• Diario di #Idomeni

    Idomeni, Grecia, giorno 1 – Venerdì 13 maggio 2016

    Inventano caramelle di ogni tipo. Ne ho comprato un pacchetto al gusto di arancia e the nero. Le inventano confettate, senza zucchero, con una parte cremosa dentro. È incredibile l’inventiva umana e non solo per via delle caramelle ovviamente. E allora come si spiega che noi che siamo tanto bravi a inventare qualunque stronzata non si sia capaci nel 2016 di risolvere le tragedie dell’uomo? La fame, la povertà l’ineguaglianza. Com’è possibile che 12 mila persone siano ferme in un campo tendato in una zona che è una specie di no man’s land, una terra di nessuno? Allora io una soluzione ce l’avrei, anzi due. La prima è il teletrasporto. Se quei gran geni che studiano la materia e l’atimateria riuscissero a trovare un modo per cui gli esseri umani possano disintegrarsi volontariamente e riapparire in un baleno in qualunque parte del mondo gli effetti sarebbero stupefacenti: In un attimo annulleremmo il concetto di nazione e di proprietà. Il denaro e la ricchezza non varrebbe più nulla. Potendo apparire in qualunque posto, all’interno di un caveau o nella stanza da letto di un ricco e famoso, potremmo portare via tutto ciò che vogliamo, compresa la foto della fidanzata. Annulleremmo in un momento il concetto d possesso e anche il senso del pudore. Se chiunque potesse apparire in qualunque momento nel bagno di casa nostra e noi potessimo fare altrettanto a che servirebbe avere pudore? Potremmo andare nudi come John Lennon e Yoko Ono nella famosa fotografia. Saremmo liberi e molto vulnerabili. Perché anche i criminali potrebbero avvalersi di queste facoltà: evadere dalla cella, rubare, uccidere, stuprare. Sarebbe davvero una rivoluzione e chissà come andrebbe a finire. Certo dovremmo abituarci alle sorprese: trovarci il vicino di casa nel letto per esempio, o l’abitante dello sperduto villaggio di Jubungiambulama a tavola per colazione. Ci sarebbe un incremento spaventoso della produzione di lucchetti e serrature con la combinazione, io senz’altro metterei sottochiave il frigorifero, per evitare di trovarlo completamente vuoto. O magari mi concederei tutte le mattine di fare colazione in qualche hotel di lusso, a sbafo naturalmente. Sogni. La seconda possibilità è un po’ più realistica sennonchè sarà bel difficile realizzarla. L’idea di fondo è quella di una grande, enorme e planetaria disobbedienza civile consistente nel regalare il proprio passaporto. Il simbolo dell’appartenenza nazionale, con i diritti e doveri che ne conseguono, stà tutto in quel libretto di trenta pagine tra due cartoncini. Allora mi sono immaginata di regalarlo, non sarà mica un crimine farlo. Venderlo si, certamente, ma regalarlo? Se migliaia di persone regalassero il proprio passaporto e una ONG si occupasse di raccoglierli e redistribuirli azzereremmo i controlli ai confini e tutti potrebbero andare dove vogliono. Certo bisognerebbe riattribuirli con un minimo di somiglianza sennò è una fregatura. Perché diciamolo, qualcuno mi deve spiegare perché se sei una siriana di Aleppo con i bimbi e il marito sotto le bombe devi marcire in un centro per rifugiati e se invece sei una turista italiana puoi scorazzare in giro per il mondo senza nessun impedimento. Questa faccenda non ha nessun senso, è un’ingiustizia e un’infamia e se nessuno ci ancora pensato ve lo dico io qual è la soluzione. Regalate il vostro passaporto. Mi sono informata e c’è la fregatura. Un avvocato mi ha detto che il passaporto ci viene dato ma in realtà non ci appartiere, è di proprietà dello Stato che lo emette. In effetti il passaporto non viene né attribuito, né erogato, è emesso. Ci avete mai fatto caso? E ha una scadenza. Quindi insomma, non si può regalare perchè non è roba nostra. Ma l’identità descritta è la mia. Ma che vuol dire? Che sono io ad appartenere allo Stato e non il contrario? Questa faccenda mi tiene occupata da diverso tempo e non ne vengo a capo, è un mistero. In ogni caso, mentre osservo la terra di Italia, Slovenia, Croazia, Serbia e Macedonia seduta comodamente nel mio Ryan-air-place mi vien da pensare a quella bella poesia di Khalil Gibran, il maestro: “Peccato tu non possa stare seduto su una nuvola, perché se potessi, vedresti che il mondo non ha nazioni né confini.”
    IDOMENI, 13.05.2016
    Siamo precipitati in un mondo altro, un mondo fatto di polvere, tende e bambini. Bambini ovunque, scarmigliati, sorridenti, scalzi. Bambini che giocano, che litigano che ti corrono incontro per un abbraccio e per scambiare due parole. I primi rifugiati ci sono venuti incontro lungo l’autostrada, camminando. È vietato prenderli a bordo dell’auto, pena l’arresto. Poi il primo campo proprio a ridosso dell’autostrada, Eko camp, una stazione di benzina dismessa puntellata di tende. E gente, e ragazzi, e donne. Poi abbiamo raggiunto Maurizio, coordinatore di MaM che ci ha spiegato le semplici regole del campo. Indossare i giubottini dell’associazione, non fare i turisti, salutare e sorridere sempre, chiedere il permesso prima di scattare delle fotografie, portare sempre con sé i documenti per non avere fastidi in caso di fermo da parte della polizia. E siamo entrati. Nella prima tenda a sinistra una donna cucina il pane su una piastra di ferro appoggiata sui tizzoni ardenti. Sono una famiglia curda, papà, mamma e sei bambini. Ci invitano a fermarci con loro ma siamo solo all’inizio del nostro giro. Appena giriamo l’angolo il nostro sguardo si posa sulle tende ammassate quasi le une sulle altre, a ridosso dei vagoni di un treno dismesso. Fermo e abitato da rifugiati. Siamo a old station interamente occupata da mesi. Le tende sono aperte, all’interno poche cose: coperte, una spazzola, alcune bambole. La gente sta fuori, seduta tra le traversine, con i bambini in braccio aspettando che scenda la sera. Camminiamo lungo la ferrovia circondati da questa umanità povera ma dignitosa e intanto Maurizio racconta. Quest’inverno faceva un freddo cane, la gente arrivava anche a 3’000 persone alla volta, arrivavano qui con i bus e poi proseguivano verso nord. È andata avanti così fino a quando il confine ha chiuso. Allora si sono ammassate rapidamente 12’000 persone. Adesso che ne sono meno, circa 8’000. In un campo poco distante un gruppo di giovani si sta allontanando a piedi tra i papaveri. “Tentano di attraversare il confine” ci dice Maurizio “ma è molto pericoloso perché se fossero presi in Macedonia potrebbero essere rinviati in Turchia per soggiorno illegale. Del resto qui non possono rimanere, tra poche settimane sarà un inferno, oggi c’erano 35 gradi e già si sentiva la tensione salire. Come sarà quando le temperature arriveranno a 40-50 gradi. Non c’è un albero, è una spianata sotto il sole.” Maurizio racconta: “molti bambini hanno i pidocchi, alcuni la scabbia. Le ONG e i volontari fanno quello che possono ma c’è un problema d’igiene diffuso. E oltre alla malattie della pelle ci sono altri problemi: donne sole con bambini che non hanno più soldi e devono fare la fila per ricevere i pasti. E alcune malattie che qui certamente non possono essere curate. Non c’è alcuna soluzione: la polizia tenta di convincerli ad andare nei campi governativi, loro resistono ma fino a quando?” Camminiamo a lungo in questo universo parallelo in cui i diritti umani sono azzerati, dove la gente vive di carità e di speranza. Camminiamo a lungo e parliamo. “Di dove sei?” chiediamo. “Di Damasco, Aleppo, Homs, Khamishli….” sono quasi tutti siriani. Anche loro ci pongono delle domande: “Di dove siete?” “Svizzera” rispondiamo. “E come vi chiamate?” “Stefano, Barbara, Andrea, Leonardo, Ricardo, Lisa” “Il confine aprirà? Quando aprirà il confine?” “Non lo so tesoro mio, non lo so. Non credo che aprirà, il confine è chiuso.” E nel dire queste parole, la pura, nuda cruda verità un po’ mi sento male per l’impotenza, per l’ingiustizia che queste persone subiscono. Non siamo profughi noi, siamo svizzeri, ma tra cinque giorni riprenderemo l’aereo che ci riporterà a casa. Loro no, loro sono profughi, e qui restano. A togliere i pidocchi dalla testa dei loro figli e a sperare che il confine riapra e li lascino passare.

    IDOMENI giorno secondo, 14 maggio 2016
    Bisogna essere onesti: è paradossale, grottesco che io grossa e grassa occidentale venga a farmi offrire il pane e l’acqua da questo panettiere improvvisato in un autogrill. Eko Camp era ed è un autogrill, con le pompe di benzina, il negozietto e il signore con la divisa rossa che ti fa il caffè. Ma qui vivono in tende provvisorie oltre 2’000 persone. E allora andiamoci, sotto queste tende, a respirare l’odore della miseria. Sotto una grande tenda, in cui mi conduce un bambino con una ciabatta rotta, il volto coperto di piccole cicatrici e graffi, le gambe morsicate dalle zanzare, vivono quattro famiglie una vicina all’altra. Sono curdi di Khamishli dello stesso gruppo famigliare. Nella tenda piccola vive il nonno, con gli occhi cerchiati di azzurro, probabilmente catarratta o non so, ha almeno settant’anni, sorride e mi benedice. Poi c’è una donna con cinque figli, il marito sta in Germania. Poi c’è una coppia, con i suoi bambini. E solo dopo un buon momento dall’inizio della conversazione mi accorgo che la sedia a rotelle che ho visto entrando non serve per il nonno ma per il fratello andicappato sdraiato sul fondo. Mi invitano a bere il the, a fare colazione con loro. Mi chiedono come sarà con la frontiera, cosa devono fare? Aspettare? Partire? Una tragedia. Entra il fumo del vicino di casa che ha acceso il fuoco. C’è questo odore di legna bruciata e bambini che trascinano frasche, foglie secche. Forse è così che si procurano le ferite. Hanno tutti problemi di scarpe. Tutti, dal primo all’ultimo. La mamma ha un paio di scarpe di tela troppo piccole, i bambini ciabatte rotte. Sono incredibilmente gentili e cordiali e siccome dico qualche parola in curdo pensano di poter parlare e raccontarmi le loro disgrazie. Non capisco niente ma non oso dirglielo. Sorrido come un ebete e li lascio sfogare. Sotto un’altra tenda cinque donne, di un’età compresa tra i trenta e i sessantacinque, anche qui. Sono della Ghouta, a nord di Damasco mi dice la signora più anziana, e le si bagnano gli occhi per la disperazione. Poi incontriamo Firdaus, una donna che ha piazzato la sua tenda a ridosso del muro posteriore dell’autolavaggio, come gli altri sul cemento. Ha cinque figli ed è qui con il marito. Hanno bisogno di scarpe come tutti, e di vestiti. Il campo, il suo vivere, il suo morire. Ad un certo punto il dramma si consuma sotto i nostri occhi. Una mamma grida, prende il suo bambino e gli picchia forte sulla schiena. Cerca di farlo vomitare, non capiamo. Barbara accorre, il bambino piange. La mamma cerca di liberargli le vie aeree infilandogli le dita in gola, e per fortuna il bambino riprende a respirare bene. Esce un po’ di sangue, ma poco. Le persone accorse poco a poco si rasserenano, il bambino respira, si allontanano portandolo in braccio. Si stava soffocando con la palla staccatasi dal bastoncino del ciupa ciupa. A Eko camp c’è un panettiere, fa pane arabo con il sistema tradizionale: lo impasta, lo stende e poi con un tampone di tesuto lo appoggia sulla piastra incandescente e in pochi secondi è cotto. È un pane sottile, non lievitato, è buonissimo. È curdo, siriano di Koubis. È qui con la moglie e i tre figli e stava andando in Germania. Poi la frontiera ha chiuso e Abduhalim Mussa è rimasto fermo qui, a Eko camp. Adesso fa il pane, e ce lo offre, non vuole niente in cambio, neanche dieci centesimi. Sorride. Io, sinceramente, mi sento un po’ una merda.
    Idomeni pomeriggio del 14 maggio 2016
    È troppo, è davvero troppo anche per me, che qualche situazione di povertà l’ho vista. La visita di questo pomeriggio a Idomeni mi spacca il cuore in due. E mi lascia senza fiato. Il pro… I diari restano così, a metà, perché c’è tanto, troppo da fare, da ricordare.
    Idomeni, 16 maggio 2016
    Uno schiaffo duro, in piena faccia, e poi un altro…e il bambino comincia a piangere. Lo strattona e giù sberle da destra e da sinistra, una dopo l’altra. Cerca un luogo appartato ma è in mezzo alla grande tenda e in tanti la stanno osservando, altri girano la testa discretamente perché questa violenza tra madre e figlio è un fatto privato. Il bambino cerca di divincolarsi dalla presa, lei si avvicina a una branda e giù un’altra sberla e poi lo prende per i capelli e glieli tira forte. Per un attimo penso che possa perdere il controllo e spaccargli la testa sul ferro della brandina. Siamo impietriti ma bisogna intervenire. C’è disperazione in quelle schiaffi, quindi bisogna farlo nel modo giusto. “Please, stop it, please Daia (mamma), is just a children”. Lei si lascia allontanare, ha uno sguardo perso da animale ferito, sembra smarrita. Il bambino può finalmente parlare e giustificarsi. Lei lo ascolta, lui indica un altro bambino e la rabbia si dirige immediatamente su quest’ultimo e giù una sberla in piena faccia. Interviene la mamma del secondo. Urla, grida. La seconda donna prende il proprio figlio e a sua volta inizia a strattonarlo e picchiarlo. Tutto in arabo, non capiamo nulla. Qualcun altro interviene per calmare gli animi. La prima donna, minuta, con un velo azzuro e bianco legato stretto, la pelle chiara coperta di efelidi esce trascinandosi dietro il figlio per cui immaginiamo un brutto quarto d’ora. Invece no, quando usciamo dal tendone in cui vivono ammassate almeno dieci famiglie in un bailame di coperte, di bambini che gridano sotto il frastuono della pioggia, la vedo nell’angolino dove c’è wi-fi. Ancora piange mentre manda messaggi vocali attraverso what’s up. Il figlio è fermo vicino a lei e la guarda, lei piange e piange, parla, singhiozza. Nessuna madre picchia suo figlio senza poi sentirsi in colpa. Non saprò mai quello che è successo ma so per certo che quelle sberle erano figlie dell’esasperazione di questa situazione assurda. E che quella donna parlava al telefono con un marito lontano. Perché almeno la metà delle donne che sono nel campo sono sole e spesso oltre al marito hanno anche i figli lontani. Molti bambini sono spettinati, sporchi. Hanno i capelli bruciati dal sole e gonfi di polvere. C’è una tenda in cui possono lavarsi e le doccie ma nessuno li accompagna. Sono sorridenti, gentili e abbandonati. Le preoccupazioni dei genitori sono così tante che non riescono più ad occuparsi di tutti i figli e i più grandi vengono lasciati a sé stessi. Anzi, ci si aspetta da loro che collaborino alla ricerca della legna per il fuoco, alla cura dei fratellini più piccoli, ad altre incombenze domestiche. Questi bambini in Europa andrebbero tutti a scuola, qui lavano i panni, portano l’acqua, si curano dei fratelini e prendono sberle. E ti raccontano la guerra con una consapevolezza spiazzante: “Bomb, bomb, russian bomb Aleppo.”. E poi ti chiedono: “Where are you come from?” “Switzerland” “Oh! Switzerland good! Very Good! Syria no good, Damasco no good, Halepp no good! Baba men Germany, please help us, open the border…”
    Idomeni 18 maggio 2016
    Oggi a Idomeni non abbiamo potuto entrare. La polizia impediva l’accesso ai volontari. Perché? Nessuno lo sa, ma probabilmente per nessuna ragione particolare. È una tecnica per logorare e dissuadere volontari e profughi. Non ci lasciano entrare nella speranza che le famiglie senza alcun supporto si sfiniscano e accettino di andare nei campi governativi, e anche perché vogliono che questi giovani venuti da mezza Europa si tolgano dalle scatole. Siccome avevamo tempo abbiamo fatto un po’ di connessioni. Siamo riusciti a parlare con Jasmin e Michael dell’organizzazione svizzera schwizerchrüz molto attiva a Lesbo e anche a Idomeni. Abbiamo saputo che ci sono altre organizzazioni svizzere che lavorano sul campo e gettato le basi per future collaborazioni. Loro sono convinti che non ci sia nessuna alternativa ai campi governativi e che si debba cooperare per attrezzarli adeguatamente in modo che i profughi possano trasferircisi al più presto. Non so, non posso giudicare, certo non possono rimanere dove sono ora, ma i campi governativi, sono, se possibile, anche più tristi di Idomeni. Ne abbiamo visitato uno. Ogni famiglia una tenda fornita dall’UNHCR. Intorno niente, campagna. Da qualche settimana hanno fornito i pavimenti di compensato, leggermente rialzati da terra, una coperta a testa, in qualche caso un materassino sottile. Chi ha ancora soldi si compra legna per cucinare, chi non ne ha si mette in fila. Incontriamo di nuovo Ashraf, il ragazzino che ha perso la madre, uccisa dall’Isis, per quello che avevamo potuto capire. La felicità nel vederci al campo è incontenibile. Ci abbraccia, ci prende per mano. “Dov’è la tua tenda?” Gli chiediamo. “Dov’è il tuo baba?” Ci conduce ad una tenda per mano e troviamo il papà con altri due uomini intenti a parlare all’interno della tenda aperta. Ad Ashraf, incontrato a Park Hotel durante una pausa avevamo regalato una valigia che non ci serviva più, alcuni cerotti e due smalti. Tutto quello che ci era rimasto. E avevamo giocato con lui, lo avevamo lasciato filmare e fotografare. Era stato un momento di particolare intensità perché questi quattro ragazzi, due gemelli di Falloja con gli occhi verdissimi e i due fratellini, Ashraf e Yacoub ci avevano commossi per la voglia di imparare, comunicare e per la difficoltà nel farlo. Entriamo, accolti come sempre con calore. Arriva anche la mamma, che quindi non è morta, che solievo. Chissà cosa avevamo capito. Chissà se l’ha fatta morire per captatio benevolenza. Sono tre cugini con le rispettive mogli e figli. Fuggono da Raqqa e parlano subito di Isis. Il loro inglese non è perfetto ma riusciamo a capirci. L’Isis, ci raccontano, terrorizzava la popolazione obbligando tutta la cittadinanza ad assistere alle esecuzioni pubbliche. Non potevi rifiutare, dovevi andarci se non volevi rischiare di esere il prossimo. Le esecuzioni pubbliche erano precedute da annunci al megafono e da miliziani che veniva a prenderti casa per casa. Raccontano che anche i bambini erano obbligati ad assistere e che quando il fratello più piccolo di Ashraf con un coltello in mano ha tentato di imitare lo sgozzamento su un altro fratello, hanno deciso di partire. Nessuno dei suoi figli è andato a scuola negli ultimi 5 anni. Non hanno più soldi, niente. Neppure per comprare lo zucchero. Sono esasperati dalla mancanza di interlocutori a cui poter spiegare la situazione. Dicono di essere disposti a rimanere anche due anni sotto la tenda “non importa” – dicono _ “l’importante è che ci dicano quando finirà. Ci vuole un anno? Due? Va bene. Noi restiamo qui e resistiamo ma dobbiamo sapere quando potremo di nuovo avere una vita normale.” La tenda è sprovvista di energia elettrica, non c’è alcun riscaldamento, né riparo dal sole. Non ci sono alberi, neanche uno. Ci sono solo decine di tende disposte in file ordinate. E dentro ogni tenda una storia. In quella sucessiva incontriamo una donna e un uomo anziani. Sono scappati anche loro dall’Isis ma dalla zona di Sinjar, in Irak. Sono Yezidi: una minoranza religiosa perseguitata. Lui veste una bella ghellaba bianca. Lei minuta, ha un abito tradizionale e un velo bianco: il viso di entrambi è un reticolato di rughe. Sorridono, ci invitano a entrare. Viaggiano con i due figli maschi. Il maggiore, che è l’unico a parlare inglese ci raggiunge con la moglie. È incinta del loro primo figlio. Evidentemente partorirà qui. Ci tratteniamo un po’, lui ride, parliamo inglese, ci raccontano una storia simile a quella appena ascoltata. L’Isis, la persecuzione, la prima fuga nei campi profughi intorno a Erbil e poi in Turchia. Il tragitto in barca, la paura di morire, i passatori che ti rubano tutto. Abbassa lo sguardo, gli occhi si inumidiscono ma prevale la dignità. Quando rialza il capo gli occchi sono asciutti. Intanto fuori si è assembrata una piccola folla di bambini e vicini curiosi così che quando uscimo non riusciamo più a capire quali siano nipoti e quali no. “Com’è la vita qui al campo per voi Yezidi?” gli chiediamo. “Difficile ci risponde, i musulmani non ci lasciano tranquilli, c’è sempre qualche problema”. Ashraf, che è musulmano dice la stessa cosa: “Ci sono sempre problemi, gli Yezidi non ci lasciano mai tranquilli”. In questi giorni abbiamo incontrato famiglie musulmane, che sono la netta maggioranza, ma anche cristiane e Yezide e tutte hanno denunciato le persecuzioni dell’Isis. “They kill everyone, what do you think? They do difference? No, no. They kill musslim, cristian, Yezidi, whatever…”.

    22 maggio 2016 – Casa, Genestrerio
    Il diario si è interrotto cosi, è rimasto a metà. Ci sono una quantità di cose che vorrei scrivere. Della rete dei volontari per esempio. Di queste talvolta bislacche persone che mollano tutto per trascorrere mesi nei campi profughi. Dei contrasti, troppo forti. Della difficoltà del rientro, dell’impossibilità di partire se non pagando un trafficante. Della distribuzione del cibo, della fame, dei serpenti e degli scorpioni che si annidano intorno alle tende. Della generazione che non andando a scuola faticherà a riprendersi, del businnes della guerra e della ricostruzione. Ci sono tantissime cose, così tante che avrei bisogno di alcune settimane. Non me lo posso permettere. Domani riparto per Lampedusa, devo ancora fare le valigie. Parto per Lampedusa e apro un nuovo diario, ma la traccia è sempre la stessa. Lampedusa, perla del Mediterraneo, isola di roccia e vento, patria di quella donna meravigliosa che è Giusi Nicolini, terra di approdo e di morte. Cimiteri di sconosciuti. Lampedusa, madre di tutte le battaglie per la dignità. Sono anni che aspetto d’incontrarti. Parto con i polmoni spaccati in due da una tosse cattiva. Coperta di morsicature di zanzare e mi chiedo se mi darai il colpo di grazia o sanerai le ferite di questo corpo stanco. Se riuscirai a dare un senso a ciò che ho visto e tentato di raccontare.

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