• À Clermont-Ferrand, la success story de la librairie Les Volcans, sauvée par le modèle coopératif | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/france/200424/clermont-ferrand-la-success-story-de-la-librairie-les-volcans-sauvee-par-l

    Clermont-Ferrand (Puy-de-Dôme).– « Nous nous sommes fait confiance. » En une phrase, Martine Lebeau révèle le secret de la réussite d’une entreprise que banquiers et autres experts jugeaient promise à un échec cuisant. En effet, comment de simples chef·fes de rayon et des caissiers et caissières auraient-ils pu gérer avec succès une librairie de plus de trente salarié·es, là où des managers confirmés n’avaient pu éviter la liquidation ? Et pourtant, ils et elles l’ont fait.

  • Migranti, nei centri italiani in Albania un rotolo di carta igienica a persona a settimana

    I paradossi del #bando da 34 milioni di euro pubblicato dal Viminale per la gestione delle strutture. Applicata la procedura di estrema urgenza, negoziazione tra tre soli operatori economici, una sola settimana di tempo per la manifestazione d’interesse.

    Un appalto da 34 milioni di euro e un rotolo di carta igienica a settimana per migrante. Basterebbe questo paradosso a bollare come frettoloso e sommario il bando per l’affidamento dei servizi per i centri di accoglienza e trattenimento dei richiedenti asilo che il governo Meloni prevede di aprire in Albania entro il 20 maggio. Una improbabile corsa contro il tempo per un’operazione che ancora manca del requisito di legittimità giuridico fondamentale ma che la premier intende giocarsi in vista della campagna elettorale per le Europee del 9 giugno.

    Misteriose ragioni di estrema urgenza

    E dunque ecco il ricorso a «#ragioni_di_estrema_urgenza» ( che non si sa quali siano visto che gli sbarchi sono nettamente diminuiti) per giustificare la procedura negoziale riservata a tre soli concorrenti che, nel giro di soli sette giorni, dovrà aggiudicare l’affidamento dei servizi di accoglienza e di gestione dei tre centri previsti dove i lavori non sono neanche cominciati: quello nel porto di Shengjin, adibito allo screening sanitario, all’identificazione e alla raccolta delle richieste di asilo, e i due di Gjader, la struttura di accoglienza da 880 posti dove i migranti resteranno (teoricamente) per un mese in attesa di conoscere l’esito della procedura accelerata di frontiera, e il Cpr da 144 posti dove verranno trasferiti quelli destinati al rimpatrio.

    Si risparmia sull’igiene dei migranti

    Il bando è stato pubblicato il 21 marzo, con avviso di manifestazione di interesse che si concluderà nel tempo record di una settimana. Un appalto da 34 milioni di euro a cui si aggiungono i rimborsi ( non quantificabili) di servizi di trasporto, utenze, raccolta dei rifiuti, manutenzione ordinaria e straordinaria, e dell’assistenza sanitaria. Non proprio quattro spiccioli, a fronte dei quali, però, spulciando il bando si trovano vere e proprie “perle”. Sull’igiene personale dei migranti, tanto per cominciare, chi si aggiudicherà l’appalto, potrà risparmiare: un solo rotolo di carta igienica a settimana a testa dove i richiedenti asilo attenderanno ( in detenzione amministrativa) l’esito della richiesta di asilo. Rotoli che, chissà poi perchè, diventeranno sei a settimana per gli sfortunati che, a fronte del diniego, verranno trasferiti nell’ala destinata a Cpr.

    Solo un cambio di abiti a stagione

    Nel kit di primo ingresso nei centri solo un paio di mutande e un paio di calze e, più in generale, un solo cambio di abiti a stagione.E dunque, a differenza dei centri di accoglienza italiani dove i migranti sono liberi e possono procurarsi altri abiti, i richiedenti asilo portati in Albania saranno detenuti e costretti ad indossare sempre gli stessi. Avranno il detersivo per lavarli due volte a settimana, nel frattempo evidentemente staranno in pigiama. Almeno si consoleranno con il cibo che prevede persino la pizza e il dolce due volte a settimana.

    Per raccontare la loro storia alla commissione d’asilo che deciderà il loro destino o per comparire davanti ai giudici di Roma, competenti sui ricorsi, dovranno accontentarsi di un collegamento da remoto, con tutte le limitazioni in tema di diritti che nascono dalle difficoltà di espressione e comprensione.

    Magi: “Un gigantesco spot elettorale”

    «Una bella photo-opportunity elettorale - commenta Riccardo Magi di Più Europa - Giorgia Meloni vuole allestire questi centri in fretta e furia e usarli come un gigantesco spot a pochi giorni dal voto a spese degli italiani».

    https://www.repubblica.it/cronaca/2024/03/23/news/migranti_centri_albania_bando_viminale-422362144

    #Albanie #Italie #asile #migrations #réfugiés #coût #urgence #gestion #appel_d'offre #externalisation

    –-

    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    • Protocollo Italia-Albania: il Viminale avvia la gara milionaria per la gestione dei centri

      Dal bando pubblicato il 21 marzo dalla prefettura di Roma emergono i primi dettagli dell’accordo contro i migranti: solo per le spese vive e il personale delle strutture, due hotspot e un Centro di permanenza per il rimpatrio, sono assicurati al gestore privato quasi 40 milioni di euro all’anno. I tempi sono strettissimi, le europee incombono

      Il ministero dell’Interno ha pubblicato i bandi di gara per la gestione delle nuove strutture per i migranti in Albania che diventeranno operative, documenti alla mano, entro il 20 maggio 2024. Un primo passo concreto verso la messa in pratica del protocollo annunciato dal Governo Meloni con Tirana lo scorso 6 novembre 2023 -poi ratificato dal Parlamento a fine febbraio 2024- e che prevede di dislocare i naufraghi soccorsi in operazioni di salvataggio in mare sul territorio albanese. Più precisamente in tre strutture con una capienza totale che supera i mille posti disponibili: due hotspot, ovvero i centri di identificazione, che in Italia troviamo nei cosiddetti “punti di crisi”, principali punti di sbarco (Lampedusa, Pozzallo e Taranto tra gli altri), più un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dove trattenere coloro che sono in attesa di essere espulsi nel proprio Paese d’origine. La spesa annuale stimata è pari a quasi 40 milioni di euro, calcolando esclusivamente il costo a persona (pro-capite pro-die), che però esclude diverse spese vive (dal trasporto all’assistenza sanitaria fino alle utenze).

      La gara è stata pubblicata il 21 marzo e individua nella prefettura di Roma la stazione appaltante, la quale ha scelto di attivare una procedura negoziata con cui consulterà un “numero congruo di operatori economici” per aggiudicare i servizi all’ente gestore. Un bando di questo genere può essere giustificato solo in casi di estrema urgenza. E secondo il ministero l’affidamento in oggetto, essendo un presupposto fondamentale per “l’attuazione del Protocollo tra Italia e Albania in conformità ai tempi ed agli adempimenti che risultano necessari per rispettare, alle scadenze previste, gli impegni assunti dal Governo della Repubblica Italiana”, rientra tra quelle procedure basate proprio su “ragioni di estrema urgenza”.

      La prima struttura è sita nella città portuale di Shenjin e sarà a tutti gli effetti un hotspot. “Una struttura dimensionata per l’accoglienza, senza pernottamento, dei migranti condotti in porto e destinati alle procedure di screening sanitario, identificazione e raccolta delle eventuali domande di asilo, all’esito delle quali i migranti saranno trasferiti presso le strutture di Gjader”. Gjader è la seconda località coinvolta dove saranno costruite le altre due strutture: un centro destinato “all’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale” con un’accoglienza massima a regime di 880 migranti, e un altro, sempre nella stessa città albanese che sarà invece un Centro di permanenza per il rimpatrio, che ricalca quelli presenti sul territorio italiano, con una capienza fino a 144 persone. A Gjader saranno disponibili poi 168 posti per alloggi di servizio, di cui 60 riservati al personale dell’ente gestore.

      Come detto, i corrispettivi riconosciuti pro-capite pro-die, secondo la tipologia di centro ed il relativo numero degli ospiti presenti, ammontano “presuntivamente a complessivi 33.950.139 euro annui”. La gara d’appalto ha una durata di due anni, prorogabili fino ad un massimo di altri due. Sono esclusi dai quasi 40 milioni di euro, invece, i costi di trasporto, le utenze idriche, elettriche, del servizio di raccolta rifiuti, la connessione wifi e la manutenzione ordinaria e straordinaria. Così come quelli per la “predisposizione e manutenzione dei presidi antincendio” e quelli “relativi all’assistenza sanitaria”.

      Proprio questo è uno degli aspetti paradossali affrontati dal bando. Per la struttura sita nel porto di Shenjin si prevede “un ambulatorio medico dedicato per assistenza sanitaria, inclusa la stabilizzazione di condizioni cliniche ai fini del trasferimento” con “una sala per visite ambulatoriali, una stanza per osservazioni brevi con tre posti letto e una stanza di isolamento con due posti”.

      Invece nel sito di Gjader verrà di fatto allestito un vero e proprio “mini ospedale”. Vengono previste “tre sale per visite ambulatoriali, due stanze per osservazioni brevi (ognuna dotata di tre posti letto), una medicheria, una sala operatoria e una recovery room, un laboratorio analisi, una stanza per diagnostica per immagini (rx ed ecografia), una per visite psicologiche/psichiatriche all’uopo utilizzabile anche per consulenze in telemedicina e due stanze di isolamento”. Una struttura in cui opererà un elevatissimo numero di personale sanitario. Oltre a medici e infermieri per l’attività standard, viene prevista una équipe operativa 24 ore al giorno formata rispettivamente da: “medico specialista in anestesia-rianimazione, medico specialista in chirurgia generale, medico specialista in ortopedia con competenze chirurgiche, personale medico specialista in psichiatria, un infermiere strumentista, un operatore socio-sanitario (in caso di attivazione della sala operatoria), un tecnico di laboratorio, un tecnico di radiologia, un personale medico specialista in radiologia”.

      L’ente gestore, oltre a fornire kit di primo ingresso, sia igienici sia vestiari e a garantire la fornitura dei pasti e l’informativa legale, dovrà garantire la predisposizione di “appositi locali e strumenti tecnici che assicurino la connessione alla rete e il collegamento audio-visivo nel rispetto della privacy e della libertà di autodeterminazione del beneficiario per l’eventuale audizione da remoto davanti alle Commissioni territoriali, nonché davanti al Tribunale ordinario e ad altri uffici amministrativi”. In altri termini: saranno implementate delle stanze per svolgere le audizioni di chi, una volta richiesto asilo, dovrà affrontare l’iter per vedersi o meno riconosciuto il permesso di soggiorno. Tutto inevitabilmente online. Dovrà esserci anche un locale “al fine di tutelare la riservatezza della persona nei colloqui con il proprio legale” o favorire l’incontro con “eventuali visitatori ammessi”. La prefettura di Roma, dovrà essere messa a conoscenza “di ogni notizia di rilievo inerente la regolare conduzione della convivenza e le condizioni del centro e tenuta di un registro con gli eventuali episodi che hanno causato lesioni a ospiti od operatori”, nonché la consegna della certificazione di idoneità al trattenimento.

      La gara è aperta fino al 28 marzo. La prefettura valuterà le offerte pervenute da imprese o cooperative già attive nel settore con un fatturato complessivo, negli ultimi tre esercizi disponibili, non inferiore a cinque milioni di euro. Non certo piccole realtà dell’accoglienza. L’avvio dell’operatività dei centri è prevista non oltre il 20 maggio 2024. Quindici giorni prima di quella data, il ministero dell’Interno potrà confermare o meno l’effettivo avvio a pieno regime oppure anche con “una ricettività progressiva rispetto a quella massima prevista nelle more del completamento degli eventuali lavori di allestimento”. L’importante è partire: le elezioni europee di inizio giugno incombono.

      https://altreconomia.it/protocollo-italia-albania-il-viminale-avvia-la-gara-milionaria-per-la-g

    • Albania-Italy migrant deal moves ahead as Rome publishes tender for processing centre

      As of 20 May 2024, camps in Albania that will process the asylum applications of individuals rescued by the Italian authorities will be up and running, as a recently published tender document reveals more details about the deal and how the site will function.

      In November 2023, Albanian Prime Minister Edi Rama and Italian Prime Minister Giorgia Meloni signed a deal that would see migrants rescued in Italian territorial waters or by Italian authorities sent to Albania for their asylum applications to be processed. The deal has divided opinion on both sides of the Adriatic from the outset, but both governments remain adamant about it going ahead.

      The tender notifications, published by the Rome prefect’s department, invite bidders to submit their offers before 28 March with the deadline of 20 May as the start of operations.

      According to the tender details, worth €34 million, the site will consist of three structures able to accommodate a total of around 3000 people.

      One structure will be built at the port of Shengjin, where landing and identification procedures will be carried out.

      The other two sites will be located in Gjader. One will be dedicated to ascertaining the prerequisites for the recognition of international protection, while the other will serve as a repatriation detention centre.

      According to the Italian government, the site will process individuals rescued by the Italian authorities involved in maritime rescue, such as the coast guard, financial police, or navy, and explicitly exclude those rescued by NGOs. It will also not include disabled people, women, children, or other vulnerable individuals.

      The tender states that the facility in Shengjin will have a medical clinic, including a room for outpatient visits, an isolation room, and a three-bed ward. In Gjader, there will be three outpatient rooms, two wards, an operating theatre, a laboratory, an x-ray and ultrasound room, and a space for psychological and psychiatric visits.

      Medical specialists on site will include a doctor specialising in anaesthesia and resuscitation, a doctor specialising in general surgery, a doctor specialising in orthopaedics with surgical skills, medical staff specialising in psychiatry, an instrumental nurse, a social doctor, a health worker, a laboratory technician, a radiology technician, and a health worker specialising in radiology.

      Upon arrival, welcome kits will also be presented to each individual, including an undershirt, T-shirt, pair of pyjamas, three pairs of shorts, and three pairs of socks. They will also be given one roll of toilet paper a week, one toothbrush and 100ml tube of toothpaste per week, and one bottle of shampoo and liquid soap per week.

      The Italian Interior Ministry will conduct spot checks on the site to ensure compliance with the tender.

      During their stay in Albania, estimated at around three months for each person, individuals will not be able to leave the centre, which is to be guarded by Italian and Albanian authorities. If they do, the Albanian police will return them. Once their application has been processed, whatever the outcome, they will be removed from Albania’s territory.

      While on-site, individuals can access legal assistance from representatives of international organisations, including the EU, which aims to provide legal aid to all asylum seekers as required by Italian, Albanian and EU law.

      The agreement caused controversy in Italy and Albania, with the Constitutional Court in Tirana narrowly ruling that it did not violate the laws of the land earlier this year. Meanwhile, despite claims from international law experts that it is not compliant with EU law, European Commissioner for Home Affairs Ylva Johansson said it did not break the law as it is “outside of it”.

      Work has not yet begun at the sites in Shengjin and Gjader, leading to questions about whether they can be operational by spring.

      Shengjin was also home to hundreds of Afghan refugees that Albania took in after the US withdrawal from Afghanistan led to the takeover of the Taliban. While the US promised to take responsibility for them, asking Albania to keep them while it processed their visas, a number still remain with no news or idea if they will ever leave.

      As for the migrant deal, several other EU countries have hinted they may look at similar deals to deal with their immigration issues, a move likely to score votes from the conservative parts of society, ahead of EU elections.

      https://www.euractiv.com/section/politics/news/albania-italy-migrant-deal-moves-ahead-as-rome-publishes-tender-for-proces

    • #Medihospes, #Consorzio_Hera, #Officine_sociali: chi gestirà i centri per migranti in Albania

      La prefettura di Roma ha reso noti i tre partecipanti selezionati tra le trenta proposte pervenute per gestire i due hotspot e il Cpr previsti dall’accordo tra Roma e Tirana. Entro il 20 maggio la gara verrà aggiudicata per un importo che supera i 150 milioni di euro. Ma i lavori di adeguamento alle strutture non sono ancora completati

      Medihospes, Consorzio Hera e Officine sociali. Sono le tre cooperative in corsa per la gestione dei centri italiani in Albania selezionate per le “esperienze contrattuali pregresse afferenti a questi servizi” tra le trenta che hanno manifestato alla prefettura di Roma la propria volontà di partecipare alla gara. Un appalto da oltre 151 milioni di euro (per quattro anni) che verrà aggiudicato, nelle prossime settimane, all’operatore economico che ha presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa.

      Alle tre cooperative in corsa una certa “esperienza” non manca. Officine sociali, con sede legale a Siracusa, gestisce attualmente il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Palazzo San Gervasio a Potenza e l’hotspot di Taranto in Puglia. Attualmente è in gara anche per l’aggiudicazione della gestione del Cpr di Gradisca d’Isonzo, dove sta correndo al fianco di Martinina Srl, finita sotto indagine della Procura di Milano per le condizioni disumane in cui versavano i trattenuti al Cpr di via Corelli di Milano. Il legame tra le due società, come già raccontato su Altreconomia, perdura da tempo: insieme hanno partecipato anche alla gara pubblica per la gestione del Cpr di Torino.


      Consorzio Hera, invece, con sede legale a Castelvetrano, in provincia di Trapani, gestisce attualmente il Cara e il Cpr di Brindisi e quello di Trapani, in cordata con la cooperativa Vivere Con. Inoltre la cooperativa ha “vinto” anche l’hotspot di Pozzallo e Ragusa di cui è l’attuale ente gestore.

      Poi c’è Medihospes, è un colosso da 126 milioni di euro di fatturato nel 2022 che si occupa di assistenza ad anziani, alle persone con disabilità, servizi alberghieri e accoglienza ai migranti. Gestisce attualmente l’ex caserma Cavarzerani di Udine -di cui abbiamo già raccontato in precedenza- ma è attiva in diverse province italiane nell’accoglienza dei richiedenti asilo. Basti pensare che nel 2022 ha incassato, in totale, oltre 34 milioni di euro in tutta Italia per la gestione dei centri.

      Briciole rispetto agli oltre 151 milioni di euro preventivati dalla prefettura di Roma per la “gara” relativa alla gestione delle strutture previste dal protocollo Italia-Albania: un centro nella città portuale albanese Shengjin (hotspot) e due strutture (un altro hotspot e un Cpr) a Gjader (ne abbiamo parlato in questo approfondimento).

      La fornitura di servizi è preventivata con una base d’asta di 130 milioni di euro, con l’aggiunta di quasi sei milioni per il pocket-money e la tessera telefonica. La durata è di 24 mesi, prorogabili per altri 24 a partire dal 20 maggio 2024. Data entro la quale la prefettura di Roma dovrebbe aggiudicare la gara alla cooperativa che avrà presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa. Nei nuovi documenti di gara si sottolinea che i lavori di adeguamento delle strutture non sono ancora stati conclusi. Una corsa contro il tempo. Obiettivo: non certo la tutela dei diritti delle persone ma le elezioni europee.

      https://altreconomia.it/medihospes-consorzio-hera-officine-sociali-chi-gestira-i-centri-per-mig
      #externalisation #Italie #accord #Albanie #migrations #réfugiés #coopérative #sous-traitance #Engel #Engel_Italia #business #Shengjin #Gjader

  • Fermes, coopératives... « En #Palestine, une nouvelle forme de #résistance »

    Jardins communautaires, coopératives... En Cisjordanie et à Gaza, les Palestiniens ont développé une « #écologie_de_la_subsistance qui n’est pas séparée de la résistance », raconte l’historienne #Stéphanie_Latte_Abdallah.

    Alors qu’une trêve vient de commencer au Proche-Orient entre Israël et le Hamas, la chercheuse Stéphanie Latte Abdallah souligne les enjeux écologiques qui se profilent derrière le #conflit_armé. Elle rappelle le lien entre #colonisation et #destruction de l’#environnement, et « la relation symbiotique » qu’entretiennent les Palestiniens avec leur #terre et les êtres qui la peuplent. Ils partagent un même destin, une même #lutte contre l’#effacement et la #disparition.

    Stéphanie Latte Abdallah est historienne et anthropologue du politique, directrice de recherche au CNRS (CéSor-EHESS). Elle a récemment publié La toile carcérale, une histoire de l’enfermement en Palestine (Bayard, 2021).

    Reporterre — Comment analysez-vous à la situation à #Gaza et en #Cisjordanie ?

    Stéphanie Latte Abdallah — L’attaque du #Hamas et ses répercussions prolongent des dynamiques déjà à l’œuvre mais c’est une rupture historique dans le déchaînement de #violence que cela a provoqué. Depuis le 7 octobre, le processus d’#encerclement de la population palestinienne s’est intensifié. #Israël les prive de tout #moyens_de_subsistance, à court terme comme à moyen terme, avec une offensive massive sur leurs conditions matérielles d’existence. À Gaza, il n’y a plus d’accès à l’#eau, à l’#électricité ou à la #nourriture. Des boulangeries et des marchés sont bombardés. Les pêcheurs ne peuvent plus accéder à la mer. Les infrastructures agricoles, les lieux de stockage, les élevages de volailles sont méthodiquement démolis.

    En Cisjordanie, les Palestiniens subissent — depuis quelques années déjà mais de manière accrue maintenant — une forme d’#assiègement. Des #cultures_vivrières sont détruites, des oliviers abattus, des terres volées. Les #raids de colons ont été multipliés par deux, de manière totalement décomplexée, pour pousser la population à partir, notamment la population bédouine qui vit dans des zones plus isolées. On assiste à un approfondissement du phénomène colonial. Certains parlent de nouvelle #Nakba [littéralement « catastrophe » en Arabe. Cette expression fait référence à l’exode forcé de la population palestinienne en 1948]. On compte plus d’1,7 million de #déplacés à Gaza. Où iront-ils demain ?

    « Israël mène une #guerre_totale à une population civile »

    Gaza a connu six guerres en dix-sept ans mais il y a quelque chose d’inédit aujourd’hui, par l’ampleur des #destructions, le nombre de #morts et l’#effet_de_sidération. À défaut d’arriver à véritablement éliminer le Hamas – ce qui est, selon moi, impossible — Israël mène une guerre totale à une population civile. Il pratique la politique de la #terre_brûlée, rase Gaza ville, pilonne des hôpitaux, humilie et terrorise tout un peuple. Cette stratégie a été théorisée dès 2006 par #Gadi_Eizenkot, aujourd’hui ministre et membre du cabinet de guerre, et baptisée « la #doctrine_Dahiya », en référence à la banlieue sud de Beyrouth. Cette doctrine ne fait pas de distinction entre #cibles_civiles et #cibles_militaires et ignore délibérément le #principe_de_proportionnalité_de_la_force. L’objectif est de détruire toutes les infrastructures, de créer un #choc_psychologique suffisamment fort, et de retourner la population contre le Hamas. Cette situation nous enferme dans un #cycle_de_violence.

    Vos travaux les plus récents portent sur les initiatives écologiques palestiniennes. Face à la fureur des armes, on en entend évidemment peu parler. Vous expliquez pourtant qu’elles sont essentielles. Quelles sont-elles ?

    La Palestine est un vivier d’#innovations politiques et écologiques, un lieu de #créativité_sociale. Ces dernières années, suite au constat d’échec des négociations liées aux accords d’Oslo [1] mais aussi de l’échec de la lutte armée, s’est dessinée une #troisième_voie.

    Depuis le début des années 2000, la #société_civile a repris l’initiative. Dans de nombreux villages, des #marches et des #manifestations hebdomadaires sont organisées contre la prédation des colons ou pour l’#accès_aux_ressources. Plus récemment, s’est développée une #économie_alternative, dite de résistance, avec la création de #fermes, parfois communautaires, et un renouveau des #coopératives.

    L’objectif est de reconstruire une autre société libérée du #néolibéralisme, de l’occupation et de la #dépendance à l’#aide_internationale. Des agronomes, des intellectuels, des agriculteurs, des agricultrices, des associations et des syndicats de gauche se sont retrouvés dans cette nouvelle forme de résistance en dehors de la politique institutionnelle. Une jeune génération a rejoint des pionniers. Plutôt qu’une solution nationale et étatique à la colonisation israélienne — un objectif trop abstrait sur lequel personne n’a aujourd’hui de prise — il s’agit de promouvoir des actions à l’échelle citoyenne et locale. L’idée est de retrouver de l’#autonomie et de parvenir à des formes de #souveraineté par le bas. Des terres ont été remises en culture, des #fermes_agroécologiques ont été installées — dont le nombre a explosé ces cinq dernières années — des #banques_de_semences locales créées, des modes d’#échange directs entre producteurs et consommateurs mis en place. On a parlé d’« #intifada_verte ».

    Une « intifada verte » pour retrouver de l’autonomie

    Tout est né d’une #prise_de_conscience. Les #territoires_palestiniens sont un marché captif pour l’#économie israélienne. Il y a très peu de #production. Entre 1975 et 2014, la part des secteurs de l’agriculture et de l’#industrie dans le PIB a diminué de moitié. 65 % des produits consommés en Cisjordanie viennent d’Israël, et plus encore à Gaza. Depuis les accords d’Oslo en 1995, la #production_agricole est passée de 13 % à 6 % du PIB.

    Ces nouvelles actions s’inscrivent aussi dans l’histoire de la résistance : au cours de la première Intifada (1987-1993), le #boycott des taxes et des produits israéliens, les #grèves massives et la mise en place d’une économie alternative autogérée, notamment autour de l’agriculture, avaient été centraux. À l’époque, des #jardins_communautaires, appelés « les #jardins_de_la_victoire » avait été créés. Ce #soulèvement, d’abord conçu comme une #guerre_économique, entendait alors se réapproprier les #ressources captées par l’occupation totale de la Cisjordanie et de la #bande_de_Gaza.

    Comment définiriez-vous l’#écologie palestinienne ?

    C’est une écologie de la subsistance qui n’est pas séparée de la résistance, et même au-delà, une #écologie_existentielle. Le #retour_à_la_terre participe de la lutte. C’est le seul moyen de la conserver, et donc d’empêcher la disparition totale, de continuer à exister. En Cisjordanie, si les terres ne sont pas cultivées pendant 3 ou 10 ans selon les modes de propriété, elles peuvent tomber dans l’escarcelle de l’État d’Israël, en vertu d’une ancienne loi ottomane réactualisée par les autorités israéliennes en 1976. Donc, il y a une nécessité de maintenir et augmenter les cultures, de redevenir paysans, pour limiter l’expansion de la #colonisation. Il y a aussi une nécessité d’aller vers des modes de production plus écologiques pour des raisons autant climatiques que politiques. Les #engrais et les #produits_chimiques proviennent des #multinationales via Israël, ces produits sont coûteux et rendent les sols peu à peu stériles. Il faut donc inventer autre chose.

    Les Palestiniens renouent avec une forme d’#agriculture_économe, ancrée dans des #savoir-faire_ancestraux, une agriculture locale et paysanne (#baladi) et #baaliya, c’est-à-dire basée sur la pluviométrie, tout en s’appuyant sur des savoirs nouveaux. Le manque d’#eau pousse à développer cette méthode sans #irrigation et avec des #semences anciennes résistantes. L’idée est de revenir à des formes d’#agriculture_vivrière.

    La #révolution_verte productiviste avec ses #monocultures de tabac, de fraises et d’avocats destinée à l’export a fragilisé l’#économie_palestinienne. Elle n’est pas compatible avec l’occupation et le contrôle de toutes les frontières extérieures par les autorités israéliennes qui les ferment quand elles le souhaitent. Par ailleurs, en Cisjordanie, il existe environ 600 formes de check-points internes, eux aussi actionnés en fonction de la situation, qui permettent de créer ce que l’armée a nommé des « #cellules_territoriales ». Le #territoire est morcelé. Il faut donc apprendre à survivre dans des zones encerclées, être prêt à affronter des #blocus et développer l’#autosuffisance dans des espaces restreints. Il n’y a quasiment plus de profondeur de #paysage palestinien.

    « Il faut apprendre à survivre dans des zones encerclées »

    À Gaza, on voit poindre une #économie_circulaire, même si elle n’est pas nommée ainsi. C’est un mélange de #débrouille et d’#inventivité. Il faut, en effet, recycler les matériaux des immeubles détruits pour pouvoir faire de nouvelles constructions, parce qu’il y a très peu de matériaux qui peuvent entrer sur le territoire. Un entrepreneur a mis au point un moyen d’utiliser les ordures comme #matériaux. Les modes de construction anciens, en terre ou en sable, apparaissent aussi mieux adaptés au territoire et au climat. On utilise des modes de production agricole innovants, en #hydroponie ou bien à la #verticale, parce que la terre manque, et les sols sont pollués. De nouvelles pratiques énergétiques ont été mises en place, surtout à Gaza, où, outre les #générateurs qui remplacent le peu d’électricité fournie, des #panneaux_solaires ont été installés en nombre pour permettre de maintenir certaines activités, notamment celles des hôpitaux.

    Est-ce qu’on peut parler d’#écocide en ce moment ?

    Tout à fait. Nombre de Palestiniens emploient maintenant le terme, de même qu’ils mettent en avant la notion d’#inégalités_environnementales avec la captation des #ressources_naturelles par Israël (terre, ressources en eau…). Cela permet de comprendre dans leur ensemble les dégradations faites à l’#environnement, et leur sens politique. Cela permet aussi d’interpeller le mouvement écologiste israélien, peu concerné jusque-là, et de dénoncer le #greenwashing des autorités. À Gaza, des #pesticides sont épandus par avion sur les zones frontalières, des #oliveraies et des #orangeraies ont été arrachées. Partout, les #sols sont pollués par la toxicité de la guerre et la pluie de #bombes, dont certaines au #phosphore. En Cisjordanie, les autorités israéliennes et des acteurs privés externalisent certaines #nuisances_environnementales. À Hébron, une décharge de déchets électroniques a ainsi été créée. Les eaux usées ne sont pas également réparties. À Tulkarem, une usine chimique considérée trop toxique a été également déplacée de l’autre côté du Mur et pollue massivement les habitants, les terres et les fermes palestiniennes alentour.

    « Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement »

    Les habitants des territoires occupés, et leur environnement — les plantes, les arbres, le paysage et les espèces qui le composent — sont attaqués et visés de manière similaire. Ils sont placés dans une même #vulnérabilité. Pour certains, il apparaît clair que leur destin est commun, et qu’ils doivent donc d’une certaine manière résister ensemble. C’est ce que j’appelle des « #résistances_multispécifiques », en écho à la pensée de la [philosophe féministe étasunienne] #Donna_Haraway. [2] Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement. Une même crainte pour l’existence. La même menace d’#effacement. C’est très palpable dans le discours de certaines personnes. Il y a une lutte commune pour la #survie, qui concerne autant les humains que le reste du vivant, une nécessité écologique encore plus aigüe. C’est pour cette raison que je parle d’#écologisme_existentiel en Palestine.

    Aujourd’hui, ces initiatives écologistes ne sont-elles pas cependant menacées ? Cet élan écologiste ne risque-t-il pas d’être brisé par la guerre ?

    Il est évidemment difficile d’exister dans une guerre totale mais on ne sait pas encore comment cela va finir. D’un côté, on assiste à un réarmement des esprits, les attaques de colons s’accélèrent et les populations palestiniennes en Cisjordanie réfléchissent à comment se défendre. De l’autre côté, ces initiatives restent une nécessité pour les Palestiniens. J’ai pu le constater lors de mon dernier voyage en juin, l’engouement est réel, la dynamique importante. Ce sont des #utopies qui tentent de vivre en pleine #dystopie.

    https://reporterre.net/En-Palestine-l-ecologie-n-est-pas-separee-de-la-resistance
    #agriculture #humiliation #pollution #recyclage #réusage #utopie

    • La toile carcérale. Une histoire de l’enfermement en Palestine

      Dans les Territoires palestiniens, depuis l’occupation de 1967, le passage par la prison a marqué les vécus et l’histoire collective. Les arrestations et les incarcérations massives ont installé une toile carcérale, une détention suspendue. Environ 40 % des hommes palestiniens sont passés par les prisons israéliennes depuis 1967. Cet ouvrage remarquable permet de comprendre en quoi et comment le système pénal et pénitentiaire est un mode de contrôle fractal des Territoires palestiniens qui participe de la gestion des frontières. Il raconte l’envahissement carcéral mais aussi la manière dont la politique s’exerce entre Dedans et Dehors, ses effets sur les masculinités et les féminités, les intimités. Stéphanie Latte Abdallah a conduit une longue enquête ethnographique, elle a réalisé plus de 350 entretiens et a travaillé à partir d’archives et de documents institutionnels. Grâce à une narration sensible s’apparentant souvent au documentaire, le lecteur met ses pas dans ceux de l’auteure à la rencontre des protagonistes de cette histoire contemporaine méconnue.

      https://livres.bayard-editions.com/livres/66002-la-toile-carcerale-une-histoire-de-lenfermement-en-pal
      #livre

  • Je suis toujours frappé de constater combien les services publics sont peu démocratiques. Les usagers n’y sont pas représentés. Ils ne décident rien des choses qui les concernent. Ils ne contrôlent pas non plus l’impact des actions engagées par l’administration.

    Pourquoi les services publics sont-ils si peu démocratiques ? Pourquoi devraient-ils le devenir ? Voilà les questions auxquelles tente de répondre le professeur de droit, Thomas Perroud dans son livre, "Services publics et communs : à la recherche du service public coopératif". Dans le pays "le plus animé par l’idée d’égalité, le rapport à la puissance publique est probablement le plus inégalitaire dans son vécu", explique-t-il, dans un livre qui vise à remobiliser les citoyens afin qu’ils arrêtent de se prêter aux consultations pour les convier à réclamer le pouvoir, seul à même de limiter l’arbitraire administratif et politique. Les défis qui sont devant nous, à savoir ceux du climat et de l’opacité du calcul, nécessitent plus que jamais de trouver des pratiques permettant de modifier la relation administrative. Il nous faut passer des services publics aux communs, et pour y parvenir, il faut faire une place inédite aux usagers.

    Le principe démocratique devrait toujours être un objectif de service public, rappelle le professeur de droit. « L’intérêt central du commun est non seulement d’apprendre la démocratie et l’égalité, mais aussi d’apprendre à l’individu à orienter son comportement par des motifs alignés sur l’intérêt général ». C’est par la démocratie qu’on apprend à prendre soin des autres, à tenir compte des autres. C’est par la démocratie qu’on apprend la démocratie.
    https://hubertguillaud.wordpress.com/2023/10/10/cest-encore-loin-les-communs

  • « 90 kg de pain sans subir la hausse des coûts de l’énergie » : pourquoi le modèle du four solaire se diffuse - Basta !
    https://basta.media/90-kg-de-pain-sans-subir-la-hausse-des-couts-de-l-energie-pourquoi-le-model

    Pour produire suffisamment de pain et rendre l’activité viable, Arnaud Crétot a doublé la surface de son four il y a trois ans, passant de 5 m2 à 11 m2 de miroirs. Aujourd’hui, la coopérative emploie quatre personnes. Le four est mis en route tous les jours de soleil de la semaine pour cuire le pain ou des graines. Et il est visité par des scolaires, des associations, des entreprises et des porteurs de projet en formation. Près de 150 artisans y ont été formés depuis 2021.

    L’alternative de NeoLoco consiste à s’adapter à l’énergie intermittente qu’est le soleil. Puisque celui-ci ne brille en moyenne que 40 % du temps en Normandie, il faut utiliser ces moments en priorité pour la cuisson. « Il suffit de transformer le modèle économique en pensant l’organisation du travail en fonction d’une énergie qui ne peut pas être utilisée en continu détaille le boulanger ingénieur. Pour les produits périssables, comme le pain, il faut remettre à plat les savoir-faire et maximiser la production à chaque étape : utiliser une farine au levain, qui permet une plus longue conservation du pain, varier les temps de levée et de cuisson en fonction de l’ensoleillement disponible, précommander les pains à l’avance pour ne cuire que ce dont on aura besoin et livrer le jour prévu… »

    Et si vraiment le soleil ne se lève pas, on cuit au feu de bois ! « Avec ce système, on arrive à produire 90 kg de pain en une journée sans avoir à subir la hausse des coûts de l’énergie et donc à augmenter nos coûts auprès de nos clients », indique le boulanger.

    #électricité #autonomie #coopérative

  • Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

    –—

    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

    –—

    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

    –—

    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

    –—

    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

    –—

    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

    –—

    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1016060

    #accueil #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #business #Gradisca_d'Isonzo #Italie #CPR #Vakhtang_Enukidze #Enukidze #Simone_Borile #Ecofficina-Edeco #Ecofficina #Edeco #Cona #Bagnoli #Ekene #Macomer #coopérative #Ecofficina_Educational #Sara_Felpati #Gaetano_Battocchio #Ecofficina_Servizi #Due_Carrare #CPA #CAS #SAI #centri_di_prima_accoglienza #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #Centri_di_accoglienza_straordinaria #Edeco #Annalisa_Carraro #Ecos #Food_Service #Sandrine_Bakayoko #Tuendelee #Oderzo #caserma_Zanusso #Caltanissetta #Badia_Grande

  • Coop ou pas coop de trouver une alternative à la grande distribution ?

    Un #magasin sans client, sans salarié, sans marge, sans contrôle, sans espace de pouvoir où la confiance règne vous y croyez ? Difficile, tant le modèle et les valeurs de la grande distribution, et plus largement capitalistes et bourgeoises ont façonnés nos habitus. Néanmoins, parmi nous certains cherchent l’alternative : supermarchés coopératifs, collaboratifs, épiceries participatives, citoyennes, etc. Des alternatives qui pourtant reprennent nombre des promesses de la grande distribution et de ses valeurs. Les épiceries “autogérées”, “libres” ou encore en “gestion directe” tranchent dans ce paysage. Lieux d’apprentissage de nouvelles habitudes, de remise en cause frontale du pouvoir pyramidal et pseudo-horizontal. Ce modèle sera évidemment à dépasser après la révolution, mais d’ici-là il fait figure de favori pour une #émancipation collective et individuelle.

    Le supermarché : une #utopie_capitaliste désirable pour les tenants de la croyance au mérite

    Le supermarché est le modèle hégémonique de #distribution_alimentaire. #Modèle apparu seulement en 1961 en région parisienne il s’est imposé en quelques décennies en colonisant nos vies, nos corps, nos désirs et nos paysages. Cette utopie capitaliste est devenue réalité à coup de #propagande mais également d’adhésion résonnant toujours avec les promesses de l’époque : travaille, obéis, consomme ; triptyque infernal où le 3e pilier permet l’acceptation voire l’adhésion aux deux autres à la mesure du mérite individuel fantasmé.

    Malgré le succès et l’hégémonie de ce modèle, il a parallèlement toujours suscité du rejet : son ambiance aseptisée et criarde, industrielle et déshumanisante, la relation de prédation sur les fournisseurs et les délocalisations qui en découlent, sa privatisation par les bourgeois, la volonté de manipuler pour faire acheter plus ou plus différenciant et cher, le greenwashing (le fait de servir de l’écologie de manière opportuniste pour des raisons commerciales), etc., tout ceci alimente les critiques et le rejet chez une frange de la population pour qui la recherche d’alternative devient motrice.

    C’est donc contre ce modèle que se (re)créent des #alternatives se réclamant d’une démarche plus démocratique, plus inclusive, ou de réappropriation par le citoyen… Or, ces alternatives se réalisent en partant du #modèle_dominant, jouent sur son terrain selon ses règles et finalement tendent à reproduire souvent coûte que coûte, parfois inconsciemment, les promesses et les côtés désirables du supermarché.
    Comme le dit Alain Accardo dans De Notre Servitude Involontaire “ce qu’il faut se résoudre à remettre en question – et c’est sans doute la pire difficulté dans la lutte contre le système capitaliste -, c’est l’#art_de_vivre qu’il a rendu possible et désirable aux yeux du plus grand nombre.”
    Le supermarché “coopératif”, l’épicerie participative : des pseudo alternatives au discours trompeur

    Un supermarché dit “coopératif” est… un supermarché ! Le projet est de reproduire la promesse mais en supprimant la part dévolue habituellement aux bourgeois : l’appellation “coopératif” fait référence à la structure juridique où les #salariés ont le #pouvoir et ne reversent pas de dividende à des actionnaires. Mais les salariés ont tendance à se comporter collectivement comme un bourgeois propriétaire d’un “moyen de production” et le recrutement est souvent affinitaire : un bourgeois à plusieurs. La valeur captée sur le #travail_bénévole est redistribuée essentiellement à quelques salariés. Dans ce type de supermarché, les consommateurs doivent être sociétaires et “donner” du temps pour faire tourner la boutique, en plus du travail salarié qui y a lieu. Cette “#coopération” ou “#participation” ou “#collaboration” c’est 3h de travail obligatoire tous les mois sous peine de sanctions (contrôles à l’entrée du magasin pour éventuellement vous en interdire l’accès). Ces heures obligatoires sont cyniquement là pour créer un attachement des #bénévoles au supermarché, comme l’explique aux futurs lanceurs de projet le fondateur de Park Slope Food le supermarché New-Yorkais qui a inspiré tous les autres. Dans le documentaire FoodCoop réalisé par le fondateur de la Louve pour promouvoir ce modèle :”Si vous demandez à quelqu’un l’une des choses les plus précieuses de sa vie, c’est-à-dire un peu de son temps sur terre (…), la connexion est établie.”

    L’autre spécificité de ce modèle est l’#assemblée_générale annuelle pour la #démocratie, guère mobilisatrice et non propice à la délibération collective. Pour information, La Louve en 2021 obtient, par voie électronique 449 participations à son AG pour plus de 4000 membres, soit 11%. Presque trois fois moins avant la mise en place de cette solution, en 2019 : 188 présents et représentés soit 4,7%. À Scopeli l’AG se tiendra en 2022 avec 208 sur 2600 membres, soit 8% et enfin à la Cagette sur 3200 membres actifs il y aura 143 présents et 119 représentés soit 8,2%

    Pour le reste, vous ne serez pas dépaysés, votre parcours ressemblera à celui dans un supermarché traditionnel. Bien loin des promesses de solidarité, de convivialité, de résistance qui n’ont su aboutir. Les militants voient de plus en plus clairement les impasses de ce modèle mais il fleurit néanmoins dans de nouvelles grandes villes, souvent récupéré comme plan de carrière par des entrepreneurs de l’#ESS qui y voient l’occasion de se créer un poste à terme ou de développer un business model autour de la vente de logiciel de gestion d’épicerie en utilisant ce souhait de milliers de gens de trouver une alternative à la grande distribution.

    #La_Louve, le premier supermarché de ce genre, a ouvert à Paris en 2016. Plus de 4000 membres, pour plus d’1,5 million d’euros d’investissement au départ, 3 années de lancement et 7,7 millions de chiffre d’affaires en 2021. À la création il revendiquait des produits moins chers, de fonctionner ensemble autrement, ne pas verser de dividende et de choisir ses produits. Cette dernière est toujours mise en avant sur la page d’accueil de leur site web : “Nous n’étions pas satisfaits de l’offre alimentaire qui nous était proposée, alors nous avons décidé de créer notre propre supermarché.” L’ambition est faible et le bilan moins flatteur encore : vous retrouverez la plupart des produits présents dans les grandes enseignes (loin derrière la spécificité d’une Biocoop, c’est pour dire…), à des #prix toujours relativement élevés (application d’un taux de 20% de marge).

    À plus petite échelle existent les épiceries “participatives”. La filiation avec le #supermarché_collaboratif est directe, avec d’une cinquantaine à quelques centaines de personnes. Elles ne peuvent généralement pas soutenir de #salariat et amènent des relations moins impersonnelles grâce à leur taille “plus humaine”. Pour autant, certaines épiceries sont des tremplins vers le modèle de supermarché et de création d’emploi pour les initiateurs. Il en existe donc avec salariés. Les marges, selon la motivation à la croissance varient entre 0 et 30%.

    #MonEpi, startup et marque leader sur un segment de marché qu’ils s’efforcent de créer, souhaite faire tourner son “modèle économique” en margeant sur les producteurs (marges arrières de 3% sur les producteurs qui font annuellement plus de 10 000 euros via la plateforme). Ce modèle très conforme aux idées du moment est largement subventionné et soutenu par des collectivités rurales ou d’autres acteurs de l’ESS et de la start-up nation comme Bouge ton Coq qui propose de partager vos données avec Airbnb lorsque vous souhaitez en savoir plus sur les épiceries, surfant sur la “transition” ou la “résilience”.

    Pour attirer le citoyen dynamique, on utilise un discours confus voire trompeur. Le fondateur de MonEpi vante volontiers un modèle “autogéré”, sans #hiérarchie, sans chef : “On a enlevé le pouvoir et le profit” . L’informatique serait, en plus d’être incontournable (“pour faire ce que l’on ne saurait pas faire autrement”), salvatrice car elle réduit les espaces de pouvoir en prenant les décisions complexes à la place des humains. Pourtant cette gestion informatisée met toutes les fonctions dans les mains de quelques sachant, le tout centralisé par la SAS MonEpi. De surcroit, ces épiceries se dotent généralement (et sont incitées à le faire via les modèles de statut fournis par MonEpi) d’une #organisation pyramidale où le simple membre “participe” obligatoirement à 2-3h de travail par mois tandis que la plupart des décisions sont prises par un bureau ou autre “comité de pilotage”, secondé par des commissions permanentes sur des sujets précis (hygiène, choix des produits, accès au local, etc.). Dans certains collectifs, le fait de participer à ces prises de décision dispense du travail obligatoire d’intendance qui incombe aux simples membres…

    Pour finir, nous pouvons nous demander si ces initiatives ne produisent pas des effets plus insidieux encore, comme la possibilité pour la sous-bourgeoisie qui se pense de gauche de se différencier à bon compte : un lieu d’entre-soi privilégié où on te vend, en plus de tes produits, de l’engagement citoyen bas de gamme, une sorte d’ubérisation de la BA citoyenne, où beaucoup semblent se satisfaire d’un énième avatar de la consom’action en se persuadant de lutter contre la grande distribution. De plus, bien que cela soit inconscient ou de bonne foi chez certains, nous observons dans les discours de nombre de ces initiatives ce que l’on pourrait appeler de l’#autogestion-washing, où les #inégalités_de_pouvoir sont masqués derrière des mots-clés et des slogans (Cf. “Le test de l’Autogestion” en fin d’article).

    L’enfer est souvent pavé de bonnes intentions. Et on pourrait s’en contenter et même y adhérer faute de mieux. Mais ne peut-on pas s’interroger sur les raisons de poursuivre dans des voies qui ont clairement démontré leurs limites alors même qu’un modèle semble apporter des réponses ?

    L’épicerie autogérée et autogouvernée / libre : une #utopie_libertaire qui a fait ses preuves

    Parfois nommé épicerie autogérée, #coopérative_alimentaire_autogérée, #épicerie_libre ou encore #épicerie_en_gestion_directe, ce modèle de #commun rompt nettement avec nombre des logiques décrites précédemment. Il est hélas largement invisibilisé par la communication des modèles sus-nommés et paradoxalement par son caractère incroyable au sens premier du terme : ça n’est pas croyable, ça remet en question trop de pratiques culturelles, il est difficile d’en tirer un bénéfice personnel, c’est trop beau pour être vrai…Car de loin, cela ressemble à une épicerie, il y a bien des produits en rayon mais ce n’est pas un commerce, c’est un commun basé sur l’#égalité et la #confiance. L’autogestion dont il est question ici se rapproche de sa définition : la suppression de toute distinction entre dirigeants et dirigés.

    Mais commençons par du concret ? À #Cocoricoop , épicerie autogérée à Villers-Cotterêts (02), toute personne qui le souhaite peut devenir membre, moyennant une participation libre aux frais annuels (en moyenne 45€ par foyer couvrant loyer, assurance, banque, électricité) et le pré-paiement de ses futures courses (le 1er versement est en général compris entre 50€ et 150€, montant qui est reporté au crédit d’une fiche individuelle de compte). À partir de là, chacun.e a accès aux clés, au local 24h/24 et 7 jours/7, à la trésorerie et peut passer commande seul ou à plusieurs. Les 120 foyers membres actuels peuvent venir faire leurs courses pendant et hors des permanences. Ces permanences sont tenues par d’autres membres, bénévolement, sans obligation. Sur place, des étagères de diverses formes et tailles, de récup ou construites sur place sont alignées contre les murs et plus ou moins généreusement remplies de produits. On y fait ses courses, pèse ses aliments si besoin puis on se dirige vers la caisse… Pour constater qu’il n’y en a pas. Il faut sortir une calculatrice et calculer soi-même le montant de ses courses. Puis, ouvrir le classeur contenant sa fiche personnelle de suivi et déduire ce montant de son solde (somme des pré-paiements moins somme des achats). Personne ne surveille par dessus son épaule, la confiance règne.

    Côté “courses”, c’est aussi simple que cela, mais on peut y ajouter tout un tas d’étapes, comme discuter, accueillir un nouveau membre, récupérer une débroussailleuse, participer à un atelier banderoles pour la prochaine manif (etc.). Qu’en est-il de l’organisation et l’approvisionnement ?

    Ce modèle de #commun dont la forme épicerie est le prétexte, cherche avant tout, à instituer fondamentalement et structurellement au sein d’un collectif les règles établissant une égalité politique réelle. Toutes les personnes ont le droit de décider et prendre toutes les initiatives qu’elles souhaitent. “#Chez_Louise” dans le Périgord (Les Salles-Lavauguyon, 87) ou encore à #Dionycoop (St-Denis, 93), comme dans toutes les épiceries libres, tout le monde peut, sans consultation ou délibération, décider d’une permanence, réorganiser le local, organiser une soirée, etc. Mieux encore, toute personne est de la même manière légitime pour passer commande au nom du collectif en engageant les fonds disponibles dans la trésorerie commune auprès de tout fournisseur ou distributeur de son choix. La trésorerie est constituée de la somme des dépôts de chaque membre. Les membres sont incités à laisser immobilisé sur leur fiche individuelle une partie de leurs dépôts. Au #Champ_Libre (Preuilly-Sur-Claise, 37), 85 membres disposent de dépôts moyens de 40-50€ permettant de remplir les étagères de 3500€ selon l’adage, “les dépôts font les stocks”. La personne qui passe la commande s’assure que les produits arrivent à bon port et peut faire appel pour cela au collectif.

    D’une manière générale, les décisions n’ont pas à être prises collectivement mais chacun.e peut solliciter des avis.

    Côté finances, à #Haricocoop (Soissons, 02), quelques règles de bonne gestion ont été instituées. Une #créditomancienne (personne qui lit dans les comptes bancaires) vérifie que le compte est toujours en positif et un “arroseur” paye les factures. La “crédito” n’a aucun droit de regard sur les prises de décision individuelle, elle peut seulement mettre en attente une commande si la trésorerie est insuffisante. Il n’y a pas de bon ou de mauvais arroseur : il voit une facture, il paye. Une autre personne enfin vérifie que chacun a payé une participation annuelle aux frais, sans juger du montant. Ces rôles et d’une manière générale, toute tâche, tournent, par tirage au sort, tous les ans afin d’éviter l’effet “fonction” et impliquer de nouvelles personnes.

    Tout repose donc sur les libres initiatives des membres, sans obligations : “ce qui sera fait sera fait, ce qui ne sera pas fait ne sera pas fait”. Ainsi, si des besoins apparaissent, toute personne peut se saisir de la chose et tenter d’y apporter une réponse. Le corolaire étant que si personne ne décide d’agir alors rien ne sera fait et les rayons pourraient être vides, le local fermé, les produits dans les cartons, (etc.). Il devient naturel d’accepter ces ‘manques’ s’il se produisent, comme conséquence de notre inaction collective et individuelle ou l’émanation de notre niveau d’exigence du moment.

    Toute personne peut décider et faire, mais… osera-t-elle ? L’épicerie libre ne cherche pas à proposer de beaux rayons, tous les produits, un maximum de membres et de chiffre d’affaires, contrairement à ce qui peut être mis en avant par d’autres initiatives. Certes cela peut se produire mais comme une simple conséquence, si la gestion directe et le commun sont bien institués ou que cela correspond au niveau d’exigence du groupe. C’est à l’aune du sentiment de #légitimité, que chacun s’empare du pouvoir de décider, de faire, d’expérimenter ou non, que se mesure selon nous, le succès d’une épicerie de ce type. La pierre angulaire de ces initiatives d’épiceries libres et autogouvernées repose sur la conscience et la volonté d’instituer un commun en le soulageant de tous les espaces de pouvoir que l’on rencontre habituellement, sans lequel l’émancipation s’avèrera mensongère ou élitiste. Une méfiance vis-à-vis de certains de nos réflexes culturels est de mise afin de “s’affranchir de deux fléaux également abominables : l’habitude d’obéir et le désir de commander.” (Manuel Gonzáles Prada) .

    L’autogestion, l’#autogouvernement, la gestion directe, est une pratique humaine qui a l’air utopique parce que marginalisée ou réprimée dans notre société : nous apprenons pendant toute notre vie à fonctionner de manière autoritaire, individualiste et capitaliste. Aussi, l’autogestion de l’épicerie ne pourra que bénéficier d’une vigilance de chaque instant de chacun et chacune et d’une modestie vis-à-vis de cette pratique collective et individuelle. Autrement, parce que les habitudes culturelles de domination/soumission reviennent au galop, le modèle risque de basculer vers l’épicerie participative par exemple. Il convient donc de se poser la question de “qu’est-ce qui en moi/nous a déjà été “acheté”, approprié par le système, et fait de moi/nous un complice qui s’ignore ?” ^9 (ACCARDO) et qui pourrait mettre à mal ce bien commun.

    S’affranchir de nos habitus capitalistes ne vient pas sans effort. Ce modèle-là ne fait pas mine de les ignorer, ni d’ignorer le pouvoir qu’ont les structures et les institutions pour conditionner nos comportements. C’est ainsi qu’il institue des “règles du jeu” particulières pour nous soutenir dans notre quête de #confiance_mutuelle et d’#égalité_politique. Elles se résument ainsi :

    Ce modèle d’épicerie libre diffère ainsi très largement des modèles que nous avons pu voir plus tôt. Là où la Louve cherche l’attachement via la contrainte, les épiceries autogérées cherchent l’#appropriation et l’émancipation par ses membres en leur donnant toutes les cartes. Nous soulignons ci-dessous quelques unes de ces différences majeures :

    Peut-on trouver une alternative vraiment anticapitaliste de distribution alimentaire ?

    Reste que quelque soit le modèle, il s’insère parfaitement dans la #société_de_consommation, parlementant avec les distributeurs et fournisseurs. Il ne remet pas en cause frontalement la logique de l’#économie_libérale qui a crée une séparation entre #consommateur et #producteur, qui donne une valeur comptable aux personnes et justifie les inégalités d’accès aux ressources sur l’échelle de la croyance au mérite. Il ne règle pas non plus par magie les oppressions systémiques.

    Ainsi, tout libertaire qu’il soit, ce modèle d’épicerie libre pourrait quand même n’être qu’un énième moyen de distinction sociale petit-bourgeois et ce, même si une épicerie de ce type a ouvert dans un des quartiers les plus défavorisés du département de l’Aisne (réservée aux personnes du quartier qui s’autogouvernent) et que ce modèle génère très peu de barrière à l’entrée (peu d’administratif, peu d’informatique,…).

    On pourrait aussi légitimement se poser la question de la priorité à créer ce type d’épicerie par rapport à toutes les choses militantes que l’on a besoin de mettre en place ou des luttes quotidiennes à mener. Mais nous avons besoin de lieux d’émancipation qui ne recréent pas sans cesse notre soumission aux logiques bourgeoises et à leurs intérêts et institutions. Une telle épicerie permet d’apprendre à mieux s’organiser collectivement en diminuant notre dépendance aux magasins capitalistes pour s’approvisionner (y compris sur le non alimentaire). C’est d’autant plus valable en période de grève puisqu’on a tendance à enrichir le supermarché à chaque barbecue ou pour approvisionner nos cantines et nos moyens de lutte.

    Au-delà de l’intérêt organisationnel, c’est un modèle de commun qui remet en question concrètement et quotidiennement les promesses et les croyances liées à la grande distribution. C’est très simple et très rapide à monter. Aucune raison de s’en priver d’ici la révolution !
    Le Test de l’Autogestion : un outil rapide et puissant pour tester les organisations qui s’en réclament

    À la manière du test de Bechdel qui permet en trois critères de mettre en lumière la sous-représentation des femmes et la sur-représentation des hommes dans des films, nous vous proposons un nouvel outil pour dénicher les embuscades tendues par l’autogestion-washing, en toute simplicité : “le test de l’Autogestion” :

    Les critères sont :

    - Pas d’AGs ;

    - Pas de salarié ;

    - Pas de gestion informatisée.

    Ces 3 critères ne sont pas respectés ? Le collectif ou l’organisme n’est pas autogéré.

    Il les coche tous ? C’est prometteur, vous tenez peut être là une initiative sans donneur d’ordre individuel ni collectif, humain comme machine ! Attention, le test de l’autogestion permet d’éliminer la plupart des faux prétendants au titre, mais il n’est pas une garantie à 100% d’un modèle autogéré, il faudra pousser l’analyse plus loin. Comme le test de Bechdel ne vous garantit pas un film respectant l’égalité femme-homme.

    Il faut parfois adapter les termes, peut être le collectif testé n’a pas d’Assemblée Générale mais est doté de Réunions de pilotage, n’a pas de salarié mais des services civiques, n’a pas de bureau mais des commissions/groupe de travail permanents, n’a pas de logiciel informatique de gestion mais les documents de gestion ne sont pas accessibles sur place ?
    Pour aller plus loin :

    Le collectif Cooplib fait un travail de documentation de ce modèle de commun et d’autogestion. Ses membres accompagnent de manière militante les personnes ou collectifs qui veulent se lancer (= gratuit).

    Sur Cooplib.fr, vous trouverez des informations et des documents plus détaillés :

    – La brochure Cocoricoop

    – Un modèle de Statuts associatif adapté à l’autogestion

    – La carte des épiceries autogérées

    – Le Référentiel (règles du jeu détaillées)

    – Le manuel d’autogestion appliqué aux épiceries est en cours d’édition et en précommande sur Hello Asso

    Ces outils sont adaptés à la situation particulière des épiceries mais ils sont transposables au moins en partie à la plupart de nos autres projets militants qui se voudraient vraiment autogérés (bar, librairie, laverie, cantine, camping,…). Pour des expérimentations plus techniques (ex : garage, ferme, festival,…), une montée en compétence des membres semble nécessaire.

    D’autres ressources :

    – Quelques capsules vidéos : http://fede-coop.org/faq-en-videos

    – “Les consommateurs ouvrent leur épiceries, quel modèle choisir pour votre ville ou votre village ?”, les éditions libertaires.

    https://www.frustrationmagazine.fr/coop-grande-distribution
    #alternative #grande_distribution #supermarchés #capitalisme #épiceries #auto-gestion #autogestion #gestion_directe #distribution_alimentaire

    sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/1014023

  • FRUSTRATION MAGAZINE | Coop ou pas coop de trouver une alternative à la grande distribution ?

    Un supermarché dit “coopératif” est… un supermarché ! Le projet est de reproduire la promesse mais en supprimant la part dévolue habituellement aux bourgeois : l’appellation “coopératif” fait référence à la structure juridique où les salariés ont le pouvoir et ne reversent pas de dividende à des actionnaires. Mais les salariés ont tendance à se comporter collectivement comme un bourgeois propriétaire d’un “moyen de production” et le recrutement est souvent affinitaire : un bourgeois à plusieurs. La valeur captée sur le travail bénévole est redistribuée essentiellement à quelques salariés. Dans ce type de supermarché, les consommateurs doivent être sociétaires et “donner” du temps pour faire tourner la boutique, en plus du travail salarié qui y a lieu. Cette “coopération” ou “participation” ou “collaboration” c’est 3h de travail obligatoire tous les mois sous peine de sanctions (contrôles à l’entrée du magasin pour éventuellement vous en interdire l’accès). Ces heures obligatoires sont cyniquement là pour créer un attachement des bénévoles au supermarché, comme l’explique aux futurs lanceurs de projet le fondateur de Park Slope Food le supermarché New-Yorkais qui a inspiré tous les autres.

    #autogestion #supermarché #coopératives #scop

  • L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :


    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

  • Marx et les coopérative de production : une question de valeur, par Hervé Defalvard (Revue internationale de l’économie sociale, numéro 330, octobre 2013, p. 43–56)

    https://www.erudit.org/fr/revues/recma/2013-n330-recma0901/1019456ar

    https://www.erudit.org/fr/revues/recma/2013-n330-recma0901/1019456ar.pdf

    Résumé

    Les positions de #Marx sur les #coopératives_de_production sont bien renseignées. Selon l’économiste, bien qu’elles dépassent la division en deux classes de l’organisation capitaliste, elles ne supplantent pas le capitalisme en tant que forme politique. Sur la base des études disponibles, le présent article rappelle dans une première partie les positions de Marx sur les plans doctrinal et pragmatique. La deuxième partie aborde la #théorie_de_la_valeur, afin de traiter la question du projet politique des #coopératives : béquille du capitalisme ou dépassement de ce dernier. Si Marx traite cette question en évoquant une réunion d’hommes libres avec un plan concerté, la théorie de l’équilibre général avec des firmes autogérées est ici mobilisée. C’est en effet au niveau de l’ensemble de l’économie, de l’#économie comme société, que les rouages de la valeur font la différence, en tombant soit du côté « du marché du travail », soit de celui d’une valeur qui répond à des normes éthiques. En conclusion, quelques enseignements de Marx aident à éclairer la question actuelle de l’#économie_sociale_et_solidaire comme projet politique.

    #mouvement_coopératif #marxisme #communisme_révolutionnaire

    • Très intéressant bien qu’il ne soit pas nécessairement utile d’avoir recours à des formules savantes pour élaborer l’hypothèse que « l’autogestion » en système capitaliste ne se résume en fait à pas grand chose d’autre qu’à de l’auto l’exploitation. :-)

      Pour ma part, 13 années d’expérience concrète et intensive en SCOP me l’auront devinitivement confirmé.

  • Le communisme rendait son jeu vidéo « trop facile » : le développeur de « Victoria 3 » corrige le tir
    https://www.radiofrance.fr/franceinter/le-communisme-rendait-son-jeu-video-trop-facile-le-developpeur-de-victor

    Un joueur explique en quelques points comment gagner à presque tous les coups : après avoir instauré un système de « coopérative ouvrière » où les travailleurs possèdent leur entreprise, « les capitalistes ne touchent rien, et toute la richesse supplémentaire va aux ouvriers, qui deviennent plus riches. Leur pouvoir d’achat augmente, la demande augmente, leur niveau de vie augmente, l’immigration augmente. » Le tout donne (dans le jeu, en tout cas) une économie florissante grâce à un cercle vertueux quasi-miraculeux.

  • [rencontre] Ne pas démolir est une stratégie
    https://www.arcenreve.eu/rencontre/ne-pas-detruire-est-une-strategie

    L’exposition commun s’est clôturée par une conférence-manifeste de Christophe Hutin, Renaud Epstein et Jean-Philippe Vassal contre les rénovations urbaines qui détruisent systématiquement les logements afin de rénover le parc locatif social.

    Le raisonnement inhérent à cette pratique, privilégiée par les bailleurs sociaux pour modifier la composition démographique des grands ensembles, a été dénoncé en présence de représentants d’associations de résidents menacés d’expulsion.

    https://www.youtube.com/watch?v=86R-UucVk3U

    #logement #grands_ensembles #HLM #démolition #communs #arc_en_rêve #architecture #Renaud_Epstein #urbanisme

  • Panthère Première » Autonomie électrique, le rêve d’une reconnexion
    https://pantherepremiere.org/texte/autonomie-electrique-le-reve-dune-reconnexion

    Alors que les réseaux électriques qui structurent le monde sont largement invisibles, la chercheuse Fanny Lopez nous invite à plonger dans l’histoire de l’« ordre électrique », centralisé et uniformisé à l’extrême, pour envisager une pluralité de modèles et inverser la perspective : partir du bas, maîtriser la technique, repenser le politique via la réappropriation de la ressource énergétique.

    Enseignante-chercheuse dont les travaux se situent au croisement de l’histoire de l’architecture et de l’urbanisme, des techniques et de l’environnement, Fanny Lopez est l’autrice de deux ouvrages consacrés à l’autonomie énergétique. Dans Le Rêve d’une déconnexion, de la maison autonome à la cité auto-énergétique (éditions de la Villette, 2014), elle dresse la généalogie des projets architecturaux qui, au cours de l’histoire, ont intégré cette dimension autonomiste alors que la connexion aux grands réseaux électriques faisait (et fait) œuvre de modèle. Puis elle retrace, dans L’ordre électrique : infrastructures énergétiques et territoires (MétisPresses, 2019), l’histoire matérielle de l’électrification des territoires tout en s’intéressant, grâce à de nombreux exemples puisés en Europe et aux États-Unis, aux enjeux de la relocalisation des ressources en énergie. Traversant son travail de bout en bout, une question : comment les projets locaux d’autonomie énergétique peuvent-ils s’articuler avec des revendications d’autonomie politique ? Discussion.

    PS : En septembre 2022, Fanny Lopez a sorti un nouveau livre, À bout de flux, chez Divergences, qui explore la matérialité de la machine et des câbles du numérique et des objets connectés. Et on adore !

    #électricité #énergie #gestion_des_flux #Fanny_Lopez #Panthère_Première

    • Depuis une quinzaine d’années, la coopérative est devenue une forme privilégiée et leur nombre a explosé en zone rurale, urbaine ou périphérique notamment en Europe mais aussi aux États-Unis. Pour la ville, on pourrait citer l’exemple de Co-op City dans le Bronx, un quartier du nord-est de la ville de New York. Co-op City, c’est une coopérative d’habitant·es qui gère, en lien avec le bailleur et soutenue par des financements publics, l’un des plus grands micro-réseaux à usage résidentiel au monde. Les deux turbines à gaz de l’installation électrique, qui produisent 38 MW, permettent de produire de l’électricité à moindre coût pour les résident·es (dont les factures ont baissé) et de vendre de l’électricité excédentaire au grand réseau électrique, même si c’est un bras de fer avec l’opérateur historique5. Les fonds générés par la vente d’électricité permettent de rembourser les prêts liés à la réalisation du projet et d’investir dans d’autres projets collectifs dans le quartier. L’autonomie électrique de Co-op City avoisine aujourd’hui les 90 %. La coopérative prévoit d’ajouter 5 MW de capacité solaire photovoltaïque et une station d’épuration pour convertir les eaux usées en eaux grises. Il y a aussi l’idée de méthaniser une partie des déchets fermentescibles pour transformer la centrale de cogénération gaz en centrale biomasse6. Ici, l’exemple est intéressant parce que c’est une communauté d’habitant·es qui s’est structurée en coopérative pour récupérer la plus-value financière : les bénéfices vont à la communauté. Car relocaliser l’énergie, c’est aussi relocaliser des flux économiques.

      #coopérative #micro-centrale #relocalisation #décentralisation

    • La notion de technologie accessible renvoie à celle de technologie démocratique dont on parlait avec Mumford. Dans mes deux ouvrages, une bonne partie des exemples passe par des « technologies » manipulables, maîtrisables, conviviales. Sous-entendu, si le micro-éolien tombe en panne, la coopérative sait le réparer. En fonction de l’échelle ou de la technologie, soit la tendance est low-tech15, et les solutions techniques sont facilement appropriables, soit la communauté s’appuie sur une société de gestion énergétique (comme Coop-city) qui emploie des gens dont la maintenance et la réparation sont le métier. Dans son anthropologie des projets d’autonomie énergétique, Laure Dobigny montre que quand les habitant·es se sentent copropriétaires et responsables d’une partie de l’infrastructure énergétique qu’ils et elles utilisent, mais aussi des espaces communs collectivement investis, des changements de comportement et d’usages sont observés, au premier rang desquels une baisse de la consommation.

      #autonomie #low-tech #décroissance #Lewis_Mumford #Ivan_Illich #convivialité #outil_convivial

  • "Sans eux, on ne serait plus là" : en #Calabre, un petit village survit grâce aux migrants

    À #Camini, un petit village isolé de Calabre, dans le sud de l’Italie, une centaine de migrants arrivés ces dernières années vivent et travaillent grâce à une coopérative créée par les habitants. Leur présence a permis au bourg de retrouver un semblant d’activité. Reportage.

    Il faut essayer d’imaginer la place du village il y a quarante ans. Elle était, selon les dires, animée et bruyante. Les habitants aimaient discuter, accoudés à l’un des trois bars que comptait alors Camini, bourg de Calabre qui surplombe une vallée d’oliviers plongeant dans la mer. Mais désormais le cœur de Camini est triste. En cette fin septembre, la terrasse dressée sur l’esplanade proche de la mairie est quasiment vide, comme les rues. En contrebas, une meute de chiens errants aboie et court au milieu d’une route sans déranger les voitures qui de toute façon n’y roulent pas.

    Dans les années 1990, les habitants ont déserté Camini, où vivent 800 personnes, réparties entre deux zones : la basse, près de la mer, et la haute, perchée sur la colline. La faute au manque d’emploi dans cette région pauvre du sud de l’Italie, où le tourisme peine à se développer malgré la beauté des lieux.

    Camini n’était en rien une exception au moment de l’exode de sa population, mais elle semble en être une aujourd’hui. Car sur ses hauteurs, la vie a repris timidement ces dernières années. Un bar restaurant - l’unique désormais - a ouvert ; l’école primaire, qui pendant 20 ans ne comptait plus qu’une classe, en compte désormais quatre ; et un distributeur automatique de billets y a pris ses quartiers en 2020 pour le bonheur du plus grand nombre.

    « Tout ce qui est là est lié aux migrants », lance Rosario Zurzolo, enfant du pays. Cet homme de 45 ans à l’air pressé a dû quitter son village natal à la vingtaine, la mort dans l’âme, pour trouver du travail ailleurs. De retour quelques années plus tard, il a cofondé en 1999 la coopérative EuroCoop Camini dans le but de contenir l’hémorragie des habitants en créant des emplois. Mais les choses n’ont vraiment changé qu’à partir de 2016, quand la municipalité a remporté un appel à projets du ministère de l’Intérieur concernant l’accueil de migrants. Selon ce projet, EuroCoop Camini touche 35 euros par jour et par migrant pour couvrir leurs besoins du quotidien et leur logement.

    Aujourd’hui environ 150 migrants, venus d’Afghanistan, du Maroc, de Tunisie, de Libye, du Soudan du Sud, du Pakistan, du Bangladesh, du Nigeria, de Syrie, vivent à Camini, ce qui en fait l’une des communes de la péninsule au plus fort taux d’immigrés parmi sa population. Leur présence, à elle seule, a suscité un élan de solidarité d’organismes qui ont injecté de l’argent dans les caisses du village. La coopérative embauche 18 personnes et a ouvert plusieurs ateliers d’artisanat dans lesquels travaillent des réfugiés : céramique, travail du bois, création de vêtements et d’art.

    Dans les rues du village, des femmes voilées et leurs enfants se baladent, passant devant les vieux Italiens qui campent sur le perron de leur maison. Rosario Zurzolo ne rate rien des allers et venues. Le regard partout, il gratifie chacun d’un « Ciao ! » ou d’une tape dans le dos. « On a créé une sorte d’économie circulaire », explique-t-il fièrement. « Les gens que vous croisez ici sont pour la plupart mes employés. »
    "La première arabe"

    Amal Ahmad Okla se décrit comme « la première arabe » de Camini. Arrivée en 2016, cette Syrienne de 43 ans et mère de cinq enfants a fui Damas en 2013 pour le Liban. Après trois ans de misère, sans travail, elle a pu bénéficier du programme de relocalisation du Haut-commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) et démarrer une nouvelle vie en Italie, à Camini. En Syrie, son frère et sa mère ont été tués en même temps dans un bombardement.

    « C’était difficile au début, surtout à cause de la barrière de la langue », explique-t-elle, en arabe. Elle a depuis appris les rudiments de l’italien et à manier le métier à tisser. Dans un local du village niché dans une rue étroite, elle confectionne, en djellaba et pieds nus, de petits tapis et des sacs, qui sont mis en vente dans une boutique attenante. Les acheteurs par ici sont rares mais, quoi qu’il en soit, Amal Ahmad Okla touche environ 500 euros par mois pour ce travail. Elle est payée par EuroCoop Camini qui bénéficie, outre l’aide de l’Etat, de dons de différentes organisations.

    « L’idée, c’est de donner une activité à ces gens, commente Rosario Zurzolo. C’est de la thérapie par l’art. »

    Amal Ahmad Okla a l’air absente en maniant le métier à tisser. Six ans après son arrivée, elle dit se sentir toujours perdue dans ce petit village isolé. « Les gens sont gentils et accueillants. Je trouve que leur mentalité est similaire à celle des arabes car ils sont très proches de leur famille, les plus âgés vivent avec leurs enfants et petits-enfants », observe-t-elle. « Je ne suis pas inquiète quand ma fille sort le soir dans le village, je suis en sécurité ici. Mais la Syrie me manque. » Surtout, cette femme se pose des questions sur son avenir, dans une commune qui n’a rien à offrir à ses enfants âgés de 9 à 21 ans. « Ils vont devoir partir pour faire leurs études. Mon destin dépendra de l’endroit où ils iront. À Camini, il râlent tout le temps. Ils s’ennuient. Ils se plaignent par exemple qu’on n’aille pas plus souvent à la mer, pourtant proche, mais c’est un gros voyage en bus pour nous. »

    Non loin de là, la famille d’Haseed Bukari, originaire du Pakistan, tient une boutique depuis 2019. Les parents de ce jeune homme de 17 ans confectionnent des accessoires (sacs, taies d’oreillers, serre-têtes…) dans une petite pièce remplie de moustiques.

    « Cela fait sept ans qu’on est là mais on ne se sent toujours pas stables », explique Haseed Bukari, traduisant les paroles de ses parents à ses côtés. La famille avait une première fois tenté de se reconstruire en Libye, avant la chute de Mouammar Kadhafi. Puis, en 2014, ils se sont résignés à partir, à bord d’un bateau sur la Méditerranée. « Mes parents adorent Camini, poursuit Haseed Bukari, mais le problème, c’est les transports. Ils ont besoin de se rendre régulièrement à la préfecture pour renouveler leur titre de séjour, et je dois y aller avec eux pour traduire. Mais c’est si loin que ça me fait rater à chaque fois une journée d’école. » L’adolescent fêtera ses 18 ans en décembre : « La première chose que je vais faire, c’est trouver une voiture. »
    "Peut-être qu’un jour, le maire s’appellera Mohamed"

    Attablé à la place du village, Pino Alfarano, le maire, cheveux blancs gominés et gourmette au poignet, dresse un bilan différent. « La coopérative donne aux personnes de l’espoir et aux jeunes, une nouvelle vie », assure-t-il. Pour sa commune, le constat est positif même si la vie est différente d’antan.

    « Sur cette place, avant, il y avait beaucoup de personnes qui parlaient la même langue. Maintenant il y a des gens, parfois, mais qui ne parlent pas la même langue », sourit-il, expliquant qu’il ne comprend pas l’arabe mais parvient à communiquer avec « le langage corporel ».

    « Nous ne serions pas là sans les migrants. Tout le monde serait parti de Camini », renchérit Rosario Zurzolo. Ce dernier assume avoir été influencé par Riace, un village voisin devenu un modèle en terme d’intégration des migrants, après que le maire a ouvert les portes de maisons laissées à l’abandon pour les loger.

    Quant aux critiques, les deux hommes forts du village les balaient d’un revers de la main. « Certains disent qu’on en fait plus pour les migrants que pour les Italiens. Mais beaucoup d’Italiens ne veulent tout simplement pas s’impliquer dans la communauté », commente Pino Alfarano, calmement. « Je ne suis en tout cas pas inquiet à l’idée que notre culture se perde. Il y a toujours beaucoup plus d’Italiens que de migrants ici et les jeunes qui arrivent apprennent notre culture par le biais de l’école. Qui sait, peut-être qu’un jour l’un d’eux sera le nouveau maire. Un maire qui s’appellera Mohamed. Et alors ? Cela n’a aucune importance. »

    https://www.infomigrants.net/fr/post/43810/sans-eux-on-ne-serait-plus-la--en-calabre-un-petit-village-survit-grac

    #villes-refuge #asile #migrations #réfugiés #accueil #Italie #Riace #coopérative #exode #Rosario_Zurzolo #EuroCoop #EuroCoop_Camini #artisanat

    ping @karine4 @isskein

  • Bienvenue chez #Frange_Radicale, #salon_de_coiffure sans prix genrés et sans patron

    Ouvert après le deuxième confinement, l’établissement parisien Frange Radicale propose une alternative aux salons de coiffure traditionnels. Rencontre.

    Depuis l’ouverture du salon en décembre 2020, les fauteuils de Frange Radicale ne désemplissent pas.

    Pas évident pourtant de distinguer l’entrée du salon quand on passe par la rue Carducci, nichée dans le 19e arrondisssement de #Paris, à quelques minutes des Buttes Chaumont. Il faut connaitre l’adresse pour savoir que derrière les bosquets se cache un salon de coiffure. Ou plutôt une « coopérative de coiffure », comme il est écrit en rose au-dessus de la baie vitrée.

    Le salon de coiffure attire les gens du quartier, mais une bonne partie de sa clientèle passe aussi l’entrée parce que Frange Radicale n’est pas un salon tout à fait comme les autres.

    On y coupe les cheveux certes, mais à des tarifs abordables et non genrés, et surtout, on y fait en sorte que vous vous y sentiez bien, même quand vous avez fui les salons des années durant, échaudées par l’ambiance normative parfois pesante qui y règnent.

    Se lancer en pleine pandémie

    Chez Frange Radicale, la déco est épurée, les plantes vertes nombreuses, et les fauteuils vintage stylés. Bref, on s’y sent déjà bien, et pas juste parce qu’on arrive pile au moment où la playlist du salon passe du Aya Nakamura.

    Aux commandes : Léa, Pierre et Anouck, qui ont fait le pari d’ouvrir leur salon en pleine pandémie.

    Ce n’est pas que l’amour du coup de ciseaux qui les a réunis. Tous les trois se sont croisés dans des squats autonomes et à l’école de coiffure, avant de monter Frange Radicale : « On a tous été salariés dans différents salons de coiffure et on s’est rendues compte que ce modèle ne nous convenait pas », explique Anouck.

    « Pour les salariés, il faut toujours travailler plus, plus vite, et on avait envie d’expérimenter un nouveau modèle, de monter notre coopérative, notre entreprise détenue et gérée par nous, les salariés. »

    Un argument qui marche auprès des clientes, à l’instar de Marion, venue pour la première fois après avoir entendu parler du salon par ses collègues : « L’idée de la coopérative m’a plu. C’est un projet politique cool, alors je suis venue pour soutenir. »

    Tout le monde au même prix

    Chez Frange Radicale, on applique la règle des prix non genrés, à l’instar de quelques salons comme Bubble Factory à Paris, Holy Cut à Bordeaux, ou bien Queer Chevelu, qui pratique le prix libre.

    Les tarifs sont fixés en fonction de la coupe et non en fonction du genre du ou de la cliente : 35€ la coupe longue, 25€ la coupe courte, 15€ la coupe tondeuse, et la couleur sur devis.

    Un choix qui répond à la logique la plus élémentaire, même si la majeure partie des salons perpétue aujourd’hui la tradition des coupes « femmes » à des prix largement supérieurs aux coupes « hommes » :

    « Ça veut dire que les femmes qui ont les cheveux courts paient plus cher pour un travail qui est souvent similaire, et les hommes qui ont les cheveux longs, ce qui est quand même la mode en ce moment, paieraient moins cher qu’une femme qui a les cheveux longs ? », s’agace Léa.

    Si tant de salons n’ont pas (encore) franchi le pas, c’est aussi que les coiffeurs et les coiffeuses sont formées à envisager leurs coupes en fonction du genre des clients, comme l’explique Anouck :

    « Ça commence dès l’école de coiffure où on t’apprend qu’une coupe femme, tu ne la fais pas en trente minutes comme une coupe homme, il faut y mettre plus de temps, il faut être plus raffiné au niveau des tempes… Il y a plein d’arguments… qui sont des arguments à la con parce qu’on fait ce qu’on veut avec ses cheveux ! Mais ce sont aussi des arguments qui vont justifier une tarification supérieure pour les femmes. »

    Un coup de ciseau dans la binarité

    En pratiquant des tarifs égalitaires, Frange Radicale s’est rapidement forgé une réputation de salon où tout le monde est bienvenu, où une femme peut demander une coupe ultra courte sans être regardée de travers et où toutes les audaces capillaires sont acceptées.

    S’il n’a pas été pensé comme un salon destiné spécifiquement aux personnes queers, Frange Radicale attire une clientèle qui a longtemps fui les salons classiques où s’exercent les normes binaires et hétéronormatives. « Ici, nos corps et nos coupes ne sont pas étranges », explique Clémence, cliente fidèle à la nuque bien dégagée :

    « Ça diffère tellement des salons où une coiffeuse un jour m’a quand même dit “attention je laisse les pattes sinon c’est des femmes qui vont vous draguer hihi”. Ce à quoi j’ai répondu : « Rasez, merci ! » »

    Politique, le cheveu ? « Les cheveux, ça a toujours été quelque chose de revendicatif, depuis toujours, que ce soient les crêtes des punk, les afros, ou les cheveux longs pour les gars, ou les mulets », assène Léa.

    Pour Anouck, c’est non seulement un marqueur d’identité, mais aussi un signe de reconnaissance : « Moi, j’arrive à savoir si une fille est gouine à sa coupe de cheveux. », plaisante-t-elle.

    « Et il ne faut pas oublier les salons en tant que lieux », insiste Pierre :

    « Les gens s’y croisent, s’y reconnaissent, il y a des journées où trois voisins de la résidence d’en face se croisent ici. Ça crée du lien social. Et on en a vraiment besoin en ce moment… »

    Clichés tenaces et discriminations

    Être coiffeuse, c’est encore aujourd’hui s’exposer à pas mal d’idées reçues rarement bien intentionnées. Anouck et Léa en ont régulièrement fait l’expérience :

    « Quand tu rencontres des gens et que tu leur dis que tu es coiffeuse, on te fait sentir que c’est naze. Et quand tu es une meuf, il y a un côté hyper sexiste, car tout de suite ça veut dire que tu es stupide, que tu es une fille facile, ou que tu es un peu bébête. »

    Anouck se souvient de cette cliente qui lui a lancé : « Et donc, toi t’aimais pas l’école ? » :

    « J’ai trouvé ça bizarre, mais je n’ai pas compris tout de suite. Ce n’est qu’après que j’ai compris qu’elle me disait ça parce que je suis coiffeuse. Bah si, j’étais bonne à l’école… mais ça n’a rien à voir ! »

    Derrière ces réactions, c’est aussi tout un corps de métier où les comportements sexistes et racistes sont encore monnaie courante.

    Tous les trois l’ont vu dès l’école et leurs premiers stages : ce sont des patrons qui demandent aux filles de changer leur prénom à consonance étrangère, des employées à qui on demande de ne pas parler parce qu’on estime qu’elles ne parlent pas assez bien le français, à qui on demande de se lisser les cheveux, ou de porter jupe et talons pour faire plus féminine.

    Tenter l’aventure

    Anouck, Pierre et Léa en avaient assez de l’abattage, des coupes standardisées faites à la chaîne. Avec Frange Radicale, on prend le temps et cela leur permet de réenchanter leur travail, d’évoluer dans des conditions plus respectueuses. « Ça améliore grave la qualité de notre travail, j’ai l’impression que même nos coupes sont beaucoup mieux », assure Anouck.

    « On est trois avec un salon, c’est très ambitieux de vouloir revaloriser tout le métier », reconnaît Pierre. Pas envie d’être des donneurs de leçons, les trois coiffeurs et coiffeuses espèrent au contraire que leur salon donnera envie à d’autres de se lancer. Et ce n’est pas si inaccessible, affirme Léa :

    « On n’a pas fait quelque chose de si exceptionnel. On a grave galéré, mais on est trois, on se partage tout, et c’est pas du tout insurmontable. On a le salon qu’on veut, on fait exactement ce qu’on veut, on a les congés qu’on veut, on se paye comme on veut… c’est tout bénéf’ ! »

    Frange Radicale ne transformera peut-être pas le monde de la coiffure, en tout cas pas tout de suite, mais à son petit niveau, le salon pourrait bien faire naître des envies d’indépendance et d’autonomie à d’autres dans la profession.

    https://www.madmoizelle.com/bienvenue-chez-frange-radicale-salon-de-coiffure-parisien-sans-prix-gen

    #coopérative #tarif #prix #tarif_non-genré #genre #cheveux

    ping @isskein

  • Ouverture d’une librairie coopérative autogérée
    http://anarlivres.free.fr/pages/nouveau.html#ferme2

    Intention et réalisation. La librairie coopérative autogérée La Ferme Intention (voir précédent article) a ouvert ses portes à Spézet (29). Mais « cela n’a pas été simple, il y a quelques semaines, nous avons dû retrouver un local, l’aménager, le décorer, retrouver des meubles, du matériel, commander et réceptionner les livres, parfois au compte-gouttes, parfois par dizaine de cartons en plein milieu de la semaine, etc. » « Le fonctionnement de la librairie est coopératif et son leitmotiv est "tu veux, tu fais ensemble". Ainsi, chaque personne entrant dans la librairie et achetant un livre devient "coopérateurice". A ce titre, il lui est possible de participer pleinement à la vie du lieu, de proposer une sélection d’ouvrages, de participer aux permanences, de proposer des initiatives (débats, expos…), bref de faire partie intégrante d’un collectif dans les limites de sa propre volonté et du respect de ce collectif. » Pour la période de fêtes, des coopérateurs ont décidé d’ouvrir tous les jours du vendredi 17 décembre (16 à 19 heures) jusqu’au 24 inclus (10 à 19 heures). Pour les autres jours : samedi et dimanche (10 à 19 heures), lundi (16 à 19 heures), mardi (13 à 19 heures), mercredi et jeudi (16 à 19 heures). La dernière semaine de l’année 2021, La Ferme Intention sera fermée. Réouverture à partir du 7 janvier, du vendredi au mardi de 16 à 19 heures, avec journée continue les samedis et dimanches de 10 à 19 heures.

    #librairie #coopérative #anarchisme #FermeIntention #Bretagne #Finistère

  • Une Ferme Intention
    http://anarlivres.free.fr/pages/nouveau.html#ferme

    Suite à la fermeture du café-librairie L’Autre Rive, et constatant qu’il n’existait plus de librairie indépendante en Centre Bretagne, des habitants de Spézet (Finistère) et le groupe Le Ferment de la Fédération anarchiste ont décidé d’ouvrir une librairie sous forme de coopérative autogérée de consommation de nourritures intellectuelle. La Ferme Intention, telle est son nom, « sera également un lieu de débats, de conférences et de rencontres... (...)

    #librairie #FermeIntention #CentreBretagne #coopérative #souscription #Finistère

  • La voiture autonome ? Une catastrophe écologique Celia Izoard pour Reporterre
    https://reporterre.net/La-voiture-autonome-Une-catastrophe-ecologique

    L’industrie automobile prépare activement la généralisation des véhicules autonomes. Problème : leur mise en œuvre à grande échelle aurait des conséquences écologiques très néfastes.

    Dans le principe, la prouesse technologique consistant à remplacer par des machines les innombrables opérations complexes qu’effectue une personne au volant paraît difficilement compatible avec l’idée de sobriété. Un des derniers modèles, présenté en janvier au dernier Consumer’s Electronic Show de Las Vegas, le SUV Range Rover équipé par l’entreprise Valeo, comporte pas moins de quatre ou cinq caméras, huit lidars (qui permettent de mesurer les distances à partir d’un faisceau laser), plusieurs radars longue portée, un ordinateur central de grande puissance, une caméra trifocale sur le pare-brise et d’autres capteurs. La généralisation de ces véhicules impliquerait, pour abaisser les coûts de façon acceptable, le lancement d’une production de masse de tous ces objets, en supplément de l’électronique déjà présente dans les véhicules actuels. Aux États-Unis, la National Mining Association rappelle régulièrement aux décideurs que « la sophistication croissante des produits de l’industrie automobile va faire exploser la demande en métaux et la compétition pour ces ressources » [1]. En clair, impossible d’obtenir la matière première de tous ces superalliages sans provoquer une augmentation de l’activité minière, qui compte parmi les industries les plus polluantes [2].

    Deuxième problème : la croissance exponentielle des #données (le #data). La conduite automatisée repose sur de gigantesques volumes d’informations que les divers capteurs transmettent aux algorithmes de traitement d’images. Selon Brian Krzanich, PDG d’Intel, un véhicule autonome va générer et consommer, pour huit heures de conduite, environ 40 téraoctets de données, soit l’équivalent de 40 disques durs d’ordinateur. « En circulation, chacun de ces véhicules produira autant de données que 3.000 utilisateurs d’ #internet », précise-t-il [3]. Or la facture énergétique du traitement et du stockage du big data est déjà préoccupante. En France, les #datacenters consommaient déjà en 2015 plus d’électricité que la ville de Lyon. En 2017, ils ont consommé à eux seuls 3 % de l’électricité produite dans le monde, soit 40 % de plus qu’un pays comme le Royaume-Uni [4].

    « L’autonomie apparente du propriétaire d’une automobile recouvrait sa radicale dépendance » 
    Enfin, la généralisation des véhicules autonomes nécessite le déploiement de la #5G et le renouvellement des infrastructures routières. « Il est probable que l’environnement deviendra plus standardisé et proactif à mesure que sera développée une infrastructure plus communicante, résume un article de la Harvard Business Review. Il faut s’imaginer des transmetteurs radio à la place des feux rouges, des réseaux sans fil permettant aux véhicules de communiquer entre eux et avec les infrastructures, et des unités de bord de route fournissant des informations en temps réel sur la météo, le trafic, et d’autres paramètres [5]. »

    L’Union européenne finance plusieurs projets de ce type via le programme #Codecs, notamment le projet #Cooperative_ITS_Corridor, une autoroute expérimentale connectée desservant #Amsterdam, #Francfort et #Vienne. Une portion test de 8 km est déjà équipée d’une « unité de bord de route » (comprenant une antenne 5G et des ordinateurs) tous les 500 m et d’une caméra tous les 100 m. On imagine la quantité de matériel nécessaire pour équiper ne serait-ce que toutes les autoroutes d’Europe ! Le projet est loin d’être marqué par la sobriété, et moins encore si l’on imagine « des caméras avec des unités de communication (...) installées sur les feux rouges pour avertir le conducteur du passage “au vert” », comme les auteurs du Livre blanc #Mobility_Nation, le rapport du Boston Consulting Group remis au gouvernement pour accélérer l’essor du #transport_autonome [6].


    Un prototype de véhicule autonome Nissan, en 2014.

    On peut dès lors s’interroger sur la dénomination de ces véhicules : autonomes, vraiment ? André Gorz montrait déjà en 1973 à quel point l’automobile, qui dépend d’un approvisionnement en pétrole et d’une infrastructure gigantesque, reposait sur une autonomie largement fictive : « Ce véhicule allait obliger [l’automobiliste] à consommer et à utiliser une foule de services marchands et de produits industriels que seuls des tiers pouvaient lui fournir. L’autonomie apparente du propriétaire d’une automobile recouvrait sa radicale dépendance [7]. » La démonstration paraît encore plus probante pour ces véhicules qui ne pourraient « rouler tout seuls » qu’à la condition de modifier radicalement leur environnement en déployant autour d’eux un ensemble de macrosystèmes techniques.

    « Un moment de confort, dépourvu de stress, qui offre au consommateur son espace privé, des horaires flexibles, et presque aucune tâche de conduite » 
    Pour les entreprises, les véhicules dits autonomes participent pourtant de la « #mobilité_durable ». Leur argumentaire a largement été repris par le gouvernement : dans les « Neuf solutions de la nouvelle France industrielle » du président macron, les véhicules autonomes figurent en bonne place dans le volet « #mobilité_écologique ». Quels sont les arguments ? D’une part, l’interconnexion des véhicules et des infrastructures va réduire les embouteillages en permettant d’ajuster les itinéraires en temps réel. Ensuite, la conduite autonome, plus fluide, consommerait moins d’ #énergie. Surtout, le transport autonome serait porteur de la fameuse révolution de l’ #autopartage : on pourrait délaisser son véhicule personnel au profit des services de #robots-taxis en #covoiturage. Mais en analysant cette promesse, on constate qu’elle sert surtout à contrebalancer le principal problème que pose le transport autonome : le redoutable #effet_rebond, tel que les économies d’énergie procurées par une technique vont susciter l’augmentation de la consommation.

    Selon un rapport de Morgan Stanley, il paraît vraisemblable que les premiers véhicules autonomes opérationnels à grande échelle seront des #camions de transport routier. Ils seraient pilotés à distance sur des routes complexes et en conduite automatique sur autoroute ; ces camions pourraient circuler en convois, avec un seul chauffeur à la tête de plusieurs véhicules. Étant donné que la paie des chauffeurs représente environ 40 % du coût du transport, les grandes entreprises du secteur s’attendent à une baisse historique des prix, qui donnerait à la route un avantage certain par rapport au #ferroviaire [8]. Que ce soit pour du fret ou de la livraison, on aurait là une incitation à augmenter le nombre de marchandises en circulation, pour le plus grand profit des monopoles de la vente en ligne. Et comment les particuliers, les actifs surmenés par exemple, résisteraient-ils à la tentation de se faire livrer tout et n’importe quoi à domicile ?

    Selon ce même rapport, les véhicules autonomes pourraient concurrencer les transports en commun, d’une part en diminuant de deux tiers le coût d’un #taxi, d’autre part en rendant la voiture personnelle plus attractive : « Si l’automobile devient un moment de confort, dépourvu de stress, qui offre au consommateur son espace privé, des horaires flexibles, et presque aucune tâche de conduite, le consommateur pourrait échapper aux désagréments des transports publics en optant pour la “conduite” d’un véhicule autonome personnel. » La voiture autonome renforcerait ainsi le phénomène de suburbanisation, rendant acceptable de vivre plus loin de son travail en permettant à beaucoup de commencer leur journée dès l’aube dans une sorte de bureau privatif mobile. Elle permettrait à de nouveaux usagers — enfants, personnes très âgées — de se déplacer facilement, ce qui augmenterait encore, comme l’a confirmé une étude de l’université de Leeds, le nombre de véhicules sur les routes [9]. En gros, concluent les chercheurs, à partir du moment où il ne sera plus nécessaire de toucher le volant, les effets négatifs se multiplieront.


    Un prototype de voiture sans chauffeur d’Uber à San Fransisco, en novembre 2016.

    « Au plan environnemental, la voiture autonome est a priori catastrophique, puisqu’elle va faciliter le recours à l’automobile », confirme Bertrand-Olivier Ducreux, du service transport et mobilités de l’Agence pour l’environnement et la maîtrise de l’énergie (Ademe). Ce service est notamment chargé de l’appel à projets « expérimentation du véhicule routier autonome » qui subventionne les entreprises du secteur via le plan d’investissement d’avenir. « La position de l’ #Ademe, c’est de tenter d’orienter les véhicules autonomes vers une mobilité vertueuse, en faisant en sorte qu’ils soient utilisés comme un service d’autopartage. L’idéal, pour nous, c’est une navette de six, huit places sans conducteur. » Par exemple, un véhicule Uber sans chauffeur qui viendrait chercher plusieurs clients effectuant des trajets semblables.

    « Une solution efficace serait de réserver les véhicules autonomes aux systèmes de transport collectif plutôt qu’aux particuliers » 
    En admettant l’idée de confier l’avenir des transports collectifs à Uber et autres géants du net, la promotion de ces robots-taxis pourrait-elle suffire à enrayer ce qui ressemble à une étape de plus vers la #surconsommation ? Pour Thomas Le Gallic, chercheur en prospective au sein du laboratoire Ville Mobilité Transport, le pari est risqué. « Les études concluent que les véhicules autonomes pourraient aussi bien doubler que diviser par deux la consommation d’énergie associée à la mobilité des personnes. Mais l’augmentation semble plus probable, parce que les gens seront incités à faire des trajets plus longs. Pour moi, une solution efficace serait de réserver les véhicules autonomes aux systèmes de transport collectif plutôt qu’aux particuliers. Mais ce n’est pas la tendance qui se dessine. »

    Ainsi, loin de l’étiquette « mobilité écologique » sous laquelle les pouvoirs publics investissent dans les véhicules autonomes, il faudrait inverser le constat : pour que cette innovation ne soit pas catastrophique, il faudrait une politique extrêmement volontariste.

    Cela impliquerait que le gouvernement, de manière assez invraisemblable, décide de rendre la voiture personnelle prohibitive pour la remplacer par une ambitieuse politique de transports publics et de navettes. Est-ce vraiment le projet ? L’État prévoit-il de se donner les moyens de limiter drastiquement les ventes des constructeurs automobiles ? Est-ce vraiment ce qu’Emmanuel Macron avait en tête, lors de son discours de mars 2018 sur l’ #intelligence_artificielle, quand il déclarait vouloir mener la « bataille essentielle » de la voiture autonome parce que « la #France est une grande nation automobile, et nous y avons notre rôle historique » ?

    En mai 2018, l’État avait déjà dépensé près de 200 millions d’euros pour subventionner la #recherche en véhicules autonomes [10]. C’est sans commune mesure avec ce que pourrait ensuite coûter la mise en œuvre de la 5G, la refonte des infrastructures routières, les mesures de #cybersécurité, soit les investissements publics colossaux nécessaires à leur déploiement, auxquels il faut ajouter le coût social de la mise au chômage de plusieurs centaines de milliers de chauffeurs professionnels.

    Si l’objectif est de mener la « révolution de l’autopartage » et d’en finir avec la voiture personnelle, a-t-on besoin des véhicules autonomes ? Ces investissements ne pourraient-ils pas tout aussi bien servir à mener une aussi ambitieuse politique de transports collectifs avec conducteurs en finançant les trains, les bus et les navettes que réclament les habitants des campagnes et de la France périurbaine pour délaisser leur voiture personnelle ?

    Notes
    [1] « Minerals Drive the Auto Industry », American Mining Association, 10/02/14.
    [2] Cf. Revue Z, n° 12, « Trésors et conquêtes », Agone, 2018.
    [3] « Just one autonomous car will use 4000 GB of data per day », Network World, 7/12/16.
    [4] « Quand le stockage de données consommera plus d’énergie que le monde n’en produit », L’Usine nouvelle, 29/06/18.
    [5] « To Make Self-Driving Cars Safe, We Also Need Better Roads and Infrastructure », 14/08/18.
    [6] « Réinventer la mobilité urbaine et périurbaine à l’horizon 2030 », novembre 2017. Le Boston Consulting Group est une émanation du Forum économique mondial financé par 1.000 multinationales réalisant un chiffre d’affaires supérieur à 3 milliards d’euros.
    [7] « L’idéologie sociale de la bagnole », Le Sauvage, automne 1973.
    [8] Blue Paper on Autonomous Cars, 2013.
    [9] « Self-driving Cars : Will They Reduce Energy Use ? », University of Leeds, 2016 ; « Will Self-driving Cars Be Good or Bad for the Planet ? », geekwire.com, 25/02/16.
    [10] Développement des véhicules autonomes : orientations stratégiques pour l’action publique, mai 2018.

  • En Italie, une mozzarella bio fabriquée sur les terres confisquées à la mafia

    De la #mozzarella_de_bufflonne biologique, fabriquée sur des terres confisquées à la #mafia italienne : c’est le défi que s’est lancé une coopérative sociale agricole dans une région historique pour la #Camorra.

    « Ici, la Camorra a perdu ! » Tel est le message en grosses lettres noires affiché sur le portail de la coopérative sociale Les Terres de Don #Peppe_Diana, située à #Castel_Volturno (Campanie), dans le sud de l’Italie. Sur ces terres, donc, la célèbre organisation mafieuse implantée notamment dans cette région n’a plus la mainmise. Il est 7 heures du matin en cette journée d’été et Massimo Rocco, le directeur du site, accueille les visiteurs désireux d’assister à la production de la seule mozzarella d’#Italie à revendiquer le label « antimafia ».

    Dès le premier coup d’œil, cette exploitation agricole semble avoir quelque chose de particulier. Dans la petite épicerie, qui jouxte le laboratoire de la fromagerie et le bureau de Massimo, on trouve une série de denrées alimentaires labellisées #Libera_Terra, des produits de tout le pays qui, comme la mozzarella de la coopérative, sont issus d’une démarche sociale et économique, une alternative aux pratiques mafieuses. Depuis 1995, la confédération d’associations Libera, fondée par le prêtre #Don_Luigi_Ciotti, coordonne les initiatives de ce type. Parmi les nombreuses activités qu’elle accompagne se trouve la gestion de #biens_confisqués par la #justice aux personnes liées au crime organisé. Une #loi italienne permet en effet de mettre à la disposition de collectivités ou d’entreprises de l’économie sociale et solidaire ces propriétés immobilières et foncières mal acquises.

    Avant de produire du #fromage biologique et de donner du travail à des ouvriers en réinsertion, ces quelques bâtiments perdus au milieu des champs étaient la propriété d’un certain #Michele_Zaza, l’un des parrains historiques de la mafia napolitaine.

    Celui qui avait démarré sa fortune avec la contrebande de cigarettes dans les années 1970 cultivait sur ces terres une passion pour les chevaux. Les écuries ont été saisies par la justice en 1990, mais ce n’est qu’une décennie plus tard qu’elles ont définitivement été confisquées, devenant une propriété de l’État. Après une autre décennie, les écuries et quelques autres lots de terre ont finalement été mis à la disposition de la coopérative sociale montée spécialement par le réseau #Libera, via un comité local. L’objectif était d’y créer une double activité : économique, avec la production de divers fromages, légumes et fourrages ; et sociale, avec la création d’un centre d’activités pour la jeunesse.

    Légalité et circuit court

    Dans le laboratoire de la #fromagerie, alors que le lait de bufflonne livré dans la nuit se transforme en une longue pâte lisse entre les mains expertes des quatre employés, #Massimo_Rocco raconte le long chemin parcouru depuis 2010. Certes, l’État italien leur a confié un bien et des terres confisquées, mais s’opposer à la mafia demande plus que des discours et des symboles. « Ce qu’il fallait avant tout, c’était créer une entreprise qui marche, et dépasser le cap des bonnes intentions en montrant qu’on peut combattre la mafia par une entreprise saine. »

    Dans le sud de l’Italie, la production de mozzarella est un secteur qui a plusieurs fois été épinglé pour diverses formes de pratiques illégales : travail dissimulé, non-respect des normes, pollution environnementale, etc. Et la concurrence, elle, n’est pas toujours loyale. « Nous déclarons nos employés, payons nos taxes, respectons les normes sanitaires. Tout cela a un coût, mais le prix payé par le consommateur est juste », souligne la quadragénaire, qui a accepté de travailler bénévolement au début de l’aventure.

    Avant d’être en mesure de produire près de 1 200 kilogrammes de mozzarella sous appellation d’origine protégée (AOP) — et quelques kilogrammes supplémentaires de #ricotta et #scamorza, un autre fromage à pâte filée — il a fallu démarcher les producteurs de #lait locaux et gagner leur confiance. « Deux de nos quatre fournisseurs sont passés en #biologique, c’était une volonté de notre part. Le réseau les a soutenus et ils ont été certifié en 2016, car la transformation du territoire fait aussi partie du projet de la lutte antimafia, même sur le plan environnemental. »

    La production maraîchère et céréalière, autre activité de la #coopérative pratiquée sur 90 hectares, est d’ailleurs elle aussi biologique. « Nous produisons nous-mêmes le #fourrage utilisé par les éleveurs qui nous fournissent le lait. » Un bel exemple de double #circuit_court et de #traçabilité.

    La suite de la visite se poursuit dans une installation flambant neuve. L’entreprise vient d’investir dans des fumoirs pour la scamorza. Le directeur — et néanmoins sociétaire — explique que le prêt a été obtenu auprès d’une banque. Les aides de l’État sont en effet quasi inexistantes. Sans l’appui du réseau Libera et de #Legacoop (qui possède notamment de nombreux points de distribution), de fondations privées et des camps de jeunes venus prêter main forte lors des premiers chantiers d’installation, la mozzarella des Terres de Don Peppe Diana aurait eu du mal à se faire une place sur le marché. « On ne dégage actuellement pas un gros bénéfice, mais on peut envisager de diversifier notre activité, observe Massimo Rocco. 80 % de notre production est vendue en Italie du Nord, mais il est encore difficile de percer dans le Sud. »

    Pédagogie et sensibilisation

    L’une des missions principales des militants de l’« #antimafia_sociale » est en effet de changer les #mentalités, notamment en faisant comprendre les enjeux de la #légalité : l’opposition à la #corruption et à l’#extorsion. Un discours qui reste encore difficile à entendre dans des régions qui ont été si longtemps sous la coupe de pratiques mafieuses. Les relations avec le voisinage, elles, ont parfois été houleuses.

    « Des incendies, probablement criminels, ont été recensés et du matériel a été volé, se souvient Massimo. Ce n’est pas facile de surveiller nos parcelles disséminées sur plusieurs communes, au milieu de celles appartenant à des familles mafieuses. En revanche, pour une question de transparence, nous envoyons nos bilans économiques et sociaux aux communes et aux préfectures. » Car la sensibilisation aux #alternatives à la mafia doit se faire du fournisseur aux consommateurs, en passant par les acteurs locaux. C’est une raison pour laquelle la coopérative emploie entre autres des anciens détenus.

    Dans le but d’éduquer les futures générations, le domaine agricole accueille également des #camps_scouts. La dernière étape de la visite est d’ailleurs une grande salle de réunion aux murs couverts de livres et par des fresques peintes par les jeunes passés les précédentes années. « C’est l’un des premiers centres de ressources sur les luttes sociales, l’agriculture biologique et l’histoire de l’antimafia de la région nord de Naples », présente fièrement notre hôte. Sa coopérative a d’ailleurs pris le nom du curé de la ville voisine de Casal di Principe, Don Giuseppe Diana, assassiné dans son église par la Camorra en 1994, pour rendre hommage à son combat contre la mafia locale.

    Alors que la visite s’achève comme il se doit par la dégustation d’un fromage tout juste fabriqué, Massimo reçoit un message sur son téléphone. « Nous sommes en demi-finale du concours de la meilleure mozzarella bio de Campanie », sourit-il. Ses produits sont en compétition avec ceux de quatre-vingts autres producteurs de la région. « Cela n’a rien à voir avec les conditions de production, seuls le goût et la qualité du produit sont pris en compte. C’est important pour nous d’être reconnus comme fabricants d’un excellent produit. » Quelques semaines après notre passage, la nouvelle tombe : la mozzarella di bufala de la coopérative a décroché la première place !

    https://reporterre.net/En-Italie-une-mozzarella-bio-fabriquee-sur-les-terres-confisquees-a-la-m
    #mozzarella #mozzarella_di_bufala #terre_di_don_peppe_Diana #Castelvolturno #terre_confiscate #bio #agriculture_biologique

    pour la petite histoire... je la connais assez bien cette fromagerie :-) Et on était déjà en train d’organiser une commande groupée à Grenoble :-)

    ping @karine4 @_kg_

    • @deka —> « Depuis 1995, la confédération d’associations Libera, fondée par le prêtre #Don_Luigi_Ciotti, coordonne les initiatives de ce type. Parmi les nombreuses activités qu’elle accompagne se trouve la gestion de #biens_confisqués par la #justice aux personnes liées au crime organisé. Une #loi italienne permet en effet de mettre à la disposition de collectivités ou d’entreprises de l’économie sociale et solidaire ces propriétés immobilières et foncières mal acquises. »

  • Railcoop : la coopérative qui veut faire revenir le train dans les campagnes

    https://www.franceculture.fr/economie/railcoop-la-cooperative-qui-veut-faire-revenir-le-train-dans-les-campa

    C’est la première coopérative ferroviaire à entrer sur le marché depuis l’ouverture à la concurrence. Railcoop veut remettre des trains en circulation pour accélérer la transition écologique, mais aussi pour faciliter la mobilité entre territoires ruraux et villes moyennes.

    #train #transport #mobilité

  • Salaire unique ou « salaire au besoin » : une coopérative boulangère repense la notion de rémunération - Basta !
    https://www.bastamag.net/salaire-au-besoin-egalite-salariale-alternative-cooperative-Scop-boulanger

    Une boulangerie en coopérative a imaginé une façon inédite de concevoir sa grille salariale, en expérimentant le « salaire au besoin » Après six mois de fonctionnement, les salariés livrent un premier bilan contrasté, étonnant et riche d’enseignements.

    Que doit rémunérer le salaire ? La stricte part de l’effort productif ? Ou bien doit-il intégrer les conditions sociales d’existence du travailleur ? C’est à ces questions, pour le moins fondamentales, auxquelles des boulangers grenoblois se sont frottés. Ils ont eux-mêmes tenté une expérimentation inédite : le « salaire au besoin ».

    Jusqu’alors, la boulangerie Le Pain des Cairns – une coopérative ouvrière – fonctionnait sur un principe simple : le salaire unique. Tous les salariés y travaillent à la fois comme boulanger et comme vendeur, chacun étant appelé à effectuer les mêmes tâches – en proportions égales, autant que possible – assurant ici le service au comptoir, là différentes missions administratives, quand les mains ne sont évidemment pas occupées à préparer le levain ou à surveiller la cuisson. Chacun des boulangers coopérateurs touchait donc le même salaire, 1600 euros net, auquel s’ajoutent diverses primes au cours de l’année.

    #boulangerie #coopérative #SCOP #autogestion #revenu #salaire

    • À sa façon, la coopérative boulangère rejoue les grands débats sur la valeur du travail, mais se refuse à les trancher. « Dès lors qu’on essayait de « factualiser » tout ça dans une grille, ça bloquait. C’était trop contradictoire avec notre approche des choses » abonde Myriam, 32 ans. C’est ainsi que surgit l’idée de renverser la perspective, en dissociant les tâches accomplies de la rémunération obtenue. Autrement dit, décorréler le salaire du travail, en ne se focalisant plus sur la production et l’activité exercée, mais plutôt sur les besoins revendiqués du salarié. Le nom en découle naturellement – le « salaire au besoin » – sans qu’il ne soit inspiré d’aucune théorie ou expérience particulière. Le collectif établit pour cela son propre mode d’emploi et ses propres règles, le temps d’une expérimentation fixée à six mois à partir d’octobre 2020.

    • Si le principe du salaire unique apparaît bel et bien séduisant pour ce qu’il incarne comme valeur d’égalité, le vécu commun de cette boulangerie raconte aussi qu’il ne permet pas certaines solidarités – en l’occurrence, à l’égard de l’âge et d’une situation familiale, mais il pourrait en être de même vis-à-vis de problématiques de santé ou de handicap. Alors, salaire unique versus salaire au besoin, et si la « vérité » était entre les deux ?

      Il y a une autre question qui n’est pas abordée : et si ce n’était PAS à l’activité précise de la personne qui a ces besoins de le prendre en charge ?

      En effet, là illes font des expérimentations légitimes, car la société générale dans laquelle illes vivent ne prend pas en charge, ou mal, ces besoins. Du coup illes se rabattent sur l’entreprise où illes travaillent pour cela. C’est légitime sur le cours terme, car c’est uniquement sur ça qu’illes ont la main !

      Mais… c’est le principe de la sécu à la base : ça ne devrait surtout pas être propre à telle entreprise, mais mutualisé (et donc lissé) sur beaucoup plus de monde. Pas forcément un pays entier d’ailleurs, on peut très bien imaginer des expériences de sécu à échelle communale, régionale…

      À partir du moment où ces besoins courants et qui peuvent toucher tout le monde (enfants, maladie, chômage, etc), sont pris en charge « par la communauté » plus généralement (pays ou région ou commune, ce sont des choix très différents mais en tout cas : pas dans chaque entreprise !), et bien à l’intérieur même de telle entreprise (ou service public), le salaire peut bien rester au salaire égal.

  • Une coopérative laitière mène à l’indépendance des femmes

    Les femmes qui étaient confinées chez elles sont devenues des productrices de lait en tant que membres du SHG, formant par la suite une coopérative autonome. Cela leur a permis de s’autonomiser socialement et financièrement.

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2021/02/19/une-cooperative-laitiere-mene-a-lindependance-des-femme

    #féminisme #international #coopérative

  • Comment une petite société #coopérative tente de changer radicalement le monde paysan - Basta !
    https://www.bastamag.net/la-premiere-SCOP-en-agriculture-ferme-Beletre-Indre-et-Loire-transmettre-u

    Voilà quatre ans que la ferme de Belêtre, en Indre-et-Loire, a initié le mouvement des petites coopératives (Scop) en agriculture. L’enjeu : limiter l’endettement, se rémunérer pour son travail et non sur son capital, améliorer la protection sociale et faciliter la transmission.

    À Dolus-le-Sec, en Indre-et-Loire, la coopérative paysanne de Belêtre est l’une des premières fermes françaises à avoir adopté, en novembre 2016, le statut de société coopérative de production (Scop). « Quand on a cherché à s’installer en agriculture tous les cinq, ce qui motivait notre projet agricole était avant tout politique, explique Mathieu Lersteau, l’un des cinq cofondateurs. Dans ce projet, il y avait quelque chose d’assez tranché sur le rapport au capital et la volonté de participer à un mouvement de transformation sociale. »

    #communs #projets_participatifs