• MADE IN ITALY PER REPRIMERE IN EGITTO: Rapporto annuale sulle esportazioni di armi italiane all’Egitto nel 2022

    Sistemi di difesa prodotti in Italia vengono esportati in Egitto ogni anno, dove vengono utilizzati dalle forze armate e di sicurezza egiziane, che operano in un clima di impunità in cui non sono in vigore meccanismi di tutela adeguati, e il principio di proporzionalità nell’uso della forza viene sistematicamente derogato.

    Il rapporto «Made in Italy per Reprimere in Egitto: il Ruolo delle Armi Piccole e Leggere italiane delle Violazioni dei Diritti Umani in Egitto» traccia la fornitura di #SALW dall’Italia all’Egitto tra il 2013 e il 2021, evidenziando il nesso tra commerci d’arma e deterioramento dei diritti umani a partire dalla documentazione dell’uso delle SALW prodotte in Italia nelle gravi violazioni dei diritti umani ed atti di repressione interna compiuti da attori statali egiziani.

    Il rapporto «Made in Italy per Reprimere in Egitto: Rapporto Annuale sull’Export di Armi italiane all’Egitto nel 2022» inizia una serie di analisi annuali delle esportazioni di sistemi d’arma italiani all’Egitto. Monitorare l’andamento delle esportazioni di armi significa vigilare sull’osservanza dello Stato italiano dei propri obblighi derivanti dalla normativa su diritti umani e vendita di armi, per richiamarlo alle proprie responsabilità per la complicità nella crisi dei diritti umani in Egitto.

    Il Rapporto 2022 fa luce sul notevole aumento del valore delle esportazioni di materiale bellico all’Egitto, pressoché raddoppiato rispetto all’anno precedente. Il materiale autorizzato all’esportazione nel 2022 include un ampio numero di pezzi di ricambio, ma anche TNT, un componente chiave usato nella produzione di mine antiuomo, nonostante l’Italia sia parte del Trattato di Ottawa.

    https://www.egyptwide.org/publication/made-in-italy-to-suppress-in-egypt-2
    #Egypte #Italie #armes #commerce_d'armes #armement #exportation #rapport #2022 #EgyptWide

    • “Made in Italy per reprimere in Egitto”. Così l’Italia continua vendere armi al regime

      Nel 2022 il nostro Paese ha autorizzato l’esportazione di armi a Il Cairo per 72 milioni di euro. Con 11 licenze sulle 16 concesse Leonardo ha il peso maggiore ma nell’elenco figurano anche #Beretta e #Rheinmetall_Italia. I ricercatori di EgyptWide lanciano l’allarme sull’uso delle armi “leggere” per la repressione del dissenso

      Nonostante le frequenti denunce sulla violazione dei diritti umani in Egitto, l’Italia continua a vendere armi al regime di Abdel Fattah al-Sisi. Nel 2022, ultimo anno per cui sono disponibili dati aggiornati, il valore delle armi autorizzate per l’esportazione verso Il Cairo hanno raggiunto un valore pari a 72,7 milioni di euro. Una cifra che si va a sommare ai circa 262 milioni di euro di strumentazioni belliche che sono state consegnate al Paese Nordafricano dopo essere state vendute negli anni precedenti.

      È quanto emerge dal report “Made in Italy per reprimere in Egitto” curato dai ricercatori di EgyptWide, iniziativa italo-egiziana per i diritti umani e le libertà civili, basato sui dati contenuti nell’ultima Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, pubblicata con grande ritardo solo a metà luglio 2023 dalla presidenza del Consiglio dei ministri.

      Nel corso del 2022 sono state rilasciate 16 licenze per l’esportazione di armi verso l’Egitto: nonostante il valore totale aggregato risulti visibilmente diminuito rispetto ai picchi del 2019 e del 2020 (anni in cui sono stati toccati rispettivamente gli 871 e i 991 milioni di euro) il dato per il 2022 mostra un raddoppio rispetto all’anno precedente. Occorre però precisare che i picchi toccati nel 2019 e nel 2020 sono stati trainati principalmente da due importanti commesse per la fornitura di 32 elicotteri prodotti da #Leonardo Spa e di due fregate #Fremm costruite da #Fincantieri.

      Nel 2022 l’Egitto sale al sedicesimo posto tra gli importatori di armi ed equipaggiamento bellico di produzione italiana (guadagnando due posizioni rispetto all’anno precedente). Tra i produttori che hanno ottenuto nuove le licenze per l’export figurano Leonardo (primo esportatore in Egitto con 11 licenze), Fabbrica d’armi Beretta e Rheinmetall Italia.

      Il report curato da EgyptWide evidenzia poi il caso di #Simmel_Difesa (azienda specializzata nella produzione di munizioni di grosso calibro) che ha ottenuto il via libera all’export verso Il Cairo dell’esplosivo denominato “#Composto_B”. “È un componente primario di proiettili di artiglieria, razzi, bombe a mano, mine terrestri e altre munizioni -si legge nel rapporto-. Nonostante l’Italia abbia aderito alla Convenzione di Ottawa, nel 2022 ha comunque esportato in Egitto una quantità non chiara di Tnt, che è l’esplosivo più comunemente usato nelle mine anticarro e antiuomo”.

      I ricercatori non sono in grado di affermare con certezza la quantità di esplosivo autorizzata ma si tratta comunque di un elemento preoccupante “alla luce del fatto che la fame di esplosivi utilizzati in operazioni militari offensive da parte dell’Egitto appare ingiustificata, dato che il Paese non è attualmente in guerra, ma solleva anche notevoli preoccupazioni per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro lungo le catene di approvvigionamento”.

      Questi dati si inseriscono poi all’interno di uno scenario particolarmente allarmante, ovvero l’utilizzo di armi piccole e leggere (#Small_arms_and_light_weapons, Salw) da parte delle forze di sicurezza egiziane in operazioni che hanno portato alla violazione dei diritti umani nel Paese e che EgyptWide ha documentato in un precedente report pubblicato a maggio 2023. Nel rapporto si evidenzia come tra il 2013 e il 2021 (ultimo anno per cui erano disponibili dati aggiornati) il nostro Paese abbia venduto a Il Cairo armi leggere per un valore compreso tra i 18,9 e i 19,2 milioni di euro. L’elenco comprende oltre 30mila revolver e pistole, più di 3.600 fucili e oltre 470 fucili d’assalto a cui si aggiunge un numero non precisato di carabine, mitragliatrici, munizioni, parti di ricambio e attrezzature per la direzione del tiro, tecnologie militari e software.

      “I modelli italiani di armi piccole e leggere #Beretta_70/90, #Benelli_SuperNova_Tactical e #Beretta_92FS sono stati utilizzati da militari e forze di sicurezza egiziane per intimidire e disperdere civili nell’ambito di operazioni di sicurezza urbana; fucili Beretta 70/90 sono stati impiegati dalle forze speciali ad #Al-Nahda e #Rabaa_Al-Adawiya, durante il massacro del 2013 in cui hanno perso la vita quasi mille civili”, si legge nel rapporto.

      La vendita di queste armi è avvenuta nonostante le conclusioni del Consiglio d’Europa dell’agosto 2013 con le quali i Paesi dell’Unione avevano concordato una sospensione delle forniture militari verso l’Egitto alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani. A seguito della destituzione del governo di Mohamed Morsi, infatti, la presa del potere da parte di al-Sisi quell’anno ha segnato l’inizio di una stagione di terrore e di progressivo deterioramento dei diritti nel Paese. Basti ricordare il massacro di Rabaa dell’agosto 2013 in cui hanno perso la vita quasi settecento manifestanti, il rapimento e l’uccisione del ricercatore Giulio Regeni, il conflitto a bassa intensità che dal 2014 interessa la penisola del Sinai e che ha gravi ripercussioni sulla popolazione civile. Per non parlare delle molte leggi che reprimono il dissenso da parte dei media e delle Ong indipendenti, fino a quella antiterrorismo che autorizza indirettamente esecuzioni extragiudiziali e garantisce ampia impunità agli agenti delle varie forze di polizia e dell’esercito.

      Eppure, nonostante la gravità di questa situazione l’export di piccole armi “made in Italy” non si è mai fermato. Dal 2013 al 2014 il valore totale delle esportazioni dall’Italia all’Egitto è quasi raddoppiato, passando da 17,2 a 31,7 milioni di euro; nel 2015 aveva raggiunto i 37,6 milioni di euro. A seguito dell’omicidio Regeni, avvenuto nel 2016, si registra una contrazione, ma già nel 2018 il valore autorizzato all’export per le piccole armi aveva toccato quota 69 milioni di euro.

      Ma in quali mani sono finite queste pistole e questi fucili? EgypWide “ha riscontrato le prove di un consistente abuso” a partire dal 2013, “tra cui anche le prove dell’uso di armi italiane in violazione dei diritti umani commesse da attori statali”. Sono diversi i casi ricostruiti dai ricercatori indipendenti, a partire dall’uccisione di un gruppo di sospetti disarmati nel Nord del Sinai a febbraio 2018: la fonte è un video pubblicato su YouTube dall’esercito egiziano in cui si mostra l’uccisione di un gruppo di presunti terroristi. “Nel video si vede un piccolo distaccamento dell’esercito egiziano che apre il fuoco con fucili Beretta”, scrivono i ricercatori.

      Armi italiane sarebbero state usate anche nella repressione di proteste di piazza, a partire da quelle di al-Nahda e Rabaa avvenute a Il Cairo il 14 agosto 2013: “Un video pubblicato dal quotidiano online el-Badil mostra le forze di polizia egiziane equipaggiate con fucili Beretta 70/90 mentre aggrediscono un manifestante disarmato”. Ulteriori prove fotografiche -immagini scattate dall’agenzia Getty Immages- mostrano poliziotti armati di fucili Benelli M3T.

      “Il gravissimo stato dei diritti umani in Egitto implica che il Paese dovrebbe essere annoverato tra quelli in cui esiste un rischio significativo che gli armamenti di importazione vengano utilizzati per commettere gravi violazioni dei diritti umani -concludono gli autori del report-. L’analisi del materiale audiovisivo presentata in questo rapporto mostra armi piccole e leggere fabbricate in Italia e impiegate nella repressione interna, in atti che includono l’uso eccessivo della forza contro manifestanti, nonché l’impiego su larga scala in processi più ampi di securitizzazione e militarizzazione dello spazio pubblico, che finiscono per limitare le libertà di movimento e di riunione pacifica”.

      https://altreconomia.it/made-in-italy-per-reprimere-in-egitto-cosi-litalia-continua-vendere-arm
      #droits_humains #répression

  • Les #expulsions ont des conséquences délétères sur la vie des #enfants

    L’Observatoire des expulsions des lieux de vie informels dénonce, dans son rapport annuel, des opérations qui compromettent la #scolarité des enfants et le #suivi_médical des #femmes_enceintes, à cause de l’#errance forcée qu’elles provoquent.

    Des femmes enceintes qui ne peuvent pas bénéficier d’un suivi médical continu, des enfants brutalement retirés de l’école, des mineur·es isolé·es démuni·es et traumatisé·es : les conséquences des expulsions des personnes occupant des lieux de vie informels sont multiples et délétères.

    C’est la conclusion du cinquième rapport annuel de l’Observatoire des expulsions de lieux de vie informels (#squats, #bidonvilles et #campements, #caravanes, #voitures ou camions) publié mardi 28 novembre. Il regroupe huit associations indépendantes, parmi lesquelles le Collectif national droits de l’homme Romeurope, la Fondation Abbé Pierre ou encore Médecins du monde.

    Elles ont recensé, entre le 1er novembre 2022 et le 31 octobre 2023, date du début de la trêve hivernale, 1 111 expulsions sur le territoire national, dont 729 pour le littoral nord (Calais, Pas-de-Calais, Dunkerque dans le Nord).

    Si les expulsions sur le littoral nord ont diminué de 58 %, elles ont augmenté de 24 % en un an sur le reste du territoire, outremer inclus, et concerné en moyenne 74 personnes chaque jour.

    85 % de ces expulsions sont dites « sèches », car elles n’ont donné lieu à aucune solution d’hébergement ou de relogement. 14 % ont donné lieu à des mises à l’abri pour au moins une partie des habitant·es. 1 % seulement ont donné lieu à un dispositif d’insertion, un hébergement stable ou un logement, pour au moins une partie des habitant·es, détaille l’Observatoire.

    L’organisme explique qu’il est difficile d’avoir des données précises sur les enfants mais compte cette année 5 531 enfants expulsés (contre 3 212 l’année précédente). Ce chiffre est très largement sous-estimé, a-t-il précisé lors de la conférence de presse de présentation du rapport.
    Le suivi compromis des grossesses

    Cette année, l’Observatoire s’est focalisé sur les conséquences concrètes des expulsions sur la vie des enfants et de leurs mères. Il rappelle que « la précarité, et en particulier l’absence de logement, est depuis longtemps identifiée par la littérature scientifique comme un facteur de risque lors de la grossesse ».

    Les chiffres sont éloquents. Une femme enceinte devrait avoir accès à sept consultations prénatales et à trois échographies au moins, rappelle Médecins du monde.

    Or, plus d’une femme enceinte sur trois rencontrées par les équipes des programmes fixes de Médecins du monde en France en 2022 présente un retard de suivi de grossesse, comme la quasi-totalité des femmes enceintes rencontrées par le programme de médiation en santé du Comité pour la santé des exilés (Comede) en Île-de-France. Un écart majeur avec la population générale, parmi laquelle moins de 5 % des personnes enceintes sont dans ce cas.

    Les associations soulignent que les suivis médicaux et de grossesse sont déjà erratiques d’ordinaire. Notamment parce que l’ouverture de droits à une couverture maladie exige une domiciliation administrative. Les démarches, surtout avec la barrière de la langue, peuvent être délicates. Certaines personnes peuvent aussi perdre des papiers dans la cohue des expulsions impromptues.

    Ces dernières insécurisent aussi les futures mères, qui cherchent « en premier lieu à répondre à des besoins de stricte survie », quitte à sacrifier leur santé.

    « Il y a des personnes qu’on va perdre de vue à la suite des expulsions. Elles vont se réinstaller beaucoup plus loin, dans une autre commune, à l’autre bout d’une métropole, a détaillé Antoine Bazin, coordinateur Médecins du monde à Toulouse, devant la presse. Et les suivis par les PMI [centres de Protection maternelle et infantile – ndlr] de secteur, par exemple, pour les femmes enceintes, les suivis par des médecins traitants si on peut en avoir, ou par des centres de santé, vont être rendus plus compliqués parce que les personnes vont être isolées. »

    Les expulsions compliquent aussi le suivi de pathologies. Dans son rapport, l’Observatoire rapporte comment une opération de dépistage de la tuberculose dans un bidonville du Val-d’Oise, au printemps 2023, après la découverte d’un cas sur le lieu de vie et quatre hospitalisations d’enfants, a été compromise par des expulsions successives.

    Même chose pour les campagnes de vaccination ou le repérage des cas de saturnisme, dus à une exposition au plomb pouvant affecter le développement psychomoteur des enfants.

    Par ailleurs, la vie quotidienne d’un enfant vivant dans un lieu de vie informel est aussi bouleversée par l’instabilité provoquée par les expulsions. La scolarité de ces enfants mais aussi leur équilibre mental et psychique sont ébranlés. En 2022, l’Unicef avait déjà alerté sur l’état de santé mentale dégradé des enfants sans domicile.

    Les expulsions sont de plus en plus violentes (voir l’opération « Wuambushu » à Mayotte), dénonce l’Observatoire. Antoine Bazin, de Médecins du monde, explique que les enfants sont les « acteurs passifs » de ces événements et vont vivre la violence intrinsèque au déroulement des opérations d’expulsions. En « vraies éponges », ils vont en conserver des souvenirs qui peuvent avoir des conséquences sur leur construction psychique.

    Julie Bremont, représentante du Comité de pilotage interassociatif MNA Nord-Littoral, confirme : « Les expulsions sont en elles-mêmes un moment très générateur d’anxiété et de peur pour les jeunes. Déjà, de par la violence du dispositif, avec des dizaines de camions de CRS et des policiers en uniforme. Ces opérations d’expulsion sont très souvent accompagnées de violences verbales et physiques. »
    Décrochages scolaires

    De son côté, Célia Mougel, coordinatrice de l’Observatoire des expulsions, souligne que 77 % des expulsions recensées (en dehors du Nord littoral) ont eu lieu pendant l’année scolaire, ce qui, évidemment, produit des décrochages, des déscolarisations, notamment quand on sait que pour réinscrire un enfant, il faut au moins six mois. Si les municipalités coopèrent, ce qui n’est pas toujours le cas.

    Contraindre ces familles à quitter leur lieu de vie et leur point d’ancrage entraîne des effets à long terme sur les enfants. Ils rencontrent alors des difficultés dans la continuité pédagogique, un sentiment d’exclusion ou encore des problèmes d’apprentissage.

    Le cas d’un collégien, Alex, raconté dans le rapport, le prouve. Le garçon aura vécu trois expulsions qui lui auront fait perdre une année scolaire entière. Aujourd’hui, à 12 ans, Alex et sa famille dorment sous un pont en Seine-Saint-Denis et il n’est plus scolarisé.

    Pour toutes ces raisons, l’Observatoire enjoint aux pouvoirs publics de suspendre les expulsions pendant l’année scolaire, pour éviter l’exclusion scolaire et le décrochage des enfants en cours d’année. Manuel Domergue, de la Fondation Abbé Pierre, considère qu’il faudrait aussi déployer davantage de médiateurs scolaires dans ces lieux de vie informels.

    Le reste du temps, les associations estiment qu’aucune expulsion ne devrait avoir lieu sans qu’un diagnostic social préliminaire (l’instruction du 25 janvier 2018 qui le recommandait n’est pas respectée), un accompagnement social global et des solutions de relogement dignes, adaptées et pérennes n’aient été mis en place. Cela pour permettre « une sortie des bidonvilles par le haut ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/281123/les-expulsions-ont-des-consequences-deleteres-sur-la-vie-des-enfants
    #enfance #mineurs #statistiques #chiffres #2022 #expulsions_sèches #santé_mentale #SDF #sans-abrisme #sans-abris #déscolarisation

  • #Bilan annuel des transports #2022 : Quelle est la place du vélo en France ?

    Le bilan annuel des #transports 2022 vient d’être publié et révèle des chiffres en hausse pour le vélo avec une augmentation de 31% du nombre de passages enregistrés par rapport à 2019 (8% par rapport à 2021).

    Le succès du #vélotaf selon les #villes

    Parmi les personnes se déplaçant pour travailler (15 à 74 ans avec un emploi ou en apprentissage, hors Mayotte), 3,4% (soit plus de 903 000 personnes) ont privilégié le vélo, marquant une progression par rapport à 2019 (2,5%). Grenoble reste la ville leader dans l’utilisation du vélo pour le #trajet_professionnel (22,1% en 2022), suivie de près par Bordeaux et Strasbourg (20,0%).

    Une pratique à l’épreuve du genre et des groupes sociaux

    Les #hommes (3,9%) adoptent davantage cette pratique que les #femmes (2,9%). Les cadres sont les plus cyclistes parmi les #catégories_socioprofessionnelles : 6,4% d’entre eux adoptent le vélo quotidiennement.

    Le #schéma_national en bonne voie

    Au 1er janvier 2023, 20 755 kilomètres du schéma national sont ouverts sur les 26 115 km prévus d’ici 2030, soit une réalisation de 79,5%. En France, le schéma #EuroVelo est achevé à 94,7%.


    Source : Vélo & Territoires

    Le vélo, un marché toujours en essor

    En ce qui concerne les ventes de vélos, le #marché du cycle a atteint 2,378 milliards d’euros en 2022, avec une croissance de 7%. Les ventes de vélos à assistance électrique (VAE) ont augmenté de 12%, représentant 28% des ventes en volume et 61% en valeur.

    En 2022, le nombre de vélos marqués et enregistrés dans le #FNUCI (#fichier_national_unique_des_cycles_identifiés) s’élevait à 2,1 millions, offrant une nouvelle mesure de lutte contre le vol.

    Des chiffres qui appellent à aménager pour sécuriser les cyclistes

    En 2022, le nombre global d’#accidents impliquant des vélos a légèrement diminué par rapport à l’année précédente, restant élevé à 5 591 contre 5 665 en 2021. 245 personnes ont perdu la vie dans des accidents de vélo en 2022. Parallèlement, le nombre de cyclistes blessés a connu une baisse, avec 5 130 personnes blessées en 2022, soit 145 de moins qu’en 2021 (-2,7 %). Un défi reste à relever : continuer de développer l’usage du vélo sans que les statistiques de la #sécurité_routière augmentent proportionnellement à l’usage. Entre 2017 et 2022, le taux de croissance annuelle moyen est de 7,2 % pour le nombre de cyclistes morts et 4,1 % pour les cyclistes blessés, dans le cadre d’un accident.

    https://villes-cyclables.org/ressources/les-actualites/bilan-annuel-des-transports-2022-quelle-est-la-place-du-velo-en-fr

    #rapport #mobilité #vélo #chiffres #statistiques #urban_matters #urbanisme #genre #classes_sociales #sécurité

  • En 2022, 624 SDF sont morts en France, un « drame sociétal scandaleux »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/27/en-2022-624-sdf-sont-morts-un-drame-societal-scandaleux_6196795_3224.html

    Le nombre de sans domicile fixe en France a doublé en dix ans, avec plus de 330 000 personnes selon le dernier décompte de la Fondation Abbé Pierre en 2022. Les femmes, familles et mineurs sont de plus en plus nombreux à la rue.

    31/12/2017 les vœux du président au petit jésus

    « Je veux que nous puissions apporter un toit à toutes celles et ceux qui sont aujourd’hui sans-abri. Le gouvernement s’est beaucoup engagé dans cette direction ces derniers mois et a beaucoup amélioré les choses, mais il y a encore des situations qui ne sont pas acceptables, a déclaré Emmanuel #Macron à la télévision. Nous continuerons l’effort indispensable pour réussir (...) »

  • I dati sull’accoglienza in Italia, tra programmazione mancata e un “sistema unico” mai nato

    Ad agosto in Italia sono “accolte” quasi 133mila persone, per la maggioranza nei centri prefettizi. Il sistema diffuso, e sulla carta ordinario, pesa ancora poco. Un confronto con gli anni scorsi smonta l’emergenza e mostra i nodi veri: dalla non programmazione al definanziamento, fino allo squilibrio provinciale tra #Cas e #Sai.

    Al 15 agosto di quest’anno le persone in accoglienza in Italia sono 132.796: 95.436 nei Centri di accoglienza straordinaria che fanno capo alle prefetture, 34.761 nei centri diffusi del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) e 2.599 negli hotspot. Tanti? Pochi? Spia di un’emergenza imprevedibile? Un confronto con gli anni scorsi può aiutare a orientarsi, tenendo sempre la stessa fonte, cioè il ministero dell’Interno, lo stesso che per conto del governo lamenta una situazione “scoppiata” tra le mani, impossibile da programmare e quindi non gestibile per le vie ordinarie, tanto da dichiarare lo stato di emergenza.

    Facciamo un salto indietro alla fine del 2016, quando gli sbarchi furono oltre 180mila. Le persone in accoglienza in Italia allora erano 176.257, il 32,7% in più di oggi. La stragrande maggioranza, proprio come oggi, era nelle strutture temporanee emergenziali (137mila), seguita a distanza dall’accoglienza diffusa e teoricamente strutturale dell’allora Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) con 23mila posti, dai centri di prima accoglienza (15mila circa) e dagli hotspot (un migliaio). A fine agosto 2017, anno in cui gli sbarchi alla fine sfiorarono quota 120mila, erano 173.783, di cui nei soli Cas 158.207. Un terzo in più di oggi.

    Un anno dopo, il 31 agosto 2018, erano scesi a 155.619. Attenzione: quell’anno, anche a seguito degli accordi del 2017 tra Italia e Libia e delle forniture garantite a Tripoli per intercettare e respingere i naufraghi con missioni bilaterali di supporto (farina Minniti-Gentiloni), gli sbarchi crolleranno a 23.370.
    Ed è proprio in quell’anno che per decreto (il cosiddetto “Decreto Salvini”, 113/2018) il Governo Conte I smonta il già gracile e incompiuto sistema di accoglienza, pubblicando schemi di capitolato dei Cas che premiano le strutture di grandi dimensioni, riducendo gli standard di accoglienza e mortificando l’operato del Terzo settore. Per non parlare del forte impulso, già in atto da qualche tempo, alla prassi “svuota centri” rappresentata dalle revoche delle misure di accoglienza da parte delle prefetture. È bene infatti ricordare che tra 2016 e 2019, come ricostruito da un’inchiesta di Altreconomia, almeno 100mila tra richiedenti asilo e beneficiari di protezione si sono visti cancellare le condizioni materiali di accoglienza, finendo espulsi dai centri, a discrezione delle singole prefetture e senza che venisse tenuto in minima considerazione alcun principio di gradualità.

    L’anno che ha fatto registrare il dato più basso di sbarchi dell’ultima decade è il 2019: 11.471. A metà agosto di quattro anni fa le persone in accoglienza erano 102.402, di cui 77.128 nei Cas e 25.132 nell’ormai ex Sprar, svuotato della sua natura originaria e rinominato in Siproimi. “Perché immaginare di costruire un sistema di accoglienza per soggetti ritenuti non graditi dalle istituzioni?”, è il ragionamento non detto.

    Ecco perché al 15 agosto 2020, anno di leggera ripresa degli sbarchi (34.200 circa), le persone nei Cas, nel Siproimi e negli hotspot non superano quota 85mila. La metà rispetto al 2016. Crollano i posti nei centri prefettizi (da 77mila del 2019 a 60mila del 2020) così come quelli nel Siproimi (da 25mila a 23mila).

    Ma si è riusciti a far di peggio, riducendo il sistema al lumicino dei 76.902 “immigrati in accoglienza sul territorio”, come li indica il Viminale, del 15 agosto 2021 (anno che registrerà 67.477 sbarchi). Nei centri prefettizi vengono infatti dichiarate 51.128 persone presenti, quasi un terzo di quante erano accolte nel dicembre 2017. Nel circuito del Siproimi c’è una flebile ripresa che però non oltrepassa quota 25mila posti.

    È una sorta di “età di mezzo” (siamo a cavallo dei Governi Conte II e Draghi). Nonostante il positivo intervento della legge 173/2020 che ripristina la logica dello Sprar, denominandolo Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), i due esecutivi che precedono l’attuale non riescono a (o non vogliono) frenare la diminuzione dei posti. Si fa finta di non vedere che il sistema di accoglienza è nei fatti sottostimato e che da un momento all’altro può dunque implodere rispetto alle necessità. I capitolati dei Cas vengono di poco corretti ma non in maniera adeguata, e continua a non essere elaborato e tanto meno attuato alcun piano di progressivo assorbimento e riconversione dei Cas (emergenza) nel Sai (ordinario). Il Sistema di accoglienza e integrazione torna debolmente a crescere ma in modo modesto. Perché non è lì che si punta: a occupare l’agenda sono ancora gli accordi con la Libia, che vengono infatti rinnovati, e la direzione politica non cambia rispetto a quella precedente, è solo meno “urlata”.

    È in questo quadro che arriviamo all’anno scorso, quello dei 105mila sbarchi, con le persone in accoglienza che a metà agosto 2022 sono 95.893, di cui 64.117 nei Cas e 31mila circa nei centri Sai.

    Pian piano quella quota è cresciuta fino ai citati 132.796 “accolti” del 15 agosto 2023. Non si tratta, come visto, di un inedito picco ma di un già vissuto trascinarsi di difetti strutturali. Uno su tutti: il Sai, la fase di accoglienza concepita come ordinaria, non riesce ad andare oltre il 30% del numero complessivo dei posti disponibili.

    “Se immaginiamo che tra il 20 e il 30% della popolazione presente nei centri rapidamente li abbandona e lascia l’Italia per andare in altri Paesi dell’Unione europea, l’impatto generale degli arrivi e delle presenze è quanto mai modesto -osserva Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste e tra i più esperti conoscitori del sistema di accoglienza del nostro Paese. Nulla giustifica l’ordinario e diffuso allarmismo”. “La popolazione italiana nel solo 2022 è diminuita di 179mila unità, un numero pari a più di tre anni di arrivi (2022, 2021, 2020) -fa notare ancora Schiavone-. Ma di che cosa stiamo parlando?”.

    A questa lettura se ne aggiunge un’altra che riguarda la disomogeneità territoriale dell’accoglienza su scala provinciale. Il ministero dell’Interno rende infatti pubblici ogni 15 giorni i dati aggiornati sulle “presenze di migranti in accoglienza” distinguendoli però solo su base regionale. Così gli squilibri del sistema non emergono nel dettaglio.

    Altreconomia ha ottenuto dal Viminale i dati suddivisi per Provincia al 30 giugno 2023, appena prima che scoppiasse l’ultima “emergenza accoglienza”, quando le persone in accoglienza erano 118.883 di cui 3.682 negli hotspot (Lampedusa su tutti), 80.126 nei Cas e 35.075 nei centri Sai. Il carattere che emerge è la sproporzione. Vale tanto per la distribuzione dei posti del Sai quanto per il “collegamento” tra il sistema emergenziale Cas e l’accoglienza diffusa.

    Schiavone fa qualche esempio pratico. “In alcune Regioni e province le presenze nel Sai sono bassissime, specie se rapportate alla popolazione residente. Veneto, Toscana, la stessa Lombardia. Il divario Nord-Sud è critico. La peggiore si conferma in ogni caso il Friuli-Venezia Giulia, dove peraltro il ministero segnala 63 posti in provincia di Udine senza tenere conto che il progetto Sai che fa capo al Comune di Udine ha chiuso a fine dicembre del 2022. È palese la carenza forte di posti al Nord dove ci sarebbero le maggiori possibilità di integrazione socio-lavorativa”.

    Di fronte a questi dati sorge un interrogativo che il presidente dell’Ics di Trieste riassume così: “A che cosa serve un Sistema di accoglienza integrazione, che ora con la legge 50/2023 è destinato ai soli beneficiari di protezione, così squilibrato, sia per aree geografiche sia in relazione al sistema dei Cas? Trasferiamo i richiedenti asilo appena diventano rifugiati da Nord a Sud per trovare lavoro? Appare evidente che il sistema come è oggi configurato, se si intende mantenere l’irrazionale scelta di avervi sottratto l’accoglienza dei richiedenti asilo, non ha alcun senso e andrebbe interamente riconfigurato con drastiche chiusure di progetti Sai nelle aree interne, specie al Sud, che erano importantissimi in una logica normativa che prevede l’accoglienza diffusa dei richiedenti asilo ma che perdono senso in un nuovo sistema che attribuisce al Sai la sola funzione di sostenere l’integrazione socio-economica dei rifugiati”.

    A riprova del fatto che la vera emergenza in Italia non sono i numeri quanto la non programmazione ministeriale sull’accoglienza, c’è anche la risposta che il capo della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo (Francesco Zito) diede al nostro Luca Rondi a inizio gennaio 2023. Alla richiesta di aver copia del “Piano nazionale di accoglienza elaborato dal Ministero dell’Interno”, il Viminale glissò sostenendo che “i trasferimenti dei migranti avvengono in base a quote di volta in volta stabilite tra le diverse province, anche in base ai posti che si rendono disponibili sul territorio”. Come dire: il piano è non avere un piano.

    Chiude il cerchio la cesura netta che c’è tra i posti emergenziali nei Cas e il Sai. “Facciamo l’esempio di Piacenza -riflette Schiavone-. A fine giugno c’erano 505 posti Cas e 34 posti Sai. Se ad esempio ogni anno devo trasferire 200 ex richiedenti asilo divenuti beneficiari di protezione dai Cas di Piacenza al Sai di quella provincia, come si fa? È evidente che le persone verranno trasferite da una delle province a maggior dinamicità economica magari ad Avellino o Cosenza dove ci sono rispettivamente 900 e 1.100 posti SAI. Questo non-sistema produce nello stesso tempo sradicamento delle persone dai percorsi di primo inserimento sociale e totale sperpero di denaro pubblico. A guardare fino in fondo il non-sistema non produce neppure alcuna integrazione sociale, magari con grande lentezza e spreco di energie”.

    La progressiva riduzione dei Cas a parcheggi dove non verrà insegnato neppure l’italiano -come prevede la legge 50/2023 che ha eliminato anche l’orientamento legale e il supporto psicologico- farà il resto. “Il processo è in atto da tempo ma tende ad accelerare sempre di più -dice Schiavone allargando le braccia-. In questo modo anche i sei mesi di accoglienza Sai rischiano di rivelarsi pressoché inutili se non sono un completamento di un percorso di integrazione già avviato. Ma in questo non-sistema il beneficiario di protezione che accede al Sai parte da quasi zero”. Verso una nuova, prevedibile, “emergenza”.

    https://altreconomia.it/i-dati-sullaccoglienza-in-italia-tra-programmazione-mancata-e-un-sistem
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  • Respingimenti e ostacoli all’asilo. Ritorno sulla frontiera Italia-Svizzera

    Da gennaio ad aprile 2023 a Como-Ponte Chiasso oltre 1.300 persone migranti sono state “riammesse” indietro dalle autorità elvetiche. È il confine terrestre italiano con i dati più alti. Quattro su 10 sono afghani: la protezione è un miraggio

    Ahmed, diciassettenne afghano, è partito da Kabul nell’autunno del 2021 per non finire tra le fila dell’esercito talebano. A un anno e mezzo dalla partenza, dopo aver percorso una delle diramazioni della rotta balcanica, passa per la stazione di Milano, dove non si ferma neanche una notte: la prossima tappa da raggiungere è Zurigo, l’obiettivo ultimo la Germania. Che cosa lo aspetta al confine italo-svizzero? Seppur poco raccontato, secondo i dati del ministero dell’Interno, su questa frontiera nei primi quattro mesi del 2023 sono state registrate 1.341 riammissioni passive, ovvero le pratiche di polizia a danno di persone straniere considerate irregolari che, a un passo dall’arrivo sul territorio elvetico, vengono costrette a ritornare in Italia.

    A far da contraltare all’approccio di frontiera finalizzato al respingimento, una parte della società civile su entrambi i lati del confine testimonia ormai da anni un’accoglienza possibile ma sempre più difficile nei confronti dei transitanti. La collaborazione tra i due Paesi si rifà all’accordo italo-svizzero del 1998 “sulla riammissione delle persone in situazione irregolare”, mai ratificato dal Parlamento italiano. Il 31 maggio scorso quell’impegno bilaterale è stato ribadito nell’incontro tra il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e la sua omologa svizzera, Elisabeth Baume-Schneider, per contrastare, parole del Viminale, la “criminalità organizzata”, il “terrorismo internazionale” e monitorare i “foreign fighters di rientro dai teatri di guerra”. Il tutto, ha assicurato la consigliera elvetica, garantendo “sempre il rispetto dei diritti umani dei migranti”. Retorica politica che propone un concetto di sicurezza e promette di proteggere tutti, ma poi nella pratica minaccia le stesse persone in cerca di una maggior sicurezza.

    Già nel 2016 l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) aveva evidenziato l’illegittimità delle riammissioni previste dall’accordo bilaterale per diversi motivi: ostacolano la domanda di asilo, implicano controlli sistemici e discriminatori lungo una frontiera Schengen e sono considerabili espulsioni collettive; infine, essendo procedure informali, non permettono di presentare un eventuale ricorso.

    Nonostante le rassicurazioni sul “rispetto dei diritti umani” di Baume-Schneider, le riammissioni, con le annesse criticità sottolineate nel 2016, continuano anche oggi. I dati relativi ai primi mesi dell’anno, comunicati dal Viminale dopo un’istanza di accesso civico di Altreconomia, sono eloquenti. Per quanto riguarda il settore terrestre di Como-Ponte Chiasso, da gennaio ad aprile 2023 sono state registrate 1.341 riammissioni verso l’Italia (numeri alti, basti pensare che per il più conosciuto accordo bilaterale tra Italia e Slovenia erano state 1.240 le persone riammesse nel 2020, anno di picco).

    Quello con la Svizzera si conferma quindi il confine terrestre italiano dove vengono registrate più riammissioni passive (si veda, a questo proposito, l’articolo sui respingimenti ai confini italiani nel numero di febbraio di Altreconomia). Dal gennaio 2022, infatti, in media, 330 persone ogni mese sono costrette dalla polizia svizzera a ritornare sui propri passi. Quattro su dieci sono afghani, proprio come Ahmed. Seguono siriani, turchi, marocchini e poi bengalesi e tunisini.

    Entrare nel merito di ciascun episodio è impossibile, ma si può ipotizzare che in molti casi la riammissione abbia ostacolato l’accesso alla domanda di protezione internazionale per persone provenienti da zone di conflitto. Ciò che permette un così alto numero di riammissioni è l’esteso sistema di controllo elvetico. “Il Ticino ha il più alto numero di poliziotti pro-capite di tutta la Svizzera”, spiega Donato Di Blasi di Casa Astra, centro di prima accoglienza per persone in emergenza abitativa nella Svizzera italiana. Nel territorio, infatti, si conta un agente ogni 305 abitanti, a fronte della media nazionale di uno ogni 466 secondo i dati della Radiotelevisione svizzera. “I pattugliamenti della polizia svizzera si estendono sui treni fino a Lugano, a 30 chilometri dalla stazione di confine di Ponte Chiasso”, continua Di Blasi.

    Spesso i controlli avverrebbero sistematicamente nei confronti di persone con caratteristiche somatiche apparentemente non di origine europea, in violazione delle normative che vietano la profilazione etnica (racial profiling). Un ragazzo egiziano di 16 anni che vive attualmente a Como racconta: “Una volta rientrando da Milano mi sono addormentato sul treno, superando per sbaglio la fermata di Como. Alla stazione di Chiasso mi hanno svegliato i poliziotti, mi hanno perquisito fino a lasciarmi in mutande, poi mi hanno riportato in Italia. Ero l’unico sul treno a cui è successo così”. Il monitoraggio frontaliero delle forze dell’ordine si inoltra anche nelle zone di transito percorribili in auto o a piedi. Per sorvegliare al meglio queste aree, l’ufficio federale dell’armamento (Armasuisse) aveva annunciato già nel 2015 l’acquisto di sei droni di fabbricazione israeliana che entreranno a pieno regime entro la fine del 2024.

    Nonostante la fitta rete di controlli e i numeri delle riammissioni, le realtà comasche che supportano le persone transitanti concordano nel dire che la situazione per le strade di Como non è minimamente paragonabile a quella dell’estate del 2016, quando fino a 500 persone dormivano nei pressi della stazione di San Giovanni in attesa di superare il confine. “Sono sporadici i casi di persone riammesse dalla Svizzera presenti sulle strade di Como”, racconta Anna Merlo di Porta Aperta, sportello di Caritas per i senza dimora. “Dato l’alto numero delle riammissioni, ci chiediamo: dove vanno le persone una volta riportate in Italia?”, si domanda don Giusto Della Valle, parroco di Rebbio, realtà solidale con le persone transitanti e attualmente luogo di accoglienza per decine di minori stranieri non accompagnati in attesa di una sistemazione definitiva. L’impressione è che chi viene riammesso non si fermi in città, provando a continuare il viaggio in altre zone di frontiera, vicine e lontane.

    Ahmed ha avuto fortuna, è riuscito a superare l’ennesimo confine, ma questo non significa la fine degli ostacoli. Infatti, dalle informazioni raccolte, è frequente che le persone transitanti, intercettate dalle forze dell’ordine sul territorio svizzero, dopo aver provato a fare domanda di asilo vengano riportate in Italia alla centrale di polizia di Ponte Chiasso. “Per essere certi che la domanda di asilo venga presa in carico e le persone non vengano respinte, l’unico modo è accompagnarle fisicamente alla questura di Chiasso per contestare un’eventuale riammissione; lo abbiamo fatto più volte in passato -spiega Gabriela Giuria Tasville di Azione posti liberi, fondazione che segue dal punto di vista legale i richiedenti asilo in Ticino-. A peggiorare il quadro, inoltre, è impossibile, per le persone in transito, soggiornare anche temporaneamente in Svizzera, perché dal 2008 è entrata in vigore una legge federale che vieta qualsiasi forma di accoglienza e penalizza chiunque aiuti le persone transitanti in situazione di irregolarità”. Questa legge infatti punisce “con una pena detentiva sino a un anno o con una pena pecuniaria chiunque […] facilita o aiuta a preparare l’entrata, la partenza o il soggiorno illegali di uno straniero” (articolo 116, 1.a). Le autorità, da una parte, non permettono alle persone transitanti di regolarizzare la loro posizione sul territorio e quindi di accedere alle strutture di accoglienza; dall’altra, puniscono chiunque aiuti il soggiorno di una persona che è in una situazione di irregolarità a causa del mancato accesso alla procedura di asilo.

    Questa legge, ormai arrivata al suo quindicesimo anno d’età, ha fatto sì che realtà come Casa Astra, che già nel 2004 accoglieva sans papier provenienti dall’Ecuador, non possano più supportare persone in situazione di emergenza abitativa senza documenti. Ancora più eclatante è il caso del centro sociale autogestito il Molino a Lugano, unica realtà che fino al 2021 accoglieva apertamente le persone transitanti. Nel maggio di due anni fa è stato raso al suolo su provvedimento della polizia cantonale. Al contrario della solida collaborazione tra le autorità di frontiera dei due Paesi, costruire e mantenere una rete solidale a livello locale e transfrontaliero di supporto alle persone in transito, in questo contesto, sembra quasi impossibile.

    https://altreconomia.it/respingimenti-e-ostacoli-allasilo-ritorno-sulla-frontiera-italia-svizze

    #Italie #Suisse #frontières #push-backs #refoulements #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #réadmissions #réadmissions_passives #foreign_fighters #terrorisme #statistiques #chiffres #2023 #2022 #profilage_racial #drones #criminalisation_de_la_solidarité

    • Commémor’action des mort.e.s aux frontières le 6 février 2022

      Depuis 2014, et le massacre de Tarajal, le 6 février est devenu un jour de commémoration pour toutes les personnes décédées ou disparues aux frontières, victimes - sur leur parcours d’exil - de politiques migratoires assassines.
      En plus de la traditionnelle Marche pour la Dignité à Ceuta le 5 février (IXe édition), de nombreux évènements de commémor’action sont prévus en Afrique et en Europe le 6 février pour rendre hommage à ces victimes que nous n’oublions pas, réclamer justice, et rappeler que la migration est un droit.
      Liberté de circulation pour toutes et tous !

      https://migreurop.org/article3082.html?lang_article=fr

      La #liste des lieux de commémoraction :
      https://migreurop.org/IMG/pdf/events_commemoraction_2022.pdf

    • #6_février_2014 : Massacre de #Tarajal

      Le permis de tuer des gardes-frontières

      Aujourd’hui, les familles des victimes et leurs soutiens commémorent, pour la quatrième année consécutive, le massacre de Tarajal. Cette date est devenue l’un des symboles tragiques de politiques migratoires qui portent atteinte aux droits et à la vie des personnes en exil.

      Le 6 février 2014, plus de 200 personnes, parties des côtes marocaines, ont tenté d’accéder à la nage à l’enclave espagnole de Ceuta. Alors qu’elles n’étaient plus qu’à quelques dizaines de mètres de la plage du Tarajal, la Guardia civil a utilisé du matériel anti-émeute – fumigènes et balles en caoutchouc – pour les empêcher d’arriver en « terre espagnole ». Ni la Guardia civil ni les militaires marocains présents n’ont porté secours aux personnes qui se noyaient devant eux. Quinze corps ont été retrouvés côté espagnol, des dizaines d’autres ont disparu, les survivants ont été refoulés, certains ont péri côté marocain.
      Les investigations menées par des journalistes et des militant·e·s européen·ne·s ont permis de produire des images et de récolter des témoignages de survivants et témoins oculaires établissant directement la responsabilité des gardes civils pour ces morts. La juge en charge de l’affaire a elle conclu à l’absence d’irrégularités quant au matériel utilisé par la Guardia civil. Elle a également validé la décision de refouler directement vers le Maroc les 23 personnes qui avaient réussi à atteindre la plage.
      Le 16 octobre 2015, la juge a classé l’affaire et abandonné les poursuites contre les 16 gardes civils mis en examen. Dans son ordonnance, elle allait jusqu’à souligner la responsabilité des victimes : « Les migrants ont assumé le risque d’entrer illégalement sur le territoire espagnol par la mer, à la nage, faisant de plus abstraction des agissements dissuasifs tant des forces marocaines que de la Guardia civil ». L’Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía avait alors répliqué qu’« en aucun cas le droit de migrer n’implique d’assumer le fait que l’on peut mourir pendant son parcours ou à la frontière. Ce qui s’est passé n’est pas un accident et il est nécessaire de faire lumière, de sanctionner les responsables et de garantir que ça ne se reproduise plus » [1].

      En juin 2016, des familles de victimes se sont vu refuser leur demande de visa pour aller identifier le corps de leurs fils à Ceuta. Après que de nombreux vices de procédure ont été soulevés, l’enquête a cependant été rouverte avant d’être à nouveau classée en janvier 2018.
      Pour que ces morts ne sombrent pas dans l’oubli, la société civile espagnole s’est mobilisée et a organisé le 3 février 2018 la cinquième « Marche de la dignité » à Ceuta.

      Migreurop soutient ces mobilisations et toutes les initiatives visant à faire la lumière sur le massacre de Tarajal. À la suite de la condamnation de l’Espagne par la Cour européenne des droits de l’Homme [2], le réseau et ses membres exigent l’arrêt immédiat et définitif des pratiques illégales opérées à cette frontière par la Guardia civil, notamment les refoulements menés en coopération avec les autorités marocaines, tant au niveau des barrières de Ceuta ou Melilla que sur les côtes de ces enclaves.
      La semaine passée, au moins 110 nouvelles personnes, dont une vingtaine parties des côtes marocaines, ont perdu la vie en tentant d’atteindre l’Europe. Elles ont rejoint la liste des plus de 16 000 personnes mortes en Méditerranée depuis 2013. Au travers de la militarisation de ses frontières extérieures, l’Union européenne pratique depuis de nombreuses années une politique du laissez-mourir incarnée notamment dans la criminalisation des actions de secours et de sauvetage [3]. Le massacre de Tarajal rappelle que, sans respect du droit à émigrer, formulé notamment dans l’art. 13 de la Déclaration universelle des droits de l’Homme (DUDH), les politiques de « contrôle des flux » relèvent non seulement de la non assistance à personne en danger mais sont également à l’origine d’atteintes délibérées au droit le plus fondamental, celui à la vie (art. 3 DUDH).

      http://migreurop.org/article2856.html?lang=fr

    • 6 février : journée internationale de CommemorAction des disparu·es aux frontières

      Avec notre terme « Commemor’Action », nous faisons une double promesse : celle de ne pas oublier ceux qui ont perdu la vie et celle de lutter contre les frontières qui les ont tués. Nous offrons un espace de commémoration et nous construirons collectivement quelque chose à partir de notre chagrin. « Leur vie, notre lumière leur destin, notre colère ».

      Leur vie, notre lumière
      leur destin, notre colère"
      ont fait partie des mots choisis à Marseille pour exprimer les émotions face à ces injustices.

      Avec notre terme "Commemor’Action", nous faisons une double promesse : celle de ne pas oublier ceux qui ont perdu la vie et celle de lutter contre les frontières qui les ont tués. Nous offrons un espace de commémoration et nous construirons collectivement quelque chose à partir de notre chagrin. Nous ne sommes pas seul.e.s et nous n’abandonnerons pas. Nous continuerons à lutter pour la liberté de mouvement de toutes et tous dans notre vie quotidienne, nous exigeons la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      Depuis 2020, nous consacrons la journée de 6 février à la Commemor’Action dans différents endroits du monde. (le lien pour une vidéo vers un extrait des différentes mobilisations ici )

      Nous, sommes des parent.e.s, ami.e.s et connaissances de personnes décédées, portées disparues et/ou victimes de disparitions forcées le long des frontières terrestres ou maritimes, en Afrique, en Amérique, en Asie, en Europe et partout dans le monde. Des personnes qui ont survécu à la tentative de traverser les frontières à la recherche d’un avenir meilleur. Des citoyen.e.s solidaires qui assistent et secourent les personnes en mobilité se trouvant dans des situations de détresse. Des pêcheurs, des activistes, des militant.e.s, des migrant.e.s, des académicien.e.s,…etc. Nous sommes une grande famille.

      La Commemor’Action, c’est un mémento chargé d’actions mêlant messages politiques et performances artistiques, mais surtout, mettant en relation les proches en deuil avec le plus grand nombre de personnes possible pour créer ensemble des plateformes et ainsi faire connaître leurs histoires et leurs revendications. Les journées de Commémor’Action sont des moments pour se souvenir de ces victimes et construire collectivement des processus de soutien aux familles dans leurs revendications de vérité et de justice aux noms de leurs êtres chers.

      Les crimes contre l’humanité en mobilité marquent tellement de jours de l’année avec peine et colère qu’il est impossible d’en choisir un seul. La date symbolique du 6 Février fait référence au massacre de 2014 à Tarajal où la Guardia Civil, a tiré des balles en caoutchouc pour dissuader les migrant.e.s tentant de rejoindre les côtes espagnoles. Cet acte criminel et inhumain qui demeure impuni a causé la mort de 15 personnes sous les yeux du système qui les traque et plusieurs disparu.e.s, laissant leurs familles et proches dans l’oubli.

      Nous nous engageons à ne pas les oublier : chaque année, à travers des actions décentralisées dans des horizons différents et contextes variés (Tarajal, Agadez, Berlin, Calais, Dakar, Douala, Marseille, Mexique, Niamey, Oujda, Palerme, Paris, Tunisie, Zarzis…etc.)nous nous réunirons pour protester contre ces régimes assassins.

      A Marseille, en ce 6 février 2023, de nombreuses personnes se sont retrouvées et rencontrées sous l’ombrière du vieux port en début de soirée afin de visibiliser et rendre hommage. Les mots sont difficiles à trouver pour résumer ces quelques heures partagées ensemble mais elles étaient puissantes et importantes. Merci à toutes les personnes qui se sont exprimées. Merci d’avoir parlé de ce qu’il se passe aux portes de nos frontières internes (en France et notamment avec la nouvelle loi contre l’immigration de Darmanin qui va précariser et diviser davantage les personnes en situation d’exile en France, les situations entre l’Italie et la France, entre la France et le Royaume Uni) mais aussi aux portes de l’Europe, sur la route des Balkans, en Méditerranée et bien au delà entre les Etats Unis et le Mexique notamment. . Merci d’avoir abordé la question de l’externalisation des frontières, du fait que les crimes et la répression des états européens commencent déjà bien au Sud, au Sahel, au Niger, en Lybie, au Maroc, en Tunisie et font là aussi de nombreuses victimes et injustices. Merci d’avoir rappelé que les Etats Européens sont responsables et coupables, notamment à l’aide de Frontex, organe assez opaque et pourtant étant celui recevant le + d’argent des pays européens (budget 2022 : 704 703 142 d’euros. 2021 : 499 610 042 d’euros) ( voir campagne Abolish Frontex). Merci aux personnes qui se sont exprimées pour parler de leurs expériences sur diverses routes migratoires pour arriver jusqu’ici, des personnes laissées en chemin, des milliers de kilomètres parcourus, parfois à pieds pour arriver jusqu’ici et faire face à cet accueil, ou plutôt trop souvent ce non-accueil, honteux. Et merci à toutes les personnes qui n’ont pas pu s’exprimer mais que nos coeurs ont honorées, pour lesquelles nos pensées se sont unies et ont rendu hommage à leur silence subi.

      Nous exigeons que ces morts soient reconnues comme des victimes des régimes impérialistes racistes et des états capitalistes. Et parce que nos politiques gouvernementales ne leur rendent pas justice nous construisons ensemble cette justice et nous ne cesserons de lutter pour la faire reconnaître. Nos états ne prennent pas leurs responsabilités, empirent la situation et rendent ce monde de plus en plus inhumain et justifient leurs crimes racistes de manières abjectes et insensée. Nous n’abandonnerons jamais parce que notre objectif est bien plus puissant que les leurs, celui de vivre dans un monde plus juste pour toutes et tous. Et parce que nous ne voulons pas d’un monde qui perpétue le colonialisme et le racisme et dans lequel certaines vies et certaines morts ont davantage de valeur que d’autres.

      Depuis les nombreuses mobilisations qui ont eut lieu dans d’autres villes au Mali, au Togo, en Grèce, en Tunisie, au Sénégal, au Liban, au Maroc, en Allemagne, ailleurs en France, en Espagne, en Italie, à Malte, en Sierra Leone, en Autriche, on a pu lire :

      Des vies pas des nombres !

      Migrer pour vivre, pas pour mourir !

      Ni oubli, ni pardon !

      Combattre le racisme, partout tout le temps.

      Vos frontières, nos morts !

      Ensemble luttons pour la liberté de circulation !

      Pour plus d’informations et soutenir cet engagement noble et pour retrouver la collection des actions menées partout dans le monde :

      Adresse mail : globalcommemoraction@gmail.com

      Facebook : Commemor-Action

      Pages : www.missingattheborders.org ; www.alarmephonesahara.info

      https://blogs.mediapart.fr/clementine-seraut/blog/080223/6-fevrier-journee-internationale-de-commemoraction-des-disparu-es-au

      #2023

    • 6 Février 2021 : Journée internationale de Commémoraction pour les personnes tuées et disparues sur les routes de migration

      Le 6 février 2014, plus de 200 personnes migrantes ont essayé d’entrer dans la ville de Ceuta, enclave espagnole, depuis le territoire marocain à travers la plage de Tarajal. La Guardia Civil espagnole tirait des cartouches de fumée et des balles en caoutchouc sur les personnes dans l’eau pour les empêcher aux personnes d’entrer dans le territoire espagnol. Quinze migrants étaient tués du côté espagnol, des dizaines ont disparu et d’autres sont morts sur le territoire marocain.

      Depuis lors, le 6 février a été déclaré un jour de commémoration pour les personnes migrantes tuées et disparues le 6 février 2014 entre Tarajal et Ceuta et au-delà pour toutes les personnes migrantes et réfugiées tuées et disparues dans les mers, dans les déserts, aux frontières et sur les routes de migration.

      Malgré les conditions difficiles et exceptionnelles imposées par la pandémie de Covid-19, le samedi 6 février 2021, des CommémorActions transnationales pour les mort-e-s de la migration ont eu lieu, entre autres, à Agadez au Niger ; à Sokodé au Togo ; à Oujda et Saidia au Maroc ; à Dakar et Gandiol au Sénégal ; à Madrid et d’autres villes en Espagne, à Bruxelles et à Liège en Belgique et à Berlin et Frankfort en Allemagne.

      https://alarmephonesahara.info/fr/blog/posts/6-fevrier-2021-journee-internationale-de-commemoraction-pour-les

    • 6 février : Journée mondiale de Commémor‘Action pour les mort.e.s, disparu.e.s et les victimes de disparitions forcées en mer et aux frontières !

      Le 6 février 2021, les militant.e.s du réseau Alarm Phone organisent des actions dans différentes villes au Maroc et au Sénégal. “Nous connaissons tout.e.s la tragédie qui s’est produite le 6 février 2014 à Ceuta, sur la plage de Tarajal” explique Babacar Ndiaye, militant du réseau Alarm Phone qui prépare actuellement les activités de commémoration à Dakar, au Sénégal. “La Guardia Civil espagnole a tiré sur des migrants qui tentaient de rejoindre la plage. Par la suite, on a parlé de 14 morts, mais il y en a eu beaucoup d’autres. Depuis nous avons organisé des journées de commémor‘action chaque année. Cette année avec la pandémie, nous nous réunirons en petits groupes dans différentes villes, y compris ici au Sénégal”.

      Abdou Maty, membre de Alarm Phone basé à Laayoune ajoute : “Jusqu’à présent ces décès n’ont pas été reconnus pour ce qu’ils sont : des meurtres. Par nos actions, nous voulons commémorer les vies qui ont été perdues. Luttons pour la justice, pour la liberté de circulation ! Le 6 février, nous nous réunissons pour échanger avec les familles des mort.e.s et des disparu.e.s en mer. Nous rendons visibles nos luttes, la souffrance des personnes qui traversent les frontières. Le 6 février est une journée de commémor‘action mondiale !”

      En raison de la pandémie plusieurs actions décentralisées seront organisées à travers le Maroc au lieu d’un seul grand événement. Parmi les activités prévues figurent une manifestation “Main sur le coeur – Action aux disparus” à Berkane (est du Maroc), une caravane de solidarité sur la plage de Saidia à la frontière maroco-algérienne organisée par Alarm Phone Oujda, une minute de silence avec la communauté des migrant.e.s et un match de football à Tanger, ainsi que des prières et une cérémonie de commémoration dans le port de Laayoune (Sahara Occidental).

      Des activités auront également lieu dans d‘autres pays pour commémorer les mort.e.s en mer. À Dakar, au Sénégal, une manifestation est organisée par les membres de Alarm Phone et d’autres groupes devant la mairie, une liste des naufrages survenus en Méditerranée occidentale et dans l’Atlantique en 2020 sera affichée. À Sokodé, au Togo, des militant.e.s organisent une campagne de sensibilisation et une émission radio ainsi qu’une action symbolique en déposant des fleurs dans le fleuve Na. À Agadez, au Niger, des militant.e.s et des migrant.e.s se réuniront pour écouter les témoignages de ceux qui ont perdu leurs proches à la frontière, projetteront des films et animeront des débats sur le thème des politiques meurtrières de l’Europe. En Espagne, des groupes d’activistes organisent des manifestations et des ateliers en ligne dans de nombreuses villes espagnoles les 5 et 6 février.

      Khady Ciss, membre de Alarm Phone Tanger, veut envoyer un message fort à l’Union européenne : “L’immigration n’est pas un crime ! L’Union européenne et le gouvernement marocain ont des obligations internationales en matière de droits humains, mais leur préoccupation est axée sur la protection de leurs frontières et pas tournée vers les vies humaines qu’ils détruisent ! Nous dénonçons toute forme de racisme, de violence physique et nous demandons justice !”

      Junior Noubissy, également membre de Alarm Phone Tanger, souligne le travail essentiel des organisations de sauvetage en mer : “Sauver des vies en mer n’est pas un crime, mais une nécessité. Notre objectif est de faire du 6 février une date connue dans le monde entier. Nous luttons pour qu’un jour, les migrant.e.s soient des êtres humains libres”.

      Les meurtres du 6 février 2014 ne sont pas le seul incident autour duquel les militants du Alarm Phone s’organisent ces jours-ci. Dans plusieurs villes européennes et en Tunisie, des rassemblements et des manifestations commémoreront le naufrage du 9 février 2020, au cours duquel 91 personnes sont mortes en mer méditerrannée entre la Libye et l’Italie.

      Hommage à tous et à toutes les migrant.e.s mort.e.s et disparu.e.s en mer et aux frontières !

      Toute notre solidarité avec leurs familles et leurs amis !

      Nous ne les oublierons pas !

      https://www.youtube.com/watch?v=K6ucdt8TGvo&source_ve_path=Mjg2NjY&feature=emb_logo

      https://alarmphone.org/fr/2021/02/05/6-fevrier-journee-mondiale-de-commemoraction

    • Tarajal : transformer la douleur en Justice

      Le 6 février 2014, quatorze personnes ont perdu la vie en tentant de rejoindre l’Espagne après avoir été violées avec du matériel anti-émeute par les autorités espagnoles. Leurs familles favoriseraient un processus organisationnel sans précédent pour transformer leur profonde douleur en justice.

      https://i.imgur.com/uq3NV19.png
      LES FAITS

      Le 6 février 2014, nous avons reçu à l’aube un appel d’une personne désespérée alertant d’un « massacre » qui était en train de se perpétrer sur une plage espagnole. Selon ce que les rescapés ont rapporté à l’autre bout du fil, trois cents personnes ont tenté de gagner Ceuta à la nage en essayant de contourner la jetée du Tarajal. C’est alors que des agents de la Guardia civil espagnole ont commencé à tirer du matériel anti-émeute (bombes lacrymogènes et balles en caoutchouc) sur les personnes qui nageaient pour atteindre le rivage.

      De la violence a été exercée à partir de plusieurs points. En effet, on a tiré à bout portant sur les bouées et les corps de ceux qui nageaient à partir des blocs de pierre de la jetée du Tarajal elle-même et au moins d’un bateau et d’une embarcation de type Zodiac avec des agents de la Guardia civil à bord. Par ailleurs, des coups de feu de dissuasion ont été tirés depuis le « mirador » (la tour de contrôle de la Guardia civil espagnole), pour décourager ceux qui protégeaient les corps de leurs compagnons de voyage déjà décédés.

      « Les premières fois ils ont tiré en l’air, mais quand ils ont réalisé que nous avions dépassé la déviation de la jetée et que nous nous approchions de la côte espagnole, ils ont commencé à tirer sur les corps. Dans mon cas, la première balle m’a atteint dans le dos et la seconde dans la mâchoire. »

      « Sanda a appelé à l’aide, a tendu sa main vers le rocher et la Guardia civil l’a frappé et renvoyé dans l’eau. »

      La non-assistance à personne en danger par la Guardia civil espagnole et l’absence de tentatives de réanimation des personnes inconscientes par les forces de l’ordre marocaines ont éliminé toute possibilité de pouvoir sauver la vie de ceux qui étaient en danger et qui ont fini par mourir. Ce sont les migrants eux-mêmes qui ont tenté d’aider leurs compagnons évanouis et qui, avec l’aide des forces marocaines, ont ramené les corps inertes sur la côte marocaine. L’État espagnol a refusé toute collaboration pour repêcher les corps au motif que les décès s’étaient produits sur le territoire marocain. Au moins quinze personnes sont mortes, et le corps de l’une d’entre elles n’a jamais été retrouvé. Au moins seize des survivants arrivés en Espagne ont subi un renvoi immédiat, dont un mineur de dix-sept ans.
      LES FAMILLES

      « Je me suis faite la promesse de voir un jour, avec l’aide de Dieu, l’endroit où repose la dépouille de mon fils, ne serait-ce qu’une fois, et de ramener ses cendres sur la terre de nos ancêtres afin que nous puissions lui organiser des funérailles dignes, conformes à nos traditions africaines. Je vous livre mon témoignage alors que je n’ai toujours pas surmonté le traumatisme causé par la disparition de Larios. Que justice soit faite, au nom de mon fils. »
Ndeubi Marie-Thérèse, mère de Larios Fotio.

      Les familles des victimes nous ont contactés au fur et à mesure qu’elles recevaient des informations sur ce qui s’était passé : elles cherchaient à connaître les faits et à savoir quoi faire pour retrouver le corps de leurs proches décédés. Le premier à le faire était le frère de Larios Fotio. En effet, en voyant que ses amis mentionnaient Helena Maleno sur les réseaux sociaux après la tragédie, il a décidé de nous écrire en même temps qu’il annonçait à sa mère, Ndeubi Marie-Thérèse, la mort de son fils Larios.

      Les familles ont fait confiance à notre collectif pour reconstruire le déroulement des faits qui ont mené à la mort de leurs proches, une tâche qu’aucune institution espagnole n’a daigné réaliser. Le 8 février, nous nous sommes rendus aux morgues de l’hôpital Hassan II à Fnideq et de l’hôpital Mohamed VI à M’diq avec des parents et des amis des victimes. L’ambassade du Cameroun au Maroc a soutenu cette opération et a pris en charge l’enterrement de quatre morts identifiés. Le 25 février, nous avons lancé notre enquête sur les faits et quelques semaines plus tard nous avons publié un rapport inédit reconstituant la tragédie et ses conséquences.

      Pour lever les multiples doutes qui planaient sur l’affaire et répondre au besoin de connaître les détails de ce qui s’est passé, plusieurs visites ont été nécessaires au Cameroun, pays d’origine de plusieurs des défunts. Lors de la première réunion, les familles des victimes nous ont donné leur consentement exprès pour les représenter à travers diverses entités qui se sont présentées en tant qu’accusation populaire lorsqu’en février 2015 la juge d’instruction a convoqué seize agents de la Guardia civil espagnole pour apporter leur témoignage sur ce qui s’était produit.

      Sur le plan judiciaire, « l’affaire Tarajal » a été une suite d’ouvertures et de clôtures d’enquête. Notre collectif a exprimé son désaccord avec la décision de ne pas recueillir les témoignages des survivants, même par vidéoconférence, ainsi qu’avec le refus d’accorder des visas pour que les familles puissent se rendre sur le lieu de décès de leurs proches et leur rendre hommage. Finalement, l’affaire a été classée en octobre 2019, sans que les responsables n’aient été condamnés ni que les familles n’aient été indemnisées pour leurs pertes. Caminando Fronteras parie toujours sur l’accompagnement des familles dans des actions alternatives à la justice européenne afin d’obtenir la vérité, la réparation et des garanties de non-répétition.

      Nous sommes retournés au Cameroun en 2016 dans le but de réaliser un documentaire mettant en avant les proches des victimes. « Tarajal : Transformar el dolor en justicia » (Tarajal : transformer la douleur en justice) (Caminando Fronteras, 2016) a mis en lumière la lutte pour rendre leur dignité aux victimes et le processus communautaire pour y parvenir. En effet, pour la première fois, des familles d’Afrique subsaharienne se sont organisées pour exiger des responsabilités à la suite de morts survenues à la frontière. Cette deuxième visite a abouti à la naissance de « Asociación de Familias de Víctimas de Tarajal » (l’association des familles de victimes du Tarajal).

      « La justice signifie la lumière, connaître les circonstances dans lesquelles les faits se sont produits, « la vérité »… Si on connaît « la vérité », il faut que la culpabilité des personnes impliquées soit établie. La réparation aura lieu lorsque justice sera faite » 24:58 (déclaration du frère d’une des victimes lors de l’assemblée de fondation de l’association).

      En 2017, l’association « Asociación de Familias de Víctimas de Tarajal » a décidé, à l’occasion du troisième anniversaire de la tragédie, d’organiser un hommage aux victimes des frontières à Douala, auquel ont participé des dizaines de familles de morts aux frontières. Au cours de cette rencontre, que nous avons contribué à promouvoir, les proches des victimes ont relaté la violence de la situation aux frontières, ont montré leur inquiétude face au nombre croissant de jeunes qui émigrent et ont expliqué ce que signifiait faire le deuil de leurs proches au milieu de tant d’incertitudes. À la fin de l’hommage, une liaison en direct avec le parlement espagnol a été organisée, après la projection de notre documentaire devant des députés. Bien qu’insuffisant, ce fut le seul acte de réparation par une institution espagnole aux familles, qui ont pu occuper le Parlement de leurs voix pour demander, une fois de plus, justice pour leurs défunts.

      https://caminandofronteras.org/fr/tarajal-transformer-la-douleur-en-justice

    • L’#appel


      À l’approche du 6 février et de la commémoration du massacre de Tarajal, le CRID appelle à soutenir et relayer l’appel de #Global_Commemoraction « 6 février 2023 : migrer est un droit ! », pour une Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      L’appel :

      Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles

      Nous sommes parents, amis et amies de personnes décédées, portées disparues et/ou victimes de disparitions forcées le long des frontières terrestres ou maritimes, en Europe, en Afrique, en Amérique.

      Nous sommes des personnes qui ont survécu à la tentative de traverser les frontières à la recherche d’un avenir meilleur.

      Nous sommes des citoyen.e.s solidaires qui aident les immigré.e.s durant leur voyage en fournissant une aide médicale, de la nourriture, des vêtements et un soutien lorsqu’ils se trouvent dans des situations dangereuses pour que leur voyage ait une bonne fin.

      Nous sommes des activistes qui ont recueilli les voix de ces immigrés et de ces immigrées avant leur disparition, qui s’efforcent d’identifier les corps anonymes dans les zones frontalières et qui leur donnent une sépulture digne.

      Nous sommes une grande famille qui n’a ni frontières ni nationalité, une grande famille qui lutte contre les régimes de mort imposés à toutes les frontières du monde et qui se bat pour affirmer le droit de migrer, la liberté de circulation et la justice globale pour tous et toutes.

      Année après année, nous assistons aux massacres en cours aux frontières et dans les lieux de détention conçus pour décourager les départs des personnes migrantes. Nous ne pouvons pas oublier ces victimes ! Nous ne voulons pas rester silencieux face à ce qui se passe !

      En février 2020, familles et militants se sont réunis à Oujda pour organiser le premier Grand CommémorAction. A cette occasion, nous avons choisi la date du 6 février, jour du massacre de Tarajal, comme date symbolique pour organiser des événements décentralisés dans tous les pays du monde contre la militarisation des frontières et pour la liberté de circulation.

      En septembre 2022, nous nous sommes réunis à Zarzis en Tunisie pour la deuxième Grand CommémorAction et à cette occasion nous avons réaffirmé notre volonté de continuer à construire la date du 6 février comme une journée pour unifier toutes les luttes que de nombreuses organisations mènent chaque jour pour dénoncer la violence mortelle des régimes frontaliers du monde et pour exiger vérité, justice et réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      Nous demandons à toutes les organisations sociales et politiques, laïques et religieuses, aux groupes et collectifs des familles des victimes de la migration, aux citoyens et citoyennes de tous les pays du monde d’organiser des actions de protestation et de sensibilisation à cette situation le 6 février 2023.

      Nous vous invitons à utiliser le logo ci-dessus, ainsi que vos propres logos, comme élément pour souligner le lien entre toutes les différentes initiatives. Tous les événements qui auront lieu seront publiés sur la page Facebook Commemor-Action

      Migrer pour vivre, pas pour mourir !

      Ce sont des personnes, pas des chiffres !

      Liberté de mouvement pour tous et toutes !

      https://crid.asso.fr/appel-de-global-commemoraction-pour-le-06-fevrier-migrer-est-un-droit

    • Journée de commémoration pour les morts aux frontières : « On veut migrer pour vivre, pas pour mourir »

      Comme dans de nombreuses villes d’Afrique du Nord et d’Europe, une centaine de personnes se sont retrouvées, à Paris, lundi soir, pour la quatrième journée internationale de « CommémorAction ».

      A la lumière du jour qui décline, quelques manifestants se rejoignent près de la fontaine des Innocents, à Paris. Majoritairement issus du secteur associatif, ils commentent, emmitouflés dans leurs vestes d’hiver, le projet de loi sur l’immigration, l’expulsion d’un squat la veille dans le XVe arrondissement ou encore les projets de leurs structures respectives tout en acceptant les bougies que leur tendent les organisateurs. La mobilisation à laquelle ils participent est organisée dans une quarantaine de villes d’Afrique du Nord et d’Europe et rend hommage aux quinze hommes morts le 6 février 2014.

      Ce jour-là, environ 200 personnes ont essayé de traverser à la nage la délimitation entre le Maroc et l’enclave espagnole de Ceuta. Afin de les empêcher d’accéder au territoire européen, la Guardia civil a tiré 145 balles de caoutchouc et cinq fumigènes, selon Amnesty International. Dans une panique générale, quinze hommes se sont noyés et une dizaine ont disparu. Les seize gardes-frontières espagnols assignés en justice pour non-assistance à personne en danger et pour avoir utilisé du matériel anti-émeute ont été acquittés en octobre 2015 et l’affaire a été classée. La mobilisation des familles des victimes, des associations et de journalistes a poussé à la réouverture de l’enquête, qui a été classée à nouveau, en 2018. La commémoration de cet événement tragique est devenue celle de tous les morts et disparus aux frontières notamment françaises.
      « Derrière les noyades, il y a des violences, des os cassés et brisés »

      Dès 2014, des manifestations et des commémorations ont eu lieu en Espagne, au Maroc, au Cameroun, en Guinée, au Mali ou encore au Niger pour honorer la mémoire des défunts et réclamer justice. En 2020, les proches des disparus se sont retrouvés à Oujda (Maroc) pour organiser la première « journée mondiale de CommémorAction contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles ».

      A Paris, devant les portraits alignés des morts de la plage de Tarajal – des carrés noirs ont été accrochés pour ceux dont l’identité n’a pas encore été définie –, un texte commun signé par la liste des associations organisatrices (Coordination des sans-papiers 75, 20 et de Montreuil, le Crid, Emmaüs International, la Cimade…) est lu, avant une prise de parole. Une militante de la Coordination des sans-papiers du 75 évoque la situation de la Tunisie, son pays d’origine. « Derrière les noyades, il y a des violences, des os cassés et brisés. […] On veut migrer pour vivre, pas pour mourir ! » assène-t-elle.
      Bribes de témoignage

      Nayan K. de l’organisation Solidarités Asie France cite, lui, l’exemple de Tonail, 38 ans, originaire du Bangladesh, mort fin 2022 à la frontière turque. Il aurait payé des passeurs plus de 10 000 euros pour arriver en France. C’est son compagnon de route qui le trouvera mort de froid alors qu’ils cherchaient à traverser la frontière turque. Sur la photo que celui-ci a diffusée sur les réseaux sociaux pour pouvoir l’identifier, on voit Tonail vêtu de toutes les couches de vêtements qu’il a pu trouver, allongé dans la neige, immobile, les yeux mi-ouverts. Sa famille, dont il était l’aîné, a pu rapatrier son corps au Bangladesh pour lui offrir des funérailles.

      En France, on pourrait aussi nommer Ibrahima Diallo, originaire du Sénégal, et Abdouraman Bah, de nationalité guinéenne, qui se sont noyés dans le fleuve Bidassoa, à la frontière basque, respectivement le 12 février et le 18 juin 2022, selon l’association d’aide aux migrants Bidasoa Etorkinekin. Ou encore Ullah Rezwan Sheyzad, un garçon de 15 ans qui avait quitté l’Afghanistan en juin 2021 et a été retrouvé mort en février 2022 près d’une voie ferrée à la frontière franco-italienne. Dans son sac à dos, quelques adresses de connaissances à Paris.

      Pour retrouver un proche disparu sur les routes des migrations, les familles peuvent s’adresser à Restoring Family Links, un programme proposé par la Croix-Rouge internationale. Du fait de la longueur des procédures, elles se tournent également vers les associations et ONG présentes dans les pays de sorties et d’arrivées qui collectent le maximum d’informations et de bribes de témoignages possibles. Lors des départs, Alarm Phone, spécialisée dans le sauvetage en mer, peut aussi leur fournir des informations sur la localisation de leurs proches.
      « Ce ne sont pas les frontières qui tuent, c’est leur sécurisation »

      En attendant, parfois, de retrouver le corps d’un proche, « faire son deuil est difficile », affirme Mohammed T., du Collectif des sans-papiers du XXe. Quand des obsèques finissent par être organisées, avec ou sans la dépouille du défunt, elles prennent place dans le pays d’origine de la personne et dans celui où elle est décédée. « On loue une grande salle, et pendant tout le week-end, de 8 heures à 16 heures, des personnes viennent et donnent de l’argent pour la famille », raconte le militant.

      Après quelques chansons écrites en solidarité aux personnes en situation d’exil, la « CommémorAction » s’achève et la foule d’une centaine de personnes se disperse. Orianne S., militante de Paris d’exil, rappelle l’intérêt de ce genre de mobilisations : « Il s’agit d’un espace de témoignage qui permet de ne pas oublier les morts et de tenir les Etats pour responsables de ce qu’ils font. Ce ne sont pas les frontières qui tuent, c’est leur sécurisation. » Une autre militante renchérit : « Il n’y a aucune fatalité, on pourrait reconnaître l’égale valeur des vies humaines en admettant la liberté de circulation et d’installation pour tous. »

      Selon l’Organisation internationale des migrations, plus de 20 000 personnes ont disparu ou ont perdu la vie sur les routes migratoires depuis 2014, dont la moitié en Méditerranée. Pour l’année 2022, l’organisation estime ce bilan humain à 2 000 personnes.

      https://www.liberation.fr/societe/journee-de-commemoration-pour-les-morts-aux-frontieres-on-veut-migrer-pour-vivre-pas-pour-mourir-20230207_6IBCSHNYMRBYRMQ5TB22G2JFPI/?redirected=1

  • RAPPORT 2022 SUR LES CENTRES ET LOCAUX DE RÉTENTION ADMINISTRATIVE

    Rapport commun sur les centres de rétention administrative : Chiffres clés, bilan et analyse de la situation des personnes enfermées dans les centres et locaux de rétention administrative (#CRA et #LRA).

    Fortes de leur travail quotidien d’accompagnement juridique des personnes étrangères dans les centres de rétention administrative (#CRA), nos cinq associations (Forum réfugiés, France terre d’asile, le Groupe SOS Solidarités – Assfam, La Cimade et Solidarité Mayotte) sont en première ligne pour constater et rendre compte des situations dans ces lieux de #privation_de_liberté.

    En 2022, 43.565 personnes ont été enfermées, au mépris de leurs droits, dans les centres de rétention de l’hexagone et d’outre-mer.

    https://www.lacimade.org/publication/rapport-2022-sur-les-centres-et-locaux-de-retention-administrative
    #rétention #France #rapport #2022 #La_Cimade #Cimade #détention_administrative #chiffres #statistiques #migrations #asile #réfugiés #enfermement #centres_de_rétention_administrative #lieux_de_rétention_administrative

  • Principio di non-refoulement è solo un articolo che non viene rispettato

    Quello che emerge dal quinto rapporto del network Protecting Rights at Borders (PRAB) “Picchiati, puniti e respinti” 1, è l’ennesima immagine drammatica di quanto accade alle porte esterne dell’Unione Europea, alla porte di quella comunità che ha tra i suoi principi fondativi (e fondamentali) la protezione e il rispetto dei diritti dell’uomo.

    Stando dunque alla pubblicazione di PRAB, nel 2022 sono state raccolte segnalazioni di pushback da oltre 5.756 persone. Le pratiche di respingimento, messe in atto dalle forze dell’ordine dei Paesi d’ingresso all’Europa, sono pratiche sistematiche ed estremamente violente che violano la normativa internazionale ed europea.


    Inoltre, per ribadire quanto le pratiche di respingimento vadano contro i diritti i diritti dell’uomo, la Convenzione di Ginevra del 1951, con l’articolo 33, stabilisce il principio di non-refoulement (non respingimento).

    «1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

    2. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese»

    Si tratta di un principio fondamentale del diritto internazionale. È importate sottolineare che per effetto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, tale principio si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata e/o dall’aver formalizzato o meno una diretta domanda di protezione.

    Le pratiche messe in atto dalle forze dell’ordine alle frontiere della cosiddetta fortezza europea e al proprio interno, sono in violazione del diritto della stessa Europa. Ricordiamo l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea:

    «Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione.
    1. Le espulsioni collettive sono vietate.
    2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti»

    È evidente come ancora una volta l’obbligo nel quadro giuridico contraddice la realtà.

    Dal lavoro di PRAB emerge che vi è un sistematico uso di respingimenti. Il report ne riporta quasi 6mila, ma i numeri complessivi sono sicuramente più alti dal momento che questi sono solamente dati raccolti da testimonianze dirette. Nelle due zone di confine dove è più alto il transito di persone migranti tra Italia e Francia (Oulx e Ventimiglia), i respingimenti sono una pratica sempre più comune.

    Ad esempio, se si guarda il numero di serie presente sulla documentazione ufficiale (Refus d’entree) consegnata alle persone respinte dalla polizia di frontiera francese nel 2022, emerge che i numeri sono estremamente più elevati: a Ventimiglia sono 17.749 le persone respinte e a Oulx oltre 3.600. Questi dati sono importanti in quanto sottolineano come le pratiche di respingimento e le barriere d’accesso siano molto più diffuse e si verificano su scala molto più ampia di quella registrata da PRAB.

    Anche in altri territori italiani l’uso sistematico dei respingimenti è in aumento. “Assistiamo a continue riammissioni lungo i porti adriatici dall’Italia alla Grecia e a respingimenti verso l’Albania. Si tratta di trattamenti inumani, come la confisca e la distruzione degli effetti personali, la svestizione forzata e l’esposizione a temperature estreme. Il governo italiano cerca di negare che ciò avvenga. Ma la situazione sembra peggiorare“, conferma Erminia Rizzi di ASGI.

    Nella maggior parte dei casi i respingimenti avvengono in maniera violenta. Sono tantissime le testimonianze che raccontano come la polizia di frontiera si sia comportata in modo brutale: manganellando le persone migranti, confiscando tutti i loro effetti personali per poi distruggerli, negando loro acqua e cibo, obbligandoli a restare svestiti a temperature estreme.

    Uno dei confini in cui le violenze sono all’ordine del giorno è ancora quello che separa la Croazia dalla Bosnia. Ma le numerose violazioni dei diritti umani che erano state denunciate e riportate dalle persone solidali che lottano quotidianamente contro tali pratiche, sono state messe da parte nel momento in cui la Croazia è entrata ufficialmente nella zona Schengen. Per l’ennesima volta le istituzioni Europee hanno chiuso gli occhi di fronte alle molteplici violazioni e violenze: ancora una volta i diritti umani sono stati sacrificati per raggiungere compromessi politici ed economici.

    Il 2022 è stata un anno di grandi contrasti per quanto riguarda la solidarietà e l’accoglienza: le persone che fuggivano dalla guerra in Ucraina sono state accolte mentre le persone migranti provenienti da paesi africani e/o mediorientali sono stati respinte: vi sono due pesi e due misure basate sul profilo etnico, cosa che viola la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Nel 2022 l’Unione Europea ha applicato per la prima volta una direttiva speciale per concedere un permesso temporaneo da chi scappa dalla guerra. Non si tratta di una nuova direttiva poiché risale al 2001 ma prima di quest’anno non era mai stata applicata. Il rapporto PRAB dichiara che l’attivazione di tale direttiva è una decisione storica ma basata su un doppio standard: benvenuti a un confine, respinti ad un altro. Questa è la realtà ai confini della fortezza Europa.

    Charlotte Slente, Segretaria generale della Danish Refugee Council, afferma che «la pratica di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani alle frontiere dell’UE deve essere interrotta. È giunto il momento di sostenere, rispettare e far rispettare i diritti di coloro che si trovano alle porte dell’Europa, indipendentemente dal loro Paese di appartenenza. Per anni sono state raccolte prove sulle pratiche di respingimento. Le prove sono innegabili. Questo schema non deve essere visto in modo isolato. Fa parte di una più ampia crisi dello Stato di diritto. La crisi alle frontiere dell’UE non è una crisi di numeri. È invece una crisi di dignità umana e di volontà politica, dovuta alla mancata attuazione dei quadri giuridici esistenti e all’applicazione delle sentenze giudiziarie».

    Con il 2023 è giunto il momento di porre fine alla pratica illecita e discriminatoria di chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani alle frontiere dell’Unione Europea. Il rapporto si conclude con cinque richieste: rispetto diritti umani e dignità umana a tutte le frontiere; porre fine all’uso sistematico dei respingimenti; introduzione di meccanismi di monitoraggio indipendenti alle frontiere; prevalenza di una cultura dei diritti rafforzata dal coraggio politico per sostenere le persone bisognose di protezione; apertura di percorsi d’entrata sicuri e legali.

    Sono tutte richieste più che lecite che dovrebbero esser già applicate. Ma il 2023 è veramente l’anno in cui tali richieste verranno accettate?

    Nell’anno in cui, solo per rimanere in Italia, il governo Meloni rivendica come legittimi i respingimenti al confine con la Slovenia, gli accordi con la Libia e ha deciso di stanziare oltre 40 milioni di euro per costruire nuovi CPR, è veramente l’anno in cui i governi degli Stati UE smetteranno di sacrificare i diritti umani per scopi politici ed economici?

    https://www.meltingpot.org/2023/03/principio-di-non-refoulement-e-solo-un-articolo-che-non-viene-rispettato

    #refoulements #push-backs #migrations #asile #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #2022 #rapport #Balkans #route_des_Balkans #chiffres #statistiques #violence #droits_humains

    • #Protecting_Rights_at_Borders: Beaten, punished and pushed back

      The fifth Protecting Rights at Borders report (#PRAB) reconfirms a pattern of a systematic use of pushbacks at EU Borders. The study recorded incidents involving 5.756 persons between 1 January and 31 December 2022.

      It appears evident that EU Member States continue making access to international protection as difficult as possible. These practises are systemic and integrated into countries’ border control mechanisms although they are in strict violation of EU law. The newly released PRAB report shows that many of those victims who were pushed back were not merely prevented from crossing a border. The data collected outlines that they were “welcomed” at the EU with a denial of access to asylum procedures, arbitrary arrest or detention, physical abuse or mistreatment, theft or destruction of property.

      Nationals from Afghanistan, Syria and Pakistan reported most frequently being the victim of pushbacks and in 12% of the recorded incidents children were involved. This data is unfortunately only the top of the iceberg.

      “The practice of turning a blind eye to human rights violations at EU borders must be stopped. It is high time to uphold, respect and enforce the rights of those at Europe’s doorstep, irrespective of their country of nationality. All people have the right to ask for international protection in the EU. For years, DRC jointly with its PRAB partners and many other actors, has been recording evidence on pushback practices. The evidence is undeniable,” says Secretary General of DRC, Charlotte Slente.

      Access to international protection, within the EU, is far from safeguarded - not merely due to a systematic use of pushbacks across EU borders or the unwillingness to let boats disembark, but also due to other policy developments.

      “This pattern should not be seen in isolation. It is part of a wider Rule of Law crisis. The crisis at the EU’s borders is not one of numbers. Instead, it is a crisis of human dignity and political will, created due to failure to implement existing legal frameworks and enforce judicial rulings”, says Charlotte Slente.

      Preventing access to territory with all means

      “In Greece, pushbacks at land and sea borders remain a de facto general policy, as widely reported including by UN bodies. However, instead of effectively investigating such allegations, Greek Authorities have put in place a new mechanism which does not ensure the guarantees of impartiality and effectiveness. At the same time, NGOs and human rights defenders supporting victims of alleged pushback remain under pressure and find themselves increasingly targeted", says Konstantinos Vlachopoulos of GCR.

      In Italy the systematic use of pushbacks is increasing.

      "We are witnessing continuous readmissions along the Adriatic ports from Italy to Greece and rejections to Albania. What we hear about is inhuman treatment, such as confiscation and destruction of personal belongings, forced undressing, and exposure to extreme temperatures. The Italian government tries to deny that this is happening. But the situation seems to be getting worse”, says Erminia Rizzi of ASGI.

      Welcome at one border, pushed back at another

      The situation is not equal at all EU borders. There are double standards based on ethnic profiling and they violate international human rights law. 2022 was the year that the EU provided protection – at least on paper – to 4.9 million people who entered the EU from Ukraine. The triggering of the Temporary Protection Directive was a historic decision.

      “In February 2022, Poland has opened its borders to admit large numbers of Ukrainian nationals fleeing war. Temporary protection was given to numerous persons seeking protection from the war in Ukraine. This welcoming approach of the Polish authorities did not affect the situation at the Polish-Belarusian border, where a humanitarian crisis continues since August 2021. There, third-country nationals are everyday violently pushed back, irrespective of their vulnerability or asylum claims”, says Maja Łysienia, SIP Strategic Litigation Expert.

      More information on the pushback data recorded by PRAB partners, the litigation cases brought to national and European courts related to border violence, as well as an analysis of current policy dimensions, can be found in PRAB V here: https://pro.drc.ngo/resources/news/prab-beaten-punished-and-pushed-back

      https://reliefweb.int/report/world/protecting-rights-borders-beaten-punished-and-pushed-back

    • Les chiffres à la #frontière_sud-alpine (#Italie / #France) :

      The number of pushbacks from France to Italy recorded through the PRAB project, for instance, also represents a fraction of the overall number of persons reporting pushbacks to Diaconia Valdese’s outreach teams. In Ventimiglia and Oulx in Italy, Diaconia Valdese has records of as many as 2,703 persons, and 2,583 persons, respectively, who reported experiencing pushbacks. If compared to other available statistics, even higher pushback numbers were recorded at the borders between Italy and France in 2022: In Ventimiglia, Italy, at least 17,7491 persons were pushed back by French Authorities, while in Oulx, Italy, it was at least 3,6902 persons.

      (p.4)

      #Ventimille #Oulx #Hautes-Alpes #Alpes_maritimes #Briançon

    • Le sistematiche violazioni dei diritti umani ai confini europei: VI report della rete #PRAB

      Recentemente, un video pubblicato dal New York Times (https://www.nytimes.com/2023/05/19/world/europe/greece-migrants-abandoned.html) ha rivelato respingimenti illegali di persone migranti dalla Grecia, sollevando un’ampia eco mediatica. La gravità delle accuse ha suscitato la reazione di Ylva Johansson (https://www.politico.eu/article/commission-ylva-johansson-greece-migrant-deportation), Commissaria europea agli Affari interni, che ha definito tali pratiche come “deportazioni”, e del primo ministro greco, Mitsotakis, che le ha giudicate “inaccettabili” (https://edition.cnn.com/videos/tv/2023/05/23/amanpour-greek-prime-minister-kyriakos-mitsotakis.cnn). Tuttavia, organizzazioni non governative e grassroots denunciano da anni la sistematicità delle violazioni dei diritti umani delle persone migranti ai confini europei.

      Nel Report What we do in the shadows, il VI report del network PRAB, sono state raccolte migliaia di testimonianze riguardanti le azioni compiute dalle forze di frontiera nei confronti dei potenziali richiedenti asilo, tra cui respingimenti, aggressioni e furti. In alcuni casi, tali azioni mettono a rischio la vita delle persone coinvolte, e ci sono anche situazioni in cui queste azioni si sono tradotte in tragiche perdite umane, come nei respingimenti dalla Polonia alla Bielorussia o nel caso di Fatima, una giovane ragazza di 23 anni uccisa dalla polizia macedone al confine tra la Macedonia del Nord e la Grecia a metà aprile, il giorno in cui l’Agenzia Europea Frontex ha iniziato la propria missione operativa nel paese balcanico.

      Migliaia di testimonianze raccolte nel VI report di PRAB

      Durante il periodo gennaio-aprile 2023, sono stati registrati un totale di 10.691 casi individuali di persone respinte alle frontiere europee. Di questi, 1.611 hanno partecipato a interviste approfondite da parte di uno dei partner PRAB per registrare i dati demografici, le rotte migratorie e le violazioni dei diritti a cui sono stati esposti.

      - Abusi fisici e aggressioni: Il 62% delle persone ha denunciato abusi fisici e/o aggressioni al confine tra Ungheria e Serbia, mentre il 54% ha segnalato lo stesso al confine tra Grecia e Turchia.

      - Coinvolgimento dei minori: Il 16% dei respingimenti riguardava minori, di cui il 9% viaggiava con la famiglia e il 7% era costituito da minori non accompagnati o separati dalla famiglia.

      - Mancato accesso alle procedure di asilo: Nel 44% dei casi registrati al confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina, nell’88% dei casi al confine tra Ungheria e Serbia e nell’85% dei casi al confine tra Italia e Francia, è stato segnalata la impossibilità di accesso alle procedure di asilo.

      Questo rapporto, insieme a molti altri, evidenzia ancora una volta le violazioni dei diritti che si verificano quotidianamente alle frontiere europee.

      I respingimenti e la brutalità della polizia sono di fatto uno strumento per la gestione delle frontiere, l’impunità è la norma e le vie della giustizia per le vittime sono scarse o inesistenti.

      Sulla base di un imperativo umanitario – che mira a salvare vite umane – negli ultimi anni, molte persone e organizzazioni umanitarie hanno sostenuto le persone in movimento. Mentre alcuni hanno contribuito a fornire l’accesso ai servizi di base, tra cui cibo, alloggio e assistenza medica, altri hanno intrapreso azioni legali per contestare le violazioni dei diritti alle frontiere dell’UE. Alcuni Stati membri europei hanno iniziato o continuano a criminalizzare coloro che forniscono assistenza, con l’obiettivo di porre fine alla solidarietà con le persone in movimento. In alcuni Paesi europei questa situazione si è ulteriormente aggravata, prendendo di fatto di mira i difensori dei diritti umani. Salvare vite umane non è solo un dovere morale, è un obbligo legale nel diritto internazionale dei diritti umani.

      https://www.asgi.it/primo-piano/le-sistematiche-violazioni-dei-diritti-umani-ai-confini-europei-vi-report-della

      #Protecting_Right_At_Border

  • Surge in arms imports to Europe, while US dominance of the global arms trade increases

    Imports of major arms by European states increased by 47 per cent between 2013–17 and 2018–22, while the global level of international arms transfers decreased by 5.1 per cent. Arms imports fell overall in Africa (–40 per cent), the Americas (–21 per cent), Asia and Oceania (–7.5 per cent) and the Middle East (–8.8 per cent)—but imports to East Asia and certain states in other areas of high geopolitical tension rose sharply. The United States’ share of global arms exports increased from 33 to 40 per cent while Russia’s fell from 22 to 16 per cent, according to new data on global arms transfers published today by the Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).


    https://www.sipri.org/media/press-release/2023/surge-arms-imports-europe-while-us-dominance-global-arms-trade-increases

    #armes #commerce_d'armes #armement #rapport #SIPRI #2022 #statistiques #chiffres

    • S’impenna l’import di armi in Europa. Gli Stati Uniti dominano il commercio globale

      Nel quinquennio 2018-2022 le importazioni di armi in Europa sono cresciute del 47%, mentre a livello globale è stata registrata una diminuzione del 5,1%. Gli Stati Uniti si confermano il primo esportatore nel mondo, assorbendo il 40% del mercato, la Russia, con il 16%, è staccata. I nuovi dati del Sipri e il ruolo della guerra in Ucraina

      La guerra russa in Ucraina ha spinto il trasferimento internazionale di armamenti e rilanciato la corsa europea al riarmo: nel 2022 Kiev è diventata il terzo maggiore importatore e il quattordicesimo nel quinquennio 2018-2022. È quanto emerge dal report “Trends in international arms transfers, 2022” pubblicato a marzo dall’Istituto indipendente di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri) e che evidenzia come, a fronte di un calo globale del trasferimento di armamenti (-5,1% rispetto al quinquennio 2013-2017), l’Europa registri invece un aumento del 47%. Con punte del 65% nei Paesi membri della Nato. Oltre all’Ucraina, nel continente i principali acquirenti sono il Regno Unito (che a livello globale si attesta al tredicesimo posto) e la Norvegia. Quasi il 60% di sistemi d’arma acquistati in Europa sono stati esportati dagli Stati Uniti, al secondo posto si piazza la Russia, con il 5,8% (l’export di Mosca, tuttavia, è limitato alla Bielorussia). “Anche se i trasferimenti di armi sono diminuiti a livello globale, quelli verso l’Europa sono aumentati notevolmente a causa delle tensioni tra la Russia e la maggior parte degli altri Stati europei -ha spiegato Pieter D. Wezeman, ricercatore senior del Programma trasferimenti di armi del Sipri-. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i Paesi europei vogliono dunque importare più armi e più velocemente. Ma la competizione strategica continua anche altrove: le vendite di armamenti verso l’Asia orientale sono aumentate e quelle verso il Medio Oriente restano a un livello elevato”.

      Secondo le analisi del Sipri a livello globale le spese militari sono in crescita dal 2013 e nel 2021 (ultimo anno per cui ci sono dati disponibili) e hanno superato la soglia record dei duemila miliardi di dollari (2.113) un valore quasi raddoppiato rispetto a quello raggiunto a fine anni Novanta. In parallelo, però, i trasferimenti di armi sono calati del 5,1% a livello mondiale. A diminuire il proprio import nel periodo 2018-2022 rispetto ai cinque anni precedenti sono stati soprattutto i Paesi dell’Africa (-40%), delle Americhe (-21%), dell’Asia e dell’Oceania (-7,5%) e in Medio Oriente (-8,8%). Mentre a livello locale la vendita di armi è aumentata verso i Paesi coinvolti in scontri e tensioni geopolitiche, come in Ucraina, in Corea del Sud o Giappone.

      Nel periodo 2018-2022 gli Stati Uniti hanno aumentato il proprio peso sul mercato globale passando dal 33% al 40%. Mentre la quota di mercato del secondo grande produttore, la Russia, è passata dal 22% al 16%: negli ultimi cinque anni il Paese ha registrato un calo delle vendite di sistemi d’arma, principalmente a causa del conflitto in Ucraina, e il suo divario verso la Francia (il terzo esportatore globale) si è ridotto. Gli Stati Uniti hanno aumentato i propri trasferimenti del 14% negli ultimi cinque anni rispetto al quinquennio precedente. La Russia, invece, ha diminuito il proprio export del 31%, passando dal 22% al 16% del mercato: dieci dei suoi otto maggiori partner, in particolare l’India, hanno ridotto gli acquisti dal Pese, in controtendenza solo Cina ed Egitto. “È probabile che l’invasione dell’Ucraina limiti ulteriormente le esportazioni militari di Mosca. Questo perché darà la priorità al rifornimento delle proprie forze armate e la domanda da parte di altri Stati rimarrà bassa a causa delle sanzioni commerciali e delle crescenti pressioni da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati per non finanziare i russi”, ha aggiunto Wezeman.

      In parallelo la Francia ha aumentato le proprie esportazioni militari del 44%, dirette soprattutto verso Asia, Oceania e Medio Oriente. L’India, in particolare, ha ricevuto il 30% delle armi vendute da Parigi. “Questa tendenza sembra destinata a continuare, dato che alla fine del 2022 la Francia aveva un numero di ordini in sospeso per l’esportazione di armamenti di gran lunga superiore a quello della Russia”, sottolinea ancora il Sipri.

      Gran parte della corsa al riarmo è stata causata dalla guerra in Ucraina. Ad esempio, tra il 2018 e il 2021 il principale ordine di armamenti da parte della Polonia comprendeva 32 aerei militari e quattro sistemi difensivi terra-aria dagli Stati Uniti. Ma nel 2022 Varsavia ha annunciato l’acquisto di 394 tank, 96 elicotteri da combattimento e 12 sistemi difensivi dagli Usa oltre a mille carri armati e 48 aerei dalla Corea del Sud. La Germania, invece, ha acquistato a fine 2022 35 bombardieri progettati per il trasporto di testate nucleari tattiche e che sostituiranno i precedenti modelli (ne abbiamo scritto a dicembre).

      L’Italia è al 28esimo posto a livello globale per le importazioni di sistemi d’arma, che acquista quasi esclusivamente dagli Stati Uniti (92%) e ha diminuito i trasferimenti del 41%. In nostro Paese, però, è uno dei principali produttori, al sesto posto (con una quota di mercato del 3,8%) e un incremento del 45% rispetto alla media del periodo 2012-2017: Qatar (24% delle vendite), Egitto (23%) e Turchia (12%) sono le prime tre destinazioni delle armi prodotte in Italia. E secondo le analisi del Sipri, le vendite italiane continueranno a crescere: a fine 2022, infatti, Roma aveva ordini in sospeso per 115 aerei ed elicotteri da combattimento, nove navi da guerra e 1.703 veicoli corazzati.

      “A causa delle preoccupazioni sul fatto che la fornitura di aerei da combattimento e missili a lungo raggio avrebbe potuto aggravare ulteriormente la guerra in Ucraina, gli Stati della Nato hanno rifiutato le richieste del Paese nel 2022. Allo stesso tempo, però, hanno fornito tali equipaggiamenti ad altri Stati coinvolti in situazioni di conflitto, in particolare in Medio Oriente e nell’Asia meridionale”, segnala poi il Sipri.

      A livello globale i maggiori importatori restano Asia e Oceania, che hanno ricevuto il 41% dei trasferimenti di armamenti, in queste due regioni infatti si trovano sei dei dieci maggiori acquirenti a livello globale: Australia, Cina, Corea del Sud, Pakistan, India e Giappone. Nell’area le importazioni sono state spinte verso l’alto dalle tensioni tra Corea del Nord e del Sud oltre che dal confronto tra Cina e Giappone. Tra il quinquennio 2013-2017 e il 2018-2022 Seoul ha aumentato del 61% i propri acquisti di sistemi d’arma e mentre nello stesso periodo Tokyo ha registrato un impressionante +171%. Infine l’Australia le ha aumentate del 23%. Anche le tensioni geopolitiche tra India e Pakistan hanno fatto crescere gli acquisti militari di entrambi i Paesi. L’India, nonostante un calo del 10%, rimane il maggior importatore a livello globale mentre il Pakistan risulta all’ottavo posto ricevendo per la maggior parte materiale di fabbricazione cinese.

      In Medio Oriente vi sono tre dei maggiori importatori di materiale bellico, Egitto, Qatar (i due più importanti partner dell’Italia) e l’Arabia Saudita, il secondo acquirente globale dopo l’India. L’Arabia Saudita, sempre tra 2018 e 2022, ha ricevuto 91 aerei da guerra e più di 20mila bombe guidate dagli Stati Uniti. Il Qatar ha quadruplicato le sue importazioni negli ultimi cinque anni, in particolare da Stati Uniti e Italia. Il Paese ha comprato 36 cacciabombardieri dalla Francia e altrettanti dagli Stati Uniti, oltre a tre fregate dall’Italia.

      https://altreconomia.it/simpenna-limport-di-armi-in-europa-gli-stati-uniti-dominano-il-commerci

  • Non si fermano le riammissioni al confine tra Italia e Austria

    Scarsa informativa legale, assenza di mediatori, mancanza di provvedimenti scritti: al Brennero l’attività delle polizie dei due Paesi nega i diritti alle persone in transito. Le Ong denunciano le violazioni e chiedono la fine dei controlli

    Brennero, primi giorni dell’anno 2023. Un operatore del servizio Assistenza umanitaria al Brennero -gestito dal Gruppo Volontarius in collaborazione con la Caritas di Bolzano-Bressanone- attende l’arrivo del treno regionale da Innsbruck al binario tronco Nord. Di solito, quando incontra un migrante in transito gli si avvicina per un primo orientamento legale sulle normative riguardo l’iter di protezione internazionale e la regolare permanenza sul territorio. Ma in presenza delle forze dell’ordine la sua possibilità di intervento è più limitata. “In quel caso è molto difficile avvicinarsi attivamente alle persone per dare informazioni. La possibilità di presentare richiesta d’asilo non viene menzionata dalle forze dell’ordine, che si limitano a far salire le persone intercettate sul primo treno regionale diretto in Austria, se la persona proviene da lì, o in Italia se sta tentando il percorso inverso”, spiega l’operatore.

    È quello che accade dopo la perquisizione dell’Eurocity 81 delle dieci, proveniente da Monaco di Baviera e diretto a Bologna. All’arrivo del treno le forze dell’ordine italiane operano secondo una prassi ben consolidata, con l’impiego di sette agenti di polizia e tre militari. In otto salgono a bordo del treno e procedono con il controllo delle carrozze, mentre due militari restano sul binario seguendo il percorso dei loro colleghi all’interno. L’operazione dura meno di dieci minuti. Due cittadini pakistani vengono fatti scendere. Senza un servizio di mediazione che permetta loro di comprendere quanto stia accadendo, né la consegna di alcun provvedimento, i due vengono scortati al binario tronco Nord. Qui sono sorvegliati a vista da due agenti di polizia e due militari. All’arrivo del regionale proveniente da Innsbruck vengono caricati sul convoglio che dopo cinque minuti riparte in direzione Nord.

    Ogni giorno al Brennero circolano dieci Eurocity della compagnia austriaca ÖBB: cinque percorrono la tratta Bologna-Monaco, gli altri viaggiano in direzione opposta. Al Brennero rimangono fermi quindici minuti. In questo lasso di tempo le forze dell’ordine italiane entrano in azione. Sui treni Eurocity diretti a Monaco, inoltre, tre agenti della polizia austriaca salgono sul convoglio già al Brennero. Si posizionano in coda e procedono con i controlli appena varcato il confine. Le persone sprovviste di un regolare titolo di soggiorno sul territorio austriaco vengono fatte scendere alla prima stazione, Gries am Brenner, e lì, dopo una rapida perquisizione -e in alcuni casi una multa da cento a mille euro che si traduce nel sequestro di soldi e spesso del telefono cellulare, una pratica consentita dalla normativa sull’immigrazione austriaca (articolo 120, par. 1 e 1a del Fremdenpolizeigesetz)- vengono caricate sui furgoni della gendarmeria e riportati subito in Italia.

    Le modalità di controllo sistematiche mostrano che le polizie italiana e austriaca sono particolarmente attente nel colpire i movimenti secondari dei migranti su questa striscia di confine. “Nei mesi invernali le persone soggette a riammissione dall’Italia verso l’Austria e nella direzione opposta sono in media dieci al giorno”, spiega Manocher Moqimi, referente del servizio Assistenza umanitaria al Brennero. Mentre il “Consuntivo della Polizia ferroviaria 2022” rivela che lo scorso anno “le attività svolte in forma congiunta con le polizie austriaca e tedesca lungo le fasce confinarie di Brennero e Tarvisio, hanno permesso di controllare 4.474 stranieri, di cui 949 rintracciati in posizione irregolare”.

    Le riammissioni lungo il confine del Brennero avvengono sulla base dell’accordo bilaterale sottoscritto da Italia e Austria il 7 novembre 1997. Matteo Astuti, operatore legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi), spiega che “le riammissioni dovrebbero essere effettuate secondo le procedure previste dall’accordo tra i due Paesi, che comprendono sempre la notifica di un provvedimento scritto alle persone soggette a riammissione, il diritto all’informazione e a poter manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale”. Quando questi diritti non vengono rispettati la procedura di riammissione si configura come illegittima. Come sottolineato dal report “Lungo la rotta del Brennero”, pubblicato da Antenne migranti, Fondazione Langer e Asgi già nel 2017, le riammissioni informali al Brennero avvengono in contrasto con l’articolo 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché attuate “sulla base di decisioni delle autorità di frontiera non scritte, in nessun modo formalmente notificate […] e in alcun modo contestabili e impugnabili di fronte alle autorità giurisdizionali astrattamente competenti”.

    Particolarmente problematico poi è il tema dei controlli effettuati dalle forze di polizia. Italia e Austria hanno ripristinato formalmente quelli sulle rispettive frontiere solo nel periodo tra novembre 2015 e maggio 2016, e pertanto “la presenza di controlli sistematici alle frontiere interne viola l’articolo 22 del Codice Schengen che non prevede ‘verifiche’ per chi attraversa la frontiera qualunque sia la sua nazionalità”, chiarisce Astuti. Al Brennero, inoltre, il diritto all’informazione viene costantemente leso. Il servizio di mediazione, che dovrebbe essere garantito dagli accordi tra il governo italiano l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) è assente. A volte gli operatori di Assistenza umanitaria al Brennero sono chiamati dalle forze di polizia a svolgere la mediazione, visto che alcuni collaboratori del servizio conoscono lingue quali l’arabo e il farsi. Limitandosi a raccogliere informazioni da tradurre, però, gli enti di tutela corrono il rischio di essere strumentalizzati dalla pubblica autorità per giustificare una pratica eseguita in maniera illegittima.

    Per ovviare a situazioni come queste Asgi ha iniziato un ciclo di formazioni per gli operatori del servizio del Brennero. “In questo modo possono disporre di più strumenti per comprendere quando la polizia di frontiera agisce in maniera illegittima”, spiega l’operatore legale che auspica anche il ripristino di un’attività di monitoraggio indipendente, nel solco delle precedenti esperienze “Brenner/o border monitoring” e “Antenne migranti” -operative rispettivamente dal 2014 al 2016 e dal 2016 al 2020- per testimoniare quanto accade su questa frontiera e denunciare le violazioni dei diritti delle persone migranti. “Le persone cercheranno sempre di passare: chi non ce la fa la prima volta spesso ci riprova ancora e ancora -afferma l’operatore del Gruppo Volontarius-. Forse all’ennesimo tentativo riuscirà a varcare la frontiera. Ma in che modo e a quale prezzo?”.

    https://altreconomia.it/non-si-fermano-le-riammissioni-al-confine-tra-italia-e-austria

    #frontière_sud-alpine #Brenner #Italie #Autriche #réadmission #push-backs #refoulements #Alpes #migrations #asile #réfugiés

  • Scarsa programmazione, posti vuoti e persone al freddo: così ai migranti è negata l’accoglienza

    I Centri di accoglienza straordinaria non garantiscono abbastanza posti, nel frattempo il Sistema di accoglienza e integrazione di secondo livello ha oltre 1.600 “letti” disponibili e finanziati ma non utilizzati. Mentre il ministero dell’Interno ammette l’assenza di programmazione, centinaia di persone dormono ancora all’addiaccio.

    Posti vuoti, scarsa programmazione, incapacità di intervenire a fronte dell’emergenza. Mentre diversi tribunali cominciano a richiamare all’ordine prefetture e questure per le procedure illegittime nel fornire un “tetto” e i documenti ai richiedenti asilo, dati aggiornati raccolti da Altreconomia fotografano le inefficienze del sistema di accoglienza italiano per richiedenti asilo e rifugiati.

    Da un lato, da luglio a novembre 2022 si registra nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) un’improvvisa diminuzione dei posti a disposizione senza alcun intervento da parte dell’amministrazione per aumentare la capienza; dall’altro, centinaia di posti “vuoti” nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), pensato come “secondo livello” di intervento e trampolino per l’autonomia delle persone. A prescindere da quale sia il sistema, dai dati emerge chiaramente la scarsa programmazione da parte del ministero dell’Interno. “È come se in una scuola non si sapesse dove sono le aule, quanti banchi vuoti ci sono, quante sedie mancano. E magari, di fronte al bisogno, si scopre che un’intera aula era libera ma chiusa nell’attesa che, senza un motivo razionale, arrivasse qualcuno ad aprirla. La politica, sul tema dell’accoglienza, sceglie volontariamente di non intervenire”, spiega Michele Rossi, direttore generale del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma.

    Andiamo con ordine. Tra i posti finanziati e quelli effettivamente attivati nel sistema Sai c’è una differenza molto ampia: all’ottobre 2022 a fronte di 44.591 posti finanziati erano 35.291 quelli attivi. Questa forbice deriva dal fatto che non sempre i Comuni riescono ad attivare tutti i posti per cui avevano fatto domanda e ottenuto il finanziamento, soprattutto per la difficoltà a reperire gli alloggi (qui i dati integrali). Oltre a questa differenza si aggiunge il fatto che anche i posti disponibili non sono tutti riempiti. I “vuoti”, quello stesso mese di ottobre 2022 in cui gli effettivamente disponibili risultavano essere oltre 35mila, erano oltre 1.600 di ottobre (in lieve calo rispetto agli oltre 2.300 del gennaio di un anno fa). Quello di 1.600 posti vuoti nel Sai è un dato rilevante, trattandosi di un sistema che a regime dovrebbe risultare sempre saturo. Come è rilevante il fatto che i posti vuoti, oltre che nel Sai ordinario, sono presenti anche nei progetti dedicati al “disagio mentale e all’assistenza sanitaria specialistica e prolungata” (Dm-Ds), cioè quelli messi a disposizione dei più vulnerabili. Su un totale di 751 posti attivi, sempre a ottobre 2022, solo 598 erano occupati con una disponibilità di oltre 140 posti.

    Mancano le richieste? Tutt’altro, diversi operatori dell’accoglienza sentiti da Altreconomia raccontano altro rispetto all’inserimento nel sistema Sai. Ma il dato delle richieste effettuate e rimaste inevase dagli operatori non è purtroppo quantificabile. Il Servizio centrale, che gestisce il Sai in seno al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, ci ha risposto infatti che il numero di richieste di inserimento non è nella disponibilità degli uffici. “Un paradosso. Con quale criterio le persone vengono inserite? -si chiede Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Mancano procedure standard e criteri di accesso al sistema che permettano di definire un procedimento che abbia le remote sembianze di quello amministrativo. Il minimo sarebbe la registrazione della richiesta e una risposta, positiva o negativa che sia. Se non è possibile avere il numero delle segnalazioni, invece, il tutto sembra lasciato al caso. Assomigliando di più a una sorta di sistema privato, non tenuto necessariamente a rispondere a logiche di equità, alimentato però da risorse pubbliche”. Anche la “popolazione” di coloro che a oggi occupano il sistema Sai è un dato rilevante.

    Nel 2022 il 24% di chi è stato accolto è richiedente asilo, il 25% titolare di status di rifugiato, il 18% un minore non accompagnato, il 4% è titolare di un documento per “casi speciali”, il 4% per motivi familiari e così via. “Un grosso contenitore che ci racconta di come i servizi sociali territoriali ‘usino’ il Sai per collocare persone di cui non vogliono occuparsi”, sottolinea ancora Schiavone. Il numero di cittadini ucraini presenti nel sistema è relativamente basso: a novembre 2022 circa 3.100, il 14% del totale.

    La disponibilità di posti nel Sai aggiunge un tassello in più rispetto a quanto ricostruito nell’inchiesta pubblicata nel dicembre 2022 su Altreconomia. Concentrandoci sul sistema dei Cas abbiamo raccontato come, nel periodo tra gennaio e giugno dello scorso anno, ai richiedenti asilo che provenivano dalla rotta balcanica venisse negato l’inserimento nei centri nonostante la disponibilità di posti su tutto il territorio nazionale (stimati in circa 9mila). Centinaia di persone dormivano in strada. La “scusa” da parte delle prefetture, allora, era l’assenza di posti, ufficialmente, e “ufficiosamente” una quota di “riserva” da tenere per chi proveniva dagli sbarchi. Abbiamo così chiesto i dati aggiornati al ministero dell’Interno (qui i dati integrali) anche in relazione alla comunicazione del 5 dicembre 2022 con cui, sempre il Dipartimento per le libertà civili, dichiarava di sospendere i trasferimenti per il regolamento di Dublino a causa della “mancanza di posti in accoglienza”.

    I dati aggiornati ottenuti dimostrano che ancora a luglio 2022, nonostante in diversi territori si lamentasse una mancanza di posti, le disponibilità c’erano: quasi 4mila se si considerano i “posti disponibili”, più di 7.600 se si prende in considerazione la differenza tra i “posti in convenzione”, sempre forniti dal ministero, e le presenze. Diversi operatori che operano all’interno dei Centri non hanno saputo fornire una spiegazione di questa differenza così ampia. A prescindere da quale dato si prenda in considerazione, la forbice diminuisce fino ad arrivare, a novembre 2022, rispettivamente a 1.311 disponibilità e 2mila in convenzione. “La diminuzione dei posti è solo in parte spiegabile attraverso l’aumento delle presenze che passano da circa 59.500 a 67.500 in sei mesi -osserva Rossi-. C’è infatti un’incongruenza nei dati forniti da Roma perché non ‘tornano’ rispetto a quanto si osserva sui territori”. Il direttore del Ciac prende come esempio quanto si verifica in Toscana: si passa da circa 2.800 nel primo semestre 2022 a 5.400 presenze nel secondo, stando ai dati forniti dal ministero ma a livello locale questo aumento si ferma a 3.500. Lo stesso succede in Emilia-Romagna: da 2.200 (gennaio-giugno) a 7mila (luglio-novembre), un dato che da indagini sul territorio si ferma a 4.800. “Questo potrebbe significare due cose: i dati erano ‘mal censiti’ prima di luglio, oppure non c’è uniformità nel contare le presenze e i posti disponibili. E quindi i dati raccolti dalle singole prefetture sono difformi rispetto a quelli inviati dal Servizio centrale”.

    A prescindere dalla incongruità dei dati, secondo Schiavone la “mancanza di programmazione è lampante ed evidente”. “Nell’estate il governo pur sapendo che il sistema si stava saturando non ha fatto nulla. Così dal 20% dei posti vuoti tenuti come ‘riserva’ si passa allo ‘zero’”. Uno zero che significa persone per molti giorni abbandonate per strada: da Torino a Trieste passando per Ancona, Parma e Milano. Una “scusa” -l’assenza di posti- non prevista a livello normativo, dato che la legge costringe le istituzioni ad attivare soluzioni d’emergenza per collocare immediatamente le persone in accoglienza. Infatti le pronunce dei giudici chiamati ad esprimersi sul tema -numerose nelle ultime settimane- specificano l’obbligo delle amministrazioni di fornire accoglienza ai richiedenti asilo che formalizzano la propria richiesta in questura. Non a caso il Tribunale di Bologna, a metà gennaio 2023, ha dato torto alla questura e alla prefettura di Parma imponendogli di garantire l’accesso alla richiesta d’asilo e ai centri di accoglienza.

    Un altro tassello fondamentale continua a essere la mancanza di trasferimenti sul territorio nazionale. A Trieste, sul confine orientale, per esempio, l’alto numero di persone presenti in città nasce anche dall’assenza di ricollocamenti dei richiedenti asilo in altre città. Ritorna quanto detto precedentemente: durante la prima fase della nostra inchiesta abbiamo raccontato come gli uffici territoriali del governo più volte rispondevano informalmente a chi chiedeva l’inserimento nei Cas di “tenere liberi” i posti per chi arrivava via mare (o via terra, da altre città). La prefettura di Bolzano ha citato sotto questo aspetto il “Piano nazionale di accoglienza” elaborato dal ministero dell’Interno come “documento” che chiariva quante persone sarebbero state trasferite nei centri di sua competenza. Questo piano è previsto dalla normativa (il decreto legislativo 142 del 2015 che regola la materia), di cui abbiamo chiesto conto al dipartimento competente. Ci è stato risposto che “le quote vengono di volta in volta ripartite tra le diverse prefetture anche in base ai posti disponibili”. Altro che programmazione: il Piano formalmente non esiste. “O il ministero non programma affatto, oppure non vuole dire pubblicamente quali criteri segue. In entrambi i casi è molto grave: non c’è una politica di redistribuzione o un sistema di progressivo riempimento. Il sistema tiene posti liberi per mesi e poi si satura in breve tempo. Significa, tra l’altro, non ottimizzare neanche le risorse disponibili”, sottolinea Schiavone.

    Sia sul sistema dei Cas sia sul Sai si registrano quindi scarsa trasparenza e una gestione carente a livello centrale. “Non avere una mappatura, un controllo di gestione è ben più grave che non riuscire a mettere in convenzione nuovi posti con le prefetture. I dati non sono stabili, difficilmente leggibili e ci raccontano dell’immobilità politica sul tema. Nessuno vuole portare a regime alcun sistema di accoglienza”. Intanto, le persone, aspettano al freddo. E il governo può ripetere il ritornello della saturazione e dell’invasione.

    https://altreconomia.it/scarsa-programmazione-posti-vuoti-e-persone-al-freddo-cosi-ai-migranti-
    #accueil #hébergement #Italie #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans_solution #Centri_d'accoglienza_straordinaria (#CAS) #statistiques #chiffres #2022 #sistema_di_accoglienza_e_integrazione (#SAI) #plein #vide #places_vides #places_vacantes

  • La criminalizzazione dei presunti “scafisti”, capro espiatorio dei flussi “irregolari”

    Secondo quanto ricostruito da Arci Porco Rosso e Borderline Europe sono almeno 264 i “capitani” delle navi arrestati nel 2022. Persone che spesso hanno poco a che fare con le organizzazioni violente che i migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio: le Ong denunciano processi sommari che non rispettano i diritti degli imputati.

    Nel 2022 sono state arrestate almeno 264 persone in seguito agli sbarchi sulle coste italiane con l’accusa di essere scafisti. Ma secondo Arci Porco Rosso e Borderline Europe, due Ong attive nella tutela delle persone migranti, queste persone “hanno poco o nulla a che fare con organizzazioni e gruppi violenti che le persone migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio”. A inizio gennaio 2023 le organizzazioni hanno pubblicato dati aggiornati come prosieguo della ricerca “Dal mare al carcere” che nell’ottobre 2021 aveva “svelato” il ruolo spesso marginale di coloro che si ritrovano a guidare la barca diretta verso le coste europee, senza un ruolo attivo nell’organizzazione del viaggio. “Si sente forte la volontà politica di continuare a criminalizzare i cosiddetti scafisti come capro espiatorio dell’immigrazione irregolare -spiega Maria Giulia Fava, operatrice legale di Arci Porco Rosso-. Vengono confusi con le organizzazioni criminali quando, nella realtà, sono semplicemente migranti che si mettono al timone delle navi sotto minaccia o per non pagare il viaggio. Altri, invece, ricevono anche delle somme di denaro: al di là delle modalità, il punto è che per loro guidare quella barca è l’unico modo per raggiungere l’Europa”.

    Il dato sui 264 arresti è probabilmente una stima al ribasso perché si basa su quanto riportato da articoli della stampa locale. Nel 2021 le due organizzazioni spiegano che avevano ricostruito 171 fermi a fronte dei 225 poi rivendicati dalla Polizia di Stato nel report annuale. Seguendo questa proporzione si arriverebbe a circa 350 persone coinvolte nel 2022. Un dato che trova conferma anche rispetto alla “proporzione” con le circa 105mila persone sbarcate lo scorso anno: un fermo ogni 300, simile al dato del 2021 e a quello relativo al periodo 2014-2017. Molto diverse invece rispetto a quel periodo le nazionalità delle persone arrestate. Negli anni successivi all’apertura della rotta libica circa un quarto dei fermi proveniva dall’Africa occidentale, nel 2022 meno di dieci. Aumentano invece i “capitani” arrestati originari del Nord-Africa (118 fermi nel 2022 a fronte di 61 nel 2021) soprattutto dell’Egitto. Questo è dovuto anche all’aumento degli arrivi da parte di cittadini egiziani (18.285 contro gli 8.576 dell’anno precedente). Calano invece i fermi per i cittadini ucraini: nel 2022 solamente 9 a fronte dei 32 dell’anno precedente. Gli skipper ucraini storicamente “sono stati fondamentali per l’arrivo delle persone che partono dalla Turchia, in quanto marinai esperti che sanno condurre una barca a vela durante la settimana di viaggio che occorre per attraversare il mar Egeo e giungere fino alle coste italiane”. “Probabilmente lo scoppio del conflitto e l’obbligo per gli uomini di rimanere nel Paese ha causato la diminuzione della loro presenza sulle navi”, osserva Fava. Ma l’importanza della rotta orientale, confermata anche dati sugli sbarchi, si è comunque intensificata. Sono raddoppiati così gli arresti di cittadini turchi (52 contro 24 nel 2021) e russi (sette nel 2021, 14 nel 2022) ma anche di persone provenienti dal continente asiatico: bangladesi, siriani ma anche cittadini del Kazakistan o del Tagikistan.

    Arci Porco Rosso nel 2022 è entrata in contatto con 84 persone, di cui 54 sono in carcere. Quasi la metà di persone originarie da Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia. Tra le persone seguite ci sono anche due donne detenute, una proveniente dalla Russia e l’altra dall’Ucraina. “Seguiamo sia chi è già uscito dal carcere e incontra grossi ostacoli nella regolarizzazione della sua posizione: le condanne per favoreggiamento dell’immigrazione ‘clandestina’ sono ostative per il rilascio del permesso di soggiorno”, spiega Fava. L’Ong segue poi anche coloro che sono ancora sotto processo garantendo un supporto sia nei rapporti con gli avvocati difensori, sia per cercare di far comprendere al meglio cosa sta succedendo e chi invece sta scontando la pena nelle strutture detentive. “Diventiamo un orecchio per i loro pensieri e una voce per le loro richieste, mano a mano che si avvicina il fine pena cerchiamo di capire come evitare che vengano poi tradotti direttamente nei Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr) una volta usciti dal carcere”. Proprio con riferimento ai Cpr, nell’aggiornamento pubblicato a metà gennaio si racconta il caso di un “capitano” del Biafra, richiedente asilo, rimpatriato in Nigeria prima di poter essere ascoltato dal giudice. “Abbiamo notizia di molti capitani tunisini a cui è toccata la stessa sorte -si legge nel documento-. Purtroppo a volte neanche una sentenza di assoluzione evita il Cpr: è quello che è successo ad un cittadino libico, scagionato da ogni accusa, che dopo anni di integrazione in Italia si è visto arbitrariamente trattenuto perché ritenuto socialmente pericoloso per lo stesso reato per cui era stato assolto. Uno stigma che si traduce in una vera e propria persecuzione”.

    Una persecuzione che “nasce” da procedimenti penali in cui secondo Fava “non vengono applicate le tutele processuali previste dalla normativa”. Diverse sentenze hanno riconosciuto il cosiddetto “stato di necessità” ad alcuni imputati che erano stati accusati di aver guidato l’imbarcazione dalla Libia verso l’Italia: da un lato perché è noto il modus operandi delle organizzazioni libiche, dall’altro perché veniva dimostrato che la persona era stata costretta a prendere in mano il timone. “Il problema però sta proprio nel provare questo elemento -spiega l’operatrice legale-. Spesso i giudici si accontentano di dichiarazioni assunte in modo approssimativo dalla polizia a seguito dello sbarco. Vengono sentite 2/3 persone con domande che non approfondiscono il contesto e non così specifiche. Poi questi testimoni diventano irreperibili, non vengono chiamati a processo e l’unico modo per la difesa per dimostrare l’innocenza dell’imputato è rintracciare gli altri passeggeri presenti sull’imbarcazione. Non è facile”. Succede poi che molti difensori d’ufficio accedono ai riti abbreviati, per avere uno sconto sulla pena. Ma questo comporta il non poter arrivare a un’assoluzione portata dal chiarire quello che è successo.

    Le condanne agli “scafisti” sono però importanti a livello politico. Come raccontato nel nostro libro “Respinti“, la lotta ai trafficanti non è nient’altro che la “foglia di fico” dietro cui nascondere politiche che hanno come unico obiettivo bloccare le persone in movimento. Giulia Serio, analista presso l’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine (Unodc), con specifico riferimento ai “capitani” delle navi accusati di favoreggiamento dell’immigrazione “clandestina” ha spiegato su Altreconomia come “sempre più studiosi sottolineano l’abuso della posizione di una vulnerabilità in cui la persona si è trovata nel momento in cui ha compiuto questo ‘reato’: salvare la sua vita, oltre che quella degli altri. E questa la rende potenzialmente una vittima di tratta ai fini dello sfruttamento in attività criminale”. Una via che i legali di Arci Porco Rosso stanno seguendo su un caso di 14 persone arrestate e poi assolte proprio per “stato di necessità”. “Vogliamo fare richiesta di protezione internazionale per loro e chiedere che vengano riconosciute proprio come vittime di tratta in quanto persone obbligate a compiere un’azione illecita”, conclude Fava.

    La presidente del Consiglio Giorgia Meloni a metà novembre 2022, riferendosi all’atteggiamento dell’Unione europea sul tema della “gestione” dei confini, è stata chiara: “Potrebbe scegliere di isolare l’Italia, io penso che sarebbe meglio isolare gli scafisti”. “Affermazioni odiose che alimentano la demonizzazione di chi non fa altro che condurre oltre la frontiera imbarcazioni di persone in fuga -sottolineano i curatori del report– cercando di imporre nuovamente la figura dello scafista al centro della conversazione, come capro espiatorio universale a cui si possa addossare la responsabilità della morte e della violenza che avviene alla frontiera marittima italiana”.

    https://altreconomia.it/la-criminalizzazione-dei-presunti-scafisti-capro-espiatorio-dei-flussi-

    #Italie #scafisti #criminalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #Méditerranée #Mer_Méditerranée #criminalisation_de_la_migration #statistiques #chiffres #2022

  • E. Macron : 6 ans d arnaques et de pipeau- L’En Dehors
    http://endehors.net/news/e-macron-6-ans-d-arnaques-et-de-pipeau

    E. Macron : 6 ans d arnaques et de pipeau ➡️ https://t.co/ZLVDbW34sp 6 ans après son arrivée à l’Élysée, #Macron nous a encore une fois montré qu’il n’est pas à la hauteur de ses promesses. #Pipeau #2022 #Politique @vivelefeu pic.twitter.com/a9SCw1qCp4 BLAST, Le souffle de l’info (...) @Mediarezo Actualité / #Mediarezo

  • Yemen, Afghanistan, Somalie… Comment lutter contre la famine qui s’étend ?
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/l-invite-e-des-matins/yemen-afghanistan-somalie-comment-lutter-contre-la-famine-qui-s-etend-90

    Alors que la Somalie fait face à un risque de famine au cours de l’année 2023, la situation alimentaire dans le monde soulève des inquiétudes. Des personnes, victimes de la guerre ou du changement climatique, continuent de mourir de faim.
    Avec

    Roland Marchal Chercheur à Sciences Po Paris
    Jean-François Riffaud
    Olivier De Schutter Rapporteur spécial de l’ONU sur les droits de l’homme et l’extrême pauvreté

    https://media.radiofrance-podcast.net/podcast09/22076-20.12.2022-ITEMA_23232980-2022C16450S0354-21.mp3

  • Rapporto Migrantes : +87% dei giovani italiani che « emigrano ». Mattarella : « Serve una riflessione »"

    Il rapporto «Italiani nel Mondo» presentato oggi dice che, nonostante la pandemia, la mobilità italiana è cresciuta. Mattarella: «Chi lascia il nostro Paese lo fa per necessità e non per libera scelta, non trovando in Italia un’occupazione adeguata»

    L’onda lunga della pandemia ha frenato la mobilità italiana, ma non ha impedito ai giovani italiani di partire e segnare una percentuale alta nella cosiddetta «fuga dei cervelli» con un + 87%. Italiani partiti soprattutto dal Nord Italia alla volta prevalentemente dell’Europa, mentre è noto che gli italiani del Sud affollano poi gli spazi lasciati vuoti al Nord.

    A sottolineare la tendenza è il «Rapporto Italiani nel Mondo» della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, giunta alla sua XVII edizione.

    "Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani, anagrafico, territoriale e di genere, incentiva il desiderio di estero e soprattutto lo fa mettere in pratica. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione «espatrio».

    "Una mobilità giovanile che cresce sempre più - spiega il dossier - perchè l’Italia ristagna nelle sue fragilità, e ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante (ascensore sociale); continua a mantenere i giovani confinati per anni in «riserve di qualità e competenza» a cui poter attingere, ma il momento non arriva mai. Il tempo scorre, le nuove generazioni diventano mature e vengono sostituite da nuove e poi nuovissime altre generazioni, in un circolo vizioso che dura da ormai troppo tempo".

    «In questa situazione, già fortemente compromessa - si legge ancora -, la pandemia di Covid-19 si è abbattuta con tutta la sua gravità rendendo i giovani italiani una delle categorie più colpite dalle ricadute sociali ed economiche». "È da tempo - annota ancora il rapporto - che i giovani italiani non si sentono ben voluti dal proprio paese e dai propri territori di origine, sempre più spinti a cercar fortuna altrove. La via per l’estero si presenta loro quale unica scelta da adottare per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità, ecc.).

    «E così ci si trova di fronte a una Italia demograficamente in caduta libera». Per quanto riguarda i dati, "al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’Aire sono 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia ha perso in un anno lo 0,5% di popolazione residente (-1,1% dal 2020), all’estero è cresciuta negli ultimi 12 mesi del 2,7% che diventa il 5,8% dal 2020. In valore assoluto si tratta di quasi 154 mila nuove iscrizioni all’estero contro gli oltre 274 mila residenti «persi» in Italia".

    «Il Rapporto fornisce anche quest’anno una fotografia di grande interesse dei flussi migratori che interessano i nostri connazionali», ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio inviato al presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego.

    «A partire sono principalmente i giovani - e tra essi giovani con alto livello di formazione - per motivi di studio e di lavoro. Spesso non fanno ritorno, con conseguenze rilevanti sulla composizione sociale e culturale della nostra popolazione. Partono anche pensionati e intere famiglie», osserva il Capo dello Stato.

    “Il fenomeno di questa nuova fase dell’emigrazione italiana non può essere compreso interamente all’interno della dinamica virtuosa dei processi di interconnessione mondiale, che richiedono una sempre maggiore circolazione di persone, idee e competenze. Anzitutto perché il saldo tra chi entra e chi esce rimane negativo, con conseguenze evidenti sul calo demografico e con ricadute sulla nostra vita sociale. Ma anche perché in molti casi chi lascia il nostro Paese lo fa per necessità e non per libera scelta, non trovando in Italia una occupazione adeguata al proprio percorso di formazione e di studio”.

    E conclude il capo dello Stato «Il nostro Paese, che ha una lunga storia di emigrazione, deve aprire una adeguata riflessione sulle cause di questo fenomeno e sulle possibili opportunità che la Repubblica ha il compito di offrire ai cittadini che intendono rimanere a vivere o desiderano tornare in Italia».

    Il rapporto sottolinea peraltro come quella di oggi sia «una Italia interculturale - si legge nel dossier -in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni)».

    «Negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale».

    https://www.rainews.it/articoli/2022/11/rapporto-migrantes-+87-dei-giovani-italiani-emigrano-mattarella-spesso-non-f
    #émigration #Italie #migrations #solde_migratoire #statistiques #Italie #2022 #rapport #chiffres #démographie

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    ajouté à la métaliste « Les Italiens quittent en masse leur pays, mais on n’en parle pas... »
    https://seenthis.net/messages/762801

    • Rapporto Italiani nel Mondo #Migrantes, mobilità italiana: convivere e resistere nell’epoca delle emergenze globali

      Si era soliti affermare che l’Italia da paese di emigrazione si è trasformato negli anni in paese di immigrazione: questa frase non è mai stata vera e, a maggior ragione, non lo è adesso perché smentita dai dati e dai fatti. Dall’Italia non si è mai smesso di partire e negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale.

      Una Italia interculturale in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni) afferma oggi iol Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes presentato a Roma.

      In generale, la popolazione straniera in Italia è più giovane di quella italiana. I ragazzi nati in Italia da genitori stranieri (“seconde generazioni” in senso stretto) sono oltre 1 milione: di questi, il 22,7% (oltre 228 mila) ha acquisito la cittadinanza italiana. Se ad essi si aggiungono i nati all’estero (245 mila circa) e i naturalizzati (quasi 62 mila), la compagine dei ragazzi con background migratorio supera 1,3 milioni e rappresenta il 13,0% del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni. Una popolazione “preziosa” vista la situazione demografica ogni anno più critica vissuta dall’Italia, caratterizzata da inesorabile denatalità e accanito invecchiamento e considerando il fatto che tra i sogni di queste nuove generazioni vi è sempre più presente quello di vivere in altri paesi del mondo: il 59% degli alunni stranieri delle scuole secondarie, infatti, vorrebbe da grande spostarsi all’estero, un dato molto più alto rispetto ai loro compagni italiani (42%). Per gli stranieri assume rilevanza anche il paese di nascita (proprio o dei propri genitori), che verrebbe scelto come destinazione di vita una volta adulti dall’11,6%. Il 47,7%, però, sceglierebbe un paese diverso sia dall’Italia sia dal paese di origine e gli Stati Uniti sono la meta più desiderata in assoluto.

      Fino a quando l’estero rimane per i giovani e i giovanissimi attualmente residenti in Italia un desiderio, il problema, per il nostro Paese, resta poco grave e circoscritto; la storia nazionale, però, insegna che la mobilità è qualcosa di strutturale per l’Italia e il passato più recente ha visto e vede proprio le nuove generazioni sempre più protagoniste delle ultime partenze. D’altronde non potrebbe essere altrimenti

      considerando quanto la mobilità sia entrata a far parte pienamente dello stile di vita, tanto nel contesto formativo e lavorativo quanto in quello esperienziale e identitario.

      L’Italia sempre più transnazionale

      L’attuale comunità italiana all’estero è costituita da oltre 841 mila minori (il 14,5% dei connazionali complessivamente iscritti all’AIRE) moltissimi di questi nati all’estero, ma tanti altri partiti al seguito delle proprie famiglie in questi ultimi anni. Ai minori occorre aggiungere gli oltre 1,2 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni (il 21,8% della popolazione complessiva AIRE, che arriva a incidere per il 42% circa sul totale delle partenze annuali per solo espatrio).

      Non bisogna dimenticare, infine, tutti quelli che partono per progetti di mobilità di studio e formazione – che non hanno obbligo di registrazione all’AIRE e chi è in situazione di irregolarità perché non ha ottemperato all’obbligo di legge di iscriversi in questo Anagrafe.

      Una popolazione giovane, dunque, che parte e non ritorna, spinta da un tasso di occupazione dei giovani in Italia tra i 15 e i 29 anni pari, nel 2020, al 29,8% e quindi molto lontano dai livelli degli altri paesi europei (46,1% nel 2020 per l’UE-27) e con un divario, rispetto agli adulti di 45-54 anni, di 43 punti percentuali. I giovani occupati al Nord, peraltro, sono il 37,8% rispetto al 30,6% del Centro e al 20,1% del Mezzogiorno. Al divario territoriale si aggiunge quello di genere: se i ragazzi residenti al Nord risultano i più occupati con il 42,2%, le ragazze della stessa fascia di età ma residenti nel Mezzogiorno non superano il 14,7%.

      Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani – anagrafico, territoriale e di genere – incentiva il desiderio di estero e soprattutto lo fa mettere in pratica. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione “espatrio”.

      Una mobilità giovanile che cresce sempre più perché l’Italia ristagna nelle sue fragilità; ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante (ascensore sociale); continua a mantenere i giovani confinati per anni in “riserve di qualità e competenza” a cui poter attingere, ma il momento non arriva mai. Il tempo scorre, le nuove generazioni diventano mature e vengono sostituite da nuove e poi nuovissime altre generazioni, in un circolo vizioso che dura da ormai troppo tempo.

      In questa situazione, già fortemente compromessa, la pandemia di Covid-19 si è abbattuta con tutta la sua gravità rendendo i giovani italiani una delle categorie più colpite dalle ricadute sociali ed economiche.

      La presa di coscienza di quanto forte sia stato il contraccolpo subito dai giovani e dai giovanissimi, già in condizioni di precarietà e fragilità, in seguito all’esplosione dell’epidemia mondiale, è stata al centro della creazione e formalizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e di diverse politiche adottate a livello europeo. Le azioni del PNRR sono volte a recuperare il potenziale delle nuove generazioni e a costruire un ambiente istituzionale e di impresa in grado di favorire il loro sviluppo e il loro protagonismo all’interno della società. Il PNRR è, detto in altri termini, un punto da cui ricominciare per pensare e programmare un futuro diverso, che risponda e valorizzi i giovani, le loro capacità e le loro competenze rispondendo anche ai loro desideri e alle loro attese.

      L’Italia fuori dall’Italia

      È da tempo che i giovani italiani non si sentono ben voluti dal proprio Paese e dai propri territori di origine, sempre più spinti a cercar fortuna altrove. La via per l’estero si presenta loro quale unica scelta da adottare per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità, ecc.). E così ci si trova di fronte a una Italia demograficamente in caduta libera se risiede e opera all’interno dei confini nazionali e un’altra Italia, sempre più attiva e dinamica, che però guarda quegli stessi confini da lontano.

      Al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’AIRE sono 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia ha perso in un anno lo 0,5% di popolazione residente (-1,1% dal 2020), all’estero è cresciuta negli ultimi 12 mesi del 2,7% che diventa il 5,8% dal 2020. In valore assoluto si tratta di quasi 154 Non c’è nessuna eccezione: tutte le regioni italiane perdono residenti aumentando, però, la loro presenza all’estero. La crescita, in generale, dell’Italia residente nel mondo è stata, nell’ultimo anno, più contenuta, sia in valore assoluto che in termini percentuali, rispetto agli anni precedenti.

      Il 48,2% degli oltre 5,8 milioni di cittadini italiani residenti all’estero è donna (2,8 milioni circa in valore assoluto). Si tratta, soprattutto, di celibi/nubili (57,9%) o coniugati/e (35,6%). I/le divorziati/e (2,7%) hanno superato i/le vedovi/e (2,2%). Da qualche anno si registrano anche le unioni civili (circa 3 mila).

      I dati sul tempo di residenza all’estero indicano che il revival delle partenze degli italiani non è recentissimo, ma risale alla profonda crisi vissuta nel 2008-2009 dal nostro Paese. Infatti, il 50,3% dei cittadini oggi iscritti all’AIRE lo è da oltre 15 anni e “solo” il 19,7% è iscritto da meno di 5 anni. Il resto si divide tra chi è all’estero da più di 5 anni ma meno di 10 (16,1%), e chi lo è da più di 10 anni ma meno di 15 (14,3%).

      La presenza italiana nel mondo cresce, lo si è detto, ma la crescita avviene attraverso elementi esogeni ed endogeni. Tra gli elementi esogeni il più importante e più discusso, a seguito dei profondi cambiamenti del nostro Paese, dovuti a quasi 50 anni di immigrazione e a causa della legge n. 91 del 1992 oggi distante dalla realtà interculturale del Belpaese, è l’acquisizione di cittadinanza: i cittadini italiani iscritti all’AIRE per acquisizione della cittadinanza dal 2006 al 2022 sono aumentati del 134,8% (in valore assoluto si tratta di poco più di 190 mila italiani; erano quasi 81 mila nel 2006). L’elemento endogeno per eccellenza è, invece, la nascita all’estero dei cittadini italiani, ovvero figlie e figli che si ritrovano a venire al mondo da cittadini italiani che risiedono già oltreconfine e che, sempre da italiani, crescono e si formano lontano dall’Italia ma con un occhio rivolto allo Stivale. Gli italiani nati all’estero sono aumentati dal 2006 del 167,0% (in valore assoluto sono, oggi, 2.321.402; erano 869 mila nel 2006). Si tratta di italiani che restituiscono un volto ancora più composito del nostro Paese rendendolo interculturale e sempre più transnazionale, composto cioè da italiani che hanno origini diverse (nati e/o cresciuti in paesi lontani dall’Italia o nati in Italia in famiglie arrivate da luoghi lontani) e che si muovono con agilità tra (almeno) due paesi, parlando più lingue, abitando più culture.

      Gli oltre 5,8 milioni di italiani iscritti all’AIRE hanno, quindi, un profilo complesso: sono giovani (il 21,8% ha tra i 18 e i 34 anni), giovani adulti (il 23,2% ha tra i 35 e i 49 anni), adulti maturi (il 19,4% ha tra i 50 e i 64 anni), anziani (il 21% ha più di 65 anni, ma di questi l’11,4% ha più di 75 anni) o minori (il 14,5% ha meno di 18 anni).

      Oltre 2,7 milioni (il 47,0%) sono partiti dal Meridione (di questi, 936 mila circa, il 16%, dalla Sicilia o dalla Sardegna); più di 2,1 milioni (il 37,2%) sono partiti dal Nord Italia e il 15,7% è, invece, originario del Centro Italia.

      Il 54,9% degli italiani (quasi 3,2 milioni) sono in Europa, il 39,8% (oltre 2,3 milioni) in America, centro-meridionale soprattutto (32,2%, più di 1,8 milioni).

      Gli italiani sono presenti in tutti i paesi del mondo. Le comunità più numerose sono, ad oggi, quella argentina (903.081), la tedesca (813.650), la svizzera (648.320), la brasiliana (527.901) e la francese (457.138).

      https://www.migrantes.it/rapporto-italiani-nel-mondo-migrantes-mobilita-italiana-convivere-e-resist

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      synthèse en pdf:
      https://www.migrantes.it/wp-content/uploads/sites/50/2022/11/Sintesi_RIM2022.pdf

    • Il monologo di #Crozza su migranti e Mimmo Lucano: “Dovremmo accoglierli a braccia aperte, la vera emergenza sono gli italiani che scappano”

      Nella nuova puntata di Fratelli di Crozza, in onda in prima serata sul Nove e in streaming su Discovery+, Maurizio Crozza riflette su alcuni dati allarmanti che segnalano la fuga degli italiani dal nostro Paese: “Negli ultimi anni se n’è andato un italiano su dieci. Gli stranieri in Italia sono 5,2 milioni e gli italiani all’estero sono 5,8 milioni. Sono più quelli che sono andati di quelli che sono arrivati. E il governo non vuol far scendere gli stranieri dalle navi? Ma bisognava andar lì ad accoglierli con le collane di fiori come in Polinesia. L’emergenza non è l’invasione è l’evasione”.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/11/12/il-monologo-di-crozza-su-migranti-e-mimmo-lucano-dovremmo-accoglierli-a-braccia-aperte-la-vera-emergenza-sono-gli-italiani-che-scappano/6871062

      #Maurizio_Crozza

  • Bundespräsident: Steinmeiers Leerstellen (nd-aktuell.de)
    https://www.nd-aktuell.de/artikel/1168099.bundespraesident-steinmeiers-leerstellen.html

    28.10.2022 von Wolfgang Hübner - Interessant an der Rede des Bundespräsidenten ist vor allem das, was er nicht sagte

    In seiner Rede zur Lage der Nation sprach der Bundespräsident am Freitag über dies und das, von den Weltkrisen bis zum Gemeinsinn. Doch interessanter als das, was Frank-Walter Steinmeier sagte, sind die Leerstellen seiner Ansprache.

    Da ist der Begriff des Epochenbruchs. Natürlich muss man die russische Aggression gegen die Ukraine als brutal und völkerrechtswidrig verurteilen. Und natürlich wird sie nicht gerechtfertigt durch die geopolitische Entwicklung zuvor. Aber aus dem Nichts kommt sie eben auch nicht. Die Welt ist nicht erst seit Kurzem »auf dem Weg in eine Phase der Konfrontation«, wie Steinmeier sagt. Durch diesen Krieg wird ja nicht unwahr, dass der Westen immer versuchte, Russland klein- und aus dem Geschäft der Großen rauszuhalten. Unter Putins Regentschaft wurde Russland ein selbstbewusster, schwieriger Partner. Dass es ein Gegner wurde, liegt nicht nur an Moskau. Zum neuen Zeitgeist gehört, dass gefälligst alle Abbitte zu leisten haben, die sich vormals für eine Kooperation mit Russland einsetzten. Auch Steinmeier, der jetzt in den Augen der Hardliner etwas gutzumachen hat.

    Für ihn folgt daraus, »Chinas Machtanspruch« mit Argusaugen zu beobachten. Was diese Floskel eigentlich bedeutet: Chinas Erstarken stört die alten Machtansprüche. Die alten Zentren des Imperialismus glaubten die Welt im Griff zu haben. Die Legende vom Ende der Geschichte nach 1989/90 war ein aus Überheblichkeit gespeister Irrtum. Stattdessen begann eine neue, auch gewalttätige Geschichte, in der es um die Neuaufteilung dieser Welt geht. Da werden nicht nur Demokratie und Freiheit verteidigt, sondern zuerst die bisherigen globalen Herrschaftsverhältnisse, die mehr als genug Unheil angerichtet haben. Wer diese Dimension ausblendet, lügt sich selbst und anderen in die Tasche.

    #Allemagne #guerre #politique #2022

  • Die „große Rede“ von Bundespräsident Steinmeier : Kriegserklärung nach innen und nach außen.
    https://www.nachdenkseiten.de/?p=89845

    La revue en ligne Nachdenkseiten défend des positions socialdémocrates de gauche et récolte des diffamations comme ami de Poutine. Son titre de ce matin : "Steinmeier déclare la guerre à l’intérieur comme à l’extérieur".

    31. Oktober 2022 von Rainer Balcerowiak - Es gehört zu den Erwartungen an einen deutschen Bundespräsidenten, dass er wenigstens ein Mal in seiner Amtszeit so etwas wie eine „große Rede“ hält. Eine Rede, die sich sich über die Niederungen der Tagespolitik hinaus schwingt, den Kern des Selbstverständnisses des „Deutschen Volkes“ berührt und neue, grundlegende Orientierungen skizziert. Richard von Weizsäcker hat z.B. eine derartige Rede gehalten, als er am 8.Mai 1985 bei der Gedenkveranstaltung im Deutschen Bundestag zum Ende des zweiten Weltkriegs von einem „Tag der Befreiung“ sprach, und damit das herrschende Narrativ von der Niederlage Deutschlands öffentlich zertrümmerte. Von Rainer Balcerowiak

    Auch die Rede, die Roman Herzog im April 1997 im Berliner Hotel Adlon hielt, in der er einen „Ruck durch Deutschland“ anmahnte und eine Beschleunigung der neoliberalen Deregulierung in allen Lebensbereichen einforderte, hatte durchaus eine gewisse historische Dimension, zumal die wenig später installierte erste „rot-grüne“ Bundesregierung unter Gerhard Schröder und Joschka Fischer ihre Politik genau an diesen Maximen ausrichtete.

    Eine derartige „große Rede“ ist für die Bundespräsidenten die einzige Chance, sich einen einigermaßen wahrnehmbaren Platz in den Geschichtsbüchern zu sichern. Denn ansonsten haben sie – anders als etwa die Staatsoberhäupter in den USA oder Frankreich – vor allem repräsentative und protokollarische Aufgaben zu erfüllen und sind ausdrücklich angehalten, sich aus der legislativen und exekutiven Tagespolitik herauszuhalten. Wem das Momentum einer „großen Rede“ nicht vergönnt war, der endet in der Überlieferung dann möglicherweise als peinliche Witzfigur (Heinrich Lübke), Elbling-trinkender Volksliedinterpret (Walter Scheel), ewiger Wandervogel (Karl Carstens) , irrlichternder Möchtegern-Lebemann (Christian Wulff) oder penetranter Prediger (Joachim Gauck)

    Hans-Walter Steinmeier hatte es in seiner ersten Amtszeit zwischen Februar 2017 und Februar 2022 nicht zu einer „großen Rede“ gebracht. Eher genügsam und manchmal tapsig fügte er sich in die Rolle als gütiger, manchmal dezent mahnender Bundesonkel, die ihm Bundeskanzlerin Angela Merkel mit dieser Personalentscheidung zugedacht hatte. Doch seine zweite Amtszeit fällt in eine „Zeitenwende“, die allerdings nicht er, sondern der Merkel-Nachfolger Olaf Scholz bereits am 27. Februar in einer Regierungserklärung ausgerufen hatte. In deren Mittelpunkt stand ein 100 Milliarden Euro umfassendes Aufrüstungsprogramm für die Bundeswehr.

    Der Pragmatiker Scholz widmete sich anschließend eher Waffenlieferungen an die Ukraine und allerlei „Entlastungsprogrammen“ bis hin zu einem „Doppel-Wumms“ zur Abfederung der desaströsen Folgen der Kriegspolitik für die Wirtschaft und große Teile der Bevölkerung. Und seine grünen Top-Ministerinnen und Minister Annalena Baerbock und Robert Habeck kündigten vollmundig an, Russland „ruinieren“ zu wollen, der Ukraine einen Freifahrtschein für die Eskalation des Krieges auszustellen und als deutschen Sonderweg uns selber den russischen Ölhahn zuzudrehen. Und natürlich die nagelneue Gas-Pipeline North Stream II nicht in Betrieb zu nehmen.

    Den „Demokratiefeinden“ die Leviten gelesen

    Das alles fanden die Regierenden in der Ukraine ziemlich Klasse, auch wenn es noch mehr und vor allem schneller schwere Waffen geben sollte, und Deutschland doch bitte ab sofort 500 Millionen Euro pro Monat extra überweisen möge, um u.a. die Auszahlung der Renten und der Bezüge der Staatsdiener sichern zu können. Aber unser Präsident hatte dort keine guten Karten. Galt er doch aus seiner Zeit als Außen- und Kanzleramtsminister als einer der langjährigen Protagonisten einer intensiven wirtschaftlichen Kooperation mit Russland und in ganz „dunklen Phasen“ auch einer europäischen Sicherheitsarchitektur unter Einbeziehung Russlands. Zeitweilig war Steinmeier in der Ukraine sogar eine persona non grata, und erst nach mehrmaligen reumütigen Entschuldigungen und vielen schicken neuen Raketenwerfern und Panzerhaubitzen wurde dem Präsidenten dann vor wenigen Tagen doch noch von seinem ukrainischen Amtskollegen Wolodymyr Selenskyj in Kiew eine Audienz gewährt .

    Das alles bietet natürlich ein optimales Umfeld für eine „große Rede“. Zumal viele Deutsche, vor allem in Ostdeutschland, diese Politik nicht gut finden, und jetzt sogar mit eindeutig „rechten“ und demokratiefeindlichen Forderungen wie nach dem Ende der Wirtschaftssanktionen und Initiativen für die Beendigung des Krieges auf die Straße gehen. Außerdem wollen die auch wissen, wie sie ihre Heizkosten und immer teurer werdenden Lebensmittel bezahlen sollen oder ihre berufliche Existenz sichern können.

    Denen hat Steinmeier am Freitag in seiner „Rede zur Lage der Nation“ gründlich die Leviten gelesen. Wäre der Präsident etwas lockerer, als er nun mal ist, hätte er sie unter das Motto „Schluss mit lustig“ stellen können. Der Krieg in der Ukraine sei ein „Epochenbruch“ Er habe „auch uns in Deutschland in eine andere Zeit, in eine überwunden geglaubte Unsicherheit gestürzt: Eine Zeit, gezeichnet von Krieg, Gewalt und Flucht, von Sorge vor der Ausweitung des Krieges zum Flächenbrand in Europa. Eine Zeit schwerer wirtschaftlicher Verwerfungen, Energiekrise und explodierender Preise. Eine Zeit, in der unser Erfolgsmodell der weltweiten vernetzten Volkswirtschaft unter Druck geraten ist. Eine Zeit, in der gesellschaftlicher Zusammenhalt, das Vertrauen in Demokratie (..) Schaden genommen hat“.

    Vorbei seien die „Jahre der Friedensdividende, von der wir Deutsche in der Mitte des vereinten Europas reichlich profitiert haben.(..) Freiheit und Demokratie schienen überall auf dem Vormarsch, Handel und Wohlstand in alle Richtungen möglich“. Und Deutschland habe immer nach Regeln gespielt, doch dann kam Putin und habe „nicht nur Regeln gebrochen und das Spiel beendet. Nein, er hat das ganze Schachbrett umgeworfen!“

    Beschwörung der „Volksgemeinschaft“ gegen Russland

    Nach dieser – sagen wir mal – recht limitierten Analyse des Ukraine-Konfliktes und der deutschen Rolle dabei kommt der „Blut,Schweiß&Tränen“ – Teil der Rede. Es werde „raue“ bzw. „harte“ Jahre geben und „wir brauchen den Willen zur Selbstbehauptung und auch die Kraft zur Selbstbeschränkung“, „Widerstandsgeist und Widerstandskraft“, eine entsprechend ausgestattete Bundeswehr und eine „Gesellschaft, die ihr den Rücken stärkt“. Frieden mit Russland könne man knicken, denn „im Angesicht des Bösen reicht guter Wille nicht aus“. Die Sanktionen seinen alternativlos und die Bürger sollten gefälligst nicht jammern, denn „Energie mag teurer werden, aber Freiheit ist unbezahlbar.“ Und diese Krise verlange halt „dass wir wieder lernen, uns zu bescheiden“. Wer ist eigentlich „wir“ und um welche „Freiheit“ geht es, mag man da fragen, darf man aber nicht, weil man sonst wieder bei den Rechten, den Demokratiefeinden und den Putin-Trollen gelandet wäre.

    Womit Steinmeier schließlich nach einem kurzen Klima-Schlenker bei der wehrhaften Demokratie landet, die schließlich auch zur bedrohten „kritischen Infrastruktur“ gehöre, „die wir besser schützen müssen“. Dazu brauche es „widerstandskräftige Bürgerinnen und Bürger“, die zwischen der Kritik an politischen Entscheidungen „und dem Generalangriff auf unser politisches System unterscheiden“, um dem „Gift des Populismus“ etwas entgegenzusetzen.

    Es folgt noch ein Werbeblock für ein soziales Pflichtjahr und ein bisschen Volksgemeinschafts-Gedöns („Reich und Arm, Jung und Alt, Stadt und Land: Verbindungen stärken, über Generationen und Lebenswelten hinweg – darum geht es mir jetzt“), und dann war der Spuk vorbei.

    Jedenfalls hat die Rede an Deutlichkeit nichts zu wünschen übrig gelassen. Steinmeier meint das Ernst, die Bundesregierung meint das auch Ernst, und die ganz große Koalition der alternativlosen Mitte aus CDU/CSU, SPD, Grünen, FDP, großen Teilen der Linken und einschlägigen staatstragenden Verbänden und Institutionen meint das ebenfalls Ernst. Wir sollen uns im doppelten bis dreifachen Sinne warm anziehen und ansonsten die Schnauze halten, schließlich geht es um einen „Epochenbruch“, was ja noch wesentlich dramatischer als „Zeitenwende“ klingt.

    Es war tatsächlich eine „große Rede“ des Bundespräsidenten. Eine unverhohlene Kriegserklärung an Alle, die sich der „westlichen Wertegemeinschaft“ entgegenstellen. Und auch an jene Teile der eigenen Bevölkerung, die sich der „Alternativlosigkeit“ dieser Politik verweigern. Eine Rede, die einer kraftvollen, wirkmächtigen Antwort bedarf. Um die gilt es jetzt zu ringen, und zwar schnell.

    #Allemagne #guerre #politique #2022

  • Steinmeiers Rede an die Nation : Die unangenehmen Wahrheiten des Bundespräsidenten
    https://www.tagesspiegel.de/steinmeiers-rede-an-die-nation-der-bundesprasident-und-der-widerstandsk

    Voilà la perspctive du journal réactionnare Tagesspiegel

    28.10.2022 von Georg Ismar - Am Ende kommt Frank-Walter Steinmeier auf eine Enttäuschung zu sprechen. Verhallen seine Worte? Was kann er anstoßen in diesen Zeiten, die er als einen Epochenbruch bezeichnet?

    Der Saal in Schloss Bellevue ist bis auf den letzten Platz gefüllt, viele junge Leute sind dabei, um der vielleicht bisher wichtigsten Rede des Bundespräsidenten zu lauschen. Sie haben nicht die Erfahrung von Wehr- oder Zivildienst gemacht, den Kalten Krieg kaum noch erlebt. Wer dagegen fehlt, ist die komplette Bundesregierung bis hin zum Bundeskanzler, darauf wird noch zurückzukommen sein.

    „Reich und Arm, Jung und Alt, Stadt und Land: Verbindungen stärken, über Generationen und Lebenswelten hinweg – darum geht es mir jetzt“, sagt Steinmeier, es ist eine Rede, die die Tiefe der Krise nicht leugnet, es ist ein Versuch, den Laden zusammenzuhalten.

    Fakt sei aber, dass das klassische Ehrenamt altere, Verantwortung verteile sich auf immer weniger Schultern. „Dabei ist Einsatz für andere – gerade in der Zeit des Gegenwinds – unverzichtbar, systemrelevant“, appelliert Steinmeier.

    Daher habe er den Vorschlag einer sozialen Pflichtzeit gemacht. Aber viele haben das gar nicht mitbekommen. „Was ich will, ist eine ehrliche Debatte über unser Engagement für das gemeinsame Ganze. Eine Debatte, die hoffentlich nicht wieder im Nichts enden wird“, macht er aus der Enttäuschung keinen Hehl. Aber Demokratie gehe nicht ohne Zusammenhalt.

    Damit das ewige Plädoyer für Zusammenhalt nicht folgenlos bleibe, müssten mehr Menschen mindestens einmal in ihrem Leben sich für gewisse Zeit den Sorgen ganz anderer, zuvor fremder Menschen widmen, für sie da sein. „So stärken wir, was uns verbindet, und darauf kommt es jetzt an - mehr als je zuvor.“ An dieser Stelle gibt es mit den größten Applaus.

    Die CDU hat sich sogar für ein soziales Pflichtjahr ausgesprochen, aber die Ampel-Koalition blockt die Debatte bisher ab. Und Steinmeier mahnt die Ampel indirekt, nicht zu viel Selbstbespiegelung zu betreiben, er ist viel im Land unterwegs, verlegt für seine „Ortszeiten“ den Regierungssitz immer wieder in kleinere Städte, zuletzt nach Neustrelitz: „Viele Menschen, die in ländlichen Regionen leben – und das ist die Mehrheit in unserem Land – finden sich nicht wieder in Debatten, die wir in der Hauptstadt führen und die häufig noch viel weiter von ihren tatsächlichen Problemen entfernt sind als der nächste Facharzt oder die Poststelle“, betont Steinmeier. Ohnehin liest sich die Rede immer wieder ein Pflichtenheft, um das Land außen wie innen zu stärken.
    Steinmeier sah jetzt den Zeitpunkt für die Rede gekommen

    Der Bundespräsident hat lange überlegt, wann er diese Rede an die Nation, in Zusammenarbeit mit der Deutschen Nationalstiftung, halten soll. Aber erst wollte er die Regelungen der Koalition zu Entlastungen gegen die hohen Energiepreise abwarten, dann war noch die Niedersachsenwahl. Für ihn persönlich war es wichtig, auch um seine eigene Glaubwürdigkeit zu erhöhen, vor der Rede endlich das erste Mal seit Kriegsbeginn in die Ukraine zu reisen.

    Doch die eigenen Fehler als Kanzleramtschef und Außenminister in der Russlandpolitik thematisiert er nicht, sagt lediglich, der 24. Februar markiere „das endgültige, bittere Scheitern jahrelanger politischer Bemühungen, auch meiner Bemühungen, genau diesen schrecklichen Moment zu verhindern“.

    Aber einige im Saal fragen sich, ob der Epochenbruch nicht spätestens schon 2014 losgegangen sei, mit der Annexion der Krim, dem Krieg in der Ostukraine, warum dann noch das Milliardenprojekt der Ostsee-Gaspipeline Nord Stream 2 gestartet worden ist?

    Der Schatten der Vergangenheit liegt über dieser zweiten Amtszeit, während dieser Tage sein Vorgänger Joachim Gauck glasklar Putins Denken analysiert, mit einer Perspektive, die in Putin schon früher den gesehen hat, der er heute ist: streng leninistisches Denken mit national-imperialem Gestus, das gezielte Einsetzen eines Angst-Apparats, das Vermischen der KGB-Schule mit einer neo-imperialen Ideologie eines neuen Russentums.

    Steinmeiers gut strukturierte Rede, der vielleicht der eine hängenbleibende Satz fehlt, spart aber nicht mit klaren Schlussfolgerungen aus dem Epochenbruch. An diejenigen gerichtet, die mehr Willen zu Verhandlungen mit Russland fordern sagt er: „Im Angesicht des Bösen reicht guter Wille nicht aus.“

    Ein vermeintlicher Friede, der Putins Landraub besiegele, sei kein Friede. Das würde Putins Hunger nur vergrößern. „Moldawien und Georgien, auch unsere NATO-Partner im Baltikum leben in Angst.“ Für alle, die die westlichen Sanktionen wegen der hohen Energiekosten kritisieren, hat der Bundespräsident ein Zitat der estnische Ministerpräsidentin Kaja Kallas parat: „Energie mag teurer werden, aber Freiheit ist unbezahlbar.“

    Steinmeier betont schonungslos: „Es kommen härtere Jahre, raue Jahre auf uns zu. Die Friedensdividende ist aufgezehrt. Es beginnt für Deutschland eine Epoche im Gegenwind.“ Er macht sich bei Russland keine Illusionen mehr: „Unsere Länder stehen heute gegeneinander.“
    Die Deutschen und die Widerstandskraft nach außen

    Deutschland sieht er nicht in der Rolle einer globalen Führungsmacht, aber es müsse mehr Verantwortung übernehmen und er wünscht sich mehr innenpolitische Gemeinsamkeit. „Wir müssen konfliktfähig werden, nach innen wie nach außen. Wir brauchen den Willen zur Selbstbehauptung und auch die Kraft zur Selbstbeschränkung. Wir brauchen keine Kriegsmentalität – aber was wir brauchen, ist Widerstandsgeist und Widerstandskraft“, betont Steinmeier.

    „In dem Maße, in dem die Erwartungen an uns wachsen, wird auch die Kritik an uns zunehmen. Damit müssen wir erwachsen umgehen und nicht jede Kritik von außen umgehend als Munition in der innenpolitischen Auseinandersetzung missbrauchen“, betont der Bundespräsident.

    „Dass ein Land wie unseres in der Kritik steht, daran werden wir uns gewöhnen müssen“, sagt Steinmeier. Die USA hätten viel Übung darin. „Die USA sind eine globale Führungsmacht. Sie werden kritisiert für das, was sie tun, und für das, was sie nicht tun. Sie können nicht auf andere zeigen oder höhere Instanzen anrufen. Sie müssen wissen, was sie tun und warum.“
    Die Bringschuld der Bürger

    Immer wieder benutzt er zudem den Begriff der widerstandskräftigen Bürger. Er sieht da bei den Bürgern eine gewisse Bringschuld, im Übrigen gelte es, ein Appell an die Ampel, die Krisenkosten gerecht zu verteilen, von den Reichen im Land fordert er, mehr für Ihr Land zu tun, es liest sich wie der Appell für eine Vermögenssteuer: „Sie müssen jetzt helfen, um die immensen Kosten der notwendigen Entlastungen überhaupt stemmen zu können. Sie müssen jetzt beitragen, um neue Ungerechtigkeiten zu vermeiden.“

    Zugleich mahnt er, bei allen Problemen die Herausforderung des Klimawandels nicht zu vergessen: „Der Klimawandel macht keine Ukraine-Pause.“ Wenn alle mitanpackten und dran glaubten, könnten Freiheit, Demokratie und Wohlstand gewahrt bleiben: „Wir machen Deutschland zu einer neuen Industrienation - technologisch führend, klimaverantwortlich, in der Mitte Europas.“ Vernetzt, aber weniger verwundbar, sagt Steinmeier – noch seine eigene Lehre aus der einseitigen Abhängigkeit von Russlands Gaslieferungen. Das sei die tiefste Krise, die das wiedervereinigte Deutschland erlebe, für viele Bürger seien die Belastungen und auch die Schäden durch eigene Sanktionen eine Zerreißprobe.

    Aber er betont auch: „Unser Land hat die Kraft, Krisen zu überwinden. Es hat die Menschen, die immer wieder dafür arbeiten, die Unternehmerinnen, die Forscher, die Ingenieure, die Facharbeiterinnen. Unser Land hat das Wissen und die Ideen, die Erfahrung von Generationen und den Ehrgeiz der Jugend.“ Es gelte nun „alles zu stärken, was uns verbindet. Das ist die Aufgabe. Tun wir’s.“ Danach gibt es langen Applaus, das Auditorium erhebt sich, klatscht stehend weiter.

    Vorne in der ersten Reihe klatschen die Altbundespräsidenten Gauck und Christian Wulff, der Präsident des Bundesverfassungsgerichts Stephan Harbarth, Bundesratspräsident Bodo Ramelow (Linke), CDU-Chef Friedrich Merz, FDP-Fraktionschef Christian Dürr. Aber kein Spitzenpolitiker von Grünen und SPD, kein Kanzler, kein Bundesminister. Dabei war die Rede geplant als gemeinsames Signal des Zusammenhalts in schwerer Zeit.

    In Schloss Bellevue löst das Fehlen großes Befremden aus, die Regierung verweist auf wichtige Energieberatungen. Ein anwesender Oppositionspolitiker zeigt sich fassungslos, das sei „ungeheuerlich“, ein Affront gegen den Bundespräsidenten.

    Regierungssprecher Steffen Hebestreit betont, er wisse „nichts über das Einladungsmanagement oder -wesen“. Er wisse aber, „dass der Bundespräsident den Bundeskanzler im Vorfeld intensiv über diese Rede informiert hat, sie haben darüber gesprochen, und der Bundeskanzler hat sie natürlich auch verfolgt.“

    Der Bundespräsident lässt sich derweil nichts anmerken, sagt nach der Rede, er wolle jetzt gern mit der vielen jungen Gästen ins Gespräch kommen, was zu tun ist. Er will, dass diese Rede nicht im Tagesgeschäft der sich überlappenden Krisen verpufft.

    #Allemagne #guerre #politique #2022

  • Rede des Bundespräsidenten (Steinmeier): Alles stärken, was uns verbindet
    https://www.bundespraesident.de/SharedDocs/Reden/DE/Frank-Walter-Steinmeier/Reden/2022/10/221028-Alles-staerken-was-uns-verbindet.html

    Jeder Mensch in unserem Land, der am 24. Februar aufwachte und die Bilder sah von Raketeneinschlägen in Kiew, von Panzerkolonnen auf ukrainischen Straßen, von der russischen Invasion auf breitester Front – jeder, der mit diesen Bildern erwachte, wusste: An diesem Morgen war die Welt eine andere geworden.

    Für niemanden ist der Schrecken dieses Morgens so entsetzlich wie für die Menschen in der Ukraine selbst. Mit einigen von ihnen saß ich am Dienstag in Korjukiwka, einer kleinen Stadt nahe der weißrussischen Grenze, zusammen in einem Luftschutzkeller. Diese Menschen erzählten mir ihre Geschichten, sie erzählten mir, wie dieser 24. Februar, wie der Schrecken des Krieges in ihr ganz normales Leben brach: der ungeheure Lärm der Einschläge, der Rauch, das Feuer, ihre pure Angst – diese Frauen und Männer zitterten, als sie mir davon berichteten. Eine ältere Frau erzählte, wie sie mit ihrem Enkel die schier endlose Kette von russischen Panzern, Lastern und Kriegsgerät vorbeirollen sah und der Enkel sie ansah und fragte: ""Oma, müssen wir jetzt sterben?"" Die Großmutter konnte ihm die Frage nicht beantworten – und das treibt ihr noch heute die Tränen in die Augen.

    Meine Damen und Herren, jede und jeder von Ihnen erinnert sich an diesen 24. Februar. Auch ich. Das Sirenengeheul, der dunkle Rauch über Kiew, die schrecklichen Bilder dieses Morgens, sie gingen und gehen mir unter die Haut. Und sie markierten das endgültige, bittere Scheitern jahrelanger politischer Bemühungen, auch meiner, genau diesen schrecklichen Moment zu verhindern.

    Der 24. Februar war ein Epochenbruch. Er hat auch uns in Deutschland in eine andere Zeit, in eine überwunden geglaubte Unsicherheit gestürzt: eine Zeit, gezeichnet von Krieg, Gewalt und Flucht, von Sorge vor der Ausbreitung des Krieges zum Flächenbrand in Europa. Eine Zeit schwerer wirtschaftlicher Verwerfungen, Energiekrise und explodierender Preise. Eine Zeit, in der unser Erfolgsmodell der weltweit vernetzten Volkswirtschaft unter Druck geraten ist. Eine Zeit, in der gesellschaftlicher Zusammenhalt, das Vertrauen in Demokratie, mehr noch: das Vertrauen in uns selbst Schaden genommen hat.

    Politik kann keine Wunder vollbringen. Niemand, auch kein Bundespräsident, kann in dieser zutiefst unsicheren Zeit alle Sorgen nehmen. Im Gegenteil: Ich glaube, dass viele der Sorgen berechtigt sind. Wir erfahren die tiefste Krise, die unser wiedervereintes Deutschland erlebt.

    Aber ich bin überzeugt: Wenn wir uns diesen Moment, diesen Epochenbruch bewusst machen, wenn wir uns einen Begriff machen von dem Zeitalter, das zu Ende gegangen ist, und dem neuen Zeitalter, das begonnen hat – dann, und nur dann, schärfen wir unseren Blick für das, was jetzt von uns verlangt ist, und ich bin sicher: Dann müssen wir dieser neuen Zeit nicht angstvoll oder gar wehrlos entgegensehen.

    Die Jahre vor dem 24. Februar waren für Deutschland eine Epoche im Rückenwind. Es waren Jahre, geprägt vom Glücksmoment der Deutschen Einheit, vom friedlichen Abzug der sowjetischen Truppen, vom Ende der Blockkonfrontation und dem Zusammenwachsen Europas. Es waren Jahre der Friedensdividende, von der wir Deutsche in der Mitte des vereinten Europas reichlich profitiert haben.

    Und vielleicht auch das: Unser eigenes deutsches Glück prägte unseren Blick auf die Welt. Wir setzten darauf, dass wir von Freunden umgeben und der Krieg in Europa jedenfalls unvorstellbar geworden sei. Freiheit und Demokratie schienen überall auf dem Vormarsch, Handel und Wohlstand in alle Richtungen möglich.

    Trotz aller Krisen jener Zeit und obwohl natürlich nicht alles gelungen ist, was wir uns erhofft haben: Diese Jahre waren gute Jahre! Deutschland, ein Land mit dieser dunklen Geschichte, war hineingewachsen in die Gemeinschaft der Staaten, respektiert, sogar beliebt bei den Partnern, mit wachsenden Gestaltungsspielräumen, auch wachsender Verantwortung in der Welt.

    Und: Deutschland, ein Land so klein im Weltmaßstab und praktisch ohne eigene Ressourcen und Bodenschätze, war eine starke, moderne, global vernetzte Volkswirtschaft geworden – dank guter Bildung und Ausbildung, der Bereitschaft zu Reformen und Handelsbeziehungen in die ganze Welt.

    Deshalb sage ich: Diese Jahre mit Rückenwind, sie waren gute Jahre. Nichts ist uns in den Schoß gefallen. Wir haben gearbeitet für Frieden und Wohlstand. Wir haben auf internationale Kooperation gesetzt und nach Regeln gespielt.

    Dann kam der 24. Februar. Am 24. Februar hat Putin nicht nur Regeln gebrochen und das Spiel beendet. Nein, er hat das ganze Schachbrett umgeworfen!

    Russlands brutaler Angriffskrieg in der Ukraine hat die europäische Sicherheitsordnung in Schutt und Asche gelegt. In seiner imperialen Besessenheit hat der russische Präsident das Völkerrecht gebrochen, Grenzen in Frage gestellt, Landraub begangen. Der russische Angriff ist ein Angriff auf alle Lehren, die die Welt aus zwei Weltkriegen im vergangenen Jahrhundert gezogen hatte.

    Heute sind diese gemeinsamen friedenswahrenden Lehren verblasst. An die Stelle des Austausches, der Suche nach dem Verbindenden tritt mehr und mehr das Ringen um Dominanz. Chinas wirtschaftlicher und politischer Machtanspruch ist darin ein zentraler Faktor. Dieses Ringen wird die Zukunft der internationalen Beziehungen auf lange Sicht prägen. Die traurige Wahrheit ist leider: Die Welt ist auf dem Weg in eine Phase der Konfrontation – obwohl sie doch dringender denn je auf Kooperation angewiesen wäre. Klimawandel, Artensterben, Pandemien, Hunger, Migration, nichts davon lässt sich lösen ohne die Bereitschaft und den Willen zu internationaler Zusammenarbeit. Und deshalb darf das Bemühen darum– trotz Krise und Krieg – nicht aufgegeben werden!

    Was bedeutet das für uns in Deutschland? Meine Antwort ist: Es kommen härtere Jahre, raue Jahre auf uns zu. Die Friedensdividende ist aufgezehrt. Es beginnt für Deutschland eine Epoche im Gegenwind.

    Um in dieser Zeit zu bestehen, können wir auf die Kraft und Stärke bauen, die wir uns in den vergangenen Jahren erarbeitet haben. Und helfen werden uns Erfahrungen, die wir bei der Überwindung anderer schwerer Krisen gemacht haben. Vergessen wir – bei allen Sorgen –gerade jetzt nicht: Wir sind wirtschaftlich stark, stärker als viele andere. Wir haben gute Forschung, starke Unternehmen und einen leistungsfähigen Staat. Wir haben eine große und starke Mitte in unserer Gesellschaft.

    Aber zu den Stärken, die uns bislang geholfen haben, muss etwas hinzukommen: Wir müssen konfliktfähig werden, nach innen wie nach außen. Wir brauchen den Willen zur Selbstbehauptung, und wir brauchen auch die Kraft zur Selbstbeschränkung. Wir brauchen keine Kriegsmentalität – aber wir brauchen Widerstandsgeist und Widerstandskraft!

    Dazu gehört zuallererst eine starke und gut ausgestattete Bundeswehr. Diese Erwartung haben unsere Bürger, und die haben auch unsere Nachbarn und Partner. Wir sind das starke Land in der Mitte Europas. Wir sind in der Pflicht, unseren Beitrag zur Bündnisverteidigung zu leisten – heute viel mehr als in einer Zeit, in der andere, vor allem die USA, die schützende Hand über uns gehalten haben. Wir konnten uns lange auf andere verlassen und können das auch weiterhin, aber jetzt müssen sich andere auch auf uns verlassen können.

    Ich versichere unseren Partnern: Deutschland nimmt seine Verantwortung an, in der NATO und in Europa. Das zeigen die sicherheitspolitischen Entscheidungen der Bundesregierung seit der Zeitenwende vom 24. Februar. Das zeigt vor allem aber auch die breite öffentliche Zustimmung, mit der diese Entscheidungen getragen werden.

    Und – das ist mir besonders wichtig – das zeigt vielleicht auch die wachsende Aufmerksamkeit und der wachsende Respekt für die Bundeswehr in der Breite der Gesellschaft. Endlich, sage ich. Das ist höchste Zeit. Diese Gesellschaft braucht eine starke Bundeswehr – aber die Bundeswehr braucht auch eine Gesellschaft, die ihr den Rücken stärkt. Dafür werde ich als Bundespräsident weiter einstehen.

    Konfliktfähigkeit und Widerstandskraft erfordern noch mehr als das. In dem Maße, in dem die Erwartungen an uns wachsen, wird auch die Kritik an uns zunehmen. Damit müssen wir erwachsen umgehen und nicht jede Kritik von außen umgehend als Munition in der innenpolitischen Auseinandersetzung missbrauchen.

    Dass ein Land wie unseres in der Kritik steht, daran werden wir uns gewöhnen müssen. Schauen wir auf die USA, die haben viel Übung darin. Die USA sind globale Führungsmacht. Sie werden kritisiert für das, was sie tun, und das, was sie nicht tun. Sie können nicht auf andere zeigen oder höhere Instanzen anrufen. Sie müssen wissen, was sie tun und warum.

    Und Deutschland? Nein, Deutschland ist keine globale Führungsmacht. Aber wir sind einer der Großen in Europa. Von uns wird Führung erwartet, Führung im Interesse Europas. Entscheidend ist nicht der Applaus des Publikums. Entscheidend ist die Stärkung Europas. Je unsicherer die Welt um uns herum, desto sicherer müssen wir uns über diesen gemeinsamen Weg sein.

    Zu einem offenen Blick in die neue Zeit gehören auch schwierige Fragen an uns selbst. Die Welt seit dem Epochenbruch ist eine andere – und das bedeutet, dass wir von alten Denkmustern und Hoffnungen Abschied nehmen müssen.

    Das gilt ganz besonders für unseren Blick auf Russland. Ich weiß, dass sich viele Menschen in unserem Land Russland und seinen Menschen verbunden fühlen, russische Musik und Literatur lieben. In Ostdeutschland kommen ganz unterschiedliche, höchst kontroverse Erinnerungen an vierzig Jahre Geschichte hinzu, die bis heute nachwirken. Im Osten und im Westen sind wir dankbar für das Wunder der Wiedervereinigung und vergessen nicht, dass wir Michail Gorbatschow verdanken, dass sie friedlich blieb.

    Dass die sowjetischen Truppen ohne einen Schuss abzugeben nach Hause zurückgekehrt sind, das hat viel Hoffnung auf eine friedliche Zukunft gemacht. Und diese Hoffnung hatte auch ich, und sie war Antrieb für meine Arbeit in vielen Jahren.

    Aber wenn wir auf das Russland von heute schauen, dann ist eben kein Platz für alte Träume. Unsere Länder stehen heute gegeneinander.

    Putin führt eine Invasionsarmee, und die Ukrainer verteidigen ihr Land, das sie seit ihrer Unabhängigkeit, seit dreißig Jahren aufbauen. Russlands Angriffskrieg hat Gorbatschows Traum vom ""gemeinsamen Haus Europa"" zertrümmert. Es ist ein Angriff auf das Recht, auf die Prinzipien von Gewaltverzicht und unverletzlicher Grenzen. Er ist ein Angriff auf alles, wofür auch wir Deutsche stehen. Wer also schulterzuckend fragt ""Was geht denn dieser Krieg uns hier in Deutschland an?"", der redet – wie ich finde – unverantwortlich, aber vor allem geschichtsvergessen. Mit dieser Haltung können wir als Deutsche in Europa nicht bestehen – diese Haltung ist falsch!

    Und deshalb, lieber Herr Botschafter Makeiev, unterstützen wir die Ukraine, solange es nötig sein wird. Wir unterstützen sie militärisch – Ihr Präsident hat mir gerade berichtet, wie lebensrettend die deutschen Luftverteidigungssysteme sind. Wir unterstützen sie auch finanziell und politisch. Wir unterstützen sie ganz akut beim schnellen Wiederaufbau nach Russlands wirklich niederträchtigen Angriffen auf Strom, Heizung, warmes Wasser, auf alle lebenswichtigen Infrastrukturen vor dem nahenden Winter.

    Und ich rede nicht nur, Herr Botschafter, über Unterstützung durch Politik. Es gibt so viele Menschen in Deutschland, die mithelfen, die Flüchtlinge aufgenommen haben oder ihnen auf dem Weg in unsere Schulen, Ämter und Betriebe zur Seite stehen. Es gibt unzählige zivilgesellschaftliche Initiativen, Städtepartnerschaften, kommunale Netzwerke, die ganz konkret in der Ukraine Hilfe leisten. Dafür möchte ich Ihnen allen in unserem Land heute danken, Ihnen allen, die diese lebenswichtige Hilfe leisten und dafür sorgen, dass sie weitergeht – meinen aufrichtigen Dank für das, was Sie tun!

    Und weil dieser Krieg auch uns betrifft, führt auch an wirtschaftlichem Druck auf Russland kein Weg vorbei. Das sage ich denen, die mich fragen, warum wir denn Lasten tragen sollen für den Krieg in einem anderen Land. ""Schaden die Sanktionen nicht vielmehr uns selbst? Können wir sie nicht einfach sein lassen?"" Solche Fragen höre ich häufig in diesen Tagen, und ich will sie gar nicht abtun, denn die Ängste, die dahinterstehen, sind real. Was ich sagen will: Wir müssen diese Fragen beantworten.

    Sanktionen, Abbruch von Kontakten, Waffenlieferungen in einen tobenden Krieg: Nichts davon ist Alltag, nichts davon verträgt sich mit unseren bisherigen Vorstellungen von einem friedlichen Miteinander. Aber wir leben eben nicht in einer idealen Welt, wir leben im Konflikt. Und dafür brauchen wir Konfliktinstrumente. Und ja, Sanktionen haben Kosten, auch für uns. Was wäre denn die Alternative? Tatenlos diesem verbrecherischen Angriff zuschauen? Einfach weitermachen, als wäre nichts geschehen? Es ist doch unser Interesse, dass wir uns mit unseren Partnern Russlands Rechtsbruch entgegenstemmen. Es ist unser Interesse, dass wir uns aus Abhängigkeiten von einem Regime lösen, das Panzer rollen lässt gegen ein Nachbarland und Energie als Waffe benutzt. Es ist unser Interesse, uns selbst zu schützen und unsere Verwundbarkeit zu reduzieren. Niemand hat das klarer und kürzer gesagt als die estnische Ministerpräsidentin vor Kurzem: ""Energie mag teurer werden, aber die Freiheit ist unbezahlbar.""

    Ich habe gesagt: Wir leben im Konflikt, und dieser Krieg geht uns etwas an. Aber ebenso wichtig ist mir: Unser Land ist nicht im Krieg. Und wir wollen auch nicht, dass sich das ändert. Eine Ausweitung des Krieges, gar eine nukleare Eskalation, die muss verhindert werden.

    Und ich weiß, viele Menschen in unserem Land sehnen sich nach Frieden. Einige glauben, es fehle an ernsthaften Bemühungen unsererseits, ja gar an Bereitschaft zum Verhandeln. Ich kann Ihnen versichern: Niemandem, der bei Sinnen ist, fehlt der Wille. Aber die Wahrheit ist: Im Angesicht des Bösen reicht eben guter Wille nicht aus.

    Denn nichts anderes sind Russlands brutale Attacken in den letzten acht Monaten: niederträchtig und menschenverachtend. Ein vermeintlicher Friede, der solches Handeln belohnt, ein Friede, der Putins Landraub besiegelt, ist kein Friede. Er würde für viele Menschen in der Ukraine eine Schreckensherrschaft bedeuten, würde sie der Willkür und Gewalt der russischen Besatzer überlassen. Schlimmer noch: Ein solcher Scheinfriede würde Putins Hunger noch vergrößern. Moldawien und Georgien, auch unsere Partner im Baltikum leben in Angst.

    Auch die Menschen in der Ukraine, die Frauen und Männer und Kinder, die täglich vor den russischen Raketenangriffen in die Keller flüchten, auch die wünschen sich Frieden, dringlicher noch als wir. Aber sie haben doch recht, wenn sie sagen: Der Friede, den wir uns ersehnen, muss ein gerechter Friede sein. Ein Friede, der die Unabhängigkeit und Freiheit der Ukraine bewahrt. Ein ungerechter Friede ist keine Lösung, weil er den Keim neuer Gewalt in sich trägt. Mehr noch, ein ungerechter Friede würde all jene auf der Welt bestärken, deren Machthunger kein Recht und keine Regeln kennt. Das kann nicht in unserem Interesse sein.

    Den Frieden wollen, aber Waffen ins Kampfgebiet liefern; eine Kriegspartei unterstützen, aber selbst nicht im Krieg sein; Sanktionen gegen andere beschließen, aber auch selbst darunter leiden – ja, das sind Widersprüche, und ich höre jeden Tag, wie viele Deutsche daran zweifeln, manche sogar verzweifeln.

    Es ist für uns Deutsche eine Zerreißprobe. Der Gegenwind bläst tief hinein in unser Land. Die neue Zeit fordert uns heraus wie lange nicht mehr. Es ist eine Zerreißprobe, die uns auch keiner abnimmt und für die es keinen einfachen Ausweg gibt. Wie können wir das bestehen als Land, das selbst verunsichert ist? Woher nehmen wir die Stärke, Widersprüche auszuhalten, wenn wir selbst von Zweifeln geplagt sind?

    Ich glaube: Dieser Moment der Krise, der muss für uns zunächst ein Moment der Selbstvergewisserung sein. Machen wir uns klar: Das, was uns im Kern ausmacht, das hat Bestand. Auch in Zeiten des Gegenwinds bleiben wir, wer wir sind: eine starke Demokratie in der Mitte Europas. Eine freie, vielfältige Republik von selbstbestimmten Bürgerinnen und Bürgern.

    Was der Epochenbruch, von dem ich spreche, was der verändert, sind nicht die Werte, für die wir stehen. Aber die Ziele müssen wir schärfen und anpassen auf die neuen Herausforderungen. Wir wollen in zwei Jahren sagen können: Wir haben die wirtschaftliche Talsohle durchschritten. Wir wollen in fünf Jahren sagen können: Nicht nur die Ukraine hat ihre Souveränität behauptet – auch wir selbst müssen keine Angst vor neuen Kriegen in Europa haben. Wir wollen in zehn Jahren sagen können: Wir haben diese Gesellschaft zusammengehalten, mit den Schwächeren untergehakt und mitgenommen, und die Mehrheit hat ihr Vertrauen in die Demokratie bewahrt. Wir wollen in fünfzehn Jahren sagen können: Trotz Krieg und Krise – wir haben sichergestellt, dass auch den nachfolgenden Generationen ein gutes Leben auf unserer Erde möglich ist.

    Ja, wahrscheinlich können wir die Erfolgsgeschichte unseres Landes nicht in derselben Taktzahl fortschreiben wie in den letzten drei Jahrzehnten. Aber das Wesentliche wird wieder wichtig, und das verdient unsere ganze Kraft.

    Ich sage ""unsere"" Kraft, und ich sage das ganz bewusst. Liebe Landsleute, diese neue Zeit, sie fordert jeden Einzelnen. Vielleicht konnte man in den Zeiten mit Rückenwind noch durchkommen, ohne sich selbst großartig einzusetzen. Vielleicht konnte man es sich erlauben, Politik einfach anderen zu überlassen. Das gilt heute nicht mehr. Deutschland, unser Land braucht Ihren Willen zur Veränderung, braucht Ihren Einsatz für das Gemeinwesen, damit wir dort ankommen, wo wir hinwollen!

    Was also verlangt das Wesentliche? Und was sind wir bereit, uns abzuverlangen? Klar ist: Wir müssen in den nächsten Jahren Einschränkungen hinnehmen. Das spüren die meisten längst. Jeder muss beitragen, wo er kann. Und diese Krise verlangt, dass wir wieder lernen, uns zu bescheiden.

    Das mag nun wie Hohn klingen in den Ohren derer, die schon heute nicht über die Runden kommen. Ich weiß, dass auch in unserem reichen Land viele nicht verzichten können, weil ihr gesamter Alltag bereits aus Verzicht besteht. Diese Krise trifft Menschen, die schon vor dem Kriegsausbruch jeden Tag für ihr Auskommen zu kämpfen hatten, für ihre Wohnung oder für ein gutes Leben ihrer Kinder. Diese Krise trifft Betriebe, Selbstständige, Läden, die gut liefen, aber jetzt wegen unterbrochener Lieferketten und hoher Energiepreise in die Schieflage geraten.

    Deshalb muss am Beginn jeder Debatte die Versicherung stehen: Unser Staat lässt Sie auch in dieser Zeit nicht allein! Er setzt seine Kraft ein, um denen zu helfen, die es allein nicht schaffen. Entlastungspakete, Abwehrschirm, Gaspreisbremse, Wohngeld und Unterstützungsleistungen für Unternehmen, die großen wie die kleinen, zeugen von diesem Willen. Wichtig ist: Diese Unterstützung muss jetzt rasch bei den Betroffenen ankommen. Kein Staat, auch das gehört zur Wahrheit, kein Staat in Europa kann so viel für seine Bürger tun wie unser Land. Aber auch unser Staat wird nicht jede Belastung auffangen können. Und er muss es nicht! Denn die Krise trifft auch auf die Vielen, denen es – zum Glück! – gut geht, die stark sind, die in den Jahren des Rückenwinds auch zu Wohlstand und Sicherheit gekommen sind. Sie können sich einschränken, ohne dass existenzielle Not entsteht. Und es gibt auch Bereitschaft dazu, wie mir manche sogar schreiben. Vertrauen wir auf diese starke Mitte unserer Gesellschaft!

    Und schließlich trifft diese Krise auch auf viele wohlhabende, reiche Menschen in unserem Land. Menschen, die viel haben und mehr tragen können. Sie müssen jetzt helfen, um die immensen Kosten der notwendigen Entlastungen überhaupt stemmen zu können. Sie müssen jetzt beitragen, um neue Ungerechtigkeiten zu vermeiden. Beeindruckende Entlastungspakete sind wichtig – aber nicht weniger wichtig ist Gerechtigkeit bei der Verteilung der Lasten! Davon wird viel abhängen, glaube ich.

    Liebe Landsleute, mir ist völlig klar: Niemand schränkt sich gern ein. Aber ich wünsche mir, dass wir unsere Perspektive verändern. Dass wir nicht als erstes fragen: ""Wer kann mir die Last abnehmen?"" Sondern eher: ""Hilft das, um gemeinsam durch die Krise zu kommen?"" Das ist die Haltung, mit der wir jetzt, so hoffe ich, gemeinsam durch den Winter gehen.

    Doch zur Wahrheit gehört auch: Mit diesem Winter ist es nicht getan. So sehr uns die Sorgen vor Inflation, Energiepreisen und dem Krieg gerade umtreiben: Es wird auch nach diesem Winter, auch nach dieser wirtschaftlichen Talsohle kein einfaches Zurück zum Davor geben können. Denn auch wenn der Krieg die politische Tagesordnung verschoben hat – auch der Klimawandel fordert unser entschiedenes Handeln, auch und gerade jetzt! Ich mache mir ehrlich gesagt Sorgen, dass diese Menschheitsaufgabe zu sehr in den Hintergrund gerät. Der Klimawandel macht keine Ukraine-Pause!

    Klar ist: Wenn wir Emissionen drastisch reduzieren und uns von fossilen Energien lösen wollen, müssen wir manche lieb gewordene Gewohnheit aufgeben, im Kleinen wie im Großen. Von der Frage, wie – und wie schnell – wir uns fortbewegen und was wir essen, bis hin zur Frage, wie wir bauen und wohnen. Auch hier kann jeder Einzelne seinen Beitrag leisten. Beginnen wir sofort damit! Jeder noch so kleine Schritt ist besser als keiner.

    Aber trotzdem werden diese individuellen Anstrengungen natürlich nicht ausreichen. Unser Land, unser erfolgreiches Wirtschaftsmodell steht vor einem historischen Umbau. Wir verlassen gerade die Ära der fossilen Industrialisierung, eine Ära, die Deutschlands Aufstieg als Exportnation begründet und begleitet hat. Und wir treten ein in ein Zeitalter zunehmend ohne Kohle, Öl und Gas, in dem sich Deutschland neu beweisen muss und neu beweisen wird. Darin liegen, bei aller Herausforderung, über die ich spreche, auch wirklich große Chancen für unser Land! Dass wir diese Chancen tatsächlich nutzen, dass neuer Wohlstand auf neuen, besseren Grundlagen möglich wird, das ist jetzt die vordringliche Aufgabe von Ingenieurinnen und Entwicklern, von Wirtschaft und Politik. Und dafür, dass diese Aufgabe gelingt, dafür sind unsere Chancen, wie ich finde, gut.

    Und weil der Klimawandel in der Welt nur gemeinsam abgewendet werden kann, müssen wir auch dafür Sorge tragen, dass es in Zukunft weiterhin Institutionen und Kooperationen geben wird, die über die wachsenden geopolitischen Gräben hinweg eine neue Blockkonfrontation vermeiden. Eine Zweiteilung der Welt in ""wir gegen die"", die ist, so bin ich überzeugt, nicht in unserem Interesse. Ja, wir müssen unsere Verwundbarkeit reduzieren, wir müssen einseitige Abhängigkeiten verringern. Aber das bedeutet eben nicht weniger Vernetzung mit der Welt, sondern, das wird Sie überraschen, mehr. Nicht binden an wenige, sondern Chancen und Risiken streuen. Deshalb rate ich uns: Verlernen wir nach dem Epochenbruch, über den wir sprechen, nicht all das, was deutsche Außenpolitik stark gemacht hat: die europäische Verankerung, das Bemühen um internationale Zusammenarbeit, um gemeinsame Regeln, der Dialog zwischen den Verschiedenen, das Werben um Partner, die anders sind als wir. Das ist eben keine Stilfrage, sondern das ist eine Überlebensfrage.

    Ohne den Kampf gegen den Klimawandel ist alles nichts. Er braucht unsere ganze Kraft. Beweisen wir jetzt unsere Stärke in der Veränderung! Ermöglichen wir unseren Kindern und Kindeskindern ein gutes Leben auf unserem Planeten! Wir haben das in der Hand!

    Meine Damen und Herren, wir schränken uns ein, um durch die Krise zu kommen. Wir verändern uns, um unsere Erde zu erhalten. Noch ein Drittes wird uns abverlangt in dieser Epoche: Wir brauchen aktive, widerstandskräftige Bürgerinnen und Bürger.

    Denn in diesen Zeiten des Gegenwinds nehmen die Angriffe auf unsere freie Gesellschaft zu. Putin versucht, Europa zu spalten, und er trägt dieses Gift auch ins Innere unserer Gesellschaft. Wir sind verletzlich, weil wir offen sind und weil wir auch offen bleiben wollen. Das Netz der Bahn, das freie Internet, die Software auf unseren Handys, unsere Energieversorgung – all das, das wissen Sie, ist bereits Ziel von Angriffen geworden. Wir werden uns besser schützen müssen.

    Aber auch unsere Demokratie gehört zur kritischen Infrastruktur. Und sie steht unter Druck. Sie schützen können nur wir selbst. Das verlangt von uns Demokraten mehr als Bekenntnisse. Es verlangt Engagement und – auch hier wieder – Widerstandsgeist und Widerstandskraft.

    Widerstandskräftige Bürger treten ein für ihre Meinungen, äußern ihre Sorgen – aber sie lassen sich nicht vereinnahmen von denen, die unsere Demokratie attackieren. Widerstandskräftige Bürger unterscheiden zwischen der notwendigen Kritik an politischen Entscheidungen – und dem Generalangriff auf unser politisches System. Widerstandskräftige Bürger halten Unsicherheit aus und lassen sich nicht verführen von denen, die einfache Lösungen versprechen. Sie erwarten mit Recht, dass Politik sich in dieser schwierigen Zeit auf das Wichtigste konzentriert, dass Pragmatismus über ritualisierte Schaukämpfe siegt. Widerstandskräftige Bürger fordern Freiraum für ihre eigene Art zu leben – aber vergessen nicht, wie sehr wir alle auf andere angewiesen sind. Widerstandskräftige Bürger verlangen sich etwas ab: Respekt und Vernunft zum Beispiel. Das ist schwer, richtig schwer! Aber nur so können wir dem Gift des Populismus, der Gefahr des Auseinanderdriftens wirksam etwas entgegensetzen.

    Und am Ende kommt es auch darauf an, wenn wir im Gegenwind stehen: Anstatt uns weiter auseinandertreiben zu lassen, müssen wir alles stärken, was uns verbindet.

    Alles stärken, was uns verbindet – zum Beispiel zwischen Jung und Alt. Viele jüngere Menschen sind ungeduldig und werfen den Älteren vor, dass sie zu sorglos mit unserem Planeten umgegangen sind, zu zögerlich umgesteuert haben. Die Jüngeren fühlen sich betrogen – die Älteren fühlen sich abgewertet in dem, was sie für ihre Kinder und ihr Land getan haben. Spielen wir die Generationen nicht gegeneinander aus! Daraus kann nichts Gemeinsames entstehen. Und wir alle haben doch hoffentlich das gleiche Ziel! Wir wollen unser Land verändern, wir wollen es zu einem besseren machen – und das geht eben nur gemeinsam. Und so kommt auf uns Ältere, auf meine Generation jetzt die Aufgabe zu, selbst spät im Leben das Gewohnte noch einmal zu überdenken und mitzuhelfen, dass Veränderung gelingt. Und den Jüngeren, auch den vielen hier im Saal, sage ich: Es ist jetzt an Euch, in die Verantwortung zu gehen, Euch einzubringen, gerne kritisch, nicht destruktiv, und unser Land zu verändern, es vielleicht sogar besser zu machen als die Generationen davor. Meine Unterstützung habt Ihr, haben Sie!

    Oder schauen wir auf manches Unverständnis zwischen Ost und West. Auch hier ist zu stärken, was uns verbindet. Viele Menschen in Ostdeutschland erleben gerade gefühlt die Rückkehr in die neunziger Jahre, als schon einmal Sicherheiten einstürzten und Existenzen zusammenbrachen. Wie viel von dieser Erfahrung, von dieser Angst ist im Westen wirklich angekommen? Wir müssen es diesmal besser machen, im Angesicht einer Krise, die den Osten erneut härter trifft, weil natürlich auch 32 Jahre nach der Wiedervereinigung die Energieversorgung schwieriger, die Einkommen niedriger und die Ersparnisse geringer sind bei den Menschen. Zu stärken, was uns verbindet, bedeutet heute dafür zu sorgen, dass der Osten nicht hinten runterfällt. Ich weiß, dass dort die Sorgen groß sind. Aber ich weiß auch, wie viel Licht am Horizont ist, wie viele Gründer, wie viel innovative Technologien auf Weltniveau aus Ostdeutschland kommen dank bester Universitäten und Forschungsinstitute. Ein Unternehmen aus Thüringen ist gerade zum zweiten Mal mit dem Deutschen Zukunftspreis ausgezeichnet worden. Ersehnte Ansiedlungen von Halbleiterproduktion finden in Sachsen und demnächst auch in Sachsen-Anhalt statt. Führende Unternehmen der Elektromobilität finden auch in Brandenburg ihren Platz. Das alles sind mehr als ermutigende Einzelfälle. Arbeiten wir an dieser neuen und nachhaltigen Stärke Ostdeutschlands, das ist unsere gemeinsame Aufgabe!

    Und das Verbindende zu stärken, diese Aufgabe stellt sich auch zwischen Stadt und Land. Viele Menschen, die in ländlichen Regionen leben – und das ist die Mehrheit in unserem Land –, finden sich nicht wieder in den Debatten, die wir in der Hauptstadt führen, Debatten, die häufig noch viel weiter von ihren tatsächlichen Problemen entfernt sind als der nächste Facharzt oder die Poststelle. Umgekehrt blicken viele Menschen in der Großstadt manchmal in einer Mischung aus Verklärung und Überheblichkeit auf die ländlichen Räume, sehnen sich nach Ruhe und Abgeschiedenheit – die man aber nur am Wochenende genießen will. Woran es häufig fehlt, ist die ehrliche Anerkennung von unterschiedlichen Lebensbedingungen von Stadt und Land; woran es fehlt, ist die Bereitschaft, die Bedürfnisse von Menschen im ländlichen Raum ernst zu nehmen, auch die Lebensqualität in den Dörfern und kleinen Städten zu erhalten. Und dazu braucht es mehr als eine stabile Internetverbindung. Es verlangt Aufmerksamkeit, und es verlangt Respekt für ein anderes Leben. Wagen wir doch ruhig häufiger einmal den Blick über den eigenen Tellerrand, über die eigene Wirklichkeit hinweg! Ich glaube, das können, das müssen wir uns abverlangen in einem gemeinsamen Land.

    Reich und Arm, Jung und Alt, Stadt und Land: Verbindungen stärken, über Generationen und vor allen Dingen Lebenswelten hinweg – darum geht es mir jetzt. Ich bin jedem dankbar, der an mehr denkt als nur sich selbst. Viele Menschen in unserem Land tun es, diese Menschen sind das Rückgrat unserer Gesellschaft. Aber dieses Lob aufs Ehrenamt, das darf nicht mehr nur Sache von Sonntagsreden sein. Fakt ist: Das klassische Ehrenamt altert, Verantwortung verteilt sich auf weniger Schultern. Dabei ist der Einsatz für andere – gerade in den Zeiten des Gegenwinds – unverzichtbar! Oder ich könnte sagen: systemrelevant! Eben deshalb müssen wir neue Wege finden, wie wir Entfremdung entgegenwirken, unsere Gesellschaft, unseren Gemeinsinn stärken.

    Dazu habe ich einen Vorschlag gemacht, und ich sage es offen, ich habe auch nicht erwartet, dass die Idee einer sozialen Pflichtzeit nur Begeisterung hervorruft. Was ich will, ist eine ehrliche Debatte über unser Engagement für das gemeinsame Ganze. Eine Debatte, die hoffentlich nicht wieder im Nichts enden wird! Ich bin und bleibe überzeugt, dass es keine Zumutung ist, wenn wir die Menschen fragen, was sie für den Zusammenhalt in diesem Lande zu tun bereit sind.

    Denn, und das ist meine wirklich tiefe Überzeugung: Demokratie geht nicht ohne Zusammenhalt. Zusammenhalt entsteht nicht von selbst. Er muss auch eingeübt werden. Er ist das Ergebnis von Menschen, von Empathie, von Verantwortung, von Nächstenliebe. Die Idee der sozialen Pflichtzeit einfach nur abzulehnen, das ist keine Antwort auf die Herausforderungen unserer Zeit. Vielleicht gibt es andere überzeugende Konzepte. Aber soll das ewige Plädoyer für Zusammenhalt nicht folgenlos bleiben, dann brauchen wir mehr: mehr Ideen und mehr Menschen, die – mindestens einmal im Leben – für eine gewisse Zeit sich den Sorgen ganz anderer, zuvor fremder Menschen widmen, für diese Menschen schlicht und einfach da sind. So stärken wir, was uns verbindet, und darauf kommt es jetzt an – mehr als je zuvor!

    Liebe Gäste, zum Schluss: Staatsbürger und Staatsbürgerin zu sein in Zeiten der Krise, Widerstandskraft beweisen im Gegenwind, das verlangt uns etwas ab. Wir stehen heute zum ersten Mal in der Geschichte des vereinten Deutschlands gemeinsam an einem Scheidepunkt. Trauen wir uns zu, aufzubrechen in diese neue Zeit mit ihren neuen Herausforderungen? Sind wir gewappnet für das, was von uns gefordert wird?

    Ich bin überzeugt: Aus dieser Herausforderung heraus kann neue Stärke, kann auch neue Einheit wachsen. Es wird nicht einfach sein, und es wird anstrengend sein. Ja, wir werden durch eine Zeit der Belastungen und der Unsicherheiten gehen, bevor wir neue Sicherheiten und wieder ganz festen Grund unter den Füßen haben. Ich wünsche mir, dass wir uns bei all den Mühen nicht aus den Augen verlieren, dass wir unsere Kraft jetzt nicht im täglichen Gegeneinander vergeuden. Wenn wir zusammenhalten, wenn wir Mut und Ehrgeiz beweisen, dann bin ich mir sicher: Wir werden dieser Aufgabe gewachsen sein.

    Wir bewahren unsere Freiheit, unsere Demokratie. Wir machen Deutschland zu einer neuen Industrienation – technologisch führend, klimaverantwortlich, in der Mitte Europas. Vernetzt, aber weniger verwundbar. Wehrhaft, aber nicht kriegerisch. Ein offenes, freundliches Land mit mehr und neuen internationalen Partnern.

    Ich bin überzeugt: Unser Land hat die Kraft, Krisen zu überwinden. Es hat die Menschen, die immer wieder dafür arbeiten, die Unternehmerinnen, die Forscher, die Ingenieure, die Facharbeiterinnen. Unser Land hat das Wissen und die Ideen, die Erfahrung von Generationen und den Ehrgeiz der Jugend.

    Vertrauen wir einander – und vertrauen wir uns selbst! Und lassen wir uns nicht entmutigen vom Gegenwind, der uns in dieser neuen Zeit entgegenweht. Es kommt nicht darauf an, dass alle dasselbe tun – aber dass wir eines gemeinsam im Sinn haben: alles zu stärken, was uns verbindet!

    Das ist die Aufgabe. Tun wir’s.

    #Allemagne #guerre #politique #2022

  • Der Bundespräsident
    https://www.bundespraesident.de

    Le président allemand Steinmeier vient de s’adresser aux jeunes avec un discours dans lequel il les appelle d’une manière à peine cachée à se préparer à la guerre. Aucun représentant du gouvernement Scholz n’a été présent ce qui laisse penser que le chancelier et ses ministres ne sont pas d’accord ou avec le contenu du discours ou avec le moment de son énonciation.

    PDF allemandhttps://www.bundespraesident.de/SharedDocs/Downloads/DE/Reden/2022/10/221028-Alles-staerken-was-uns-verbindet.pdf?__blob=publicationFile

    Traduction officelle/anglais https://www.bundespraesident.de/SharedDocs/Downloads/DE/Reden/2022/10/221028-Alles-staerken-was-uns-verbindet-Englisch.pdf?__blob=publica

    Pour comparaison : München, 31. Januar 2014, « Deutschlands Rolle in der Welt : Anmerkungen zu Verantwortung, Normen und Bündnissen » discours du présdent Gauck qui annonce le rôle actif de l’Allemagne dans les guerres prévues
    https://www.bundespraesident.de/SharedDocs/Reden/DE/Joachim-Gauck/Reden/2014/01/140131-Muenchner-Sicherheitskonferenz.html

    réproduit et référencé ici : https://seenthis.net/messages/534341

    L’introduction au discours tenu le 28.10.2022

    „Alles stärken, was uns verbindet“

    Bundespräsident Frank-Walter Steinmeier hat sich am 28. Oktober bei einer Veranstaltung mit der Deutschen Nationalstiftung in Schloss Bellevue mit einer Rede an die Bürgerinnen und Bürger gewandt: „Dieser Moment der Krise, der muss für uns zunächst ein Moment der Selbstvergewisserung sein. Machen wir uns klar: Das was uns im Kern ausmacht, hat Bestand [...] Das Wesentliche wird wieder wichtig, und das verdient unsere ganze Kraft.“

    #Allemagne #guerre #politique #2022

  • Le #Conseil_d’Etat enterre l’#espace_Schengen et s’oppose à la #Cour_de_justice_de_l’Union_européenne

    Dans une décision du #27_juillet_2022, le Conseil d’Etat valide une nouvelle fois la prolongation du rétablissement des #contrôles_aux_frontières_intérieures par le gouvernement français, prenant ainsi l’exact contrepied de la position de la Cour de justice de l’Union européenne (#CJUE).

    Alors que, depuis 2015, les autorités françaises prolongent systématiquement tous les 6 mois les contrôles aux frontières intérieures au motif d’une « #menace_persistante » liée au #terrorisme, le Conseil d’Etat, dans sa décision du 27 juillet, se livre à une lecture tronquée de l’arrêt de la CJUE. Pour voler au secours du gouvernement, il s’autorise à réécrire le #droit_européen ignorant délibérément certains développements essentiels apportés par la Cour.

    Ainsi, éludant la définition retenue par la CJUE d’une « nouvelle menace » à savoir, une menace « distincte de celle initialement identifiée », le Conseil d’Etat persiste dans la position qu’il avait adoptée en 2017 et 2019 en considérant qu’une « menace identique mais renouvelée » pourrait suffire à justifier la prolongation des contrôles.

    Pire, le Conseil d’Etat conforte encore le gouvernement en lui permettant d’avance de procéder à des #prolongations sans fin des contrôles aux frontières intérieures, ce que précisément l’arrêt de la CJUE interdit.

    Or, ces contrôles et les pratiques policières qui y sont associées ont pour conséquence des violations quotidiennes des droits des personnes aux frontières pouvant aller jusqu’à provoquer des décès, comme nos organisations le dénoncent inlassablement depuis près de 7 ans.

    Alors qu’il aurait pu et dû mettre un terme à l’illégalité de ces pratiques et faire respecter le principe de #primauté_du_droit_européen, le Conseil d’Etat porte le coup de grâce à la #liberté_de_circulation dans l’espace Schengen.

    https://www.lacimade.org/presse/le-conseil-detat-enterre-lespace-schengen-et-soppose-a-la-cour-de-justice-

    #frontières_intérieures #contrôles_frontaliers #rétablissement #France #justice #migrations #asile #réfugiés #2022 #droit