui viennent évacuer la maman vers l’hôpital de Briançon et le reste de la famille est ramené en Italie.

      Quelques heures plus tard, la maman donne naissance à un petit garçon et, selon les bénévoles, c’est sur l’insistance du corps médical que les policiers vont rechercher la famille en Italie qui est finalement réunie en pleine nuit à Briançon. Du côté des autorités, on précise que le reste de la famille n’a pas fait l’objet d’une reconduite à la frontière.

      Un témoignage bouleversant et glaçant comme l’écrit Joël Pruvost qui l’a adressé.

      Ce dernier invite à un rassemblement ce mercredi à 9h devant la PAF de Montgenèvre pour soutenir le bénévole convoqué par la Police.

      Le témoignage :

      Pour ou contre les migrants, c’est inhumain ce qu’il arrive à la frontière.

      Témoignage glaçant, on atteint le sommet de l’abjection au col de Montgenèvre
      Une maraude ordinaire comme il s’en passe tous les jours depuis le début
      de l’hiver.
      Au pied de l’obélisque, une famille de réfugiés marche dans le froid. La
      mère est enceinte. Elle est accompagnée de son mari et de ses deux enfants
      (2 et 4 ans). Ils viennent tout juste de traverser la frontière, les
      valises dans une main, les enfants dans l’autre, à travers la tempête.
      Nous sommes 2 maraudeurs à les trouver, à les trouver là, désemparés,
      frigorifiés. La mère est complètement sous le choc, épuisée, elle ne peut
      plus mettre un pied devant l’autre. Nos thermos de thé chaud et nos
      couvertures ne suffisent en rien à faire face à la situation de détresse
      dans laquelle ils se trouvent. En discutant, on apprend que la maman est
      enceinte de 8 mois et demi. C’est l’alarme, je décide de prendre notre
      véhicule pour l’ emmener au plus vite à l’hôpital. Dans la voiture, tout
      se déclenche. Arrivés au niveau de la Vachette(à 4 km de Briançon), elle se
      tord dans tous les sens sur le siège avant. Les contractions sont bien là…
      c’est l’urgence. J’accélère à tout berzingue. C’est la panique à bord.
      Lancé à 90 km/h, j’arrive à l’entrée de Briançon...et là, barrage de
      douane.
      Il est 22h. « Bon sang, c’est pas possible, merde les flics ! ». Herse
      au milieu de la route, ils sont une dizaine à nous arrêter. Commence
      alors un long contrôle de police. "Qu’est ce que vous faites là ? Qui
      sont les gens dans la voiture ? Présentez-nous vos papiers ? Ou est-ce
      que vous avez trouvé ces migrants ? Vous savez qu’ils sont en situation
      irrégulière !? Vous êtes en infraction !!!"… Un truc devenu habituel
      dans le Briançonnais. Je les presse de me laisser l’emmener à l’hôpital
      dans l’urgence la plus totale. Refus ! Une douanière me lance tout
      d’abord « Comment vous savez qu’elle est enceinte de 8 mois et demi ? »
      puis elle me stipule que je n’ai jamais accouché, et que par conséquence
      je suis incapable de juger l’urgence ou non de la situation. Cela
      m’exaspère, je lui rétorque que je suis pisteur secouriste et que je
      suis à même d’évaluer une situation d’urgence. Rien à faire, la voiture
      ne redécollera pas. Ils finissent par appeler les pompiers. Ces derniers
      mettent plus d’une heure à arriver. On est à 500 mètres de l’hôpital. La
      maman continue de se tordre sur le siège passager, les enfants pleurent
      sur la banquette arrière. J’en peux plus. Un situation absurde de plus.
      Il est 23h passées, les pompiers sont là... ils emmènent après plus d’une
      heure de supplice la maman à l’hosto. Les enfants, le père et moi-même
      sommes conduits au poste de police de Briançon à quelques centaines de
      mètres de là. Fouille du véhicule, de mes affaires personnelles, contrôle
      de mon identité, questions diverses et variées, on me remet une
      convocation pour mercredi prochain à la PAF de Montgenèvre. C’est à ce
      moment-là qu’on m’explique que les douaniers étaient là pour arrêter des
      passeurs. Le père et les deux petits sont quant à eux expulsés vers
      l’Italie. Pendant ce temps-là , le premier bébé des maraudes vient de
      naître à Briançon. C’est un petit garçon, né par césarienne. Séparé de
      son père et de ses frères, l’hôpital somme la PAF de les faire revenir
      pour être au côté de la maman. Les flics finissent par obtempérer. Dans
      la nuit, la famille est à nouveau réunie.

      La capacité des douaniers à évaluer une situation de détresse nous
      laisse perplexe et confirme l’incapacité de l’État à comprendre le drame
      qui se trame à nos maudites frontières.
      Quandtà nous, cela nous renforce dans la légitimité et la nécessité de
      continuer à marauder... toutes les nuits.*

      Rendez-vous mercredi 14 mars à 9h à la PAF de Montgenèvre pour soutenir le
      camarade maraudeur convoqué.

      Pas un jour en tout cas ou presque sans qu’on ne frôle le drame à la frontière franco-italienne. Ce vendredi, un migrant a été sauvé par les secouristes en montagne alors qu’il tentait en plein hiver de rejoindre la France par le col de l’Echelle pourtant énormément enneigé.

      Et c’est le moment que choisit le Front National pour s’insurger et cibler Aurélie Poyau, conseillère départementale et adjointe au maire de Briançon.

      Le responsable départemental l’accuse d’avoir volontairement fait passer des migrants (le communiqué du FN ci dessous).

      Par ailleurs, une manifestation aura lieu mardi au sujet du centre d’hébergement de Veynes (communiqué ci-dessous).

      Le communiqué de Patrick Deroin du FN

      Ce jeudi, à Montgenèvre, deux militants du Front National distribuaient des tracts, dénonçant les méfaits de l’immigration massive pour les Français.

      S’apercevant de cela, une voiture s’arrête, deux personnes hystériques en sortent, abreuvant d’injures nos militants surpris par un déferlement si soudain de haine. Le conducteur, un homme, s’avance menaçant, alors que la femme exhibe une carte, qu’elle brandit comme un laissez-passer supposé la mettre au-dessus des lois. Qu’elle n’est pas la surprise d’y découvrir le nom d’Aurélie Poyau, maire adjointe de Briançon et conseillère départementale représentant La France Insoumise. Elle ajoute qu’elle a aidé 4 migrants à franchir la frontière dans la nuit du 7 au 8 mars ; par le col de Montgenèvre.

      Madame Poyau, à l’instar des élus de son parti, ne peut supporter que l’on puisse ne pas penser comme elle et voudrait interdire à ses adversaires le simple droit de s’exprimer. Les médias commencent à relever les dérives mélenchonistes nationales, on ne s’attendait pas à voir ses affidés pratiquer la même terreur intellectuelle dans notre département.

      Messieurs Jean-Marie Bernard et Gérard Fromm vont être informés des agissements de leur élue.

      Le communiqué relatif au centre de Veynes

      Depuis le 9 septembre 2017, le Centre d’Hébergement d’Urgence de Mineurs exilés (CHUM) de Veynes a accueilli plus d’une centaine de jeunes arrivant de la frontière italienne, car ni le Conseil Départemental ni l’État n’ont eu la volonté de mettre en place des dispositifs d’hébergement suffisants, pourtant de leur responsabilité ! Face à ces lamentables moyens institutionnels, ce lieu occupé et autogéré veut montrer qu’un accueil digne et réactif est possible.

      Le 13 mars aura lieu à Gap, le procès d’expulsion du CHUM : ce lieu autogéré, organisé par des gens qui demandent à minima que les institutions respectent la loi, et qui proposent beaucoup mieux qu’elles. Ce procès, c’est la seule réponse officielle de l’État face à nos dénonciations, et l’on voit que pour protéger ses remparts, le rouage est huilé : huissiers, traitement des demandes d’expulsion, dans ce sens cela fonctionne bien ! Fait de bric et de broc, le CHUM est un lieu de vie, de passage, d’échange, d’entraide qui répond à l’urgence constante et à un besoin criant d’humanité.

      Au quotidien, écœuré par cette triste politique, le CHUM est rythmé de récups, de dons, de permanences médicales, d’accompagnements juridiques, de moments de partage, de visites prévues ou spontanées qui font du bien. Il continue à vivre, malgré nos grosses cernes qui nous empêchent d’oublier cette triste réalité.

      MOBILISONS NOUS POUR DÉFENDRE CE LIEU D’ACCUEIL SOLIDAIRE ET CONTINUONS À DÉNONCER LA POLITIQUE ANTI-MIGRATOIRE DE L’ÉTAT FRANÇAIS !!!!

      RDV le 13 mars 9h30 devant le tribunal de Gap pour un petit déjeuner déterminé, avant le début du procès d’expulsion prévu à 10h30
      Prises de paroles et discussions autour de la sale politique d’accueil des exilé-e-s par l’État français. Focus particulier sur les très difficiles prises en charge des soins et de la scolarisation des mineurs exilés dans les Hautes-Alpes
      Et à midi : cantine collective devant le parvis du Conseil Départemental pour lui rappeler ses obligations d’accueil digne des mineurs exilés

      Les élections législatives en Italie dimanche dernier et la montée du populisme ont relancé le débat sur les migrants dont le passage en Italie serait à l’origine

      de la montée des populismes. Dans notre région, l’afflux de migrants s’est un peu ralenti à la faveur de l’hiver et de la fermeture du col de l’Echelle.

      Pour autant, quasiment chaque nuit, certains essayent toujours de rejoindre la France via le col puis les pistes de Montgenèvre. Ce sont des passeurs mal intentionnés qui leur proposent cette solution en gare de Turin non sans les délester de leur argent. Comble de tout, ils donnent, pour contact en France, le numéro des bénévoles de Briançon qui ne sont là que pour éviter des drames. Résultat, Elie, l’un d’entre eux, a décidé comme beaucoup d’autres de ne plus répondre au téléphone pour ne pas faire le jeu des passeurs. ils continuent cependant bien sûr à porter secours et à accueillir ceux qui sont passés au refuge solidaire à Briançon.

      Regardez ce reportage édifiant de Paul Gypteau de l’AFP.

      Retour en arrière :

      On a de nouveau frôlé le drame cet hier dans la vallée de la Clarée. Un migrant a failli perdre la vie alors qu’il essayait de franchir la frontière franco-italienne malgré l’épaisse couche de neige et au moment même ou plus de 300 personnes réalisaient une cordée symbolique pour démontrer leur solidarité avec les migrants et mettre en valeur l’engagement de dizaines de bénévoles qui vont secourir ou qui accueillent chez eux ces migrants qui prennent des risques énormes en tentant de passer la frontière en plein hiver. Preuve, s’il le fallait, de l’utilité de ces maraudes et de cette assistance des montagnards auprès des migrants : au moment même où se déroulait cette "cordée" , l’un des accompagnateurs est intervenu en urgence ce dimanche sur le versant nord du col de l’Echelle. Il a littéralement sauvé la vie à Moussa, Guinéen de 22 ans, un migrant qui était en détresse, gelé et à bout de forces alors qu’il essayait de passer le col en pleine neige et dans des températures glaciales comme on les connaît en ce moment. Ce sont les secouristes du PGHM qui sont ensuite intervenus pour héliporter Moussa sur l’hôpital de Briançon.

      Une vie de plus sauvée par les montagnards et les secouristes mais qui fait suite à des accidents devenus presque quotidiens : pieds ou mains gelés, hypothermie ou plus grave comme on l’a vu les pieds amputés comme ceux de Mamadou ou des accidents graves comme ce migrant toujours paralysé après avoir sauté dans le vide au col de l’Échelle par peur des gendarmes au mois d’août dernier.

      Au moment même de ce sauvetage, plus de 300 personnes s’étaient retrouvées comme prévu à Névache, sur le chemin du col de l’Échelle, pour former des cordées solidaires avec les migrants, et s’étaient engagées dans la neige sur le chemin du col, encadrées par des professionnels de la montagne. Au-delà de l’esprit de solidarité des montagnards, il s’agissait plus largement de célébrer la journée internationale des migrants.

      Les images de l’intervention :

      En savoir plus sur https://www.dici.fr/actu/2018/03/11/migrants-maraudeurs-sauvent-une-maman-enceinte-tourmente-montgenevre-petit-garc

      https://www.dici.fr/sites/dici.fr/files/styles/homepage_une_big/public/2018/03/11/1116445-capturedecran2017-12-18a082756.png?itok=FD2UCW_B

      https://www.dici.fr/actu/2018/03/11/migrants-maraudeurs-sauvent-une-maman-enceinte-tourmente-montgenevre-petit-garc

      Avec ce commentaire de Olivier Clochard via la newsletter de Migreurop :

      À Briançon (France), à la frontière franco-italienne, des bénévoles du Refuge Solidaire sauvent une famille dont la maman est sur le point d’accoucher. Mais quelques instants plus tard, la douane et la PAF séparent la famille avant que l’hôpital somme la PAF de les réunir.
      Ainsi des agents des autorités françaises se plaisent à faire subir de véritables supplices à des personnes étrangères, il faut que ces personnes répondent de leurs actes ainsi que celles et ceux qui les ordonnent.

    • Sauvetage d’une migrante enceinte dans les Alpes : « Si on n’avait pas été là, la maman et son bébé seraient morts »

      #Benoît_Ducos est pisteur-secouriste en montagne et bénévole au Refuge solidaire. Depuis décembre, il participe à des maraudes pour sauver les migrants qui franchissent la frontière franco-italienne dans les massifs des Alpes malgré la neige et le froid. Il a raconté à InfoMigrants le sauvetage d’une jeune femme enceinte de 8 mois et demi et de sa famille.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/8027/sauvetage-d-une-migrante-enceinte-dans-les-alpes-si-on-n-avait-pas-ete

    • Tiré de l’article ci-dessus :

      Pendant que la dame était à l’hôpital, le père et les enfants ont été renvoyés en Italie. Sommée par l’hôpital de les faire revenir pour être auprès de la jeune mère, la PAF a obtempéré. Ils ont alors été placés par le 115 à Gap, à plus de 100 kilomètres de Briançon. Ça non plus, ce n’est pas très humain."

      Ben voyons ! À 100 km de sa femme qui est toute seule à la maternité. Comme si tout le reste ne suffisait pas.

    • Conférence : Migrations dans les Hautes-Alpes

      Une conférence de #Sarah_Mekdjian qui répond à la question, comment on en est arrivé là ?


      –-> Sarah : « la frontière est bien plus complexe et bien plus épaisse que la ligne ! Pour ce camarade afghan la frontière a commencé en Afghanistan et elle se poursuit aujourd’hui dans la ville de Grenoble. »

      http://lalongueurdelachaine.org/conference-migrations-dans-les-hautes-alpes

    • Briancon : à la frontière franco italienne, les douaniers contrôlent même les naissances

      Le Gisti reproduit ci-dessous le récit, édifiant, d’un maraudeur Briançonnais racontant comment une opération de secours à une femme sur le point d’accoucher et frigorifiée a été interrompue pendant plusieurs heures par les douanes. Ou comment, les services douaniers font primer l’obsession du contrôle des frontières sur les réflexes humanitaires les plus élémentaires.

      La situation décrite n’a rien d’inédit. Depuis des mois, les contrôles policiers à la frontière franco-italienne et particulièrement dans le Briançonnais sont menés en violation des droits fondamentaux des personnes. Lors d’une mission sur place et d’entretiens avec les citoyens solidaires des migrants, le Gisti a constaté une banalisation des pratiques illégales mettant en danger les exilé.e.s qui tentent de passer les cols au péril de leur vie.

      Le Gisti réaffirme son soutien aux exilé.e.s et aux militants engagés à leur côté à Briançon et tout au long de la frontière italienne. Il s’attachera à dénoncer les pratiques qui font primer le contrôle des frontières sur l’obligation de porter secours aux personnes en danger.
      14 mars 2018

      Une maraude ordinaire comme il s’en passe tous les jours depuis le début de l’hiver.

      Au pied de l’obélisque, une famille de réfugiés marche dans le froid. La mère est enceinte. Elle est accompagnée de son mari et de ses deux enfants (2 et 4 ans). Ils viennent tout juste de traverser la frontière, les valises dans une main, les enfants dans l’autre, à travers la tempête.

      Nous sommes 2 maraudeurs à les trouver, à les trouver là, désemparés, frigorifiés. La mère est complètement sous le choc, épuisée, elle ne peut plus mettre un pied devant l’autre. Nos thermos de thé chaud et nos couvertures ne suffisent en rien à faire face à la situation de détresse dans laquelle ils se trouvent. En discutant, on apprend que la maman est enceinte de 8 mois et demi. C’est l’alarme, je décide de prendre notre véhicule pour l’ emmener au plus vite à l’hôpital. Dans la voiture, tout se déclenche. Arrivés au niveau de la Vachette (à 4km de Briançon), elle se tord dans tous les sens sur le siège avant. Les contractions sont bien là… c’est l’urgence. J’accélère à tout berzingue. C’est la panique à bord.

      Lancé à 90 km/h, j’ arrive à l’entrée de Briançon... et là, barrage de douane. Il est 22h. « Bon sang, c’est pas possible, merde les flics ! ». Herse au milieu de la route, ils sont une dizaine à nous arrêter. Commence alors un long contrôle de police. « Qu’est ce que vous faites là ? Qui sont les gens dans la voiture ? Présentez nous vos papiers ? Ou est ce que vous avez trouvé ces migrants ? Vous savez qu’ils sont en situation irrégulière !? Vous êtes en infraction !!! »… Un truc devenu habituel dans le briançonnais. Je les presse de me laisser l’emmener à l’hôpital dans l’urgence la plus totale. Refus !

      Une douanière me lance tout d’abord « comment vous savez qu’elle est enceinte de 8 mois et demi ? » puis elle me stipule que je n’ai jamais accouché, et que par conséquence je suis incapable de juger l’urgence ou non de la situation. Cela m’exaspère, je lui rétorque que je suis pisteur secouriste et que je suis à même d’évaluer une situation d’urgence. Rien à faire, la voiture ne redécollera pas. Ils finissent par appeler les pompiers. Ces derniers mettent plus d’une heure à arriver. On est à 500 mètres de l’hôpital. La maman continue de se tordre sur le siège passager, les enfants pleurent sur la banquette arrière. J’en peux plus. Une situation absurde de plus.

      Il est 23h passés, les pompiers sont là...ils emmènent après plus d’une heure de supplice la maman à l’hosto. Les enfants, le père et moi-même sommes conduits au poste de police de Briançon à quelques centaines de mètres de là. Fouille du véhicule, de mes affaires personnelles, contrôle de mon identité, questions diverses et variés, on me remet une convocation pour mercredi prochain à la PAF de Montgenèvre. C’est à ce moment-là qu’on m’explique que les douaniers étaient-là pour arrêter des passeurs. Le père et les deux petits sont quant à eux expulsés vers l’Italie. Pendant ce temps-là , le premier bébé des maraudes vient de naître à Briançon. C’est un petit garçon, naît par césarienne. Séparé de son père et de ses frères, l’hôpital somme la PAF de les faire revenir pour être au côté de la maman. Les flics finissent par obtempérer. Dans la nuit, la famille est à nouveau réunit.

      La capacité des douaniers à évaluer une situation de détresse nous laisse perplexe et confirme l’incapacité de l’État à comprendre le drame qui se trame à nos maudites frontières.

      Quand à nous, cela nous renforce dans la légitimité et la nécessité de continuer à marauder... toutes les nuits.

      http://www.gisti.org/spip.php?article5878

    • Et celui ci aussi :

      Convoqué par la police après avoir sauvé du froid une femme enceinte et deux enfants
      Basta, le 13 mars 2018
      https://seenthis.net/messages/676118

      Tout ceci rappelle ce qu’on voit dans le documentaire d’Arte que j’ai enfin eu le temps de regarder, et qui n’est vraiment pas mal. Je suppose d’ailleurs que ce sont les mêmes « acteurs » :

      Secourir les migrants sur la route des Alpes
      ARTE Regards, le 5 mars 2018
      https://www.arte.tv/fr/videos/079473-004-A/arte-regards

    • Convoqué par la police après avoir sauvé du froid une femme enceinte et deux enfants

      Le week-end dernier, lors d’une maraude dans les Alpes, à la recherche de migrants perdus dans le froid de l’hiver, un citoyen a secouru une famille transie et épuisée. Il a donné aux deux jeunes enfants de 2 et 4 ans et à leurs parents de quoi se réchauffer. Puis, comprenant que la femme est enceinte de 8 mois et demi, il décide de l’emmener à l’hôpital. Arrêté en chemin par les douaniers, il se voit reprocher de transporter des personnes en situation irrégulières et il est sommé de se présenter à la Police aux frontières le mercredi 14 mars à 9h. Un rassemblement de soutien aura lieu ce même jour. Témoignage.

      https://www.bastamag.net/Convoque-par-la-Police-apres-avoir-sauve-du-froid-une-femme-enceinte-et-de

    • Respinta confine incinta, muore migrante

      Incinta di poche settimane e con un grave linfoma, è stata respinta alla frontiera di Bardonecchia dalle autorità francesi e, dopo il parto cesareo, è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino. B.S., nigeriana di 31 anni, era stata soccorsa dai volontari di Rainbow4Africa. «Le autorità francesi sembrano avere dimenticato l’umanità», dice all’ANSA Paolo Narcisi, presidente dell’associazione che da dicembre ha aiutato un migliaio di migranti. La nascita del bimbo, appena 700 grammi, è stata un miracolo dei medici del Sant’Anna ed è gara di solidarietà per aiutarlo.
      Secondo Narcisi, respingere alla frontiera una donna incinta e malata «è un atto grave che va contro tutte le convenzioni internazionali e al buon senso come criminalizzare chi soccorre». E’ dei giorni scorsi la notizia di una guida alpina francese che rischia una condanna fino a cinque per avere soccorso una migrante incinta.

      http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2018/03/23/respinta-confine-incinta-muore-migrante_486c0338-4600-4d9c-9325-521e8094817f.ht

    • Destinity stava cercando di raggiungere la Francia perché era malata, sapeva che forse non ce l’avrebbe fatta e voleva che il suo bambino avesse qualcuno accanto dopo al nascita. Con lei, la notte del 9 febbraio quando, al settimo mese di gravidanza, ha tentato la traversata del Colle della Scala c’era il marito, nigeriano anche lui, richiedente asilo. La gendarmeria francese li ha intercettati e riportati in Italia. «Li hanno lasciati davanti alla saletta di Bardonecchia senza nemmeno bussare alla dottaressa che era di turno all’interno», racconta Paolo Narcisi, presidente dell’associazione Rainbow4 Africa che dall’inizio dell’inverno ha assistito almeno un migliaio di migranti a Bardonecchia.

      #gendarmerie #non_assistance_à_personne_en_danger #homicide_involontaire #impunité

    • Clavières (05) : Communiqué-invitation du squat de l’église de Clavières

      Les passages clandestins d’exilé·es sont de plus en plus difficiles au col de Montgenèvre, près de Briançon : les migrant·e·s venant d’Italie arrivent plus nombreu·ses que cet hiver, et ne peuvent passer rapidement la frontière française. Jeudi soir, onze d’entre elleux, dont quatre femmes et trois enfants, ont passé la nuit dans la salle paroissiale, sous l’église de Clavières, située à deux kilomètres de la frontière française.

      Illes ont été rejoint par une quarantaine d’autres vendredi, et une quinzaine samedi, ce qui aurait pu créer une situation humanitaire dramatique. Environ vingt personnes vivant des deux côtés des Alpes les soutiennent, sans appartenir aux associations d’aide aux migrant·e·s habituelles qui ont été beaucoup citées par les médias à propos de Briançon depuis décembre. Une vingtaine d’exilé·es ont décidé de passer en France à pied dans la journée, par leurs propres moyens.

      L’État italien, resté passif cet hiver, a envoyé la police antiémeute contrôler ces passages en fin d’après-midi.

      Deuxième communiqué de Chez Jésus

      Vous recevez ce communiqué en raison de la situation préoccupante sur la frontière briançonnaise.

      Depuis jeudi, nous occupons une salle à l’église de Clavières. À la frontière la situation s’est complexifiée ces dernières semaines. Le flux de personnes arrivant à la frontière est toujours plus important et les actions de solidarité mises en œuvre ces derniers mois ne sont plus suffisantes. Pour cela, nous ressentons encore plus le besoin de soulever le réel problème qu’est la frontière. Nous avons aussi occupé ces locaux de l’église car la nécessité d’avoir des temps et des espaces pour s’organiser et parler avec les personnes, arrivant chaque jour par dizaines pour traverser cette frontière, se fait de plus en plus sentir.

      Dans le même temps, cette occupation ne veut pas invoquer une intervention des pouvoirs publics qui pourraient nous donner une réponse partielle d’accueil que la plupart de ces personnes fuient.

      Nous préférons nous organiser en auto-gestion. Nous ne voulons pas « gérer » des personnes. Au contraire, nous voulons chercher la complicité avec celles et ceux qui se battent pour leur propre liberté de mouvement, à l’inverse du système d’accueil que nous connaissons qui ne fait rien d’autre que de légitimer le dispositif au frontière.

      Nous vous invitons toutes et tous à nous rejoindre pour un repas partagé. Rendez-vous demain dimanche 25 mars chez Jésus (sous l’église de Clavières) à partir de midi.

      C’est cool si vous pouvez apportez votre repas, des couvertures, des gants, des écharpes, etc.

      [Publié le 25 mars 2018 sur Indymedia Grenoble : https://grenoble.indymedia.org/2018-03-25-Communique-invitation-de-squat-de]


      https://fr.squat.net/2018/03/25/clavieres-05-communique-invitation-du-squat-de-leglise-de-clavieres

    • Emotion après la mort d’une migrante enceinte en Italie

      #Beauty, 31 ans, est morte la semaine dernière dans un hôpital de Turin. Son bébé, né par césarienne juste avant, est un grand prématuré mais se porte plutôt bien selon les médecins.

      La jeune femme et son mari vivaient près de Naples. Quand Beauty a réalisé qu’elle souffrait d’un lymphome, elle a souhaité finir sa grossesse auprès de sa sœur en France, mais les gendarmes français ont bloqué le couple à la frontière le 9 février.

      https://www.voaafrique.com/a/emotion--apres-la-mort-d-une-migrante-enceinte-en-italie/4314540.html

    • Torino, migrante incinta respinta alla frontiera di Bardonecchia muore dopo il parto. Salvo il bimbo: pesa 700 grammi

      La donna, 31 anni, era affetta anche da un grave linfoma. Ong: «Francesi hanno dimenticato l’umanità». Gara di solidarietà per salvare il bambino, ricoverato nella Terapia Neonatale del Sant’Anna

      È stata respinta alla frontiera di Bardonecchia, nonostante fosse incinta di poche settimane e affetta da un grave linfoma. I militari francesi non le hanno permesso di entrare in Francia e lei, una migrante nigeriana di 31 anni, soccorsa dai volontari di Rainbow4Africa, è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino dopo il parto cesareo.

      “Le autorità francesi sembrano avere dimenticato l’umanità“, dice Paolo Narcisi, presidente dell’associazione che da dicembre ha aiutato un migliaio di migranti. Salvo il suo bimbo, che al momento della nascita pesava 700 grammi. Il fatto che sia in vita è considerato “un miracolo” dai medici.

      La nigeriana è stata ricoverata un mese a Torino, seguita dall’Ostetricia e Ginecologia diretta dalla professoressa Tullia Todros e dall’ematologia ospedaliera delle Molinette diretta dal dottor Umberto Vitolo. È stata tenuta in vita il più possibile, per consentirle di portare avanti la gravidanza. Il neonato è ora ricoverato nella Terapia Neonatale del Sant’Anna, diretta dalla professoressa Enrica Bertino, assistito dal padre, anche lui respinto alla frontiera.

      “I corrieri trattano meglio i loro pacchi”, continua Narcisi, secondo cui respingere alla frontiera una donna incinta e malata “è un atto grave – dice ai microfoni del Tg3 – che va contro tutte le convenzioni internazionali e al buon senso, proprio come criminalizzare chi soccorre”.

      La notizia si aggiunge a quella della guida alpina francese che rischia una condanna fino a cinque per avere soccorso un’altra migrante incinta. “Tutto questo è indice di una paura strisciante, ma non bisogna avere paura”, aggiunge il presidente di Rainbow4Africa, che ha lanciato la campagna Facebook ‘Soccorrere non è un crimine’.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/23/torino-migrante-incinta-respinta-alla-frontiera-di-bardonecchia-muore-dopo-il-parto-salvo-il-bimbo-pesa-700-grammi/4247449

    • Une enquête ouverte après la mort d’une migrante enceinte et malade reconduite à la frontière

      Beauty, 31 ans, a tenté en vain de gagner la France avec son mari, mais les gendarmes ont bloqué le couple à la frontière. Elle est morte dans un hôpital de Turin, après avoir accouché.
      Une migrante nigériane, enceinte et malade, qui avait tenté en vain de gagner la France avec son mari est morte la semaine dernière dans un hôpital de Turin. Son bébé, né par césarienne juste avant, est un grand prématuré mais se porte plutôt bien selon les médecins. Une information judiciaire a été ouverte à Turin samedi.
      La jeune femme, prénommée Beauty, et son mari vivaient près de Naples. Quand Beauty a réalisé qu’elle souffrait d’un lymphome, elle a souhaité finir sa grossesse auprès de sa sœur en France, mais les gendarmes français ont bloqué le couple à la frontière le 9 février. Alors que Beauty était enceinte de 6 mois et peinait à respirer à cause du lymphome, les gendarmes l’ont juste déposée en pleine nuit devant la gare de Bardonecchia, selon l’association Rainbow4Africa. « Les courriers traitent mieux leurs paquets », a dénoncé Paolo Narcisi, un responsable de cette association qui participe à l’aide aux migrants du côté italien des Alpes.

      Le mari a ensuite précisé à des médias italiens que c’est lui qui avait été bloqué à la frontière, et que Beauty, autorisée à entrer en France, avait choisi de rester avec lui. Hospitalisée à Rivoli, au pied du Val du Suze, puis dans un service spécialisé à Turin, elle n’a survécu que quelques semaines. Son bébé Israël, né le 15 mars à 29 semaines de grossesse, pesait alors 700 grammes. En une semaine, passée essentiellement sur le ventre de son père, il a atteint près de 1 kg, selon les services médicaux.

      L’histoire est largement reprise dans les médias italiens, qui rappellent les déboires en France d’un bénévole convoqué après avoir porté assistance à une famille nigériane, dont une femme enceinte. Selon ce bénévole, Benoît Ducos, les douaniers français ont tardé à appeler les pompiers pour aider la femme et ont aussi envisagé un temps de renvoyer le père et deux enfants de 2 et 5 ans en Italie.

      http://www.liberation.fr/planete/2018/03/25/une-enquete-ouverte-apres-la-mort-d-une-migrante-enceinte-et-malade-recon

    • CHEZ JESUS

      da giovedì abbiamo occupato alcuni spazi pertinenti alla chiesa di Claviere.
      Alla frontiera la situazione in queste ultime settimane si è complicata. Il flusso di persone che arriva al confine è sempre più forte e le pratiche di solidarietà diretta messe in atto in questi mesi non sono più sufficienti. Per questo sentiamo sempre di più la volontà di sollevare il vero problema, che è la frontiera, con forza maggiore.
      Abbiamo occupato i locali sottostanti la chiesa anche perché si è resa sempre più evidente la necessità di avere tempi e spazi per organizzarci e parlare con le persone che a decine ormai ogni giorno cercano di attraversare questo confine.
      Al tempo stesso questa occupazione non vuole invocare un intervento da parte delle istituzioni che potrebbero darci una risposta con la solita impalcatura dell’accoglienza dalla quale la maggior parte delle persone con cui ci stiamo confrontando fugge.
      Preferiamo organizzarci in modo autogestito. Noi non vogliamo “gestire” delle persone; al contrario del sistema di accoglienza che conosciamo, che non fa altro che legittimare il dispositivo frontiera, vogliamo cercare complicità con chi si batte in prima persona per la propria libertà di movimento.

      Invitiamo tutt* i/le solidali a raggiungerci per un pranzo condiviso.
      Appuntamento domani, domenica 25 marzo, Chez Jesus (sotto la chiesa di Claviere) da mezzogiorno.
      Graditi cibo (già pronto), coperte, scarponi, indumenti caldi (guanti e sciarpe etc).


      Vu sur FB, le 25.03.2018 :
      https://www.facebook.com/briserlesfeontieres/photos/a.1522408807851238.1073741828.1522389147853204/1635042483254536/?type=3&theater

    • Migranti, l’irruzione a Bardonecchia diventa un caso politico. «Non siamo la toilette di Macron». Farnesina chiede spiegazioni

      Il ministero degli Esteri invia una richiesta formale a governo francese e all’Ambasciata di Francia. Tutte le forze politiche chjiedono un intervento del governo con Parigi.
      Dal Pd a Fratelli d’Italia l’irruzione degli agenti francesi nel centro migranti di Bardonecchia suscita sdegno e rabbia e assume sempre di più le caratteristiche di un incidente internazionale. La Farnesina fa sapere di aver chiesto «spiegazioni al governo francese e all’Ambasciata di Francia in Italia, attendiamo risposte chiare prima di intraprendere qualsiasi eventuale azione». Intanto i volontari i
      Rainbow4Africa , dopo l’irruzione degli agenti della Dogana francese nei loro locali di Bardonecchia, dicono:. «Adesso è il momento di tornare a fare il nostro lavoro di medici, infermieri, mediatori, avvocati»


      https://www.youtube.com/watch?v=4Jv1pmMN7BI

      http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/03/31/news/coro_di_proteste_contro_l_irruzione_dei_francesi_non_siamo_la_toil

    • Bardonecchia – L’Italia si è ristretta

      Sono tanti i punti di domanda, resta il fatto che le frontiere italiane non pare si siano ristrette.

      Appurato che la polizia francese, agenti della dogana per la precisione, è arrivata armata fino a Bardonecchia e che avrebbe potuto farlo solo previo accordo dei colleghi italiani. Appurato che le forze dell’ordine italiane sia alla frontiera francese sia a quella austriaca hanno già lamentato invasioni di campo.

      Appurato che abbiamo visto quanto siano state collaborative le autorità francesi sulla questione dei migranti a Ventimiglia e che gli europei in generale hanno lasciato la nostra penisola arrangiarsi. Tutto ciò appurato sarebbe interessante sapere chi ha dato l’ordine di spingersi sino alla stazione di Bardonecchia e se hanno avvisato il commissariato del posto. Se ciò non è stato fatto significa che l’Italia lascia entrare uomini armati nel proprio territorio come se nulla fosse?

      Se il commissariato di Bardonecchia è stato avvisato, la polizia francese poteva entrare in territorio italiano armata. Ma il blitz dei francesi che hanno fatto irruzione in una saletta della stazione di Bardonecchia, dove opera la Ong Rainbow 4 Africa, per un’operazione “antidroga” su un nigeriano intimandogli di urinare per un controllo rivelatosi negativo pare che non fosse autorizzato. Restiamo nel condizionale. Se la polizia francese ha agito senza autorizzazione per quale ragione non è stata posta in stato di fermo? Vogliamo dire che l’Italia è tenuta in così “alta” considerazione che ognuno fa quel che vuole sul nostro territorio? L’estate scorsa gli austriaci avevano messo i blindati alla frontiera del Brennero per poi tirarli indietro di 800 metri. Forse si sono accorti che eravamo ad un pelo dalla dichiarazione di guerra? L’unica a non accorgersene è stata l’Italia?

      Le forze dell’ordine straniere vanno e vengono dal nostro territorio? Le operazioni si fanno in comune e semmai nel quadro dell’antiterrorismo. Ha qualcosa di surreale questa ricerca del nigeriano drogato…

      I media francesi tacciono, ad eccezione di FranceInfo che riporta che l’Italia sostiene… Non “sostiene” nulla. I fatti sono quelli.

      In attesa di sapere, se mai si saprà, chi ha avuto la felice idea di dare l’ordine ai poliziotti francesi di fare irruzione a 20 chilometri da Modane, perché si spera che non fossero in gita oltrefrontiera, e perché le autorità italiane non li abbiano fermati, cerchiamo di non fare ulteriori figuracce e di imporre all’Europa un atteggiamento molto ma molto più rispettoso nei confronti degli Stati membri in materia di migranti e di smetterla di vederci come una sottoappendice del continente europeo. Questo atteggiamento non giova al futuro dell’Europa al quale il Presidente Macron sembra tenere tanto!

      http://www.lavalledeitempli.net/2018/03/31/bardonecchia-litalia-si-ristretta

    • Snow may hide dead migrants on Alps route

      Mountain guides in the Italian Alps are warning that when the snow melts there this spring they may find bodies of migrants who have been attempting to make the treacherous land crossing from Italy into France.
      The tightening of border controls between France and Italy in recent years has prompted some migrants — often teenagers — to abandon coastal routes, in favor of a perilous two-kilometer trek through the southern Alps, the same slopes visited by skiers enjoying winter vacations.

      https://edition.cnn.com/2018/01/18/europe/alps-migrants-border-crossing-intl/index.html

    • #Beauty, 31 ans, enceinte, morte à Turin sur la route de la France

      C’est une histoire que vous avez peut-être lue dans la presse ces derniers jours, celle de la mort tragique d’une jeune femme nigériane, Beauty. Notre journaliste Julie Pietri l’avait rencontrée à Bardonecchia, dans le cadre d’un reportage. Elle raconte ici son histoire et pourquoi il est important de ne pas l’oublier.

      https://www.franceinter.fr/societe/beauty-31-ans-enceinte-et-morte-a-turin-sur-la-route-de-la-france

    • Migranti, la rotta alpina che passa da Bardonecchia: un viaggio duro e pericoloso

      Negli ultimi mesi, sulla rotta alpina che passa da Bardonecchia, sono transitati oltre duemila migranti: un viaggio duro e pericoloso in cui si arriva a camminare anche fino a quasi duemila metri. Non tutti ce la fanno: come la giovane nigeriana morta subito dopo aver dato alla luce il proprio bambino. Angela Caponnetto

      http://www.rainews.it/dl/rainews/media/sulla-rotta-alpina-che-passa-da-Bardonecchia-sono-transitati-oltre-duemila-m

    • Bardonecchia, i doganieri francesi fanno irruzione nella sede dei medici che difendono i migranti

      Non era mai accaduto ed è verosimile che diventi un caso diplomatico l’irruzione di cinque uomini della dogana francese, questa sera (30 marzo) intorno alle 19, nella base di «Freedom Mountain» a Bardonecchia, dove medici e infermieri dell’associazione Rainbow for Africa con mediatori culturali del Comune, pagati con fondi del ministero dell’Interno, assistono i migranti che mettono a rischio la loro vita nel tentativo di passare oltreconfine.

      http://www.lastampa.it/2018/03/30/cronaca/bardonecchia-i-doganieri-francesi-fanno-irruzione-nella-sede-dei-medici-che-difendono-i-migranti-V3CrBDNZMNfxgJHchjYdvJ/pagina.html

      Commentaire de #Andrea_Segre sur FB:

      Se noi riteniamo giusto mandare i nostri soldati in Libia, Tunisia, Niger per fermare i migranti, perché ci dovremmo stupire se i francesi fanno lo stesso mandando i loro nel nostro territorio? Sono stato personalmente a Bardonecchia e ho visto con i miei occhi i poliziotti francesi portare migranti nel territorio italiano senza alcuna autorizzazione, spesso con auto bianche senza alcun simbolo e senza curarsi minimamente delle condizioni dei migranti stessi o della presenza di operatori italiani pronti ad accoglierli. Arrivano, li scaricano e non si occupano delle conseguenze. Unico scopo è tenerli fuori, farli rimanere a casa..."nostra"! Oggi hanno anche deciso di fare irruzione in uno spazio di accoglienza allestito da Comune e associazioni. Il sindaco, Francesco Avato, ha giustamente protestato con fermezza. Il Ministero degli Interni per ora tace. E forse dovrà continuare a farlo se vuole che i francesi ci aiutino ad agire nello stesso modo in Africa sul nostro confine sud. Una volta che la la spirale securitaria prende il via le linee di confine diventano sempre più strette. Preferiamo aspettare che blocchino anche la nostra libertà di movimento prima di accorgercene e reagire?

    • *France-Italie. “Macron l’envahisseur” : pourquoi la presse italienne est-elle en colère ?*

      Le 30 mars, des douaniers français ont fait irruption du côté italien de la frontière, dans un local réservé à l’accueil des migrants. La France défend la légalité de l’opération ; les journaux italiens, eux, dénoncent une “violation de la souveraineté nationale” et tirent à boulet rouge sur le cynisme français.


      https://www.courrierinternational.com/article/france-italie-macron-lenvahisseur-pourquoi-la-presse-italienn

    • La Francia agisca nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone e delle norme internazionali, europee e nazionali

      In seguito alla richiesta di spiegazioni da parte del Governo italiano, le autorità francesi hanno affermato che i controlli effettuati dagli agenti della Dogana francese nei locali della stazione di Bardonecchia in cui operano i medici di Rainbow4Africa e i mediatori culturali del Comune si sarebbero svolti nel rispetto della normativa vigente.

      Le norme europee e gli accordi tra Italia e Francia, intervenuti nel corso degli anni per disciplinare la cooperazione transfrontaliera in materia di polizia e dogana così come le operazioni congiunte di polizia, prevedono che gli agenti francesi possano operare sul territorio italiano, nelle zone di frontiera, ma stabiliscono determinate procedure e specifici limiti e condizioni, che nella vicenda svoltasi venerdì sera sono state palesemente violate.

      https://www.asgi.it/ingresso-soggiorno/bardonecchia-francia-violazioni-parere-asgi

    • Chez Jésus à Clavière, frontière franco-italienne
      Des nouvelles de Clavières, à la frontière franco-italienne

      Message émis par un habitant du squat de migrant·e·s Chez Marcel à Briançon, présent sur le squat de #Clavière dès le premier jour.

      Bonjour !

      Depuis jeudi 22 mars, la salle paroissiale de l’église de Clavières est occupée au bénéfice des exilé·e·s qui veulent entrer en France. L’ouverture de la salle est d’abord une action directe de mise à l’abri de personnes arrivées par le bus de vingt heures, et qui ne pouvaient arriver en France la nuit même. C’est la cinquième ou sixième fois depuis cet hiver que des migrant·e·s sont ainsi mis à l’abri provisoirement, avec à chaque fois une fermeture de la salle par le curé de la paroisse. Cette fois, la salle est restée occupée et rebaptisée #Chez_Jésus : le mouvement de soutien aux exilé·e·s sort ainsi du strict humanitaire et dispose d’un lieu pour changer ses modes d’action et politiser sa lutte, mettre en accusation le système de la frontière et ceux qui contribuent et qui profitent de ce système inhumain, des passeurs aux politiques en passant par les entreprises de sécurité et les flics de tous poils, et ceux qui se taisent et s’enkystent dans l’humanitaire, collaborant par leur silence au système de la frontière.

      Après la forte présence policière du week-end du 24-25 mars (DIGOS, carabinieri, police, police anti-émeute côté italien ; gendarmerie, PAF, police nationale et PSIG côté français), le #squat s’installe de manière un peu plus pérenne. L’aménagement intérieur s’améliore et rend le lieu plus agréable et plus fonctionnel, les risques d’expulsion (de la part de l’Église, propriétaire du lieu, et de la préfecture) s’apaisent, reste la mairie qui paie la facture d’électricité et veut envoyer un contrôle d’hygiène. Restent aussi de nombreux soutiens individuels, à Briançon et au Val-de-Suse. Reste encore la division des mouvements, en France et en Italie : que ce soit Tous Migrants à Briançon ou le réseau Briser les frontières en Italie, et même le mouvement No-Tav, les organisations les plus proches et les plus concernées se désolidarisent toutes officiellement de cette occupation (on trouve même le qualificatif de « sabotage » à propos de ce lieu).

      Pourtant, c’est bien là que les exilé·e·s quittent la route pour trouver un chemin qui leur permettra de rejoindre la France. C’est bien là que les exilé·es peuvent prendre un peu de repos, des forces, des conseils, un temps de réflexion... et ainsi envisager une traversée moins dangereuse. C’est aussi là qu’illes peuvent revenir s’illes sont refoulé·e·s par la police, et s’abriter la journée avant de tenter un nouveau passage. C’est donc une nouvelle façon de fonctionner sur la frontière, pour les personnes de la maraude comme pour les exilé·e·s. Elle présente l’avantage de permettre aux personnes qui franchissent le col de se réapproprier la façon dont elles souhaitent ou peuvent entreprendre la fin de leur parcours vers la France, sans l’espèce de fonctionnement en « agence de voyage » de la maraude qui leur est parfois vendu et qui semblait chargée d’aller systématiquement et immédiatement les mettre à l’abri. Cette idée d’autonomisation nous semble un concept riche de sens, mais pas seulement à nous. Quelque chose d’inquantifiable et d’immatériel nous le confirme, ce sont, chaque matin après la traversée, les sourires et l’énergie des gens arrivés à pied, comparés à ceux transportés en voiture il y a une semaine.

      Le lieu offre aussi une opportunité de contrer le système des passeurs, et donc d’atteindre la frontière dans un de ses maillons. L’existence de ce lieu, si l’information circule bien en Italie, permet aux migrant·e·s d’esquiver le paiement de 200 à 300 € à un passeur qui ne fait de toute façon pas le travail, se reposant sur les maraudeurs dont la présence systématique assurait aux passeurs de faire entrer leurs clients en France facilement et sans risque. La frontière crée les passeurs, mais les passeurs justifient la présence policière et la répression des individus solidaires des migrants.

      Nous invitons donc tous ceux qui le souhaitent à venir prendre un café à la salle paroissiale de l’église de Clavière (à deux kilomètres de la frontière française) pour voir ce qui s’y passe et éventuellement donner un coup de main, sachant que la première façon d’aider est d’en parler autour de soi.

      Mise à jour du 01 avril 2018

      Les deux dernières nuits ont été plus agitées à la frontière, marquées par un renforcement des rondes de police : patrouilles, pick-up, voitures banalisées. Logiquement, on a vu une reprise des arrestations de cell-eux qui essaient de passer sans les bons papiers.

      Un groupe de six personnes a été bloqué vendredi soir à la sortie de Montgenèvre par la police française. Refoulés en Italie, ils ont tenté la traversée à nouveau samedi soir, de même que dix autres candidats. Ces derniers ont été surpris à Montgenèvre et refoulés, quant aux premiers, c’est aux Alberts (à mi-chemin de Briançon) qu’ils ont été interpellés. La scène dont ils témoignent est la suivante : à 3 heures du matin environ, ils ont été surpris et arrêtés sur la route. Le groupe au complet a pris la fuite soudainement, dont les deux voyageurs déjà montés à bord du véhicule de patrouille. L’un d’entre eux est tombé à travers la glace d’un petit plan d’eau et a pu être secouru ; il se repose actuellement.

      L’euphorie consécutive à la consolidation de l’occupation de Clavière après deux semaines retombe quelque peu. Preuve est faite une nouvelle fois de la mise en danger persistante par les « autorités ». Par l’action de sa police aux frontières, la France réitère ses entraves manifestes à la liberté de circulation et en particulier au droit de se rendre à la préfecture la plus proche pour y effectuer une demande d’asile.

      Un dernier point, non moins marquant, d’après le témoignage d’un candidat à la traversée, bloqué la nuit dernière : lors de l’interpellation, face à son refus premier d’obtempérer à l’ordre de monter dans la voiture, l’agent de la PAF a porté la main à son arme (sans la dégainer) et réitéré son ordre. Comment faire autrement que se soumettre au rapport de force et accepter d’être renvoyé ? Que penser d’un geste aussi suggestif dans la menace ?

      A Montgenèvre comme partout ailleurs, la police joue son rôle de cadenas contre les libertés. Encore une fois, interrogeons, exposons et refusons de subir son action.

      Solidarité avec qui souhaite circuler de part et d’autre des frontières.

      https://grenoble.indymedia.org/2018-04-02-Chez-Jesus-a-Clavieres-frontiere

    • Criminalizzazione della solidarietà, diritto di fuga, città solidali

      Lo spazio-frontiera italo-francese

      In un contesto segnato da una criminalizzazione della solidarietà senza precedenti, in Italia come altrove in Europa e nelle sue vicinanze si assiste a un’escalation inquietante degli episodi di razzismo istituzionale e di strada. Gli interventi arbitrari delle forze di polizia e delle guardie di frontiera si moltiplicano in nome della lotta congiunta al terrorismo e alle migrazioni “irregolari”. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente al primo posto per l’intensità della scossa diplomatica che ha prodotto, è la vicenda dell’irruzione armata da parte di cinque agenti della dogana francese all’interno dei locali della stazione ferroviaria di Bardonecchia per effettuare un test delle urine a un ragazzo nigeriano che viaggiava regolarmente da Parigi verso Napoli. In questo caso, il cittadino nigeriano è stato fermato e sottoposto a un controllo anti-droga sotto pressione di agenti francesi armati esclusivamente sulla base di un racial profiling (identificazione razziale) che di fatto regola le pratiche di controllo sui treni che attraversano i confini nazionali. Quello avvenuto a Bardonecchia è un attacco che va situato all’interno della serie di atti di intimidazione da parte delle forze dell’ordine contro chi si sta mobilitando in sostegno dei migranti bloccati o respinti alle frontiere.
      A pochi chilometri da Bardonecchia, al confine italo-francese, dal 24 marzo una stanza interna alla chiesa di Claviere è occupata da migranti e attivisti che dichiarano: “Il problema non è la neve, non sono le montagne; il problema è la frontiera”. Gli occupanti si oppongono al registro dell’emergenza, ribadendo che a causare le morti al confine franco-italiano non sono le condizioni meteo, ma è l’esistenza stessa del confine e il suo attuale funzionamento. In quest’ottica, costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione” dei migranti e, al contrario, significa aprire spazi comuni di lotta e di permanenza – dicono gli occupanti di Claviere.
      Da Catania a Calais, così come da Melilla a Edirne, le nostre speranze sono alimentate da un variegato movimento di solidarietà ai migranti che comprende gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides sans Frontieres nelle Alpi francesi. L’eterogeneità di esperienze e pratiche di solidarietà rappresenta la vera ricchezza del movimento a sostegno dei migranti. Tale movimento è animato da gruppi organizzati così come da cittadini che autonomamente decidono di mobilitarsi per reagire alla criminalizzazione della solidarietà. Tra questi ultimi, il caso che più di altri ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato quello di Cedric Herrou, contadino francese della Val Roia, al confine italiano-francese, accusato nel 2016 di aver aiutato a superare la frontiera italiana e aver offerto ospitalità a un gruppo di migranti. È stata poi la volta del ricercatore francese Pierre-Alain Mannoni, accusato di aver soccorso tre donne eritree.
      Secondo il “Codice di Entrata e Soggiorno degli Stranieri e del Diritto di Asilo” (CESEDA), chi viene accusato di aver “facilitato o tentato di facilitare l’ingresso, la circolazione o il soggiorno irregolare di uno straniero” è punibile dalle autorità francesi con multe che ammontano fino a 30 mila euro, nonché con la reclusione in carcere di due anni. Insieme a Mannoni e Herrou, decine di cittadini e cittadine sono stati (o sono tutt’ora) sotto processo per aver fornito cibo e ospitalità ai migranti. Tali accuse fanno leva su leggi nazionali che richiamano la Direttiva europea del 2002 sul “Favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali”. In alcune località, come Calais, il formarsi di infrastrutture autonome di solidarietà e sostegno materiale ai migranti ha fatto venire alla luce contrasti fino ad allora rimasti sotto traccia tra i diversi livelli istituzionali: amministrazioni locali contro magistratura, governo nazionale contro procure.
      La “guerra delle docce”, vale a dire la vertenza messa in campo da gruppi spontanei e associazioni locali per la fornitura di servizi igienici ai migranti di passaggio a Calais, è divenuta una vera e propria icona del movimento di solidarietà con i migranti che tentano di attraversare il confine italo-francese. Alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei diritti negli spazi di emergenza umanitaria si risponde dunque con la moltiplicazione delle iniziative spontanee e organizzate, individuali e collettive, di solidarietà attiva.

      http://www.euronomade.info/?p=10506

    • Raid at NGO on the French-Italian border puts France and Italy at odds

      On 30 March 2018, French border guards raided the NGO Rainbow for Africa, which operates at the train station of the Italian city of Bardonecchia at the Alpine border with France. The guards, who were armed, entered the NGO facility, forced a migrant to take a urine test and intimidated doctors, cultural mediators and lawyers. The NGO provides social, health and legal support to migrants and asylum applicants at the border.

      The French authorities claimed that the border guards suspected one of the passengers, a Nigerian national resident in Italy, of carrying drugs and proceeded with “asking his consent” to provide a urine sample, using the facility at the Bardonecchia station for that purpose. The authorities put forward that the procedure respected the guidelines laid down in 1990 regarding National Joint Border Control Facilities. The French Minister for Public Accounts called the incident a “misunderstanding”.

      The Mayor of Bardonecchia, Francesco Avato, said the French had no right to enter the facility, which he said the city operates as a “neutral” space to try to persuade migrants not to make the dangerous Alpine crossing into France.

      A day after the incident, the French ambassador in Italy, Christian Masset, was summoned over what Rome termed “a serious act considered outside the scope of cooperation between states sharing a border”. The Italian Foreign Ministry added that the two countries will address the issue further at a meeting in Turin on April 16.

      On 1 April 2018, the public prosecutor’s office in Turin opened an inquiry into the incident and will assess whether there has been an abuse of power, domestic violence, trespassing, and, if there are grounds for it, also illegal search from the part of the French border guards.

      The president of ASGI, an Italian NGO that provides legal assistance at Bardonecchia station and is a member of ECRE , stated that the incident was “a very serious violation not only of that human rights system (…) but also a violation of the basic principles of human dignity, intolerable towards people who come to seek international protection”. The Mayor of Bardonecchia reiterated his support to the work carried out by NGOs and categorically stated: “The project won’t stop; our goal is to continue to work so that our town doesn’t become a new Ventimiglia”.

      As stated in the ECRE/AIDA Updated Country Report on France, to circumvent the controls set up in Menton, migratory routes have shifted towards riskier journeys through the Alps, with police checks and unlawful summary returns being frequently documented.

      https://www.ecre.org/raid-at-ngo-on-the-french-italian-border-puts-france-and-italy-at-odds

    • Vu sur twitter, le 08.04.2018 :
      https://twitter.com/LouisMRImbert/status/982529486494359552
      #Collomb #Gérard_Collomb #fake_news #Alternative_facts

      Source :

      Mais elle a accepté de le retravailler pour la séance. M. Collomb a fait une distinction entre ceux qui aident « occasionnellement » les migrants et une « catégorie extrêmement dangereuse de personnes totalement irresponsables (…) qui appellent à la suppression des frontières ».

      « On a incité des migrants à franchir un certain nombre de cols [dans les Alpes] pour venir en France : s’il n’y avait pas eu la gendarmerie de haute montagne, on aurait eu des morts », a-t-il dit.

      http://www.lemonde.fr/politique/article/2018/04/06/apres-28-heures-de-debats-et-l-etude-de-850-amendements-le-projet-de-loi-asi

    • Je suis passée il y a quelques jours, en rentrant de Grenoble depuis la Suisse italienne, à Claviere... J’y suis restée uniquement quelques minutes pour leur laisser un peu d’argent.
      Panneau à l’entrée de l’église :

      Une des choses qui m’a frappée c’est l’#invisibilité des exilés dans ce petit village.
      Le grand portail de l’église est fermée, ce n’est pas l’espace supérieur de l’église qui est occupée, mais les salles au sous-sol (ça doit avoir un nom précis en architecture, mais je ne connais pas). On y entre par une petite porte latérale.
      Un seul exilé était dehors, assis sur une pierre. La seule personne noire que j’ai vu dans Claviere.
      Claviere qui était pleine de skieurs, de randonneurs, qui s’amusaient comme si de rien n’était...

      A Claviere comme à Côme, et comme déjà vu sur des plages en Méditerranée, #migrants et #touristes entrent en collision dans des endroits presque improbables :

      À Côme, les taxis ne se battent pas pour conduire des Somaliens ou des Érythréens. Ils recherchent plutôt les « autres » étrangers : les touristes aisés. Migrants et touristes ne se croisent pratiquement jamais, mais en raison des fermetures successives des routes migratoires et des points de passage dans l’espace Schengen, les premiers voyageant du Sud vers le Nord, avec pour tout bagage des sacs en plastique, croisent les seconds qui débarquent avec leurs lourdes valises sur le chemin de l’hôtel. Les migrants, eux, ne possèdent qu’une simple couverture, au mieux une tente. La plupart dorment à la belle étoile dans le parc.


      https://visionscarto.net/touristes-et-migrants-collision-a-come

      Ou ce que @reka a appelé, dans son billet sur la Méditerranée, « croisements touristiques et migratoires »

      Commentaire de cette carte :

      –->

      Elle montre en particulier que des centaines de milliers de personnes migrantes se déplaçant dans le sens sud-nord croisent quelques centaines de milliers de touristes qui eux, se déplacent dans le sens inverse nord-sud. Sans jamais les voir. Ou presque. Il y a de temps en temps des collisions, comme celle, immortalisée par le photographe espagnol Antonio Rodriguez en 2006 sur une plage des îles Canaries. Une jeune vacancière réconforte un migrant d’origine africaine arrivé épuisé à la nage après le naufrage de son embarcation. Petit crash de deux mondes qui n’auraient jamais dû se rencontrer.


      https://visionscarto.net/la-mediterranee-plus-loin

      Et mon commentaire de la même carte dans un article publié dans @vivre (2016) :

      Dans le même temps, les touristes débarquent sans problèmes sur cette même plage pour visiter le pays et s’amuser. Un « petit clash entre deux mondes qui n’auraient jamais dû se rencontrer », commente le cartographe et géographe Philippe Rekacewicz, qui illustre ces points de frictions avec la carte « Au voisinage touristique de l’Europe, la guerre, les réfugiés et les migrants »

      https://asile.ch/2016/12/13/regard-dune-geographe-murs-frontieres-fantasme-controle-migratoire

      #visibilité

    • Info urgentes, de la part de Tous Migrants, message reçu par email le 09.04.2018 :

      En réponse à l’appel d’urgence de Refuges Solidaires, la gare est occupée par depuis dimanche soir par des bénévoles et des exilées
      Cette occupation permet de mettre à l’abri dans l’urgence une cinquantaine de personnes que le Refuge ne peut accueillir faute de place. La paroisse et des citoyens accueillent également plusieurs familles avec enfants.
      Merci d’avance pour le soutien que chacune et chacun pourra apporter, ne serait-ce que par votre présence quand vous pouvez, à toute heure du jour et de la nuit.
      N’hésitez pas à apporter de la nourriture préparée, des couvertures.
      C’est aussi le moment de renforcer ou soulager les équipes de refuges Solidaires surchargées.

      En accord avec les responsables du Refuge, nous avons réactivé notre SOS pour que les associations nationales nous aident et pèsent de tous leur poids pour que l’Etat prenne ses responsabilités dans le respect des droits fondamentaux des personnes. Dans l’immédiat, l’ouverture d’un autre lieu à taille humaine un peu en aval de Briançon permettrait de poursuivre l’engagement citoyen en impliquant d’autres collectivités locales. L’idée est que ce genre d’initiatives se multiplient pour que la France d’en-bas tout en entière renoue avec ses valeurs de fraternité, ce qui finira par obliger ceux qui nous gouvernent à changer de politique.

    • Evacuation de la gare de Briançon.
      Message de TousMigrants sur twitter (10.04.2018) :

      #Évacuation de la gare sncf #briancon occupée par une cinquantaine de #CRS ce soir. Migrants à l’abri. Sans violence mais par la force. Quand la #prefete05 s’ouvrira t elle au dialogue avec les associations ? Et maintenant, on fait quoi ?...50 personnes ce soir à #Clavière....


      https://twitter.com/MigrantsTous/status/983808511292428288

    • A la frontière, les nouveau-nés pèsent 700 grammes

      La mort d’une femme nigériane après qu’elle eut tenté de passer la frontière italo-française indigne autant dans la presse que sur les réseaux

      Des hommes, une frontière, des tragédies. Les faits remontent au mois de février. Beauty a 31 ans et vient du Nigeria. Enceinte, elle vit avec son mari, Destiny, 33 ans, près de Naples. Lorsqu’elle réalise qu’elle souffre d’un lymphome, elle décide de poursuivre sa grossesse en France où réside sa sœur. Elle s’engage donc sur la route que suivent de plus en plus de migrants, celle qui passe par Turin et traverse les Hautes-Alpes par les cols pour aboutir à Briançon.

      Cette route, Le Temps l’avait déjà évoquée au mois de novembre, lors d’un reportage au col de l’Echelle, à 1762 mètres, alors que – malgré les premières neiges de l’hiver qui venaient de se déposer – le flux migratoire ne faisait que s’accentuer. Depuis 2016, la région subit une pression migratoire croissante. Certains exilés parviennent sains et saufs en France et d’autres sont refoulés en Italie. Difficile de connaître les critères qui président à l’expulsion ou au laissez-passer.

      Le 9 février, alors qu’ils traversaient la frontière, Beauty et son mari sont arrêtés par les gendarmes. Elle est enceinte de six mois, et peine à respirer. Selon l’ONG italienne Rainbow4Africa ils auraient été déposés en pleine nuit devant la gare de Bardonecchia, du côté italien.
      Bébé prématuré

      La semaine passée, Beauty est décédée, dans un hôpital à Turin. Son bébé, Israël, né prématurément, ne pesait à sa naissance que 700 grammes. Sur le ventre de son père depuis une semaine, il en aurait déjà pris 200 autres, et les médecins se disent confiants quant à son avenir.

      Le drame ne laisse personne indifférent. Selon la presse et les associations italiennes, une information judiciaire a été ouverte à Turin ce samedi. La région transfrontalière vit ce que ses habitants décrivent comme un drame humanitaire. Et des civils s’organisent pour éviter que des accidents ne surviennent dans leurs montagnes. Mais, le nombre de passages augmentant, la pression sur ces bénévoles humanitaires s’accentue. Ils se savent surveillés par les autorités, et certaines mises en garde à vue ont été rapportées.
      Secouriste appréhendé

      La dernière en date est celle de Benoît Ducos. Le 10 mars, le militant avait porté assistance à un groupe de migrants dont faisait partie une femme enceinte soumise à des contractions. En chemin vers l’hôpital de Briançon, l’homme est arrêté par un contrôle de douane qui retarde la prise en charge de la future mère. Selon les propos du Français relayés par Le Monde, il a été question d’expulser vers l’Italie le père et les deux enfants, avant que les forces de l’ordre ne se ravisent et ne les conduisent au chevet de la mère, qui les réclamait. Une enquête est en cours afin de définir le rôle précis du secouriste.

      Déjà, cet incident avait été « celui de trop ». A la frontière, sur le col de Montgenèvre, des manifestants dénonçaient une oppression inhumaine et répétaient les slogans « Protégeons les humains, pas les frontières » ou « France, pleure ! Ton humanité a foutu le camp ». Sur les réseaux, l’indignation n’est plus contenue.
      Un Etat aveugle

      Le décès de Beauty vient s’ajouter au tableau des tragédies. Sur le Net, certains internautes ont honte. « La France est morte ! » s’exclame l’un d’eux, regrettant le manque d’humanité des autorités de l’Hexagone. « La peur de l’« invasion » étrangère aveugle l’Etat et lui fait oublier les fondements de notre République », s’indigne un autre sur Twitter.

      Les mêmes commentaires apparaissent sur les réseaux italiens. Toutefois, le témoignage du mari de Beauty, diffusé sur le site de La Repubblica, apporte de l’eau au moulin des récalcitrants aux arrivées de migrants, des deux côtés de la frontière. Le veuf précise que lui seul avait été interdit de territoire français. Son épouse, autorisée, quant à elle, à entrer en France, aurait choisi de rester avec lui en Italie.

      Sur la page Facebook de Libération, un lecteur soudain relativise : « Elle a fait cela de son plein gré. Pas la peine de culpabiliser la France. » Son message a été effacé dans l’après-midi.

      https://www.letemps.ch/opinions/frontiere-nouveaunes-pesent-700-grammes

    • [Hautes-Alpes] Occupation de l’ancienne école du Prorel (Briançon) : venez nombreux !

      Cette nuit, une salle de l’ancienne école du Prorel a été réquisitionnée pour y accueillir des personnes exilées arrivant d’Italie. Ceci en réponse à l’expulsion de la gare du 10 avril, qui fut seulement une manière de rendre invisible la situation à Briançon en déplaçant le problème ailleurs. Il n’y a pas de réelles solutions proposées, tous les espaces d’accueil sont saturés. Actuellement, une soixantaine de personnes dorment au Refuge Solidaire, et à Clavière vingt à cinquante personnes arrivent quotidiennement.

      Rappelons que les exilé-es arrivent pour la plupart de Libye, où l’esclavage et la torture sont omniprésent, avant de traverser la Méditerranée dans des embarcations « de fortune » puis de rejoindre les campos d’Italie souvent gérés par la mafia. En France, Collomb et Macron leur promettent l’invisibilité dans les PRAHDA (Programme d’Accueil et d’Hébergement des Demandeurs d’Asile) et l’enfermement dans des CRA (Centres de Rétention Administrative).

      Il est temps de se questionner sur la « politique d’accueil digne et responsable » de l’Etat, considérant les personnes en exil comme une menace, ou au mieux des victimes. Jamais comme des êtres humains. Il est temps de refuser les logiques de tri et d’enfermement. En réaction à cette politique dissuasive par « l’horreur » quotidienne et silencieuse, la réappropriation d’espaces communs est nécessaire. Nous avons toutes et tous besoin de lieux vivants, ouverts, en interaction avec la population. Des lieux où les gens peuvent témoigner de leur réalité respective. Des lieux où nous pouvons commencer à imaginer du commun (ou du être ensemble) et faire l’expérience d’un partage concret.

      Lundi 16 Avril, sera examinée en première lecture à l’assemblée, la « monstrueuse » loi « Asile et Immigration » . Nous devons refuser la logique de criminalisation et de pénalisation qui accentue la déshumanisation. Des appels sur tout le territoire ont été lancé pour des mobilisations afin d’ exprimer et de rendre visible notre refus catégorique et notre détermination d’empêcher l’émergence d’une telle loi et des idées qu’elle véhicule.

      L’occupation d’un lieu fait partie de cette mobilisation.

      Solidarité inconditionnelle avec toutes les personnes matraquées par l’Etat !

      https://grenoble.indymedia.org/2018-04-12-Occupation-de-l-ancienne-ecole-du

    • Dans le rapport du HCR #desperate_journeys, mention est faite sur la frontière sud-alpine...
      https://data2.unhcr.org/en/documents/download/63039

      Déjà dans cette carte on voit apparaître des points jaunes le long de la frontière sud-alpine, il s’agit de personnes mortes aux frontières :


      #mourir_aux_frontières #morts #cartographie #visualisation
      Pour l’instant, pas de points jaunes vers Bardonnecchia et Briançon...

      Et puis, dans le rapport, il y a aussi quelques références à cela :

      Improved registration upon arrival and increased controls at land borders in northern Italy have contributed to the majority of sea arrivals registering their asylum applications in Italy and remaining in the country, however, some still tried to move on irregularly in 2017. At the border between France and Italy, there have been reports that many persons, including unaccompanied children, have been summarily returned from France. 10 At least 16 refugees and migrants died along the route between the Italian border town of Ventimiglia and Nice between September 2016 and the end of 2017 with most being hit by vehicles or trains or else electrocuted while trying to cross the border hiding on a train. As a result of the difficulties of crossing the border near Ventimiglia, some refugees and migrants have started to take an even more dangerous route through the Alps from near Bardonecchia.

      (pp.9-10)

    • Claviere - Il rifugio #Chez_Jesus per migranti in transito: «qua nessuna è straniero»

      Il rifugio autogestito Chez Jesus si trova a Claviere in Alta Val di Susa, a ridosso della frontiera franco-italiana del Monginevro: da sabato 24 marzo i locali sottostanti la piccola chiesa sono stati occupati dalla rete solidale che da mesi agisce per dare sostegno ai migranti che cercano di oltrepassare il confine.

      «Questo luogo - scrivono gli attivisti - ha visto passare centinaia di persone di decine di nazionalità diverse, tutte in cammino verso la Francia ed il resto d’Europa, ognuno ed ognuna con il proprio valido motivo per partire, ognuna ed ognuno con una giusta voglia di arrivare.
      Sono stati occupati i locali sottostanti la chiesa di Claviere perchè questi passaggi di montagna sono stati resi pericolosi dalla presenza arrogante della polizia di frontiera ed i passaggi di montagna pericolosi hanno bisogno almeno di un bivacco in cui riprendere fiato. Ma anche perché si è resa sempre più evidente la necessità di avere tempi e spazi per conoscersi, condividere le proprie esperienze ed organizzarsi.
      A Chez Jesus ogni giorno passano decine di persone con cui vengono fatte assemblee in tre lingue diverse, organizzate iniziative, condivisi pranzi, cene, chiacchiere e risate.
      Durante queste ore passate assieme abbiamo potuto conoscere al meglio la
      situazione dei centri di accoglienza, da cui la maggior parte delle persone di passaggio fugge. Abbiamo conosciuto le logiche di ricatto e di infantilizzazione che avvengono al loro interno ed è per questo che è nata l’esigenza di aprire uno spazio autogestito. Un luogo in cui, se pur per poche ore, non c’è bisogno di possedere dei documenti o di compilare dei dannati questionari. Un luogo in cui non si cataloga ed esclude nessuno e nessuna. Un luogo in cui ognuno ed ognuna è pienamente responsabile di se e della cura del luogo che lo circonda».

      Gli attivisti Chez Jesus ogni domenica condividono un pranzo nella piazza
      antistante la chiesa di Claviere. «Solidali, migranti e gente di passaggio; un pranzo all’aperto per rompere l’invisibilizzazione di tanta gente costretta ad attraversare di notte, a piedi e nella neve questa frontiera attraversabile senza problemi solo per i turisti e per le merci».

      Dalla pagina facebook del rifugio autogestito lanciano un appello: «questo posto vive con le energie di tutte e di tutti, dunque l’invito è a passare, fermarsi e contribuire. Servono cibo, scarponi, guanti, giacconi e soprattutto contributi pratici, idee e voglia di organizzarsi insieme».

      Per contattarli: rifugioautogestito@inventati.org


      http://www.meltingpot.org/Claviere-Il-rifugio-Chez-Jesus-per-migranti-in-transito-qua.html

    • Point de vue : La communauté alpine ne doit pas oublier les réfugiés !

      Pendant que la SUERA s’efforce de réunir les régions alpines, des migrantes et des migrants meurent aux frontières des pays alpins. Francesco Pastorelli, directeur de CIPRA Italie, s’interroge : qu’est devenue l’Europe hospitalière, solidaire et tolérante ?

      Une jeune nigériane est morte dans un hôpital de Turin après avoir mis son enfant au monde. Les policiers qui l’avaient arrêtée de nuit alors qu’elle traversait dans la neige le Col de l’Échelle entre l’Italie et la France avec d’autres migrants l’ont ramenée en Italie et laissée seule dans le froid à la gare de Bardonecchia/I.

      Un guide de montagne français encourt jusqu’à cinq ans de prison pour avoir aidé une migrante enceinte de huit mois au poste frontière de Montgenève. À Bardonecchia, des policiers ont pris d’assaut un centre d’accueil pour les réfugiés. Les incidents de ce type se multiplient aux frontières alpines.

      Pendant que les régions alpines travaillent à unifier les Alpes dans le cadre de la Stratégie de l’Union européenne pour la région alpine (SUERA), les États ferment leurs frontières. Où est resté l’esprit solidaire de l’Union européenne ? Pouvons-nous continuer à travailler sur l’environnement, le paysage, le trafic et le tourisme dans le cadre de la Convention alpine pendant que des personnes risquent leur vie dans le froid et la neige des cols alpins après avoir bravé les dangers de la traversée du désert et des mers ? Trouver des solutions aux problèmes de l’immigration n’est pas simple, et il ne s’agit pas ici de décider de la répartition des réfugiés, de leur accueil ou de leur expulsion. Mais nous ne devons pas accepter que des gens qui fuient la guerre et la famine se heurtent à des murs et à des fils barbelés dans les Alpes, dans cette Europe prospère, qu’on ne les aide pas dans leur dénuement et que ceux qui les aident soient menacés de procès et de peines de prison. En même temps, les petites communes des zones frontalières ne doivent pas être laissées seules face à ce problème.

      Des organisations humanitaires et des initiatives locales s’engagent heureusement pour les réfugiés, comme à Briançon en France ou à Bardonecchia en Italie. Les petites communes de montagne font elles aussi ce qu’elles peuvent pour aider, à l’exemple d’Ostana, qui accueille avec ses 80 habitants six réfugiés du Pakistan.

      Les organisations alpines comme la CIPRA ou le Réseau de communes « Alliance dans les Alpes » sont conscientes de l’importance d’une société bien intégrée, pluraliste et multiculturelle dans les Alpes et s’engagent dans ce sens. Nous ne devons toutefois pas nous limiter à mettre en route des projets de coopération sur les thèmes sociétaux. Il faut ouvrir les yeux des institutions internationales qui assistent avec passivité et indifférence à ces événements dramatiques aux frontières, et montrer que les manifestations d’ouverture et d’accueil sont souvent en réalité contrecarrées par la peur et le rejet de l’autre.

      L’histoire des populations alpines est marquée par les migrations. Des générations entières de montagnards ont quitté autrefois leur pays pour fuir la misère et chercher leur subsistance dans les plaines, les villes industrielles, dans d’autres pays ou sur d’autres continents. Beaucoup sont revenus après avoir fait fortune, riches en expériences, en compétences et en contacts, et ont ainsi contribué au développement de leurs pays. Nous pouvons apprendre de leur histoire pour relever les défis d’aujourd’hui.

      http://www.cipra.org/fr/nouveautes/la-communaute-alpine-ne-doit-pas-oublier-les-refugies

    • « Mesdames, Messieurs les députés : abolissez le #délit_de_solidarité ! »

      Accusé d’avoir porté secours à une nigériane enceinte – qui accouchera d’un petit Daniel cette nuit là – , #Benoît_Ducos fut convoqué par la police aux frontières le 13 mars dernier. À mi-chemin entre la beauté et le drame, récit d’une nuit invraisemblable.

      10 mars au soir, aux alentours de 21h20. Près de l’obélisque du village de #Montgenèvre, nous apercevons un groupe de réfugiés, pétrifiés de froid. Nous nous approchons d’eux pour engager la conversation. Le groupe est constitué d’une famille – avec deux enfants de un an et demi et cinq ans – accompagnée de deux autres exilés croisés en chemin. Lorsque nous les rencontrons, ils sont fatigués et apeurés. Ils ne savent ni à qui ils ont à faire, ni où ils sont. Rapidement, nous les rassurons sur nos intentions en leur expliquant qui nous sommes.

      Marcella, enceinte, se tord de douleurs

      Je constate qu’ils restent méfiants. De nos jours, le voyageur n’ose plus venir frapper à la porte de quiconque. Il se cache, se sent traqué. Se méfie de tout. De tous. La moindre personne rencontrée est une menace potentielle. La police rôde et n’est jamais loin.

      En discutant, nous apprenons que Marcella – la maman – est enceinte de 8 mois et demi et qu’elle a dû se faire porter jusqu’ici. Sous le choc, épuisée, elle ne peut plus mettre un pied devant l’autre. Nos thermos de thé chaud et nos couvertures ne suffisent pas à faire face à leur détresse.

      21h50. C’est l’alarme, Marcella ne va pas bien. Nous sommes face à une situation très délicate. Il faut agir vite. Je décide de prendre mon véhicule pour l’emmener à l’hôpital de Briançon. Chaque minute va être précieuse. Une fois dans la voiture, tout se déclenche. Quand nous arrivons au niveau de #la_Vachette – à 4 kilomètres de Briançon –, elle se tord dans tous les sens sur le siège avant. Elle souffre. Les contractions sont là, elle hurle de douleur. J’accélère. Courage #Marcella, nous sommes tout proches…

      22h10. À l’entrée de Briançon – au champ de Mars – je suis arrêté par un barrage de douane. J’enrage. Nous sommes à 500 mètres de l’hôpital, dans une situation d’urgence absolue. Ils sont une dizaine à orchestrer le contrôle de police et à dérouler la litanie des questions habituelles, parfaitement inappropriées et malvenues en la circonstance. « Qu’est-ce que vous faites là ? Qui sont les gens dans la voiture ? Présentez nous vos papiers ? Où est-ce que vous avez trouvé ces migrants ? Vous savez qu’ils sont en situation irrégulière ? Vous êtes en infraction ! ».

      Bloqués par le barrage de douane

      J’insiste pour qu’ils me laissent emmener Marcella à l’hôpital en leur expliquant qu’elle est en danger. Les douaniers m’opposent un refus catégorique. Inspirée, l’une d’entre eux me lance « mais comment savez-vous qu’elle est enceinte de 8 mois et demi ? » avant d’enchaîner « et puis, quelles compétences avez-vous pour vous permettre de juger du degré d’urgence de la situation ? », « Vous n’êtes pas une femme, vous ne savez pas ce que c’est ». J’ai beau lui rétorquer que je suis pisteur secouriste, que j’ai quelques notions de secourisme me permettant d’être à même d’évaluer une situation d’urgence, elle ne m’écoute pas. Rien à faire, la voiture ne repartira pas.

      Autour de la voiture, ça rigole franchement. Marcella continue de serrer les dents, son mari essayant de l’aider comme il peut. Pas un regard, pas un mot, pas le moindre petit geste d’attention de la part des douaniers. La maman continue de se tordre sur le siège passager, les enfants pleurent sur la banquette arrière. J’essaye de garder mon calme. Cette situation me révolte.

      Les douaniers finissent par appeler le procureur pour savoir ce qu’ils doivent faire. Longs moments de flottements. Finalement, ils prennent la décision d’appeler l’Officier de Police Judiciaire (OPJ) de permanence à la Police aux Frontières qui arrivera quelques minutes plus tard.

      23h15. Marcella se plie de douleur. Les pompiers arrivent et séparent la famille : la maman est emmenée à l’hopital tandis que les enfants et le papa restent avec moi. Ils se mettent à pleurer, car ils ne comprennent pas ce qu’il se passe.

      Le « premier bébé des maraudes » est né

      Nous sommes conduits dans la foulée au poste de police de Briançon, tels des criminels, escortés par la voiture de l’#OPJ à l’avant et un fourgon de la douane à l’arrière. Après la fouille de mon véhicule et de mes affaires personnelles, le contrôle de mon identité, et une série de questions diverses, on me remet une convocation en audition libre pour le mercredi 14 mars à 9h à la Police aux Frontières (PAF) de Montgenèvre. C’est à ce moment-là que les douaniers m’expliquent qu’ils étaient là pour arrêter des passeurs ! Vingt minutes plus tard, je quitte le poste de police. Il est près de minuit. Le lendemain matin, j’apprendrai par l’hôpital la tentative d’expulsion – vers l’Italie – du papa et des enfants pendant que Marcella était sur le point d’accoucher. L’hôpital a donc dû insister auprès de la PAF pour qu’ils reviennent dans les plus brefs délais. Celle-ci a fini par obtempérer, et dans la nuit la famille a été réunie.

      Le premier « bébé des maraudes » est donc né à Briançon le 11 mars 2018. C’est un petit garçon, né par césarienne. Il s’appelle Daniel, comme son papa.

      Le 11 mars au soir, le papa et les enfants sont placés par le 115 à Gap, à 100 kilomètres de Briançon, sans moyens de communication avec Marcella. De mon côté, il m’a été impossible d’obtenir leur adresse : au 115 on me dit que des instructions ont été données pour ne pas communiquer cette information – hautement sensible !

      Le 12 mars, une soixantaine de militants s’est rendue devant le 115 de Gap pour manifester. Au bout d’une heure et demie de bras de fer, ils ont fini par obtenir l’adresse du papa et des enfants. Des militants lui rendront visite pour être sûrs que tout va bien, puis le ramèneront à Briançon. La capacité des douaniers à évaluer une situation de détresse et celle de l’administration à faire preuve d’humanité me laissent encore perplexe.

      Comment peut-on, à ce point, perdre toute capacité de discernement ? À quel déni d’humanité peut conduire l’application bête et méchante des lois et des instructions ? Comment peut-on oser ne pas regarder avec compassion, ne pas daigner aider celui qui endure une souffrance de plus dans son difficile périple jusqu’à nous ?

      Convocation de la Police aux frontières

      14 mars. Devant les bâtiments de la PAF qui m’a convoqué ce jour-là, nous organisons une manifestation dans le but de dénoncer ce qui se passe sur cette frontière. À l’occasion, une personne a très justement rappelé, comment, pendant la dernière guerre, une résistante travaillant à la Préfecture de Paris fabriquait des faux papiers pour les juifs en danger dans l’intention de leur éviter la déportation, considérant que parfois, « désobéir, c’est se couvrir d’honneur »...

      J’ose espérer que ce témoignage aura fait réfléchir les forces de « l’ordre » présentes en nombre ce jour-là. Je ne souhaite pas que le geste accompli par devoir le 10 mars au soir soit célébré. Tous les jours des militants solidaires prennent des risques et osent se porter au devant des migrants. Dans l’ombre, ils accomplissent aussi des gestes remarquables qui ont tout autant de valeur à mes yeux. Les maraudes ne sont que la partie émergée d’un réseau de solidarité envers les exilés mobilisant un grand nombre de personnes.

      À ce jour, nous avons été une quarantaine d’individus convoqués à la PAF, inquiétés en raison du « transport de personnes en situation irrégulière » ainsi que pour avoir « facilité le maintien irrégulier sur le territoire français de personnes étrangères ». Aujourd’hui ce délit, qui avait été créé à l’origine pour lutter contre ceux qui font du business avec l’immigration clandestine, porte un nom, le délit de solidarité.

      Il sert à intimider et à décourager ceux qui ont choisi simplement de rendre service, de porter secours, mais cela ne marche pas : « On ne peut rien contre la volonté d’un homme ».

      Pour moi – comme pour beaucoup d’autres qui chaque jour prennent des risques – aller à la rencontre de ces exilés, leur donner à manger, à boire, les couvrir, leur donner des vêtements chauds, leur proposer un abri pour la nuit, leur parler, les écouter, quelle que soit leur nationalité, leur couleur de peau et leur situation, est un devoir, un geste d’humanité, un acte de fraternité. Moi qui suis un professionnel de la montagne, je fais le lien avec la formation que j’ai reçue et dans laquelle il est dit que l’initiative de secours aux personnes en danger en montagne est une obligation surpassant tous les autres textes de loi. N’importe quel montagnard aguerri vous le dira : en montagne on n’abandonne jamais quelqu’un en difficulté.

      Criminalisation de la solidarité

      Pour tous ces exilés, comme le dit Jean-Marie Gustave Le Clézio, la migration n’a rien d’une croisière en quête d’exotisme ou de sensations fortes. Ces gens sont des #fugitifs et ils ne se retrouvent pas ici – à franchir des cols au péril de leur vie – par hasard. Il faut savoir par où ils sont passés, quels sacrifices ils ont faits, les dangers auxquels ils ont fait face, les violences qu’ils ont subies pour marcher jusqu’à nous, jusqu’à ce pays qui fait briller leurs yeux et qu’ils veulent atteindre coûte que coûte.

      Quel soulagement d’ailleurs pour eux lorsqu’on leur dit « vous êtes arrivés » même si, au fond de nous, nous désespérons des obstacles qui les attendent encore ici.

      Je ne peux pas croire que ces gens vêtus de leurs habits de pays chauds franchissant nos montagnes en hiver, après avoir traversé déserts et mer, au risque de perdre leur vie, aient eu le « choix ». Je crois que leur exil est un déchirement, puisqu’ils ont dû abandonner tout ce qui leur est cher, leur famille, leur amis, tout ce qu’ils possédaient…

      L’objectif des #maraudes est d’aider ces personnes en détresse, harassées par des années de voyage, apeurées, fuyant les dangers auxquels elles sont exposées dans leur pays et dont les droits élémentaires sont bafoués. Elles méritent bien notre admiration et notre respect, elles méritent qu’on les regarde, qu’on les considère. Pour toutes ces raisons, je souhaite qu’on en finisse avec cette criminalisation des actes de solidarité et d’humanité. Si comme d’autres, je suis amené à me plonger dans la nuit pour distribuer à manger, donner des vêtements, mettre à l’abri des personnes qui veulent demander la protection de la France, c’est aussi parce que l’État faillit à des devoirs.

      La Déclaration Universelle des Droits de l’Homme nous dit pourtant que tout homme a le droit de quitter librement son pays et de choisir avec la même liberté le pays dans lequel il souhaite vivre. Nous ne sommes que des « veilleurs, des passeurs, des colporteurs d’humanité ». Tous nous aurons besoin un jour ou l’autre que quelqu’un nous tende la main et nous nous rappellerons combien ce moment aura été fondateur pour nous. Les rencontres qui ont lieu dans nos montagnes contribuent aussi à nous forger, à faire de nous ce que nous sommes. Les sourires de ces exilés dans le froid de la nuit sont inestimables.

      Les accueillir parce qu’ils « frappent à notre porte » est quelque chose de finalement on ne peut plus simple, modeste et humain, quelque chose que nous ne pouvons pas ne pas faire. Je pense que cela devrait être un devoir plus qu’un choix. Il est grand temps qu’une #immunité_humanitaire soit enfin accordée aux associations et citoyens dont les actions sont guidées par la seule volonté d’aider, de porter assistance et d’offrir un accueil digne et respectueux aux exilés, de défendre et protéger leurs droits auxquels porte atteinte chaque jour l’État français. Pour mettre la République en conformité avec les valeurs qu’elle proclame, Mesdames, Messieurs les députés : abolissez le délit de solidarité !


      https://www.nouveau-magazine-litteraire.com/idees/benoit-ducos-abolissez-le-delit-de-solidarite

      Je mets en exergue ici la question de la #montagne et des #montagnards :

      Pour moi – comme pour beaucoup d’autres qui chaque jour prennent des risques – aller à la rencontre de ces exilés, leur donner à manger, à boire, les couvrir, leur donner des vêtements chauds, leur proposer un abri pour la nuit, leur parler, les écouter, quelle que soit leur nationalité, leur couleur de peau et leur situation, est un devoir, un geste d’humanité, un acte de fraternité. Moi qui suis un professionnel de la montagne, je fais le lien avec la formation que j’ai reçue et dans laquelle il est dit que l’initiative de secours aux personnes en danger en montagne est une obligation surpassant tous les autres textes de loi. N’importe quel montagnard aguerri vous le dira : en montagne on n’abandonne jamais quelqu’un en difficulté.

      Et pour @sinehebdo, peut-être un nouveau #mot, #fugitifs :

      Pour tous ces exilés, comme le dit Jean-Marie Gustave Le Clézio, la migration n’a rien d’une croisière en quête d’exotisme ou de sensations fortes. Ces gens sont des #fugitifs et ils ne se retrouvent pas ici – à franchir des cols au péril de leur vie – par hasard. Il faut savoir par où ils sont passés, quels sacrifices ils ont faits, les dangers auxquels ils ont fait face, les violences qu’ils ont subies pour marcher jusqu’à nous, jusqu’à ce pays qui fait briller leurs yeux et qu’ils veulent atteindre coûte que coûte.

    • Chroniques de frontières alpines – 1 / Réprimer les solidarités : La stratégie de la peur

      Depuis 2015, dans le cadre de la « lutte anti-terroriste » menée par l’Etat français, on a assisté à une intensification de la répression policière et juridique vis-à-vis des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es, notamment aux zones frontalières. L’inculpation, entre juillet 2015 et janvier 2017, de 9 citoyen·nes des Alpes Maritimes, a vu ressusciter les débats autour du poussiéreux « délit de solidarité », institué en 1938 (dans un climat dont chacun·e devine qu’il était particulièrement xénophobe…)

      Le dossier en ligne du Gisti sur le délit de solidarité montre comment les évolutions progressives du droit sont devenues de plus en plus floues de sorte qu’il n’ait plus vocation à réprimer les trafics et réseaux mafieux à la frontière, mais à englober dans le champ des répressions les pratiques d’aide gratuite et solidaires vis-à-vis des étrangers. Cette évolution est le fruit d’une représentation de continuité entre l’immigration clandestine et le terrorisme : ainsi, dès 1996, l’aide au séjour irrégulier est intégrée parmi les infractions à visée potentiellement terroriste. Depuis les années 2000, on assiste à une extension des immunités (notamment pour « motifs humanitaires ») mais aussi, simultanément, à une aggravation des sanctions et de la répression des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es sans-papiers.

      Tout un arsenal législatif a ainsi vocation à limiter les activités bénévoles de citoyen·nes solidaires : l’ « aide à l’entrée et au séjour irréguliers », punis de 5 ans d’emprisonnement et de 30 000 euros d’amende, mais aussi les « délits d’outrage, d’injure et de diffamation ou de violences à agent publics », utilisés selon le Gisti pour » défendre l’administration et la police contre les critiques dont leurs pratiques font l’objet ». A ces motifs s’ajoutent des pratiques plus sournoises de dissuasion, qui procèdent de la même volonté politique : « Il s’agit de priver l’étranger en situation irrégulière en France de toute forme de soutien : amical, politique ou juridique mais aussi, au-delà, de signifier à la population en général et aux militant·es en particulier qu’on ne peut s’opposer impunément à la politique gouvernementale quelles que soient la détresse humaine et les horreurs qui lui sont inhérentes. »

      Outre le choquant paradoxe de l’expression « délit de solidarité », la défense juridique lors des procès des citoyen·nes de la Roya remet en cause les pratiques de l’Etat : que fait-il du droit international qui consacre le droit pour chacun « de participer à des activités pacifiques pour lutter contre les violations des droits de l’homme et des libertés fondamentales » ? Que fait-il de l’injonction d’assistance à personne en danger, surtout en contexte de montagne ?

      Le positionnement politique des citoyen·nes inculpé·es, qui assument leur solidarité avec les sans-papiers, va encore plus loin : si les personnes mettent leur vie en péril en passant par des chemins dangereux, c’est parce qu’elles se cachent de la police, et ont peur d’être arrêtées. En tant que personnes vulnérables en montagne, c’est à la gendarmerie de haute montagne de leur porter secours ; en tant que demandeuses d’asile (pour la quasi-totalité d’entre elles), ou mineures (pour la moitié d’entre elles) ces personnes devraient être prises en charge par la police, puis par la préfecture, dans une logique de protection prévue par le droit français. Ce sont les pratiques illégales par la police de refoulement aux frontières qui (re)mettent en danger les personnes migrantes (souvent abandonnées en montagne dans un froid extrême après leur arrestation).

      Le délinquant, le criminel, c’est l’Etat, objectent donc les collectifs de soutien, qui ne respecte ni les traités internationaux, ni les lois, ni aucune des valeurs d’asile de fraternité de la République. Dans les Alpes-Maritimes, l’heure est donc à la mobilisation collective, juridique et politique aux côtés de ces « délinquant·es solidaires » pour les soutenir dans leur procès et montrer que la société civile n’adhère pas au discours qui fait d’elles et eux des criminel·les.

      Qu’en est-il dans les Hautes-Alpes ? La route qui s’est ouverte progressivement au cours de l’année 2017 en fait, depuis plus de six mois, un des principaux passages vers la France. Dans le Briançonnais, les mêmes événements se sont enchaînés, rapidement, qu’à Menton et dans la Roya : augmentation brutale du nombre de personnes traversant la région pour entrer en France, organisation citoyenne pour faire face à une situation humanitaire d’urgence, militarisation de la frontière grâce à des équipements et des renforts policiers, répression des personnes clandestines… Et prise en étau des bénévoles solidaires au coeur de ce dispositif de répression, lequel vise avant tout les personnes étrangères, mais également tous les gens qui leur viennent en aide.

      L’association Tous Migrants estime que depuis le printemps 2017, entre 40 et 50 personnes ont été arrêtées et convoquées à la PAF, principalement pour délit d’ »Aide à la circulation, à l’entrée ou au séjour de personnes en situation irrégulière ». On peut estimer que plus du double ont été interpelé-es par des agents de police ou de gendarmerie dans l’exercice d’un acte de solidarité. On compte également au moins 5 gardes-à-vue. Benoît Ducos, un de nos camarades dont le nom a été relayé par les médias pour être venu en aide à une femme nigérianne enceinte, est à la fois menacé d’un procès, et sollicité par de grandes ONG italiennes pour recevoir des prix pour son « héroïsme »… Cela résume aussi bien le contexte absurde et paradoxal (et ironique) dans lequel nous oeuvrons.

      Jusqu’à maintenant, dans les Hautes-Alpes, les convocations sont restées sans suite ; mais comme les événements de la Roya sont un sombre présage pour leur futur proche, les nombreux·ses citoyen·nes solidaires du Briançonnais sont plongé·es dans l’anxiété. La répression, à défaut d’être judicaire, est policière ; et elle prend parfois des formes plus détournées encore : pressions morales, psychologiques, financières… A Briançon et dans la vallée de la Clarée, tout se joue encore sur le terrain, dans l’informel, dans les interactions directes avec les officiers de police et gendarmerie, ou les agents de l’Etat. Leur caractère aléatoire, mouvant, complexe, entraîne une invisibilisation de cette répression par l’Etat des activités solidaires.

      Les témoignages recueillis ci-dessous évoquent différentes manières grâce auxquelles l’Etat développe sa stratégie d’intimidation des personnes solidaires dans le Briançonnais. Un recueil de ces témoignages et une mise en commun des expériences individuelles sont indispensables pour dénoncer ces phénomènes qui ne sont pas isolés, mais s’inscrivent au contraire dans une politique calculée de l’Etat français à travers une stratégie de la peur.

      La méthode atmosphérique : création d’un climat de tension

      Le nombre relatif d’arrestations n’évacue pas le contact au quotidien, pour les habitant·es du Briançonnais et particulièrement celles et ceux de la vallée de la Clarée, avec une présence policière lourde et un contrôle incessant, particulièrement féroce durant la période de la fin de l’été à début décembre 2017. A la gendarmerie locale, la douane, la Police de l’Air et des Frontières, le PSIG, la Police et Gendarmerie de Haute-Montagne initialement présents, se sont ajoutés les renforts venus de la région entière, dont des groupe d’interventions spécialisés comme la Brigade Anti-Criminelle, les CRS, des renforts de la vallée de la Roya, et même les sentinelles de l’armée.

      Les habitant·es et touristes témoignent des barrages quotidiens sur la route qui imposaient parfois quatre contrôles par jour aux personnes désirant descendre dans la vallée. Barrages, brigades mobiles, postes de surveillance, les renforts policiers de toute la région ne se sont pas contentés de sillonner les cols ou les routes durant cette période, mais aussi d’installer leur présence au coeur des bourgs de Névache, Val-des-Prés, de Briançon, de sorte à ce qu’aucun jour, et aucune nuit, ne se passe sans avoir le sentiment d’être surveillé·e par la police. Deux habitants de Névache décrivent la présence dans le centre du village de voitures de police avec leurs phares à 4h du matin, au pied de tous les d’immeubles. « On se fait du cinéma », conclut l’un d’entre eux, conséquence logique du fait que le petit village semble s’être transformé durant cette période en décor de cinéma.

      Au même moment, les hélicoptères sillonnent régulièrement le ciel. « Le pire c’est l’hélico, c’est vraiment un sentiment d’oppression. Quand ils font des rondes, on sait que ce n’est pas pour le sauvetage, mais pour la surveillance », dénonce une habitante de Névache.

      Plus bas à Briançon, un Refuge a ouvert cet été pour permettre aux personnes migrantes de s’abriter après leur difficile traversée de la montagne. Bien que les sans papiers puissent être arrêté·es partout dans la ville, le Refuge a bénéficié d’une sorte d’immunité humanitaire. Malgré tout, pendant l’été et l’automne 2017, les rondes régulières des véhicules de gendarmerie devant le Refuge semblent menacer sa sécurité : « Ils roulent à une vitesse d’escargot, 20km/h, on se sent observés : t’es toujours suspect… J’ai pensé à d’autres pays où les gens sont sous surveillance et je me suis dit « on connaît ça ici ». On devient nous mêmes suspects« , confie une bénévole. Ces rondes s’ajoutent aux gendarmes en civil postés sur le parking devant le Refuge, et à la présence certifiée des renseignements généraux sur la même place. Cela renforce la croyance chez les bénévoles qu’ils et elles sont tou·te·s repéré·es, fiché·es, leurs voitures enregistrées.

      Alors que je recueille le témoignage de l’une de ces bénévoles, assises au soleil sur cette place, elle coupe son récit pour dire : « Et tu peux m’expliquer pourquoi il y a une voiture de police qui est plantée à côté de nous depuis 8 minutes ? ». Au moment où je tourne la tête, la voiture de gendarmes démarre. Cette pression est discrète, mais elle développe chez tous les volontaires des réflexes anxieux, d’auto-surveillance de leurs faits et gestes. Cela fait dire à une vieille dame bénévole « Ah, c’est encore la Gestapo ».

      Cette stratégie est développée aussi lors d’événements collectifs plus militants : « A chaque fois qu’on a fait des manifs à la PAF, ils nous ont photographiés, ainsi que les bagnoles… »

      Côté italien, les montées à la frontière de la police et des gendarmes ne concernent pas les migrant-es mais bien les militant·es. Dès le premier jour de l’occupation, une montée massive de la police (polizia, carabinieri, police politiques, voitures civiles) vers le lieu a ancré cette action dans un contexte de confrontation. Des voitures postées en observation devant le lieu que nous occupons, des tentatives régulières par des hommes en civil ou en uniforme discret (la police politique) d’entrer dans le lieu, suffisent à poser le climat. Interpellations sans justification, juste parce qu’on a un véhicule français, prise d’identité. Pour les personnes qui arrivent depuis la vallée par le bus, que nous accueillons dans le lieu en tentant de les mettre en sécurité, cette surveillance menaçante fait s’écrouler tout ce que nous avons mis en place en termes d’accueil. Alors que la police a tenté de rentrer dans le lieu, et que nous n’avons pas eu le temps de barricader, j’ai dû crier à des sans-papiers que nous accueillions depuis la veille de se cacher vite, pour ne pas qu’ils les trouvent : comment prétendre essayer de créer un climat de sécurité, dans ces conditions ?

      Les touristes qui ont fréquenté la région à la fin de l’été manifestent de manière unanime un choc vis-à-vis de cette présence policière démentielle et apparemment injustifiée. « Pendant l’automne, la vallée ressemblait plus à une scène de guerre qu’à une région touristique », s’accordent de nombreux·ses habitant·es. « On a senti un moment d’occupation. Quand ils sont partis, on a enfin pu respirer. »
      La tactique du « cow-boy » : courses-poursuites et mise en scène d’arrestations

      La stratégie favorite dans le Briançonnais est ainsi celle de l’intimidation. Celle-ci possède une dimension spectaculaire, au sens propre du terme : comme si la vallée était un théâtre, où après avoir planté un décor de guerre, des acteurs jouent aux opérations militaires de grande envergure.

      Les course-poursuites ont vocation à produire cet effet impressionnant. Une femme du Refuge raconte qu’en septembre, alors que la police surveillait constamment la gare de Briançon, empêchant le départ des migrant-es vers le reste de la France, des bénévoles avaient organisé un petit convoi pour descendre une dizaine de personnes vers la gare suivante, à l’Argentière, afin qu’elles puissent prendre leur train vers Paris. « On attendait dans l’herbe à côté de la gare, tranquillement, quand la police est arrivée : il a fallu se précipiter, en rampant, dans les voitures. On s’est précipités vers la gare suivante, Saint-Crepin, à toute vitesse. Là on attend, on surveille la gare. Pendant ce temps les jeunes sont dans la voiture et attendent que le train arrive. Quand il arrive on leur dit de courir. Ils montent dans le train, et direct après, horreur, on voit arriver la police ! Ils ont tous été arrêtés à Gap. »

      Une autre femme, habitante de la Clarée, raconte : « J’allais au boulot à quatre heure du matin, et il y a un gars qui m’appelle, qui venait de descendre l’Echelle et d’arriver dans la vallée. Je l’ai pris en voiture pour l’aider à descendre et il y en avait plein d’autres qui marchaient sur le bord de la route, ils couraient au milieu des voitures, dévalaient la pente. Alors je les ai emmenés aussi.

      Les gendarmes à Val-des-Prés en avaient déjà arrêté une vingtaine. Moi je les ai vus, et j’ai eu peur : j’ai accéléré. Ils m’ont poursuivie. Au village suivant, je me suis arrêtée « Sortez, courez ! », je leur ai dit. Les gendarmes nous ont tous poursuivis, un seul gars a réussi à s’évader, se cacher dans un jardin. J’étais prise au piège dans mon propre village. J’ai eu une sacrée frayeur ! »

      Comme beaucoup d’autres, cette femme n’a pas été re-convoquée par la suite, malgré son arrestation : les interventions musclées sur le terrain, confirment les bénévoles, ne comportent pas pour l’instant de suites judiciaires, elles se suffisent à elles-mêmes pour impressionner les citoyen-nes solidaires.

      La dimension dissuasive de ces course-poursuites est plus évidente encore quand elles concernent des gens qui ne transportent pas de migrant·es, mais qui se contentent de leur parler. Moi-même, alors que je me contentais d’observer, j’ai été prise en chasse par une voiture de police… qui n’avait rien d’autre à me reprocher que de rouler les phares éteints.

      L’intimidation se joue aussi dans la mise en scène de l’arrestation. Le ton de la voix, la manière d’interpeler, font partie du jeu de scène. On me raconte, à chaque contrôle du véhicule, les phares de voiture et lampes en pleine figure pour éblouir, les arrestations à grands cris, contrôles d’identité, fouille du véhicule – même quand il n’y a rien à signaler.

      Un militant raconte son arrestation récente : les armes braquées sur lui, une ouverture à coups de pieds de la portière de la voiture, les personnes agrippées brutalement, menottées avant d’être conduites à la gendarmerie. Un autre homme arrêté au col de l’Echelle alors qu’il transportait une femme enceinte et sa famille a fait l’objet d’une arrestation brutale : ses voisins racontent que les gendarmes lui ont esquinté les bras, et qu’il a eu très mal par la suite.

      Enfin, pour certaines personnes arrêtées, la violence verbale grossière est utilisée pour forcer la peur. Une militante me raconte : « J’ai une copine qui a été arrêtée à la PAF alors qu’elle emmenait des mineurs se signaler, à la demande de la gendarmerie. Elle a été cuisinée, a raconté qu’elle avait aidé les gens à prendre leurs billets de train. La personne qui l’interrogeait lui a tenu des propos odieux, sexistes, racistes, machistes, et des gestes obscènes. Pendant un mois, elle a arrêté ses activités bénévoles. Elle ne veut pas témoigner, elle est très intimidée. »

      Enfin, le cas le plus grave recensé à la frontière a été une violence physique contre un manifestant, en mai 2017, renversé par un véhicule de police alors qu’il était venu soutenir avec une trentaine d’autres citoyen·nes solidaires des réfugié·es et une travailleuse sociales qui avaient été arrêté·es par la PAF. Voici le témoignage relayé par la presse de la victime de cette violence : « Une voiture de police part sur les chapeaux de roues (…) à son bord 2 ou 3 réfugiés, direction le poste de police en Italie. (…). Spontanément, une dizaine d’entre nous décident de se mettre au milieu de la route et de mettre nos simples corps comme barrière naturelle à l’expulsion. Le chauffard essaye de forcer le passage en faisant vrombir le moteur, et en avançant pare-choc contre tibias. L’une d’entre nous tombe devant la voiture. Le reste des flics présents mettent des coups pour nous dégager de la chaussée. La voiture de police (…) active une grande marche arrière( à contre-sens) puis repasse en marche avant et se met soudainement à accélérer. Elle fonce, 50 peut-être 60 kilomètres heure, Pas de gyrophare. Pas de sirène.

      Je suis au milieu de la chaussée, je regarde la voiture de police arriver, elle ne décélère pas. (…) La bagnole continue sa course et me percute. (…) Je me retrouve ensuite sur le bitume et la roue arrière du véhicule me passe sur la jambe, au-dessus de la cheville. La voiture continue sa course comme si de rien n’était. Une fois au sol je m’ aperçois que plein de gens hurlent. J’hurle aussi. Sur ma droite un mec en costard, un cadre la PAF, ou de la préfecture me regarde comme un déchet. Il fait demi -tour et retourne sur ses pas pour aller se planquer dans le bâtiment du ministère de l’intérieur. Il est témoin direct de l’action. (…)

      Un policier de la PAF […] me lance « fallait pas te jeter sur la voiture »…on suppose que ce sera la version officielle. Les gendarmes ne prennent aucun témoignage des faits qui viennent de se passer. Certains policiers esquisse[nt] des sourires. Je suis pris en charge par les pompiers avec une atèle au pied droit. Les gendarmes n’ont toujours pris aucun renseignement auprès des témoins présents. J’arrive à l’hôpital. » Cet événement qui aurait pu entraîner la mort du manifestant, dénoncé avec force par les associations locales et par la presse, a été vécu comme une violence extrême à l’encontre des citoyen·nes solidaires, marquant une ère de confrontation définitive entre la police et les gens locaux.
      La méthode Stasi : menaces individuelles

      La stratégie de la peur ne se limite pas aux arrestations ponctuelles : elle fonctionne aussi de manière préventive, sous la forme de la menace. En Italie, la dernière fois que la police politique a pris mon identité, ils nous ont assuré qu’ils connaissaient les visages de chacun-e d’entre nous, savaient parfaitement qui entrait et qui quittait le lieu, à toutes les heures, et que prochainement une arrestation massive tomberait sur tou-te-s les occupant-es.

      L’été dernier, un habitant de la Clarée connu pour avoir accueilli beaucoup de jeunes migrants a bénéficié d’une visite à son domicile de la gendarmerie doublée d’une perquisition : « Ils sont venus, ils ont évacué les gars, ils ont retourné les matelas… » Au printemps, deux gendarmes s’étaient déjà baladés chez tous les commerçants avec deux photos dont la sienne, en demandant : « Est-ce que vous connaissez cet homme ? ».

      Une autre militante, que nous appellerons ici Séraphine Loulipo, relate un épisode de cet été avec des amis. Après avoir accompagné au Refuge un jeune homme, ils se rendent compte qu’ils sont observés sur le parking du refuge par un homme en civil, assis sur le muret, qui leur lance : « De toutes façons j’ai toutes les images, j’ai tout filmé…. Votre voiture est fichée, nous on ne va pas vous lâcher, ça ne va pas se passer comme ça. »

      Trois jours plus tard, Mme Loulipo se heurte à un barrage de police sur la route de la Clarée. « Ah, Séraphine Loulipo », dit immédiatement le gendarme qui la contrôle, à la seule vue de son véhicule. « Ca va bien, le trafic des migrants ? ». Puis d’ajouter : « Mettez vous sur le côté, on va bien lui trouver quelque chose à cette voiture. » Alors qu’elle cherche le gilet jaune obligatoire dans tous les véhicules, il prépare d’avance sa contravention et se gausse : « Je l’apporterai directement chez vous ». Alors qu’elle retrouve le gilet, le gendarme se met alors en colère, et la menace : « Ca ne va pas se passer comme ça, vous allez finir en garde-à-vue. » Mme Loulipo est ainsi rentrée chez elle persuadée que la police connaissait ainsi, en plus de son nom et de son véhicule, l’adresse où elle vit avec ses enfants.

      Le mois dernier, un autre bénévole a bénéficié d’une de ces séances d’intimidations. « Ils sont venus me voir à mon boulot, sur mes horaires de travail. Ils étaient 3, en uniforme. Ils m’ont engueulé. « On t’a vu ! (…) Tu vas te faire choper, on peut te faire fermer ton commerce, on va saisir ton véhicule. » Puis on a discuté, j’ai réagi calmement, le gendarme s’est calmé. A la fin, il m’a même dit : « C’est bien, fais selon tes convictions. Mais si je te chope, je t’aurai. » L’homme qui me confie cette histoire ajoute en conclusion : « Mais moi je sais que je ne crains rien. Quand on fait peur aux gens, c’est qu’on ne va pas vraiment les arrêter. »
      L’effet des arrestations sur l’activité des bénévoles . Une stratégie efficace ?

      Ainsi les méthodes de contrôle policier des activités solidaires dans le Briançonnais fonctionnent-elles plus sur l’intimidation et la menace que la punition. Elles ont un caractère anticipatoire : faire en sorte que les personnes renoncent, d’elles-mêmes, à aider les sans-papiers qui arrivent par la montagne.

      Les moyens mobilisés au profit de cette stratégie ont nécessairement eu un impact. La simple présence policière a un effet dissuasif, comme me le raconte une bénévole dont la propriétaire est une dame âgée, qui aimerait bien accueillir des migrant·es qu’elle voit quotidiennement sous sa fenêtre, mais qui est terrorisée par la police ! « Ne dites pas que je vous l’ai dit », a-t-elle confié à sa locataire.

      Il y a de nombreux cas de bénévoles qui, suite à leur arrestation, ne reviennent pas au Refuge pendant plusieurs semaines ou plusieurs mois, ou qui limitent leurs activités à des choses pour lesquelles elles ne peuvent pas être arrêtées (ne plus aller à la gare, ne plus faire de transport ou de covoiturage…). La bénévole du Refuge qui a été poursuivie à la gare de l’Argentière, m’a raconté que : « Moi depuis, je ne fais plus rien [en transport]. J’ai eu tellement peur, le coeur qui battait. J’étais pas bien. J’ai ma fille, je peux faire une garde à vue, à la limite, quand elle n’est pas là, mais pas quand elle est là… (…) J’étais dans un film. C’est pas ma vie, ça, c’est pas ma vie. »

      Mais pour l’écrasante majorité des citoyen-nes solidaires, la conviction profonde de la légitimité de leur engagement est un moteur plus puissant que la peur d’être arrêté·e, même d’être poursuivi·e.

      Malgré tout, beaucoup ont, depuis un an, perdu totalement confiance et développé une peur vis-à-vis de la police et des institutions étatiques : cela peut se traduire par une nervosité dès que la police est dans les parages (c’est-à-dire constamment), une boule dans le ventre en permanence, une angoisse pour ses enfants et sa famille… Certain·es témoignent d’une paranoïa quotidienne avec l’impression d’être observé·es en permanence, surtout via leur téléphone. Cette question de la surveillance hante les conversations quotidiennes, renforcé par la rapidité de circulation des rumeurs : j’ai vu une voiture de police ici, là ils contrôlaient, ils sont restés plantés longtemps, ça m’a paru étrange…

      J’ai moi-même ressenti cette évolution au fil de mon temps à Briançon : les premières maraudes en montagne, alors que je ne connaissais personne qui avait été arrêté-e, me paraissaient la chose la plus naturelle du monde, un geste évident de mise à l’abri. Ce n’est qu’à force de voir se multiplier les arrestations autour de nous, de recueillir ces témoignages individuels de pression policière, que l’angoisse un peu sourde du contexte Briançonnais m’a gagnée. Un mois et demi plus tard, quand je suis seule en voiture, les sentiments qui m’envahissent sont de l’ordre du qui-vive, de la mise en garde, car je suis à moitié persuadée que ma voiture est repérée aussi. Je ne discute plus au téléphone sans douter que quelqu’un m’écoute, je ne parle plus aussi librement quand il y a un téléphone, même éteint, dans la pièce…

      « La peur d’être arrêtée ça déclenche beaucoup de tensions chez moi. J’avais tellement peur en roulant », se souvient une dame solidaire. Mais quand je lui demande si elle a déjà considéré arrêter d’aider les jeunes migrants à cause de sa peur, elle écarquille les yeux : « Non, bien sûr que non !« . On continue, donc, et on s’habitue à la peur.

      En effet, certaines personnes solidaires ont développé une sorte de nonchalance lasse, déjà habituée, vis-à-vis des arrestations : quand je demande à une amie arrêtée la semaine dernière si « Ca va ? », elle hausse les épaules : « Tu sais, moi je m’en fiche, on est habitué·es ». Je garde en tête une scène qui a eu lieu sous mes yeux au Refuge, tout à fait caractéristique de cet état d’esprit de relativisation par l’habitude : un couple âgé vient proposer de donner un coup de main de temps en temps et offre de descendre des personnes jusqu’à Gap si jamais elles en ont besoin.

      Une bénévole, immédiatement : « Vous savez ce que vous risquez, hein ?

      (haussent les épauples) Oui, bah…
      Parce que moi, j’ai été poursuivie par les flics ! Je vous assure que ça ne s’oublie pas…
      Oui, mais on peut prendre le risque. (souriant) On n’a pas d’enfants, on a 75 ans, on ne risque pas grand-chose…
      Et Martine, de la Roya ? Elle aussi, elle a 75 ans !
      Bah, vous savez, au pire, la prison, c’est un truc que je n’ai encore jamais fait dans ma vie !

      J’en profiterai pour lire des livres… »

      Comme dans d’autres zones de violence policière généralisée, une sorte d’habitude cynique s’est développée chez beaucoup de bénévoles. Lors de la journée d’étude du 15/12/2017 organisée par le groupe BABELS sur la police et les migrants, Lou Einhorn, psychologue pour Médecin du Monde à Calais, soulignait justement le danger de cette intériorisation par les bénévoles de la banalité de la violence : ils et elles peuvent avoir tendance à relativiser la violence due à la police également auprès des personnes migrantes qu’ils et elles accueillent. Or, cette violence, ou cette tension, peuvent raviver des traumatismes et certaines personnes peuvent les ressentir comme insoutenables ; si les bénévoles, habitué·es à ce que la violence ou la surveillance fasse désormais partie du quotidien, ont mis en place des mécanismes de protection en banalisant et relativisant cette violence, ils et elles peuvent ne pas être à l’écoute des personnes qui en sont affectées.

      Par ailleurs, la menace d’être arrêté·e agit comme une contrainte lourde sur l’activité solidaire : elle exige beaucoup plus d’organisation. Elle renforce la nécessité de toujours envoyer une voiture éclaireuse, qu’elle vienne du haut ou du bas de la vallée, pour vérifier que la voie est libre ; potentiellement d’y être à deux personnes pour pouvoir prévenir les autres par téléphone tout en conduisant. Elle implique de calculer les marges de temps avant chaque départ, d’observer les roulements des gardes policières pour passer au bon moment, d’impliquer potentiellement d’autres habitant·es solidaires sur le trajet pour ouvrir leur maison comme lieu de repli au cas où.

      Tout cela a deux effets majeurs : d’abord, la mobilisation nécessaire de toujours plus de bénévoles pour prendre des précautions afin d’assurer la sécurité des personnes migrantes et des bénévoles eux-mêmes. Or, quand les réseaux de solidarité sont petits, cela oblige les mêmes personnes à se mobiliser deux fois plus : en journée, alors que certains travaillent, en soirée, très souvent au milieu de la nuit, voire toute la nuit… Plus il y a besoin de monde, plus les mêmes personnes enchaînent les nuits passées en montagne, au lieu de se reposer. La fatigue physique s’ajoute donc à la tension psychologique des bénévoles, épuisant les troupes jusqu’à mettre en péril leur organisation. A long terme, la surveillance agit ainsi comme une stratégie indirecte d’auto-épuisement des bénévoles et de leurs activités.

      Le deuxième effet qui découle d’une organisation minutieuse des trajets d’aide aux personnes migrantes est la sensation pour certain-es d’organiser un trafic, bien que celui-ci soit bénévole et à vocation solidaire. Or, il est intéressant de constater que les discours de la préfète des Hautes-Alpes1 condamnent précisément tout ce qui est de l’ordre du « réseau organisé », alors qu’elle dit tolérer qu’on vienne en aide, individuellement, à la personne vulnérable qui passe sous sa fenêtre. Dans les faits, c’est précisément le contrôle policier incessant et la remise en danger, en montagne, des personnes arrêtées, qui oblige les bénévoles à mettre en place un réseau organisé de transport : la préfecture provoque ainsi elle-même l’activité dont elle accuse les habitant·es solidaires.

      Ce glissement d’une activité qui se veut simplement solidaire vers une activité dite « illégale » est vécu par les habitant·es comme quelque chose qui leur est imposé par le contrôle policier : « Nous on veut travailler avec les secours en montagne et on se présente comme secours en montagne. Sauf qu’avec les pratiques politiques, dès qu’ils sont dans la rue, ils ne sont plus en sécurité. Du coup on organise des convois : notre démarche, c’est qu’on ne veut pas en perdre un seul, et on ne veut pas que les Français aient des ennuis », dit l’un d’eux. Cela implique donc une grande organisation qui, sur le terrain, s’apparente à un « jeu de cache-cache » extrêmement anxiogène pour les personnes exilées. Leur arrivée en France se fait ainsi dans un contexte de peur qui peut raviver des traumatismes récents.
      Bavures policières ? Le plan de Macron

      Vis-à-vis de ces pratiques quotidiennes d’intimidation, il serait facile pour le gouvernement d’argumenter qu’il s’agit de glissements locaux liés à un terrain particulier, à une « zone de tension » ou « zone de crise », bref, des situations ponctuelles et exceptionnelles qui n’ont rien d’emblématique. Or, à chaque fois que les habitant·es solidaires ont eu l’occasion de discuter avec des agents de police sur le terrain, et notamment en ce qui concerne leurs pratiques illégales de refoulement de demandeur·euses d’asile et de mineurs, ceux-ci ont eu pour simple discours que tous les ordres venaient « d’en haut ».

      Par ailleurs, d’autres moyens de pression plus discrets mais encore plus efficaces prouvent que la volonté d’interrompre par tous les moyens les activités bénévoles vient aussi de la préfecture, et à travers elle, de l’Etat. Notamment, la préfecture a fait barrage aux demandes de subventions nationales et européennes de la MJC, lieu central à Briançon, qui agit à la fois comme centre social et comme moteur d’activités culturelles pour la ville. Cette MJC a été un des premiers lieu d’accueil des personnes migrantes à Briançon quand la frontière des Hautes-Alpes est devenue un lieu de passage, parce qu’elle disposait déjà de la MAPE-monde, un dispositif d’accès aux droits pour les étrangers : sans subventions, la MAPE-monde ne peut plus continuer ses activités d’aide à la demande d’asile. Le motif invoqué, de manière très claire, par la préfète, pour justifier ce blocage des demandes de subventions, est que « l’Etat ne peut pas soutenir des associations qui vont à l’encontre de sa politique. »

      Comme les périodes de resserrement des contrôles à la frontière sont entrecoupées de périodes beaucoup plus laxistes de la part des contrôles policiers, au point que la politique menée semble contradictoire, les bénévoles se posent des questions : quand trop de personnes arrivent d’un coup au Refuge solidaire, il est vrai que la situation à Briançon devient explosive pour tout le monde. Quand l’occupation de la gare SNCF a été délogée par une intervention massive de CRS, cela faisait trois jours qu’il n’y avait aucun contrôle à la frontière et que tout le monde descendait. Certain-es se demandent si un « jeu du pourrissement » à Briançon n’est pas mis en place de manière stratégique pour justifier une intervention militaire plus massive… L’avenir le dira.

      Les différents éléments de terrain décrits dans cet article sont épars, divers, inégaux ; ils témoignent d’un répertoire très large des moyens de pressions employés dans le Briançonnais pour décourager les citoyen·nes solidaires. Cette diversité joue également le jeu d’un discours qui les présenterait comme des phénomènes ponctuels et séparés. Or, il est nécessaire de les présenter ensemble, non pas comme des faits distincts mais comme un continuum du contrôle policier, un ensemble de moyens au profit de la même stratégie étatique de lutte contre l’entrée sur le territoire de personnes étrangères en situation irrégulière, et de répression des gens locaux qui les aident.

      CONCLUSION.
      Pression, contre-pression : des débats sur la résistance à mettre en oeuvre

      Localement, des résistances sont à l’oeuvre contre la répression des solidarités. Les voisins et voisines, même celles et ceux qui ne partagent pas les idées politiques des bénévoles, font preuve d’une complicité passive quand ils et elles les avertissent discrètement d’un barrage de police plus bas dans la vallée. Une sorte de résistance de fond de la population locale, ulcérée de toutes part par l’omniprésence et la démesure des contrôles, permet une solidarité discrète entre les habitant·es de la vallée, au-delà des désaccords idéologiques.

      De la part des habitant·es menacé·es par les contrôles, de nombreuses tentatives de dialogue vis-à-vis des institutions policières ont été entreprises. Une tentative d’entretien avec les secours en montagne, pour mettre en place une stratégie commune de sauvetage des personnes en danger, qui s’est soldée par un relatif échec de la discussion ; entretien avec l’officier de police judiciaire pour vérifier leur droit à dénoncer les pratiques illégales constatées par les citoyen·nes de la part des agents de police, qui n’a pas abouti non plus. La fermeture totale des institutions policières, l’opacité et le secret dans lequel elles agissent, empêchent tout dialogue avec les citoyen·nes solidaires.

      La stratégie de mobilisation mise en oeuvre par l’association Tous Migrants2 a été de répondre à la pression policière par une pression médiatique. Grâce à ce travail de médiatisation, il a été possible, lors de l’arrestation de Benoît Ducot le 10 mars dernier pour avoir voulu conduire à l’hôpital Marcella, une femme nigérianne en train d’accoucher, de mobiliser immédiatement les médias sur ce sujet et d’organiser une manifestation à la PAF lors de la convocation de Benoît. La pression médiatique maintenue par les citoyen·nes, surtout dans une région à haut revenu touristique, a très certainement un impact positif sur la diminution du contrôle policier ainsi que des condamnations des gens solidaires.

      Mais au quotidien, les stratégies à adopter pour faire face aux menaces qui pèsent sur les activités d’aide aux personnes étrangères divisent les bénévoles. Le fait de s’organiser pour être le moins visible possible, d’aider les migrant·es à partir le plus vite possible de la vallée pour ne pas que trop de gens y restent, en un mot, de jouer le jeu de cache-cache imposé par la police, ne fait pas consensus au sein des militant·es. Car faire le jeu de la police, c’est aussi assurer le secours en montagne à la place de la gendarmerie de haute-montagne, par peur qu’elle mette en péril des personnes en les refoulant à la frontière et en toute illégalité ; c’est aussi prendre en charge bénévolement et dans le secret l’accueil des demandeur·euses d’asile qui relève normalement du devoir de l’Etat ; c’est aussi financer soi-même les trajets hebdomadaires des mineurs jusqu’au conseil départemental à Gap, ce qui relève de la reponsabilité de l’Etat. C’est enfin assumer le fait d’envoyer rapidement dans les grandes villes des personnes qui n’ont pas de contacts là-bas et se retrouvent à la rue, invisibles, sans réseau de solidarité sur lequel s’appuyer.

      La stratégie de la peur pousse les bénévoles à agir toujours plus dans l’ombre, discrètement, et continuer de faire fonctionner une situation qui relève d’une imposture de la part de l’Etat. Or, tout le monde n’est pas d’accord pour continuer d’accepter cela, alors que les arrivées sont toujours plus nombreuses et que la répression ne cesse pas : mettre en pleine lumière la responsabilité de l’Etat, les pratiques illégales et inhumaines de ses agents, est ce que souhaitent la plupart des citoyen·nes solidaires… qui se contraignent pourtant au silence, par peur de la répression et surtout par peur que celle-ci s’exerce sur les personnes étrangères pour lesquelles cette solidarité est mise en oeuvre.

      Des débats politiques sur la stratégie à adopter continuent donc d’avoir lieu parmi les citoyen·nes solidaires. Au quotidien, les bénévoles acceptent toutes ces charges, parce qu’ils et elles ont la conviction qu’offrir un accueil digne aux personnes étrangères est ce qu’il y a de plus important. Mais quand les citoyen·nes solidaires manquent de relais, manquent de force, manquent de sommeil ou n’ont plus assez d’argent pour faire tourner les lieux de vie collective, la question du bras-de-fer avec l’Etat ressurgit : n’est-on pas la dupe d’une manipulation, qui nous oblige à prendre en charge dans le secret l’accueil des migrant·es dans la région, tout en nous réprimant et nous menaçant ?

      19 avril 2018 derootees

      Depuis 2015, dans le cadre de la « lutte anti-terroriste » menée par l’Etat français, on a assisté à une intensification de la répression policière et juridique vis-à-vis des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es, notamment aux zones frontalières. L’inculpation, entre juillet 2015 et janvier 2017, de 9 citoyen·nes des Alpes Maritimes, a vu ressusciter les débats autour du poussiéreux « délit de solidarité », institué en 1938 (dans un climat dont chacun·e devine qu’il était particulièrement xénophobe…)

      Le dossier en ligne du Gisti sur le délit de solidarité montre comment les évolutions progressives du droit sont devenues de plus en plus floues de sorte qu’il n’ait plus vocation à réprimer les trafics et réseaux mafieux à la frontière, mais à englober dans le champ des répressions les pratiques d’aide gratuite et solidaires vis-à-vis des étrangers. Cette évolution est le fruit d’une représentation de continuité entre l’immigration clandestine et le terrorisme : ainsi, dès 1996, l’aide au séjour irrégulier est intégrée parmi les infractions à visée potentiellement terroriste. Depuis les années 2000, on assiste à une extension des immunités (notamment pour « motifs humanitaires ») mais aussi, simultanément, à une aggravation des sanctions et de la répression des citoyen·nes solidaires avec les étranger·es sans-papiers.

      Tout un arsenal législatif a ainsi vocation à limiter les activités bénévoles de citoyen·nes solidaires : l’ « aide à l’entrée et au séjour irréguliers », punis de 5 ans d’emprisonnement et de 30 000 euros d’amende, mais aussi les « délits d’outrage, d’injure et de diffamation ou de violences à agent publics », utilisés selon le Gisti pour » défendre l’administration et la police contre les critiques dont leurs pratiques font l’objet ». A ces motifs s’ajoutent des pratiques plus sournoises de dissuasion, qui procèdent de la même volonté politique : « Il s’agit de priver l’étranger en situation irrégulière en France de toute forme de soutien : amical, politique ou juridique mais aussi, au-delà, de signifier à la population en général et aux militant·es en particulier qu’on ne peut s’opposer impunément à la politique gouvernementale quelles que soient la détresse humaine et les horreurs qui lui sont inhérentes. »

      Outre le choquant paradoxe de l’expression « délit de solidarité », la défense juridique lors des procès des citoyen·nes de la Roya remet en cause les pratiques de l’Etat : que fait-il du droit international qui consacre le droit pour chacun « de participer à des activités pacifiques pour lutter contre les violations des droits de l’homme et des libertés fondamentales » ? Que fait-il de l’injonction d’assistance à personne en danger, surtout en contexte de montagne ?

      Le positionnement politique des citoyen·nes inculpé·es, qui assument leur solidarité avec les sans-papiers, va encore plus loin : si les personnes mettent leur vie en péril en passant par des chemins dangereux, c’est parce qu’elles se cachent de la police, et ont peur d’être arrêtées. En tant que personnes vulnérables en montagne, c’est à la gendarmerie de haute montagne de leur porter secours ; en tant que demandeuses d’asile (pour la quasi-totalité d’entre elles), ou mineures (pour la moitié d’entre elles) ces personnes devraient être prises en charge par la police, puis par la préfecture, dans une logique de protection prévue par le droit français. Ce sont les pratiques illégales par la police de refoulement aux frontières qui (re)mettent en danger les personnes migrantes (souvent abandonnées en montagne dans un froid extrême après leur arrestation).

      Le délinquant, le criminel, c’est l’Etat, objectent donc les collectifs de soutien, qui ne respecte ni les traités internationaux, ni les lois, ni aucune des valeurs d’asile de fraternité de la République. Dans les Alpes-Maritimes, l’heure est donc à la mobilisation collective, juridique et politique aux côtés de ces « délinquant·es solidaires » pour les soutenir dans leur procès et montrer que la société civile n’adhère pas au discours qui fait d’elles et eux des criminel·les.

      Qu’en est-il dans les Hautes-Alpes ? La route qui s’est ouverte progressivement au cours de l’année 2017 en fait, depuis plus de six mois, un des principaux passages vers la France. Dans le Briançonnais, les mêmes événements se sont enchaînés, rapidement, qu’à Menton et dans la Roya : augmentation brutale du nombre de personnes traversant la région pour entrer en France, organisation citoyenne pour faire face à une situation humanitaire d’urgence, militarisation de la frontière grâce à des équipements et des renforts policiers, répression des personnes clandestines… Et prise en étau des bénévoles solidaires au coeur de ce dispositif de répression, lequel vise avant tout les personnes étrangères, mais également tous les gens qui leur viennent en aide.

      L’association Tous Migrants estime que depuis le printemps 2017, entre 40 et 50 personnes ont été arrêtées et convoquées à la PAF, principalement pour délit d’ »Aide à la circulation, à l’entrée ou au séjour de personnes en situation irrégulière ». On peut estimer que plus du double ont été interpelé-es par des agents de police ou de gendarmerie dans l’exercice d’un acte de solidarité. On compte également au moins 5 gardes-à-vue. Benoît Ducos, un de nos camarades dont le nom a été relayé par les médias pour être venu en aide à une femme nigérianne enceinte, est à la fois menacé d’un procès, et sollicité par de grandes ONG italiennes pour recevoir des prix pour son « héroïsme »… Cela résume aussi bien le contexte absurde et paradoxal (et ironique) dans lequel nous oeuvrons.

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      Rassemblement de soutien à Benoît Ducos, SB mars 2018

      Jusqu’à maintenant, dans les Hautes-Alpes, les convocations sont restées sans suite ; mais comme les événements de la Roya sont un sombre présage pour leur futur proche, les nombreux·ses citoyen·nes solidaires du Briançonnais sont plongé·es dans l’anxiété. La répression, à défaut d’être judicaire, est policière ; et elle prend parfois des formes plus détournées encore : pressions morales, psychologiques, financières… A Briançon et dans la vallée de la Clarée, tout se joue encore sur le terrain, dans l’informel, dans les interactions directes avec les officiers de police et gendarmerie, ou les agents de l’Etat. Leur caractère aléatoire, mouvant, complexe, entraîne une invisibilisation de cette répression par l’Etat des activités solidaires.

      Les témoignages recueillis ci-dessous évoquent différentes manières grâce auxquelles l’Etat développe sa stratégie d’intimidation des personnes solidaires dans le Briançonnais. Un recueil de ces témoignages et une mise en commun des expériences individuelles sont indispensables pour dénoncer ces phénomènes qui ne sont pas isolés, mais s’inscrivent au contraire dans une politique calculée de l’Etat français à travers une stratégie de la peur.

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      Manifestation devant la PAF, source : Libération
      La méthode atmosphérique : création d’un climat de tension

      Le nombre relatif d’arrestations n’évacue pas le contact au quotidien, pour les habitant·es du Briançonnais et particulièrement celles et ceux de la vallée de la Clarée, avec une présence policière lourde et un contrôle incessant, particulièrement féroce durant la période de la fin de l’été à début décembre 2017. A la gendarmerie locale, la douane, la Police de l’Air et des Frontières, le PSIG, la Police et Gendarmerie de Haute-Montagne initialement présents, se sont ajoutés les renforts venus de la région entière, dont des groupe d’interventions spécialisés comme la Brigade Anti-Criminelle, les CRS, des renforts de la vallée de la Roya, et même les sentinelles de l’armée.

      Les habitant·es et touristes témoignent des barrages quotidiens sur la route qui imposaient parfois quatre contrôles par jour aux personnes désirant descendre dans la vallée. Barrages, brigades mobiles, postes de surveillance, les renforts policiers de toute la région ne se sont pas contentés de sillonner les cols ou les routes durant cette période, mais aussi d’installer leur présence au coeur des bourgs de Névache, Val-des-Prés, de Briançon, de sorte à ce qu’aucun jour, et aucune nuit, ne se passe sans avoir le sentiment d’être surveillé·e par la police. Deux habitants de Névache décrivent la présence dans le centre du village de voitures de police avec leurs phares à 4h du matin, au pied de tous les d’immeubles. « On se fait du cinéma », conclut l’un d’entre eux, conséquence logique du fait que le petit village semble s’être transformé durant cette période en décor de cinéma.

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      Barrage quotidien à Névache, été 2017, source : La Provence

      Au même moment, les hélicoptères sillonnent régulièrement le ciel. « Le pire c’est l’hélico, c’est vraiment un sentiment d’oppression. Quand ils font des rondes, on sait que ce n’est pas pour le sauvetage, mais pour la surveillance », dénonce une habitante de Névache.

      Plus bas à Briançon, un Refuge a ouvert cet été pour permettre aux personnes migrantes de s’abriter après leur difficile traversée de la montagne. Bien que les sans papiers puissent être arrêté·es partout dans la ville, le Refuge a bénéficié d’une sorte d’immunité humanitaire. Malgré tout, pendant l’été et l’automne 2017, les rondes régulières des véhicules de gendarmerie devant le Refuge semblent menacer sa sécurité : « Ils roulent à une vitesse d’escargot, 20km/h, on se sent observés : t’es toujours suspect… J’ai pensé à d’autres pays où les gens sont sous surveillance et je me suis dit « on connaît ça ici ». On devient nous mêmes suspects« , confie une bénévole. Ces rondes s’ajoutent aux gendarmes en civil postés sur le parking devant le Refuge, et à la présence certifiée des renseignements généraux sur la même place. Cela renforce la croyance chez les bénévoles qu’ils et elles sont tou·te·s repéré·es, fiché·es, leurs voitures enregistrées.

      Alors que je recueille le témoignage de l’une de ces bénévoles, assises au soleil sur cette place, elle coupe son récit pour dire : « Et tu peux m’expliquer pourquoi il y a une voiture de police qui est plantée à côté de nous depuis 8 minutes ? ». Au moment où je tourne la tête, la voiture de gendarmes démarre. Cette pression est discrète, mais elle développe chez tous les volontaires des réflexes anxieux, d’auto-surveillance de leurs faits et gestes. Cela fait dire à une vieille dame bénévole « Ah, c’est encore la Gestapo ».

      Cette stratégie est développée aussi lors d’événements collectifs plus militants : « A chaque fois qu’on a fait des manifs à la PAF, ils nous ont photographiés, ainsi que les bagnoles… »

      Côté italien, les montées à la frontière de la police et des gendarmes ne concernent pas les migrant-es mais bien les militant·es. Dès le premier jour de l’occupation, une montée massive de la police (polizia, carabinieri, police politiques, voitures civiles) vers le lieu a ancré cette action dans un contexte de confrontation. Des voitures postées en observation devant le lieu que nous occupons, des tentatives régulières par des hommes en civil ou en uniforme discret (la police politique) d’entrer dans le lieu, suffisent à poser le climat. Interpellations sans justification, juste parce qu’on a un véhicule français, prise d’identité. Pour les personnes qui arrivent depuis la vallée par le bus, que nous accueillons dans le lieu en tentant de les mettre en sécurité, cette surveillance menaçante fait s’écrouler tout ce que nous avons mis en place en termes d’accueil. Alors que la police a tenté de rentrer dans le lieu, et que nous n’avons pas eu le temps de barricader, j’ai dû crier à des sans-papiers que nous accueillions depuis la veille de se cacher vite, pour ne pas qu’ils les trouvent : comment prétendre essayer de créer un climat de sécurité, dans ces conditions ?

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      Arrivée du bus de Clavière, cernée par les voitures de police et des renseignements généraux, SB avril 2018

      Les touristes qui ont fréquenté la région à la fin de l’été manifestent de manière unanime un choc vis-à-vis de cette présence policière démentielle et apparemment injustifiée. « Pendant l’automne, la vallée ressemblait plus à une scène de guerre qu’à une région touristique », s’accordent de nombreux·ses habitant·es. « On a senti un moment d’occupation. Quand ils sont partis, on a enfin pu respirer. »
      La tactique du « cow-boy » : courses-poursuites et mise en scène d’arrestations

      La stratégie favorite dans le Briançonnais est ainsi celle de l’intimidation. Celle-ci possède une dimension spectaculaire, au sens propre du terme : comme si la vallée était un théâtre, où après avoir planté un décor de guerre, des acteurs jouent aux opérations militaires de grande envergure.

      Les course-poursuites ont vocation à produire cet effet impressionnant. Une femme du Refuge raconte qu’en septembre, alors que la police surveillait constamment la gare de Briançon, empêchant le départ des migrant-es vers le reste de la France, des bénévoles avaient organisé un petit convoi pour descendre une dizaine de personnes vers la gare suivante, à l’Argentière, afin qu’elles puissent prendre leur train vers Paris. « On attendait dans l’herbe à côté de la gare, tranquillement, quand la police est arrivée : il a fallu se précipiter, en rampant, dans les voitures. On s’est précipités vers la gare suivante, Saint-Crepin, à toute vitesse. Là on attend, on surveille la gare. Pendant ce temps les jeunes sont dans la voiture et attendent que le train arrive. Quand il arrive on leur dit de courir. Ils montent dans le train, et direct après, horreur, on voit arriver la police ! Ils ont tous été arrêtés à Gap. »

      Une autre femme, habitante de la Clarée, raconte : « J’allais au boulot à quatre heure du matin, et il y a un gars qui m’appelle, qui venait de descendre l’Echelle et d’arriver dans la vallée. Je l’ai pris en voiture pour l’aider à descendre et il y en avait plein d’autres qui marchaient sur le bord de la route, ils couraient au milieu des voitures, dévalaient la pente. Alors je les ai emmenés aussi.

      Les gendarmes à Val-des-Prés en avaient déjà arrêté une vingtaine. Moi je les ai vus, et j’ai eu peur : j’ai accéléré. Ils m’ont poursuivie. Au village suivant, je me suis arrêtée « Sortez, courez ! », je leur ai dit. Les gendarmes nous ont tous poursuivis, un seul gars a réussi à s’évader, se cacher dans un jardin. J’étais prise au piège dans mon propre village. J’ai eu une sacrée frayeur ! »

      Comme beaucoup d’autres, cette femme n’a pas été re-convoquée par la suite, malgré son arrestation : les interventions musclées sur le terrain, confirment les bénévoles, ne comportent pas pour l’instant de suites judiciaires, elles se suffisent à elles-mêmes pour impressionner les citoyen-nes solidaires.

      La dimension dissuasive de ces course-poursuites est plus évidente encore quand elles concernent des gens qui ne transportent pas de migrant·es, mais qui se contentent de leur parler. Moi-même, alors que je me contentais d’observer, j’ai été prise en chasse par une voiture de police… qui n’avait rien d’autre à me reprocher que de rouler les phares éteints.

      L’intimidation se joue aussi dans la mise en scène de l’arrestation. Le ton de la voix, la manière d’interpeler, font partie du jeu de scène. On me raconte, à chaque contrôle du véhicule, les phares de voiture et lampes en pleine figure pour éblouir, les arrestations à grands cris, contrôles d’identité, fouille du véhicule – même quand il n’y a rien à signaler.

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      Barrage sur la route de Briançon à Montegenèvre, SB, avril 2018

      Un militant raconte son arrestation récente : les armes braquées sur lui, une ouverture à coups de pieds de la portière de la voiture, les personnes agrippées brutalement, menottées avant d’être conduites à la gendarmerie. Un autre homme arrêté au col de l’Echelle alors qu’il transportait une femme enceinte et sa famille a fait l’objet d’une arrestation brutale : ses voisins racontent que les gendarmes lui ont esquinté les bras, et qu’il a eu très mal par la suite.

      Enfin, pour certaines personnes arrêtées, la violence verbale grossière est utilisée pour forcer la peur. Une militante me raconte : « J’ai une copine qui a été arrêtée à la PAF alors qu’elle emmenait des mineurs se signaler, à la demande de la gendarmerie. Elle a été cuisinée, a raconté qu’elle avait aidé les gens à prendre leurs billets de train. La personne qui l’interrogeait lui a tenu des propos odieux, sexistes, racistes, machistes, et des gestes obscènes. Pendant un mois, elle a arrêté ses activités bénévoles. Elle ne veut pas témoigner, elle est très intimidée. »

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      Manifestation à la PAF contre l’arrestation d’une bénévole, le soir de l’attaque de la voiture de police, source : Le Dauphiné Libéré, 24 mai 2017

      Enfin, le cas le plus grave recensé à la frontière a été une violence physique contre un manifestant, en mai 2017, renversé par un véhicule de police alors qu’il était venu soutenir avec une trentaine d’autres citoyen·nes solidaires des réfugié·es et une travailleuse sociales qui avaient été arrêté·es par la PAF. Voici le témoignage relayé par la presse de la victime de cette violence : « Une voiture de police part sur les chapeaux de roues (…) à son bord 2 ou 3 réfugiés, direction le poste de police en Italie. (…). Spontanément, une dizaine d’entre nous décident de se mettre au milieu de la route et de mettre nos simples corps comme barrière naturelle à l’expulsion. Le chauffard essaye de forcer le passage en faisant vrombir le moteur, et en avançant pare-choc contre tibias. L’une d’entre nous tombe devant la voiture. Le reste des flics présents mettent des coups pour nous dégager de la chaussée. La voiture de police (…) active une grande marche arrière( à contre-sens) puis repasse en marche avant et se met soudainement à accélérer. Elle fonce, 50 peut-être 60 kilomètres heure, Pas de gyrophare. Pas de sirène.

      Je suis au milieu de la chaussée, je regarde la voiture de police arriver, elle ne décélère pas. (…) La bagnole continue sa course et me percute. (…) Je me retrouve ensuite sur le bitume et la roue arrière du véhicule me passe sur la jambe, au-dessus de la cheville. La voiture continue sa course comme si de rien n’était. Une fois au sol je m’ aperçois que plein de gens hurlent. J’hurle aussi. Sur ma droite un mec en costard, un cadre la PAF, ou de la préfecture me regarde comme un déchet. Il fait demi -tour et retourne sur ses pas pour aller se planquer dans le bâtiment du ministère de l’intérieur. Il est témoin direct de l’action. (…)

      Un policier de la PAF […] me lance « fallait pas te jeter sur la voiture »…on suppose que ce sera la version officielle. Les gendarmes ne prennent aucun témoignage des faits qui viennent de se passer. Certains policiers esquisse[nt] des sourires. Je suis pris en charge par les pompiers avec une atèle au pied droit. Les gendarmes n’ont toujours pris aucun renseignement auprès des témoins présents. J’arrive à l’hôpital. » Cet événement qui aurait pu entraîner la mort du manifestant, dénoncé avec force par les associations locales et par la presse, a été vécu comme une violence extrême à l’encontre des citoyen·nes solidaires, marquant une ère de confrontation définitive entre la police et les gens locaux.
      La méthode Stasi : menaces individuelles

      La stratégie de la peur ne se limite pas aux arrestations ponctuelles : elle fonctionne aussi de manière préventive, sous la forme de la menace. En Italie, la dernière fois que la police politique a pris mon identité, ils nous ont assuré qu’ils connaissaient les visages de chacun-e d’entre nous, savaient parfaitement qui entrait et qui quittait le lieu, à toutes les heures, et que prochainement une arrestation massive tomberait sur tou-te-s les occupant-es.

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      Surveillance des gendarmes italiens sur la place de l’église à Clavière, SB, avril 2018

      L’été dernier, un habitant de la Clarée connu pour avoir accueilli beaucoup de jeunes migrants a bénéficié d’une visite à son domicile de la gendarmerie doublée d’une perquisition : « Ils sont venus, ils ont évacué les gars, ils ont retourné les matelas… » Au printemps, deux gendarmes s’étaient déjà baladés chez tous les commerçants avec deux photos dont la sienne, en demandant : « Est-ce que vous connaissez cet homme ? ».

      Une autre militante, que nous appellerons ici Séraphine Loulipo, relate un épisode de cet été avec des amis. Après avoir accompagné au Refuge un jeune homme, ils se rendent compte qu’ils sont observés sur le parking du refuge par un homme en civil, assis sur le muret, qui leur lance : « De toutes façons j’ai toutes les images, j’ai tout filmé…. Votre voiture est fichée, nous on ne va pas vous lâcher, ça ne va pas se passer comme ça. »

      Trois jours plus tard, Mme Loulipo se heurte à un barrage de police sur la route de la Clarée. « Ah, Séraphine Loulipo », dit immédiatement le gendarme qui la contrôle, à la seule vue de son véhicule. « Ca va bien, le trafic des migrants ? ». Puis d’ajouter : « Mettez vous sur le côté, on va bien lui trouver quelque chose à cette voiture. » Alors qu’elle cherche le gilet jaune obligatoire dans tous les véhicules, il prépare d’avance sa contravention et se gausse : « Je l’apporterai directement chez vous ». Alors qu’elle retrouve le gilet, le gendarme se met alors en colère, et la menace : « Ca ne va pas se passer comme ça, vous allez finir en garde-à-vue. » Mme Loulipo est ainsi rentrée chez elle persuadée que la police connaissait ainsi, en plus de son nom et de son véhicule, l’adresse où elle vit avec ses enfants.

      Le mois dernier, un autre bénévole a bénéficié d’une de ces séances d’intimidations. « Ils sont venus me voir à mon boulot, sur mes horaires de travail. Ils étaient 3, en uniforme. Ils m’ont engueulé. « On t’a vu ! (…) Tu vas te faire choper, on peut te faire fermer ton commerce, on va saisir ton véhicule. » Puis on a discuté, j’ai réagi calmement, le gendarme s’est calmé. A la fin, il m’a même dit : « C’est bien, fais selon tes convictions. Mais si je te chope, je t’aurai. » L’homme qui me confie cette histoire ajoute en conclusion : « Mais moi je sais que je ne crains rien. Quand on fait peur aux gens, c’est qu’on ne va pas vraiment les arrêter. »
      L’effet des arrestations sur l’activité des bénévoles . Une stratégie efficace ?

      Ainsi les méthodes de contrôle policier des activités solidaires dans le Briançonnais fonctionnent-elles plus sur l’intimidation et la menace que la punition. Elles ont un caractère anticipatoire : faire en sorte que les personnes renoncent, d’elles-mêmes, à aider les sans-papiers qui arrivent par la montagne.

      Les moyens mobilisés au profit de cette stratégie ont nécessairement eu un impact. La simple présence policière a un effet dissuasif, comme me le raconte une bénévole dont la propriétaire est une dame âgée, qui aimerait bien accueillir des migrant·es qu’elle voit quotidiennement sous sa fenêtre, mais qui est terrorisée par la police ! « Ne dites pas que je vous l’ai dit », a-t-elle confié à sa locataire.

      Il y a de nombreux cas de bénévoles qui, suite à leur arrestation, ne reviennent pas au Refuge pendant plusieurs semaines ou plusieurs mois, ou qui limitent leurs activités à des choses pour lesquelles elles ne peuvent pas être arrêtées (ne plus aller à la gare, ne plus faire de transport ou de covoiturage…). La bénévole du Refuge qui a été poursuivie à la gare de l’Argentière, m’a raconté que : « Moi depuis, je ne fais plus rien [en transport]. J’ai eu tellement peur, le coeur qui battait. J’étais pas bien. J’ai ma fille, je peux faire une garde à vue, à la limite, quand elle n’est pas là, mais pas quand elle est là… (…) J’étais dans un film. C’est pas ma vie, ça, c’est pas ma vie. »

      Mais pour l’écrasante majorité des citoyen-nes solidaires, la conviction profonde de la légitimité de leur engagement est un moteur plus puissant que la peur d’être arrêté·e, même d’être poursuivi·e.

      Malgré tout, beaucoup ont, depuis un an, perdu totalement confiance et développé une peur vis-à-vis de la police et des institutions étatiques : cela peut se traduire par une nervosité dès que la police est dans les parages (c’est-à-dire constamment), une boule dans le ventre en permanence, une angoisse pour ses enfants et sa famille… Certain·es témoignent d’une paranoïa quotidienne avec l’impression d’être observé·es en permanence, surtout via leur téléphone. Cette question de la surveillance hante les conversations quotidiennes, renforcé par la rapidité de circulation des rumeurs : j’ai vu une voiture de police ici, là ils contrôlaient, ils sont restés plantés longtemps, ça m’a paru étrange…

      J’ai moi-même ressenti cette évolution au fil de mon temps à Briançon : les premières maraudes en montagne, alors que je ne connaissais personne qui avait été arrêté-e, me paraissaient la chose la plus naturelle du monde, un geste évident de mise à l’abri. Ce n’est qu’à force de voir se multiplier les arrestations autour de nous, de recueillir ces témoignages individuels de pression policière, que l’angoisse un peu sourde du contexte Briançonnais m’a gagnée. Un mois et demi plus tard, quand je suis seule en voiture, les sentiments qui m’envahissent sont de l’ordre du qui-vive, de la mise en garde, car je suis à moitié persuadée que ma voiture est repérée aussi. Je ne discute plus au téléphone sans douter que quelqu’un m’écoute, je ne parle plus aussi librement quand il y a un téléphone, même éteint, dans la pièce…

      « La peur d’être arrêtée ça déclenche beaucoup de tensions chez moi. J’avais tellement peur en roulant », se souvient une dame solidaire. Mais quand je lui demande si elle a déjà considéré arrêter d’aider les jeunes migrants à cause de sa peur, elle écarquille les yeux : « Non, bien sûr que non !« . On continue, donc, et on s’habitue à la peur.

      En effet, certaines personnes solidaires ont développé une sorte de nonchalance lasse, déjà habituée, vis-à-vis des arrestations : quand je demande à une amie arrêtée la semaine dernière si « Ca va ? », elle hausse les épaules : « Tu sais, moi je m’en fiche, on est habitué·es ». Je garde en tête une scène qui a eu lieu sous mes yeux au Refuge, tout à fait caractéristique de cet état d’esprit de relativisation par l’habitude : un couple âgé vient proposer de donner un coup de main de temps en temps et offre de descendre des personnes jusqu’à Gap si jamais elles en ont besoin.

      Une bénévole, immédiatement : « Vous savez ce que vous risquez, hein ?

      (haussent les épauples) Oui, bah…
      Parce que moi, j’ai été poursuivie par les flics ! Je vous assure que ça ne s’oublie pas…
      Oui, mais on peut prendre le risque. (souriant) On n’a pas d’enfants, on a 75 ans, on ne risque pas grand-chose…
      Et Martine, de la Roya ? Elle aussi, elle a 75 ans !
      Bah, vous savez, au pire, la prison, c’est un truc que je n’ai encore jamais fait dans ma vie !

      J’en profiterai pour lire des livres… »

      Comme dans d’autres zones de violence policière généralisée, une sorte d’habitude cynique s’est développée chez beaucoup de bénévoles. Lors de la journée d’étude du 15/12/2017 organisée par le groupe BABELS sur la police et les migrants, Lou Einhorn, psychologue pour Médecin du Monde à Calais, soulignait justement le danger de cette intériorisation par les bénévoles de la banalité de la violence : ils et elles peuvent avoir tendance à relativiser la violence due à la police également auprès des personnes migrantes qu’ils et elles accueillent. Or, cette violence, ou cette tension, peuvent raviver des traumatismes et certaines personnes peuvent les ressentir comme insoutenables ; si les bénévoles, habitué·es à ce que la violence ou la surveillance fasse désormais partie du quotidien, ont mis en place des mécanismes de protection en banalisant et relativisant cette violence, ils et elles peuvent ne pas être à l’écoute des personnes qui en sont affectées.

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      Bénévoles sur le parking de la MJC, SB, mars 2018

      Par ailleurs, la menace d’être arrêté·e agit comme une contrainte lourde sur l’activité solidaire : elle exige beaucoup plus d’organisation. Elle renforce la nécessité de toujours envoyer une voiture éclaireuse, qu’elle vienne du haut ou du bas de la vallée, pour vérifier que la voie est libre ; potentiellement d’y être à deux personnes pour pouvoir prévenir les autres par téléphone tout en conduisant. Elle implique de calculer les marges de temps avant chaque départ, d’observer les roulements des gardes policières pour passer au bon moment, d’impliquer potentiellement d’autres habitant·es solidaires sur le trajet pour ouvrir leur maison comme lieu de repli au cas où.

      Tout cela a deux effets majeurs : d’abord, la mobilisation nécessaire de toujours plus de bénévoles pour prendre des précautions afin d’assurer la sécurité des personnes migrantes et des bénévoles eux-mêmes. Or, quand les réseaux de solidarité sont petits, cela oblige les mêmes personnes à se mobiliser deux fois plus : en journée, alors que certains travaillent, en soirée, très souvent au milieu de la nuit, voire toute la nuit… Plus il y a besoin de monde, plus les mêmes personnes enchaînent les nuits passées en montagne, au lieu de se reposer. La fatigue physique s’ajoute donc à la tension psychologique des bénévoles, épuisant les troupes jusqu’à mettre en péril leur organisation. A long terme, la surveillance agit ainsi comme une stratégie indirecte d’auto-épuisement des bénévoles et de leurs activités.

      Le deuxième effet qui découle d’une organisation minutieuse des trajets d’aide aux personnes migrantes est la sensation pour certain-es d’organiser un trafic, bien que celui-ci soit bénévole et à vocation solidaire. Or, il est intéressant de constater que les discours de la préfète des Hautes-Alpes1 condamnent précisément tout ce qui est de l’ordre du « réseau organisé », alors qu’elle dit tolérer qu’on vienne en aide, individuellement, à la personne vulnérable qui passe sous sa fenêtre. Dans les faits, c’est précisément le contrôle policier incessant et la remise en danger, en montagne, des personnes arrêtées, qui oblige les bénévoles à mettre en place un réseau organisé de transport : la préfecture provoque ainsi elle-même l’activité dont elle accuse les habitant·es solidaires.

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      Maraude, hiver 2017, source : comunita di destinu

      Ce glissement d’une activité qui se veut simplement solidaire vers une activité dite « illégale » est vécu par les habitant·es comme quelque chose qui leur est imposé par le contrôle policier : « Nous on veut travailler avec les secours en montagne et on se présente comme secours en montagne. Sauf qu’avec les pratiques politiques, dès qu’ils sont dans la rue, ils ne sont plus en sécurité. Du coup on organise des convois : notre démarche, c’est qu’on ne veut pas en perdre un seul, et on ne veut pas que les Français aient des ennuis », dit l’un d’eux. Cela implique donc une grande organisation qui, sur le terrain, s’apparente à un « jeu de cache-cache » extrêmement anxiogène pour les personnes exilées. Leur arrivée en France se fait ainsi dans un contexte de peur qui peut raviver des traumatismes récents.
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      Vis-à-vis de ces pratiques quotidiennes d’intimidation, il serait facile pour le gouvernement d’argumenter qu’il s’agit de glissements locaux liés à un terrain particulier, à une « zone de tension » ou « zone de crise », bref, des situations ponctuelles et exceptionnelles qui n’ont rien d’emblématique. Or, à chaque fois que les habitant·es solidaires ont eu l’occasion de discuter avec des agents de police sur le terrain, et notamment en ce qui concerne leurs pratiques illégales de refoulement de demandeur·euses d’asile et de mineurs, ceux-ci ont eu pour simple discours que tous les ordres venaient « d’en haut ».

      Par ailleurs, d’autres moyens de pression plus discrets mais encore plus efficaces prouvent que la volonté d’interrompre par tous les moyens les activités bénévoles vient aussi de la préfecture, et à travers elle, de l’Etat. Notamment, la préfecture a fait barrage aux demandes de subventions nationales et européennes de la MJC, lieu central à Briançon, qui agit à la fois comme centre social et comme moteur d’activités culturelles pour la ville. Cette MJC a été un des premiers lieu d’accueil des personnes migrantes à Briançon quand la frontière des Hautes-Alpes est devenue un lieu de passage, parce qu’elle disposait déjà de la MAPE-monde, un dispositif d’accès aux droits pour les étrangers : sans subventions, la MAPE-monde ne peut plus continuer ses activités d’aide à la demande d’asile. Le motif invoqué, de manière très claire, par la préfète, pour justifier ce blocage des demandes de subventions, est que « l’Etat ne peut pas soutenir des associations qui vont à l’encontre de sa politique. »

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      Manifestation des exilé-es dubliné-es du CAO, juin 2017, source : Alpes 1

      Comme les périodes de resserrement des contrôles à la frontière sont entrecoupées de périodes beaucoup plus laxistes de la part des contrôles policiers, au point que la politique menée semble contradictoire, les bénévoles se posent des questions : quand trop de personnes arrivent d’un coup au Refuge solidaire, il est vrai que la situation à Briançon devient explosive pour tout le monde. Quand l’occupation de la gare SNCF a été délogée par une intervention massive de CRS, cela faisait trois jours qu’il n’y avait aucun contrôle à la frontière et que tout le monde descendait. Certain-es se demandent si un « jeu du pourrissement » à Briançon n’est pas mis en place de manière stratégique pour justifier une intervention militaire plus massive… L’avenir le dira.

      Les différents éléments de terrain décrits dans cet article sont épars, divers, inégaux ; ils témoignent d’un répertoire très large des moyens de pressions employés dans le Briançonnais pour décourager les citoyen·nes solidaires. Cette diversité joue également le jeu d’un discours qui les présenterait comme des phénomènes ponctuels et séparés. Or, il est nécessaire de les présenter ensemble, non pas comme des faits distincts mais comme un continuum du contrôle policier, un ensemble de moyens au profit de la même stratégie étatique de lutte contre l’entrée sur le territoire de personnes étrangères en situation irrégulière, et de répression des gens locaux qui les aident.

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      Evacuation de la gare de Briançon par 60 CRS, SB, avril 2018
      CONCLUSION.
      Pression, contre-pression : des débats sur la résistance à mettre en oeuvre

      Localement, des résistances sont à l’oeuvre contre la répression des solidarités. Les voisins et voisines, même celles et ceux qui ne partagent pas les idées politiques des bénévoles, font preuve d’une complicité passive quand ils et elles les avertissent discrètement d’un barrage de police plus bas dans la vallée. Une sorte de résistance de fond de la population locale, ulcérée de toutes part par l’omniprésence et la démesure des contrôles, permet une solidarité discrète entre les habitant·es de la vallée, au-delà des désaccords idéologiques.

      De la part des habitant·es menacé·es par les contrôles, de nombreuses tentatives de dialogue vis-à-vis des institutions policières ont été entreprises. Une tentative d’entretien avec les secours en montagne, pour mettre en place une stratégie commune de sauvetage des personnes en danger, qui s’est soldée par un relatif échec de la discussion ; entretien avec l’officier de police judiciaire pour vérifier leur droit à dénoncer les pratiques illégales constatées par les citoyen·nes de la part des agents de police, qui n’a pas abouti non plus. La fermeture totale des institutions policières, l’opacité et le secret dans lequel elles agissent, empêchent tout dialogue avec les citoyen·nes solidaires.

      La stratégie de mobilisation mise en oeuvre par l’association Tous Migrants2 a été de répondre à la pression policière par une pression médiatique. Grâce à ce travail de médiatisation, il a été possible, lors de l’arrestation de Benoît Ducot le 10 mars dernier pour avoir voulu conduire à l’hôpital Marcella, une femme nigérianne en train d’accoucher, de mobiliser immédiatement les médias sur ce sujet et d’organiser une manifestation à la PAF lors de la convocation de Benoît. La pression médiatique maintenue par les citoyen·nes, surtout dans une région à haut revenu touristique, a très certainement un impact positif sur la diminution du contrôle policier ainsi que des condamnations des gens solidaires.

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      Manifestation de soutien à Benoît Ducos, SB, mars 2018

      Mais au quotidien, les stratégies à adopter pour faire face aux menaces qui pèsent sur les activités d’aide aux personnes étrangères divisent les bénévoles. Le fait de s’organiser pour être le moins visible possible, d’aider les migrant·es à partir le plus vite possible de la vallée pour ne pas que trop de gens y restent, en un mot, de jouer le jeu de cache-cache imposé par la police, ne fait pas consensus au sein des militant·es. Car faire le jeu de la police, c’est aussi assurer le secours en montagne à la place de la gendarmerie de haute-montagne, par peur qu’elle mette en péril des personnes en les refoulant à la frontière et en toute illégalité ; c’est aussi prendre en charge bénévolement et dans le secret l’accueil des demandeur·euses d’asile qui relève normalement du devoir de l’Etat ; c’est aussi financer soi-même les trajets hebdomadaires des mineurs jusqu’au conseil départemental à Gap, ce qui relève de la reponsabilité de l’Etat. C’est enfin assumer le fait d’envoyer rapidement dans les grandes villes des personnes qui n’ont pas de contacts là-bas et se retrouvent à la rue, invisibles, sans réseau de solidarité sur lequel s’appuyer.

      La stratégie de la peur pousse les bénévoles à agir toujours plus dans l’ombre, discrètement, et continuer de faire fonctionner une situation qui relève d’une imposture de la part de l’Etat. Or, tout le monde n’est pas d’accord pour continuer d’accepter cela, alors que les arrivées sont toujours plus nombreuses et que la répression ne cesse pas : mettre en pleine lumière la responsabilité de l’Etat, les pratiques illégales et inhumaines de ses agents, est ce que souhaitent la plupart des citoyen·nes solidaires… qui se contraignent pourtant au silence, par peur de la répression et surtout par peur que celle-ci s’exerce sur les personnes étrangères pour lesquelles cette solidarité est mise en oeuvre.

      Des débats politiques sur la stratégie à adopter continuent donc d’avoir lieu parmi les citoyen·nes solidaires. Au quotidien, les bénévoles acceptent toutes ces charges, parce qu’ils et elles ont la conviction qu’offrir un accueil digne aux personnes étrangères est ce qu’il y a de plus important. Mais quand les citoyen·nes solidaires manquent de relais, manquent de force, manquent de sommeil ou n’ont plus assez d’argent pour faire tourner les lieux de vie collective, la question du bras-de-fer avec l’Etat ressurgit : n’est-on pas la dupe d’une manipulation, qui nous oblige à prendre en charge dans le secret l’accueil des migrant·es dans la région, tout en nous réprimant et nous menaçant ?

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      Manifestation de soutien à Benoît Ducos, source : Tous Migrants

      ¤ Sarah ¤

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      (1) Source : reportage RTS, 18/02/2018

      (2) Association locale responsable du plaidoyer et de la sensibilisation sur la question des personnes migrantes à Briançon

      https://derootees.wordpress.com/2018/04/19/chroniques-de-frontieres-alpines-1-reprimer-les-solidarites-la-