• Permessi in mano straniera : il vero #business è rivenderli

    La crescita della domanda delle materie prime critiche ha rimesso le miniere al centro dell’agenda politica italiana. Ma sono compagnie extra-UE a fare da protagoniste in questa rinascita perché la chiusura delle miniere negli anni ’80 ha spento l’imprenditoria mineraria italiana.

    “Nelle #Valli_di_Lanzo l’attività mineraria risale al XVIII secolo, quando il cobalto era utilizzato per colorare di blu tessuti e ceramiche. Poi l’estrazione non era più conveniente e le miniere sono state chiuse negli anni ‘20” dice a IE Domenico Bertino, fondatore del museo minerario di Usseglio, Piemonte. Adesso, grazie a una società australiana, i minatori potrebbero tornare a ripopolare le vette alpine.

    Secondo Ispra quasi tutti i 3015 siti attivi in Italia dal 1870 sono dismessi o abbandonati. Ma la crescita della domanda di materie prime critiche (CRM) ha fatto tornare le miniere al centro dell’agenda politica.

    “Abbiamo 16 materie critiche in miniere che sono state chiuse oltre trent’anni fa. Era più facile far fare l’estrazione di cobalto in Congo, farlo lavorare in Cina e portarlo in Italia” ha detto a luglio il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso, ribadendo la volontà del governo di riaprire le miniere. Oltre al cobalto in Piemonte, ci sono progetti per la ricerca di piombo e zinco in Lombardia, di litio nel Lazio e di antimonio in Toscana.

    I protagonisti di questa “rinascita mineraria”, che dovrebbe rendere l’Italia meno dipendente da paesi terzi, sono compagnie canadesi e australiane. Dei 20 permessi di esplorazione attivi, solo uno è intestato a una società italiana (Enel Green Power).

    La ragione è che “le scelte politiche fatte negli anni ‘80 hanno portato alla chiusura delle miniere. E così la nostra imprenditoria mineraria si è spenta e la nuova generazione ha perso il know how” spiega Andrea Dini, ricercatore del CNR.

    La maggior parte sono junior miner, società quotate in borsa il cui obiettivo è ottenere i permessi e vendere l’eventuale scoperta del giacimento a una compagnia mineraria più grande. “Spesso quando la società mineraria dichiara di aver scoperto il deposito più grande del mondo, il più ricco, il più puro, cerca solo di attrarre investitori e far decollare il valore del titolo” spiega Alberto Valz Gris, geografo ed esperto di CRM del Politecnico di Torino, promotore di una carta interattiva (http://frontieredellatransizione.it) che raccoglie i permessi di ricerca mineraria per CRM in Italia.

    Tra le junior miner presenti in Italia spicca Altamin, società mineraria australiana che nel 2018 ha ottenuto i primi permessi di esplorazione (https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/Info/1760) per riaprire le miniere di cobalto di Usseglio e Balme, in Piemonte. “Finora sono state effettuate solo analisi in laboratorio per capire la qualità e quantità del cobalto” spiega Claudio Balagna, appassionato di mineralogia che ha accompagnato in alta quota gli esperti di Altamin. “Ma da allora non abbiamo saputo più nulla", dice a IE Giuseppe Bona, assessore all’ambiente di Usseglio, favorevole a una riapertura delle miniere che potrebbe creare lavoro e attirare giovani in una comunità sempre più spopolata.

    A Balme, invece, si teme che l’estrazione possa inquinare le falde acquifere. “Non c’è stato alcun dialogo con Altamin, quindi è difficile valutare quali possano essere i risvolti eventualmente positivi" lamenta Giovanni Castagneri, sindaco di Balme, comune che nel 2020 ha ribadito l’opposizione “a qualsiasi ricerca mineraria che interessi il suolo e il sottosuolo”.

    “Le comunità locali sono prive delle risorse tecniche ed economiche per far sentire la propria voce” spiega Alberto Valz Gris.

    Per il governo Meloni la corsa alla riapertura delle miniere è una priorità, con la produzione industriale italiana che dipende per €564 miliardi di euro (un terzo del PIL nel 2021) dall’importazione di materie critiche extra-UE. Tuttavia, a oggi, non c’è una sola miniera di CRM operativa in Italia.

    Nel riciclo dei rifiuti le aziende italiane sono già molto forti. L’idea è proprio di puntare sull’urban mining, l’estrazione di materie critiche dai rifiuti, soprattutto elettronici, ricchi di cobalto, rame e terra rare. Ma, in molti casi, la raccolta e il riciclo di queste materie è oggi ben al di sotto dell’1%. “Un tasso di raccolta molto basso, volumi ridotti e mancanza di tecnologie appropriate non hanno permesso lo sviluppo di una filiera del riciclaggio delle materie critiche”, dice Claudia Brunori, vicedirettrice per l’economia circolare di ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Oltre alla mancanza di fondi: nel PNRR non sono previsti investimenti per le materie prime critiche.

    Un’altra strategia è estrarre CRM dalle discariche minerarie. Il Dlgs 117/08 fornisce indicazioni sulla gestione dei rifiuti delle miniere attive, ma non fornisce riferimenti per gli scarti estrattivi abbandonati. Così “tali depositi sono ancora ritenuti rifiuti e non possono essere considerati nuovi giacimenti da cui riciclare le materie” denuncia l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che chiede una modifica normativa che consenta il recupero delle risorse minerarie.

    https://www.investigate-europe.eu/it/posts/permessi-in-mano-straniera-il-vero-business-rivenderli
    #extractivisme #Alpes #permis #mines #minières #Italie #terres_rares #matières_premières_critiques #transition_énergétique #Alberto_Valz_Gris #permis_d'exploration #Usseglio #Piémont #Adolfo_Urso #plomb #zinc #Lombardie #Latium #Toscane #antimoine #Enel_Green_Power #junior_miner #Altamin #Australie #Balme #urban_mining #recyclage #économie_circulaire #déchets

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Fermes, coopératives... « En #Palestine, une nouvelle forme de #résistance »

    Jardins communautaires, coopératives... En Cisjordanie et à Gaza, les Palestiniens ont développé une « #écologie_de_la_subsistance qui n’est pas séparée de la résistance », raconte l’historienne #Stéphanie_Latte_Abdallah.

    Alors qu’une trêve vient de commencer au Proche-Orient entre Israël et le Hamas, la chercheuse Stéphanie Latte Abdallah souligne les enjeux écologiques qui se profilent derrière le #conflit_armé. Elle rappelle le lien entre #colonisation et #destruction de l’#environnement, et « la relation symbiotique » qu’entretiennent les Palestiniens avec leur #terre et les êtres qui la peuplent. Ils partagent un même destin, une même #lutte contre l’#effacement et la #disparition.

    Stéphanie Latte Abdallah est historienne et anthropologue du politique, directrice de recherche au CNRS (CéSor-EHESS). Elle a récemment publié La toile carcérale, une histoire de l’enfermement en Palestine (Bayard, 2021).

    Reporterre — Comment analysez-vous à la situation à #Gaza et en #Cisjordanie ?

    Stéphanie Latte Abdallah — L’attaque du #Hamas et ses répercussions prolongent des dynamiques déjà à l’œuvre mais c’est une rupture historique dans le déchaînement de #violence que cela a provoqué. Depuis le 7 octobre, le processus d’#encerclement de la population palestinienne s’est intensifié. #Israël les prive de tout #moyens_de_subsistance, à court terme comme à moyen terme, avec une offensive massive sur leurs conditions matérielles d’existence. À Gaza, il n’y a plus d’accès à l’#eau, à l’#électricité ou à la #nourriture. Des boulangeries et des marchés sont bombardés. Les pêcheurs ne peuvent plus accéder à la mer. Les infrastructures agricoles, les lieux de stockage, les élevages de volailles sont méthodiquement démolis.

    En Cisjordanie, les Palestiniens subissent — depuis quelques années déjà mais de manière accrue maintenant — une forme d’#assiègement. Des #cultures_vivrières sont détruites, des oliviers abattus, des terres volées. Les #raids de colons ont été multipliés par deux, de manière totalement décomplexée, pour pousser la population à partir, notamment la population bédouine qui vit dans des zones plus isolées. On assiste à un approfondissement du phénomène colonial. Certains parlent de nouvelle #Nakba [littéralement « catastrophe » en Arabe. Cette expression fait référence à l’exode forcé de la population palestinienne en 1948]. On compte plus d’1,7 million de #déplacés à Gaza. Où iront-ils demain ?

    « Israël mène une #guerre_totale à une population civile »

    Gaza a connu six guerres en dix-sept ans mais il y a quelque chose d’inédit aujourd’hui, par l’ampleur des #destructions, le nombre de #morts et l’#effet_de_sidération. À défaut d’arriver à véritablement éliminer le Hamas – ce qui est, selon moi, impossible — Israël mène une guerre totale à une population civile. Il pratique la politique de la #terre_brûlée, rase Gaza ville, pilonne des hôpitaux, humilie et terrorise tout un peuple. Cette stratégie a été théorisée dès 2006 par #Gadi_Eizenkot, aujourd’hui ministre et membre du cabinet de guerre, et baptisée « la #doctrine_Dahiya », en référence à la banlieue sud de Beyrouth. Cette doctrine ne fait pas de distinction entre #cibles_civiles et #cibles_militaires et ignore délibérément le #principe_de_proportionnalité_de_la_force. L’objectif est de détruire toutes les infrastructures, de créer un #choc_psychologique suffisamment fort, et de retourner la population contre le Hamas. Cette situation nous enferme dans un #cycle_de_violence.

    Vos travaux les plus récents portent sur les initiatives écologiques palestiniennes. Face à la fureur des armes, on en entend évidemment peu parler. Vous expliquez pourtant qu’elles sont essentielles. Quelles sont-elles ?

    La Palestine est un vivier d’#innovations politiques et écologiques, un lieu de #créativité_sociale. Ces dernières années, suite au constat d’échec des négociations liées aux accords d’Oslo [1] mais aussi de l’échec de la lutte armée, s’est dessinée une #troisième_voie.

    Depuis le début des années 2000, la #société_civile a repris l’initiative. Dans de nombreux villages, des #marches et des #manifestations hebdomadaires sont organisées contre la prédation des colons ou pour l’#accès_aux_ressources. Plus récemment, s’est développée une #économie_alternative, dite de résistance, avec la création de #fermes, parfois communautaires, et un renouveau des #coopératives.

    L’objectif est de reconstruire une autre société libérée du #néolibéralisme, de l’occupation et de la #dépendance à l’#aide_internationale. Des agronomes, des intellectuels, des agriculteurs, des agricultrices, des associations et des syndicats de gauche se sont retrouvés dans cette nouvelle forme de résistance en dehors de la politique institutionnelle. Une jeune génération a rejoint des pionniers. Plutôt qu’une solution nationale et étatique à la colonisation israélienne — un objectif trop abstrait sur lequel personne n’a aujourd’hui de prise — il s’agit de promouvoir des actions à l’échelle citoyenne et locale. L’idée est de retrouver de l’#autonomie et de parvenir à des formes de #souveraineté par le bas. Des terres ont été remises en culture, des #fermes_agroécologiques ont été installées — dont le nombre a explosé ces cinq dernières années — des #banques_de_semences locales créées, des modes d’#échange directs entre producteurs et consommateurs mis en place. On a parlé d’« #intifada_verte ».

    Une « intifada verte » pour retrouver de l’autonomie

    Tout est né d’une #prise_de_conscience. Les #territoires_palestiniens sont un marché captif pour l’#économie israélienne. Il y a très peu de #production. Entre 1975 et 2014, la part des secteurs de l’agriculture et de l’#industrie dans le PIB a diminué de moitié. 65 % des produits consommés en Cisjordanie viennent d’Israël, et plus encore à Gaza. Depuis les accords d’Oslo en 1995, la #production_agricole est passée de 13 % à 6 % du PIB.

    Ces nouvelles actions s’inscrivent aussi dans l’histoire de la résistance : au cours de la première Intifada (1987-1993), le #boycott des taxes et des produits israéliens, les #grèves massives et la mise en place d’une économie alternative autogérée, notamment autour de l’agriculture, avaient été centraux. À l’époque, des #jardins_communautaires, appelés « les #jardins_de_la_victoire » avait été créés. Ce #soulèvement, d’abord conçu comme une #guerre_économique, entendait alors se réapproprier les #ressources captées par l’occupation totale de la Cisjordanie et de la #bande_de_Gaza.

    Comment définiriez-vous l’#écologie palestinienne ?

    C’est une écologie de la subsistance qui n’est pas séparée de la résistance, et même au-delà, une #écologie_existentielle. Le #retour_à_la_terre participe de la lutte. C’est le seul moyen de la conserver, et donc d’empêcher la disparition totale, de continuer à exister. En Cisjordanie, si les terres ne sont pas cultivées pendant 3 ou 10 ans selon les modes de propriété, elles peuvent tomber dans l’escarcelle de l’État d’Israël, en vertu d’une ancienne loi ottomane réactualisée par les autorités israéliennes en 1976. Donc, il y a une nécessité de maintenir et augmenter les cultures, de redevenir paysans, pour limiter l’expansion de la #colonisation. Il y a aussi une nécessité d’aller vers des modes de production plus écologiques pour des raisons autant climatiques que politiques. Les #engrais et les #produits_chimiques proviennent des #multinationales via Israël, ces produits sont coûteux et rendent les sols peu à peu stériles. Il faut donc inventer autre chose.

    Les Palestiniens renouent avec une forme d’#agriculture_économe, ancrée dans des #savoir-faire_ancestraux, une agriculture locale et paysanne (#baladi) et #baaliya, c’est-à-dire basée sur la pluviométrie, tout en s’appuyant sur des savoirs nouveaux. Le manque d’#eau pousse à développer cette méthode sans #irrigation et avec des #semences anciennes résistantes. L’idée est de revenir à des formes d’#agriculture_vivrière.

    La #révolution_verte productiviste avec ses #monocultures de tabac, de fraises et d’avocats destinée à l’export a fragilisé l’#économie_palestinienne. Elle n’est pas compatible avec l’occupation et le contrôle de toutes les frontières extérieures par les autorités israéliennes qui les ferment quand elles le souhaitent. Par ailleurs, en Cisjordanie, il existe environ 600 formes de check-points internes, eux aussi actionnés en fonction de la situation, qui permettent de créer ce que l’armée a nommé des « #cellules_territoriales ». Le #territoire est morcelé. Il faut donc apprendre à survivre dans des zones encerclées, être prêt à affronter des #blocus et développer l’#autosuffisance dans des espaces restreints. Il n’y a quasiment plus de profondeur de #paysage palestinien.

    « Il faut apprendre à survivre dans des zones encerclées »

    À Gaza, on voit poindre une #économie_circulaire, même si elle n’est pas nommée ainsi. C’est un mélange de #débrouille et d’#inventivité. Il faut, en effet, recycler les matériaux des immeubles détruits pour pouvoir faire de nouvelles constructions, parce qu’il y a très peu de matériaux qui peuvent entrer sur le territoire. Un entrepreneur a mis au point un moyen d’utiliser les ordures comme #matériaux. Les modes de construction anciens, en terre ou en sable, apparaissent aussi mieux adaptés au territoire et au climat. On utilise des modes de production agricole innovants, en #hydroponie ou bien à la #verticale, parce que la terre manque, et les sols sont pollués. De nouvelles pratiques énergétiques ont été mises en place, surtout à Gaza, où, outre les #générateurs qui remplacent le peu d’électricité fournie, des #panneaux_solaires ont été installés en nombre pour permettre de maintenir certaines activités, notamment celles des hôpitaux.

    Est-ce qu’on peut parler d’#écocide en ce moment ?

    Tout à fait. Nombre de Palestiniens emploient maintenant le terme, de même qu’ils mettent en avant la notion d’#inégalités_environnementales avec la captation des #ressources_naturelles par Israël (terre, ressources en eau…). Cela permet de comprendre dans leur ensemble les dégradations faites à l’#environnement, et leur sens politique. Cela permet aussi d’interpeller le mouvement écologiste israélien, peu concerné jusque-là, et de dénoncer le #greenwashing des autorités. À Gaza, des #pesticides sont épandus par avion sur les zones frontalières, des #oliveraies et des #orangeraies ont été arrachées. Partout, les #sols sont pollués par la toxicité de la guerre et la pluie de #bombes, dont certaines au #phosphore. En Cisjordanie, les autorités israéliennes et des acteurs privés externalisent certaines #nuisances_environnementales. À Hébron, une décharge de déchets électroniques a ainsi été créée. Les eaux usées ne sont pas également réparties. À Tulkarem, une usine chimique considérée trop toxique a été également déplacée de l’autre côté du Mur et pollue massivement les habitants, les terres et les fermes palestiniennes alentour.

    « Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement »

    Les habitants des territoires occupés, et leur environnement — les plantes, les arbres, le paysage et les espèces qui le composent — sont attaqués et visés de manière similaire. Ils sont placés dans une même #vulnérabilité. Pour certains, il apparaît clair que leur destin est commun, et qu’ils doivent donc d’une certaine manière résister ensemble. C’est ce que j’appelle des « #résistances_multispécifiques », en écho à la pensée de la [philosophe féministe étasunienne] #Donna_Haraway. [2] Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement. Une même crainte pour l’existence. La même menace d’#effacement. C’est très palpable dans le discours de certaines personnes. Il y a une lutte commune pour la #survie, qui concerne autant les humains que le reste du vivant, une nécessité écologique encore plus aigüe. C’est pour cette raison que je parle d’#écologisme_existentiel en Palestine.

    Aujourd’hui, ces initiatives écologistes ne sont-elles pas cependant menacées ? Cet élan écologiste ne risque-t-il pas d’être brisé par la guerre ?

    Il est évidemment difficile d’exister dans une guerre totale mais on ne sait pas encore comment cela va finir. D’un côté, on assiste à un réarmement des esprits, les attaques de colons s’accélèrent et les populations palestiniennes en Cisjordanie réfléchissent à comment se défendre. De l’autre côté, ces initiatives restent une nécessité pour les Palestiniens. J’ai pu le constater lors de mon dernier voyage en juin, l’engouement est réel, la dynamique importante. Ce sont des #utopies qui tentent de vivre en pleine #dystopie.

    https://reporterre.net/En-Palestine-l-ecologie-n-est-pas-separee-de-la-resistance
    #agriculture #humiliation #pollution #recyclage #réusage #utopie

    • La toile carcérale. Une histoire de l’enfermement en Palestine

      Dans les Territoires palestiniens, depuis l’occupation de 1967, le passage par la prison a marqué les vécus et l’histoire collective. Les arrestations et les incarcérations massives ont installé une toile carcérale, une détention suspendue. Environ 40 % des hommes palestiniens sont passés par les prisons israéliennes depuis 1967. Cet ouvrage remarquable permet de comprendre en quoi et comment le système pénal et pénitentiaire est un mode de contrôle fractal des Territoires palestiniens qui participe de la gestion des frontières. Il raconte l’envahissement carcéral mais aussi la manière dont la politique s’exerce entre Dedans et Dehors, ses effets sur les masculinités et les féminités, les intimités. Stéphanie Latte Abdallah a conduit une longue enquête ethnographique, elle a réalisé plus de 350 entretiens et a travaillé à partir d’archives et de documents institutionnels. Grâce à une narration sensible s’apparentant souvent au documentaire, le lecteur met ses pas dans ceux de l’auteure à la rencontre des protagonistes de cette histoire contemporaine méconnue.

      https://livres.bayard-editions.com/livres/66002-la-toile-carcerale-une-histoire-de-lenfermement-en-pal
      #livre

  • Démolir, recycler, valoriser : le grand chantier des matériaux dans les métropoles
    https://metropolitiques.eu/Demolir-recycler-valoriser-le-grand-chantier-des-materiaux-dans-les-

    Dans le cadre du partenariat entre Métropolitiques et le Prix de thèse sur la ville, Brigitte Guigou et Claude Lacour reviennent sur les travaux d’Agnès Bastin, lauréate du Grand Prix 2023. Au-delà des grands mots d’ordre, fabriquer une ville durable engage des processus politiques et techniques complexes, comme le montre l’exemple de l’intégration des matériaux de chantier dans une #économie_circulaire. Les matériaux de #construction et de démolition contribuent fortement à l’empreinte de l’aménagement #Commentaires

    / économie circulaire, #déchets, construction, #écologie, #industrie, #bâtiment, #recyclage

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-guigou-lacour.pdf

  • Quel #droit à la biffe ?
    https://metropolitiques.eu/Quel-droit-a-la-biffe.html

    Cofondateur de l’association qui fédère les #biffins d’Île-de-France, Samuel Le Cœur évoque dans cet entretien les difficultés que rencontrent ces récupérateurs et revendeurs d’objets d’occasion pour exercer de plein droit leur activité. Entretien réalisé par David Rottmann et Clément Rivière. Pouvez-vous nous expliquer ce qui vous a poussé à cofonder, en 2012, l’association Amelior (Association des marchés économiques locaux individuels et organisés du #recyclage) ? Ce qui nous a poussés à nous constituer en #Entretiens

    / biffins, #déchets, #économie_circulaire, recyclage, #Montreuil, droit, #Paris

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_lecoeur.pdf

  • Why plastic ? - Le #mensonge du #recyclage

    Qu’advient-il réellement de nos déchets plastiques une fois que nous les avons mis dans le bac de recyclage ?
    Alors que la crise de la pollution plastique est devenue un scandale international, les plus grandes marques de biens de consommation de la planète ont déclaré avoir une solution : le recyclage. Mais nos emballages plastiques ont toujours plus de chances de finir brûlés ou jetés que recyclés.

    https://pages.rts.ch/docs/doc/12884036-why-plastic-le-mensonge-du-recyclage.html
    #film #documentaire #film_documentaire
    #Bulgarie #incinération #emballage #décharges_sauvages #déchets_plastique #Grüne_Punkte #économie_circulaire #tri #décyclage #électricité #valorisation_thermique_des_déchets #Chine #marché_noir #Turquie #crime_organisé #corruption #combustible #Terracycle #Tom_Szaky #éco-blanchissement #industrie_pétrochimique #Alliance_to_end_plastic_waste

  • The renewable energy transition is failing – Asia Times
    https://asiatimes.com/2022/11/the-renewable-energy-transition-is-failing

    […] as economist Nicholas Georgescu-Roegen found in his pioneering work on entropy, recycling is always incomplete and always costs energy. Materials typically degrade during each cycle of use, and some material is wasted in the recycling process.

    A French preliminary analysis of the energy transition that assumed maximum possible recycling found that a materials-supply crisis could be delayed by up to three centuries.

    But will the circular economy (itself an enormous undertaking and a distant goal) arrive in time to buy industrial civilization those extra 300 years? Or will we run out of critical materials in just the next few decades in our frantic effort to build as many renewable-energy devices as we can in as short a time as possible?

    The latter outcome seems more likely if pessimistic resource estimates turn out to be accurate. Simon Michaux of the Finnish Geological Survey finds, “Global reserves are not large enough to supply enough metals to build the renewable non-fossil-fuels industrial system.…

    #climat #énergie

  • Économie circulaire : le Club de la durabilité alerte sur certains effets négatifs et contreproductifs
    https://www.actu-environnement.com/ae/news/economie-circulaire-club-durabilite-effets-positifs-negatifs-406

    Quand le reconditionnement se nourrit de surconsommation

    L’Agence de la transition écologique (Ademe) a montré qu’un téléphone mobile reconditionné permet de réduire de 91 à 77 % l’impact environnemental annuel de cet équipement, par rapport à un neuf. Ainsi, l’emploi de 82 kg de matières premières et l’émission de 25 kg de gaz à effet de serre (GES) peuvent être évités par année d’utilisation. Le rapport présente cependant plusieurs effets contreproductifs.

    En matière de surconsommation, tout d’abord. « Back Market indique que la collecte en France et en Europe auprès des consommateurs et des entreprises est aujourd’hui très insuffisante pour répondre à la demande et qu’il est indispensable d’importer des équipements en fin de vie à reconditionner en France ou déjà reconditionnés dans d’autres pays », explique le rapport. Et de préciser que la place de marché estime que près de la moitié des téléphones reconditionnés vendus en France proviennent d’Amérique. Pourquoi l’Amérique ? Parce que le modèle économique du crédit-bail de courte durée avec renouvellement annuel du mobile se répand outre-Atlantique.

  • L’économie verte en Afrique conjuguée au futur de son développement.
    http://www.argotheme.com/organecyberpresse/spip.php?article4344

    Efficacité et maximisation des ressources grâce à la création d’une #économie_circulaire sont au cœur de l’avenir de l’Afrique. L’agriculture est actuellement en plein changement. Elle est accompagnée par l’adoption des technologies et techniques qui sont toujours bas. Et devront répondre ensemble à l’alerte climatique mondialisée. 4- Projets locaux : Les grands travaux des régions.

    / #crise,_capitalisme,_économie,_justice,_Bourse, Afrique, Monde Arabe, islam, Maghreb, Proche-Orient,, économie , #Ecologie,_environnement,_nature,_animaux

    #4-_Projets_locaux_:_Les_grands_travaux_des_régions. #Afrique,_Monde_Arabe,_islam,_Maghreb,_Proche-Orient,

  • Vers une ingénierie de la circularité
    https://metropolitiques.eu/Vers-une-ingenierie-de-la-circularite.html

    Entre manifeste et guide pratique, l’ouvrage de l’urbaniste Sylvain Grisot questionne l’étalement des villes à partir de nos manières de les construire. La paysagiste Alice Riegert nous en livre les pistes saillantes et invite concepteurs et décideurs à revendiquer d’autres gestes. « Cinq terrains de foot artificialisés en France, toutes les heures. » Le constat de Sylvain Grisot est sans appel. En tant qu’urbaniste, fondateur de l’agence Dixit.net et chercheur associé à l’université de Nantes, il #Commentaires

    / #économie_circulaire, #urbanisme, #urbanisme_temporaire, #étalement_urbain, artificialisation des (...)

    #artificialisation_des_sols
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_riegert.pdf

  • Les forçats des déchets | Santé & travail
    https://www.sante-et-travail.fr/forcats-dechets

    Ce sont les soutiers des temps modernes, occupés dans l’ombre à faire disparaître promptement les rebuts de la #société_de_consommation, dont nous ne saurions tolérer la vue. Environ 100 000 personnes sont employées dans le secteur des déchets, dont la moitié au traitement des ordures ménagères. Parmi elles, de nombreux salariés en insertion ou des travailleurs handicapés. Tous exposés à de multiples risques connus – pénibilité physique et mentale, horaires décalés, manipulation de #produits_toxiques, manque de reconnaissance, etc. – ou moins documentés, comme la contamination par bactéries et moisissures, lors des manutentions en centre de tri ou de compostage.
    Car les politiques publiques environnementales, aussi vertueuses et nécessaires soient-elles, ont laissé le travail dans un angle mort. Qui sait que les piles et batteries équipant nos objets du quotidien sont recyclées, à cause de leur dangerosité, dans des usines classées Seveso, où les équipes d’ouvriers se relaient en 3 x 8, y compris les jours fériés ? Il est temps pour l’économie circulaire de penser aux enjeux de santé au #travail. Des pistes se dessinent : intégrer l’ergonomie du recyclage dès la conception des produits. Ou faire coopérer les professionnels de l’ensemble d’une filière sur les conditions de travail. Et surtout valoriser enfin des métiers et des travailleurs essentiels à la préservation de l’environnement.

    https://basta.media/Recycler-trieur-de-dechets-sytcom-conditions-de-travail-Ecosystem-emplois-v

  • Comment le recyclage détruit l’environnement au Vietnam | Zoom Ecologie
    https://zoom-ecologie.net/?Comment-le-recyclage-detruit-l-environnement-au-Vietnam-Entretien-av

    Mikaëla Le Meur a publié « Le mythe du recyclage », un livre qui reprend ses observations de terrain dans le village de Minh Kai au Vietnam. Elle explique comment le commerce international de déchets « recyclables » y entraîne une délocalisation de la pollution. Les restes de la consommation européenne, états-unienne, japonaise ou australienne s’accumulent dans des espaces mal équipés pour les traiter, polluant l’environnement tout en produisant de nouveaux objets de médiocre qualité. Durée : 59 min. Source : Fréquence Paris Plurielle

    https://zoom-ecologie.net/IMG/mp3/zoom_ecolo_2022_24_02_recyclage_vietnam.mp3

  • Vers des #sables alternatifs issus de la déconstruction des bâtiments : le projet de recherche SAND

    Le sable est la 3e ressource consommée dans le monde. Il existe de forts enjeux à développer l’#économie_circulaire de cette ressource non renouvelable : c’est l’objet du #projet_de_recherche #SAND destiné à valoriser du sable issu de la #déconstruction des bâtiments et des #boues_de_bétons dans les mortiers, et à mettre en place une filière de recyclage.

    Le projet de recherche SAND, financé par l’#Ademe et coordonné par l’entreprise #PAREX / #SIKA, est mené en synergie avec #Clamens et le Cerema. Il a pour objectif de produire du sable issu du recyclage de #matériaux_du_bâtiment et des boues de bétons afin d’économiser la #matière_première.

    En effet, le sable est la 3e ressource la plus consommée au monde après l’air et l’eau et son extraction a un fort impact environnemental, et est devenue un enjeu stratégique car sa raréfaction est de plus en plus critique.

    Du #sable_recyclé pour du mortier à usage du bâtiment

    La #dépendance mondiale du sable induit une forte tension au niveau de l’#approvisionnement et une hausse de prix. L’usage d’un #sable_de_substitution pour le bâtiment qui en est le principal consommateur et la création d’une filière de recyclage des #déchets_locaux_inertes du #BTP, dans une démarche d’économie circulaire, répondraient à ces problématiques en développant des emplois locaux.

    Par ailleurs, un procédé de production de sables alternatifs sera mis au point. Ce procédé, économe en énergie, permettrait de produire un gisement homogène et ayant les propriétés requises pour être intégré dans des #mortiers colles ou des mortiers d’enduits.

    Le projet, qui bénéficie d’un financement du #Programme_d’investissement_d’avenir et s’étendra sur quatre ans, sera mené en trois grandes étapes pratiques :

    - Définir les propriétés des sables recyclés qui pourront être incorporés dans des mortiers colles ou des mortiers d’enduits. Différentes propriétés des sables vont être analysées afin de garantir un flux homogène malgré la diversité des sources.
    - Mettre en place des formules adaptées selon le taux d’incorporation des sables recyclés. Les formules seront caractérisées selon les normes en vigueur, notamment d’un point de vue durabilité.
    – Mettre en place un démonstrateur industriel qui pour produire un sable homogène avec un procédé éconologique (économiquement viable et dont l’impact environnemental serait réduit). L’objectif est de s’assurer de la viabilité technique du procédé et de sa reproductibilité pour permettre le développement d’une filière des mortiers recyclés destinés au bâtiment. Ce démonstrateur permettra à terme de traiter 100.000 tonnes de sable par an.

    L’expertise du Cerema en caractérisation des matériaux mobilisée

    L’équipe de recherche DIMA (Durabilité, Innovation et valorisation des Matériaux Alternatifs) du Cerema sera plus particulièrement impliqué dans deux volets qu’il pilotera : l’évaluation des scénarii logistiques et des voies de valorisation des sables, et l’évaluation des impacts environnementaux, économiques et sociétaux des mortiers fabriqués. Des essais en laboratoire seront menés par le Cerema d’Ile-de-France afin de valider les mélanges proposés par le partenaire industriel. Une attention particulière sera portée à la durabilité des mortiers mis en œuvre.

    Dans une seconde phase, les mortiers à base de sables recyclés seront testés avec la pose de carrelages et d’enduits à l’aide de ce mortier sur des bâtiments existants.

    L’objectif final est de permettre la diffusion et la mise en oeuvre du procédé partout où il eut être utile aux filières.

    https://www.cerema.fr/fr/actualites/sables-alternatifs-issus-deconstruction-batiments-projet
    #sable #construction #recyclage #alternative

    et un nouveau mot : #éconologie

    ping @albertocampiphoto

  • #architecture et mouvement Fab City
    https://metropolitiques.eu/Architecture-et-mouvement-Fab-City.html

    S’appuyant sur son expérience d’architecte et de coordinateur de projets sur l’économie circulaire, Minh Man Nguyen propose d’intégrer la démarche Fab City dans l’architecture en vue de développer un modèle de construction urbaine plus local. La production de la ville, l’aménagement rural, les modes constructifs peinent à être à la hauteur des efforts à fournir pour réduire le bilan carbone global. Si nous prenons peu à peu conscience des limites de notre planète, nous construisons nos bâtiments avec des #Essais

    / #architecte, architecture, #circuits_courts, #fablab, #ville_durable, #économie_circulaire

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-nguyen.pdf

  • Mine urbaine : le réemploi au fond du trou
    https://topophile.net/savoir/mine-urbaine-le-reemploi-au-fond-du-trou

    Le champ lexical de l’exploitation minière est l’un des topos de la littérature du réemploi et, plus largement, de l’économie circulaire. On y entend fréquemment parler de « mines urbaines ». L’origine du terme est attribuée au professeur Hideo Nanjyo de la Tohoku University de Tokyo qui l’utilisait dans les années 1980 pour désigner le stock de... Voir l’article

  • Plastic for recycling from Europe ends up in Asia’s waters
    https://www.europeanscientist.com/en/environment/plastic-for-recycling-from-europe-ends-up-in-asian-waters

    The researchers from the National University of Ireland Galway and the University of Limerick in Ireland used trade data and waste management data from destination countries to determine the various fates – from successful conversion into recycled resins or ending up as landfill, incineration, or ocean debris – of all plastic recycling exported from Europe.

    They discovered that a massive 46 per cent of European separated plastic waste is exported outside the country of origin. While China was previously the single biggest importer of plastics for recycling, the country closed its doors in 2017. Since then, Southeast Asian nations with poor waste management practices have shouldered the burden.

    According to the authors, a large share of this waste is rejected from recycling streams and significantly contributes to ocean littering. For 2017, they estimated that up to 180,000 tonnes – that is, around 7 per cent, of all exported European polyethene – may have ended up in the oceans.

    #déchets_plastiques #pollution #Asie_du_Sud-Est

    • Recycling of European plastic is a pathway for plastic debris in the ocean

      Polyethylene (#PE) is one of the most common types of plastic. Whilst an increasing share of post-consumer plastic waste from Europe is collected for recycling, 46% of separated PE waste is exported outside of the source country (including intra-EU trade). The fate of this exported European plastic is not well known. This study integrated data on PE waste flows in 2017 from UN Comtrade, an open repository providing detailed international trade data, with best available information on waste management in destination countries, to model the fate of PE exported for recycling from Europe (EU-28, Norway and Switzerland) into: recycled high-density PE (#HDPE) and low-density PE (#LDPE) resins, “landfill”, incineration and ocean debris. Data uncertainty was reflected in three scenarios representing high, low and average recovery efficiency factors in material recovery facilities and reprocessing facilities, and different ocean debris fate factors. The fates of exported PE were then linked back to the individual European countries of export. Our study estimated that 83,187 Mg (tonnes) (range: 32,115–180,558 Mg), or 3% (1–7%) of exported European PE in 2017 ended up in the ocean, indicating an important and hitherto undocumented pathway of plastic debris entering the oceans. The countries with the greatest percentage of exported PE ending up as recycled HDPE or LDPE were Luxembourg and Switzerland (90% recycled for all scenarios), whilst the country with the lowest share of exported PE being recycled was the United Kingdom (59–80%, average 69% recycled). The results showed strong, significant positive relationships between the percentage of PE exported out of Europe and the percentage of exports which potentially end up as ocean debris. Export countries may not be the ultimate countries of origin owing to complex intra-EU trade in PE waste. Although somewhat uncertain, these mass flows provide pertinent new evidence on the efficacy and risks of current plastic waste management practices pertinent to emerging regulations around trade in plastic waste, and to the development of a more circular economy.

      https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160412020318481?via%3Dihub

      #eau #plastique #ocean_littering #statistiques #chiffres #polyéthylène #recyclage #Luxembourg #Suisse #UK #Angleterre #économie_circulaire

      ping @albertocampiphoto @marty @daphne

  • La #désillusion d’une 3start-up de l’#économie_circulaire

    Annonce d’#arrêt_d’activité et bilan - #La_Boucle_Verte

    En ce début février 2020, nous avons fait le choix de cesser définitivement notre activité d’économie circulaire portant sur la collecte innovante d’emballages. Après plus de 3 ans, nous n’avons pas su rendre notre entreprise pérenne et surtout, nous avons perdu beaucoup d’intérêt pour notre projet.

    L’objet de cet article est de vous faire part des raisons de notre échec mais aussi de nos désillusions. Par ce retour d’expérience critique, nous souhaitons expliquer en quoi nous nous sommes trompés et éviter à de jeunes porteurs de projets de reproduire les mêmes erreurs que nous, tant sur le plan entrepreneurial qu’environnemental. Nous souhaitons également faire part au grand public des conclusions que nous avons tirées quant à la durabilité de notre modèle de société, notamment en ce qui concerne le recyclage et l’idée de croissance verte. Enfin, nous vous donnerons notre vision actualisée de ce que devrait être un avenir souhaitable et du changement de mentalité que cela implique pour y parvenir de bon cœur.
    1) La naissance du projet, son développement, sa mort

    L’aventure La Boucle Verte débute en Octobre 2016 à Toulouse. Tout juste diplômés d’une école de commerce, sensibilisés à l’entrepreneuriat et un peu rêveurs, nous voulions créer notre entreprise. Notre idée de départ pouvait se résumer ainsi :

    La croissance et la consommation sont les moteurs de notre économie. Cependant, les ressources de la planète sont limitées. « Et si on créait une entreprise capable de collecter tout objet, reste ou résidu pour le recycler, pour transformer tout déchet en une matière première qui a de la valeur. Une entreprise capable de réconcilier croissance économique et développement durable. »

    Ça y est, nous sommes gonflés à bloc, il nous reste maintenant à savoir par quel bout commencer. Un seul problème, nous n’avons ni argent, ni expérience, ni réseau, ni crédibilité. Il fallait commencer par quelque chose de très simple et cette bonne vieille canette métallique nous a séduit ! Soi-disant composée à 100% de métal et recyclable à l’infini, nous pensions pouvoir créer une logistique bien rodée afin de les collecter dans les fast-foods pour les revendre à des grossistes en métaux et qu’elles soient recyclées. Après avoir ruiné le coffre de la Seat Ibiza et s’être attiré les foudres des voisins pour avoir stocké les canettes dégoulinantes dans la cave de notre immeuble, il était temps d’apporter notre butin chez le ferrailleur grâce à la camionnette d’un ami. Une fois arrivés sur cette étrange planète boueuse et peuplée de centaines de carcasses de bagnoles, les canettes alu et acier préalablement triées sont pesées. Après s’être fait enregistrés, nous dégotons notre premier chèque. Et quel choc ! Il n’y avait pas d’erreur de zéro, nous avions bel et bien gagné 38€, même pas de quoi payer l’essence de ce mois de collecte et tout juste de quoi rentabiliser les sacs poubelles. A ce moment-là nous avons fait un grand pas dans notre compréhension du secteur du recyclage : la majorité des déchets ne valent pas le prix de l’effort qu’il faut faire pour les collecter, et, sans obligation réglementaire ou volonté de leur propriétaire de les trier, ces derniers n’ont aucune chance d’être recyclés.

    Pas question pour autant de baisser les bras, en tant que dignes start-upers very smart and very agile, nous devions simplement pivoter pour trouver notre business model et notre value proposition en disruptant le marché. OKAYYY !! Sinon en Français, il fallait trouver une nouvelle idée pour rentabiliser la collecte. Près de 5 mois s’écoulèrent pendant lesquels nous expérimentions tous types de solutions jusqu’à ce que le Can’ivor voie le jour : un collecteur de canettes mis gratuitement à disposition des fast-foods et qui sert de support publicitaire. Plus besoin de gagner des sous avec la vente des canettes, il suffisait de vendre de la pub sur le collecteur pour financer le service de collecte et dégager une marge. Une idée à première vue géniale que nous avons rapidement concrétisée en bricolant des bidons d’huile dans notre garage.

    Mais, après 6 mois de démarchage commercial à gogo, pas le moindre client pour nous acheter nos espaces publicitaires ! Sans doute n’étions-nous pas assez sexy pour les annonceurs, il fallait que ça ait plus de gueule et qu’on transforme l’image de la poubelle pour que le tri sélectif devienne un truc stylé et que la pub devienne responsable ! Notre ami Steve Jobs nous a enseigné que le design et le marketing étaient la clé pour pousser un nouveau produit sur un nouveau marché… Après avoir changé le look du Can’ivor, de logo, de slogan, de site internet, de plaquette commerciale, gagné quelques concours, chopé quelques articles, s’être payé les services de super graphistes, avoir créé toute une série de mots nouveaux, s’être familiarisés avec le jargon de la pub, avoir lancé la mode du « cool recycling », et réalisé une vidéo cumulant 3,3 millions de vues sur Facebook, nous commencions à peser dans le start-up game ! Et… les emplacements publicitaires se vendaient ! On parlait de nous dans les médias, nous passions sur BFM business, la success story voyait enfin le jour. Plus motivés que jamais, nous rêvions d’inonder la France avec nos collecteurs et faisions du repérage à Paris et Bordeaux…

    https://www.youtube.com/watch?v=n306emV4JSU&feature=emb_logo

    Le problème, c’est que nos clients étaient en réalité plus intéressés par le fait de nous filer un coup de pouce et de s’associer à notre image écolo que par notre service d’affichage en lui-même. Une fois le buzz terminé, les ventes s’essoufflèrent… Après s’être débattus pendant plus d’un an à tout repenser, il fallait se rendre à l’évidence, il n’y avait pas de marché pour notre service. Et nous avons pris en pleine poire la seule leçon importante qu’il fallait retenir en cours d’entrepreneuriat : se focaliser sur le besoin client. A vouloir absolument trouver un modèle économique pour collecter nos canettes, nous avons complètement oublié que pour vendre quelque chose il faut répondre au besoin propre à un individu ou une entreprise et qu’un besoin « sociétal » comme l’écologie ne suffit pas.

    Fin 2019, nous avons fait le choix de retirer l’intégralité de nos collecteurs munis d’emplacements publicitaires pour jouer notre dernière carte, celle du service de collecte payant. En l’espace de 3 ans, les mentalités avaient bien changé, nous étions reconnus à Toulouse et avions l’espoir que ce modèle plus simple fonctionne. Nous nous sommes alors mis à proposer des services de collecte multi déchets à tous types de clients en centre-ville. Malheureusement, après 4 mois d’essai, nous en sommes revenus à l’un de nos premiers constats qui était que la majorité des structures étaient prêtes à payer pour un service de collecte que si elles en étaient contraintes par un marché réglementaire. Après tant de tentatives, nous étions à bout de force, démotivés et à cours de trésorerie. Mais surtout, nous avions perdu foi en ce que nous faisions, nous ne nous retrouvions plus dans nos envies de départ. Même si nous sommes parvenus à collecter des centaines de milliers de canettes, nous étions principalement devenus des vendeurs de publicité. Et ces deux mondes sont tellement antinomiques, que nous avons perdu intérêt dans le projet. Et le pire (ou le mieux) dans tout ça, c’est que nous avons également perdu confiance dans le secteur tout entier du recyclage et dans cette idée de croissance « verte ». La Boucle Verte mourut.
    2) Les réalités de la filière emballages et du recyclage

    Lorsque nous nous sommes lancés dans le projet, notre premier réflexe a été de nous renseigner sur les emballages de notre quotidien pour en apprendre plus sur leur prix, leur recyclabilité, leur taux de recyclage et l’accessibilité des filières de valorisation. A l’issue de cela, la canette nous paraissait être un emballage idéal. De nombreux sites internet lui attribuaient le mérite d’être l’emballage le plus léger qui soit entièrement recyclable et à l’infini. On pouvait lire qu’une canette triée redonnait naissance à une canette neuve en 60 jours et que cet emballage était bien recyclé en France (60% d’entre elles). Persuadés de participer à une œuvre écologique et de pouvoir encore améliorer ce taux de recyclage, nous avons foncé tête baissée pour collecter nos canettes ! Mais, la suite de nos aventures et notre longue immersion dans les coulisses du secteur nous a montré une vérité tout autre. Nous ne parlerons pas de mensonges organisés, mais disons que bon nombre d’informations que l’on trouve sur internet sont très superficielles, enjolivées et se passent d’explications approfondies concernant le devenir des déchets. La manière dont sont rédigés ces documents nous laisse penser que la filière est très aboutie et s’inscrit dans une logique parfaite d’économie circulaire mais en réalité, les auteurs de ces documents semblent se complaire dans l’atteinte d’objectifs écologiques médiocres. Et pour cause, ces documents sont en majorité rédigés par les acteurs économiques du secteur ou les géants du soda eux-mêmes qui n’ont pour autre but que de défendre leurs intérêts en faisant la promotion des emballages. La filière boisson préfère vendre son soda dans des emballages jetables (c’est bien plus rentable), la filière canette promeut son emballage comme étant le meilleur et la filière en charge de la collecte ne peut gagner sa croûte que si des emballages sont mis sur le marché : principe de l’éco-contribution. Il est cependant un peu facile de leur dresser un procès quand nous sommes nous-mêmes consommateurs de ces boissons, mais il est grand temps de réformer ce modèle qui ne peut pas conduire à une réduction de la production d’emballages.

    Pour revenir aux fameux documents, on peut lire qu’en France, « 60% des canettes aluminium sont recyclées ». L’idée qui vient à l’esprit de toute personne lisant ceci, est que ces 60% proviennent de la collecte sélective, mais en réalité pas du tout. Seulement 20% des canettes sont captées par le tri sélectif à la source, le reste se retrouve avec le « tout venant » et est enfoui ou incinéré. Les 40% recyclés restant ne proviennent donc pas des centres de tri mais des résidus de combustion des incinérateurs (les mâchefers) qui contiennent également des dizaines d’éléments différents mélangés et carbonisés dont des métaux lourds. De cette part ci, 45% de l’aluminium (qui a grandement perdu en qualité) est extrait et parvient à rejoindre la filière classique (les fonderies) tandis que les 55% restants sont irrécupérables et utilisés avec les autres résidus dans le BTP comme sous couche pour les routes. Par ruissellement, les particules polluantes de ces déchets se retrouvent ainsi dans les nappes phréatiques…

    En bref, voici grossièrement ce qui devrait être écrit sur ces documents : « En France, 38% des canettes sont recyclées comme matière première secondaire, 22% sont valorisées en sous-couche routière, et 40% sont directement enfouies en décharge ». C’est tout de suite moins sexy.

    D’autre part, quiconque a déjà visité un centre de tri (ce pourrait être intéressant à l’école), est en mesure de comprendre qu’il est impossible de séparer parfaitement les milliers de modèles d’emballages différents, de toutes tailles, qui sont souvent des assemblages (carton + plastique), qui sont souillés et qui défilent à toute vitesse sur les tapis roulants. Et puis il y’a les erreurs de tri, qui sont en réalité la norme car même après avoir baigné 3 ans dans le milieu, nous-mêmes avons parfois des doutes pour certains emballages peu courants… C’est dingue, mais absolument personne ne sait faire le tri parfaitement et ce sont souvent les gens les plus soucieux de l’environnement qui ont tendance à trop en mettre dans leur bac ! Sur 5 camions qui arrivent au centre de tri, 2 repartent en direction de l’incinérateur : il y’a 40% d’erreurs ! Et cette infime part de nos déchets, qui parvient à sortir en vie des centres de tri devient alors une précieuse ressource comme le voudrait l’économie circulaire ! Mais non, même pas. Lorsque ces emballages ne trouvent pas de repreneurs (notamment quand les asiatiques ne veulent plus de nos déchets), certains matériaux comme le carton voient leur valeur devenir négative ! Oui, il faut payer pour s’en débarrasser… Et ce n’est pas fini, après la collecte et le tri, il faut passer au recyclage !

    Fin mai 2019, nous avons été invités par la filière aluminium à une réunion de travail et une visite du plus grand site de recyclage français de Constellium dans le Haut-Rhin. Alors que nous étions persuadés que nos bonnes vieilles canettes redonneraient un jour vie à de nouvelles canettes, nous avons eu la stupéfaction d’apprendre par les ingénieurs qui y travaillaient que les balles d’aluminium provenant des centres de tri français étaient inexploitables. Leur qualité était médiocre et il était par conséquent impossible de les utiliser comme matière première car la fabrication de canettes utilise des technologies très pointues et ne peut s’opérer qu’à partir de métaux d’une grande pureté… C’était le comble ! Depuis le début, aucune de nos canettes n’avait redonné vie à d’autres canettes. Quand on sait que les emballages métalliques sont considérés parmi les plus durables et facilement recyclables, on n’ose même pas imaginer le devenir de nos bouteilles plastiques et encore moins de tous ces nouveaux emballages qui font désormais partie de « l’extension de la consigne de tri ». Et même dans un monde idéal, très connecté et intelligent comme le voudraient certains, une canette ne pourrait être recyclable à 100% puisqu’elle n’est pas 100% métallique. En effet, sa paroi extérieure est recouverte de vernis et sa paroi intérieure est couverte d’une fine couche de plastique qui évite que le liquide ne soit en contact avec le métal. De plus, à chaque fois qu’un métal est fondu, une portion de celui-ci disparaît, on appelle cela « la perte au feu ». Quelque que soit donc la performance de notre système de collecte et de tri, il sera impossible de continuer d’en produire pour les siècles des siècles sans continuer d’extraire de la bauxite en Amérique Latine. Vous l’avez compris, le recyclage ce n’est pas la panacée ! Il devrait n’intervenir qu’en dernier recours et non pour récupérer la matière d’objets n’ayant servis que quelques minutes.

    La conclusion que nous avons tiré de cette histoire est que ce secteur, en très lente évolution, ne répondra pas aux enjeux de la crise écologique et qu’il promeut malgré lui la production d’objets peu durables et donc le gaspillage de ressources. Comme se plaisent à le répéter bon nombre d’associations « le meilleur déchet est celui qu’on ne produit pas » et dans un monde idéal, le seul déchet que nous devrions produire est celui d’origine naturelle, celui qui peut retourner à la terre n’importe où pour l’enrichir. La vision de La Boucle Verte était de créer des modèles d’économie circulaire qui fonctionnent comme la nature, mais quelle arrogance ! Lorsqu’une feuille tombe d’un arbre, elle ne part pas en camion au centre de tri. Et lorsqu’un animal meurt dans un bois, il n’est pas incinéré. La vraie économie circulaire, ce n’est pas celle qui tente d’imiter la nature, c’est celle qui tente d’en faire partie.
    3) L’illusion de la croissance verte

    Mais ne soyons pas trop durs avec le secteur du tri et du recyclage à qui l’on demande l’impossible. Nos problèmes sont bien plus profonds, ils émanent principalement de notre culture et sont accentués par un système économique globalisé et débridé. Avançant peu à peu dans ce monde de start-ups à la recherche de croissance rapide, nous avons fini par ouvrir les yeux sur plusieurs points.

    Tout d’abord sur l’innovation, innovation au sens du progrès technique et des nouvelles technologies. Cette formidable capacité humaine à innover a trouvé son lieu de prédilection en entreprise là où tout « jeune cadre dynamique » ne jure que par elle. Cette innovation permet de trouver des solutions aux problèmes que l’entreprise essaye de résoudre, tout en permettant de gagner un avantage compétitif. Globalement, ce que cette recherche constante d’innovation a apporté, c’est une complexification extrême de notre société, rendant au passage le travail de nos dirigeants infernal. Et dans un même temps, ces innovations technologiques successives ont eu un autre effet néfaste, nous pousser à consommer.

    Par exemple, internet était censé nous emmener vers une économie dématérialisée, nous pensions réduire drastiquement notre consommation de papier en nous orientant vers le numérique. Pourtant, entre 2000 et 2020, notre consommation de papier est restée quasiment la même et à côté de cela, l’ère du numérique a créé une infinité de nouveaux besoins et de nouvelles pratiques générant des consommations faramineuses d’énergie, la création de milliards de terminaux composés de métaux rares, et la fabrication d’infrastructures climatisées pour héberger des serveurs. Et bien qu’à première vue immatériel, envoyer un email émet autant de CO2 que de laisser une ampoule allumée pendant 1h… De plus, bon nombre d’innovations parfaitement inutiles voire nuisibles ont vu le jour. C’est le cas du Bit Coin dont la consommation électrique annuelle dépasse celle de la Suisse. Ces innovations participent de plus en plus à aggraver les inégalités et quand on sait qu’un avatar de jeu vidéo consomme plus d’électricité qu’un Ethiopien, il n’y pas de quoi se réjouir. Bien sûr, tout n’est pas à jeter à la poubelle (sans faire le tri) et nous sommes tous contents d’aller chez le médecin du 21ème siècle.

    Ces constats nous amènent tout droit à l’idée de croissance et plus particulièrement de croissance verte, en laquelle nous avions cru, et qui est actuellement plébiscitée par la majorité des pays qui voudraient que l’innovation technologique soit un remède aux problèmes écologiques (eux même engendrés par l’innovation technologique). Bon nombre d’entreprises et de start-ups s’attaquent alors aux grands défis à base de Green Tech, de Green Finance et de Green Energy… Le problème, c’est que la logique fondamentale reste inchangée : complexifier le système, corriger inlassablement les dégâts causés par les innovations précédentes et se trouver une excuse pour continuer de consommer autant qu’avant voire plus ! Pire encore, ces initiatives ont même un effet inverse délétère dans la mesure où elles ralentissent la transition en laissant penser aux gens qu’un avenir durable sans concessions et sans modification de nos comportements est possible grâce à l’innovation. Et cela nous l’avons vécu ! Au cours de notre aventure, nous avons été très surpris de constater à quel point une partie de la population pouvait avoir confiance en notre projet. Nous savions que notre impact environnemental positif n’était que limité à côté du désastre en cours, mais quelques personnes nous considéraient comme la génération de « sauveurs » ou alors déculpabilisaient d’acheter une canette, puisqu’après tout elle serait parfaitement recyclée.

    Et puis allez, soyons fous, gardons espoir dans la croissance. De la même manière que certains déclarent la guerre pour rétablir la paix, nous pourrions accélérer, croître encore plus vite pour passer un cap technologique et rétablir le climat ? Qu’en est-il vraiment ?

    A en croire les chiffres et les études de nombreux scientifiques, depuis 50 ans, la croissance du PIB a été parfaitement couplée à la consommation d’énergie (notamment fossile).

    Cela peut se comprendre de manière assez simple : plus nous produisons d’énergie, plus nos industries et nos machines tournent, plus nous produisons de nouveaux produits, plus nous croissons. Si l’on en croit ce couplage et cette logique simple, quoi que nous fassions, nous serons contraints pour continuer à croitre, de consommer toujours plus d’énergie !

    Faisons un petit calcul : Nous sommes en 2020 et nous partons du principe que nous consommons 100 unités d’énergie et que la consommation d’énergie continue d’être parfaitement couplée à la croissance du PIB. Si nous voulons 2% de croissance par an, quelle sera notre consommation d’énergie dans 50 ans ? Et dans 1000 ans ?

    Dans 50 ans : 100 x 1,02^50 = 269 unités

    Dans 1000 ans : 100 x 1,02^1000 = 39 826 465 165 unités

    Aussi incroyable que cela puisse paraitre, en 50 ans, on multiplierait notre consommation d’énergie par 2,69 et en 1000 ans par presque 400 millions ! Le problème de la croissance en math, c’est qu’elle suit une courbe exponentielle. Que nous fassions donc que 0,5% de croissance par an, que ce couplage finisse par se découpler un peu ou pas, que nous soyons 1 milliard sur terre ou 10 milliards, la croissance perpétuelle restera toujours insoutenable à long terme, alors pourquoi la continuer un an de plus ?

    Et là certains nous dirons : « C’est faux, on peut croitre sans consommer grâce à l’économie de la connaissance » ; « On peut produire de l’énergie qui ne pollue pas grâce aux énergie renouvelables ». Mais en fait non ! Nous sommes en 2020, et malgré une économie tertiarisée depuis longtemps, nous n’avons toujours pas perçu de découplage entre croissance du PIB et consommation d’énergie. Comme nous l’avons décrit à propos de l’ère du numérique, un service en apparence immatériel cache toujours une consommation d’une ressource matérielle. L’économie de la connaissance aura forcément besoin de supports physiques (ordinateurs, serveurs etc…) et nous serons toujours incapable de recycler tout parfaitement et sans pertes s’il ne s’agit pas de matière organique.

    Et pour ce qui est des énergies renouvelables, aucune à ce jour, n’est complètement satisfaisante sur le plan environnemental. Les éoliennes sont des monstres d’acier, sont composées de terres rares et produisent de l’énergies seulement quand il y’a du vent. Stocker l’énergie de ces épisodes venteux pour la restituer plus tard n’est pas viable à grande échelle ou pas performant (batteries au Lithium, barrages réversibles). Les panneaux photovoltaïques ont un mauvais bilan environnemental (faible recyclabilité et durée de vie). Il n’y a pas de région montagneuse partout sur la planète pour fabriquer des barrages hydroélectriques et ces derniers perturbent la faune aquatique et la circulation des sédiments… Cette incapacité à produire et stocker de l’énergie proprement rend donc notre fameuse voiture électrique aussi nuisible que la voiture thermique. Sa seule différence est qu’elle pollue de manière délocalisée : là où est produite l’électricité qui la fait rouler. Que cela soit clair, dans un monde limité où PIB et consommations de ressources sont liées, nous devrons décroître, de gré ou de force.

    Et même si cela était possible, et que nous devenions des humains augmentés, bourrés d’intelligence artificielle, capables de créer une sorte de nouvel écosystème technologique stable permettant d’assouvir notre besoin insatiable de croissance en colonisant d’autres planètes… Ne rigolez pas, pour certains ce n’est pas de la science-fiction ! Le milliardaire Elon Musk, véritable gourou des Startups, se penche déjà sur la question… Mais avons-nous vraiment envie de cela ?

    Alors après tout, est-ce que la croissance est indispensable ? Dans le modèle économique que nous avons créé, il semblerait… que oui ! (Sinon, le chômage augmente et on perd en qualité de vie). Et pourtant dans la vraie vie, quand une population est stable, il ne devrait pas y avoir besoin de voir ses revenus augmenter en permanence pour continuer de vivre de la même manière et que chacun ait sa place dans la société. En fait, il ne s’agit que d’un modèle économique, d’une convention humaine et en aucun cas de quelque chose d’immuable. Jusqu’à présent, on ne s’en plaignait pas parce qu’il y avait probablement plus d’avantages que d’inconvénients à croître, mais maintenant nous avons atteint les limites alors il faut changer de modèle, c’est aussi simple que ça ! Nous ne devrions pas pleurer comme un enfant qui apprend qu’il va déménager, le changement ça ne fait que du bien et quand on repense au passé on se dit parfois : comment ai-je pu accepter cela !?

    4) Une décroissance choisie et non subie

    Bon, on ne va non plus cracher sur l’ancien monde et revenir au Moyen Age. Cette croissance a permis des trucs plutôt cools il faut le dire : globalement il y’a plus d’obèses mais nous vivons en meilleure santé, il y’a moins d’esclaves et plus d’égalité homme femme, il y’a moins d’analphabètes et plus d’accès à la culture… Mais les faits sont là et comme le préconise le GIEC, nous devons en gros diviser par 3 notre consommation d’ici 2050. Du coup ça reviendrait à peu près au même que d’avoir le train de vie qu’avaient nos grands-parents quand ils étaient jeunes.

    Mais après tout, ne pourrait-on pas garder certaines bonnes choses et supprimer les moins bonnes. Et comment définir les bonnes et les moins bonnes ? Au lieu de faire notre sélection sur des critères économiques, on pourrait privilégier des axes assez simples comme l’intérêt pour la société et l’impact sur l’environnement.

    Alalala vous le sentez venir le débat infernal ! Déjà que les choses ne bougent pas vite mais alors là, avec un système où on doit débattre de tout ce qu’il faut garder et supprimer on n’est pas sortis de l’auberge ! Il y’aura toujours une bonne raison de justifier un produit polluant par sa dimension sociale ou culturelle et d’ici qu’on se soit mis d’accord, Français fous que nous sommes, il sera trop tard.

    A vrai dire, pour parvenir à nos objectifs dans la joie et la bonne humeur, tout se résume en quelques mots : il faut simplement changer de culture, changer d’idéal de vie, réaliser qu’acheter un nouvel Iphone ou des écouteurs sans fils n’est absolument pas nécessaire pour être heureux, se convaincre que la valeur d’une personne n’est pas définie par son salaire ou son job. En gros il faut tuer l’américain qui sommeille en nous et réveiller le poète. Et le mieux dans tout ça, c’est qu’on finit par y prendre gout. On se désintoxique de ce monde consumériste et on apprend à créer de nouveaux plaisirs, de nouvelles tendances ! La mode c’est vraiment quelque chose de rigolo, il suffit que des gens connus s’y mettent pour qu’on veuille tous s’y mettre comme des moutons. Si tous les chanteurs et joueurs de foot se trimbalaient avec des fringues de chez Emaus et des Nokia 3310, on vous garantit qu’on ferait cette transition écologique en moonwalk (mais en marche avant) ! D’accord, là on s’emballe un peu mais c’est pourtant bien la réalité. Une des seules craintes de l’être humain est de ne pas être accepté par la communauté. C’est encore difficile pour la majorité d’entre nous de s’imaginer vivre comme des « partisans de la décroissance » mais plus de gens s’y mettront, plus les autres suivront. Et pour ça, il suffit de changer de disque ! Certaines personnes arrivent à changer de religion, il y’a 400 ans, les rois portaient des perruques sur la tête et encore aujourd’hui sur cette planète, il y’a des tribus de gens avec des plumes plantées dans le derrière qui chassent à la sarbacane. Est-ce si absurde que ça de décroître ? Nous les Homos Sapiens (Hommes Sages parait-il) sommes très malins mais aussi très bêtes, parfois rationnel, parfois pas du tout. Nous sommes capables de nous empêtrer dans une situation pendant des siècles pour finalement en changer brusquement. Alors, dans cette dernière partie, on ne va pas vous bassiner avec des conseils éco-responsables bidons du type : « pensez à débrancher votre frigo quand vous partez en vacances pour économiser 10% d’énergie ». En fait, si la transition écologique doit se passer comme ça, elle va être chiante à mourir et en plus de ça on va échouer ! Alors oui, il faut drastiquement réduire notre consommation et aller acheter des carottes bio en vélo le samedi matin ne suffira pas. Il faut arrêter de prendre la voiture tous les jours, ne plus prendre l’avion et arrêter d’acheter des engins téléguidés au petit Mathéo pour son anniversaire. Mais honnêtement, est-ce vraiment grave !? La transition écologique ne doit pas être une punition mais une fête, elle doit être une volonté commune de changer de vie, un départ en vacances prolongé et bien mérité. Nous ne sommes pas des machines ! Il faut que la génération du « burn out » se transforme en génération du « go out ». Il faut qu’on arrête de bosser toute la semaine en ne pensant qu’au shopping qu’on va faire le weekend, il faut qu’on arrête de vouloir gagner la super cagnotte de 130 millions d’€ du vendredi 13, il faut qu’on arrête de s’entasser dans des métros tous les matins pour finalement avoir besoin de partir faire un break en Thaïlande pour déconnecter. Nous ne prenons même pas le temps d’apprécier la beauté de la nature au pied de notre porte alors pourquoi irions-nous faire un safari en Afrique ? Mais d’ailleurs, apprécions-nous réellement ces voyages quand nous passons les ¾ de notre temps derrière l’écran de notre appareil photo, que nous sommes regroupés avec d’autres occidentaux aussi inintéressants que nous et que nous continuons d’acheter du CocaCola à l’autre bout du monde ? Pour une fois, peut être que regarder un reportage animalier depuis notre canapé nous aurait fait plus rêver que de voir ces lions domestiqués se gratter contre la roue de notre 4x4 !

    Alors pour commencer, répartissons-nous sur le territoire, retournons vivre dans les villages au lieu de s’agglutiner en ville et redevenons des paysans, ce sera bien plus dépaysant ! Ces changements, ils sont déjà en train de se produire et tout va aller de plus en plus vite ! Il y’a 6 ans, pleins de potes de l’école rêvaient de devenir trader, parce que c’était un métier stylé où on gagne plein d’oseille. Mais aujourd’hui c’est devenu carrément la honte et les gens stylés sont des artisans, des artistes ou des agriculteurs. Et ça tombe bien parce que ce nouveau monde sera nécessairement un monde agricole. Pas avec des grosses moissonneuses batteuses, mais avec des milliers de petites mains qui travaillent la terre, qui produisent de la vraie nourriture, qui comprennent la nature, qui vivent de petites récoltes mieux valorisées et en circuits courts.

    Les entreprises aussi auront un rôle à jouer, mais en innovant pour simplifier la société et non pour la complexifier, en relocalisant les productions au plus près de consommateurs moins voraces, en préférant les produits durables à l’obsolescence programmée, en favorisant le réemploi plutôt que le recyclage, et en préférant les bonnes vieilles astuces de grand-mères aux artifices technologiques.

    Alors bien sûr, on se trouvera toujours des excuses pour passer à l’acte : « Je vais d’abord travailler dans le marketing à Paris histoire de mettre un peu d’argent de côté et que mes parents ne m’aient pas payé cette école pour rien », « Avec mon mari, on va attendre que la petite Lucie passe en CM2, il ne faudrait pas que ça la perturbe ». « Mais ! Comment vais-je trouver un travail à la campagne, je n’ai pas la formation qu’il faut ? ». Des excuses on s’en trouvera toujours et nous les premiers avons eu vraiment du mal à s’avouer vaincus et à lâcher La Boucle Verte. C’est difficile de construire quelque chose pendant longtemps, de dépenser beaucoup d’énergie pour finalement devoir repartir à zéro. Et pourtant c’est bel et bien ce que nous devons faire collectivement et dès maintenant. Bien que tragique, cette crise du Coronavirus est une chance inouïe, c’est une aubaine. Elle aura cassé notre lente routine destructrice, elle nous aura libéré de la consommation excessive, nous aura fait ralentir et vivre une récession. Alors saisissons cette chance et ne reprenons pas tout comme avant le 11 mai.

    Un grand merci à tous ceux qui nous ont soutenu et ont participé à l’aventure La Boucle Verte. Nous souhaitons beaucoup de succès à nos compères toulousains Les Alchimistes Occiterra et En boîte le plat qui de par leurs projets sont respectivement dans une logique de valorisation naturelle des biodéchets et de réduction des emballages à la source. Pour ce qui nous concerne, nous allons profiter de cette période pour prendre un peu de repos à la campagne. Et quand nous reviendrons, il est fort probable que ce soit à base de low tech ou d’agriculture. On essaiera de vous donner des nouvelles sur les réseaux sociaux La Boucle Verte et de vous partager des articles qui nous inspirent !

    Bonne santé et bon courage à tous pour affronter cette crise.

    L’équipe La Boucle Verte

    https://www.linkedin.com/pulse/la-d%C3%A9sillusion-dune-start-up-de-l%C3%A9conomie-circulaire-charles-dau
    #économie #croissance_verte #emballages #recyclage #entrepreneuriat #start-up_nation #développement_durable #croissance_économique #canettes #aluminium #alu #ferrailleur #déchets #publicité #marketing #cool_recycling #buzz #besoin #écologie #tri #Constellium #perte_au_feu

  • #Visibilité et #invisibilité de la #pollution des #sols dans les territoires (post)industriels : de nouvelles perspectives sur la #résilience et la #justice_environnementale ?

    « Make the valley green again » : la gestion des #sols_pollués au cœur de la #réhabilitation de la basse vallée de #Swansea (#Pays_de_Galles) [Texte intégral]
    « Make the valley green again » : soil pollution management in the reclamation process of the lower Swansea Valley (Wales)
    Cécile Ferrieux et Robin Le Noan

    –----
    Regard géo-historique sur la difficile transformation des #friches_industrielles de la vallée de la #Fensch : l’exemple de la #reconversion en cours du site de l’#usine_sidérurgique intégrée #SMK (1897-2018) [Texte intégral]
    A geohistorical look at the difficult transformation of industrial wastelands in the Fensch Valley : the example of the ongoing conversion of the SMK integrated steel plant (1897-2018)
    Eric Marochini

    #sidérurgie

    –---

    Du trouble privé au problème public ou… l’inverse ? #Mobilisation locale autour d’un #site_industriel pollué [Texte intégral]
    From private concerns to a public issue or… is it the reverse ?
    Maurice Olive

    –-----
    Controverse autour des #stériles_uranifères : de la mise à l’agenda d’un problème public à la remise en cause de l’#expertise [Texte intégral]
    Etude comparative de deux anciens sites miniers : #La_Commanderie (#Vendée/#Deux-Sèvres) et #Pen_Ar_Ran (#Loire-Atlantique)
    Controversy around uranium waste : from putting a public problem on the agenda to challenging expertise. Comparative study of two former uranium mines : La Commanderie (Vendée/Deux-Sèvres) and Pen ar Ran (Loire-Atlantique)
    Saliha Hadna

    #mines

    –-------
    Le laboratoire cévenol de l’après-mine. Une coextensivité des causes et des responsabilités minières, environnementales et sanitaires [Texte intégral]
    The Cevennes laboratory of the post-mine. A coextensivity of mining, environmental and sanitary causes and responsibilities
    Béatrice Mésini

    –--------

    L’#économie_circulaire : cercle vertueux ou cercle vicieux ? Le cas de l’utilisation de terres maraîchères pour aménager des espaces verts urbains [Texte intégral]
    The circular economy : vicious or virtuous circle ? The case of vegetable gardens used to develop green spaces
    Clément Gitton, Yoann Verger, Florence Brondeau, Ronald Charvet, François Nold, Philippe Branchu, Francis Douay, Isabelle Lamy, Christian Mougin, Caroline Petit et Elisabeth Rémy

    –-----

    La strate du sol d’une mégapole : observations localisées sur l’Anthropocène [Texte intégral]
    Les couches issues des périodes préindustrielle et industrielle à #Paris
    A megacity soil’s layer : localised observations about the AnthropoceneThe strata from preindustrial and industrial eras in Paris
    Mathieu Fernandez

    https://journals.openedition.org/geocarrefour/11289
    #revue #in/visibilité #sols

  • Vu de l’étranger. La #France bientôt pionnière en matière d’#économie_circulaire ?

    Le projet de #loi sur l’économie circulaire et la lutte contre le #gaspillage est étudié par les sénateurs depuis le 24 septembre et jusqu’au 26. Si celle-ci entre en vigueur, la France deviendrait un précurseur dans ce domaine, redorant au passage la politique écologique du gouvernement.

    https://www.courrierinternational.com/revue-de-presse/vu-de-letranger-la-france-bientot-pionniere-en-matiere-decono

    #écologie

  • #Économie_circulaire : le Sénat s’interroge sur le poids des #lobbys dans la mise en place de la #consigne | Public Senat
    https://www.publicsenat.fr/article/parlementaire/economie-circulaire-le-senat-s-interroge-sur-le-poids-des-lobbys-dans-la

    Auditionnée la semaine dernière en commission du développement durable et de l’aménagement du territoire, Brune Poirson avait déjà pu prendre connaissance des nombreuses critiques formulées par les sénateurs à l’encontre de son projet de loi contre le #gaspillage et relatif à l’économie circulaire (voir notre article)

    Ce mercredi, Hervé Maurey, président centriste de la commission de l’aménagement du territoire et Marta de Cidrac, rapporteure LR du texte, sont restés dans cette veine. « Le volet environnemental laisse à désirer. On est en deçà de ce que nous sommes en mesure d’attendre de ce qui nous a été présenté comme un grand texte de l’acte II du quinquennat. Donc beaucoup de déception de notre part, c’est la raison pour laquelle nous avons souhaité enrichir le texte » résume Marta de Cidrac à la sortie de la présentation des travaux de la commission.

  • La loi antigaspillage au bon vouloir des gaspilleurs
    https://www.mediapart.fr/journal/france/100719/la-loi-antigaspillage-au-bon-vouloir-des-gaspilleurs

    Élargir le principe pollueur-payeur à de nouveaux produits, généraliser des bonus-malus, réintroduire la consigne : le projet de loi gouvernemental présenté le 10 juillet en conseil des ministres veut développer l’économie circulaire. Mais le marché du recyclage des déchets génère des inégalités et des pollutions ignorées par ce texte.

    #ECOLOGIE #Economie_circulaire,_Pollutions,_Justice_environnementale,_Déchets,_plastique

  • Antoine Costa, Protéger et détruire, 2019
    https://sniadecki.wordpress.com/2019/04/24/costa-iter

    Depuis le XIXe siècle et les principes de la thermodynamique, on sait que le mouvement perpétuel, c’est-à-dire l’idée d’une machine qui ne consommerait pas d’énergie, ne peut physiquement pas exister. C’est l’entropie : une partie de l’énergie produite se dégrade nécessairement. L’idée de la fusion thermonucléaire, qui n’est autre qu’un fantasme du mouvement perpétuel atomique, se résume à ceci : on pourrait avoir « tout pour rien » [3]. On pourrait produire de l’énergie sans carburant et sans déchets. Le beurre et l’argent du beurre, l’omelette sans casser les œufs. Problème : si on connaît le fonctionnement théorique de la fusion depuis longtemps, aucune infrastructure ne permet de reproduire ce phénomène physique dans la pratique.

    Le mouvement perpétuel est à la physique ce que la pierre philosophale est à la chimie. De la même façon qu’il est impossible de changer le plomb en or, il est impossible de créer un moteur perpétuel.

    […]

    On peut renvoyer à la conclusion de Pierre Musso dans son livre La religion industrielle, selon laquelle nous vivrions à une époque à la croisée des chemins, la rencontre entre deux idéologies : le management, ou rationalisation en français (l’administration des choses et des hommes) et la cybernétique (le pilotage centralisé du monde via le réseau). Notre époque est donc celle du cyber-management, et ce pilotage techno scientifique du monde répond précisément à la mode du moment : l’écologie. « S’appuyant sur le principe de l’économie circulaire, l’écologie industrielle a pour objectif de quantifier les flux de ressources (d’eau, d’énergie, de matière) dans le but d’optimiser leur utilisation » poursuit très justement le texte.

    Pour comprendre le lien entre écologie et économie et cette obsession de la rationalité et de l’optimisation il faut remonter aux chocs pétroliers de 1973 et 1979 et là façon dont ils eurent un effet d’électrochoc sur les sociétés occidentales. En effet, plus qu’une question de pénurie (nous n’avons jamais manqué de pétrole lors des chocs pétroliers) ces événements mirent en lumière la dépendance de l’Occident à une ressource sur laquelle il n’avait que peu de prise. Quand en 1911 Churchill, alors Lord de l’Amirauté fait passer la Royal Navy du charbon (anglais) au pétrole (Perse), c’est-à-dire fait passer la puissance militaire navale de l’Angleterre sur une ressource parcourant des milliers de kilomètres, il le fait (entre autre) pour contourner le pouvoir des mineurs et des syndicats [7]. C’est donc une réflexion politique et non scientifique qui détermine un choix énergétique. Les chocs pétroliers vont consister en une logique semblable même si le mouvement est inverse : rapatrier les sources d’énergies sur le territoire national et ne plus les laisser dépendre de gouvernements étrangers.

    #nucléaire #anti-nucléaire #histoire #critique_techno #énergie #flux #économie_circulaire #écologie #Antoine_Costa

  • Vinted, quand l’économie circulaire ne tourne pas rond, par Audrey Fisné (korii)
    https://korii.slate.fr/biz/consommation-vinted-vetements-recyclage-ecologie-economie-circulaire-fas

    Présentée comme un moyen de vider son armoire en donnant une seconde vie aux vêtements, la friperie en ligne encourage surtout à acheter toujours plus.

    #critique #recyclage #consommation #greenwashing #vêtements #mode #effet_rebond

    (ici depuis quelques semaines on tourne à fond avec Vinted, il faut avouer)

    • http://www.theses.fr/s171925

      La consommation collaborative est souvent présentée comme la nouvelle économie du partage et prône l’usage vs la propriété. Il semble pourtant que certaines pratiques collaboratives soient sources d’hyperconsommation et encouragent au contraire le consumérisme. Dans le cadre de la présente recherche doctorale, nous cherchons à identifier et comprendre les modalités de la montée en compétences marchandes des consommateurs. Nous étudions ce processus à travers les dispositifs sociotechniques dans le contexte de la consommation collaborative. Nos résultats révèlent que certaines pratiques collaboratives permettent l’expression de l’Homme-entrepreneur et alimentent la logique néolibérale plutôt que de la remettre en question. Ils montrent également que les dispositifs sociotechniques sont omniprésents et capables de former en masse des consommateurs, les amenant à se conduire tels des conso-marchands au sein d’une hétérotopie « consumériste ». Notre travail souligne en outre que les conso-marchandes étudiées, dans la pratique du vide-dressing, développent certes leur entrepreneurialité mais veulent néanmoins préserv er un espace entre le jeu et le sérieux pour continuer à « jouer à la marchande ».

      #entreprenariat #économie_collaborative #économie_circulaire #vinted #friperie #vide-greniers #vide-dressing

  • « La “#croissance_verte” est une mystification absolue »
    https://reporterre.net/La-croissance-verte-est-une-mystification-absolue

    L’#économie_circulaire a le vent en poupe. Qu’en pensez-vous ?

    L’économie circulaire me rappelle furieusement le développement durable. Comme lui, ça va faire « pschitt ! ». L’économie circulaire est un concept très vague, tellement vague que tout le monde s’y retrouve, à la fois les citoyens, les associations, les industriels, les multinationales, les politiques, etc. C’est pour cela que l’économie circulaire est à la mode : il n’y a pas de définition stabilisée, chacun y met ce qu’il y veut et on peut même y « recycler » quelques bon vieux concepts : écologie industrielle, économie de la fonctionnalité, économie du partage...

    Selon la définition de l’Ademe (Agence de l’environnement et de la maîtrise de l’énergie), l’économie circulaire est un système économique qui vise à augmenter l’efficacité de l’utilisation des ressources à tous les stades du cycle de vie des produits. Il s’agit de « faire plus avec moins ». C’est beau, mais utopique, car on ne sait pas découpler de manière absolue croissance du PIB et décroissance de la consommation matérielle et pollution.

    • Et aussi :

      Si la fuite en avant énergético-minière se poursuit, quelles pourraient en être les conséquences géopolitiques et socio-politiques ?

      Il faut regarder les choses en face, la situation va s’aggraver. Nos dirigeants font semblant d’appuyer sur le frein avec un discours lénifiant sur le #développement_durable, alors qu’ils appuient à fond sur l’accélérateur ! Il n’y a qu’à voir les appels à l’innovation, les subventions accordées, tous les projets qui sortent concernant les #nanotechnologies, la biologie de synthèse, le numérique, les #objets_connectés, la robotique, etc. Tout le monde s’émerveille face à ces nouveautés, mais la voie que nous poursuivons est en réalité mortifère, tant du point de vue de la #consommation_de_ressources et d’#énergie que de la génération de #déchets électroniques ingérables.