Viaggiare è impossibile se non sei nato nel paese giusto
Accoglienza, crisi, rifugiati, immigrazione, barconi, frontiera, muri, scafisti, salvataggi, respingimenti.
Sono le parole che più usiamo quando parliamo del movimento dei corpi nello spazio.
Ma perché ci dimentichiamo sempre della parola viaggio? Non sono forse viaggiatori anche gli afgani, i siriani, i somali?
▻http://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2016/04/11/migranti-passaporto-viaggiare
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signalé par @albertocampiphoto
Negli anni settanta e ottanta del secolo scorso questo era possibile. Roma era piena di studenti africani che spesso studiavano e si formavano per un periodo nelle università italiane, prima di tornare nei paesi di origine. Lo testimonia una scena del documentario del 1970 Appunti per un’orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, in cui lo scrittore intervista alcuni studenti africani. Sono tutti eleganti. Tutti con uno sguardo fiero e una bella giacca addosso. Vengono da Etiopia, Burkina Faso, Congo e intrattengono con lo scrittore un dialogo serrato, intenso, dove gli sguardi si incrociano e si confrontano. Ogni tanto mi capita di rivedere la scena di quel dialogo su YouTube e da un po’ di tempo mi sfiora lo stesso pensiero.
Quei ragazzi così ben vestiti, quei figli dell’Africa, non hanno dovuto mettersi nelle mani dei trafficanti, ma semplicemente hanno preso un aereo. Il mondo nel passato non era perfetto, ma la possibilità di viaggiare, di ottenere un visto, anche se faticosamente, esisteva. Oggi non più. Se vuoi viaggiare c’è la mafia, le mafie. Sono loro le vere agenzie di viaggio globali. Come è successo che abbiamo creato un mondo di serie A e uno di serie B? Un mondo dove una persona può muoversi a piacimento, in cento e più paesi senza visto, e altri sono considerati indesiderabili appena mettono la testa fuori dall’uscio?