• [L’Oeil Carnivore] Les coulisses du cinéma d’animation avec #cédric_nicolas !
    https://www.radiopanik.org/emissions/l-oeil-carnivore/le-coulisses-du-cinema-danimation-avec-cedric-nicolas

    A l’occasion de l’émission 102 de L’oeil carnivore, je reçois Cédric Nicolas illustrateur et directeur technique en animation #3d. Vous pouvez voir son travail en suivant ces liens : https://www.cedriclefox.com https://player.vimeo.com/video/311405835?h=f4bf7d7aee On vous parle aussi des #intelligences_artificielles et comment elles changent le travail des artistes. Cédric a un point de vue interressant sur le sujet. A l’occasion des Oscars, on reviendra enfin sur les films #everything_everywhere_all_at_once et #rrr. Retrouvez la diffusion de cette émission à cette adresse : https://www.twitch.tv/oeilcarnivore

    #art #illustration #oeil_carnivore #unreal_engine #amination #ia #cédric_lefox #oscars. #art,illustration,oeil_carnivore,unreal_engine,cédric_nicolas,intelligences_artificielles,3d,amination,ia,cédric_lefox,oscars.,rrr,everything_everywhere_all_at_once
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/l-oeil-carnivore/le-coulisses-du-cinema-danimation-avec-cedric-nicolas_15516__1.mp3

  • Un chevrier qui fait des émules | Les pieds sur terre - Inès Léraud
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-pieds-sur-terre/un-chevrier-qui-fait-des-emules-9647200

    En 2019, Jean-Yves Ruelloux, chevrier en centre-Bretagne, racontait la façon dont il menait son troupeau en #lactation_longue, méthode permettant de ne pas faire naître de chevreaux, de se passer de l’abattoir et de vivre avec ses bêtes jusqu’à leur belle mort. Son témoignage en a inspiré plus d’un.

    #élevage #chèvres

    • Ah oui, j’avais écouté cette émission. Il y avait aussi l’histoire touchante de ce jeune homme parti en voyage en bateau avec pour seule compagnie une poule récupérée d’un élevage intensif et qui lui avait sauvé la vie en lui faisant des œufs quand il n’avait plus rien à manger.

    • Petit retour de mon frère et ma belle sœur, chevriers dans la Drôme, petit troupeau (100 chèvres environ), très observateurs de leurs propres pratiques, élevage en sylvo-pastoralisme, mono-traite à la main. C’est eux :

      https://www.farigoule-et-cie.com

      Du retour que j’ai eu d’Annabelle, il y a un truc qui la chiffonne dans ce doc : l’absence de cycle, et donc de pause dans la production de lait et que finalement, sous couvert d’éviter une barbarie, on tombe dans une exploitation sans fin.

      Et de plus, une fois de plus on élude la mort, ce qui est un peu problématique.

      De leur point de vue, la taille des exploitations est à reconsidérer absolument et avant tout chose.

      (et là c’est moi qui ajoute) Cela permettrait très certainement d(’avoir un débat non biaisé sur le rapport de l’humain à l’animal, et de placer la mort dans ce débat de façon sereine.

    • Tu n’expliques pas en quoi « éluder » (en quoi ça élude déjà ?) la mort serait « problématique ». Il évite d’être dans une situation où il doit tuer des bêtes soit plus tôt que ce qu’elles auraient pu vivre (les chèvres qui mettent bas tous les ans sont crevées et meurent toutes beaucoup beaucoup plus tôt), soit qui n’ont pas à mourir s’ils ne sont pas nés du tout (tous les chevreaux qu’on fait naitre pour rien si le but c’est juste de faire du fromage et non pas de la viande). Pour quelle fichue raison on s’obligerait à subir toutes ses morts si le but c’est juste de faire du fromage ?

      Quand à « l’exploitation », cet aspect est pourtant un peu détaillé dans l’interview : récolter du lait un peu chaque jour ne les fatigue sans aucune mesure avec le fait de les forcer à mettre bas tous les ans ou même tous les deux ans, ce qui est extrêmement dur physiquement et psychologiquement (être en gestation + mettre bas + le bébé enlevé qui crie, et ça tous les ans). Dans ces conditions c’est même tellement dur qu’elles en meurent super tôt. Quand on compare avec celles qui sont juste traites et qui vivent 16 ans et meurent de vieillesse… j’ai du mal à voir comment on peut mettre ça sur le même plan « d’exploitation ». :)

    • Loin de l’image d’Épinal de la production de fromage de chèvre. Un élevage intensif de 2 000 chèvres.
      https://www.l214.com/enquetes/2022/adjani-chevres-chevenet
      La conduite d’élevage de l’exploitant est choquante. Au vu des images, du témoignage de salariés et de la déclaration même du dirigeant « C’est à ce prix que mon cheptel ne souffre d’aucune maladie car seuls les animaux les plus sains subsistent et donnent le meilleur lait » , les animaux les plus faibles sont donc laissés sans soins, souvent jusqu’à la mort.
      https://player.vimeo.com/video/761842460?h=3a9a63d251

  • Borderline | The Wire

    Harsh living conditions have always brought people together in the Kupa-region on the Croatian-Slovenian border, but today the stream of life is cut in two by a razor wire to keep refugees from entering Slovenia.

    https://player.vimeo.com/video/532174343

    http://www.offworld.be/index.php/film-borderline-wire

    #film #film_documentaire #documentaire #Tiha_Gudac
    #frontières #barbelé #Croatie #Slovénie #Kupa #Balkans #route_des_Balkans #migrations #asile #réfugiés #rivière #clôture #fermeture_des_frontières #frontière_sud-alpine

    ping @isskein

    • Slovenia, Croazia : filo spinato

      «Mi chiedono ’sei pro o contro l’immigrazione?’, ma la domanda non ha senso, non c’è da essere pro o contro, l’immigrazione esiste. Piuttosto, bisogna scegliere come gestirla». Un’intervista a Tiha K. Gudac, regista del documentario Žica, filo spinato

      «Žica », letteralmente “filo spinato”, è il secondo documentario della regista croata Tiha K. Gudac (classe 1982). Dopo aver esordito nel 2014 con «Goli», che ripercorre la storia del nonno internato a Goli Otok, Gudac si occupa questa volte del filo spinato che il governo sloveno ha posizionato sul confine tra Croazia e Slovenia e sull’impatto che questo nuovo muro ha sulle comunità locali. Il film è parte del progetto «Borderline» prodotto da Off World e dedicato a diversi confini europei, raccontati attraverso sei documentari. Žica, uscito nel 2021, ha vinto il premio “Menzione speciale” al RAFF – Rab Film Festival.

      Com’è nata l’idea di un film sul filo spinato tra Slovenia e Croazia?

      Tutto è iniziato nel 2016, quando si è sviluppato il progetto «Borderline», con l’obiettivo di realizzare una serie di documentari sulle frontiere dell’Unione europea. Io ho proposto il confine croato-sloveno e realizzato un primo trailer. Allora c’era qualcosa di davvero macabro nel paesaggio: le autorità slovene avevano posto a terra dei rotoli di «nastro spinato» (razor wire), che è molto più tagliente del normale filo spinato e può incidere la carne fino all’osso. Per questo, si trovavano molti animali morti lungo il confine. La mia idea è stata selezionata e le riprese sono iniziate nel 2019.

      Qual è la situazione al confine croato-sloveno oggi?

      I rotoli di nastro spinato sono stati sostituiti con una recinzione sulla quale è stato collocato il filo spinato. La barriera è più lunga e più resistente, ma perlomeno meno pericolosa per chi ci cammina vicino.

      Nel tuo documentario ti concentri sulle conseguenze che il filo spinato ha nella vita quotidiana di chi ci vive vicino. Da dove sei partita?

      Mi sono concentrata sull’area attorno al fiume Kupa (Kolpa, in sloveno) che divide i due paesi, in particolare, la zona di Petrina (Slovenia) e Brod na Kupi (Croazia). Si tratta di una regione che in Croazia è nota con il nome di Gorski Kotar e dove si registrano gli inverni più rigidi, secondi solo a quelli del monte Velebit. Date queste difficili condizioni di vita, la popolazione locale si è unita, da un lato all’altro del confine, e oggi rappresenta un’unica comunità in cui si parla sia sloveno che croato, e anche una terza lingua dialettale, che è un miscuglio delle prime due.

      L’impressione che si ha, guardando il tuo film, è che l’armonia locale sia stata distrutta da un’agente esterno...

      È così, non si tratta di un’esagerazione. Penso alla storia di Zlatko, uno dei protagonisti del documentario. Lui vive sul lato croato del fiume, ma siccome in quel punto non c’è una strada, lui attraversa la Kupa con una piccola barca per fare la spesa o cercare ciò che gli serve dal lato sloveno del fiume. Tanti altri, invece, hanno la casa da un lato e i campi dall’altro e quindi utilizzano i piccoli ponti per andare dall’altra parte. Ecco, con l’arrivo del filo spinato sono stati chiusi tutti i valichi minori e ora le persone devono fare a volte un giro di 40 km per arrivare dall’altra parte.

      C’è una bella scena nel film, in cui si vede la polizia locale mentre cerca di convincere gli abitanti della necessità del filo spinato...

      Tutti i protagonisti del film si trovano in una situazione in cui non vorrebbero essere. I poliziotti sono persone del luogo che hanno trovato un lavoro sicuro e stabile in un’area in cui non ci sono fabbriche o grandi imprese. Ora si ritrovano a dover posizionare filo spinato e fare respingimenti illegali. La popolazione locale, naturalmente, non ne vuole sapere del filo spinato, perché separa le comunità, impedisce agli animali di raggiungere il fiume ecc. I migranti, infine, arrivano dall’altro capo del mondo e cercano di sopravvivere e di attraversare il confine.

      Il film segue anche le vicende di Omar e Mohammed, due migranti che dalla Bosnia Erzegovina cercano di raggiungere l’Italia. La loro testimonianza dei respingimenti è molto forte...

      Mi ricordo un giorno, durante le riprese, quando ci siamo messi a chiacchierare a Velika Kladuša (Bosnia Erzegovina), facendo finta di avere una conversazione normale. Uno di loro mi ha chiesto quali fossero i miei hobby e quand’è venuto il suo turno ha detto: “Io cammino per la Croazia finché non mi riportano di qua”. Hanno provato ad arrivare in Slovenia 10–15 volte e ogni volta sono stati picchiati e respinti. Il comportamento violento della polizia croata non è solo inaccettabile perché viola i diritti umani di queste persone ma, se vogliamo, è anche irresponsabile nei confronti dei cittadini europei, perché traumatizza delle persone che poi arriveranno in Europa, cariche di paura e di rabbia.

      Che idea ti sei fatta del modo in cui i governi europei stanno rispondendo alla questione migratoria?

      Ho l’impressione che non si voglia vedere la realtà. Si parla di “crisi”, quando in verità le migrazioni non sono un fenomeno passeggero, ma che anzi durerà e, temo, peggiorerà nei prossimi anni. Il focus del mio film era il filo spinato ma inevitabilmente si è allargato all’immigrazione e mi sono resa conto che sul tema la gente ha una visione in bianco e nero. Mi chiedono “sei pro o contro l’immigrazione?”, ma la domanda non ha senso, non c’è da essere pro o contro, l’immigrazione esiste. Piuttosto, bisogna scegliere come gestirla. E siccome si tratta di un fenomeno complicato, serve una risposta articolata e non semplice come un muro o una barriera di filo spinato, che in ultima istanza non serve a nulla.

      Il tuo film è già stato presentato in diversi festival in Germania e nei Balcani. Quali sono state le reazioni finora?

      Il pubblico ne è stupito, perché si parla di luoghi familiari, molto vicini. In Slovenia, tuttavia, il film non è ancora stato proiettato, lo sarà a breve al festival del cinema di Portorose. Ma per quanto riguarda i respingimenti o la violenza sui migranti in generale, non mi sembra che ci sia un vero dibattito pubblico. Ci sono tante inchieste, pubblicazioni, ma quando si guarda alle dichiarazioni dei responsabili politici, c’è solo negazione. E mi dispiace, vorrei che la società reagisse di più, perché altrimenti finisce che ci si abitua pian piano a tutto, come al filo spinato davanti alla propria casa. E se guardiamo agli ultimi dieci anni in Europa, con la scusa del male minore o del male necessario, ci siamo in realtà abituati all’avanzata del fascismo.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Slovenia-Croazia-filo-spinato-212734

  • DANS L’OMBRE

    In-Shadow : A Modern Odyssey

    Portrait sombre et satirique du monde industriel moderne, ou encore de la mondialisation triomphante, le court métrage puise abondamment dans les symboles de très nombreux combats militants depuis la condition animale dans l’élevage jusqu’à la chasse aux réseaux pédo-criminels en passant par l’objectification des femmes et de l’humain dans son ensemble. Plus d’une 40 aines de sujets sont couverts, parfois très discrètement. Rien n’y manque, ou presque. Le résultat est simplement grandiose, tout comme la musique “Age of Wake” de Starward Projections bien qu’anxiogène.

    On serait presque tenté de finir misanthrope et sous anti-dépresseur après quelques minutes de vidéo, mais ce serait une erreur ! Car si cette simple vidéo peut sembler violente, elle n’est rien comparé à la souffrance réelle d’individus à travers le monde. L’auteur nous rappelle cependant que nous avons le devoir d’évoluer, de nous élever, de lutter contre toutes les formes d’obscurantisme et d’oppression pour ériger, un jour on l’espère, un monde serein. Loin d’être qu’une énième critique, c’est une invitation à grandir, personnellement ET collectivement.

    “Il est dit qu’aucun arbre ne peut pousser jusqu’au paradis sans plonger ses racines jusqu’aux profondeurs de l’enfer.” C.G. Jung

    https://player.vimeo.com/video/242569435

  • Computing, Climate Change, and All Our Relationships by Nabil Hassein – Deconstruct
    https://www.deconstructconf.com/2018/nabil-hassein-computing-climate-change-and-all-our-relationships

    There are numerous quotes in this piece by Bret Victor, What Can a Technologist Do About Climate Change, quoting some of these scientists talking about the role that they played in World War II. And I’m sitting here like, did we learn anything, as a community, from these physicists? Are we going to build another atom bomb and put it into the hands of these people? I don’t want to do that. I don’t want us to do that.

    And so due to the differing interests of these different groups, I think this question, how are all of your relationships— I wish I was able to have a good relationship with everyone. I wish I could. I wish. But when I think about the clash of interests, it’s simply not possible. How could you have a good relationship with an agent of the US Immigrations and Customs Enforcement and also have a good relationship with an immigrant who they’re deporting? Now what kind of sense does that make?

    https://player.vimeo.com/video/284782014

    https://nabilhassein.github.io

  • En 1964, André Robillard s’est mis à fabriquer des fusils avec des matériaux de récupération, ramassés au hasard de ses promenades dans l’hôpital psychiatrique où il vivait près d’Orléans. Aujourd’hui, à 87 ans, André demeure toujours dans cet hôpital, où il est entré à l’âge de neuf ans il y a 78 ans. Entre temps, il est devenu un artiste internationalement reconnu du champ de l’Art Brut. Lors d’un voyage d’André à l’Hôpital de Saint-Alban, en Lozère, pour présenter une création théâtrale à laquelle il participe, tout se relie enfin : l’Art Brut, la #psychiatrie, la Résistance. L’histoire d’André Robillard croise en effet celle de la #Psychothérapie Institutionnelle, véritable révolution du regard sur la folie, opérée au lendemain de la Seconde Guerre Mondiale.
    http://www.lecinemadehenrifrancoisimbert.com/filmographie/andre-robillard-en-compagnie

    https://www.youtube.com/watch?v=IrOomSYirCg


    portrait d’andré robillard par jo pinto maia

    à Villeneuve d’Ascq, au musée Lam, belle collection d’art brut dont les oeuvres à Dédé
    http://www.musee-lam.fr/fr/la-collection-en-ligne
    #André_Robillard #Art_Brut #musée #film

  • Comprendre la doctrine Macron sur les revenus des salariés, retraités, chômeurs Olivier Passet - 4 Septembre 2018 - Xerfi
    http://www.xerficanal-economie.com/emission/Olivier-Passet-Comprendre-la-doctrine-Macron-sur-les-revenus-de

    Sur le papier, il y a une doctrine derrière les arbitrages budgétaires du gouvernement : privilégier les revenus du travail à ceux de l’inactivité. Et effectivement, lorsque l’on regarde les contours du projet de loi de finance 2019, c’est bien les revenus de la dépendance et certaines aides sociales que rogne en priorité le gouvernement.
     
    Des choix en ligne avec la doctrine 
Les pensions de retraites, l’ensemble des prestations familiales et les aides personnalisées au logement (APL), ne seraient pas indexées sur l’inflation. Elles ne progresseraient que de 0,3% en 2019 et 2020. Ce coup de frein n’est pas anecdotique. Dans un contexte où l’inflation devrait se situer entre 1,5 et 2% en 2019, le pouvoir d’achat de ces prestations sera sérieusement laminé. De l’ordre de 1,5%. Un nouveau coup dur pour les retraités notamment. La dégressivité des allocations chômage devrait également être posée sur la table des négociations avec les partenaires sociaux. Là, ce sont les chômeurs cadre qui sont en première ligne. Le gouvernement devrait encore poursuivre sa cure d’amaigrissement des emplois aidés non marchands. Après une baisse de 120 000 en 2018, leur contingent devrait encore diminuer de 25 000 en 2019. Autrement dit, l’emploi aidé non marchand est considéré comme un dispositif inefficace qui s’assimile à du chômage déguisé, ou plus crûment à de l’inactivité rémunérée. Seuls seront sanctuarisés le RSA, le minimum vieillesse, l’allocation pour les adultes handicapés, c’est-à-dire les aides ciblées sur les plus vulnérables. Conformément au modèle beveridgien.

    VIDEO https://player.vimeo.com/video/287073249

    A contrario, le gouvernement entend booster le pouvoir d’achat des salariés en supprimant les cotisations salariales sur les heures sup. C’est un transfert de 2 milliards à destination des actifs en emploi. La prime d’activité, qui fournit un complément de revenu aux travailleurs pauvres, incitant le retour à l’emploi sur des mini-jobs sera elle aussi revalorisée.

     
Les choix opérés sont donc bien en ligne avec la doctrine. Et derrière cette doctrine il y a deux idées-forces : 1/ le chômage a un fort contenu volontaire en France. Les entreprises souffriraient de l’étroitesse de l’offre de travail ; 2/la rémunération trop généreuse des personnes en situation de dépendance, des 16 millions de retraités notamment, mais aussi des juniors (à travers l’érosion des allocations familiale, de l’allocation de rentrée scolaire, de la prime de naissance, du complément de libre choix du mode de garde), à quoi s’ajoute une assurance chômage qui couvre à proportion du dernier salaire induit un charge sur le coût du travail, qui nuit à la compétitivité du travail.
     
    Un raisonnement contestable 
La première assertion concernant le caractère massif du chômage volontaire est très contestable. Elle ne mérite pas qu’on s’y attarde. Elle n’est pas attestée empiriquement. Cette composante est minoritaire, et il est clair qu’après 10 ans de croissance molle, la réduction du chômage passe d’abord par un raffermissement de l’activité. Les années récentes ont montré que la job machine, loin d’être bloquée, s’anime dès que l’activité dépasse 1 à 1,5% de croissance.

     
La seconde assertion en revanche est beaucoup plus recevable. Oui, le financement des différentes formes de dépendance (senior, junior) induit un coût pour l’ensemble des agents économiques parmi les plus élevés des pays développés. Oui, son financement pèse in fine sur le coût du travail. Et oui, il existe un certain nombre de travaux convergents attestant que le coin socialo-fiscal élevé en France, pèse négativement sur le niveau de l’emploi. Les cotisations retraites sont certes du revenu différé, voire le chômage. Elles pourraient en théorie diminuer les revendications salariales des salariés. C’est vrai dans un monde parfait. Ce mécanisme joue certes en France, mais partiellement du fait de la rigidité des salaires, à laquelle participe le Smic.
     
Ceci étant dit, il ne suffit pas de diminuer les revenus de la dépendance pour booster l’emploi. Encore faut-il un choc simultané et significatif de diminution du coût du travail. Or ce n’est pas le cas. Même si la réforme du CICE entraine un double chèque en 2019, cette baisse n’est pas extrapolable et n’affectera pas le comportement d’embauche. Encore faut-il aussi que l’impact négatif sur l’activité de la réduction du pouvoir d’achat des dépendants soit compensé par un moteur externe puissant, où une dynamique cyclique robuste. Et là encore ce n’est pas le cas. Bref, comme souvent en économie, le timing compte autant que la doctrine. Et là paradoxalement, le gouvernement est en train d’enrayer une job machine qui paraissait pourtant bien repartie.

    #en_marche #revenus #Emploi #salaires #travail #Retraité #Chômeurs, #Aides sociales #croissance #doctrine

  • Faut-il « remettre la France au travail » ? Olivier Passet - Xerfi - 25 Avril 2019
    http://www.xerficanal-economie.com/emission/Olivier-Passet-Faut-il-remettre-la-France-au-travail-_3745851.h

    https://player.vimeo.com/video/264987179

    « J’ai besoin de remettre la France au travail », cette petite phrase d’Emmanuel Macron a fait mouche, même s’il a tenté de l’effacer par « Il y’a trop de gens aujourd’hui, qui travaillant dur, ne gagnent pas suffisamment ». Attardons nous néanmoins sur la première formulation : Ce procès latent concernant l’économie hexagonale, qui veut que le cœur du problème, soit le peu d’appétence des français à travailler. Ce discours n’est pas nouveau. Et s’il braque les esprits, c’est qu’il fait écho aux heures sombres de notre histoire. Quand l’ordre nouveau promu par le gouvernement Pétain, prétendait déjà apporter la rédemption à la France oisive du Front populaire : « Notre défaite est venue de nos relâchements. L’esprit de jouissance détruit ce que l’esprit de sacrifice a édifié ». « Tous les Français, ouvriers, cultivateurs, fonctionnaires, techniciens, patrons ont d’abord le devoir de travailler… etc. ». Parce que mettre la France au travail, ce n’est pas la même chose que de donner un travail à tous. L’expression véhicule une foule de sous-entendu sur le chômage volontaire, l’assistanat, la préférence pour le loisir, un accès gratuit aux services publics trop généreux, qui ne serait pas adossé à une production de richesse suffisante. Disons-le sans détour, c’est une phrase sonne père fouettard, éloigné du marché du travail et qui ne saisit plus rien de la pression qui s’y exerce.

    Mais passé le ressenti, il y a pourtant bien une réalité derrière ce slogan. La France fait bien parti des pays qui mobilise le moins le volume de travail au regard de sa population.

    1/ Le taux d’emploi, c’est-à-dire la part de la population qui travaille en pourcentage de la population en âge de travailler, se situe en bas de l’échelle des pays avancés. Et l’on sait que cet écart provient des bords : des plus jeunes d’abord, avec une moindre proportion d’étudiants qui cumulent un emploi. Et des plus vieux, avec un âge effectif de la retraite plus bas qu’ailleurs. Et une part importante de l’écart se concentre ainsi sur des petits jobs, plutôt à faible valeur ajoutée.

    2/ Facteur aggravant, la durée de travail de ceux qui sont en emploi se situe aussi en bas de l’échelle, moins à cause de la durée habituelle du travail, que du nombre de congés, de jours fériés, et de la forte proportion de CDD courts qui produit de l’intermittence et donc une faible durée du travail en année pleine. Alors certes, l’Allemagne, fait encore moins bien que nous, ainsi que certaines économies du Nord, mais cela ne retire rien au constat strictement quantitatif.

    Et lorsque l’on met bout à bout, notre faible taux d’emploi et notre faible durée annuelle du travail, on aboutit bien à un constat sans appel. La France est le pays développé qui mobilise le moins d’heures de travail par habitant. Et même, si on l’a dit, le gros de l’écart correspond à des petits jobs à faible valeur ajoutée, il est indéniable que cela contribue à diminuer le revenu par habitant et complique le financement de la dépendance et des biens collectifs. Problème de coût du travail, de spécialisation, de rigidités, de demande, de formation, ou de préférence ? A ce stade, toutes les interprétations sont recevables. Tout comme l’idée de remettre la France au travail, si on débarrasse l’expression de sa charge condescendante ou stigmatisante.

    Il y a surtout un autre constat statistique tout aussi têtu que les faits statistiques que j’ai mentionnés plus haut. C’est la corrélation négative qu’il y a entre la durée du travail et la productivité horaire du travail. La productivité horaire du travail tend à être plus élevée dans les pays où la durée du travail est la plus faible. C’est précisément le cas de la France qui se retrouve plutôt en haut de l’échelle en termes de productivité, quand la Corée ou le Japon, ou dans une moindre mesure la Grèce ou le Royaume-Uni, modèles de mobilisation, ferment la marche du classement. Ce qui signifie
    1/ que nous sous-estimons pour partie la durée réelle du travail, là où elle est légalement courte et
    2/ que le travail est plus intense dans ces mêmes pays.

    Pour ces deux raisons la formule « remettre la France au travail » est irrecevable. Elle heurte une autre réalité française. Celle d’une forte implication dans le travail. « Remettre la France en emploi » est déjà beaucoup plus recevable. Et s’en tenir à l’expression « créer de l’emploi », toujours plus consensuelle.

    #Emploi #France #Travail #CDD #Macron #petain

  • Les règles formelles de #politesse, expliquées comme une arme entre les mains de riches et des puissants, pour disqualifier leurs interlocuteurs, dans cette excellente vidéo d’#Arrêt_sur_Images. (Cela me rappelle une « charte d’utilisation des moyens informatiques » dans une entreprise qui impose de commencer les messages par Bonjour.)

    https://www.arretsurimages.net/chroniques/le-regard-oblique/serrez-moi-la-main-ou-larme-de-la-politesse

    #violence_de_classe

    • No alternative à la poignée de mains ?

      « Serrez-moi la main », exigent les politiques en butte, devant les caméras, à des interpellateurs en colère -récemment, Emmanuel Macron face à des aides-soignantes. Une injonction très télévisuelle, qui oblige soit à manifester sa soumission, soit à se disqualifier en tant que participant au dialogue démocratique.

      https://player.vimeo.com/video/264267759?autoplay=1&app_id=122963

    • Ah la lutte contre la politesse, elle dure depuis quarante ans pour moi. Pas besoin d’une vidéo. Je me rappelle bien comment mes copines gauloises furent étonnées de mes explications pourquoi on ne leur ouvrit pas les portes et ne leur aida pas à enfiler le manteau. Pourtant l’anti-politesse je l’avais apprise avec difficulté en me faisant rembarrer par mes copines féministes allemandes. C’est drôle comment elle refait surface, cette discussion.


      Berlin-Moabit, Stephanstraße 60, les habitants de la Kommune 1 exceptionnellement pas dénudés à l’occasion de la visite d’une équipe de tournage.

      Actuellement je pense que le peuple a toujours le droit de traiter les représentants du pouvir avec une attitude à l’opposé de la politesse.


      Source : Le blog de soutien à la Famille royale de France

      Pour les relations entre hommes et femmes par contre il me paraît tout à fait justifié d’exprimer sa sympathie et son respect avec des gestes de courtoisie.

      On fait ce qu’on peut ;-)

    • @stephane L’innovation des dirigeants de la start up nation France, c’est la guerre de tou(te)s contre tou(te)s, le chacun pour soit, tou(te)s manager !
      Ça a des conséquences, on le voit depuis longtemps dans les entreprises up to date, les affrontements entre services ou personnes font des dégâts, et occasionnent des couts (le plus souvent cachés) considérables.

      Vus le gâchis, les grosses boites ont fait appels aux coaach(e)s expert(e)s et format(rice)eurs divers afin de limiter les dégâts, ils préconisent des régles de politesse minimum.

      Comme macron et lemaire sont au niveau des baltringues de managers, ils recyclent les _découvertes enseignées dans les écoles de commerces.
      C’est leur activité principale en tant que peigneurs de la girafe néo libérale.

      J’ai travaillé au support informatique d’une multinationale.
      400 mails par jour, dont une bonne partie en anglais.
      Le tri était vite fait.
      Les utilisateurs polis, factuels, et qui remerciaient ceux qui se décarcassaient pour eux, étaient traités en priorité, malgré tous les systèmes de surveillance et de suivi mis en place par les kapos.

      Ceci dit, en conclusion, MERCI à @seenthis pour son excellent Blog.

    • Ah la lutte contre la politesse, elle dure depuis quarante ans pour moi. Pas besoin d’une vidéo. Je me rappelle bien comment mes copines gauloises furent étonnées de mes explications pourquoi on ne leur ouvrit pas les portes et ne leur aida pas à enfiler le manteau. Pourtant l’anti-politesse je l’avais apprise avec difficulté en me faisant rembarrer par mes copines féministes allemandes. C’est drôle comment elle refait surface, cette discussion.

      Non @klaus tu as pas compris ce que t’on expliqué tes copines féministes allemandes. Essaye de ne pas mansplanner tes copines françaises ni de t’en servir de faire valoire pour ton « féminisme ».

      La politesse c’est d’ouvrir la porte à une personne qui a les bras chargés, ou qui est derrière toi pour pas la lui envoyé dans la face, ou pour aider une personne avec une canne et cela quelque soit son sexe, sa couleur de peau ou sa classe . La politesse c’est d’aider une personne à enfiler son manteau si elle à mal au bras ou au dos. La politesse c’est pas sexiste, c’est des règles de base de vie en société qui mélange de l’aquis (dire merci ou bonjour ca s’apprend) avec une bonne dose d’ampatie (être attentif·ve aux personnes qui nous entourent, par exemple pour proposer sa place aux personnes agées dans les transports publique, aider les gens chargés dans le metro...).

      Par contre tenir la porte seulement aux femmes ou les aider à mettre leur manteau jusque parceque ce sont des femmes c’est sexiste. C’est ce qu’on appel la galanterie.

      Les féministes, mêmes allemandes n’ont rien contre la politesse, les féministes ont un problème avec la galanterie.

      L’anti-politesse je ne voie pas bien, est-ce que depuis 40 ans tu insulte les gens qui te disent bonjour ?

      Pour revenir à la video, Valls ce qu’il demande c’est pas de la politesse, il exige des marques de soumission à l’autorité de sa fonction de ministre de l’interieur. Il est dans une injonction millitariste. Il veut de la dicipline virile et du respect de la hiérarchie. C’est pas ca la politesse. Quant un soldat se met au garde-à-vous face à son supérieur on ne parle pas de politesse mais d’obeissance.

      Macron de son coté demande de la courtoisie. C’est à dire les règles de comportement à la cours du roi. C’est un peu comme Valls sauf qu’au lieu de se prendre pour le Duce, il se prend pour le roi soleil. C’est pas de la politesse non plus. C’est de la soumission classiste en mode vieilles familles françaises catholiques.

    • @mad_meg J’ai oublié le hastag #ironie . Mea culpa. Voilà, c’est fait.

      #sérieusement : #merci pour ton commentaire élaboré.

      Je ne prétends pas avoir compris quoi que ce soit. Je ne suis ici que pour m’amuser et m’étonner.
      C’est très agréable :-)

      Jamais je n’aiderais la plus importante politicienne allemande à mettre son manteau. Ceci m’obligerait ensuite à me faire soigner les crampes dans mes mains.
      Trop désagréable ;-)

      cf. #mutti
      https://www.google.de/search?q=%23mutti+%23politik&prmd=ivns&tbm=isch&sa=X

    • Les échanges, toujours instructifs, qui suivent cette intéressante vidéo me remettent en mémoire les règles de politesse implicites dans les ateliers en usine.

      Mon expérience commence à être un peu ancienne, mais partout où j’ai eu à circuler dans des sites de production, la première chose à faire était toujours de saluer tout le monde, avec poignée de main, y compris lorsque cela imposait d’enlever l’EPI (équipement de protection individuelle, le gant, quoi…) et pas seulement le chef d’atelier ou les agents de maîtrise. Le personnel de l’atelier n’était, évidemment, pas en situation de l’exiger de son interlocuteur, comme le font hautement «  nos  » représentants actuels, mais c’était unanimement considéré comme une marque de respect dont l’absence choquait et laissait prévoir des rapports difficiles s’il s’agissait d’un premier passage avant une intervention de conseil. Dans ce cas, la convention était facile à repérer car on était accompagné, et présenté, par l’ingénieur, voire le directeur d’établissement et il était facile de s’aligner sur l’attitude du guide.

      Dans au moins un des ateliers, les ouvriers, ultérieurement, racontaient des trucs sur des consultants précédents qui, non seulement, ne saluaient pas, mais se planquaient derrière machines ou piliers avec une planchette à chronos…

    • Il n’y a rien de nouveau la dedans. C’est une forme de rhétorique, d’ailleurs le fait de ne pas serrer la main au ministre pour la personne de la CGT est aussi une forme de rhétorique, ça n’est donc pas nécessairement le « puissant » qui l’initie, cela dit le ministre Lemaire se ridiculise en s’abstenant de répondre à quelqu’un qui n’est pas poli avec lui, car il n’a probablement pas été élu uniquement par des gens polis, il ne représente pas exclusivement des gens polis, d’où sort-il qu’il ne devrait avoir pour interlocuteur que des gens polis ?.

      Mais je pense que la politesse n’est pas une faiblesse et que l’on peut s’opposer en étant poli (dans une démocratie), je dirais même que c’est mieux servir la cause que l’on prétend défendre, de l’être.

  • Matons violents : la loi du silence
    un documentaire réalisé par Laurence Delleur

    Le site de l’administration pénitentiaire ne recense que deux types de violence : les agressions entre détenus et les agressions des détenus à l’encontre des surveillants pénitentiaires.
    Il en existe cependant une troisième : la violence exercée par certains gardiens envers des détenus, passée totalement sous silence.
    De nombreuses plaintes accusant des surveillants de maltraitance ont été déposées sur les bureaux de magistrats français ces dix dernières années.
    Elles n’aboutissent que très rarement à des condamnations de #surveillants_violents. Il est toujours demandé au détenu de prouver ce qu’il avance. Le surveillant, quant à lui, est cru sur parole.

    prochaine diffusion, mercredi 21 mars 2018 sur LCP / à 20:30
    https://player.vimeo.com/video/187323421
    http://laurent-jacqua.blogs.nouvelobs.com/tag/maton

    Cette enquête fait la lumière sur ce sujet tabou. En donnant la parole à un ex-surveillant ayant dénoncé ses supérieurs au détriment de sa carrière et à d’anciens détenus affirmant avoir été victimes de maltraitances, elle permet de comprendre pourquoi la #loi_du_silence l’emporte trop souvent. #Laurent_Jacqua, ancien détenu, écrivain et militant, illustre chaque témoignage par des dessins chargés de sa propre souffrance. A ce que l’on ne veut pas entendre s’ajoute ainsi ce que l’on ne veut pas voir. Mais Laurence Delleur ne vise pas le sensationnalisme pour autant. La réalisatrice questionne les avocats des plaignants, le contrôleur général des lieux de privation de liberté... pour corroborer chaque récit. Accompagnant Noël Mamère qui, en sa qualité de député européen, a accès aux #prisons_françaises, la réalisatrice use de ce subterfuge légal pour confronter la directrice de la prison de Fleury-Mérogis à la réalité des détenus. On ressort de ce film avec le sentiment accablant que très peu de responsables ont intérêt à ce que la situation change. — Yohav Oremiatzki

    http://television.telerama.fr/tele/programmes-tv/matons-violents-la-loi-du-silence,112344658.php
    https://seenthis.net/messages/169816
    https://seenthis.net/messages/48565

  • (3) Que reste-t-il des utopies du Net ? - Libération
    http://www.liberation.fr/futurs/2016/02/09/que-reste-t-il-des-utopies-du-net_1431942

    Bel hommage par Amaelle Guiton

    Le 8 février 1996, John Perry Barlow est à Davos, en Suisse, à l’invitation du Forum économique mondial. Drôle d’oiseau que l’Américain, à la fois poète, essayiste, ranchero et parolier du Grateful Dead. Libertarien revendiqué, il penche, dans les faits, du côté des Républicains – en 1978, il a dirigé la campagne pour le Congrès de Dick Cheney dans le Wyoming –, dont il ne se distanciera qu’au début des années 2000, échaudé par George W. Bush. Surtout, il est une figure d’une des premières communautés en ligne, fondée en 1985 : The Well, qui sera la matrice du magazine Wired. Avec deux autres membres de The Well, l’informaticien John Gilmore et l’entrepreneur Mitch Kapor, il a créé, en 1990, l’Electronic Frontier Foundation, une association de défense des libertés civiles sur Internet.

    Mais sa « Déclaration d’indépendance du cyberespace », envoyée par e-mail à quelque 400 contacts, va se répandre dans la nuit telle une traînée de poudre. « Gouvernements du monde industriel, vous, géants fatigués de chair et d’acier, je viens du cyberespace, la nouvelle demeure de l’esprit, écrit l’Américain, lyrique à souhait. Au nom du futur, je vous demande à vous, du passé, de nous laisser tranquilles. Vous n’êtes pas les bienvenus parmi nous. Vous n’avez pas de souveraineté là où nous nous rassemblons. » En 2013, le microlabel Department of Records en enregistrera la lecture par son auteur :

    https://player.vimeo.com/video/111576518?title=0&byline=0&portrait=0

    De fait, la « Déclaration d’indépendance du cyberespace » va devenir un bréviaire des cyberutopies libertaires. A la relire aujourd’hui, alors qu’elle vient de fêter son vingtième anniversaire, elle semble terriblement datée. « On a l’impression d’avoir changé de monde, et d’Internet », résume Benoît Thieulin, le président sortant du Conseil national du numérique (CNNum). Sont passés par là, à mesure que croissait le nombre d’utilisateurs du réseau, les luttes des industries culturelles contre le piratage, les débats sur les limites à la liberté d’expression, entre régulation et censure, et l’extension de la surveillance de masse. Barlow lui-même n’a pas oublié les déclarations de Nicolas Sarkozy sur « l’Internet civilisé » au G8 de 2011, comme il le raconte à Wired.

    Passée par là, aussi, la domination des géants de la Silicon Valley avec son corollaire, l’hyperconcentration des données personnelles. Dans sa « Déclaration », Barlow ne s’attaquait qu’aux gouvernements, sans voir (ou sans vouloir voir) que d’autres forces étaient déjà à l’œuvre – trois ans plus tard, le juriste américain Larry Lessig, créateur des licences Creative Commons, le rappellerait utilement dans le lumineux Code et autres lois du cyberespace. Et loin de s’autonomiser, le « cyberespace » est tout au contraire devenu une dimension, à l’échelle planétaire, du monde sensible, où se renouent et se rejouent les rapports de forces et les conflits, y compris les plus violents.

    Surtout, la vision d’Internet comme espace d’autonomie individuelle et collective, d’émancipation et de réinvention sociale, portée entre autres par Barlow, n’a pas disparu. « La puissance d’Internet a toujours été de s’appuyer sur un imaginaire fort, souligne Benoît Thieulin. Cet imaginaire de transformation sociale est toujours là ». Pour lui, il y a surtout, aujourd’hui, une « invitation à repenser les promesses initiales des pères fondateurs » du réseau, à l’heure d’un Internet massifié où « les combats se sont déplacés ». L’avenir du « cyberespace » ne se joue certes plus dans une logique de sécession radicale qui, même à l’époque, semblait illusoire à bien des égards, mais dans le débat démocratique et dans la construction d’alternatives. De ce point de vue, les discussions autour de la neutralité du Net, de la reconnaissance des « biens communs numériques », de l’usage de la cryptographie ou de la protection des données personnelles portent toujours la marque des utopies premières. Même corrigées des variations saisonnières.

    #John_Perry_Barlow #Cyberespace #Histoire_numérique