Oggi è la #giornatamondialedelrifugiato. Criticare il governo sarebbe fin troppo facile. Oltre che consolatorio. Un po’ come scendere in piazza prima dell’aperitivo a chiedere di aprire i porti e di restare umani. Perché è bello sentirsi dalla parte dei buoni. È consolatorio. Siamo per il diritto d’asilo, per l’accoglienza, per il salvataggio in mare. E siamo così autocompiaciuti del nostro buonismo da non renderci conto di quanto ambigua e scivolosa sia la narrazione sulla frontiera che abbiamo costruito in questi anni. Una narrazione che paradossalmente rischia di fare il gioco di chi insegue il mito del controllo totale della mobilità Africa-Europa.
Perché quel misto di civilismo ed etica della bontà ha spazzato via il lessico di una certa cultura politica della migrazione.
Che fine ha fatto la critica alle politiche sui visti che da vent’anni sono alla base del fenomeno degli sbarchi? Che fine ha fatto la critica alla fabbrica della clandestinità e ai centri di identificazione ed espulsione? Che fine ha fatto il discorso sulla libertà di circolazione?
Sulla rotta del contrabbando libico non viaggiano che pochi “rifugiati”. La grande maggioranza sono lavoratori partiti alla volta dell’Europa su quella che è rimasta l’ultima e unica via dell’emigrazione Africa-Europa. Le ambasciate europee hanno chiuso di fatto tutte le vie legali. Non esistono visti per ricerca di lavoro. Non vengono rilasciati nemmeno visti turistici, che comunque non potrebbero essere convertiti in permessi di soggiorno neanche in presenza di un contratto. Persino i ricongiungimenti familiari vengono concessi col contagocce. E tutto questo mentre l’Europa, da decenni, continua a importare manodopera a basso costo nel numero di milioni di lavoratori all’anno da quei paesi con cui ha firmato accordi di semi o totale libera circolazione: dai nuovi Stati Membri all’Europa orientale, dall’Albania a tutti i Balcani e al Sud America.
L’Africa invece è stata mantenuta fuori da quegli accordi. Chiusi i canali legali di mobilità, da anni l’obiettivo europeo è chiudere l’ultima via rimasta aperta, quella del contrabbando libico che ormai ha il monopolio dei viaggi sud-nord nel Mediterraneo.
L’unica eccezione che l’Europa è disposta a fare è proprio sui rifugiati. Su questo è d’accordo persino il ministro Salvini: chi scappa davvero dalla guerra, ha detto più volte, è il benvenuto. Stesso ritornello dalla Commissione a Frontex e ai tanti che a destra e sinistra da anni propongono di costruire in Libia dei centri di detenzione per selezionare i “veri” rifugiati da trasferire in Europa sotto la nostra protezione.
Perché noi continuiamo a credere nel nostro stato di diritto. Chissà, forse ci aiuta a convivere con quella grande tomba a cielo aperto che è diventato il Mediterraneo, dove hanno perso la vita almeno trentamila viaggiatori negli ultimi vent’anni. Ebbene, la maggior parte di loro non erano perseguitati politici. Erano lavoratori alla ricerca della propria fortuna, spinti nelle braccia del contrabbando libico direttamente dalle ambasciate europee che da anni hanno smesso di rilasciare visti nei paesi della black-list dell’immigrazione clandestina.
A loro l’Europa promette asilo politico, a patto che lo chiedano a nuoto. Soltanto chi di loro sopravviverà alla traversata ne avrà diritto. Basterà recitare una performance del dolore abbastanza credibile davanti ai funzionari delle commissioni per il riconoscimento dell’asilo, professionisti assunti per misurare il livello della sofferenza e certificare l’avvenuta persecuzione.
Tutti quelli che avranno il diniego della commissione – e sono la maggioranza - dopo un ricorso fotocopia spesso inutile e spesso scritto da avvocati che campano su questo, saranno in teoria rimpatriati, in pratica espulsi dai circuiti dell’accoglienza e mandati ad allungare le file dei senza documenti che lavorano in nero nelle nostre periferie e nei nostri campi, o di quelli che ridotti in miseria si danno al piccolo crimine.
E allora oggi più che mai, nella giornata mondiale del rifugiato, anziché chiedersi come estendere il concetto di asilo politico ai migranti climatici o ai disoccupati di mezzo mondo, noi dovremmo chiederci quale sia l’alternativa politica.
Lo dico, guardate bene, anche per salvaguardare il sacrosanto istituto dell’asilo politico, previsto in Costituzione, nonché per tutelare le diverse migliaia di rifugiati politici a cui l’Italia ha offerto protezione in questi anni. Il punto è che qua la questione politica è un’altra. Ed è molto più grande dell’asilo.
L’Africa di oggi non è più il terzo mondo. E noi dovremmo dire con forza che nel mondo globalizzato, nell’anno 2018, non è accettabile che l’emigrazione dall’Africa all’Europa sia ancora concepita e governata come uno stato d’eccezione, come un’emergenza.
Noi dovremmo dire con forza che l’unico modo per porre fine al massacro del Mediterraneo è sperimentare con l’Africa le stesse politiche che da un decennio applichiamo con l’Est Europa e con l’America latina.
Ovvero una progressiva semplificazione del regime dei visti.
Non si tratta, attenzione, di trasferire in Europa milioni di lavoratori africani di cui il mercato del lavoro europeo non avrebbe evidentemente bisogno.
Si tratta di riaprire quelle vie legali dell’emigrazione la cui progressiva chiusura è stata alla base del fenomeno degli sbarchi fin dagli ani Novanta.
Un fenomeno che riguarda tra le ventimila e le centomila persone all’anno. Tanti sono i lavoratori africani che ogni anno prendono la via del mare verso l’Europa rimanendo poi bloccati in Italia. A quei lavoratori l’Europa potrebbe invece offrire la possibilità di viaggiare in aereo con in tasca un biglietto, un passaporto e un visto per ricerca di lavoro valido in tutta Europa.
Affinché anziché rimanere bloccati nel limbo dell’accoglienza, in attesa di un permesso che non arriva, impossibilitati a lavorare e bloccati dalla burocrazia in paesi come l’Italia o la Grecia dove il lavoro scarseggia, queste persone possano rimboccarsi le maniche e cercare in modo dignitoso la propria fortuna in tutta Europa. Ammesso che quella fortuna qui si trovi.
Perché – e concludo – il dibattito sulle migrazioni non può essere disgiunto dalle grandi questioni internazionali, dal discorso contro la guerra e dalle lotte politiche e sociali in corso nei paesi al di là del Mediterraneo.
Decostruire la frontiera dovrebbe servire anche a questo: a costruire ponti di solidarietà con quelle lotte oltremare in cui ci riconosciamo per la nostra cultura politica.
L’altro ponte invece dovremmo gettarlo verso le produzioni culturali di quei paesi che forse più di tanti discorsi ci aiuterebbero, attraverso l’arte e la bellezza, a non avere più paura. Perché, forse, comincia tutto da lì.