• Processo Open Arms, la città di Barcellona si costituisce parte civile contro Salvini

    Il consiglio comunale di Barcellona si costituirà parte civile nell’ambito del processo Open Arms contro l’ex ministro dell’interno italiano, Matteo Salvini.

    La sindaca di Barcellona, Ada Colau, lo ha confermato mercoledì nel corso di una visita alla nave di salvataggio della Ong. Il Comune si presenterà dunque come parte accusante nell’ambito del procedimento in cui Salvini potrebbe dover rispondere di sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio.

    Siamo ancora nelle fasi dell’udienza preliminare, al via lo scorso 9 gennaio nella città di Palermo.

    Salvini potrebbe andare a processo qualora il Gup, Lorenzo Jannelli, dovesse ritenere che l’ex ministro abbia violato le leggi italiane nel negare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave di salvataggio spagnola Open Arms, con 163 persone a bordo, nell’agosto 2019.

    Il giudice ha ammesso al procedimento le accuse di 18 parti civili, tra cui 7 immigrati che viaggiavano sulla barca.

    Il Comune di Barcellona, nel 2019, ha siglato un accordo con la ONG, donandole circa mezzo milione di euro (quasi il 35% del totale del progetto), e conferendo all’organizzazione la medaglia d’oro per il merito civico.

    Per questo motivo, «il Comune può rivendicare contro Salvini un danno patrimoniale causato dal blocco della nave»; inoltre, indica l’ufficio del sindaco in un comunicato, sussisterebbe un danno d’immagine causato alla città di Barcellona.

    «Sia il governo spagnolo che quello italiano volevano farci una multa di un milione di euro. Ora però possiamo vedere, anzi, tutti possono vedere che si è trattato di un’infamia, che siamo stati vittime di un abuso di potere. Le persone che avevano bisogno di aiuto immediato sono state private della loro libertà, come dicono le convenzioni internazionali», spiega Oscar Camps, direttore della ONG, convinto che la sua organizzazione abbia agito nel rispetto dei trattati internazionali e del diritto del mare.

    Nei 21 giorni in cui alla barca è stato negato l’attracco, 14 persone si sono buttate in mare cercando di raggiungere terra a nuoto. Fu alla fine il procuratore di Agrigento a consentire lo sbarco dei migranti.

    Il procuratore ha parlato di una situazione «di grande disagio fisico e psicologico, di profonda angoscia psicologica, e di altissima tensione emotiva che avrebbe potuto provocare reazioni difficili da controllare, delle quali, inoltre, il tentativo di raggiungere l’isola a nuoto è stato solo un preludio».

    Salvini è già comparso in tribunale il 3 ottobre 2020, a Catania, nell’ambito dell’udienza preliminare sulla richiesta di rinvio a giudizio per il caso della nave Gregoretti e dei suoi 131 migranti a bordo. La ONG ritiene che il politico italiano abbia bloccato l’ingresso in porto alla Open Arms per un proprio tornaconto elettorale.

    L’avvocato di Salvini, Giulia Bongiorno, sostiene che la decisione sia stata presa in blocco da tutto il governo, e che non si sia trattata di un’iniziativa singola dell’allora ministro dell’Interno. Sottolinea inoltre che la Open Arms rifiutò altre alternative di porto di sbarco e che, avendo effettuato il salvataggio in acque libiche e maltesi, ed essendo imbarcazione battente bandiera spagnola, non avrebbe dovuto cercare un porto sicuro in Italia.

    L’udienza preliminare del processo Open Arms si è già tenuta, anche se brevemente; tuttavia, il magistrato ha deciso di rinviare la seduta al prossimo 20 marzo 2021. Il luogo scelto è stato simbolico, ovvero il bunker del carcere Ucciardone di Palermo, dove si tenne il maxiprocesso contro la mafia negli anni ’80.
    Cronologia dei fatti dell’agosto 2019

    Nell’agosto 2019, Salvini negò per 21 giorni lo sbarco ad Open Arms sull’isola di Lampedusa ai circa 160 migranti a bordo, salvati dalla Ong da un naufragio. Dopo una serie di evacuazioni parziali, per ragioni medico-sanitarie, rimasero alla fine a bordo 90 persone. Negli ultimi tre giorni, con la barca alla fonda a soli 800 metri dal porto, diversi migranti si buttarono in mare per raggiungere la terraferma.

    La prima offerta del governo spagnolo di concedere un porto di sbarco per i migranti arrivò dopo 17 giorni di odissea, ma la Open Arms si rifiutò di fare rotta verso i porti di Algeciras e Mahon, considerati troppo lontani.

    L’equipaggio giustificò la propria decisione per ragioni legate alla sicurezza di chi era a bordo e all’impossibilità per la barca di effettuare un viaggio così lungo. Open Arms denunciò anche lo stato di prostrazione fisica e psicologica sia dell’equipaggio sia dei migranti salvati a causa del lungo protrarsi del braccio di ferro politico e diplomatico.

    Madrid si decise ad inviare la nave della Marina spagnola «Audaz» per prendere in carico i migranti e scortare la «Open Arms» fino al porto di Maiorca, ma alla fine, nella notte del 20 agosto, la procura di Agrigento diede il via libera agli 83 migranti rimasti a bordo di sbarcare a Lampedusa, mettendo fine all’odissea.

    Il procuratore di Agrigento prese questa decisione dopo essere salito a bordo della nave spagnola, accompagnato da diversi medici, per verificare le condizioni dei migranti e la situazione a bordo.

    https://it.euronews.com/2021/01/27/processo-open-arms-la-citta-di-barcellona-si-costituisce-parte-civile-c

    #Barcelone #sauvetage #sauvetage_en_mer #migrations #réfugiés #partie_civile #procès #Open_Arms #Salvini #Italie #Ana_Colau #villes-refuge #justice #abus_de_pouvoir #port

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    Ajouté à la métaliste sur les villes-refuge:
    https://seenthis.net/messages/759145

    ping @isskein @karine4

    • Barcelona se personará en el juicio en Italia contra Salvini por el bloqueo del Open Arms

      Barcelona se personará en el juicio en Italia contra Salvini por el bloqueo del Open Arms

      El Ayuntamiento de Barcelona ha iniciado los trámites para personarse como parte civil en el proceso penal que se sigue en Palermo (Italia) contra el exministro de Interior Matteo Salvini por impedir que el barco de rescate Open Arms desembarcara en el país con más de 130 personas a bordo en verano de 2019. "Nos personamos en esta causa judicial porque si atacan a Open Arms sentimos que atacan a toda la ciudad de Barcelona, una ciudad comprometida con la paz, los derechos humanos, la ...

      https://www.europapress.es/catalunya/noticia-barcelona-personara-juicio-italia-contra-salvini-bloqueo-open-ar

  • Des enseignants contaminés et cas contacts sommés de faire cours
    https://www.vice.com/fr/article/bvx5w3/des-enseignants-contamines-et-cas-contacts-sommes-de-faire-cours

    « Il y a un protocole sanitaire pour tous les Français et on dit aux enseignants de ne pas le respecter. On marche sur la tête », raconte Louis* enseignant à Paris. Dans son école, un de ses collègues, avec qui il mange tous les midis, a été confirmé positif au Covid-19. Alors qu’il pense être remplacé et mis en isolement pendant une semaine pour faire un test comme le demande l’Agence Régionale de Santé, il apprend avec stupeur qu’il doit non seulement retourner travailler à l’école le lendemain mais en plus cacher le fait qu’il est cas contact aux parents.

    Si j’ai bien suivi, l’organisateur de la rave party, mise en danger de la vie d’autrui, c’est détention illico et la menace de 10 ans de taule. Apparemment, dans la hiérarchie de l’éducation nationale, c’est si tu fermes une classe que tu risques la punition. La mise en danger de la vie d’autrui, c’est couvert par le ministre.

  • Une enquête pour « harcèlement moral » vise la porte-parole de LREM Laetitia Avia
    https://www.lefigaro.fr/flash-actu/une-enquete-pour-harcelement-moral-vise-la-porte-parole-de-lrem-laetitia-av

    Le parquet de Paris a confirmé cette information, précisant que l’enquête avait été ouverte le 9 juillet du chef de « harcèlement moral » et confiée à la Brigade de répression de la délinquance aux personnes (BRDP). Une source proche du dossier a indiqué que certains des plaignants avaient été entendus par les policiers.

    Cinq ex-assistants parlementaires accusaient, dans un article de Mediapart de mai, la députée de Paris d’humiliations, harcèlements et abus de pouvoir sur ses collaborateurs et de tenir des moqueries sur le physique, la tenue vestimentaire de militantes ou d’une élue. Sont également cités des propos jugés sexistes, racistes ou homophobes dans ses échanges avec son équipe, comme lorsqu’elle écrit en 2018 après le vote d’un amendement LGBT : « on a voté l’amendement des PD », dans un échange copié par une capture d’écran reproduit par Mediapart.

    Apparemment, à LaRem, les haineux ne sont pas retirés en moins de 24 heures (ils seraient même plutôt promus).

  • Les centres pour requérants d’asile doivent améliorer leur gestion de la #violence

    La violence et les conflits devraient être mieux gérés dans les centres fédéraux pour requérants d’asile. Le personnel de sécurité devrait être mieux formé. La commission nationale de prévention de la torture a publié lundi ses nouvelles recommandations.

    Pour la commission, la manière de résoudre les #conflits et la violence laisse à désirer dans ces hébergements et un système de #gestion_des_conflits y fait défaut.

    A plusieurs reprises, le #personnel_de_sécurité des centres fédéraux a utilisé des moyens disproportionnés, relève le rapport sur la base de témoignages. Il s’agit par exemple de l’#immobilisation_corporelle, de l’utilisation de #gels_au_poivre ou du placement en salle de « réflexion ». Des procédures pénales ont été engagées contre des #agents_de_sécurité pour usage arbitraire ou disproportionné de la #force ou d’#abus_de_pouvoir.

    Meilleure formation

    La commission recommande donc une gestion systématique des #plaintes. Cette approche plus transparente permettrait de régler les conflits le plus souvent possible sans faire usage de la force, à dissiper les #malentendus et la #défiance entre les requérants d’asile et le #personnel_de_sécurité. La justice pénale ne se concentrerait que sur les cas qui le justifient.

    Les entreprises de sécurité doivent en outre recruter des employés expérimentés et formés spécifiquement aux charges requises dans un centre fédéral pour requérants d’asile. Elles doivent prévoir une #formation nettement plus longue et plus poussée de leur personnel. Le Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) est notamment prié de prévoir des moyens financiers à cet effet.

    La commission nationale de prévention de la torture estime en outre qu’il faut limiter le moins possible la #liberté_de_mouvement des requérants et encourager les autorités communales compétentes à aménager des #horaires_de_sortie étendus. Cette recommandation avait déjà été émise dans son précédent rapport.

    Points positifs

    Dans ses conclusions, la commission relève également plusieurs points positifs. Les requérants d’asile sont en général hébergés dans des conditions répondant aux droits humains et fondamentaux.

    La mise en place de l’enseignement de base pour les enfants et les jeunes en âge de scolarité est saluée, tout comme la création dans le centre de #Kreuzlingen (TG) d’une consultation pour les personnes souffrant de dépendances.

    https://amp.rts.ch/info/suisse/11905402-les-centres-pour-requerants-dasile-doivent-ameliorer-leur-gestion-d

    #centres_fédéraux #asile #migrations #réfugiés #Suisse #centre_fédéral

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    Ajouté au fil de discussion sur #ORS en #Suisse :
    https://seenthis.net/messages/884092

    qui, lui-même, a été ajouté à la métaliste sur ORS :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • Centres fédéraux pour requérants d’asile : accès à l’enseignement scolaire de base jugé positivement, potentiel d’amélioration concernant la prévention de la violence et la protection des personnes vulnérables

      La #Commission_nationale_de_prévention_de_la_torture (#CNPT) s’est rendue une nouvelle fois dans des centres fédéraux pour requérants d’asile (CFA) entre 2019 et 2020. Elle publie aujourd’hui les constatations et les recommandations qu’elle a faites à l’occasion de ses visites. La Commission conclut dans son rapport que les requérants d’asile sont en général hébergés dans des conditions conformes aux droits humains et aux droits fondamentaux. Elle juge en particulier positive l’instauration de l’enseignement de base pour les enfants et les jeunes en âge de scolarité et cite en exemple la création, dans un centre, d’une consultation pour les personnes souffrant de dépendances. La Commission estime cependant qu’il existe un potentiel d’amélioration concernant la gestion des conflits, la prévention de la violence et le traitement des plaintes, et rappelle que des progrès doivent être faits s’agissant de l’identification des personnes vulnérables, de l’accès à une prise en charge psychiatrique et, dans certains cas, de l’infrastructure.

      Au cours de ses visites, la Commission a constaté que le personnel de sécurité des centres a eu recours à plusieurs reprises à l’immobilisation corporelle, à des gels au poivre et au placement en salle de « réflexion ». Plusieurs témoins de ces situations jugent que l’intervention du personnel de sécurité était dans quelques cas disproportionnée. Il a été porté à la connaissance de la Commission que des procédures pénales ont de fait été engagées contre plusieurs collaborateurs à la suite de plaintes de requérants d’asile.

      La Commission estime qu’il existe un potentiel d’amélioration considérable en ce qui concerne la prévention de la violence et le traitement des conflits et des griefs de violence. Elle recommande au Secrétariat d’État aux migrations (SEM) de mettre en place une gestion systématique, à bas seuil, des plaintes et de réfléchir à la manière de renforcer l’encadrement afin de réduire les conflits violents. L’introduction prévue d’un plan de prévention de la violence dans tous les hébergements est saluée.

      Le SEM doit en outre veiller à ce que les entreprises de sécurité qu’il mandate recrutent des employés expérimentés et qualifiés et leur assurent une formation approfondie aux spécificités du travail dans un CFA. Les entreprises de sécurité doivent en particulier prévoir une formation nettement plus longue et plus poussée de leur personnel.

      La Commission cite en exemple la création d’une consultation pour les personnes souffrant de dépendances au CFA de Kreuzlingen. Cette mesure, qualifiée de meilleure pratique, a contribué selon divers intervenants à réduire les tensions dans l’hébergement. Le SEM est encouragé à mettre en œuvre des solutions analogues dans ses autres structures également.

      Les rôles des différents intervenants dans les centres et les processus d’identification des personnes vulnérables ne sont pas encore définis avec suffisamment de clarté. La Commission se félicite de ce que le SEM prépare un guide concernant les personnes ayant des besoins particuliers.

      Dans les CFA, la prise en charge psychiatrique se limite généralement aux situations aiguës. Compte tenu de la courte durée des séjours dans les centres, un traitement n’est généralement mis en place qu’après l’attribution de la personne à un canton. La Commission recommande au SEM de procéder à un premier bilan de la situation psychique des requérants à leur arrivée, de manière à pouvoir les rediriger, en cas de traumatisme ou de troubles psychiques, vers des services spécialisés si possible déjà pendant leur séjour au centre. La Commission a pris acte de ce que différentes mesures sont prévues pour faciliter l’accès à une prise en charge psychiatrique.

      La Commission a visité, de janvier 2019 à juillet 2020, les CFA de Boudry, de Balerna, de Chiasso, de l’Aéroport de Genève, de Kappelen, de Kreuzlingen et de la « Via Motta » (Chiasso), ainsi que l’hébergement de la halle 9 à Oerlikon, géré par la ville de Zurich.
      Ces visites se fondent sur les dispositions de la loi fédérale du 20 mars 2009 sur la Commission de prévention de la torture (CNPT), qui prévoit que la CNPT contrôle régulièrement la situation des personnes privées de liberté ou dont la liberté de mouvement est restreinte en application d’une décision des autorités. Le dernier rapport de la Commission sur les conditions dans les hébergements fédéraux pour requérants d’asile date de janvier 2019 (période 2017 - 2018).

      https://www.nkvf.admin.ch/nkvf/fr/home/publikationen/mm.msg-id-82013.html

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      Dans le résumé du rapport en français (le rapprt complet n’est pas disponible en français), pas de mention de #ORS : https://www.nkvf.admin.ch/dam/nkvf/fr/data/Berichte/2020/baz/ber-zus-baz-fr.pdf

      ORS est par contre mentionnée dans le rapport complet en allemand : https://www.nkvf.admin.ch/dam/nkvf/de/data/Berichte/2020/baz/ber-baz-de.pdf

    • Les requérant·e·s doivent davantage être protégé·e·s des violences subies dans les Centres fédéraux d’asile

      Le nouveau rapport de la Commission nationale de prévention de la torture (CNPT) confirme les dysfonctionnements des Centres fédéraux d’asile (CFA) que les associations de défense des migrant·e·s dénoncent depuis plusieurs années : le système de gestion des CFA, de plus en plus privatisé, entraîne des violences, peine à gérer les conflits et à traiter les plaintes. Le recours à la force envers les personnes requérantes d’asile est inacceptable et doit immédiatement cesser.

      Immobilisation corporelle, recours à des gels au poivre ou encore au placement en salle de « réflexion », qui s’apparente en réalité à une sorte de cellule de détention ; c’est ce qui ressort de plusieurs témoignages de requérant·e·s vivant dans différents CFA aux quatre coins de la Suisse. Menée par la CNPT entre 2019 et 2020, cette enquête a révélé l’usage fréquent de moyens disproportionnés par le personnel de sécurité des centres. Plusieurs collaborateur·trice·s font actuellement l’objet d’une procédure pénale à la suite de plaintes de requérant·e·s d’asile.

      Les critiques de la CNPT font écho aux récentes dénonciations de violences par les collectifs Solidarités Tattes à Genève, Droit de rester à Fribourg et Drei Rosen gegen Grenzen à Bâle. Plusieurs personnes résidant au CFA de Giffers dans le canton de Fribourg ont témoigné avoir fait l’objet de graves maltraitances de la part du personnel de sécurité, certaines d’entre elles ayant dû être hospitalisées. Les membres du personnel de sécurité impliqué·e·s n’ont toutefois pas été inquiété·e·s pour leurs actes et travaillent toujours au CFA de Giffers. Des dénonciations similaires ont eu lieu au sujet du CFA de Bâle et au Centre pour requérant·e·s mineur·e·s non accompagné·e·s (RMNA) de l’Étoile à Genève.

      Le système même des CFA est responsable de ces violences : les organismes privés tels que l’ORS proposent des services à moindre coût pour obtenir les marchés publics et évincer ainsi les organismes publics ou associatifs, aux dépens des conditions de vie et de la santé des requérant·e·s. L’organisation asile.ch dénonce depuis de nombreuses années le fait qu’une entreprise puisse réaliser des profits en assurant une mission sociale et publique. Les entreprises de sécurités mandatées (Protectas, Securitas et Verkehrsüberwachung Schweiz AG) soumettent leur personnel à des conditions de travail précaires et ne leur assurent pas une formation approfondie sur les particularités du travail au sein des CFA. Plusieurs témoignages de vigiles dénoncent une « banalisation de la violence ». En outre, la part du budget de la Confédération allouée à la « sécurité » est plus importante que celle consacrée à l’encadrement social et sanitaire dans les CFA alors même que les requérant·e·s sont une population davantage fragilisée que la moyenne.

      Les requérant·e·s doivent bénéficier d’un meilleur encadrement social et médical ; la Confédération doit assurer la protection de ces personnes en réglementant davantage la collaboration avec des entreprises de sécurité privée et en ouvrant plus largement les CFA à la société civile. Les renvois potentiels de personnes lésées doivent être suspendus en attendant le résultat des plaintes pénales déposées contre le personnel de sécurité.

      https://www.humanrights.ch/fr/qui-sommes-nous/commentaire-violences-cfa

    • Les Centres fédéraux d’asile fonctionnent comme de boîtes noires hyper sécurisées et mal gérées

      La mise en oeuvre du nouveau système d’asile en mars 2019 a rendu l’hébergement dans les CFA extrêmement difficile à vivre pour les requérants d’asile tous fragilisés par leur parcours migratoire. A la pression de la procédure d’asile elle-même, s’ajoute des règles de vie absurdes que des agents de sécurité font appliquer avec force, violences, insultes racistes et xénophobes et punitions exagérées.

      Le SEM a donné trop de pouvoir aux sociétés privées de sécurité (Protectas et Securitas) sans avoir vraiment les moyens de vérifier leur travail et lorsqu’il sait, il minimise. Pour le Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) la parole d’un requérant vaut toujours moins que celle d’un fonctionnaire ou d’un agent de sécurité.

      On doit alors se demander si les conditions d’hébergement dans les CFA permettent la tenue sereine des auditions ? Question sous-jacente : dans quelles mesures le SEM et ses sbires mal supervisés peuvent être tenus responsables d’auditions ratées, de mauvaises décisions, de disparitions dans la nature ?

      Le scandale éclate

      Le 5 mai, une enquête de la RTS (https://www.rts.ch/info/suisse/12175381-bavures-et-rapports-trafiques-la-securite-derape-dans-les-centres-feder), de l’émission Rundschau et de la Wochenzeitung, révèle l’usage abusif de la force contre des requérants d’asile et les rapports truqués des agents de sécurité pour couvrir leurs actes. Gilles Clémençon, chef du pôle enquête de la RTS précise que les actes ont été commis dans plusieurs centres fédéraux de Suisse. A Saint-Gall, Bâle et Boudry, les journalistes ont recueilli plusieurs témoignages de violences très vraisemblables sur des requérants d’asile par des agents de sécurité (Protectas AG et Securitas AG). Quatre personnes ont déposé une plainte pénale contre des agents violents (1).

      Un rapport d’Amnesty International (https://www.amnesty.ch/fr/pays/europe-asie-centrale/suisse/docs/2021/violations-des-droits-humains-dans-les-centres-federaux-d-asile) confirme la gravité des faits. Il explique dans quelles circonstances les violences se sont produites et comment les tensions surviennent et dégénèrent. Un fonctionnement trop rigide des nouveaux centres fédéraux avec une mauvaise application des règles par des gros bras qui préfèrent punir d’office en faisant des remarques déplacées sur le parcours migratoire des requérants, leur collant une étiquette de profiteurs, voilà ce que révèle entre autre le rapport.

      Rapport d’Amnesty International

      Depuis février 2020, Amnesty International enquête. Son équipe reçoit des témoignages de violences, d’interventions brutales et de comportements inappropriés qui ont eu lieu dans les centres de Bâle, Giffers, Boudry, Altstätten et Vallorbe. Les informations viennent d’abord d’employés de sécurité (Protectas AG et Securitas AG), puis de requérants d’asile et du personnel d’encadrement (ORS AG) mais aussi de représentants juridiques. Amnesty International a aussi accès aux rapports médicaux et aux plaintes judiciaires.

      > Rapport d’Amnesty International : “Je demande que les requérants d’asile soient traités comme des êtres humains .” (https://www.amnesty.ch/fr/pays/europe-asie-centrale/suisse/docs/2021/violations-des-droits-humains-dans-les-centres-federaux-d-asile)

      En tout 32 personnes ont été interrogées. Dans le rapport figure les témoignages de 14 requérants d’asile dont deux mineurs non-accompagnés, 8 vigiles de sécurité et 6 représentants juridiques. Selon, Alicia Giraudel, juriste chez Amnesty International, ces victimes représentent la pointe de l’iceberg. La plupart d’entre elles ne portent jamais plainte car elles craignent des représailles (perte de l’emploi, plus de problème avec la sécurité etc.)

      En réalité, rien n’est mis en place pour porter plainte. Il n’existe aucun mécanisme indépendant pour le faire et la plateforme existante de whistleblowing n’est pas utilisée. Personne ne sait qu’elle existe. Alors beaucoup d’entre elles quittent les centres et disparaissent dans la nature. Lors de son intervention dans l’émission Forum (RTS), Alicia Giraudel explique la gravité des mauvais traitements (https://www.rts.ch/play/tv/forum-video/video/le-debat-centres-federaux-dasile-droits-humains-en-danger?urn=urn:rts:video:1221).

      “Les situations se recoupent beaucoup, il y a de la violence et de la maltraitance, des personnes ont été enfermées de manière arbitraire dans des containers, des personnes ont été traitées de manière irrespectueuses, elles ont ressenti de la xénophobie et du racisme (…)

      Dans certaines situations, explique-t-elle, les traitements infligés pourraient être qualifiés d’actes de torture.

      Tentatives de suicide et automutilations

      Les conditions d’hébergement sont si mauvaises que les tentatives de suicide et les actes d’automutilation sont fréquents. Selon le Secrétaire d’Etat aux migrations, il y en aurait chaque semaine avec deux issues fatales l’année dernière.

      C’est aussi dû au nouveau système de l’asile. Aldo Brina, spécialiste de l’asile en Suisse, explique les raisons systémiques derrière ces drames (4).

      “Avec la nouvelle loi, on a prolongé la durée de séjour dans les centres fédéraux. Avant on était à 60 jours, puis on est passé à 90 jours en 2011 et maintenant on est à 140 jours (….) mais il n’y a pas eu d’évolution du concept d’hébergement, on est toujours sur le tout sécuritaire et pas sur l’encadrement social et c’est ça qui doit changer aujourd’hui (…) le context est extrêmement difficile, on le voit avec les gens qu’on accompagne, c’est vraiment douloureux de passer par ces centres fédéraux.” (5)

      “(…) Les centres sont géographiquement isolés, entourés de clôtures souvent barbelées ; les personnes en demande d’asile manquent de contact avec le monde extérieur, leurs libertés individuelles sont restreintes. Elles ne peuvent pas sortir en dehors d’horaires prédéfinis, on les fouille à chaque entrée, on leur interdit d’apporter de la nourriture, on les soupçonne de vol dès qu’elles apportent un objet sans ticket d’achat. Un long séjour dans ce cadre, teinté de carcéral, après avoir fui une guerre ou des persécutions, c’est compliqué. En tout cas, ça ne ressemble en rien à de l’accueil.” (6)

      Purger le SEM

      Cela fait des mois que les associations tirent la sonnette d’alarme. Le SEM n’en a pas tenu compte. Il a fermé les yeux, satisfait d’un rapport (https://www.nkvf.admin.ch/nkvf/fr/home/publikationen/mm.msg-id-82013.html) incohérent de la Commission nationale de prévention de la torture (CNPT) (https://www.nkvf.admin.ch/nkvf/fr/home/publikationen/mm.msg-id-82013.html), une institution dont l’indépendance fait sourire.

      C’est l’enquête des médias et le rapport d’Amnesty International qui font réagir le SEM. Il fait suspendre 14 brutes et annonce confier une enquête externe (https://www.sem.admin.ch/sem/fr/home/sem/medien/mm.msg-id-83389.html) sur les allégations de violences à l’ancien juge fédéral Niklaus Oberholzer. Il annonce également un audit interne (https://www.swissinfo.ch/fre/all%C3%A9gations-de-violence-dans-les-centres-f%C3%A9d%C3%A9raux-pour-requ%C3%A9rants-d-asile--enqu%C3%AAte-pr%C3%A9vue/46591868) sur la gestion de la sécurité dans les centres fédéraux. Enfin, une nouvelle ligne budgétaire est prévue pour la commande d’une autre étude (https://www.rts.ch/play/tv/forum-video/video/le-debat-centres-federaux-dasile-droits-humains-en-danger?urn=urn:rts:video:1221) afin de faire la lumière sur les taux élevés de suicides et d’automutilations constatés depuis deux ans.

      Il faudra attendre le résultat de ces investigations ainsi que le futur rapport du Comité anti-torture du Conseil de l’Europe (https://www.coe.int/fr/web/cpt/-/council-of-europe-anti-torture-committee-carries-out-an-11-day-visit-to-switzer) qui vient de faire une visite du Centre fédéral de Boudry. En attendant, les directeurs des centres, chefs et sous chefs de la sécurité ou autres responsables qui ont choisi de fermer les yeux et ignorer ce qui se passait, doivent être immédiatement sanctionnés et licenciés.

      Comment remédier aux tensions et violences dans les centres fédéraux d’asile

      Les mauvais comportements de part et d’autre doivent être punis immédiatement et de manière intelligente et proportionnelle. L’impunité est un cercle vicieux qui mène à plus de violence, des deux côtés. Comme l’a rappelé Aldo Brina (https://www.rts.ch/play/tv/forum-video/video/le-debat-centres-federaux-dasile-droits-humains-en-danger?urn=urn:rts:video:1221), les requérants d’asile et les agents de sécurité ne sont pas pires qu’avant, c’est bien le nouveau système de l’asile qui est défaillant. Voici quelques recommandations qui permettront de corriger les choses dans les centres fédéraux.
      Améliorer la formation des agents de sécurité.

      Un agent de sécurité doit se sentir respecté. Un requérant d’asile également. Les agents de sécurité doivent recevoir la formation pour agir convenablement dans les situations tendues. Le dialogue, les explications, la recherche de solutions non punitives doivent faire partie de l’arsenal prioritaire de tout agent de sécurité. Les agents de sécurité doivent inspirer le respect au lieu de propager la peur. L’effet virtuel positif d’un comportement guidé par la volonté d’apaiser lui sera personnellement bénéfique dans ses futures interventions.
      Interdire et sanctionner les agents qui font des commentaires insultants sur les raisons de fuite des requérants d’asile.

      Parmi les personnes victimes de violences et parmi celles qui ont été injustement punies, beaucoup ont reçu des insultes d’agents de sécurité insinuant qu’ils n’avaient rien à faire en Suisse. Les agents de sécurité doivent savoir que les personnes qui font l’objet d’une procédure Dublin sont des personnes dont les motifs d’asile n’ont pas encore été examinés et que personne en Suisse ne peut préjugés de leurs motifs de fuite avant que leur situation personnelle ne soit examinée dans le cadre d’une procédure d’asile complète. Tout propos qui concerne le statut des personnes hébergées est inadmissible et doit être immédiatement sanctionné.
      Établir un mécanisme indépendant de plainte et de whistleblowing.

      Afin d’éviter la dissimulation de bavures, la mise en place d’un mécanisme totalement indépendant de réception et d’examen de plaintes est incontournable. Par ailleurs, les requérants d’asile et les employés travaillant dans les centres doivent aussi pouvoir accéder à une plateforme de whistleblowing.
      Renforcer la présence des assistants sociaux et des aumôniers.

      Dans chaque centre, il faut réduire la présence d’agents de sécurité et prévoir des assistants sociaux en plus du personnel d’encadrement (ORS AG). Leur rôle est vital pour la bonne communication dans les CFA. Les cantons en font l’expérience dans les foyers pour requérants d’asile depuis des décennies. Le nombre d’agents de sécurité doit être proportionnellement diminué. Il est important aussi d’assouplir les entrées et sorties des aumôniers dans tous les centres fédéraux. Leur rôle bénéfique a fait ses preuves.
      Assouplir les règles de vie dans tous les CFA.

      Saviez-vous qu’il est interdit pour les requérants d’asile d’écouter de la musique dans les centres ? Une des nombreuses règles absurdes qui ne sert qu’à rendre la vie encore plus difficile et occasionne des tensions inutiles. Saviez-vous que les personnes hébergées n’ont pas le droit d’y apporter un pain au chocolat ? Certaines règles et punitions sont trop extrêmes. Dans certains centres, les fouilles corporelles systématiques sont malheureusement encore pratiquées.

      Et Mario Gattiker dans tout ça ?

      Le chef du Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) doit être déçu de terminer son mandat dans une telle tourmente. Mais il a les reins solides. Son air de chien abattu et sa langue de bois bien aiguisée nous trompent sur le personnage qui a tenté d’amadouer en vain les organisations non gouvernementales en Suisse.

      La qualité de la procédure d’asile a beaucoup baissé et toutes les initiatives pour l’améliorer intelligemment avec l’enregistrement audio des auditions d’asile ou la formation des interprètes, citons ces exemples, n’ont pas eu de prise sur lui.

      On le dit étroit d’esprit, soumis et surtout fatigué par les grands chantiers. Il lui reste quelques mois avant de céder son poste à Madame Schraner Burgener. Sauras-t-il prendre les bonnes décisions pour corriger le tir ? Ce serait vraiment l’occasion de laisser un bon souvenir.

      Notes :

      - Selon l’association Solidarité Tattes seulement deux personnes concernées ont témoigné de ce qu’ils ont vécu lors d’une audience judiciaire. Une personne a été expulsée vers l’Allemagne, une autre a disparu.
      – Lire le Rapport de la coalition des juristes indépendants, octobre 2020 : https://asile.ch/2020/10/08/coalition-des-juristes-independant-e-s-bilan-de-la-restructuration-du-domaine-
      - Le débat – Centres fédéraux d’asile : droits humains en danger ?, RTS, Forum, 19 mai 2021 : https://www.rts.ch/play/tv/forum-video/video/le-debat-centres-federaux-dasile-droits-humains-en-danger?urn=urn:rts:video:1221
      - Voir ses interventions dans Le Temps (https://www.letemps.ch/opinions/violence-centres-federaux-dasile-un-probleme-structurel) et sur la RTS (https://www.rts.ch/play/tv/forum-video/video/le-debat-centres-federaux-dasile-droits-humains-en-danger?urn=urn:rts:video:1221).
      - Le débat – Centres fédéraux d’asile : droits humains en danger ?, RTS, Forum, 19 mai 2021 : https://www.rts.ch/play/tv/forum-video/video/le-debat-centres-federaux-dasile-droits-humains-en-danger?urn=urn:rts:video:1221
      - Violence dans les centres fédéraux d’asile : un problème structurel, Opinion, Le Temps, 13 mai 2021 : https://www.letemps.ch/opinions/violence-centres-federaux-dasile-un-probleme-structurel

      https://blogs.letemps.ch/jasmine-caye/2021/06/01/les-centres-federaux-dasile-fonctionnent-comme-de-boites-noires-hyper-

    • Le Comité anti-torture du Conseil de l’Europe effectue une visite de 11 jours en Suisse

      Une délégation du Comité pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou dégradants (CPT) du Conseil de l’Europe a effectué une visite en Suisse du 22 mars au 1er avril 2021. Il s’agissait de la septième visite périodique effectuée dans le pays.

      Cette visite avait pour objectif d’examiner le traitement et les conditions de détention des personnes privées de liberté dans sept cantons de la Confédération helvétique. Une attention particulière a été portée à la situation des personnes privées de liberté par la police, des personnes placées en détention avant jugement ou exécutant des peines ou des mesures thérapeutiques institutionnelles ou d’internement (y compris les mineurs et jeunes adultes) ainsi que des personnes faisant l’objet de mesures de contrainte en matière de droit des étrangers. Enfin, la délégation a pu constater l’impact des mesures prises afin de prévenir la propagation de la covid-19 dans les établissements visités.

      Dans le cadre de la visite, la délégation du CPT s’est entretenue avec M. Martin Dumermuth, Directeur de l’Office fédéral de la justice (OFJ), ainsi que les Conseillères d’État suivantes : Mme Karin Kayser-Frutschi, Directrice de la justice et de la sécurité (canton du Nidwald), Mme Jacqueline Fehr, Directrice de la justice et des affaires intérieures (canton de Zurich), Mme Nathalie Barthoulot, Présidente du Gouvernement jurassien et Ministre de la cohésion sociale, de la justice et de la police (canton du Jura), et Mme Béatrix Métraux, Cheffe du Département de l’environnement et de la sécurité (canton de Vaud). Elle a également rencontré des hauts fonctionnaires représentant les institutions cantonales et fédérales en charge des divers domaines d’intérêt du CPT.

      En amont de la visite, des consultations ont eu lieu avec Mme Regula Mader, Présidente de la Commission nationale de prévention de la torture (CNPT), ainsi qu’avec des représentants d’organisations non gouvernementales qui œuvrent dans des domaines liés au mandat du CPT.

      A l’issue de sa visite, la délégation a présenté ses observations préliminaires aux autorités fédérales et cantonales à Berne.

      La visite a été effectuée par les membres du CPT suivants :

      Vincent Delbos (chef de la délégation)
      Vanessa Durich
      Nico Hirsch
      Julia Kozma
      Philippe Mary
      Vytautas Raškauskas.

      Ils étaient secondés par Natacha De Roeck et Sebastian Rietz du secrétariat du CPT et assistés par deux experts, Anne Galinier, médecin et Cyrille Orizet, psychiatre.

      La délégation s’est rendue dans les lieux de privation de liberté suivants :
      Canton d’Argovie

      Clinique de psychiatrie forensique de Königsfelden, Windisch

      Canton de Berne

      Hôtel de police de Berne (Waisenhausplatz 32), Berne
      Prison de Thorberg, Krauchthal (visite ciblée)

      République et canton de Genève

      Hôtel de police (boulevard Carl-Vogt 17-19), Genève
      Poste de police des Pâquis (rue de Berne 6), Genève
      Prison de Champ-Dollon, Puplinge
      Établissement fermé Curabilis, Puplinge
      Centre éducatif de détention et d’observation pour mineurs « La Clairière », Vernier

      Canton de Neuchâtel

      Centre fédéral pour requérants d’asile de Boudry, Perreux (visite ciblée)

      Canton de Soleure

      Poste de police régional (Werkhofstrasse 33), Soleure
      Prison de détention provisoire, Soleure (visite ciblée)
      Prison de Soleure, Deitingen (visite ciblée)

      Canton de Vaud

      Hotel de Police cantonale, Centre de la Blécherette, Lausanne
      Hotel de Police municipale, rue Saint-Martin, Lausanne
      Prison du Bois-Mermet, Lausanne
      Établissement de détention pour mineurs « Aux Lechaires », Palézieux

      Canton de Zurich

      Prison de la Police cantonale (Kantonales Polizeigefängnis) (Kasernenstrasse 29 et 49 et Zeughausstrasse 11), Zurich
      Centre de dégrisement (Züricher Ausnüchterungs- und Beruhigungsstelle – ZAB), Zurich
      Poste de police (Regionalwache) Aussersiehl (Militärstrasse 105), Zurich
      Poste de police (Regionalwache) Industrie (Fabrikstrasse 1), Zurich
      Poste de police et zone de transit de l’aéroport (Kantonaler Polizeiposten Flughafen), Kloten
      Prison de Limmattal (visite ciblée)
      Prison de l’aéroport – Service détention administrative (Flughafengefängnis – Abteilung ausländerrechtliche Administrativhaft), Kloten (visite ciblée)
      Centre pour mineurs et jeunes adultes (Massnahmenzentrum) Uitikon, Uitikon-Waldegg.

      https://www.coe.int/fr/web/cpt/-/council-of-europe-anti-torture-committee-carries-out-an-11-day-visit-to-switzer

    • #Amnesty_International appelle à une action urgente pour mettre fin aux violations des droits humains dans les centres fédéraux d’asile
      https://www.amnesty.ch/fr/pays/europe-asie-centrale/suisse/docs/2021/violations-des-droits-humains-dans-les-centres-federaux-d-asile/@@images/95da9e15-7fa8-4c34-8cc5-4ef215bb0df7.jpeg

      Amnesty International a enquêté en profondeur sur les violences perpétrées à l’encontre de personnes ayant déposé une demande d’asile et hébergées dans les centres fédéraux d’asile en Suisse. Les recherches révèlent des violations commises par le personnel de sécurité, notamment des cas graves de maltraitance. À la lumière des faits mis au jour, l’organisation alerte sur les violations des droits humains visant des requérants d’asile, dont des mineurs. Elle appelle le gouvernement suisse à agir vigoureusement pour faire cesser les abus.

      Dans le rapport intitulé « Je demande que les requérants d’asile soient traités comme des êtres humains  » : Violations des droits humains dans les centres fédéraux d’asile suisses, Amnesty International documente les cas de maltraitance infligée par des employés des entreprises de sécurité Securitas SA et Protectas SA, sous contrat avec le Secrétariat d’État aux migrations (SEM). Les abus décrits dans le rapport ont eu lieu entre janvier 2020 et avril 2021 dans les centres de Bâle, Chevrilles, Boudry, Altstätten et Vallorbe. Les informations à ce sujet ont été obtenues au moyen d’entretiens conduits avec trente-deux personnes, dont quatorze victimes d’abus et dix-huit agents de sécurité en exercice ou ayant quitté leurs fonctions, représentants juridiques, collaborateurs d’encadrement et éducateurs sociaux témoins de ces mêmes abus. Le rapport se base aussi sur des dossiers médicaux, plaintes pénales et autres sources d’information pertinentes.

      Amnesty International s’est entretenue avec quatorze requérants d’asile, dont deux mineurs, qui rapportent avoir été soumis à des abus par des agents de sécurité. Ces abus comprennent notamment des coups, le recours à la contrainte physique au point de restreindre la respiration et d’engendrer une crise d’épilepsie, l’évanouissement et des difficultés à respirer suite à l’inhalation de spray au poivre ou encore la détention dans un container métallique en état d’hypothermie. Parmi ces personnes, six ont eu besoin de soins hospitaliers, tandis que deux autres se sont vu refuser un traitement médical alors qu’elles ont demandé de l’aide. Les cas et les informations recueillies pour ce rapport révèlent des abus qui, dans certains cas, pourraient être assimilables à de la torture ou à d’autres mauvais traitements, et pourraient de ce fait violer les obligations de la Suisse en vertu du droit international.

      « Amnesty International est très préoccupée par les témoignages de maltraitance recueillis auprès des victimes, dont certaines mineures, ainsi que des agents de sécurité en exercice ou ayant quitté leurs fonctions et autres professionnels intervenant dans les centres. Outre les plaintes concernant la douleur physique, la maltraitance et les traitements punitifs, ces personnes ont exprimé leur inquiétude quant à l’attitude hostile, des préjugés et du racisme visant les résidents des centres, plus particulièrement ceux qui sont originaires d’Afrique du Nord », explique Alicia Giraudel, juriste à Amnesty International Suisse.

      « La situation décrite dans ce rapport doit alerter. Certes, le Secrétariat aux migrations s’est récemment engagé à ouvrir une enquête externe sur des allégations d’abus isolés, ce que nous saluons. Mais les éléments que nous avons mis en lumière exigent du gouvernement qu’il cesse de penser que ces actes sont uniquement le fait de quelques “pommes pourries”. Il doit s’atteler à résoudre les problèmes systémiques urgents et prendre des mesures pour prévenir les mauvais traitements, éliminer le racisme et protéger les droits des personnes dans les centres fédéraux d’asile ».

      L’enquête d’Amnesty International dresse un tableau alarmant de la maltraitance dans ces centres. Elle révèle l’existence de failles dans le dispositif des autorités et la nécessité d’une action plus vaste et plus en profondeur, car le système actuel expose les résidents des centres aux abus et à la violence.

      La plupart des agents de sécurité qu’Amnesty International a pu rencontrer mettent en cause la formation reçue. Ils se sont dit choqués que leurs supérieurs leur aient demandé de ne pas hésiter à faire usage de la violence et à mettre en œuvre des mesures coercitives. Ces professionnels jugent particulièrement préoccupant le recours à la « salle de réflexion ». Ils ont déploré que leurs supérieurs tolèrent, voire encouragent le comportement agressif, provocateur et méprisant de certains de leurs collègues envers les personnes hébergées dans les centres d’asile fédéraux. Pour plusieurs employés des centres, l’image des résidents que projette le système actuel est hautement problématique. On part du principe qu’ils sont potentiellement violents et représentent un danger intrinsèque, une attitude propre à renforcer les stéréotypes négatifs et les préjugés à leur sujet.

      Amnesty International est particulièrement inquiète de l’absence de dispositifs de sécurité, notamment de mécanismes de monitoring et de contrôle fiables pouvant être utilisés à titre préventif par le SEM dans les centres d’asile fédéraux. Dans son rapport, l’organisation fait part de sa préoccupation concernant l’utilisation de la « salle de réflexion » par les agents de sécurité, en violation des droits des personnes hébergées dans les centres et des règles du centre. L’organisation juge problématique l’usage d’un container métallique à l’extérieur du centre comme cellule de détention improvisée et moyen punitif. Presque tous les agents de sécurité, représentants juridiques et collaborateurs d’encadrement interrogés par l’organisation de défense des droits humains ont dénoncé le fait que certains agents de sécurité écrivent des rapports en modifiants des éléments sur les incidents violents qui se sont produits.

      Amnesty International s’alarme également des cas documentés de mauvais traitements envers des enfants et en particulier des mineurs non accompagnés. Elle estime très grave que certains d’entre eux soient hébergés avec les adultes dans les centres.

      Amnesty International a découvert que les victimes interrogées ne savaient pas à qui s’adresser pour porter plainte, et qu’en cas de maltraitance, l’accès à la justice était semé d’obstacles difficilement surmontables. Aucune des personnes travaillant ou ayant travaillé dans les centres n’avait connaissance d’un quelconque mécanisme d’alerte. Certains professionnels de l’encadrement, agents de sécurité et représentants légaux intervenant dans les centres ont émis des doutes quant à la transparence, à l’impartialité, à l’efficience et à la rigueur des enquêtes du SEM à la suite d’incidents violents.

      Selon Alicia Giraudel, « les autorités suisses doivent prendre des mesures à même de prévenir les mauvais traitements et s’assurer que des systèmes de surveillance robustes et proactifs soient en place pour garantir que toute personne résidant dans un centre d’asile soit protégée contre les mauvais traitements et les comportements racistes. Nous demandons que toutes les allégations de maltraitance fassent rapidement l’objet d’enquêtes approfondies et impartiales, que les responsables des abus soient traduits en justice et que les victimes obtiennent réparation ».

      Amnesty International appelle à la mise en place de mécanismes de plainte indépendants, sûrs et efficaces, incluant des systèmes d’alerte faciles d’accès à disposition des personnes hébergées dans les centres comme du personnel, et dont les règles d’utilisation soient connues de tous. L’organisation demande en outre aux autorités de lutter contre les stéréotypes toxiques et les représentations racistes visant les requérants d’asile, en particulier d’origine maghrébine ; elle requiert enfin que les mineurs non accompagnés ne soient plus placés dans les centres d’asile fédéraux, mais bénéficient d’une autre solution d’hébergement.

      Contexte : Après avoir pris en main l’exploitation des centres fédéraux d’asile en mars 2019 à la suite de l’entrée en vigueur de la loi sur l’asile, le SEM a sous-traité les tâches relevant de la sécurité à des sociétés privées, notamment Protectas SA et Securitas SA.

      Amnesty a d’abord été alertée par des collaborateurs d’encadrement et des agents de sécurité inquiets des abus et des mauvais traitement infligés aux requérants d’asile, puis par les victimes elles-mêmes et par les représentants juridiques intervenant ou étant intervenus dans les centres fédéraux d’asile.

      https://www.amnesty.ch/fr/pays/europe-asie-centrale/suisse/docs/2021/violations-des-droits-humains-dans-les-centres-federaux-d-asile

      Pour télécharger le #rapport, en anglais :


      https://www.amnesty.ch/fr/pays/europe-asie-centrale/suisse/docs/2021/violations-des-droits-humains-dans-les-centres-federaux-d-asile/210518_asylbericht_img_0690.jpg

      #Bâle #Chevrilles #Boudry #Altstätten #Vallorbe

      –—

      Petit contrôle sur quels centres sont gérés par ORS :
      #Bâle #Chevrilles #Boudry #Vallorbe sont sur le site web de ORS (le 1er juin 2021) :

      Celui de Alstätten (Zurich) ne semble pas être dans leur rayon d’action par contre...

      source : https://fr.ors-group.org/ors-ch-fr

    • Voix d’Exils | « J’ai vu des scènes de violences physiques et psychiques au Centre de Boudry »

      À la suite de dénonciations d’abus commis par certains agents de la société Protectas, chargée de la sécurité des Centres fédéraux pour requérants d’asile (CFA), le rédacteur Alcibíades Kopumi du blog Voix d’Exils a jugé nécessaire de témoigner de son séjour de deux mois au Centre de Boudry dans le canton de Neuchâtel.

      https://asile.ch/2021/08/24/voix-dexils-jai-vu-des-scenes-de-violences-physiques-et-psychiques-au-centre-d

    • Droit de Rester NE | Droits humains gravement violés à Boudry

      Le collectif Droit de rester Neuchâtel s’est adressé dans une lettre ouverte aux autorités du SEM et neuchâteloises pour alerter des graves violations des droits humains au Centre fédéral d’asile de Boudry (NE). Selon Droit de Rester, les droits humains sont violés dans les CFA, en toute impunité, dans un silence de plomb que le collectif veut briser. « Ce qui se passe à Boudry se passe aussi ailleurs et c’est la conséquence d’une logique de camps. C’est tout un système qui est dénoncé et non pas des dysfonctionnements ponctuels ». La lettre fait figurer leurs demandes : qu’une enquête indépendante soit ouverte établissant les faits en toute objectivité et que des mesures concrètes pour combattre ces exactions soient mises en place rapidement. Leurs revendications visent donc à mettre fin à la logique punitive et arbitraire prévalant à Boudry qu’ils estiment inhérente au système.

      La lettre ouverte a été envoyée le 12 mars 2021 aux autorités du SEM, à Monsieur Jean-Nathanaël Karakash, conseiller d’Etat neuchâtelois en charge du Département de l’Economie et de l’Action Sociale et aux médias. La lettre a également été publiée dans le numéro 182 de VE dont un dossier traite particulièrement du cas des centres fédéraux.

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      Lettre ouverte de Droit de Rester Neuchâtel au Secrétariat d’État aux Migrations (SEM)

      Vous trouverez ci-dessous une lettre ouverte que nous avons adressée ce jour au Secrétariat d’Etat aux Migrations, à travers Messieurs Mario Gattiker, Secrétaire d’Etat, et Pierre-Alain Ruffieux, responsable asile pour la Suisse romande. Elle a également été envoyée à Monsieur Jean-Nathanaël Karakash, conseiller d’Etat neuchâtelois en charge du Département de l’Economie et de l’Action Sociale.
      Droits humains gravement violés au Centre Fédéral d’Asile de Boudry : peut-on encore parler d’un centre “d’asile” ?

      Nous dénonçons depuis longtemps des situations inhumaines au Centre Fédéral d’Asile (CFA) de Boudry (NE)[1], mais les cas de réfugié·es subissant de mauvais traitements – le mot est faible – s’accroît de façon préoccupante. Ce qui se passe depuis plusieurs mois maintenant est intolérable et ne peut rester sans réaction de notre part.

      Selon nos informations et observations, nous ne sommes pas face à des cas isolés, mais devant un véritable système punitif, qui va au-delà de tout ce qu’on peut imaginer. Abus de pouvoir de certain·es agent·es de sécurité de l’entreprise Protectas, mépris et comportements racistes qui créent un climat de peur et poussent à bout certain·es habitant·es du Centre. Visites impromptues du personnel de sécurité dans les chambres, sans frapper, ni dire bonjour, gestion catastrophique des conflits, sans souci de calmer le jeu, ni d’écouter. « Ils ne savent pas parler, ils répriment”, raconte un habitant du Centre. Des requérant·es jugé·es arbitrairement et hâtivement comme récalcitrant·es sont enfermé·es pendant des heures dans des containers insalubres et sous-chauffés. Plusieurs témoignages attestent d’une salle sans aucun mobilier, avec des taches de sang et des odeurs de vomi et d’urine. Beaucoup en ressortent traumatisés. Une personne s’est récemment retrouvée en état d’hypothermie[2].

      Les témoignages vont tous dans le même sens : peur de porter plainte par crainte des conséquences pour sa procédure d’asile ou par crainte de recroiser les mêmes agent·es de sécurité. Mais les faits sont là : utilisation abusive du spray au poivre, plaquages au sol, insultes homophobes, harcèlement envers des personnes vulnérables et hospitalisations suite à l’enfermement dans des cellules. Plusieurs tentatives de suicide sont attestées et il y a eu mort d’homme : le 23 décembre, un requérant d’asile est décédé aux abords du Centre de Boudry. Il s’agissait d’une personne vulnérable, suivie en psychiatrie et qui avait déjà tenté de se suicider. Alors que cette personne avait besoin d’aide, à plusieurs reprises, le personnel de sécurité de Protectas lui a refusé l’accès au Centre, du fait de son état d’ivresse.

      A Boudry, la violence est banalisée. Au lieu d’apaiser les conflits, les agent·es de Protectas les attisent. Des membres du personnel de sécurité abusent de leur pouvoir en faisant régner leurs propres lois. Ainsi, alors que les cellules d’isolement ne sont prévues que pour protéger les requérant·es d’asile et le personnel du CFA de personnes ayant un comportement violent et pour une durée n’excédant pas deux heures[3], on constate que la réalité est tout autre. Le moindre dérangement est réprimé par un enfermement abusif et qui dépasse souvent le temps réglementaire, allant jusqu’à un isolement d’une nuit entière. Nous avons eu connaissance d’un mineur qui a été enfermé alors que le règlement l’interdit. De telles privations de liberté sont illégales. Pour échapper à ces mauvais traitements, beaucoup quittent la procédure d’asile en cours de route.

      Les droits humains sont violés dans les CFA, en toute impunité, dans un silence de plomb que nous voulons briser. Ce qui se passe à Boudry se passe aussi ailleurs[4] et c’est la conséquence d’une logique de camps. C’est tout un système que nous dénonçons et non pas des dysfonctionnements ponctuels.

      ***

      Face à cette gestion désastreuse et les drames humains qu’elle entraîne, nous demandons qu’une enquête indépendante soit ouverte établissant les faits en toute objectivité. En accord avec les personnes qui ont pris contact avec Droit de Rester, nous sommes prêt·es à témoigner.

      Nous demandons que des mesures concrètes soient prises pour mettre fin à ce système défaillant, qui transforme les CFA en prisons. Il n’est pas normal que le budget alloué à l’encadrement sécuritaire par le SEM soit plus important que celui consacré à l’encadrement social et sanitaire dans les CFA. Il est nécessaire de renverser la vapeur en engageant des professionnel·les du travail social et de la santé en nombre suffisant et ayant pour mission de soutenir, d’écouter, de soigner et de répondre aux besoins spécifiques des requérant·es d’asile. Ceci dans l’optique de créer un climat de bienveillance, réparateur des traumatismes vécus sur la route de l’exil par les personnes dont ils-elles ont la charge. Actuellement, les agent·es de sécurité ont des prérogatives immenses qui ne devraient absolument pas leur être confiées en raison d’un manque de formation flagrant.

      Nous demandons la suppression immédiate de ces cellules-containers et la refonte complète du régime de sanctions.

      Nous exigeons la fin de la privatisation du domaine de l’asile ; l’arrêt de toute collaboration avec des entreprises de sécurité ou d’encadrement privées de surcroit cotées en bourse (telles que Protectas, Securitas ou ORS) dans le cadre des CFA et autres lieux d’hébergement. L’asile n’est pas un business. L’argent attribué à ces tâches par l’Etat doit revenir à des structures sociales et de soins publiques.

      Nous exigeons transparence et respect du droit suisse et international. Actuellement les CFA sont des boîtes noires : les règlements internes sont inaccessibles, les requérant·es d’asile n’obtiennent pas les rapports des sanctions prononcées à leur encontre, rapports rédigés par Protectas dont le contenu varie à leur guise afin de justifier les sanctions aux yeux du SEM. Toute sanction devrait être prononcée par du personnel cadre du SEM.

      Nous demandons l’introduction d’un organe de médiation indépendant de gestion des plaintes vers qui les requérant·es d’asile lésé·es pourraient se tourner. Finalement, il est nécessaire d’ouvrir les portes des CFA aux organisations et personnes de la société civile – comme c’est notamment le cas en Hollande, pays dont la Suisse s’est inspirée pour mettre en œuvre le système actuel – afin de rompre l’isolement et de cesser avec ces zones de non-droit.

      Nous demandons aussi la fermeture du Centre spécifique des Verrières, restreignant la liberté de mouvement de ses occupants de par son emplacement-même et conçu comme un centre punitif. C’est de soutien psychologique et de soins dont les requérant·es d’asile, y compris celles et ceux qui sont jugés récalcitrant·es, ont besoin à leur arrivée. L’équité des soins par rapport à ceux offerts à la population résidente doit être effective. Ce sont l’isolement, l’exclusion, la promiscuité et l’armada d’interdits qui accentuent les traumatismes, les addictions, le stress et les tensions. Stop à la logique de camp !

      C’est une alerte que nous lançons. Nous espérons qu’elle sera entendue et attendons qu’elle soit suivie d’effets dans les meilleurs délais.

      Association Droit de Rester Neuchâtel
      [1] Voir par exemple ici : https://rester.ch/wp-content/uploads/2020/05/2020.05.28_Communiqu%C3%A9_de_presse_camp_nous_d%C3%A9non%C3%A7ons-1.pdf ou là : https://www.canalalpha.ch/play/minimag/episode/3819/risque-de-suicide-quel-soutien-psy-pour-les-migrants-a-boudry
      [2] Le 17 février, la radio RTN révèle un cas d’hypothermie survenue au centre de Boudry 2 jours plus tôt : https://www.rtn.ch/rtn/Actualite/Region/20210215-Etat-d-hypothermie-au-Centre-de-Perreux.html
      [3] Voir à ce sujet les p. 51-52 du Plan d’exploitation Hébergement : https://www.plattform-ziab.ch/wp-content/uploads/2020/10/SEM_PLEX_2020.pdf
      [4] A ce sujet, sur les violences au Centre de Giffers : https://asile.ch/2020/06/23/le-courrier-violences-a-chevrilles, sur celles au centre de Bâle : https://3rgg.ch/securitas-gewalt-im-lager-basel , témoignages récoltés par Migrant Solidarity Network (1 et 2), ici le rapport de la Commission Nationale de Prévention de la Torture : https://asile.ch/wp-content/uploads/2021/01/CNPT_CFA_DEC_2020-fr-1.pdf et là le communiqué de humanrights.ch : https://www.humanrights.ch/fr/qui-sommes-nous/commentaire-violences-cfa

      https://asile.ch/2021/05/10/droit-de-rester-ne-droits-humains-gravement-violes-a-boudry

      #lettre_ouverte

    • Quatre agents d’un CFA condamnés pour mise en danger de la vie d’un requérant d’asile

      « Lésions corporelles simulées et mises en danger de la vie et de la santé d’autrui » ainsi qu’ »eabus_d’autorité ». Les #condamnations_pénales pour les #violences dans les centres fédéraux d’asile (CFA) sont tombées le 11 mai 2023. L’ordonnance pénale a été établie par le Ministère public neuchâtelois à l’encontre de quatre employés de Protectas, entreprise mandatée par le Secrétariat d’État aux migrations pour assurer la sécurité dans le Centre fédéral de Boudry. Elle a été rendue publique par la RTS le 15 juin 2023 (19h30), qui revient avec des images glaçantes sur les circonstances qui ont failli coûter la vie à un homme.

      Le journaliste Ludovic Rocchi avait déjà réalisé une longue enquête sur le sujet [1]. Il rappelle ici que les faits, qui s’étaient déroulés en février 2021, sont directement liés aux directives établies par le SEM et à l’usage de cellules de « dégrisement » – dénoncées par la Commission nationale de prévention de la torture. Les agents auraient en fait « trop respecté les consignes », selon le procureur neuchâtelois. La responsabilité de l’Etat n’a pourtant pas été mise en cause, ce que déplore le collectif Droit de rester Neuchâtel. qui publie un communiqué de presse. Celui-ci rappelle les difficultés des procédures menées contre les violences d’État, les pressions subies pour avoir « relayé le drame à huis-clos joué dans le CFA » et le fait que seule la mobilisation constante de la société civile a permis de rendre un tant soit peu justice à la victime. Droit de rester appelle le SEM a présenter des excuses au requérant d’asile, à la société civile, et à prendre de véritables mesures efficaces pour garantir que ces violences, systémiques, ne puissent plus se reproduire. En particulier à travers un mécanisme de plainte indépendant et accessible, une meilleure dotation en personnel d’encadrement. Le caractère semi-carcéral des CFA, avec une volonté de contrôle total de ce qui se déroule au sein des murs -la société civile n’y est tolérée qu’à condition très stricte- est un des facteurs favorisant les abus de pouvoir. À noter que d’autres dénonciations pénales concernant d’autres CFA sont devant la justice.

      https://www.rts.ch/play/tv/redirect/detail/14106226

      –---

      Des agents du SEM condamnés pour les exactions commises au Centre Fédéral d’Asile (CFA) de Boudry !

      Droit de rester Neuchâtel – Communiqué du 16 juin 2023

      En Suisse, les difficultés pour remettre en cause les agissements du Secrétariat d’État aux migrations (SEM) sont colossales, mais des condamnations sont enfin tombées dans le cas d’hypothermie survenu en février 2021.

      C’est l’histoire de Job (prénom fictif) un jeune requérant d’asile, de 17 ans au moment des faits, qui s’est fait malmené par d’autres requérants du fait de son homosexualité. Les agents de sécurité du SEM, employés de la société Protectas, l’enferment dans une cabine de chantier – appelé le cachot dans le jargon du centre. Cette cabine n’était pas chauffée cette nuit du 13 février 2021, alors que la bise soufflait et que la température ne dépassait pas -4°C. Rapidement, la victime s’est alors effondrée, sous la surveillance des agents, et mise à convulser et à délirer : elle était en hypothermie.

      Les agents du SEM, procéduriers et formalistes, voire racistes, se sont alors tenus aux directives de la Confédération qui établit que les secours ne peuvent être appelés que lorsqu’ORS (une autre société agente du SEM) puis la Helpline de santé aient été avertis : Une économie de bout de chandelle qui aurait pu coûter la vie à la victime puisque le processus a duré plus d’une demie- heure !
      Finalement, après son sauvetage, ce sont les secouristes et le personnel soignant du RHNe -réseau médical neuchâtelois- qui ont dénoncé les faits à la police lorsqu’il ont pris en charge la jeune victime. L’émission Temps Présent sur la RTS s’est saisi de ce cas pour son enquête sur l’industrie de l’asile dans les CFA[2].
      Face à cette situation, après plus de deux ans de procédures et une première victoire au Tribunal fédéral, 4 condamnations définitives ont été obtenues contre des agents du SEM au CFA de Boudry. Le Ministère public neuchâtelois (MPNE) retient que ces agents auraient dû violer les consignes du SEM et de leur employeur Protectas en appelant les secours ou simplement en amenant la victime dans un bâtiment chauffé à quelques mètres du lieu du drame. Selon le MPNE, la longue demi-heure durant laquelle rien n’a été fait pour sauver la victime de la mort et les mauvais traitements qui l’ont plongé dans l’hypothermie sont des infractions pénales, respectivement d’exposition et de lésions corporelles. Un abus d’autorité, une des inculpations les plus graves que l’on puisse infliger à un agent de l’État, a également été retenu par la justice pénale pour l’un des agents.

      Les jours-amendes infligés ont été considérablement réduits du fait des problèmes relevés dans la procédure administrative : pour cause, le SEM savait qu’il n’avait pas le droit d’incarcérer Job dans une cabine de chantier sans qu’il ne présente un danger pour eux-même ou les autres et que la police devait être tenue informée. Pourtant, le SEM organisait cette pratique du cachot, malgré les dénonciations répétées de Droit de rester Neuchâtel et d’autres organisations. Enfin, nous regrettons qu’aucune condamnation n’est été prise contre les têtes-pensantes de ce malheur ; les cadres du SEM qui ont toléré la directive problématique et abandonné leurs agents face à une situation pour laquelle ils n’étaient ni préparés, ni équipés, ni formés. L’absence de permanence de soins sur place pendant la nuit est aussi problématique vu la population fragile et nombreuse du CFA de Boudry.
      Les procédures contre les violences d’État sont toujours difficiles et le sont encore plus lorsque les victimes sont marginalisées par leur titre de séjour et le racisme systémique. Cette procédure a connu des enquêteurs qui ont manqués de garantir les droits de victime pour lesquels il aura fallu un

      jugement du Tribunal fédéral pour les rétablir. Parallèlement, Droit de rester Neuchâtel a reçu une lettre qui de façon à peine voilée faisait planer la menace de plaintes pour diffamation pour avoir relayé le drame à huis-clos joué dans le CFA. L’aboutissement de cette procédure n’aurait jamais pu se faire sans la mobilisation constante de Droit de rester Neuchâtel, d’Amnesty International[3] et de Me Dimitri Paratte, avocat de la victime, sans la vigilance des soignant.es du RHNe et des représentant.es juridiques de Caritas.

      Alors que la situation dans les CFA se détériore face à l’arrivée de nombreux.ses réfugié·e·s et la sous-dotation systématique, Droit de rester Neuchâtel demande :

      1. Des excuses publiques du SEM pour le mal, commis en son nom et tel qu’établi par la justice pénale, à l’encontre de la victime ;
      2. Des excuses également pour les pressions exercées contre la société civile que le SEM me- naçait de plainte lorsque leur mobilisation exemplaire a justement permis d’amener devant la justice des traitements inhumains et dégradants au CFA de Boudry ;
      3. L’instauration d’un organe de dépôt de plaintes indépendants à l’intérieur des CFA ;
      4. La suspension des procédures Dublin ou d’exécution des renvois lorsque le Ministère publicinstruit une affaire de violence d’État ;
      5. La réforme complète du fonctionnement des CFA pour qu’ils soient gérés dans l’intérêt desadministré·e·s et publiquement, sans sociétés privées lucratives dont les agents sont formés de façon déplorable. La prise en compte sérieuse du rapport Oberholzer par des modifications de la LAsi en est une étape nécessaire, alors que la réforme, comme l’indique la prise de position des Centres sociaux protestants de Suisse, est largement insuffisante ; et
      6. L’allocation de moyens non-répressifs pour accompagner les résident·e·s des CFA, notam- ment en terme de formation, de personnel de santé et d’animation.

      https://asile.ch/2023/06/16/droit-de-rester-quatre-agents-dun-cfa-condamnes-pour-mise-en-danger-de-la-vie-
      #justice #condamnation #lésions_corporelles

    • Quatre agents d’un CFA condamnés pour mise en danger de la vie d’un requérant d’asile

      « Lésions corporelles simulées et mises en danger de la vie et de la santé d’autrui » ainsi qu’ »eabus_d’autorité ». Les #condamnations_pénales pour les #violences dans les centres fédéraux d’asile (CFA) sont tombées le 11 mai 2023. L’ordonnance pénale a été établie par le Ministère public neuchâtelois à l’encontre de quatre employés de Protectas, entreprise mandatée par le Secrétariat d’État aux migrations pour assurer la sécurité dans le Centre fédéral de Boudry. Elle a été rendue publique par la RTS le 15 juin 2023 (19h30), qui revient avec des images glaçantes sur les circonstances qui ont failli coûter la vie à un homme.

      Le journaliste Ludovic Rocchi avait déjà réalisé une longue enquête sur le sujet [1]. Il rappelle ici que les faits, qui s’étaient déroulés en février 2021, sont directement liés aux directives établies par le SEM et à l’usage de cellules de « dégrisement » – dénoncées par la Commission nationale de prévention de la torture. Les agents auraient en fait « trop respecté les consignes », selon le procureur neuchâtelois. La responsabilité de l’Etat n’a pourtant pas été mise en cause, ce que déplore le collectif Droit de rester Neuchâtel. qui publie un communiqué de presse. Celui-ci rappelle les difficultés des procédures menées contre les violences d’État, les pressions subies pour avoir « relayé le drame à huis-clos joué dans le CFA » et le fait que seule la mobilisation constante de la société civile a permis de rendre un tant soit peu justice à la victime. Droit de rester appelle le SEM a présenter des excuses au requérant d’asile, à la société civile, et à prendre de véritables mesures efficaces pour garantir que ces violences, systémiques, ne puissent plus se reproduire. En particulier à travers un mécanisme de plainte indépendant et accessible, une meilleure dotation en personnel d’encadrement. Le caractère semi-carcéral des CFA, avec une volonté de contrôle total de ce qui se déroule au sein des murs -la société civile n’y est tolérée qu’à condition très stricte- est un des facteurs favorisant les abus de pouvoir. À noter que d’autres dénonciations pénales concernant d’autres CFA sont devant la justice.

      https://www.rts.ch/play/tv/redirect/detail/14106226

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      Des agents du SEM condamnés pour les exactions commises au Centre Fédéral d’Asile (CFA) de Boudry !

      Droit de rester Neuchâtel – Communiqué du 16 juin 2023

      En Suisse, les difficultés pour remettre en cause les agissements du Secrétariat d’État aux migrations (SEM) sont colossales, mais des condamnations sont enfin tombées dans le cas d’hypothermie survenu en février 2021.

      C’est l’histoire de Job (prénom fictif) un jeune requérant d’asile, de 17 ans au moment des faits, qui s’est fait malmené par d’autres requérants du fait de son homosexualité. Les agents de sécurité du SEM, employés de la société Protectas, l’enferment dans une cabine de chantier – appelé le cachot dans le jargon du centre. Cette cabine n’était pas chauffée cette nuit du 13 février 2021, alors que la bise soufflait et que la température ne dépassait pas -4°C. Rapidement, la victime s’est alors effondrée, sous la surveillance des agents, et mise à convulser et à délirer : elle était en hypothermie.

      Les agents du SEM, procéduriers et formalistes, voire racistes, se sont alors tenus aux directives de la Confédération qui établit que les secours ne peuvent être appelés que lorsqu’ORS (une autre société agente du SEM) puis la Helpline de santé aient été avertis : Une économie de bout de chandelle qui aurait pu coûter la vie à la victime puisque le processus a duré plus d’une demie- heure !
      Finalement, après son sauvetage, ce sont les secouristes et le personnel soignant du RHNe -réseau médical neuchâtelois- qui ont dénoncé les faits à la police lorsqu’il ont pris en charge la jeune victime. L’émission Temps Présent sur la RTS s’est saisi de ce cas pour son enquête sur l’industrie de l’asile dans les CFA[2].
      Face à cette situation, après plus de deux ans de procédures et une première victoire au Tribunal fédéral, 4 condamnations définitives ont été obtenues contre des agents du SEM au CFA de Boudry. Le Ministère public neuchâtelois (MPNE) retient que ces agents auraient dû violer les consignes du SEM et de leur employeur Protectas en appelant les secours ou simplement en amenant la victime dans un bâtiment chauffé à quelques mètres du lieu du drame. Selon le MPNE, la longue demi-heure durant laquelle rien n’a été fait pour sauver la victime de la mort et les mauvais traitements qui l’ont plongé dans l’hypothermie sont des infractions pénales, respectivement d’exposition et de lésions corporelles. Un abus d’autorité, une des inculpations les plus graves que l’on puisse infliger à un agent de l’État, a également été retenu par la justice pénale pour l’un des agents.

      Les jours-amendes infligés ont été considérablement réduits du fait des problèmes relevés dans la procédure administrative : pour cause, le SEM savait qu’il n’avait pas le droit d’incarcérer Job dans une cabine de chantier sans qu’il ne présente un danger pour eux-même ou les autres et que la police devait être tenue informée. Pourtant, le SEM organisait cette pratique du cachot, malgré les dénonciations répétées de Droit de rester Neuchâtel et d’autres organisations. Enfin, nous regrettons qu’aucune condamnation n’est été prise contre les têtes-pensantes de ce malheur ; les cadres du SEM qui ont toléré la directive problématique et abandonné leurs agents face à une situation pour laquelle ils n’étaient ni préparés, ni équipés, ni formés. L’absence de permanence de soins sur place pendant la nuit est aussi problématique vu la population fragile et nombreuse du CFA de Boudry.
      Les procédures contre les violences d’État sont toujours difficiles et le sont encore plus lorsque les victimes sont marginalisées par leur titre de séjour et le racisme systémique. Cette procédure a connu des enquêteurs qui ont manqués de garantir les droits de victime pour lesquels il aura fallu un

      jugement du Tribunal fédéral pour les rétablir. Parallèlement, Droit de rester Neuchâtel a reçu une lettre qui de façon à peine voilée faisait planer la menace de plaintes pour diffamation pour avoir relayé le drame à huis-clos joué dans le CFA. L’aboutissement de cette procédure n’aurait jamais pu se faire sans la mobilisation constante de Droit de rester Neuchâtel, d’Amnesty International[3] et de Me Dimitri Paratte, avocat de la victime, sans la vigilance des soignant.es du RHNe et des représentant.es juridiques de Caritas.

      Alors que la situation dans les CFA se détériore face à l’arrivée de nombreux.ses réfugié·e·s et la sous-dotation systématique, Droit de rester Neuchâtel demande :

      1. Des excuses publiques du SEM pour le mal, commis en son nom et tel qu’établi par la justice pénale, à l’encontre de la victime ;
      2. Des excuses également pour les pressions exercées contre la société civile que le SEM me- naçait de plainte lorsque leur mobilisation exemplaire a justement permis d’amener devant la justice des traitements inhumains et dégradants au CFA de Boudry ;
      3. L’instauration d’un organe de dépôt de plaintes indépendants à l’intérieur des CFA ;
      4. La suspension des procédures Dublin ou d’exécution des renvois lorsque le Ministère publicinstruit une affaire de violence d’État ;
      5. La réforme complète du fonctionnement des CFA pour qu’ils soient gérés dans l’intérêt desadministré·e·s et publiquement, sans sociétés privées lucratives dont les agents sont formés de façon déplorable. La prise en compte sérieuse du rapport Oberholzer par des modifications de la LAsi en est une étape nécessaire, alors que la réforme, comme l’indique la prise de position des Centres sociaux protestants de Suisse, est largement insuffisante ; et
      6. L’allocation de moyens non-répressifs pour accompagner les résident·e·s des CFA, notam- ment en terme de formation, de personnel de santé et d’animation.

      https://asile.ch/2023/06/16/droit-de-rester-quatre-agents-dun-cfa-condamnes-pour-mise-en-danger-de-la-vie-
      #justice #condamnation #lésions_corporelles

  • « Tout le monde savait » : Claude Lévêque, une omerta au nom de l’art
    https://www.lemonde.fr/culture/article/2021/01/15/tout-le-monde-savait-claude-leveque-une-omerta-au-nom-de-l-art_6066318_3246.

    Qui n’a jamais aperçu l’artiste entouré d’adolescents plus ou moins jeunes, à un vernissage, un dîner de galerie ? Qui n’a jamais entendu de rumeurs ? « C’était comme un nuage flottant autour de lui, reconnaît une conseillère de collectionneurs qui le connaît, et s’en méfie, depuis trente ans. Tout le monde savait qu’il aimait s’entourer de jeunes éphèbes, et un bon nombre craignait le pire. Mais comment agir contre un homme qui a une telle aura, quand on n’a que des rumeurs, et qu’on n’est pas témoin de ses manœuvres ? Contre un artiste qui exerce une telle fascination, car il a produit une œuvre incroyable ? »

    • Claude Lévêque, une omerta au nom de l’#art

      Alors qu’une partie du milieu est sidérée d’apprendre que le plasticien fait l’objet, depuis 2019, d’une enquête préliminaire pour « #viols et #agressions_sexuelles sur mineurs », d’autres semblent moins surpris.

      Alors qu’une partie du milieu est sidérée d’apprendre que le plasticien fait l’objet, depuis 2019, d’une enquête préliminaire pour « viols et agressions sexuelles sur mineurs », d’autres semblent moins surpris.

      Au milieu des années 1980, une artiste qui préfère rester anonyme s’était aventurée à demander à un galeriste parisien qui exposait Claude Lévêque pourquoi il ne représentait aucune femme artiste : « Je n’ai peut-être pas d’artiste femme, mais j’ai un pédophile », s’était-elle entendu rétorquer. Plaisanterie tordue, aveu, provocation ? « En tout cas, ça résume bien le contexte, raconte-t-elle aujourd’hui. Je m’étais tue, mais, quand je visitais les expositions, je vous assure que je ne lâchais pas mon petit garçon de l’oeil. »

      « Comment une telle carrière est-elle possible, alors que depuis des années "ÇA SE SAVAIT ?" », interroge la critique d’art Marie Chênel dans un Tweet très relayé. Il résume la sidération du milieu de l’art depuis les révélations du Monde, le 10 janvier, concernant la plainte du plasticien Laurent Faulon contre l’artiste Claude Lévêque et l’enquête ouverte par le parquet de Bobigny (Seine-Saint-Denis), en mai 2019, pour « viols et agressions sexuelles sur mineurs de moins de 15 ans . M. Faulon, un sculpteur de 51 ans, dénonce des « abus sexuels » subis entre ses 10 et 17 ans de la part de M. Lévêque, assurant qu’il était, comme sa famille, sous son « emprise . Le journal en ligne Mediapart a lui aussi publié une longue enquête, le 13 janvier, qui accable l’artiste.

      L’enquête judiciaire est en cours, et la présomption d’innocence prévaut. Mais dans le milieu de l’art, où Claude Lévêque était si connu, chacun s’interroge. Qui n’a jamais aperçu l’artiste entouré d’adolescents plus ou moins jeunes, à un vernissage, un dîner de galerie ? Qui n’a jamais entendu de rumeurs ? « C’était comme un nuage flottant autour de lui, reconnaît une conseillère de collectionneurs qui le connaît, et s’en méfie, depuis trente ans. Tout le monde savait qu’il aimait s’entourer de jeunes éphèbes, et un bon nombre craignait le pire. Mais comment agir contre un homme qui a une telle aura, quand on n’a que des rumeurs, et qu’on n’est pas témoin de ses manoeuvres ? Contre un artiste qui exerce une telle fascination, car il a produit une oeuvre incroyable ? »

      Filleuls, neveux, assistants...

      Ces adolescents qui l’entourent, Claude Lévêque les présente comme ses filleuls, ses neveux, ses assistants, voir comme ses « fils . Ces doudous et nounours qu’il trimballe autour du monde, qu’il sort en plein repas, qu’il déploie dans chaque recoin de ses deux maisons, ont été, selon l’artiste, dans ses interviews, « donnés par des amis, souvenirs trop intimes pour en parler . Son obsession pour le monde de l’enfance est considérée comme une « sublimation artistique », la part de fantasme d’un adulte qui est bien plus à l’aise avec les enfants qu’avec le monde des grands.

      Et puis, comment condamner sur la base de « racontars » ? « On lui aurait donné le bon Dieu sans confession », admet l’artiste Jonathan Loppin, dont la compagne, Julie Faitot, a envoyé un signalement à la justice concernant Claude Lévêque en février 2019. Pendant les quinze ans que dura leur amitié, il avoue avoir été subjugué par cette star prête à défendre corps et âme le moindre squat, toujours disposée à prendre fait et cause pour la veuve et l’orphelin : « Claude apparaît comme un nounours au charisme fort, et un vrai aimant à enfants. En fait, il sait les ferrer. Quand j’ai compris que ces doudous étaient sans doute ceux de ses victimes, des trophées, j’ai pris une énorme claque. »

      « Je l’ai toujours vu bouleversé par la beauté des jeunes garçons, elle le secouait, et il l’assumait, ses premières oeuvres en témoignent », souligne un habitant de Nevers (Nièvre), proche des Faulon. Enfant, il a connu Lévêque comme moniteur de centre aéré dans les années 1970, sans jamais entendre de rumeurs pouvant l’incriminer. Depuis quelques jours, il fouille dans sa mémoire. « J’essaie d’analyser le phénomène d’emprise, détaille-t-il. En abordant l’environnement de cet adulte entouré de jeunes hommes, on avait d’abord un sentiment de malaise, mais la situation était ensuite validée par les proches ; familles, amis, tous semblaient acter ce qui se passait. Le trouble ressenti était alors étouffé par cette validation collective. En outre, j’en ai été témoin à deux reprises, Claude entretient aussi une relation très forte avec les mères des enfants, dont je ne sais comment elle s’articule, une relation presque amoureuse. Mécanique qu’il semble, hélas, avoir affinée avec le temps. »

      Collectionneurs, experts, galeristes, conservateurs, critiques, artistes : cette validation a été tout aussi collective dans le milieu de l’art, même si certains tenaient scrupuleusement leurs distances. « Les institutions lui ont fait confiance, à cause de la fascination qu’exerce son oeuvre, mais aussi de son engagement pour les causes sociales, politiques, analyse une directrice de musée. Tout cela était-il un écran de fumée ? Tout comme ces références à l’enfance, sans cesse convoquée, sacralisée, sanctuarisée : elles faisaient la beauté et la pureté de son travail ; désormais, elles peuvent ressembler à un sacrifice. »

      « Si c’est vrai, c’est un séisme, auquel je peine à me résoudre, glisse un autre conservateur. Ses oeuvres des années 2000, pleines d’un danger punk qui fascine, ont été un choc esthétique pour toute une génération. Nous nous sommes construits en partie avec elles. » Un artiste éperdu d’admiration pour Claude Lévêque, « bouleversé par le témoignage de Laurent Faulon », s’avoue tout autant « blessé, et en colère » : « J’ai la sensation d’avoir été manipulé, comme tout le monde de l’art l’a été. J’ai aujourd’hui l’impression que, avec toutes ces oeuvres mettant en scène l’enfance, il nous disait : "Regardez, je vous mets ça sous le nez, et vous ne voyez rien !" »

      Qu’il mette la même énergie à préparer la Biennale de Venise (2009) qu’à exposer à l’école élémentaire Pierre-Budin, à la Goutte d’Or (Paris 18e), lors d’une résidence artistique en 2012 ? Cela relevait de son engagement social. Qu’il peigne de noir les fenêtres de l’appartement mis à disposition par l’école, juste au-dessus des salles de classe ? On y voyait sa marque punk. Qu’il se déclare, un an après, toujours ami avec l’un des bambins de 8 ou 9 ans qui collabora au projet, le plus curieux, le plus créatif ? On l’admirait alors pour n’avoir pas pris la grosse tête. Tout cela peut aujourd’hui faire frémir.

      Dans les archives du Quotidien de l’art, nous avons retrouvé les paroles de l’enfant que nous avions rencontré au sein de l’école pendant la préparation de leur exposition « Seasons in the Abyss . Il interpellait ainsi l’artiste : « Je t’ai amené mon nounours, parce que je lui ai percé le cerveau. Avant, il bougeait dans son Jacuzzi, il faisait très chaud, c’était le feu, et je lui ai percé la tête ... « Le trou dans la tête », c’est aussi une phrase gravée par Lévêque sur un lit tout rouillé d’enfant, dans une oeuvre de 1986.

      #Aveuglement_collectif

      Pour comprendre aujourd’hui ce qui a pu relever d’un aveuglement collectif, les témoignages affluent, chacun s’employant à replacer une pièce dans un puzzle qui, trop longtemps, n’a pas fait sens. L’un se rappelle cette chambre d’enfant, dans la maison de Montreuil (Seine-Saint-Denis) de #Lévêque, « avec ses petites bagnoles sur les étagères », qu’il disait destinée « aux amis qui venaient avec leurs petits . L’autre, ces manèges abandonnés dans sa maison de campagne. Une troisième, l’aveu de cette mère « manifestement perdue, dans un monde parallèle, qui me racontait que Claude Lévêque dormait dans la chambre de son fils de 15 ans, et qui semblait comme flattée qu’il ait été "choisi". J’ai pris mes distances, désespérée qu’il soit impossible de lui faire comprendre que son môme était en danger .

      Galeriste et commissaire d’exposition, Stéphane Corréard dénonce aujourd’hui ce qu’il considère comme une omerta. « Beaucoup savaient, tout le monde pouvait se douter, personne n’est surpris, résume-t-il. Alors pourquoi avons-nous toléré, abrité, protégé, pendant des décennies, un supposé prédateur sexuel, un pédocriminel récidiviste ? Parce que, dans notre milieu, personne ne dit rien, jamais. La parole est cadenassée, le fonctionnement clanique. »

      Comment l’expliquer ? « La tolérance de notre milieu pour la transgression, y compris sexuelle, y est pour beaucoup », suggère-t-il. Un artiste pourrait donc franchir toutes les lignes rouges ? Laurent Faulon se souvient en tout cas très bien « des commissaires et artistes qui venaient dîner à la maison : avec Lévêque, on était comme un couple recevant des invités. Sauf que j’avais 15-16 ans. Tous découvraient les bricolages que j’avais faits dans l’atelier, et me disaient : "Tu as une oeuvre incroyable, ne t’embête pas à faire les Beaux-Arts, tu sais déjà tout !" . C’est ainsi que Laurent Faulon s’est retrouvé exposé à la Fondation Cartier de Jouy-en-Josas (Yvelines) ou au Magasin de Grenoble, à pas même 18 ans. Sans plus de questions, juste pour la reconnaissance de son talent naissant.

      Poursuivant son analyse, Stéphane Corréard évoque aussi le « souvenir de l’époque glorieuse où l’avant-garde était menacée de toute part, notamment par les réactionnaires et l’extrême droite. Nous avons alors pris le pli d’une opposition facile entre "pro" et "anti" art contemporain qui est devenue factice, mais qui continue de structurer largement le fonctionnement de notre monde de l’art . Impossible de dénoncer sur la foi de racontars, certes. « Mais ces directeurs de musée, qui racontent de façon anonyme avoir refusé que Lévêque partage une chambre d’hôtel avec un ado, n’avaient-ils pas obligation, en tant que fonctionnaires, de dénoncer des crimes dont ils avaient eu connaissance dans le cadre de leurs fonctions ? »

      Comme tous, il en est cependant conscient : la mécanique à l’oeuvre est complexe à déconstruire. Qu’un artiste puissant s’écroule, et tout un système s’effondre : ceux qui le collectionnent, le louent, l’honorent, le capitalisent. « Les relations entre les acteurs organisent la valeur de l’oeuvre en mettant l’artiste sur un piédestal, dans une relation romantique à l’art, explique ainsi un directeur d’institution. Les jeux de pouvoir sont réels, et pas seulement financiers, à tous les maillons de la chaîne, on ne peut se permettre que l’image de l’auteur soit entachée. Les liens d’interdépendance et les rapports de domination organisent le silence, à quoi s’ajoute la peur d’être blacklisté du milieu. Ils neutralisent toute possibilité de prise de parole. L’autocensure est forte, jusqu’à se frapper soi-même de cécité. La structure protège son capital. »

      Averti de la plainte de Laurent Faulon peu après son dépôt, le Mamco de Genève a pris position dès 2020, en faisant disparaître de son site toute mention de Claude Lévêque, qui y a exposé en 2003. Il est, pour l’instant, le seul. « Avec l’équipe de conservation, nous avons décidé un moratoire immédiat sur la présence de ses oeuvres en nos murs, explicite Lionel Bovier, son actuel directeur. Je n’ai jamais travaillé avec cet artiste, ni avec ses oeuvres d’ailleurs. Mais, de mon point de vue, le discrédit qui est aujourd’hui jeté sur son travail sera absolument irrémédiable si les accusations se révèlent fondées. Il ne m’appartient pas de me prononcer sur les conséquences légales des actes qui sont relatés, mais je peux témoigner de cela : je ne pourrai plus jamais regarder ce travail sans y trouver des indices des crimes qui lui sont reprochés. Par conséquent, le musée que je dirige ne montrera ni ne diffusera son travail dans le futur. »

      #pédophilie #pédocriminalité #Laurent_Faulon #abus_sexuels #emprise #rumeurs #fantasme #validation_collective #enfance #omerta #silence #impunité #transgression #domination #pouvoir #autocensure #cécité

    • Affaire Claude Lévêque : collectionneurs et musées s’accrochent aux œuvres devenues embarrassantes

      https://www.lemonde.fr/culture/article/2021/01/15/affaire-claude-leveque-collectionneurs-et-musees-s-accrochent-aux-uvres-deve

      https://www.lalsace.fr/culture-loisirs/2021/01/16/l-embarrassant-claude-leveque

      #censure #appel_à_la_censure

      Je tiens à rappeler que Springora n’ a jamais exigé la disparition des livres de Matzneff, c’est Gallimard qui s’achète une conscience en le faisant.

      Par ailleurs, le type doit répondre des ses actes, et il mériterait surtout des soins et une gigantesque psychothérapie (plutôt que la taule et la censure), mais il me semble au contraire très important de pouvoir continuer à voir ses oeuvres, même et surtout les pires, en sachant ce que l’on savait déjà, certes plus ou moins, mais en sachant au moins que le type n’était pas là pour rigoler et qu’il nous parlait bien de choses sombres et dégueulasses.

    • Dager je déteste et je comprend pas pk on le voie dans toutes les expos d’art brut. Sinon par rapport à la censure de Matzneff et Leveque le plus ahurissant c’est qu’on accusera les victimes d’etre #cancel_culture alors que ce sont les liberaux qui en sont les instigateurs dans un geste revisionniste. Parfois ce sont aussi les pedosexuels qui censurent pour être « les cowboys de leur sujet ».

  • « Thomas B. professeur harcèle et agresse vos élèves » : une figure de la gauche intellectuelle mise en cause à l’#Université_de_Paris

    Une dizaine d’élèves ont contacté « Le Monde » pour accuser #Thomas_Branthôme, maître de conférences en histoire du droit. Provisoirement suspendu, il dément toute forme de harcèlement ou d’#abus.

    Le collage en lettres majuscules à la peinture noire, typique des collectifs féministes, s’est étalé le 21 novembre sur les fenêtres des anciens locaux de l’Ecole nationale de la statistique et de l’administration économique (Ensae) à Malakoff (Hauts-de-Seine), en face du campus de droit de l’Université de Paris : « Thomas B. professeur harcèle et agresse vos élèves », suivi d’un « Harceler ≠ enseigner » (« harceler n’est pas enseigner »). Derrière ce prénom et cette initiale, Thomas Branthôme, maître de conférences en histoire du droit qui enseigne dans cette université depuis 2014.


    Une dizaine d’élèves du même campus ont également contacté Le Monde pour mettre en cause l’enseignant. D’autres nous ont été signalées par une association féministe du campus et le collectif de colleuses L’Amazone. Des jeunes femmes de Sciences Po Paris et de l’université d’Evry nous ont aussi confié leur récit. Toutes font état de pratiques qu’elles ont ressenties comme du harcèlement sexuel, voire, dans au moins un cas, comme une agression sexuelle. Plusieurs ont alerté les autorités universitaires, qui sont en train d’instruire le dossier en vue d’une procédure disciplinaire. Aucune n’a saisi la justice pour l’heure. L’enseignant, de son côté, dément toute forme de harcèlement ou d’abus.
    « De plus en plus vulgaire »

    A 38 ans, Thomas Branthôme est un spécialiste de l’histoire de la République, un intellectuel reconnu, régulièrement invité lors des universités d’été de La France insoumise, de la Gauche républicaine et socialiste – le parti de l’ancien membre du Parti socialiste Emmanuel Maurel. On le retrouve également dans la mouvance du média en ligne Le vent se lève et au comité scientifique du think tank Institut Rousseau. Dans toutes les universités où il a donné des cours, M. Branthôme connaît un vrai engouement de la part des jeunes, qui se pressent à ses cours.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/12/09/harcelement-sexuel-une-figure-montante-de-la-gauche-intellectuelle-mise-en-c
    #France #harcèlement_sexuel #université #facs #grands_hommes #ESR

    #paywall

    –—

    Ajouté à la métaliste dédiée à harcèlement sexuel dans les universités :
    https://seenthis.net/messages/863594

    • Les garçons innocents et l’obsédé coupable

      Les propos orduriers et les comportements graves et inadmissibles à l’égard d’étudiantes de Thomas Branthôme, MCF en histoire du droit, ont été très récemment exposés par Sylvia Zappi dans Le Monde. Ils ont suscité beaucoup de réactions. Ce qui nous inquiète, c’est à quel point les réactions se focalisent sur son #vocabulaire et ses #expressions_grossières, plus que sur son #comportement lui-même, et les conditions qui lui ont permis de se conduire ainsi dans la plus totale #impunité durant des années, entre l’#Université_d’Evry, #Science_Po et désormais Université de Paris.

      Nous craignons que ne se mette en branle un mécanisme analogue à celui que décrit si bien Valérie Rey-Robert dans son ouvrage sur la #culture_du_viol , et qui relève de la mythologie du viol que des théoriciennes et chercheuses déconstruisent depuis les années 19703 : plus on décrit le violeur comme violent, grossier, brutal, plus les hommes « normaux » se sentent dédouanés dans leurs petites manœuvres et petites pressions, leurs chantages feutrés pour extorquer des rapports sexuels—le #violeur, c’est toujours l’autre, celui qui menace d’un couteau dans une ruelle obscure ! Plus on nous décrit « l’enseignant-chercheur queutard » comme agressant verbalement des étudiantes avec des propos crus, plus les enseignants-chercheurs « ordinaires », juste modérément sexistes, avec des propos policés, s’autorisent à penser qu’eux, c’est différent : eux draguent leurs étudiantes, mais dans le respect…

      Nous comprenons pleinement la stratégie des étudiantes et de la journaliste qui rapporte leurs témoignages : ces mots crus, orduriers, sont ce qui fait réagir l’opinion, qui serait sinon prompte à normaliser le comportement de Branthôme, ou à insister sur le fait qu’après tout, les étudiantes sont majeures et en mesure de consentir à une relation entre adultes… Faisant fi de la déontologie professionnelle et du fait que non, jamais, la relation entre enseignant et étudiante, même à l’université, n’est une relation entre égaux. Elle se construit nécessairement dans une relation d’#autorité et de #domination car même si on n’est plus directement dans une relation où l’un note le travail de l’autre, on peut toujours se trouver dans une relation où l’un peut nuire à l’autre : en refusant une lettre de recommandation, en le critiquant auprès de collègues ou de partenaires professionnels, bref, en limitant par différents gestes ses opportunités académiques et professionnelles…

      Des Branthôme mais policés, amicaux, souriants, l’université en compte des dizaines sinon des milliers. Ils ne sont pas seulement ceux qui découragent et finalement expulsent de l’enseignement supérieur des milliers de jeunes femmes qui se sentent humiliées, ou auxquelles on a fait comprendre que leur seule place et leur seul rôle dans cet univers théoriquement dédié au savoir et à sa transmission était d’illuminer et de décorer, d’assurer le « repos du guerrier », et non de participer comme actrice pleine et entière de la production et aux avancées de la connaissance. Tous ces Branthôme au petit pied, en train de s’exonérer à qui mieux mieux en ce moment parce qu’eux, ils ne réclament pas de but en blanc des fellations aux étudiantes, infligent pourtant de la #violence_symbolique sans vouloir (se) l’admettre.

      Nous en avons eu un exemple aussi concret que sordide avec la tribune de #Camille_Zimmerman qui explicite en septembre 2020 pourquoi elle arrête sa thèse commencée à l’université de Lorraine : sous le titre d’« #emprise », elle décrit un processus de #prédation, qui commence pour elle en fin de licence, qui entame la confiance en elle à mesure qu’elle gravit les échelons diplômants, son malaise, son inquiétude quand elle observe que le processus est répété — et la rupture qui est moins consécutive au suicide de sa camarade doctorante que dans la prise de conscience que l’institution ne lui procurerait aucune protection — celle de l’existence d’une #mise_au_silence, d’une « #omerta ». Il faut penser que ce comportement n’est restreint ni à l’Université de Lorraine, ni à l’Université de Paris. Bien au contraire, l’étude des décisions disciplinaires d’appel au CNESER — qu’Academia publie régulièrement — manifeste combien étudiant∙es et femmes ne sont pas des sujets à part entière des universités.

      Un article a aidé l’une d’entre nous à mettre des mots sur des pensées confuses : « She Wanted to Do Her Research. He Wanted to Talk ‘Feelings” » (https://www.nytimes.com/2016/03/06/opinion/sunday/she-wanted-to-do-her-research-he-wanted-to-talk-feelings.html), texte de #Hope_Jahren paru dans le New York Times en 2016. Cette biologiste explique très clairement la façon dont nombre de ses jeunes collègues féminines sont confrontées à des #avances non pas sexuelles, mais « sentimentales » de la part de collègues masculins — ce que résume bien son titre « Elle voulait faire sa recherche, lui voulait parler de ses ‘sentiments’ ». Jahren montre très bien comment ces avances, même présentées en mots choisis, avec des #compliments délicats, des aveux d’une irrésistible attraction… Contribuent au #malaise des femmes dans cet univers de la recherche, et les font fuir. Sans doute les collègues qui ont ce genre de comportement ne pensent-ils pas qu’ils constituent du harcèlement sexuel, et pourtant : les effets sont les mêmes.

      Il semble donc important d’insister sur le fait que, quand bien même Thomas Branthôme aurait choisi un registre de langue châtié pour faire ses avances, c’est bien son comportement qui pose problème : il est celui d’un grand nombre de collègues qui ne comprennent pas qu’on ne peut en toute #déontologie_professionnelle entretenir de #relation_intime avec des étudiant∙es qui, même si on ne les a pas en cours, peuvent être à la merci du #pouvoir dont disposent inévitablement les enseignant∙es-chercheur∙ses, en termes de réseau professionnel, d’influence… En science biologique, en droit, comme dans tous les autres champs disciplinaires.

      Plus on met en avant les paroles « monstrueuses » de TB, inadmissibles dans la bouche d’un enseignant-chercheur, plus on conforte l’idée du « monstre » obsédé sexuel, de la brebis galeuse, et plus on occulte, donc, le caractère systémique, institutionnalisé et normalisé de #relations_asymétriques dont les étudiantes paient chèrement le prix, en #dépression, en #suicide, en abandon de leurs études ou de leurs recherches.

      Combien de sections disciplinaires, à l’avenir, statueront sur le fait que « ce n’est pas si grave » par rapport à l’affaire Branthôme, parce que les propos graveleux sont absents d’une attitude volontairement séductrice pourtant tout aussi répréhensible ? Et encore, seulement si les victimes ont le courage de se faire connaître et de se plaindre, si elles sont suffisamment soutenues dans cette démarche par des collectifs féministes comme le Clasches qui font un travail extraordinaire.

      https://academia.hypotheses.org/29429

      ping @_kg_

  • Traite des Noirs, traite des Blanches : même combat ? - 1002483ar.pdf
    https://www.erudit.org/fr/revues/crs/2007-n43-crs1518154/1002483ar.pdf

    L’article interroge la légitimité de l’usage du mot « #traite » dans l’expression« traite des Blanches », devenue « traite des femmes et des enfants » en 1921 et« traite des êtres humains » en 1949. En effet, la traite négrière se caractérisait par deux traits absents dans les phénomènes qui y sont indûment assimilés :elle était légale (ce qui privait ses victimes de tout recours auprès des autorités)et elle était forcée du début à la fin du processus (capture, transport, vente ettravail des esclaves). En l’absence de ces deux traits, c’est seulement par un #abus de #langage ou une déformation des faits que, depuis plus d’un siècle, l’on peut soutenir l’analogie. Les auteurs examinent en conclusion comment,pourquoi et avec quelles conséquences certains contemporains la soutiennentnéanmoins

    Via Valérie Rey_Robert sur cuicui. Cette précision sur l’utilisation abusive du mot « traite » me sert à l’instant de bouée, pour essayer de pister ce qui se passe chez #QAnon et dans les endroits où l’on dénonce des #pedophile_ring #cercles_pédophiles, comme dans l’affaire #Dutroux et/ou #epstein, organisé au plus niveau et de façon massive. Visiblement, ces rumeurs, ce fantasme, ce conte Orrible, existe depuis au moins le 19éme siècle et, j’enfonce la porte ouverte, c’est affreusement contreproductif face à l’effectivement massif problème auquel nous faisons face et à ses organisateurs au plus au niveau (merde, une #boucle, argh). Bon vous m’aurez pas compris.

  • "Réfugiés", « migrants », « exilés » ou « demandeur d’asile » : à chaque mot sa fiction, et son ombre portée

    Alors que les violences policières contre un campement éphémère de personnes exilées font scandale, comment faut-il nommer ceux dont les tentes ont été déchiquetées ?

    Nombreuses et largement unanimes, les réactions qui ont suivi l’intervention de la police, lundi 23 novembre au soir, place de la République à Paris, condamnent la violence des forces de l’ordre. De fait, après cette intervention pour déloger le campement éphémère installé en plein Paris dans le but de donner de l’écho à l’évacuation récente d’un vaste camp de réfugiés sur les contreforts du périphérique, les images montrent les tentes qui valsent, les coups qui pleuvent, des matraques qui cognent en cadence, et de nombreux soutiens nassés en pleine nuit ainsi que la presse. Survenu en plein débat sur la loi de sécurité globale, et après de longs mois d’un travail tous azimuts pour poser la question des violences policières, l’épisode a quelque chose d’emblématique, qui remet au passage l’enjeu de l’accueil migratoire à la Une des médias.

    Une occasion utile pour regarder et penser la façon dont on nomme ceux qui, notamment, vivent ici dans ces tentes-là. Durant toute la soirée de lundi, la réponse policière à leur présence sur la place de la République a été amplement commentée, en direct sur les réseaux sociaux d’abord, puis sur les sites de nombreux médias. Si certains utilisaient le mot “migrants” désormais ordinaire chez les journalistes, il était frappant de voir que d’autres termes prenaient une place rare à la faveur de l’événement à chaud. Et en particulier, les mots “réfugiés” et “exilés”.

    En ligne, Utopia56, le collectif à l’origine de l’opération, parle de “personnes exilées”. Chez Caritas France (ex-Secours catholique), c’est aussi l’expression qu’utilise par exemple, sur la brève bio de son compte twitter, la salariée de l’humanitaire en charge des projets “solidarité et défense des droits des personnes exilées”. Ce lexique n’a rien de rare dans le monde associatif : la Cimade parle aussi de longue date de “personnes exilées”, la Fédération des acteurs de solidarités qui chapeaute 870 associations de même, et chez chez Act up par exemple, on ne dit pas non plus “migrants” mais “exilés”. Dans la classe politique, la nuit de violences policières a donné lieu à des déclarations de protestation où il n’était pas inintéressant d’observer l’usage des mots choisis dans le feu de l’action, et sous le projecteur des médias : plutôt “exilés” chez les écologistes, via le compte twitter “groupeecoloParis”, tandis qu’Anne Hidalgo, la maire de Paris, parlait quant à elle de “réfugiés”.

    Du côté des médias, le terme poussé par le monde associatif n’a sans doute jamais aussi bien pris qu’à chaud, dans l’épisode de lundi soir : sur son compte Twitter, CNews oscillait par exemple entre “migrants” et “personnes exilées”... au point de se faire tacler par ses abonnés - il faudrait plutôt dire “clandestins”. Edwy Plenel panachait pour sa part le lexique, le co-fondateur de Médiapart dénonçant au petit matin la violence dont avaient fait l’objet les “migrants exilés”.

    Peu suspect de gauchisme lexical, Gérald Darmanin, ministre de l’Intérieur, affirmait de son côté saisir l’IGPN pour une enquête sur cette évacuation d’un “campement de migrants”, tandis que le mot s’affichait aussi sur la plupart des pages d’accueil des sites de médias. Comme si le terme “migrants” était devenu un terme générique pour dire cette foule anonyme de l’immigration - sans que, le plus souvent, on interroge en vertu de quels critères ? Cet épisode de l’évacuation violente de la place de la République est en fait l’occasion idéale pour regarder la façon dont le mot “migrants” s’est disséminé, et remonter le film pour comprendre comment il a été forgé. Car ce que montre la sociologue Karen Akoka dans un livre qui vient justement de paraître mi-novembre (à La Découverte) c’est que cette catégorie est avant tout une construction dont la sociogenèse éclaire non seulement notre façon de dire et de penser, mais surtout des politiques publiques largement restées dans l’ombre.
    Les mots de l’asile, ces constructions politiques

    L’Asile et l’exil, ce livre formidable tiré de sa thèse, est à mettre entre toutes les mains car précisément il décortique en quoi ces mots de l’immigration sont d’abord le fruit d’un travail politique et d’une construction historique (tout aussi politique). Les acteurs de cette histoire appartiennent non seulement à la classe politique, mais aussi aux effectifs des officiers qui sont recrutés pour instruire les demandes. En centrant son travail de doctorat sur une sociohistoire de l’Ofpra, l’Office français de protection des réfugiés et des apatrides, créé en 1952, la chercheuse rappelle qu’il n’est pas équivalent de parler d’exil et d’asile, d’exilés, de demandeurs d’asile, de migrants ou de réfugiés. Mais l’ensemble de sa démonstration éclaire en outre toute la part d’artifice que peut receler ce raffinage lexical qui a permis à l’Etat de construire des catégories d’aspirants à l’exil comme on labelliserait des candidats plus ou moins désirables. Face aux "réfugiés", légitimes et acceptables depuis ce qu’on a construit comme une forme de consensus humaniste, les "migrants" seraient d’abord là par émigration économique - et moins éligibles. Tout son livre consiste au fond en une déconstruction méthodique de la figure du réfugié désirable.

    Les tout premiers mots de l’introduction de ce livre (qu’il faut lire en entier) remontent à 2015 : cette année-là, Al-Jazeera annonçait que désormais, celles et ceux qui traversent la Méditerranée seront pour de bon des “réfugiés”. Et pas des “migrants”, contrairement à l’usage qui était alors en train de s’installer dans le lexique journalistique à ce moment d’explosion des tentatives migratoires par la mer. Le média qatari précisait que “migrants” s’apparentait à ses yeux à un “outil de deshumanisation”. On comprenait en fait que “réfugié” était non seulement plus positif, mais aussi plus légitime que “migrant”.

    En droit, c’est la Convention de Genève qui fait les “réfugiés” selon une définition que vous pouvez consulter ici. Avant ce texte qui remonte à 1951, on accueillait aussi des réfugiés, quand se négociait, au cas par cas et sous les auspices de la Société des nations, la reconnaissance de groupes éligibles. Mais le flou demeure largement, notamment sur ce qui, en pratique, départirait le “réfugié” de “l’étranger”. A partir de 1952, ces réfugiés répondent à une définition, mais surtout à des procédures, qui sont principalement confiées à l’Ofpra, créé dans l’année qui suit la Convention de Genève. L’autrice rappelle qu’à cette époque où l’Ofpra passe d’abord pour une sorte de “consulat des régimes disparus”, il y a consensus pour considérer que l’institution doit elle-même employer des réfugiés chargés de décider du sort de nouveaux candidats à l’asile. A l’époque, ces procédures et ces arbitrages n’intéressent que très peu de hauts fonctionnaires. Ca change progressivement à mesure que l’asile se politise, et la décennie 1980 est une bonne période pour observer l’asile en train de se faire. C’est-à-dire, en train de se fabriquer.

    La construction du "réfugié militant"

    Sur fond d’anticommunisme et d’intérêt à relever la tête après la guerre coloniale perdue, la France décidait ainsi au début des années 80 d’accueillir 130 000 personnes parmi celles qui avaient fui l’un des trois pays de l’ex-Indochine (et en particulier, le Vietnam). On s’en souvient encore comme des “boat people”. Ils deviendront massivement des “réfugiés”, alors que le mot, du point de vue juridique, renvoie aux critères de la Convention de Genève, et à l’idée de persécutions avérées. Or Karen Akoka rappelle que, bien souvent, ces procédures ont en réalité fait l’objet d’un traitement de gros. C’est-à-dire, qu’on n’a pas toujours documenté, dans le détail, et à l’échelle individuelle, les expériences vécues et la position des uns et des autres. Au point de ne pas trop chercher à savoir par exemple si l’on avait plutôt affaire à des victimes ou à des bourreaux ? Alors que le génocide khmer rouge commençait à être largement connu, l’idée que ces boat people massivement arrivés par avion camperaient pour de bon la figure du “bon réfugié” avait cristallisé. La chercheuse montre aussi que ceux qui sont par exemple arrivés du Vietnam avaient fait l’objet d’un double tri : par les autorités françaises d’une part, mais par le régime vietnamien d’autre part… et qu’il avait été explicitement convenu qu’on exclurait les militants politiques.

    Or dans l’imaginaire collectif comme dans le discours politique, cette représentation du réfugié persécuté politiquement est toujours très active. Elle continue souvent de faire écran à une lecture plus attentive aux tris opérés sur le terrain. Et empêche par exemple de voir en quoi on a fini par se représenter certaines origines comme plus désirables, par exemple parce qu’il s’agirait d’une main-d’œuvre réputée plus docile. Aujourd’hui, cette image très puissante du "réfugié militant" reste arrimée à l’idée d’une histoire personnelle légitime, qui justifierait l’étiquetage de certains “réfugiés” plutôt que d’autres. C’est pour cela qu’on continue aujourd’hui de réclamer aux demandeurs d’asile de faire la preuve des persécutions dont ils auraient fait l’objet.

    Cette enquête approfondie s’attèle à détricoter ce mirage du "bon réfugié" en montrant par exemple que, loin de répondre à des critères objectifs, cette catégorie est éminemment ancrée dans la Guerre froide et dans le contexte post-colonial. Et qu’elle échappe largement à une approche empirique rigoureuse, et critique. Karen Akoka nous dépeint la Convention de Genève comme un cadre qui se révèle finalement assez flou, ou lâche, pour avoir permis des lectures et des usages oscillatoires au gré de l’agenda diplomatique ou politique. On le comprend par exemple en regardant le sort de dossiers qu’on peut apparenter à une migration économique. Sur le papier, c’est incompatible avec le label de “réfugié”. Or dans la pratique, la ligne de partage entre asile d’un côté, et immigration de l’autre, ne semble plus si étanche lorsqu’on regarde de près qui a pu obtenir le statut dans les années 1970. On le comprend mieux lorsqu’on accède aux logiques de traitement dans les années 70 et 80 : elles n’ont pas toujours été les mêmes, ni été armées du même zèle, selon l’origine géographique des candidats. Edifiant et très pédagogique, le sixième chapitre du livre d’Akoka s’intitule d’ailleurs “L’Asile à deux vitesses”.

    L’autrice accorde par exemple une attention particulière à la question des fraudes. Pas seulement à leur nombre, ou à leur nature, mais aussi au statut que les institutions ont pu donner à ces fraudes. Ainsi, Karen Akoka montre l’intérêt qu’a pu avoir l’Etat français, à révéler à grand bruit l’existence de “filières zaïroises” à une époque où la France cherchait à endiguer l’immigration d’origine africaine autant qu’à sceller une alliance avec le Zaïre de Mobutu. En miroir, les entretiens qu’elle a menés avec d’anciens fonctionnaires de l’Ofpra dévoilent qu’on a, au contraire, cherché à dissimuler des montages frauduleux impliquant d’ex-Indochinois.

    Les "vrais réfugiés"... et les faux

    Entre 1970 et 1990, les chances de se voir reconnaître “réfugié” par l’Ofpra ont fondu plus vite que la banquise : on est passé de 90% à la fin des années 70 à 15% en 1990. Aujourd’hui, ce taux est remonté (de l’ordre de 30% en 2018), mais on continue de lire que c’est le profil des demandeurs d’asile qui aurait muté au point d’expliquer que le taux d’échec explose. Ou que la démarche serait en quelque sorte détournée par de “faux demandeurs d’asile”, assez habiles pour instrumentaliser les rouages de l’Ofpra en espérant passer entre les gouttes… au détriment de “vrais réfugiés” qu’on continue de penser comme tels. Karen Akoka montre qu’en réalité, c’est plutôt la manière dont on instruit ces demandes en les plaçant sous l’égide de politiques migratoires plus restrictives, mais aussi l’histoire propre de ceux qui les instruisent, qui expliquent bien plus efficacement cette chute. Entre 1950 et 1980 par exemple, nombre d’officiers instructeurs étaient issus des mêmes pays que les requérants. C’était l’époque où l’Ofpra faisait davantage figure de “consulat des pays disparus”, et où, par leur trajectoire personnelle, les instructeurs se trouvaient être eux-mêmes des réfugiés, ou les enfants de réfugiés. Aujourd’hui ce sont massivement des agents français, fonctionnaires, qui traitent les dossiers à une époque où l’on ne subordonne plus les choix au Rideau de fer, mais plutôt sous la houlette d’une politique migratoire et de ce qui a sédimenté dans les politiques publiques comme “le problème islamiste”.

    Rassemblé ici au pas de course mais très dense, le travail de Karen Akoka est un exemple vibrant de la façon dont l’histoire, et donc une approche pluridisciplinaire qui fait la part belle aux archives et à une enquête d’histoire orale, enrichit dans toute son épaisseur un travail entamé comme sociologue. Du fait de la trajectoire de l’autrice, il est aussi un exemple lumineux de tout ce que peut apporter une démarche réflexive. Ca vaut pour la façon dont on choisit un mot plutôt qu’un autre. Mais ça vaut aussi pour la manière dont on peut déconstruire des façons de penser, ou des habitudes sur son lieu de travail, par exemple. En effet, avant de soutenir sa thèse en 2012, Karen Akoka a travaillé durant cinq ans pour le HCR, le Haut commissariat aux réfugiés des Nations-Unies. On comprend très bien, à la lire, combien elle a pu d’abord croire, et même nourrir, certaines fausses évidences. Jusqu’à être “mal à l’aise” avec ces images et ces chimères qu’elle entretenait, depuis son travail - qui, en fait, consistait à “fabriquer des réfugiés”. Pour en éliminer d’autres.

    https://www.franceculture.fr/societe/refugies-migrants-exiles-ou-demandeur-dasile-a-chaque-mot-sa-fiction-e

    #asile #migrations #réfugiés #catégorisation #catégories #mots #terminologie #vocabulaire #Ofpra #France #histoire #légitimité #migrants_économiques #réfugié_désirable #déshumanisation #Convention_de_Genève #politisation #réfugié_militant #Indochine #boat_people #bon_réfugié #Vietnam #militants #imaginaire #discours #persécution #persécution_politique #preuves #guerre_froide #immigration #fraudes #abus #Zaïre #filières_zaïroises #Mobutu #vrais_réfugiés #faux_réfugiés #procédure_d'asile #consulat_des_pays_disparus #politique_migratoire
    #Karen_Akoka
    ping @isskein @karine4 @sinehebdo @_kg_

    • ...même jour que l’envoi de ce post on a discuté en cours Licence Géo le séjour d’Ahmed publié en forme de carte par Karen Akoka dans l’atlas migreurop - hasard ! Et à la fin de son exposé un étudiant proposait par rapport aux catégories : Wie wäre es mit « Mensch » ? L’exemple du campement à Paris - des pistes ici pour approfondir !

    • Ce qui fait un réfugié

      Il y aurait d’un côté des réfugiés et de l’autre des migrants économiques. La réalité des migrations s’avère autrement complexe souligne la politiste #Karen_Akoka qui examine en détail comment ces catégories sont historiquement, socialement et politiquement construites.

      L’asile est une notion juridique précieuse. Depuis le milieu du XXe siècle, elle permet, à certaines conditions, de protéger des individus qui fuient leur pays d’origine en les qualifiant de réfugiés. Mais l’asile est aussi, à certains égards, une notion dangereuse, qui permet paradoxalement de justifier le fait de ne pas accueillir d’autres individus, les rejetant vers un autre statut, celui de migrant économique. L’asile devenant alors ce qui permet la mise en œuvre d’une politique migratoire de fermeture. Mais comment faire la différence entre un réfugié et un migrant économique ? La seule manière d’y prétendre consiste à s’intéresser non pas aux caractéristiques des personnes, qu’elles soient rangées dans la catégorie de réfugié ou de migrant, mais bien plutôt au travail qui consiste à les ranger dans l’une ou l’autre de ces deux catégories. C’est le grand mérite de « #L’Asile_et_l’exil », le livre important de Karen Akoka que de proposer ce renversement de perspective. Elle est cette semaine l’invitée de La Suite dans Les Idées.

      Et c’est la metteuse en scène Judith Depaule qui nous rejoint en seconde partie, pour évoquer « Je passe » un spectacle qui aborde le sujet des migrations mais aussi pour présenter l’Atelier des artistes en exil, qu’elle dirige.

      https://www.franceculture.fr/emissions/la-suite-dans-les-idees/ce-qui-fait-un-refugie

      #livre #catégorisation #catégories #distinction #hiérarchisation #histoire #ofpra #tri #subordination_politique #politique_étrangère #guerre_froide #politique_migratoire #diplomatie

    • La fabrique du demandeur d’asile

      « Il y a les réfugiés politiques, et c’est l’honneur de la France que de respecter le droit d’asile : toutes les communes de France en prennent leur part. Il y a enfin ceux qui sont entrés illégalement sur le territoire : ceux-là ne sont pas des réfugiés, mais des clandestins qui doivent retourner dans leur pays », disait déjà Gerald Darmanin en 2015. Mais pourquoi risquer de mourir de faim serait-il moins grave que risquer de mourir en prison ? Pourquoi serait-il moins « politique » d’être victime de programmes d’ajustement structurels que d’être victime de censure ?

      Dans son livre L’asile et l’exil, une histoire de la distinction réfugiés migrants (La découverte, 2020), Karen Akoka revient sur la construction très idéologique de cette hiérarchisation, qui est liée à la définition du réfugié telle qu’elle a été décidée lors de la Convention de Genève de 1951, à l’issue d’âpres négociations.

      Cette dichotomie réfugié politique/migrant économique paraît d’autant plus artificielle que, jusqu’aux années 1970, il suffisait d’être russe, hongrois, tchécoslovaque – et un peu plus tard de venir d’Asie du Sud-Est, du Cambodge, du Laos ou du Vietnam – pour décrocher le statut de réfugié, l’objectif premier de la France étant de discréditer les régimes communistes. Nul besoin, à l’époque, de montrer qu’on avait été individuellement persécuté ni de nier la dimension économique de l’exil.

      Aujourd’hui, la vaste majorité des demandes d’asile sont rejetées. Qu’est ce qui a changé dans les années 1980 ? D’où sort l’obsession actuelle des agents de l’OFPRA (l’Office français de protection des réfugiés et apatrides) pour la fraude et les « faux » demandeurs d’asile ?

      Plutôt que de sonder en vain les identités et les trajectoires des « demandeurs d’asile » à la recherche d’une introuvable essence de migrant ou de réfugié, Karen Akoka déplace le regard vers « l’offre » d’asile. Avec la conviction que les étiquettes en disent moins sur les exilés que sur ceux qui les décernent.

      https://www.youtube.com/watch?v=bvcc0v7h2_w&feature=emb_logo

      https://www.hors-serie.net/Aux-Ressources/2020-12-19/La-fabrique-du-demandeur-d-asile-id426

    • « Il n’est pas possible d’avoir un système d’asile juste sans politique d’immigration ouverte »

      La chercheuse Karen Akoka a retracé l’histoire du droit d’asile en France. Elle montre que l’attribution de ce statut a toujours reposé sur des intérêts politiques et diplomatiques. Et que la distinction entre les « vrais » et les « faux » réfugiés est donc discutable.

      Qui étaient les personnes qui ont été violemment évacuées du camp de la place de la République, il y a quatre semaines ? Ceux qui les aident et les défendent utilisent le mot « exilés », pour décrire une condition qui transcende les statuts administratifs : que l’on soit demandeur d’asile, sans-papiers, ou sous le coup d’une obligation de quitter le territoire français, les difficultés restent sensiblement les mêmes. D’autres préfèrent le mot « illégaux », utilisé pour distinguer ces étrangers venus pour des raisons économiques du seul groupe que la France aurait la volonté et les moyens d’accueillir : les réfugiés protégés par le droit d’asile. Accordé par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) depuis 1952, ce statut permet aujourd’hui de travailler et de vivre en France à celles et ceux qui peuvent prouver une persécution ou une menace dans leur pays d’origine. Pour les autres, le retour s’impose. Mais qui décide de l’attribution du statut, et selon quels critères ?

      Pour le savoir, Karen Akoka a retracé l’histoire de l’Ofpra. Dressant une galerie de portraits des membres de l’institution, retraçant le regard porté sur les Espagnols, les Yougoslaves, les boat-people ou encore les Zaïrois, elle montre dans l’Asile et l’Exil (La Découverte) que l’asile a toujours été accordé en fonction de considérations politiques et diplomatiques. Elle remet ainsi en cause l’idée que les réfugiés seraient « objectivement » différents des autres exilés, et seuls légitimes à être dignement accueillis. De quoi prendre conscience (s’il en était encore besoin) qu’une autre politique d’accueil est possible.
      Comment interprétez-vous les images de l’évacuation du camp de la place de la République ?

      Quand on ne connaît pas la situation des personnes exilées en France, cela peut confirmer l’idée que nous serions en situation de saturation. Il y aurait trop de migrants, la preuve, ils sont dans la rue. Ce n’est pas vrai : si ces personnes sont dans cette situation, c’est à cause de choix politiques qui empêchent toute forme d’intégration au tissu social. Depuis les années 90, on ne peut plus légalement travailler quand on est demandeur d’asile. On est donc dépendant de l’aide publique. Avec le règlement européen de Dublin, on ne peut demander l’asile que dans le premier pays de l’Union européenne dans lequel on s’enregistre. Tout cela produit des illégaux, qui se trouvent par ailleurs enfermés dans des statuts divers et complexes. Place de la République, il y avait à la fois des demandeurs d’asile, des déboutés du droit d’asile, des « dublinés », etc.
      Y a-t-il encore des groupes ou des nationalités qui incarnent la figure du « bon réfugié » ?

      Aujourd’hui, il n’y a pas de figure archétypale du bon réfugié au même titre que le dissident soviétique des années 50-60 ou le boat-people des années 80. Il y a tout de même une hiérarchie des nationalités qui fait que les Syriens sont perçus le plus positivement. Mais avec une différence majeure : alors qu’on acheminait en France les boat-people, les Syriens (comme beaucoup d’autres) doivent traverser des mers, franchir des murs… On fait tout pour les empêcher d’arriver, et une fois qu’ils sont sur place, on les reconnaît à 90 %. Il y a là quelque chose de particulièrement cynique.
      Vos travaux reviennent à la création de l’Ofpra en 1952. Pourquoi avoir repris cette histoire déjà lointaine ?

      Jusqu’aux années 80, l’Ofpra accordait le statut de réfugié à 80 % des demandeurs. Depuis les années 90, environ 20 % l’obtiennent. Cette inversion du pourcentage peut amener à la conclusion qu’entre les années 50 et 80, les demandeurs d’asile étaient tous de « vrais » réfugiés, et que depuis, ce sont majoritairement des « faux ». Il était donc important d’étudier cette période, parce qu’elle détermine notre perception actuelle selon laquelle l’asile aurait été dénaturé. Or il apparaît que cette catégorie de réfugié a sans cesse été mobilisée en fonction de considérations diplomatiques et politiques.

      La question de l’asile n’a jamais été neutre. En contexte de guerre froide, le statut de réfugié est attribué presque automatiquement aux personnes fuyant des régimes communistes que l’on cherche à décrédibiliser. Lorsqu’on est russe, hongrois ou roumain, ou plus tard vietnamien, cambodgien ou laotien, on est automatiquement reconnu réfugié sans qu’il soit nécessaire de prouver que l’on risque d’être persécuté ou de cacher ses motivations économiques. Ce qui apparaît comme de la générosité est un calcul politique et diplomatique. Les 80 % d’accords de l’époque sont autant pétris de considérations politiques que les 80 % de rejets aujourd’hui.
      Ces considérations conduisent alors à rejeter les demandes émanant de certaines nationalités, même dans le cas de régimes communistes et/ou autoritaires.

      Il y a en effet d’importantes différences de traitement, qui s’expliquent principalement par l’état des relations diplomatiques. La France est réticente à accorder l’asile aux Yougoslaves ou aux Portugais, car les relations avec Tito ou Salazar sont bonnes. Il n’y a d’ailleurs même pas de section portugaise à l’Ofpra ! Mais au lieu de les rejeter massivement, on les dirige vers les procédures d’immigration. La France passe des accords de main- d’œuvre avec Belgrade, qui permettent d’orienter les Yougoslaves vers la régularisation par le travail et de faire baisser le nombre de demandeurs d’asile.

      Grâce aux politiques d’immigration ouvertes on pouvait donc diriger vers la régularisation par le travail les nationalités rendues « indésirables » en tant que réfugiés en raison des relations diplomatiques. On pouvait prendre en compte les questions de politique étrangère, sans que cela ne nuise aux exilés. Aujourd’hui, on ne peut plus procéder comme cela, puisque la régularisation par le travail a été bloquée. Les rejets ont donc augmenté et la question du « vrai-faux » est devenu le paradigme dominant. Comme il faut bien justifier les rejets, on déplace la cause des refus sur les demandeurs en disséquant de plus en plus les biographies pour scruter si elles correspondent ou non à la fiction d’une identité de réfugié supposée neutre et objective.

      Cela montre qu’il n’est pas possible d’avoir un système d’asile juste sans politique d’immigration ouverte, d’abord parce que les catégories de réfugiés et de migrants sont poreuses et ne reflètent qu’imparfaitement la complexité des parcours migratoires, ensuite parce qu’elles sont largement façonnées par des considérations politiques.
      Vous identifiez les années 80 comme le moment où change la politique d’asile. Comment se déroule cette évolution ?

      Les changements de cette période sont liés à trois grands facteurs : la construction de l’immigration comme un problème qui arrime la politique d’asile à l’impératif de réduction des flux migratoires ; la fin de la guerre froide qui diminue l’intérêt politique à l’attribution du statut ; et la construction d’une crise de l’Etat social, dépeint comme trop dépensier et inefficace, ce qui justifie l’austérité budgétaire et la rigueur juridique dans les institutions en charge des étrangers (et plus généralement des pauvres). L’Ofpra va alors passer d’un régime des réfugiés, marqué par un fort taux d’attribution du statut, des critères souples, une activité tournée vers l’accompagnement des réfugiés en vue de leur intégration, à un régime des demandeurs d’asile orienté vers une sélection stricte et la production de rejets qui s’appuient sur des exigences nouvelles. Désormais, les demandeurs doivent montrer qu’ils risquent d’être individuellement persécutés, que leurs motivations sont purement politiques et sans aucune considération économique. Ils doivent aussi fournir toujours plus de preuves.
      Dans les années 80, ce n’était pas le cas ?

      La particularité de la décennie 80 est qu’elle voit coexister ces deux régimes, en fonction des nationalités. Les boat-people du Laos, du Cambodge et du Vietnam reçoivent automatiquement le statut de réfugié sur la seule base de leur nationalité. Et pour cause, non seulement on retrouve les questions de guerre froide, mais s’ajoutent des enjeux postcoloniaux : il faut que la figure de l’oppresseur soit incarnée par les anciens colonisés et non plus par la France. Et n’oublions pas les besoins de main- d’œuvre, toujours forts malgré les restrictions de l’immigration de travail mises en place dès les années 70. L’arrivée de ces travailleurs potentiels apparaît comme une opportunité, d’autant qu’on les présume dociles par stéréotype. Au même moment, les Zaïrois, qui fuient le régime du général Mobutu, sont massivement rejetés.
      Pourquoi ?

      Après les indépendances, la France s’efforce de maintenir une influence forte en Afrique, notamment au Zaïre car c’est un pays francophone où la France ne porte pas la responsabilité de la colonisation. C’est également un pays riche en matières premières, qui fait figure de rempart face aux Etats communistes qui l’entourent. Les Zaïrois qui demandent l’asile doivent donc montrer qu’ils sont individuellement recherchés, là où prévalait auparavant une gestion par nationalité. L’Ofpra surmédiatise les fraudes des Zaïrois, alors qu’il étouffe celles des boat-people. On a donc au même moment deux figures absolument inversées. Dans les années 90, la gestion de l’asile bascule pour tous dans le système appliqué aux Zaïrois. Cette rigidification entraîne une augmentation des fraudes, qui justifie une nouvelle surenchère d’exigences et de contrôles dans un cercle vicieux qui perdure jusqu’aujourd’hui.
      Il faut ajouter le fait que l’Ofpra devient un laboratoire des logiques de management.

      L’Ofpra est longtemps resté une institution faible. Il était peu considéré par les pouvoirs publics, en particulier par sa tutelle, les Affaires étrangères, et dirigé par les diplomates les plus relégués de ce ministère. Au début des années 90, avec la construction de l’asile comme « problème », des sommes importantes sont injectées dans l’Ofpra qui s’ennoblit mais sert en retour de lieu d’expérimentation des stratégies de management issues du secteur privé. Les agents sont soumis à des exigences de productivité, de standardisation, et à la segmentation de leur travail. On leur demande notamment de prendre un certain nombre de décisions par jour (deux à trois aujourd’hui), faute de quoi ils sont sanctionnés.

      Cette exigence de rapidité s’accompagne de l’injonction à justifier longuement les décisions positives, tandis qu’auparavant c’était davantage les rejets qui devaient être motivés. Cette organisation productiviste est un facteur d’explication du nombre grandissant de rejets. La division du travail produit une dilution du sentiment de responsabilité qui facilite cette production des rejets. Ce n’est pas que les agents de l’Ofpra fassent mal leur travail. Mais les techniques managériales influent sur leurs pratiques et elles contribuent aux 80 % de refus actuels.
      Quelle est l’influence de la question religieuse sur l’asile ?

      Pour aborder cette question, je suis partie d’un constat : depuis la fin des années 90, un nouveau groupe, composé de femmes potentiellement victimes d’excision ou de mariage forcé et de personnes homosexuelles, a accès au statut de réfugié. Comment expliquer cette ouverture à un moment où la politique menée est de plus en plus restrictive ? On pense bien sûr au changement des « mentalités », mais cette idée, si elle est vraie, me semble insuffisante. Mon hypothèse est que c’est aussi parce que nous sommes passés du problème communiste au problème islamiste comme soubassement idéologique de l’attribution du statut. Par ces nouvelles modalités d’inclusion se rejoue la dichotomie entre un Occident tolérant, ouvert, et un Sud global homophobe, masculiniste, sexiste.

      Cette dichotomie a été réactualisée avec le 11 septembre 2001, qui a donné un succès aux thèses sur le choc des civilisations. On retrouve cette vision binaire dans la façon dont on se représente les guerres en Afrique. Ce seraient des conflits ethniques, flous, irrationnels, où tout le monde tire sur tout le monde, par opposition aux conflits politiques de la guerre froide. Cette mise en opposition permet de sous-tendre l’idée selon laquelle il y avait bien par le passé de vrais réfugiés qui arrivaient de pays avec des problèmes clairs, ce qui ne serait plus le cas aujourd’hui. Cette vision culturaliste des conflits africains permet également de dépolitiser les mouvements migratoires auxquels ils donnent lieu, et donc de délégitimer les demandes d’asile.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/12/20/il-n-est-pas-possible-d-avoir-un-systeme-d-asile-juste-sans-politique-d-i

    • Le tri aux frontières

      En retraçant l’histoire de l’Office français de protection des réfugiés et des apatrides, Karen Akoka montre que l’accueil des migrants en France relève d’une distinction non assumée entre « bons » réfugiés politiques et « mauvais » migrants économiques.
      « Pourquoi serait-il plus légitime de fuir des persécutions individuelles que des violences collectives ? Pourquoi serait-il plus grave de mourir en prison que de mourir de faim ? Pourquoi l’absence de perspectives socio-économiques serait-elle moins problématique que l’absence de liberté politique ? »

      (p. 324)

      Karen Akoka, maîtresse de conférences en sciences politique à l’Université Paris Nanterre et associée à l’Institut des sciences sociales du politique, pose dans cet ouvrage des questions essentielles sur les fondements moraux de notre société, à la lumière du traitement réservé aux étrangers demandant une forme de protection sur le territoire français. Les institutions publiques concernées – principalement le ministère des Affaires Étrangères, l’ Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), le ministère de l’Intérieur – attribuent depuis toujours aux requérants un degré variable de légitimité : ce dernier, longtemps lié à la nationalité d’origine, s’incarne en des catégories (réfugié, boat people, demandeur d’asile, migrant…) qui sont censées les distinguer et les classer, et dont le sens, les usages, et les effets en termes d’accès aux droits évoluent dans le temps. Cet ouvrage a le grand mérite de dévoiler les processus organisationnels, les rapports de force, les intérêts politiques, et les principes moraux qui sous-tendent ces évolutions de sens et d’usage des catégories de l’asile.

      Ce dévoilement procède d’une entreprise socio-historique autour de la naissance et du fonctionnement de l’Ofpra, entre les années 1950 et les années 2010, et notamment des pratiques de ses agents. Dans une approche résolument constructiviste, la figure du « réfugié » (et en creux de celui qui n’est pas considéré « réfugié ») émerge comme étant le produit d’un étiquetage dont sont responsables, certes, les institutions, mais qui est finalement délégué aux agents chargés de la mise en œuvre des règles et orientations politiques.

      Comment est-on passé d’une reconnaissance presque automatique du statut de réfugié pour des communautés entières de Russes, Géorgiens, Hongrois dans les années 1960 et 1970, à des taux de rejets très élevés à partir des années 1990 ? À quel moment et pourquoi la preuve d’un risque individuel (et non plus d’une persécution collective) est devenue un requis ? À rebours d’une explication qui suggérerait un changement de profil des requérants, l’auteure nous invite à rentrer dans les rouages de la fabrique du « réfugié » et de ses alter ego : le « demandeur d’asile » et le « migrant économique ». Pour comprendre à quoi cela tient, elle se penche sur le travail des agents qui sont appelés à les ranger dans une de ces multiples catégories, et sur les éléments (moraux, organisationnels, économiques, et politiques) qui influencent leurs arbitrages.
      Un voyage dans le temps au sein de l’OFPRA

      En s’appuyant à la fois sur les archives ouvertes et sur de nombreux entretiens, son livre propose un éclairage sur l’évolution des décisions prises au sein de l’Ofpra, au plus près des profils et des expériences des hommes et femmes à qui cette responsabilité a été déléguée : les agents.

      Karen Akoka propose une reconstruction chronologique des événements et des logiques qui ont régi l’octroi de l’asile en France à partir de l’entre-deux-guerres (chapitre 1), en s’attardant sur la « fausse rupture » que représente la création de l’Ofpra en 1952, à la suite de la ratification de la Convention de Genève (chapitre 2). Elle montre en effet que, loin de représenter un réel changement avec le passé, la protection des réfugiés après la naissance de cette institution continue d’être un enjeu diplomatique et de politique étrangère pendant plusieurs décennies.

      Les chapitres suivants s’attachent à montrer, de façon documentée et parfois à rebours d’une littérature scientifique jusque-là peu discutée (voir Gérard Noiriel, Réfugiés et sans-papiers, Paris, Hachette, 1998), que la création de l’Ofpra n’est pas exemplaire d’un contrôle « purement français » de l’asile : le profil des agents de l’Ofpra compte, et se révèle déterminant pour la compréhension de l’évolution des pourcentages de refus et d’acceptation des demandes. En effet, entre 1952 et la fin des années 1970, des réfugiés et des enfants de réfugiés occupent largement la place d’instructeurs de demandes de leurs compatriotes, dans une période de guerre froide où les ressortissants russes, géorgiens, hongrois sont reconnus comme réfugiés sur la simple base de leur nationalité. Les contre-exemples sont heuristiques et ils montrent les intérêts français en politique étrangère : les Yougoslaves, considérés comme étant des ressortissants d’un régime qui s’était désolidarisé de l’URSS, et les Portugais, dont le président Salazar entretenait d’excellents rapports diplomatiques avec la France, étaient pour la plupart déboutés de leur demande ; y répondre positivement aurait été considéré comme un « acte inamical » vis-à-vis de leurs dirigeants.

      Les années 1980 sont une décennie de transition, pendant laquelle on passe d’un « régime des réfugiés » à un « régime des demandeurs d’asile », où la recherche d’une crainte individuelle de persécution émerge dans les pratiques des agents. Mais toujours pas vis-à-vis de l’ensemble des requérants : des traitements différenciés continuent d’exister, avec d’évidentes préférences nationales, comme pour les Indochinois ou boat people, et des postures de méfiance pour d’autres ressortissants, tels les Zaïrois. Ce traitement discriminatoire découle encore des profils des agents chargés d’instruire les demandes : ils sont indochinois pour les Indochinois, et français pour les Zaïrois. La rhétorique de la fraude, pourtant bien documentée pour les ressortissants indochinois aussi, est largement mobilisée à charge des requérants africains. Elle occupe une place centrale dans le registre gouvernemental dans les années 1990, afin de légitimer des politiques migratoires visant à réduire les flux.

      L’entrée par le profil sociologique des agents de l’Ofpra et par les changements organisationnels internes à cet organisme est éclairante : la proximité culturelle et linguistique avec les publics n’est plus valorisée ; on recherche des agents neutres, distanciés. À partir des années 1990, l’institution fait évoluer les procédures d’instruction des demandes de façon à segmenter les compétences des agents, à déléguer aux experts (juristes et documentaristes), à réduire le contact avec les requérants ; l’organisation introduit progressivement des primes au rendement selon le nombre de dossiers traités, et des sanctions en cas de non remplissage des objectifs ; des modalités informelles de stigmatisation touchent les agents qui accordent trop de statuts de réfugié ; le recrutement d’agents contractuels permet aux cadres de l’Ofpra d’orienter davantage leur façon de travailler. Il apparaît alors qu’agir sur le profil des recrutés et sur leurs conditions de travail est une manière de les « contrôler sans contrôle officiel ».

      L’approche socio-historique, faisant place à différents types de données tels les mémoires, le dépouillement d’archives, et les entretiens, a l’avantage de décrire finement les continuités et les ruptures macro, et de les faire résonner avec les expériences plus micro des agents dans un temps long. Aussi, l’auteure montre que leurs marges de manœuvre sont largement influencées par, d’un côté, les équilibres politiques internationaux, et de l’autre, par l’impact du new public management sur cette organisation.

      Le retour réflexif de l’auteure sur sa propre expérience au sein du HCR, où elle a travaillé entre 1999 et 2004, est aussi le gage d’une enquête où le sens accordé par les interlocuteurs à leurs pratiques est pris au sérieux, sans pour autant qu’elles fassent l’objet d’un jugement moral. Les dilemmes moraux qui parfois traversent les choix et les hésitations des enquêté.e.s éclairent le continuum qui existe entre l’adhésion et la résistance à l’institution. Mobiliser à la fois des extraits d’entretiens de « résistants » et d’« adhérents », restituer la puissance des coûts de la dissidence en termes de réputation auprès des collègues, faire de la place aux bruits de couloirs : voilà les ingrédients d’une enquête socio-historique se rapprochant de la démarche ethnographique.
      Pour en finir avec la dichotomie réfugié/migrant et la morale du vrai/faux

      Une des contributions essentielles de l’ouvrage consiste à déconstruire l’édifice moral de l’asile, jusqu’à faire émerger les paradoxes de l’argument qui consisterait à dire que protéger l’asile aujourd’hui implique de lutter contre les fraudeurs et de limiter l’attribution du statut aux plus méritants. Karen Akoka aborde au fond des enjeux politiques cruciaux pour notre société, en nous obligeant, si encore il en était besoin, à questionner la légitimité de distinctions (entre réfugié et migrant) qui ne sont pas sociologiquement fondées, mais qui servent en revanche des intérêts et des logiques politiques des plus dangereuses, que ce soit pour maquiller d’humanitarisme la volonté cynique de davantage sélectionner les candidats à l’immigration, ou pour affirmer des objectifs populistes et/ou xénophobes de réduction des entrées d’étrangers sur le territoire sous prétexte d’une prétendue trop grande diversité culturelle ou encore d’une faible rentabilité économique.

      Ce livre est une prise de position salutaire contre la rhétorique des « vrais et faux réfugiés », contre la posture de « autrefois c’était différent » (p. 27), et invite à arrêter de porter un regard moralisateur sur les mensonges éventuels des demandeurs : ces mensonges sont la conséquence du rétrécissement des cases de la protection, de la surenchère des horreurs exigées pour avoir une chance de l’obtenir, de la réduction des recours suspensifs à l’éloignement du territoire en cas de refus de l’Ofpra… La portée politique d’une sociohistoire critique des étiquetages est en ce sens évidente, et l’épilogue de Karen Akoka monte en généralité en mettant en perspective la dichotomie réfugié/migrant avec d’autres populations faisant l’objet de tri : le parallèle avec les pauvres et les guichetiers étudiés par Vincent Dubois (La vie au guichet. Relation administrative et traitement de la misère, Paris, Economica, 2003) permet de décloisonner le cas des étrangers pour montrer comment le système justifie la (non)protection des (in)désirables en la présentant comme nécessaire ou inévitable.

      https://www.icmigrations.cnrs.fr/2021/05/25/defacto-026-08

    • Karen Akoka : « Le statut de réfugié en dit plus sur ceux qui l’attribuent que sur ceux qu’il désigne »

      Alors que l’accueil d’exilés afghans divise les pays de l’Union européenne, l’interprétation par la France du droit d’asile n’a pas toujours été aussi restrictive qu’aujourd’hui, explique, dans un entretien au « Monde », la sociologue spécialiste des questions migratoires.

      (#paywall)

      https://www.lemonde.fr/international/article/2021/08/30/karen-akoka-le-statut-de-refugie-en-dit-plus-sur-ceux-qui-l-attribuent-que-s

  • « Pédocriminalité », « viol », « atteinte sexuelle »… : quels mots pour qualifier les violences sexuelles sur enfants ?
    https://www.leparisien.fr/faits-divers/pedocriminalite-abus-sexuels-quels-mots-pour-qualifier-les-violences-sexu
    Alors qu’elles resurgissent en pleine affaire Matzneff, on fait le point sur ces notions souvent mal employées et qui, pour certaines, font débat.
    https://pbs.twimg.com/media/EM-olbiWkAYa60R?format=jpg&name=small
    Les regrets de Laurent Joffrin, le directeur de la publication de Libération, n’ont pas permis d’endiguer la vague d’indignations. La Une du quotidien datée de lundi, consacrée à l’affaire Gabriel Matzneff, s’est attiré les foudres de nombreux internautes. En cause, les mots choisis, Libé évoquant notamment les « ébats avec des enfants ou des ados » de l’écrivain « pédophile », aujourd’hui âgé de 83 ans.

    « Le mot que vous cherchez, c’est pédocriminalité », dénonce la députée LFI Danièle Obono. « On ne dit pas ébats avec des enfants et des ados mais viols d’enfants et d’ados », proteste Élodie Jauneau, membre du bureau national du PS.

    Peut-on réellement parler d’« ébats », une notion impliquant le consentement, dans ce genre d’affaires ? La psychiatre Muriel Salmona, présidente de l’association Mémoire traumatique et victimologie, déplore la récurrence de termes « qui alimentent le déni ou la minimisation des faits et construisent l’impunité de leurs auteurs ». Pourtant, pointe-t-elle, « les violences sexuelles commises sur les enfants sont celles qui ont le plus de répercussion sur les victimes ».

    Une simple recherche sur un moteur de recherche permet de constater que les expressions malheureuses, voire les abus de langage sont légion. Quels sont ces termes qui font polémique ? Comment parler des violences sexuelles envers les enfants ? Le Parisien fait le point avec des professionnels du droit, de la protection de l’enfance et de la communication.
    « Pédophile » ou « pédocriminel » ?

    Étymologiquement, le terme « pédophile », qui signifie « l’amour envers les enfants » (« philia » et « paidos »), pose d’emblée problème. « Il renvoie à une époque - on le voit avec l’affaire Matzneff - où l’on considérait l’attirance sexuelle envers les enfants comme une orientation sexuelle, au même titre que l’homosexualité », observe Muriel Salmona. « Le mot pédophilie masque le réel des violences sexuelles. À l’évidence, les viols et agressions sexuelles ne relèvent pas de l’amour, mais de son contraire, la violence », acquiesce Edouard Durand, juge des enfants au tribunal de grande instance (TGI) de Bobigny.

    « Pédophilie » n’a d’ailleurs aucune valeur juridique, puisqu’il n’existe pas dans le Code pénal. C’est surtout dans son acception médicale qu’il est couramment employé aujourd’hui. « C’est un trouble psychiatrique, qui doit faire l’objet d’un diagnostic médical », rappelle Stéphanie Lamy, militante féministe spécialisée dans la communication stratégique, et cofondatrice du collectif Abandon de Famille. Certains auteurs de violences sexuelles sur mineurs peuvent ainsi « ne jamais être diagnostiqués pédophiles », souligne-t-elle. « Il peut s’agir de violences de domination ». Tout comme certains pédophiles diagnostiqués peuvent ne jamais passer à l’acte, par respect de la loi ou de la morale.

    Ce terme a portant de facto sa place dans la sphère judiciaire. « Il est utilisé dans le cadre des débats, en cas de procès aux assises, en marge des expertises », souligne Carine Durrieu Diebolt, avocate spécialisée dans la défense de victimes de violences sexuelles. Néanmoins, de nombreuses associations de défense des droits des enfants militent pour remplacer, dans le langage courant, le mot pédophilie par « pédocriminalité », qui reflète bien la notion d’infraction. « Ce mot dit la violence. C’est là l’essentiel », salue Edouard Durand, par ailleurs coprésident de la commission violences du Haut Conseil à l’Égalité entre les femmes et les hommes (HCE).

    Un mot-valise qui pourrait, pour Muriel Salmona, englober également la « pédopornographie », un concept là encore absent du Code pénal (qui parle d « images pornographiques représentant des mineurs »). « La pornographie, c’est l’illustration ou la mise en scène indécente de la sexualité. Parler de pédopornographie, c’est sous-entendre qu’il existerait une sexualité des enfants », insiste-t-elle.
    L’« abus sexuel », un mauvais anglicisme

    La couverture de l’affaire Epstein dans la presse française en est la plus parfaite illustration : l’expression « abus sexuel », qui n’a, elle non plus, aucune valeur juridique, est très souvent utilisée pour qualifier des violences sexuelles sur mineurs. Là encore à tort, selon les associations, avec pour effet de minimiser la violence des faits.

    « C’est un terme impropre, né d’une mauvaise traduction de l’anglais abuse, qui signifie violences », explique Stéphanie Lamy. « En français, on abuse d’un droit, d’une bonne chose. On va trop loin avec quelque chose qui est déjà permis. On abuse de son autorité, du chocolat, de l’alcool… Mais certainement pas d’un enfant ! », ajoute la Franco-Canadienne, qui a grandi en Australie.

    Alors qu’aux Etats-Unis la loi réprime le « sex abuse », ses équivalents, dans le Code pénal français, sont l’agression sexuelle, le viol et l’atteinte sexuelle.
    Viol, agression et atteinte sexuelle : des nuances complexes

    Entre adultes, la vie sexuelle est libre pour tous les protagonistes. Ce que la loi interdit, c’est d’imposer un acte sexuel par la violence, la contrainte, la menace, ou la surprise. Dans ce cas, on parle d’agression sexuelle s’il s’agit de gestes sexuels sur certaines parties du corps (cuisses, fesses, seins, bas ventre…). Un délit puni de cinq à dix ans de prison, en fonction des circonstances. On parle de viol quand il y a pénétration - anale, buccale, vaginale - avec le doigt ou le sexe (une fellation imposée est donc un viol). Ce crime est passible de quinze ans de réclusion.

    En dessous de l’âge de quinze ans, la loi prohibe toute relation sexuelle avec un adulte. On parle alors d’atteinte sexuelle, qui peut valoir au majeur une peine de sept ans d’emprisonnement. Dès lors qu’il y a violence, contrainte, menace ou surprise, l’acte redevient agression sexuelle, voire viol s’il y a pénétration. Avec la circonstance aggravante que ces faits ont été commis sur un mineur. Dans ce cas, l’agression sexuelle et le viol sont respectivement punis de dix ans et 20 ans de réclusion.

    « Ces notions sont très compliquées », déplore Carine Durrieu Diebolt, qui plaide en faveur d’une simplification du Code pénal. « Peut-être qu’il serait temps de mettre en place une réforme globale, en matière de violences sexuelles, pour avoir des critères simples et accessibles aux citoyens ». Muriel Salmona, comme de nombreuses associations, demande l’inscription au Code pénal d’un « crime sexuel spécifique sur mineur », distinct du viol. Un enfant n’aurait dès lors pas à prouver qu’il y a eu violence, menace, contrainte ou surprise. Soit, l’absence de consentement.

    « La France est l’un des rares pays où il n’y a pas d’âge de consentement sexuel pour les enfants », dénonce Muriel Salmona, remettant sur le devant de la scène les débats qui avaient agité l’année 2018. Autant de pistes jugées intéressantes par Edouard Durand, pour qui « l’enfance doit être sanctuarisée ».

    « L’incrimination d’atteinte sexuelle dit qu’un adulte ne commet pas d’infraction s’il a un acte sexuel avec un enfant âgé de 15, 16 et 17 ans. On en déduit, de manière très abusive, qu’il y aurait ce que l’on appelle une majorité sexuelle », regrette le juge des enfants. « Cela me paraît abusif de dire qu’un être humain mineur doit être protégé dans tous les actes de sa vie, sauf pour l’un des aspects les plus importants : le développement de sa sexualité ».

    Mais cet avis ne fait pas l’unanimité chez les magistrats, pour qui l’arsenal législatif est suffisant pour pénaliser les violences sexuelles sur les mineurs. « Oui, il y a des trous dans la raquette », reconnaît Katia Dubreuil, la présidente du Syndicat de la magistrature. « Mais ce n’est pas en prévoyant des lois qui aggravent les peines ou qui font des mesures automatiques qu’on répond à ces problématiques ».
    « Relation sexuelle », « attouchements », « caresses »… vraiment ?

    Ces termes, ni juridiques ni psychiatriques, sont très couramment employés, en marge de ces dossiers, y compris par des professionnels du droit. Mais peut-on réellement parler de « relation sexuelle » avec un enfant ? Non, dit Stéphanie Lamy. « Une relation implique la symétrie dans les rapports. Ce qui n’est pas le cas avec un enfant ». Aussi, la militante préfère « acte sexuel », plus clinique, mais plus proche de la réalité.

    « De la notion de relation sexuelle découle celle du consentement. Or un prédateur va tenter de justifier sa prédation en disant que sa victime était consentante. Peut-on parler d’un consentement libre et éclairé lorsqu’on parle d’un enfant ? », interroge-t-elle. De la même manière, elle critique le terme « attouchements ». « C’est mignon, c’est doux… Et pourtant, ce ne sont pas des caresses, mais des actes sexuels. Des actes de domination sur les enfants ».

    #vocabulaire #viol #abus #violences_sexuelles #pédocriminalité

  • CNES Géoimage Nouvelles ressources

    Dans une situation difficile, tendue et régressive, les cours en présentiel sont impossibles, les bibliothèques, universitaires en particulier, et les librairies sont fermées et les risques de décrochages se multiplient. Dans ce contexte, le site Géoimage du CNES (Centre Nat. d’Etudes Spatiales) met à disposition en ligne plus de 300 dossiers réalisés par 165 auteurs sur 86 pays et territoires. Pour votre information, voici les derniers dossiers réalisés ces deux derniers mois. Ils constituent peut être une ressource utile pour vos étudiants. En restant a votre disposition.

    1. Nouveaux dossiers en ligne

    #Frontières : entre #guerres, #tensions et #coopérations

    #Pakistan-#Inde-#Chine. Le massif du #K2 et le #Glacier_Siachen : #conflits_frontaliers et affrontements militaires sur le « toit du monde » (L. Carroué )

    https://geoimage.cnes.fr/fr/pakistan-inde-chine-le-massif-du-k2-et-le-glacier-siachen-conflits-fro

    Pakistan-Chine. La #Karakoram_Highway : un axe transfrontalier géostratégique à travers l’#Himalaya (L. Carroué)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/pakistan-chine-la-karakoram-highway-un-axe-transfrontalier-geostrategi

    #Afghanistan/ #Pakistan/ #Tadjikistan - Le corridor de #Wakhan : une zone tampon transfrontalière en plein Himalaya (L. Carroué)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/afghanistan-pakistan-tadjikistan-le-corridor-de-wakhan-une-zone-tampon

    Affrontement aux sommets sur la frontière sino-indienne, autour du #Lac_Pangong_Tso dans l’Himalaya (F. Vergez)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/affrontement-aux-sommets-sur-la-frontiere-sino-indienne-sur-le-lac-pan

    #Brésil - #Argentine#Paraguay. La triple frontière autour d’#Iguazu : un des territoires transfrontaliers les plus actifs au monde (C. Loïzzo)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/bresil-argentine-paraguay-la-triple-frontiere-autour-diguazu-un-des-te

    #Grèce#Turquie. Les îles grecques de #Samos et #Lesbos en #mer_Egée : tensions géopolitiques frontalières et flux migratoires (F. Vergez)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/grece-turquie-les-iles-grecques-de-samos-et-lesbos-en-mer-egee-tension

    #Jordanie/ #Syrie : guerre civile, frontière militarisée et #camps_de_réfugiés de #Zaatari (L. Carroué)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/jordanie-syrie-guerre-civile-frontiere-militarisee-et-camps-de-refugie

    Frontières : France métropolitaine et outre-mer

    #Calais : un port de la façade maritime européenne aux fonctions transfrontalières transmanches (L. Carbonnier et A. Gack)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/hauts-de-france-calais-un-port-de-la-facade-maritime-europeenne-aux-fo

    L’Est-#Maralpin : un territoire transfrontalier franco-italo-monégaste au cœur de l’arc méditerranéen (F. Boizet et L. Clerc)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/lest-maralpin-un-territoire-transfrontalier-franco-italo-monegaste-au-

    La principauté de #Monaco : le défi du territoire, entre limite frontalière, densification et extensions urbaines maritimes (P. Briand)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/la-principaute-de-monaco-le-defi-du-territoire-entre-limite-frontalier

    #Guyane_française/ Brésil. La frontière : d’un territoire longtemps contesté à une difficile coopération régionale transfrontalière (P. Blancodini )

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/guyane-francaise-bresil-la-frontiere-un-territoire-longtemps-conteste-

    (Frontières. Pages concours - Capes, Agrégations)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/les-frontieres

    Enjeux géostratégiques et géopolitiques

    Pakistan. #Gwadar : un port chinois des Nouvelles Routes de la Soie dans un #Baloutchistan désertique et instable (C. Loïzzo)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/pakistan-gwadar-un-port-chinois-des-nouvelles-routes-de-la-soie-dans-u

    #Chine. L’archipel des #Paracels : construire des #îles pour projeter sa puissance et contrôler la #Mer_de_Chine méridionale (L. Carroué)

    Chine - L’archipel des Paracels : construire des îles pour projeter sa puissance et contrôler la Mer de Chine méridionale

    #Kings_Bay : la grande base sous-marine nucléaire stratégique de l’#Atlantique (L. Carroué)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/etats-unis-kings-bay-la-grande-base-sous-marine-nucleaire-strategique-

    #Kitsap - #Bangor : la plus grande #base_sous-marine nucléaire stratégique au monde (L. Carroué)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/etats-unis-kitsap-bangor-la-plus-grande-base-sous-marine-nucleaire-str

    #Djibouti / #Yémen. Le détroit de #Bab_el-Mandeb : un verrou maritime géostratégique entre la #mer_Rouge et l’#océan_Indien (E. Dallier et P. Denmat)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/djiboutiyemen-le-detroit-de-bab-el-mandeb-un-verrou-maritime-geostrate

    #Abu_Dhabi : une ville capitale, entre mer et désert (F. Tétart)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/emirats-arabes-unis-abu-dhabi-une-ville-capitale-entre-mer-et-desert

    France et #DROM : dynamiques et mutations

    Languedoc. #Cap_d’Agde : une station touristique au sein d’un littoral très aménagé en région viticole (Y. Clavé)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/languedoc-cap-dagde-une-station-touristique-au-sein-dun-littoral-tres-

    Le sud-est de la #Grande-Terre : les plages touristiques et les #Grands_Fonds, entre survalorisation, inégalités et développement durable (J. Fieschi et E. Mephara)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/guadeloupe-le-sud-est-de-la-grande-terre-les-plages-touristiques-et-le

    #Normandie. #Lyons-la-Forêt et son environnement : entre #Rouen et Paris, un espace rural sous emprise forestière (T. Puigventos)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/normandie-lyons-la-foret-et-son-environnement-entre-rouen-et-paris-un-

    #PACA. L’agglomération de #Fréjus - #Saint-Raphaël : un #littoral méditerranéen touristique urbanisé (S. Revert)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/paca-lagglomeration-de-frejus-saint-raphael-un-littoral-mediterraneen-

    #Tourisme et #patrimonialisation dans le monde

    #Portugal#Lisbonne : la capitale portugaise aux défis d’une #touristification accélérée et d’une patrimonialisation accrue (J. Picollier)

    Portugal - Lisbonne : la capitale portugaise aux défis d’une touristification accélérée et d’une patrimonialisation accrue

    #Floride : le Sud-Ouest, un nouveau corridor touristique et urbain (J.F. Arnal)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/etats-unis-floride-le-sud-ouest-un-nouveau-corridor-touristique-et-urb

    #Alaska. Le #Mont_Denali : glaciers, #parc_national, #wilderness et changement climatique (A. Poiret)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/alaska-le-mont-denali-glaciers-parc-national-wilderness-et-changement-

    #Ile_Maurice. Le miracle de l’émergence d’une petite île de l’#océan_Indien (M. Lachenal)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/ile-maurice-le-miracle-de-lemergence-dune-petite-ile-de-locean-indien

    Le #Grand-Prismatic du Parc National du #Yellowstone : entre wilderness, protection, patrimonialisation et tourisme de masse (S. Sangarne et N. Vermersch)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/etats-unis-le-grand-prismatic-du-parc-national-du-yellowstone-entre-wi

    #Maroc. Contraintes, défis et potentialités d’un espace désertique marocain en bordure du Sahara : Ouarzazate (M. Lachenal)

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/maroc-contraintes-defis-et-potentialites-dun-espace-desertique-marocai

    2. Nouvelle rubrique : « Images A la Une »

    La rubrique Image A La Une a pour objectif de mettre en ligne une image satellite accompagnée d’un commentaire en lien avec un point d’actualité et qui peut donc être facilement mobilisée en cours (cf. incendies de forêt en Australie en janv./ 2020, impact du Coronavirus en avril 2020).

    Fabien Vergez : Affrontements aux sommets sur la frontière sino-indienne, sur le lac Pangong Tso dans l’Himalaya

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/affrontement-aux-sommets-sur-la-frontiere-sino-indienne-sur-le-lac-pan

    Virginie Estève : Les "#Incendies_zombies" en #Arctique : un phénomène surmédiatisé qui alerte sur le réchauffement climatique.

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/incendies-zombies-en-arctique-un-phenomene-surmediatise-qui-alerte-sur

    3. Ouverture d’une nouvelle rubrique : « La satellithèque »

    Le site Géoimage du CNES se dote d’une nouvelle rubrique afin d’enrichir son offre. A côté des images déjà proposées dans les rubriques "dossiers thématiques" ou "Images A la Une", le site Géoimage du CNES met en ligne comme autres ressources des images brutes non accompagnées d’un commentaire ou d’une analyse.

    L’objectif de cette #Satellithèque est d’offrir au plus grand nombre - enseignants, universitaires, chercheurs, étudiants, grand public... - de nombreuses images de la France et du monde. Ainsi, progressivement, dans les mois qui viennent des centaines d’images nouvelles seront disponibles et téléchargeable directement et gratuitement en ligne afin d’accompagner leurs travaux, recherches ou voyages.

    https://geoimage.cnes.fr/fr/geoimage/satellitheque

    4. Ouverture de comptes Twitter et Instagram

    Suivez et partagez l’actualité du site GeoImage à travers Twitter / Instagram, que ce soit de nouvelles mises en ligne ou des évènements autour de ce projet. La publication de nouveaux dossiers et leurs référencements, tout comme la publication de notules dans images à la une est accompagnée de brèves sur ces réseaux sociaux

    Ci-dessous les identifiants pour s’abonner aux comptes Twitter et Instagram

    Compte twitter : @Geoimage_ed

    Compte Instagram : geoimage_ed

    #images_satellitaires #visualisation

    #ressources_pédagogiques

  • États-Unis : près de 100.000 plaintes pour abus sexuels déposées contre les Boys Scouts américains

    Abus = nom masculin

    1. Action d’abuser d’une chose ; usage mauvais, excessif.
    L’abus d’alcool.
    2. Droit
    Mauvais usage d’un droit, d’une prérogative, d’un privilège.
    Abus de pouvoir.

    –---

    L’expression indique que les adultes ont des droits et privilèges sexuels sur les enfants mais qu’ils en ont seulement fait un usage excessif ou/et inapproprié. J’aimerais bien que le figaro m’explique quels sont les privilèges sexuels qu’ont les éducateurs sur les gosses.

    –----
    #abus #vocabulaire #déni #violophilie #culture_du_viol #male_gaze #violence_sexuelle

  • Qui est complice de qui ? Les #libertés_académiques en péril

    Professeur, me voici aujourd’hui menacé de décapitation. L’offensive contre les musulmans se prolonge par des attaques contre la #pensée_critique, taxée d’islamo-gauchisme. Celles-ci se répandent, des réseaux sociaux au ministre de l’Éducation, des magazines au Président de la République, pour déboucher aujourd’hui sur une remise en cause des libertés académiques… au nom de la #liberté_d’expression !

    Je suis professeur. Le 16 octobre, un professeur est décapité. Le lendemain, je reçois cette menace sur Twitter : « Je vous ai mis sur ma liste des connards à décapiter pour le jour où ça pétera. Cette liste est longue mais patience : vous y passerez. »

    C’est en réponse à mon tweet (https://twitter.com/EricFassin/status/1317246862093680640) reprenant un billet de blog publié après les attentats de novembre 2015 (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/161115/nous-ne-saurions-vouloir-ce-que-veulent-nos-ennemis) : « Pour combattre le #terrorisme, il ne suffit pas (même s’il est nécessaire) de lutter contre les terroristes. Il faut surtout démontrer que leurs actes sont inefficaces, et donc qu’ils ne parviennent pas à nous imposer une politique en réaction. » Bref, « nous ne saurions vouloir ce que veulent nos ennemis » : si les terroristes cherchent à provoquer un « conflit des civilisations », nous devons à tout prix éviter de tomber dans leur piège.

    Ce n’est pas la première fois que je reçois des #menaces_de_mort. Sur les réseaux sociaux, depuis des années, des trolls me harcèlent : les #insultes sont quotidiennes ; les menaces, occasionnelles. En 2013, pour Noël, j’ai reçu chez moi une #lettre_anonyme. Elle recopiait des articles islamophobes accusant la gauche de « trahison » et reproduisaient un tract de la Résistance ; sous une potence, ces mots : « où qu’ils soient, quoi qu’ils fassent, les traîtres seront châtiés. » Je l’analysais dans Libération (https://www.liberation.fr/societe/2014/01/17/le-nom-et-l-adresse_973667) : « Voilà ce que me signifie le courrier reçu à la maison : on sait où tu habites et, le moment venu, on saura te trouver. » J’ajoutais toutefois : « l’#extrême_droite continue d’avancer masquée, elle n’ose pas encore dire son nom. » Or ce n’est plus le cas. Aujourd’hui, les menaces sont signées d’une figure connue de la mouvance néonazie. J’ai donc porté #plainte. C’est en tant qu’#universitaire que je suis visé ; mon #université m’accorde d’ailleurs la #protection_fonctionnelle.

    Ainsi, les extrêmes droites s’enhardissent. Le 29 octobre, l’#Action_française déploie impunément une banderole place de la Concorde : « Décapitons la République ! »

    C’est quelques heures après un nouvel attentat islamiste à Nice, mais aussi après une tentative néofasciste avortée en Avignon. Avant d’être abattu, l’homme a menacé d’une arme de poing un commerçant maghrébin. Il se réclamait de #Génération_identitaire, dont il portait la veste avec le logo « #Defend_Europe », justifiant les actions du groupe en Méditerranée ou à la frontière franco-italienne ; un témoin a même parlé de #salut_nazi (https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/vaucluse/avignon/avignon-homme-arme-couteau-abattu-policiers-1889172.htm). Le procureur de la République se veut pourtant rassurant : « c’est un Français, né en France, qui n’a rien à voir avec la religion musulmane ». Et de conclure : « nous avons plus affaire à un #déséquilibré, qui semble proche de l’extrême droite et a fait des séjours en psychiatrie. Il n’y a pas de revendication ». « Comme dans le cas de l’attentat de la mosquée de Bayonne perpétré par un ancien candidat FN en octobre 2019 » (https://www.mediapart.fr/journal/france/281019/attentat-bayonne-l-ex-candidat-fn-en-garde-vue?onglet=full), note Mediapart, « le parquet national antiterroriste n’a pas voulu se saisir de l’affaire ». Ce fasciste était un fou, nous dit-on, pas un terroriste islamiste : l’attaque d’Avignon est donc passée presque inaperçue.

    Si les #Identitaires se pensent aux portes du pouvoir, c’est aussi que certains médias ont préparé le terrain. En une, l’#islamophobie y alterne avec la dénonciation des universitaires antiracistes (j’y suis régulièrement pointé du doigt) (https://www.lepoint.fr/politique/ces-ideologues-qui-poussent-a-la-guerre-civile-29-11-2018-2275275_20.php). Plus grave encore, l’extrême droite se sent encouragée par nos gouvernants. Le président de la République lui-même, qui a choisi il y a un an de parler #communautarisme, #islam et #immigration dans #Valeurs_actuelles, s’inspire des réseaux sociaux et des magazines. « Le monde universitaire a été coupable. Il a encouragé l’#ethnicisation de la question sociale en pensant que c’était un bon filon. Or, le débouché ne peut être que sécessionniste. » Selon Le Monde du 10 juin 2020, Emmanuel Macron vise ici les « discours racisés (sic) ou sur l’intersectionnalité. » Dans Les Inrocks (https://www.lesinrocks.com/2020/06/12/idees/idees/eric-fassin-le-president-de-la-republique-attise-lanti-intellectualisme), je m’inquiétais alors de cet #anti-intellectualisme : « Des sophistes qui corrompent la jeunesse : à quand la ciguë ? » Nous y sommes peut-être.

    Car du #séparatisme, on passe aujourd’hui au #terrorisme. En effet, c’est au tour du ministre de l’Éducation nationale de s’attaquer le 22 octobre, sur Europe 1, à « l’islamo-gauchisme » qui « fait des ravages à l’Université » : il dénonce « les #complices_intellectuels du terrorisme. » « Qui visez-vous ? », l’interroge Le JDD (https://www.lejdd.fr/Politique/hommage-a-samuel-paty-lutte-contre-lislamisme-blanquer-precise-au-jdd-ses-mesu). Pour le ministre, « il y a un combat à mener contre une matrice intellectuelle venue des universités américaines et des #thèses_intersectionnelles, qui veulent essentialiser les communautés et les identités, aux antipodes de notre #modèle_républicain ». Cette idéologie aurait « gangrené une partie non négligeable des #sciences_sociales françaises » : « certains font ça consciemment, d’autres sont les idiots utiles de cette cause. » En réalité, l’intersectionnalité permet d’analyser, dans leur pluralité, des logiques discriminatoires qui contredisent la rhétorique universaliste. La critique de cette assignation à des places racialisées est donc fondée sur un principe d’#égalité. Or, à en croire le ministre, il s’agirait « d’une vision du monde qui converge avec les intérêts des islamistes. » Ce qui produit le séparatisme, ce serait donc, non la #ségrégation, mais sa dénonciation…

    Si #Jean-Michel_Blanquer juge « complices » celles et ceux qui, avec le concept d’intersectionnalité, analysent la #racialisation de notre société pour mieux la combattre, les néofascistes parlent plutôt de « #collabos » ; mais les trolls qui me harcèlent commencent à emprunter son mot. En France, si le ministre de l’Intérieur prend systématiquement le parti des policiers, celui de l’Éducation nationale fait de la politique aux dépens des universitaires. #Marion_Maréchal peut s’en féliciter : ce dernier « reprend notre analyse sur le danger des idéologies “intersectionnelles” de gauche à l’Université. »


    https://twitter.com/MarionMarechal/status/1321008502291255300
    D’ailleurs, « l’islamo-gauchisme » n’est autre que la version actuelle du « #judéo-bolchévisme » agité par l’extrême droite entre les deux guerres. On ne connaît pourtant aucun lien entre #Abdelhakim_Sefrioui, mis en examen pour « complicité d’assassinat » dans l’enquête sur l’attentat de #Conflans, et la gauche. En revanche, le ministre ne dit pas un mot sur l’extrême droite, malgré les révélations de La Horde (https://lahorde.samizdat.net/2020/10/20/a-propos-dabdelhakim-sefrioui-et-du-collectif-cheikh-yassine) et de Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/221020/attentat-de-conflans-revelations-sur-l-imam-sefrioui?onglet=full) sur les liens de l’imam avec des proches de #Marine_Le_Pen. Dans le débat public, jamais il n’est question d’#islamo-lepénisme, alors même que l’extrême droite et les islamistes ont en commun une politique du « #conflit_des_civilisations ».

    Sans doute, pour nos gouvernants, attaquer des universitaires est-il le moyen de détourner l’attention de leurs propres manquements : un professeur est mort, et on en fait porter la #responsabilité à d’autres professeurs… De plus, c’est l’occasion d’affaiblir les résistances contre une Loi de programmation de la recherche qui précarise davantage l’Université. D’ailleurs, le 28 octobre, le Sénat vient d’adopter un amendement à son article premier (https://www.senat.fr/amendements/2020-2021/52/Amdt_234.html) : « Les libertés académiques s’exercent dans le respect des #valeurs_de_la_République », « au premier rang desquelles la #laïcité ». Autrement dit, ce n’est plus seulement le code pénal qui définirait les limites de la liberté d’expression des universitaires. Des collègues, désireux de régler ainsi des différends scientifiques et politiques, appuient cette offensive en réclamant dans Le Monde la création d’une « instance chargée de faire remonter directement les cas d’atteinte aux #principes _épublicains et à la liberté académique »… et c’est au nom de « la #liberté_de_parole » (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-) ! Bref, comme l’annonce sombrement le blog Academia (https://academia.hypotheses.org/27401), c’est « le début de la fin. » #Frédérique_Vidal, ministre de l’Enseignement supérieur et de la recherche, le confirme sans ambages : « Les #valeurs de la laïcité, de la République, ça ne se discute pas. »


    https://twitter.com/publicsenat/status/1322076232918487040
    Pourtant, en démocratie, débattre du sens qu’on veut donner à ces mots, n’est-ce pas l’enjeu politique par excellence ? Qui en imposera la définition ? Aura-t-on encore le droit de critiquer « les faux dévots de la laïcité » (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/101217/les-faux-devots-de-la-laicite-islamophobie-et-racisme-anti-musulmans) ?

    Mais ce n’est pas tout. Pourquoi s’en prendre aux alliés blancs des minorités discriminées, sinon pour empêcher une solidarité qui dément les accusations de séparatisme ? C’est exactement ce que les terroristes recherchent : un monde binaire, en noir et blanc, sans « zone grise » (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/260716/terrorisme-la-zone-grise-de-la-sexualite), où les musulmans feraient front avec les islamistes contre un bloc majoritaire islamophobe. Je l’écrivais dans ce texte qui m’a valu des menaces de décapitation : nos dirigeants « s’emploient à donner aux terroristes toutes les raisons de recommencer. » Le but de ces derniers, c’est en effet la #guerre_civile. Qui sont donc les « #complices_intellectuels » du terrorisme islamiste ? Et qui sont les « idiots utiles » du #néofascisme ?

    En France, aujourd’hui, les #droits_des_minorités, religieuses ou pas, des réfugiés et des manifestants sont régulièrement bafoués ; et quand des ministres s’attaquent, en même temps qu’à une association de lutte contre l’islamophobie, à des universitaires, mais aussi à l’Unef (après SUD Éducation), à La France Insoumise et à son leader, ou bien à Mediapart et à son directeur, tous coupables de s’engager « pour les musulmans », il faut bien se rendre à l’évidence : la #démocratie est amputée de ses #libertés_fondamentales. Paradoxalement, la France républicaine d’Emmanuel #Macron ressemble de plus en plus, en dépit des gesticulations, à la Turquie islamiste de Recep Tayyip Erdogan, qui persécute, en même temps que la minorité kurde, des universitaires, des syndicalistes, des médias libres et des partis d’opposition.

    Pour revendiquer la liberté d’expression, il ne suffit pas d’afficher des caricatures ; l’esprit critique doit pouvoir se faire entendre dans les médias et dans la rue, et partout dans la société. Sinon, l’hommage à #Samuel_Paty serait pure #hypocrisie. Il faut se battre pour la #liberté_de_la_pensée, de l’engagement et de la recherche. Il importe donc de défendre les libertés académiques, à la fois contre les menaces des réseaux sociaux et contre l’#intimidation_gouvernementale. À l’heure où nos dirigeants répondent à la terreur par une #politique_de_la_peur, il y a de quoi trembler pour la démocratie.

    https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/011120/qui-est-complice-de-qui-les-libertes-academiques-en-peril
    #Eric_Fassin #intersectionnalité #SHS #universalisme #Blanquer #complicité

    –—

    Pour compléter le fil de discussion commencé par @gonzo autour de :
    Jean-François Bayart : « Que le terme plaise ou non, il y a bien une islamophobie d’Etat en France »
    https://seenthis.net/messages/883974

    ping @isskein @karine4 @cede

    • Une centaine d’universitaires alertent : « Sur l’islamisme, ce qui nous menace, c’est la persistance du déni »

      Dans une tribune au « Monde », des professeurs et des chercheurs de diverses sensibilités dénoncent les frilosités de nombre de leurs pairs sur l’islamisme et les « idéologies indigénistes, racialistes et décoloniales », soutenant les propos de Jean-Michel Blanquer sur « l’islamo-gauchisme ».

      Tribune. Quelques jours après l’assassinat de Samuel Paty, la principale réaction de l’institution qui est censée représenter les universités françaises, la Conférence des présidents d’université (CPU), est de « faire part de l’émotion suscitée » par des propos de Jean-Michel Blanquer sur Europe 1 et au Sénat le 22 octobre. Le ministre de l’éducation nationale avait constaté sur Europe 1 que « l’islamo-gauchisme fait des ravages à l’université », notamment « quand une organisation comme l’UNEF cède à ce type de choses ». Il dénonçait une « idéologie qui mène au pire », notant que l’assassin a été « conditionné par des gens qui encouragent cette #radicalité_intellectuelle ». Ce sont des « idées qui souvent viennent d’ailleurs », le #communautarisme, qui sont responsables : « Le poisson pourrit par la tête. » Et au Sénat, le même jour, Jean-Michel Blanquer confirmait qu’il y a « des courants islamo-gauchistes très puissants dans les secteurs de l’#enseignement_supérieur qui commettent des dégâts sur les esprits. Et cela conduit à certains problèmes, que vous êtes en train de constater ».

      Nous, universitaires et chercheurs, ne pouvons que nous accorder avec ce constat de Jean-Michel Blanquer. Qui pourrait nier la gravité de la situation aujourd’hui en France, surtout après le récent attentat de Nice – une situation qui, quoi que prétendent certains, n’épargne pas nos universités ? Les idéologies indigéniste, racialiste et « décoloniale » (transférées des campus nord-américains) y sont bien présentes, nourrissant une haine des « Blancs » et de la France ; et un #militantisme parfois violent s’en prend à ceux qui osent encore braver la #doxa_antioccidentale et le prêchi-prêcha multiculturaliste. #Houria_Bouteldja a ainsi pu se féliciter début octobre que son parti décolonial, le #Parti_des_indigènes_de_la_République [dont elle est la porte-parole], « rayonne dans toutes les universités ».

      La réticence de la plupart des universités et des associations de spécialistes universitaires à désigner l’islamisme comme responsable de l’assassinat de Samuel Paty en est une illustration : il n’est question dans leurs communiqués que d’« #obscurantisme » ou de « #fanatisme ». Alors que le port du #voile – parmi d’autres symptômes – se multiplie ces dernières années, il serait temps de nommer les choses et aussi de prendre conscience de la responsabilité, dans la situation actuelle, d’idéologies qui ont pris naissance et se diffusent dans l’université et au-delà. L’importation des idéologies communautaristes anglo-saxonnes, le #conformisme_intellectuel, la #peur et le #politiquement_correct sont une véritable menace pour nos universités. La liberté de parole tend à s’y restreindre de manière drastique, comme en ont témoigné récemment nombre d’affaires de #censure exercée par des groupes de pression.

      « Nous demandons à la ministre de prendre clairement position contre les idéologies qui sous-tendent les #dérives_islamistes »

      Ce qui nous menace, ce ne sont pas les propos de Jean-Michel Blanquer, qu’il faut au contraire féliciter d’avoir pris conscience de la gravité de la situation : c’est la persistance du #déni. La CPU affirme dans son communiqué que « la recherche n’est pas responsable des maux de la société, elle les analyse ». Nous n’en sommes pas d’accord : les idées ont des conséquences et les universités ont aussi un rôle essentiel à jouer dans la lutte pour la défense de la laïcité et de la liberté d’expression. Aussi nous étonnons-nous du long silence de Frédérique Vidal, la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, qui n’est intervenue le 26 octobre que pour nous assurer que tout allait bien dans les universités. Mais nous ne sommes pas pour autant rassurés.

      Nous demandons donc à la ministre de mettre en place des mesures de #détection des #dérives_islamistes, de prendre clairement position contre les idéologies qui les sous-tendent, et d’engager nos universités dans ce combat pour la laïcité et la République en créant une instance chargée de faire remonter directement les cas d’atteinte aux principes républicains et à la liberté académique. Et d’élaborer un guide de réponses adaptées, comme cela a été fait pour l’éducation nationale.

      Premiers signataires : Laurent Bouvet, politiste, professeur des universités ; Jean-François Braunstein, philosophe, professeur des universités ; Jeanne Favret-Saada, anthropologue, directrice d’études honoraire à l’Ecole pratique des hautes études ; Luc Ferry, ancien ministre de l’éducation nationale (2002-2004) ; Renée Fregosi, politiste, maîtresse de conférences HDR en science politique ; Marcel Gauchet, philosophe, directeur d’études émérite à l’Ecole des hautes études en sciences sociales ; Nathalie Heinich, sociologue, directrice de recherche au CNRS ; Gilles Kepel, politiste, professeur des universités ; Catherine Kintzler, philosophe, professeure honoraire des universités ; Pierre Nora, historien, membre de l’Académie française ; Pascal Perrineau, politiste professeur des universités ; Pierre-André Taguieff, historien des idées, directeur de recherche au CNRS ; Pierre Vermeren, historien, professeur des universités

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      Liste complète des signataires :

      Signataires

      Daniel Aberdam, directeur de recherches à l’INSERM – Francis Affergan, professeur émérite des Universités – Alya Aglan, professeur des Universités – Jean-François Agnèse, directeur de recherches IRD – Joëlle Allouche-Benayoun, chargée de recherche au CNRS – Éric Anceau, maître de conférences HDR – Julie d’Andurain, professeur des Universités – Sophie Archambault de Beaune, professeur des Universités – Mathieu Arnold, professeur des Universités – Roland Assaraf, chargé de recherche au CNRS – Philippe Avril, professeur émérite des Universités – Isabelle Barbéris, maître de conférences HDR – Clarisse Bardiot, maître de conférences HDR – Patrick Barrau, maître de conférences honoraire – Christian Bassac, professeur honoraire des Universités – Myriam Benarroch, maître de conférences – Martine Benoit, professeur des Universités – Wladimir Berelowitsch, directeur d’études à l’EHESS – Florence Bergeaud-Blackler, chargée de recherche au CNRS – Maurice Berger, ancien professeur associé des Universités – Marc Bied-Charrenton, professeur émérite des Universités – Andreas Bikfalvi, professeur des Universités – Jacques Billard, maître de conférences honoraire – Jean-Cassien Billier, maître de conférences – Alain Blanchet, professeur émérite des Universités – Guillaume Bonnet, professeur des Universités – ​Laurent Bouvet, professeur des Universités – Rémi Brague, professeur des Universités – Joaquim Brandão de Carvalho, professeur des Universités – Jean-François Braunstein, professeur des Universités – Christian Brechot, professeur émérite des Universités – Stéphane Breton, directeur d’études à l’EHESS – Jean-Marie Brohm, professeur émérite des Universités – Michelle-Irène Brudny, professeur honoraire des Universités – Patrick Cabanel, directeur d’études, École pratique des hautes études – Christian Cambillau, directeur de recherches émérite au CNRS – Belinda Cannone, maître de conférences – Dominique Casajus, directeur de recherches émérite au CNRS – Sylvie Catellin, maître de conférences – Brigitte Chapelain, maître de conférences – Jean-François Chappuit, maître de conférences – Patrick Charaudeau, professeur émérite des Universités – Blandine Chelini-Pon, professeur des Universités – François Cochet, professeur émérite des Universités – Geneviève Cohen-Cheminet, professeur des Universités – Jacqueline Costa-Lascoux, directrice de recherche au CNRS – Cécile Cottenceau, PRAG Université – Philippe Crignon, maître de conférences – David Cumin, maître de conférences HDR – Jean-Claude Daumas, professeur émérite des Universités – Daniel Dayan, directeur de recherches au CNRS – Chantal Delsol, membre de l’Académie des sciences morales et politiques – Gilles Denis, maître de conférences HDR – Geneviève Dermenjian, maître de conférences HDR – Albert Doja, professeur des Universités – Michel Dreyfus, directeur de recherche au CNRS – Philippe Dupichot, professeur des Universités – Alain Ehrenberg, directeur émérite de recherche au CNRS – Marie-Claude Esposito, professeur émérite des Universités – Jean-Louis Fabiani, directeur d’études à l’EHES – Jeanne Favret-Saada, directrice d’études honoraire à l’EPHE – Laurent Fedi, maître de conférences – Rémi Ferrand, maître de conférences – Luc Ferry, ancien ministre de l’Éducation nationale – Michel Fichant, professeur émérite des Universités – Dominique Folscheid, professeur émérite des Universités – Nicole Fouché, chercheuse CNRS-EHESS - Annie Fourcaut, professeur des Universités – Renée Fregosi, maître de conférences HDR retraitée – Pierre Fresnault-Deruelle, professeur émérite des Universités – Marc Fryd, maître de conférences HDR – Alexandre Gady, professeur des Universités – Jean-Claude Galey, directeur d’études à l’EHESS – Marcel Gauchet, directeur d’études à l’EHESS – Christian Gilain, professeur émérite des Universités – Jacques-Alain Gilbert, professeur des Universités – Gabriel Gras, chargé de recherche au CEA – Yana Grinshpun, maître de conférences – Patrice Gueniffey, directeur d’études à l’EHESS – Éric Guichard, maître de conférences HDR – Jean-Marc Guislin, professeur émérite des Universités – Charles Guittard, professeur des Universités – Philippe Gumplowicz, professeur des Universités – Claude Habib, professeur émérite des Universités – François Heilbronn, professeur des Universités associé à Sciences-Po – Nathalie Heinich, directrice de recherche au CNRS – Marc Hersant, professeur des Universités – Philippe d’Iribarne, directeur de recherche au CNRS – François Jost, professeur émérite des Universités – Olivier Jouanjan, professeur des Universités – Pierre Jourde, professeur émérite des Universités – Gilles Kepel, professeur des Universités – Catherine Kintzler, professeur honoraire des Universités – Marcel Kuntz, directeur de recherche au CNRS – Bernard Labatut, maître de conférence HDR – Monique Lambert, professeur des Universités – Frédérique de La Morena, maître de conférences – Philippe de Lara, maître de conférences HDR – Philippe Larralde, PRAG Université – Dominique Legallois, professeur des Universités – Anne Lemonde, maître de conférences – Anne-Marie Le Pourhiet, professeur des Universités – Andrée Lerousseau, maître de conférences – Franck Lessay, professeur émérite des Universités – Marc Levilly, maître de conférences associé – Carlos Levy, professeur émérite des Universités – Roger Lewandowski, professeur des Universités – Philippe Liger-Belair, maître de conférences – Laurent Loty, chargé de recherche au CNRS – Catherine Louveau, professeur émérite des Universités – Danièle Manesse, professeur émérite des Universités – Jean-Louis Margolin, maître de conférences – Joseph Martinetti, maître de conférences – Céline Masson, professeur des Universités – Jean-Yves Masson, professeur des Universités – Eric Maulin, professeur des Universités – Samuel Mayol, maître de conférences – Isabelle de Mecquenem, PRAG Université – Ferdinand Mélin-Soucramanien, professeur des Universités – Marc Michel, professeur émérite des Universités –​ Jean-Baptiste Minnaert, professeur des Universités – Nathalie Mourgues, professeur émérite des Universités – Lion Murard, chercheur associé au CERMES – Franck Neveu, professeur des Universités – Jean-Pierre Nioche, professeur émérite à HEC – Pierre Nora, membre de l’Académie française – Jean-Max Noyer, professeur émérite des Universités – Dominique Ottavi, professeur émérite des Universités – Bruno Ollivier, professeur des Universités, chercheur associé au CNRS – Gilles Pages, directeur de recherche à l’INSERM – Marc Perelman, professeur des Universités – Pascal Perrineau, professeur des Universités – Laetitia Petit, maître de conférences des Universités – Jean Petitot, directeur d’études à l’EHESS – Béatrice Picon-Vallin, directrice de recherches au CNRS – René Pommier, maître de conférences – Dominique Pradelle, professeur des Universités – André Quaderi, professeur des Universités – Gérard Rabinovitch, chercheur associé au CNRS-CRPMS – Charles Ramond, professeur des Universités – Jean-Jacques Rassial, professeur émérite des Universités – François Rastier, directeur de recherche au CNRS – Philippe Raynaud, professeur émérite des Universités – Dominique Reynié, professeur des Universités – Isabelle Rivoal, directrice de recherches au CNRS – Jean-Jacques Roche, professeur des Universités – Pierre Rochette, professeur des Universités – Marc Rolland, professeur des Universités – Danièle Rosenfeld-Katz, maître de conférences – Bernard Rougier, professeur des Universités – Andrée Rousseau, maîtresse de conférences – Jean-Michel Roy, professeur des Universités – François de Saint-Chéron, maître de conférences HDR – Jacques de Saint-Victor, professeur des Universités – Xavier-Laurent Salvador, maître de conférences HDR – Jean-Baptiste Santamaria, maître de conférences – Yves Santamaria, maître de conférences – Georges-Elia Sarfati, professeur des Universités – Jean-Pierre Schandeler, chargé de recherche au CNRS – Pierre Schapira, professeur émérite des Universités – Martine Segalen, professeur émérite des Universités – Perrine Simon-Nahum, directrice de recherche au CNRS – Antoine Spire, professeur associé à l’Université – Claire Squires, maître de conférences – Marcel Staroswiecki, professeur honoraire des Universités – Wiktor Stoczkowski, directeur d’études à l’EHESS – Jean Szlamowicz, professeur des Universités – Pierre-André Taguieff, directeur de recherche au CNRS – Jean-Christophe Tainturier, PRAG Université – Jacques Tarnero, chercheur à la Cité des sciences et de l’industrie – Michèle Tauber, maître de conférences HDR – Pierre-Henri Tavoillot, maître de conférences HDR – Alain Tedgui, directeur de recherches émérite à l’INSERM – ​Thibault Tellier, professeur des Universités – Françoise Thom, maître de conférences HDR – André Tiran, professeur émérite des Universités – Antoine Triller, directeur de recherches émérite à l’INSERM – Frédéric Tristram, maître de conférences HDR – Sylvie Toscer-Angot, maître de conférences – Vincent Tournier, maître de conférences – Christophe Tournu, professeur des Universités – Serge Valdinoci, maître de conférences – Raymonde Vatinet, professeur des Universités – Gisèle Venet, professeur émérite des Universités – François Vergne, maître de conférences – Gilles Vergnon, maître de conférences HDR – Pierre Vermeren, professeur des Universités – Nicolas Weill-Parot, directeur d’études à l’EPHE – Yves Charles Zarka, professeur émérite des Universités – Paul Zawadzki, maître de conférences HDR – Françoise Zonabend, directrice d’études à l’EHESS

      https://manifestedes90.wixsite.com/monsite

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-
      #manifeste_des_cents #manifeste_des_100 #décolonial #ESR #enseignement_supérieur

    • De la liberté d’expression des « voix musulmanes » en France

      Le traumatisme né de l’assassinat de l’enseignant Samuel Paty à Conflans-Sainte-Honorine le 16 octobre 2020 impose une réflexion collective profonde, aussi sereine que possible. L’enjeu est fondamental pour la société française qui, d’attentat revendiqué par une organisation constituée en attentat mené par un « loup solitaire », de débat sur le voile en débat sur Charlie, et de loi antiterroriste en loi contre le « séparatisme » s’enferre depuis plusieurs décennies dans une polarisation extrêmement inquiétante autour des questions liées à l’islam.

      Le constat de la diffusion, au sein des composantes se déclarant musulmanes en France, de lectures « radicales » et qui survalorisent la violence est incontestable. L’idéologie dite « djihadiste » demeure certes marginale, mais possède une capacité d’adaptation manifeste, liant les enjeux propres au monde musulman avec des problématiques françaises. Internet lui offre une caisse de résonance particulière auprès des plus jeunes, générant du ressentiment, mais aussi des frustrations. La #prison et la #délinquance, sans doute autant que certaines mosquées et associations cultuelles, constituent d’autres espaces de #socialisation à cette vision mortifère du monde.

      En revanche, les interprétations des racines de cette diffusion divergent, donnant lieu à des #controverses_scientifiques et médiatiques qui n’honorent pas toujours les personnes concernées. Il est manifeste que face à un problème complexe, l’analyse ne saurait être monocausale et ne se pencher que sur une seule variable. L’obsession pour la part purement religieuse du phénomène que légitiment certains chercheurs et qui est au cœur des récentes politiques du gouvernement français fonctionne comme un #écran_de_fumée.

      S’attaquer par des politiques publiques aux « #prêcheurs_de_haine » ou exiger la réforme d’un Islam « malade » sans autre forme de réflexion ou d’action ignore la dimension relationnelle de la #violence et des tensions qui déchirent la France.

      Quand les « islamo-gauchistes » doivent rendre des comptes

      Cette perspective revient à négliger l’importance de la #contextualisation, oubliant d’expliquer pourquoi une interprétation particulière de l’islam a pu acquérir, via sa déclinaison politique la plus fermée, une capacité à incarner un rejet de la société dominante. En somme cette lecture méconnaît comment et pourquoi une interprétation radicale du #référent_islamique trouve depuis quelques années une pertinence particulière aux yeux de certains, et pourquoi ce serait davantage le cas en #France qu’ailleurs en Europe. Elle revient surtout à oublier la nature circulaire des dynamiques qui permet à un contexte et à une idéologie de s’alimenter mutuellement, désignant alors de façon simpliste celui qui « aurait commencé » ainsi que — et c’est là une funeste nouveauté des derniers mois — ses « collabos » affublés du label « islamo-gauchiste » et qui devraient rendre des comptes.

      Beaucoup a ainsi été écrit et dit, parfois trop rapidement. En tant que chercheur et citoyen, je ressens autant de la lassitude que de la tristesse, mesurant combien mon champ professionnel développe de façon croissante une sorte d’incommunicabilité, entrainant des haines tenaces et donnant de plus en plus souvent lieu à de la diffamation entre ses membres. Il m’apparait que la perspective faisant toute sa place à la #complexité des phénomènes politiques et sociaux a, d’une certaine manière, perdu la partie. Marginalisée dans les médias, elle devient manifestement de plus en plus inaudible auprès d’institutions publiques en quête de solutions rapides et brutales, faisant souvent fi du droit. L’approche nuancée des sciences sociales se trouve reléguée dans des espaces d’expression caractérisés par l’entre-soi politique, scientifique ou, il faut le reconnaitre, communautaire (ce dernier parfois prompt à tordre le discours et à le simplifier pour se rassurer).

      « Liberté d’expression », mais pas pour tout le monde

      Cette mécanique de parole complexe reléguée ne concerne pas uniquement les chercheurs. Ma frustration de « perdant » n’a au fond que peu d’importance. Elle renvoie toutefois à un enjeu beaucoup plus fondamental qui concerne l’espace de représentation et d’expression des musulmans français. Dans un contexte de fortes tensions autour de la question musulmane, il s’agit là d’un blocage récurrent dont les pouvoirs publics et une grande partie des médias se refusent à percevoir la centralité. La faiblesse des espaces offerts aux voix qui se revendiquent musulmanes et sont reconnues comme légitimes par leurs coreligionnaires constitue un angle mort que les tenants de la « liberté d’expression » auraient tout intérêt à aborder. Autant que le contrôle policier et la surveillance des appels à la haine sur Internet et dans les mosquées, c’est là un levier nécessaire pour contenir la violence et lutter contre elle.

      La liberté d’expression n’a jamais été totale, et certains tabous légitimes demeurent ou évoluent avec le temps. Pensons à la pédocriminalité dans les années 1970, ou aux caricatures sur les juifs et l’argent dans les années 1930. Parmi les tenants d’une laïcité intégrale, qui a déjà discuté avec une femme voilée ? Partons tout d’abord du principe que l’ignorance de l’Autre et de sa propre histoire constitue une racine de la #polarisation grave de la société française. Admettons ensuite qu’il est important pour chacun d’avoir une perception juste de ses concitoyens et aussi, en démocratie, de se sentir correctement et dignement représenté à une variété d’échelons.

      La figure de #Hassen_Chalghoumi, imam d’origine tunisienne d’une mosquée en Seine–Saint-Denis très fréquemment mobilisé dans les grands médias, symbolise un dysfonctionnement patent de ce mécanisme de #représentation. Sa propension à soutenir des positions politiques à rebours de ses « ouailles » supposées, en particulier sur la Palestine, mais surtout son incapacité à s’exprimer correctement en français ou même à avoir un fond de culture générale partagée ne constitue aucunement des caractéristiques rédhibitoires pour faire appel à lui quand un sujet en lien avec l’islam émerge. Pire, il semblerait même parfois que ce soit exactement le contraire comme quand Valeurs actuelles, alors accusé d’avoir caricaturé la députée Danièle Obono en esclave, a fait appel à lui pour défendre la liberté d’expression et l’a placé, détail sans doute potache, mais tellement symptomatique de mépris affiché, devant une plaque émaillée « Licence IV » (autrefois utilisée pour désigner les débits de boissons alcoolisées).

      Pour les millions de Français d’origine musulmane dont l’élocution française est parfaite et qui partagent les mêmes références culturelles populaires que la majorité des Français, reconnaissons qu’il est parfaitement humiliant d’avoir l’impression que les médias n’ont pas d’autre « modèle » à mobiliser ou à valoriser pour entendre une voix décrite comme musulmane. Comment dès lors ne pas comprendre la défiance envers les médias ou la société dans son ensemble ?

      L’ère du #soupçon

      Certes, il revient aux musulmans au premier chef de s’organiser et de faire émerger des figures représentatives, dépassant ainsi la fragmentation qui est celle de leur culte, ainsi que la mainmise exercée par les États d’origine, Maroc, Algérie et Turquie en tête. Les luttes internes sont elles-mêmes d’une grande violence, souvent fondées sur le « narcissisme des petites différences » de Sigmund Freud. Toutefois, reconnaissons que l’expérience démontre que les restrictions ne sont pas seulement internes à la « communauté ». Il y a plus de vingt ans déjà, le sociologue #Michel_Wieviorka avait pointé du doigt l’incapacité de la société française à accueillir les voix se revendiquant comme musulmanes :

      "Plutôt que d’être perçus comme des acteurs qui inventent et renouvellent la #vie_collective — avec ses tensions, ses conflits, ses négociations —, les associations susceptibles de passer pour « ethniques » ou religieuses […] sont couramment ignorées, soupçonnées de couvrir les pires horreurs ou traitées avec hostilité par les pouvoirs publics. […] À force de rejeter une association sous prétexte qu’elle serait intégriste et fermée sur elle-même, à force de lui refuser toute écoute et tout soutien, on finit par la constituer comme telle."

      De la chanteuse #Mennel (candidate d’origine syrienne à une émission sur TF1 et qui alors portait le foulard) à #Tariq_Ramadan (certes de nationalité suisse) en passant par l’humoriste #Yassine_Belattar et le #Comité_contre_l’islamophobie_en_France (CCIF), les occasions d’exclure les voix endogènes qui revendiquent une part d’#islamité dans leur discours et sont à même de servir de référence tant cultuelle que politique et culturelle ont été nombreuses. Parfois pleinement légitimes lorsque des accusations de viols ont été proférées, des dispositifs de contrôle imposent de « montrer patte blanche » au-delà de ce qui devrait légitimement être attendu. Non limités à l’évaluation de la probité, ils rendent en plus toute critique adressée à la société française et ses failles (en politique étrangère par exemple) extrêmement périlleuses, donnant le sentiment d’un traitement différencié pour les voix dites musulmanes, promptes à se voir si facilement criminalisées. Dès lors, certaines positions, pourtant parfaitement raisonnables, deviennent indicibles.

      Revendiquer la nécessité de la #lutte_contre_l’islamophobie, dont l’existence ne devrait pas faire débat par exemple quand une femme portant le foulard se fait cracher dessus par des passants fait ainsi de manière totalement absurde partie de cette liste de tabous, établie sans doute de manière inconsciente par des années d’#injonctions et de #stigmatisations, héritées de la période coloniale.

      Une telle mécanique vient enfin légitimer les logiques d’#exclusion propres au processus de #radicalisation. Elle s’avère dès lors contreproductive et donc dangereuse. Par exemple, dissoudre le CCIF dont l’action principale est d’engager des médiations et de se tourner vers les institutions publiques est à même de constituer, en acte aux yeux de certains, la démonstration de l’inutilité des #associations et donc l’impossibilité de s’appuyer sur les institutions légales. C’est une fois encore renvoyer vers les fonds invisibles de l’Internet les #espaces_d’expression et de représentation, c’est ainsi creuser des fossés qui génèrent l’#incompréhension et la violence.

      Il devient impérieux d’apprendre à s’écouter les uns les autres. Il demeure aussi nécessaire de reconnaitre que, comme l’entreprise a besoin de syndicats attentifs et représentatifs, la société dans son ensemble, diverse comme elle est, a tout à gagner à offrir des cadres d’expression sereins et ouverts à ses minorités, permettant aussi à celles-ci de revendiquer, quitte à ne pas faire plaisir à moi-même, à la majorité, ou au patron.

      https://orientxxi.info/magazine/de-la-liberte-d-expression-des-voix-musulmanes-en-france,4227
      #religion

    • « La pensée “décoloniale” renforce le narcissisme des #petites_différences »

      80 psychanalystes s’insurgent contre l’assaut des « #identitaristes » dans le champ du savoir et du social

      « Les intellectuels ont une mentalité plus totalitaire que les gens du commun » écrivait Georges Orwell (1903-1950), dans Essais, Articles et Lettres.

      Des militants, obsédés par l’#identité, réduite à l’#identitarisme, et sous couvert d’antiracisme et de défense du bien, imposent des #idéologies_racistes par des #procédés_rhétoriques qui consistent à pervertir l’usage de la langue et le sens des mots, en détournant la pensée de certains auteurs engagés dans la lutte contre le racisme qu’ils citent abondamment comme #Fanon ou #Glissant qui, au contraire, reconnaissent l’#altérité et prônent un nouvel #universalisme.

      Parmi ces militants, le Parti des indigènes de la République -dit le #PIR- qui s’inscrit dans la mouvance « décoloniale ».

      La pensée dite « décoloniale » s’insinue à l’Université et menace les sciences humaines et sociales sans épargner la psychanalyse. Ce phénomène se répand de manière inquiétante et nous n’hésitons pas à parler d’un #phénomène_d’emprise qui distille subrepticement des idées propagandistes. Ils véhiculent une idéologie aux relents totalitaires.

      Réintroduire la « #race » et stigmatiser des populations dites « blanches » ou de couleur comme coupables ou victimes, c’est dénier la #complexité_psychique, ce n’est pas reconnaître l’histoire trop souvent méconnue des peuples colonisés et les traumatismes qui empêchent la transmission.

      Une idéologie qui nie ce qui fait la singularité de l’individu, nie les processus toujours singuliers de #subjectivation pour rabattre la question de l’identité sur une affaire de #déterminisme culturel et social.

      Une idéologie qui secondarise, voire ignore la primauté du vécu personnel, qui sacrifie les logiques de l’#identification à celle de l’identité unique ou radicalisée, dénie ce qui fait la spécificité de l’humain.

      Le livre de Houria Bouteldja, porte-parole du PIR, intitulé Les Blancs, les Juifs et nous. Vers une politique de l’amour révolutionnaire (La Fabrique, 2016), soutenu par des universitaires et des chercheurs du CNRS, prétend défendre les #victimes - les « indigènes » - alors qu’il nous paraît en réalité raciste, antisémite, sexiste et homophobe et soutient un islamisme politique. L’ensemble du livre tourne autour de l’idée que les descendants d’immigrés maghrébins en France, du fait de leurs origines, seraient victimes d’un “#racisme_institutionnel” - voire un #racisme_d’Etat-, lequel aboutirait à véritablement constituer des “#rapports_sociaux_racistes”.

      L’auteure s’adresse aux « Juifs » : « Vous, les Juifs » : des gens qui pour une part seraient étrangers à la « blanchité », étrangers à la « race » qui, depuis 1492, dominerait le monde (raison pour laquelle elle distingue les « Juifs » des « Blancs »), mais qui pour une autre part sont pires que les « Blancs », parce qu’ils en seraient les valets criminels.

      Fanon, auquel les décoloniaux se réfèrent, ne disait-il pas : « Quand vous entendez dire du mal des Juifs, dressez l’oreille, on parle de vous ».

      Le #racialisme pousse à la #position_victimaire, au #sectarisme, à l’#exclusion, et finalement au #mépris ou à la #détestation du différent, et à son exclusion de fait. Il s’appuie sur une réécriture fallacieuse de l’histoire qui nie les notions de #progrès de #civilisation mais aussi des racismes et des rivalités tout aussi ancrés que le #racisme_colonialiste.

      C’est par le « #retournement_du_stigmate » que s’opère la transformation d’une #identité_subie en une #identité_revendiquée et valorisée qui ne permet pas de dépasser la « race.

      Il s’agit là, « d’#identités_meurtrières » (#Amin_Maalouf) qui prétendent se bâtir sur le meurtre de l’autre.

      Ne nous leurrons pas, ces revendications identitaires sont des revendications totalitaires, et ces #dérives_sectaires, communautaristes menacent nos #valeurs_démocratiques et républicaines en essentialisant les individus, en valorisant de manière obsessionnelle les #particularités_culturelles et en remettant à l’affiche une imagerie exotique méprisante que les puissances coloniales se sont évertuées à célébrer.

      Cette idéologie s’appuie sur ce courant multiculturaliste états-unien qu’est l’#intersectionnalité en vogue actuellement dans les départements des sciences humaines et sociales. Ce terme a été proposé par l’universitaire féministe américaine #Kimberlé_Crenshaw en 1989 afin de spécifier l’intersection entre le #sexisme et le #racisme subi par les femmes afro-américaines. La mouvance décoloniale peut s’associer aux « #postcolonial_studies » afin d’obtenir une légitimité académique et propager leur idéologie. Là où l’on croit lutter contre le racisme et l’oppression socio-économique, on favorise le #populisme et les #haines_identitaires. Ainsi, la #lutte_des_classes est devenue une #lutte_des_races.

      Des universitaires, des chercheurs, des intellectuels, des psychanalystes s’y sont ralliés en pensant ainsi lutter contre les #discriminations. C’est au contraire les exacerber.

      #Isabelle_de_Mecquenem, professeure agrégée de philosophie, a raison de rappeler que « emprise » a l’avantage de faire écho à l’article L. 141-6 du #code_de_l'éducation. Cet article dispose que « le service public de l’enseignement supérieur est laïque et indépendant de toute emprise politique, économique, religieuse ou idéologique (…) ». Rappelons que l’affaire Dorin à l’Université de Limoges relève d’une action sectaire (propagande envers les étudiants avec exclusion de toute critique).

      Il est impérieux que tout citoyen démocrate soit informé de la dangerosité de telles thèses afin de ne pas perdre de vue la tension irréductible entre le singulier et l’universel pour le sujet parlant. La #constitution_psychique pour Freud n’est en aucun cas un particularisme ou un communautarisme.

      Nous appelons à un effort de mémoire et de pensée critique tous ceux qui ne supportent plus ces logiques communautaristes et discriminatoires, ces processus d’#assignation_identitaire qui rattachent des individus à des catégories ethno-raciales ou de religion.

      La psychanalyse s’oppose aux idéologies qui homogénéisent et massifient.

      La psychanalyse est un universalisme, un humanisme. Elle ne saurait supporter d’enrichir tout « narcissisme des petites différences ». Au contraire, elle vise une parole vraie au profit de la singularité du sujet et de son émancipation.
      Signataires
      Céline Masson, Patrick Chemla, Rhadija Lamrani Tissot, Laurence Croix, Patricia Cotti, Laurent Le Vaguerèse, Claude Maillard, Alain Vanier, Judith Cohen-Solal, Régine Waintrater, Jean-Jacques Moscovitz, Patrick Landman, Jean-Jacques Rassial, Anne Brun, Fabienne Ankaoua, Olivier Douville, Thierry Delcourt, Patrick Belamich, Pascale Hassoun , Frédéric Rousseau, Eric Ghozlan, Danièle Rosenfeld-Katz, Catherine Saladin, Alain Abelhauser, Guy Sapriel, Silke Schauder, Kathy Saada, Marie-José Del Volgo, Angélique Gozlan, Patrick Martin-Mattera, Suzanne Ferrières-Pestureau, Patricia Attigui, Paolo Lollo, Robert Lévy, Benjamin Lévy, Houria Abdelouahed, Mohammed Ham, Patrick Guyomard, Monique Zerbib, Françoise Nielsen, Claude Guy, Simone Molina, Rachel Frouard-Guy, Françoise Neau, Yacine Amhis, Délia Kohen, Jean-Pierre Winter, Liliane Irzenski, Jean Michel Delaroche , Sarah Colin, Béatrice Chemama-Steiner, Francis Drossart, Cristina Lindenmeyer, Eric Bidaud, Eric Drouet, Marie-Frédérique Bacqué, Roland Gori, Bernard Ferry, Marie-Christine Pheulpin, Jacques Barbier, Robert Samacher, Faika Medjahed, Pierre Daviot, Laetitia Petit, David Frank Allen, Daniel Oppenheim, Marie-Claude Fourment-Aptekman, Michel Hessel, Marthe Moudiki Dubreuil, Isabelle Floch, Pierre Marie, Okba Natahi, Hélène Oppenheim-Gluckman, Daniel Sibony, Jean-Luc Gaspard, Eva Talineau, Paul Alerini, Eliane Baumfelder-Bloch, Jean-Luc Houbron, Emile Rafowicz, Louis Sciara , Fethi Benslama, Marielle David, Michelle Moreau Ricaud, Jean Baptiste Legouis, Anna Angelopoulos, Jean-François Chiantaretto , Françoise Hermon, Thierry Lamote, Sylvette Gendre-Dusuzeau, Xavier Gassmann, Guy Dana, Wladi Mamane, Graciela Prieto, Olivier Goujat, Jacques JEDWAB, Brigitte FROSIO-SIMON , Catherine Guillaume, Esther Joly , Jeanne Claire ADIDA , Christian Pierre, Jean Mirguet, Jean-Baptiste BEAUFILS, Stéphanie Gagné, Manuel Perianez, Alain Amar, Olivier Querouil, Jennifer Biget, Emmanuelle Boetsch, Michèle Péchabrier, Isabel Szpacenkopf, Madeleine Lewensztain Gagna, Michèle Péchabrier, Maria Landau, Dominique Méloni, Sylvie Quesemand Zucca

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/09/25/la-pensee-decoloniale-renforce-le-narcissisme-des-petites-differences_601292

      #pensée_décoloniale #psychanalyse #totalitarisme

    • Les sciences sociales contre la République ?

      Un collectif de revues de sciences humaines et sociales (SHS) met au défi le ministre de l’éducation nationale de trouver dans ses publications des textes permettant de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste.

      Dans le JDD du 25 octobre, le ministre de l’éducation nationale déclarait qu’il y avait, dans les universités, un combat à mener. Contre l’appauvrissement de l’enseignement supérieur ? Contre la précarité étudiante ? Contre les difficultés croissantes que rencontrent tous les personnels, précaires et titulaires, enseignants et administratifs, à remplir leurs missions ? Contre la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), qui va amplifier ces difficultés ? Non : contre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises ». Et le ministre, téméraire : face à cette « #gangrène », il faut cesser la « #lâcheté ».

      On reste abasourdi qu’un ministre de l’#éducation_nationale s’en prenne ainsi à celles et ceux qui font fonctionner les universités. Mais pour aberrants qu’ils soient, ces propos n’étonnent pas tout à fait : déjà tenus, sur Europe 1 et au Sénat, ils prolongent ceux d’Emmanuel Macron, en juin 2020, dans Le Monde, qui accusait les universitaires d’ethniciser la question sociale et de « casser la République en deux ». Plutôt que de se porter garant des libertés académiques, attaquées de toutes parts, notamment dans le cadre du débat parlementaire actuel, Jean-Michel Blanquer se saisit de l’assassinat d’un professeur d’histoire et géographie pour déclarer la guerre aux sciences sociales, qui défendraient des thèses autorisant les violences islamistes ! Sa conviction est faite : ce qui pourrit les universités françaises, ce sont les « thèses intersectionnelles », venues des « universités américaines » et qui « veulent essentialiser » les communautés.

      Ignorance ministérielle

      Le ministre « défie quiconque » de le contredire. Puisque les revues scientifiques sont, avec les laboratoires et les universités, les lieux d’élaboration des sciences sociales, de leurs controverses, de la diffusion de leurs résultats, c’est à ce titre que nous souhaitons mener cette contradiction, ses propos révélant son ignorance de nos disciplines, de leurs débats et de leurs méthodes.

      La démarche scientifique vise à décrire, analyser, comprendre la société et non à décréter ce qu’elle doit être. Les méthodes des sciences sociales, depuis leur émergence avec Emile Durkheim dans le contexte républicain français, s’accordent à expliquer les faits sociaux par le social, précisément contre les explications par la nature ou l’essence des choses. A ce titre, elles amènent aussi à rendre visibles des divisions, des discriminations, des inégalités, même si elles contrarient. Les approches intersectionnelles ne sont pas hégémoniques dans les sciences sociales : avec d’autres approches, que, dans leur précieuse liberté, les revues font dialoguer, elles sont précisément l’un des outils critiques de la #désessentialisation du monde social. Néologisme proposé par la juriste états-unienne Kimberlé Crenshaw à la fin des années 1980, le terme « intersectionnalité » désigne en outre, dans le langage actuel des sciences sociales, un ensemble de démarches qui en réalité remontent au XIXe siècle : il s’agit d’analyser la réalité sociale en observant que les #identités_sociales se chevauchent et que les logiques de #domination sont plurielles.

      Dès 1866, Julie-Victoire Daubié, dans La Femme pauvre au XIXe siècle, montre la particularité de la situation des ouvrières, domestiques et prostituées obligées de travailler pour survivre, faisant des femmes pauvres une catégorie d’analyse pour le champ de la connaissance et de la politique, alors que lorsqu’on parlait des pauvres, on pensait surtout aux hommes ; et que lorsqu’on parlait des femmes, on pensait avant tout aux bourgeoises.

      Une politique répressive de la pensée

      Plus près de nous, l’équipe EpiCov (pour « Epidémiologie et conditions de vie »), coordonnée par la sociologue Nathalie Bajos et le démographe François Héran, vient de publier des données concernant l’exposition au Covid-19 à partir de critères multiples parmi lesquels la classe sociale, le sexe, le lieu de naissance. Une première lecture de ces données indique que les classes populaires travaillant dans la maintenance (plutôt des hommes) et dans le soin (plutôt des femmes) ont été surexposées, et que, parmi elles, on compte une surreprésentation de personnes nées hors d’Europe. Une analyse intersectionnelle cherchera à corréler ces données, entre elles et avec d’autres disponibles, pour mieux comprendre comment les #discriminations s’entrelacent dans la vie des personnes. Où sont l’essentialisation, l’encouragement au communautarisme ? Pour les chercheurs et chercheuses en sciences sociales, il s’agit simplement, à partir de données vérifiées par des méthodes scientifiques, validées entre pairs et ouvertes à la discussion, de faire leur travail.

      L’anathème que le ministre lance traduit une politique répressive de la pensée. Nous mettons M. Blanquer au défi de trouver un seul texte publié dans la bibliothèque ouverte et vivante de nos revues qui permette de dire que l’intersectionnalité inspire le #terrorisme_islamiste. Se saisir d’un mot, « intersectionnalité », pour partir en guerre contre les sciences sociales et, plus généralement, contre la liberté de penser et de comprendre la société, est une manœuvre grossière. Si elle prend, nos universités devront troquer la liberté de chercher (qui est aussi la liberté de se tromper) pour rien moins qu’une science aux ordres, un obscurantisme ministériel. On voit mal comment la République pourrait en sortir grandie.

      Le collectif des revues en lutte, constitué en janvier 2020 autour de l’opposition aux projets de LPPR et de réforme des retraites, rassemble aujourd’hui 157 revues francophones, pour l’essentiel issues des sciences humaines et sociales.

      https://www.lemonde.fr/sciences/article/2020/11/02/les-sciences-sociales-contre-la-republique_6058195_1650684.html

    • Academic freedom in the context of France’s new approach to ’separatism’

      From now on, academic freedom will be exercised within the limits of the values ​​of the Republic. Or not.

      For months, France has been severely weakened by a deepening economic crisis, violent social tensions, and a health crisis out of control. The barbaric assassination of history professor Samuel Paty on October 16 in a Paris suburb and the murder of Vincent Loquès, Simone Barreto Silva, Nadine Devillers in the Notre-Dame basilica in Nice on October 29 have now plunged the country into terror.

      Anger, bewilderment, fear and a need for protection took over French society. French people should have the right to remain united, to understand, to stay sharp, do everything possible not to fall into the trap set by terrorists who have only one objective: to divide them. It is up to politics to lead the effort of collective elaboration of the mourning, to ensure the unity of the country. But that’s not what is happening. Politics instead tries to silence any attempt at reflection tying itself in knots to point the finger at the culprit, or, better yet, the culprits.

      In the narrative of the French government, there are two direct or indirect sources responsible for the resurgence of terrorism: abroad, the foreign powers which finance mosques and organizations promoting the separatism of Islamic communities, and consequently - as is only logical on the perpetually slippery slope of Macronist propaganda - terrorism; at home, it is the academics.

      It is true that the October attacks coincided with tensions which have been increasing for months between France and Turkey on different fronts: Syria, Libya, Nagorno-Karabakh, and above all the Eastern Mediterranean. And it is also true that the relationship between international tensions and the resurgence of terrorism needs to be explored. However, the allusion to the relationship between the role of academics and these attacks is simply outrageous and instrumental, aimed only at discrediting the category of academics engaged in recent weeks in a desperate struggle to prevent the passing of a Research programming law, which violently redefines the methods of funding and management of research projects, the status, the prerogatives as well as the academic freedom of university professors.
      Regaining control?

      “A teacher died and other teachers are being blamed for it" wrote the sociologist Eric Fassin, alluding to a long series of attacks that have been reiterated in recent months on the French university community – a community guilty, according to Macron and his collaborators, of excessive indulgence in the face of “immigration, Islam and integration”.

      “I must regain control of these subjects”, said Emmanuel Macron a year ago to the extreme right-wing magazine Valeurs Actuelles. A few months later, in the midst of a worldwide struggle against racism and police violence, Macron, scandalized by the winds of revolt – rather than by racism and police violence in themselves – explained to Le Monde that "The academic world has been guilty. It has encouraged the ethnicization of social issues, thinking that this was a good path to go down. But the outcome can only be secessionist.” The Minister of National Education Jean-Michel Blanquer, presenting in June 2020 to the Senate’s commission of inquiry on Islamist radicalization, had evoked for his part, “the permeability of the academic world with theories that are at the antipodes of the values of the Republic and secularism”, citing specifically “the indigenist theories”.

      A few days after the homicide of Samuel Paty, in an interview with Europe 1, the minister accused academics of “intellectual complicity with terrorism”, adding that “Islamo-leftism wreaks havoc in the University”… “favoring an ideology that only spells trouble”. Explaining himself further in Le Journal Du Dimanche, on October 24, Blanquer reiterated these accusations, specifying: "There is a fight to be waged against an intellectual matrix coming from American universities and intersectional theses that want to essentialize communities and identities, at the antipodes of the Republican model, which postulates the equality between human beings, independently of their characteristics of origin, sex, religion. It is the breeding ground for a fragmentation of societies that converges with the Islamic model”.
      A Darwinian law

      Such accusations and interferences have provoked many reactions of indignation, including that of the Conférence of University Presidents. However, nothing was sufficient to see the attack off. On Friday evening, after the launch of a fast-track procedure that effectively muzzled the debate, the Senate approved the research programming law. In many respects, this is the umpteenth banal neo-liberal, or, more exactly, admittedly Darwinian, reform of the French university: precarisation of the work of teachers, concentration of the funds on a limited number of “excellent” poles and individuals, promotion of competition between individuals, institutions and countries, strengthening of the managerial management of research, weakening of national guarantee structures and, more generally, weakening of self-governance bodies.

      But this law also contains a clear and astounding plan to redefine the respective roles of science and politics. The article of the law currently in force, which very effectively and elegantly defined the meaning of academic freedom:

      “Teacher and researchers enjoy full independence and complete freedom of expression in the exercise of their teaching functions and their research activities, subject to the reservations imposed on them, in accordance with university traditions and the provisions of this code, the principles of tolerance and objectivity”, has been amended by the addition of this sentence:

      “Academic freedoms are exercised with respect for the values ​​of the Republic”

      This addition which is in itself an outrage against the principles of the separation of powers and academic freedom has been joined by an explicit reference to the events of these days:

      “The terrible tragedy in Conflans-Sainte-Honorine shows more than ever the need to preserve, within the Republic, the freedom to teach freely and to educate the citizens of tomorrow”, states the explanatory memorandum. "The purpose of this provision is to enshrine this in law so that these values, foremost among which is secularism, constitute the foundation on which academic freedoms are based and the framework in which they are expressed.”

      The emotion engendered by the murder of innocent people was therefore well and truly exploited in an ignoble manner to serve the anti-democratic objective of limiting academic freedoms and setting the choices of the subjects to be studied, as well as the “intellettual matrix” to be adopted under the surveillance today of the presidential majority and tomorrow, who knows?

      To confirm this reading of the priorities of the majority and the fears it arouses, on Sunday November 1, Thierry Coulhon, adviser to the President of the Republic was appointed, through a “Blitzkrieg”, head of the Haut Council for the Evaluation of Research and Higher Education (Hceres), the national body responsible for the evaluation of research.

      A few details of this law, including the amendment on the limits of research freedom, may still change in the joint committee to be held on November 9. But the support of academics, individuals, organizations, scholarly journals, for the Solemn appeal for the protection of academic freedom and the right to study is now more urgent and necessary than ever.

      https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/academic-freedom-in-the-context-of-frances-new-approach-to-separatism

    • Les sciences sociales contre la République ?

      Le 2 novembre 2020, l’AG des Revues en Lutte a répondu dans Le Monde au ministre J.-M. Blanquer qui entend combattre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises », au prétexte de la lutte anti-terroriste.

      Cette tribune, que nous reproduisons ci-dessous, rejoint de très nombreuses prises de position récentes, contre l’intervention de J.-M. Blanquer, mais aussi contre E. Macron qui accuse les universitaires de « casser la République en deux » et contre deux amendements ajoutés à la LPPR (déjà parfaitement délétère) au Sénat : « les libertés académiques s’exercent dans le respect des valeurs de la République » et « les trouble-fête iront en prison ».

      Voici quelques-unes de ces prises de position :

      - Appel solennel pour la protection des libertés académiques et du droit d’étudier, sur Academia : https://academia.hypotheses.org/27287
      - Libertés académiques : des amendements à la loi sur la recherche rejetés par des sociétés savantes, dans Le Monde : https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/11/02/libertes-academiques-des-amendements-a-la-loi-sur-la-recherche-rejetes-par-d
      – Lettre ouverte aux Parlementaires, par Facs et labos en lutte, RogueESR, Sauvons l’Université et Université Ouverte : rogueesr.fr/lettre-ouverte-lpr/
      - Communiqué de presse : retrait de 3 amendements sénatoriaux à la LPR, par le collectif des sociétés savantes académiques : https://societes-savantes.fr/communique-de-presse-retrait-de-3-amendements-senatoriaux-a-la-lpr
      – « Cette attaque contre la liberté académique est une attaque contre l’État de droit démocratique », dans Le Monde : https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/11/02/cette-attaque-contre-la-liberte-academique-est-une-attaque-contre-l-etat-de-
      - Communique de presse national, par Facs et labos en lutte, RogueESR, Sauvons l’Université et Université Ouverte : rogueesr.fr/communique_suspendre_lpr/
      - Intersectionnalité : Blanquer joue avec le feu, par Rose-Marie Lagrave : https://www.liberation.fr/debats/2020/11/03/intersectionnalite-blanquer-joue-avec-le-feu_1804309
      - Qui est complice de qui ? Les libertés académiques en péril, par Eric Fassin : https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/011120/qui-est-complice-de-qui-les-libertes-academiques-en-peril
      - Les miliciens de la pensée et la causalité diabolique, par Seloua Luste Boulbina : https://blogs.mediapart.fr/seloua-luste-boulbina/blog/021120/les-miliciens-de-la-pensee-et-la-causalite-diabolique
      - L’islamo-gauchisme : comment (ne) naît (pas) une idéologie, par Samuel Hayat : https://www.nouvelobs.com/idees/20201027.OBS35262/l-islamo-gauchisme-comment-ne-nait-pas-une-ideologie.html
      – Après Conflans : gare aux mots de la démocratie, par Olivier Compagnon : https://universiteouverte.org/2020/10/27/apres-conflans-gare-aux-mots-de-la-democratie
      – Toi qui m’appelles islamo-gauchiste, laisse-moi te dire pourquoi le lâche, c’est toi, par Alexis Dayon : https://blogs.mediapart.fr/alexis-dayon/blog/221020/toi-qui-mappelles-islamo-gauchiste-laisse-moi-te-dire-pourquoi-le-la
      - « Que le terme plaise ou non, il y a bien une islamophobie d’État en France », par Jean-François Bayart : https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/jean-francois-bayart-que-le-terme-plaise-ou-non-il-y-a-bien-une-islamophobie

      On peut également mentionner les nombreux numéros de revues académiques, récents ou à venir, portant sur l’intersectionnalité, cœur de l’attaque du gouvernement. Les Revues en Lutte en citent plusieurs dans un superbe fil Twitter (https://twitter.com/RevuesEnLutte/status/1321861736165711874?s=20).

      Un collectif de revues de sciences humaines et sociales (SHS) met au défi le ministre de l’éducation nationale de trouver dans ses publications des textes permettant de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste.

      Tribune

      Dans le JDD du 25 octobre, le ministre de l’éducation nationale déclarait qu’il y avait, dans les universités, un combat à mener. Contre l’appauvrissement de l’enseignement supérieur ? Contre la précarité étudiante ? Contre les difficultés croissantes que rencontrent tous les personnels, précaires et titulaires, enseignants et administratifs, à remplir leurs missions ? Contre la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), qui va amplifier ces difficultés ? Non : contre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises ». Et le ministre, téméraire : face à cette « gangrène », il faut cesser la « lâcheté ».

      On reste abasourdi qu’un ministre de l’éducation nationale s’en prenne ainsi à celles et ceux qui font fonctionner les universités. Mais pour aberrants qu’ils soient, ces propos n’étonnent pas tout à fait : déjà tenus, sur Europe 1 et au Sénat, ils prolongent ceux d’Emmanuel Macron, en juin 2020, dans Le Monde, qui accusait les universitaires d’ethniciser la question sociale et de « casser la République en deux ». Plutôt que de se porter garant des libertés académiques, attaquées de toutes parts, notamment dans le cadre du débat parlementaire actuel, Jean-Michel Blanquer se saisit de l’assassinat d’un professeur d’histoire et géographie pour déclarer la guerre aux sciences sociales, qui défendraient des thèses autorisant les violences islamistes ! Sa conviction est faite : ce qui pourrit les universités françaises, ce sont les « thèses intersectionnelles », venues des « universités américaines » et qui « veulent essentialiser » les communautés.
      Ignorance ministérielle

      Le ministre « défie quiconque » de le contredire. Puisque les revues scientifiques sont, avec les laboratoires et les universités, les lieux d’élaboration des sciences sociales, de leurs controverses, de la diffusion de leurs résultats, c’est à ce titre que nous souhaitons mener cette contradiction, ses propos révélant son ignorance de nos disciplines, de leurs débats et de leurs méthodes.

      La démarche scientifique vise à décrire, analyser, comprendre la société et non à décréter ce qu’elle doit être. Les méthodes des sciences sociales, depuis leur émergence avec Emile Durkheim dans le contexte républicain français, s’accordent à expliquer les faits sociaux par le social, précisément contre les explications par la nature ou l’essence des choses. A ce titre, elles amènent aussi à rendre visibles des divisions, des discriminations, des inégalités, même si elles contrarient. Les approches intersectionnelles ne sont pas hégémoniques dans les sciences sociales : avec d’autres approches, que, dans leur précieuse liberté, les revues font dialoguer, elles sont précisément l’un des outils critiques de la désessentialisation du monde social. Néologisme proposé par la juriste états-unienne Kimberlé Crenshaw à la fin des années 1980, le terme « intersectionnalité » désigne en outre, dans le langage actuel des sciences sociales, un ensemble de démarches qui en réalité remontent au XIXe siècle : il s’agit d’analyser la réalité sociale en observant que les identités sociales se chevauchent et que les logiques de domination sont plurielles.

      Dès 1866, Julie-Victoire Daubié, dans La Femme pauvre au XIXe siècle, montre la particularité de la situation des ouvrières, domestiques et prostituées obligées de travailler pour survivre, faisant des femmes pauvres une catégorie d’analyse pour le champ de la connaissance et de la politique, alors que lorsqu’on parlait des pauvres, on pensait surtout aux hommes ; et que lorsqu’on parlait des femmes, on pensait avant tout aux bourgeoises.
      Une politique répressive de la pensée

      Plus près de nous, l’équipe EpiCov (pour « Epidémiologie et conditions de vie »), coordonnée par la sociologue Nathalie Bajos et l’épidémiologiste Josiane Warszawski, vient de publier des données concernant l’exposition au Covid-19 à partir de critères multiples parmi lesquels la classe sociale, le sexe, le lieu de naissance. Une première lecture de ces données indique que les classes populaires travaillant dans la maintenance (plutôt des hommes) et dans le soin (plutôt des femmes) ont été surexposées, et que, parmi elles, on compte une surreprésentation de personnes nées hors d’Europe. Une analyse intersectionnelle cherchera à corréler ces données, entre elles et avec d’autres disponibles, pour mieux comprendre comment les discriminations s’entrelacent dans la vie des personnes. Où sont l’essentialisation, l’encouragement au communautarisme ? Pour les chercheurs et chercheuses en sciences sociales, il s’agit simplement, à partir de données vérifiées par des méthodes scientifiques, validées entre pairs et ouvertes à la discussion, de faire leur travail.

      L’anathème que le ministre lance traduit une politique répressive de la pensée. Nous mettons M. Blanquer au défi de trouver un seul texte publié dans la bibliothèque ouverte et vivante de nos revues qui permette de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste. Se saisir d’un mot, « intersectionnalité », pour partir en guerre contre les sciences sociales et, plus généralement, contre la liberté de penser et de comprendre la société, est une manœuvre grossière. Si elle prend, nos universités devront troquer la liberté de chercher (qui est aussi la liberté de se tromper) pour rien moins qu’une science aux ordres, un obscurantisme ministériel. On voit mal comment la République pourrait en sortir grandie.

      https://universiteouverte.org/2020/11/03/les-sciences-sociales-contre-la-republique

    • Islamisme : où est le déni des universitaires   ?

      Dans une tribune publiée par « le Monde », une centaine de professeurs et de chercheurs dénoncent les « idéologies indigénistes, racialistes et décoloniales » de leurs pairs, lesquelles mèneraient au terrorisme. Les auteurs rejouent ainsi la rengaine du choc des cultures qui ne peut servir que l’extrême droite identitaire.

      Comment peut-on prétendre alerter sur les dangers, réels, cela va sans dire, de l’islamisme en se référant aux propos confus et injurieux de Jean-Michel Blanquer ? Or, une récente tribune du Monde (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-), au lieu de contribuer à une nécessaire clarification, n’a pas d’autre fonction que de soutenir un ministre qui, loin de pouvoir se prévaloir d’une quelconque expertise sur les radicalités contemporaines, mène en outre une politique régressive pour l’école, c’est-à-dire indifférente à la reproduction des inégalités socio-culturelles dont s’accommode l’idéologie méritocratique. Faire oublier cette politique en détournant l’attention, d’autres que lui l’ont fait. Il convient seulement de ne pas être dupe.

      Car que disent les auteurs (certains d’entre eux, fort estimables, ont probablement oublié de relire) ? Que « l’islamo-gauchisme », ni défini ni corrélé au moindre auteur, est l’idéologie « qui mène au pire », soit au terrorisme. Ceux qui la propagent dans nos universités, « très puissants dans l’enseignement supérieur », commettraient d’irréparables dégâts. Et l’on invoque pêle-mêle l’indigénisme, le racialisme et le décolonialisme, sans le moindre souci de complexification, ni même de définition, souci non utile tant le symptôme de la supposée gangrène serait aisément repérable : le port du voile.

      Plus de trente ans après l’affaire de Creil, et quantité de travaux sociologiques, on n’hésite donc toujours pas à nier l’équivocité de ce signe d’appartenance pour le réduire à un outil de propagande. Chercher à comprendre, au lieu de condamner, serait une manifestation de l’esprit munichois. Que la Conférence des présidents d’université (CPU) proteste contre les déclarations du ministre, en rappelant utilement la fonction des chercheurs, passe par pertes et profits, l’instance que l’on ne peut soupçonner d’un quelconque gauchisme étant probablement noyautée par des islamistes dissimulés !

      Cette tribune rejoue, une fois encore, une vieille rengaine, celle du #choc_des_civilisations : « haine des Blancs », « doxa antioccidentale », « #multiculturalisme » (!), voilà les ennemis dont les universitaires se réclameraient, ou qu’ils laisseraient prospérer, jusqu’à saper ce qui fait le prix de notre mode de vie. Au demeurant, les signataires de la présente tribune sont profondément attachés aux principes de la République et, en l’espèce, à la liberté de conscience et d’expression. C’est au nom de celle-ci qu’ils se proposent de dénoncer les approximations de leurs collègues.

      Choisir le #débat plutôt que l’#invective

      Concernant l’#indigénisme, sa principale incarnation, le Parti des indigènes de la République (PIR) a totalement échoué dans sa volonté d’être audible dans nos enceintes universitaires. Chacun sait bien que l’écho des thèses racistes, antisémites et homophobes d’#Houria_Bouteldja est voisin de zéro. Quant au #décolonialisme, auquel l’indigénisme se rattache mais qui recouvre quantités d’autres thématiques, il représente bien un corpus structuré. Néanmoins, les études sur son influence dans nos campus concluent le plus souvent à un rôle marginal. Et, quoi qu’il en soit, ses propositions méritent débat parce qu’elles se fondent sur une réalité indiscutable : celle de l’existence d’injustices « épistémiques », c’est-à-dire d’#injustices qui se caractérisent par les #inégalités d’accès, selon l’appartenance raciale ou de genre, aux positions académiques d’autorité.

      D’une façon générale, il ne fait aucun doute que la communauté scientifique a, dans le passé, largement légitimé l’idée de la supériorité des hommes sur les femmes, des Blancs sur les Noirs, des « Occidentaux » sur les autochtones, etc. Mais, à partir de ce constat, les décoloniaux refusent la possibilité d’un point de vue universaliste et objectif au profit d’une épistémologie qui aurait « une couleur et une sexualité ». Ce faisant, ils oublient #Fanon dont pourtant ils revendiquent l’héritage : « Chaque fois qu’un homme a fait triompher la dignité de l’esprit, chaque fois qu’un homme a dit non à une tentative d’asservissement de son semblable, je me suis senti solidaire de son acte. En aucune façon je ne dois tirer du passé des peuples de couleur ma vocation originelle. […] Ce n’est pas le monde noir qui me dicte ma conduite. Ma peau noire n’est pas dépositaire de valeurs spécifiques. » Nous devons choisir le débat plutôt que l’invective.

      L’obsession antimulticulturaliste

      Quant à l’obsession antimulticulturaliste (« #prêchi-prêcha », écrivent-ils), elle est ignorante de ce qu’est vraiment ce courant intellectuel. A de nombreux égards, ce dernier propose une conception de l’#intégration différente de celle cherchant à assimiler pour égaliser. Il est donc infondé de le confondre avec une vision ethno-culturelle du lien politique. Restituer à l’égal sa différence, tel est le projet du multiculturalisme, destiné en définitive à aller plus loin dans l’instauration de l’#égalité que n’était parvenue à le faire la solution républicaine classique. Le meilleur de ce projet, mais non nécessairement sa pente naturelle, est sa contribution à ce que l’un de nous nomme la « #décolonisation_des_identités » (Alain Renaut), conciliation que les crimes de la #colonisation avaient rendue extrêmement difficile. Bref, nous sommes très éloignés du « prêchi-prêcha ».

      Enfin, un mot sur la « #haine_des_Blancs ». Cette accusation est non seulement stupéfiante si elle veut rendre compte des travaux universitaires, mais elle contribue à l’#essentialisation « racialiste » qu’elle dénonce. En effet, elle donne une consistance théorique à l’apparition d’un nouveau groupe, les Blancs, qui auparavant n’était pas reconnu, et ne se reconnaissait pas, comme tel. Dès lors, en présupposant l’existence d’une idéologie racialiste anti-française, anti-blanche, on inverse les termes victimaires en faisant de la culture dominante une culture assiégée. Ce tour de passe-passe idéologique ne peut servir que l’extrême droite identitaire.

      Toutes nos remarques critiques montrent qu’au lieu d’amorcer un nécessaire débat, la tribune ici analysée témoigne du déni dont pourtant des intellectuels non clairement identifiés sont accusés. Comment interpréter ce « manifeste » autrement que comme un appel à censurer ?

      https://www.liberation.fr/debats/2020/11/04/islamisme-ou-est-le-deni-des-universitaires_1804439

    • « Les libertés sont précisément foulées aux pieds lorsqu’on en appelle à la dénonciation d’études et de pensée »

      Environ deux mille chercheurs et chercheuses dénoncent, dans une tribune au « Monde », l’appel à la police de la pensée dans les universités signé par une centaine d’universitaires en soutien aux propos de Jean-Michel Blanquer sur « l’islamo-gauchisme ».

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/11/04/les-libertes-sont-precisement-foulees-aux-pieds-lorsqu-on-en-appelle-a-la-de

    • Open Letter: the threat of academic authoritarianism – international solidarity with antiracist academics in France

      A critical response to the Manifesto signed by over 100 French academics and published in the newspaper Le Monde on 2 November 2020, after the assassination of the school teacher, Samuel Paty.

      At a time of mounting racism, white supremacism, antisemitism and violent far-right extremism, academic freedom has come under attack. The freedom to teach and research the roots and trajectories of race and racism are being perversely blamed for the very phenomena they seek to better understand. Such is the contention of a manifesto signed by over 100 French academics and published in the newspaper Le Monde on 2 November 2020. Its signatories state their agreement with French Minister of Education, Jean-Michel Blanquer, that ‘indigenist, racialist, and “decolonial” ideologies,’ imported from North America, were responsible for ‘conditioning’ the violent extremist who assassinated school teacher, Samuel Paty, on 16 October 2020.

      This claim is deeply disingenuous, and in a context where academics associated with critical race and decolonial research have recently received death threats, it is also profoundly dangerous. The scholars involved in this manifesto have readily sacrificed their credibility in order to further a manifestly false conflation between the study of racism in France and a politics of ‘Islamism’ and ‘anti-white hate’. They have launched it in a context where academic freedom in France is subject to open political interference, following a Senate amendment that redefines and limits it to being ‘exercised with respect for the values of the Republic’.

      The manifesto proposes nothing short of a McCarthyist process to be led by the French Ministry for Higher Education, Research and Innovation to weed out ‘Islamist currents’ within universities, to take a clear position on the ‘ideologies that underpin them’, and to ‘engage universities in a struggle for secularism and the Republic’ by establishing a body responsible for dealing with cases that oppose ‘Republican principles and academic freedom’. The ‘Islamogauchiste’ tag (which conflates the words ‘Islam’ and ‘leftists’) is now widely used by members of the government, large sections of the media and hostile academics. It is reminiscent of the antisemitic ‘Judeo-Bolshevism’ accusation in the 1930s which blamed the spread of communism on Jews. The ‘Islamogauchiste’ notion is particularly pernicious as it voluntarily confuses Islam (and Muslims) with Jihadist Islamists. In other words, academics who point out racism against the Muslim minority in France are branded allies of Islamist terrorists and enemies of the nation.

      This is not the only contradiction that shapes this manifesto. Its signatories appear oblivious to how its feverish tone is redolent of the antisemitic witch-hunts against so-called ‘Cultural Marxists’ that portrayed Jewish intellectuals as enemies of the state. Today’s enemies are Muslims, political antiracists, and decolonial thinkers, as well as anyone who stands with them against rampant state racism and Islamophobia.

      Further, when seen in a global context, the question of who is in fact ‘importing’ ideas from North America is worth considering. The manifesto comes on the back of the Trump administration’s executive order ‘on Combating Race and Sex Stereotyping’ which effectively bans federal government contractors or subcontractors from engaging what are characterised as ideologies that portray the United States as ‘fundamentally racist or sexist’. Quick on Trump’s heels, the British Conservative Party moved to malign Critical Race Theory as a separatist ideology that, if taught in schools, would be ‘breaking the law’.

      We are concerned about the clear double standards regarding academic freedom in the attack on critical race and decolonial scholarship mounted by the manifesto. In opposition to the actual tenets of academic freedom, the demands it makes portray any teaching and research into the history or sociology of French colonialism and institutionalised racism as an attack on academic freedom. In contrast, falsely and dangerously linking these scholarly endeavours to Islamic extremism and holding scholars responsible for brutal acts of murder, as do the signatories of the Manifesto, is presented as consistent with academic freedom.

      This is part of a global trend in which racism is protected as freedom of speech, while to express antiracist views is regarded as a violation of it. For the signatories of the manifesto – as for Donald Trump – only sanitised accounts of national histories that omit the truth about colonialism, slavery, and genocide can be antiracist. In this perverse and ahistorical vision, to engage in critical research and teaching in the interests of learning from past injustices is to engage in ‘anti-white racism’, a view that reduces racism to the thoughts of individuals, disconnecting it from the actions, laws and policies of states and institutions in societies in which racial socioeconomic inequality remains rife.

      In such an atmosphere, intellectual debate is made impossible, as any critical questioning of the role played by France in colonialism or in the current geopolitics of the Middle East or Africa, not to mention domestic state racism, is dismissed as a legitimation of Islamist violence and ‘separatism’. Under these terms, the role of political and economic elites in perpetuating racism both locally and on a global scale remains unquestioned, while those who suffer are teachers and activists attempting to improve conditions for ordinary people on the ground.

      In the interests of a real freedom, of speech and of conscience, we stand with French educators under threat from this ideologically-driven attack by politicians, commentators and select academics. It is grounded in the whitewashing of the history of race and colonialism and an Islamophobic worldview that conflates all Muslims with violence and all their defenders with so-called ‘leftist Islamism’. True academic freedom must include the right to critique the national past in the interests of securing a common future. At a time of deep polarization, spurred by elites in thrall to white supremacism, defending this freedom is more vital than ever.

      https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/open-letter-the-threat-of-academic-authoritarianism-international-sol

    • Qui pour soutenir les « coupables de dérives intellectuelles idéologiques dans les universités » ?

      Mercredi 25 novembre 2020 : deux députés demandent la « création d’une mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires », et le font publiquement savoir par un communiqué de presse.

      Ni la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, ni la Conférence des présidents d’université, ni l’Udice, l’association autoproclamée des dix plus grandes « universités de recherche » françaises, ne bougent le petit doigt.

      Jeudi 26 novembre 2020 : l’un des deux députés précédents, un certain Julien Aubert, se sentant pousser des ailes, décide d’aller plus loin, et dresse une liste de sept universitaires, dont un président d’université, qui ont en commun d’avoir dit sur les réseaux sociaux le dégoût que leur inspire l’idée même de « dérives intellectuelles idéologiques ». Publiant leurs photos de profils et leurs comptes Twitter personnels, le député jubile, avec le message suivant :

      « Les coupables s’autodésignent. Alors que la privation du débat, l’ostracisation et la censure est constatée par nombre de professeurs, étudiants ou intellectuels, certains se drapent dans des accusations de fascisme et de maccarthysme. »

      La ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, la Conférence des présidents d’université et l’Udice ne bougent pas davantage le petit doigt.

      Vendredi 27 novembre 2020 : L’Auref, l’Alliance des universités de recherche et de formation, qui regroupe rien de moins que 35 universités, décide de sortir du bois, et il faut la saluer. Il faut dire, aussi, que l’un de ses membres, le président de l’université de Bordeaux Montaigne, figure par les « coupables » désigné par le député Aubert. Le communiqué choisit de rester tout en rondeur : il « appelle à plus de calme et de retenue dans les propos, de dignité et de respect de l’autre dans le légitime débat public, de mobilisation sur les vrais enjeux de la France et de son université ». Mais il a le mérite, lui, d’exister.

      L’université de Rennes 2, de son côté, annonce se réserver « le droit de donner une suite juridique à cette dérive grave ». C’est en effet une vraie question, à tout le moins sur le terrain de la diffamation.

      Du côté de la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, de la Conférence des présidents d’université et de l’Udice, en revanche, rien. Toujours rien. Désespérément rien.

      Ils bougeront un jour, c’est sûr, il le faudra bien, comme ils avaient bougé après les propos de Jean-Michel Blanquer sur l’islamo-gauchisme. Mais bouger comme ils le font, à la vitesse d’escargots réticents, ce n’est pas un soutien résolu et indéfectible dans la défense des libertés académiques. Ces gens ne sont tout simplement pas à la hauteur de l’Université.

      https://academia.hypotheses.org/29081

    • Chasse aux sorcières. Un député contre-attaque

      Loi recherche, libertés académiques et furie parlementaire..
      Comme elles venaient cette fois de députés, j’ai demandé au Président de l’@AssembleeNat de se saisir des attaques personnelles contre des personnels de l’enseignement supérieur et de la recherche.
      Rien ne va plus.

      https://twitter.com/Sebastien_Nadot/status/1332350483437150209


      https://academia.hypotheses.org/29133

      #Sébastien_Nadot

    • La liste des coupables s’allonge. Au tour des universités ?

      Au Journal officiel de ce 3 décembre 2020, on trouve le décret portant dissolution d’un « #groupement_de_fait », l’« Association de défense des droits de l’homme – #Collectif_contre_l’islamophobie_en_France » (https://www.legifrance.gouv.fr/download/pdf?id=-nWvo0jS6QqmBjWn9EPe_u_AvWkqbw3aGTWSBldcbDg=). Cette association était plus connue sous le nom de « #CCIF ».

      Ce décret de #dissolution inhabituellement long – trois pages – a déjà largement été commenté et dénoncé1. Academia se permet néanmoins d’insister sur un point : il est important de lire avec attention l’argumentation de ce décret — ce qu’en droit, on nomme les motifs — et d’observer par quels sautillements logiques le gouvernement en arrive aux pires conclusions. C’est même crucial pour la communauté de l’ESR, dans un contexte bien particulier d’attaques contre les libertés académiques. Certes, ce n’est pas la même artillerie qui est déployée contre le CCIF, d’un côté, et contre les universités et les scientifiques, de l’autre ; mais les petits bonds logiques qui y conduisent présentent de très fortes ressemblances.

      Prenons le premier des motifs du décret :

      « En qualifiant d’islamophobes des mesures prises dans le but de prévenir des actions terroristes et de prévenir ou combattre des actes punis par la loi, [le CCIF] doit être regardé comme partageant, cautionnant et contribuant à propager de telles idées, au risque de susciter, en retour, des actes de haine, de violence ou de discrimination ou de créer le terrain d’actions violentes chez certains de ses sympathisants ».

      Et voyons à quelle conclusion ce motif conduit :

      « Considérant que par suite, [le CCIF] doit être regardé comme provoquant à la haine, à la discrimination et à la violence en raison de l’origine, de l’appartenance à une ethnie, à une race ou à une religion déterminée et comme propageant des idées ou théories tendant à justifier ou encourager cette discrimination, cette haine ou cette violence ».

      Voilà donc un raisonnement qui se déploie de manière très décomplexée. Voir de l’islamophobie dans certaines évolutions arbitraires et discriminatoires de l’action anti-terroriste, c’est, première conséquence, prendre le « risque » de susciter du terrorisme ; et dans tous les cas, cela doit, seconde conséquence, être regardé comme une provocation à la haine, à la discrimination et à la violence en raison de l’origine, de l’appartenance à une ethnie, à une race ou à une religion déterminée et comme une propagation des idées ou théories tendant à justifier ou encourager cette discrimination, cette haine ou cette violence.

      Ce mode bien particulier de raisonnement appelle deux remarques.

      La première remarque a trait au choix bien précis des mots qui sont employés dans le décret de dissolution du 2 décembre 2020. Ce décret fait référence, en réalité, à deux infractions pénales :

      - Il suggère d’abord l’infraction de provocation directe à des actes de terrorisme. Au terme de l’article 421-2-5 du code pénal, en effet, « le fait de provoquer directement à des actes de terrorisme ou de faire publiquement l’apologie de ces actes est puni de cinq ans d’emprisonnement et de 75 000€ d’amende ».
      - Il suggère ensuite l’infraction d’incitation à la haine, à la violence ou à la discrimination raciale. Au terme de l’article 24 de la loi du 29 juillet 1881 sur la liberté de la presse, en effet, « ceux qui auront provoqué à la discrimination, à la haine ou à la violence à l’égard d’une personne ou d’un groupe de personnes à raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non-appartenance à une ethnie, une nation, une race ou une religion déterminée, seront punis d’un an d’emprisonnement et de 45 000 euros d’amende ou de l’une de ces deux peines seulement ».

      Mais le décret ne fait que suggérer ces infractions : il en reprend des formules, mais il ne dit pas qu’elles ont été commises par le CCIF. Il ne le dit pas parce que ces infractions n’ont pas été commises. Si elles l’avaient été, des poursuites pénales auraient immédiatement été engagées. Les outils de la police administrative — ici la dissolution d’une association — viennent donc suppléer les outils de la répression pénale, en singeant ces derniers : puisque le CCIF n’était pas sérieusement attaquable devant le juge pénal, le pouvoir exécutif choisit de l’attaquer par la voie administrative, et pour cela, il mime le vocabulaire pénal, tout en s’affranchissant, évidemment, de toutes les garanties qui caractérisent le procès pénal.

      La seconde remarque est, pour les universités, la plus importante. La dissolution du CCIF est largement justifiée par des propos tenus par l’association et ses dirigeants, au titre de leur liberté d’expression et sans qu’aucune infraction pénale n’ait été commise. La Ligue des droits de l’homme l’a bien identifié dans son communiqué : avec ce décret « le gouvernement s’engage sur la voie du délit d’opinion », un délit qui, précisément, n’existe pas. Un des motifs retenus dans le décret est, de ce point de vue, significatif :

      « sous couvert de dénoncer les actes de discriminations commis contre les musulmans, [le CCIF] défend et promeut une notion d’islamophobie particulièrement large, n’hésitant pas à comptabiliser au titre des ‘actes islamophobes‘ des mesures de police administrative, voire des décisions judiciaires, prises dans le cadre de la lutte contre le terrorisme ».

      Ainsi donc, qualifier des pans de la lutte contre le terrorisme d’actes « islamophobes » est désormais interdit. Ce n’est pas interdit sur le plan pénal ; mais c’est sanctionné par le pouvoir exécutif, qui use pour cela de ses outils de police administrative.
      Quels enseignements pour l’enseignement supérieur et la recherche ?

      Ces petits bonds logiques grâce auxquels Emmanuel Macron, Jean Castex et Gérald Darmanin, les trois signataires du décret, justifient des atteintes à la libre expression sont évidemment inquiétants quant à l’état général des droits et libertés en France. Or, on observe quelques tressaillements du même ordre du côté de l’enseignement supérieur et de la recherche, et c’est sur ce point que nous aimerions insister à présent. Bien sûr, la situation du CCIF et celle de l’ESR restent incomparables, dans la mesure où, du côté de l’ESR, la grande machinerie de la police administrative n’a pas été mise en branle comme elle l’a été pour le CCIF. En revanche, des petits bonds logiques du même ordre que ceux dont le CCIF a été victime se multiplient jusqu’au sein des plus prestigieux établissements d’enseignement supérieur et de recherche. Plus inquiétant encore, ils se diffusent dans des cercles de plus en plus officiels au parlement et au gouvernement.

      L’établissement de relations entre des recherches scientifiques, d’un côté, et des qualifications pénales, de l’autre, sans pour autant que le moindre début de délit ne puisse être établi, se retrouve désormais couramment sous la plume de certain·es universitaires. Nathalie Heinich, directrice de recherche CNRS (classe exceptionnelle), membre du Centre de recherches sur les arts et le langage (CNRS/ EHESS), s’y prête allègrement par exemple : comme elle l’a récemment déclaré au Times Higher Education2, « les affirmations des universitaires sur le ‘racisme systématique’ et le ‘racisme d’État’ sont un encouragement direct au terrorisme ». Un encouragement direct au terrorisme, dit-elle : la référence à l’article 421-2-5 du code pénal, évoqué plus haut, est à nouveau explicite. À l’instar de ce que fait le pouvoir exécutif dans le décret de dissolution du CCIF, le vocabulaire du droit pénal est appelé à la rescousse pour attaquer certaines formes d’expression, sans, pour autant, qu’aucun début d’infraction pénale ne puisse être mobilisé.

      Ces références mal contrôlées au droit pénal auxquelles se livrent certain·es universitaires ne sont pas sans effets. Elles sont désormais reprises non sans opportunisme par certaines des plus hautes autorités de l’État. C’est le cas du député Julien Aubert qui, après avoir appelé avec le président du groupe des Républicains de l’Assemblée nationale à la mise en place d’une « mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires », dresse des listes d’universitaires qu’il désigne comme « coupables ». C’est le cas, aussi, du ministre de l’Éducation nationale Jean-Michel Blanquer lorsqu’il parle, à propos des universités, de « complicité intellectuelle du terrrorisme ».

      Quand un parlementaire et un ministre, l’un et l’autre de premier plan, décident de mobiliser du vocabulaire pénal et de parler de « culpabilité » et de « complicité » à propos d’universitaires, il y a lieu d’être inquiet·es. Pour Jean-Michel Blanquer, agrégé de droit public, ces références pénales se font en toute connaissance de cause, d’ailleurs, si l’on veut bien se souvenir que, dans son autre vie, il a publié des travaux très sérieux au sujet des relations entre responsabilité pénale et responsabilité politique. Notons que l’un de ses ouvrages s’appelait La responsabilité des gouvernants, ce qui, c’est le moins qu’on puisse dire, est un titre qui résonne aujourd’hui étrangement concernant le ministre Blanquer.

      Dans un tel contexte, le décret de dissolution du CCIF est riche d’enseignements et justifie ce long billet d’Academia. Résumons les choses : si le CCIF a été dissout, ce n’est pas sur la base d’infractions pénales, puisqu’il n’était pas sérieusement possible d’actionner ces infractions, alors même qu’on n’a cessé d’en étendre le champ depuis vingt ans. Si le CCIF a été dissout, c’est par des références abusives à des infractions pénales, sur la base de quoi des mesures de police administrative ont été actionnées par le pouvoir exécutif, dont les motifs, nous l’avons vu, se situent d’abord et avant tout sur le terrain de la liberté d’expression.

      Que peut-on dans ces conditions craindre pour l’enseignement supérieur et la recherche ? Dès lors que l’on observe, aujourd’hui, que des collègues et du personnel politique de premier plan singent eux aussi des infractions pénales pour critiquer des recherches scientifiques, on peut légitimement craindre qu’un mouvement de terrain du même ordre que celui dont le CCIF a été la victime se réalise s’agissant des universités. Tout y mène.

      L’exclusion du champ académique

      Ce risque ne viendra sans doute pas du droit pénal lui-même, en tout cas pas dans un premier temps. Certes, on se souvient que la loi de programmation de la recherche a déjà étendu brusquement le champ du droit pénal universitaire, avec le nouveau délit d’atteinte au bon ordre et à la tranquillité des établissements. Mais on peut espérer que ce délit ne sorte pas sans dommage du contrôle du Conseil constitutionnel ; surtout, il ne suffira pas pour attaquer les recherches qui représentent « un encouragement direct au terrorisme », pas plus que la législation pénale anti-terroriste n’a suffi pour s’attaquer aux propos du CCIF. C’est donc vers de nouvelles formes juridiques de contraintes, autres que celles que propose le droit pénal, que le débat est en train de se déplacer plus ou moins consciemment, comme il s’est déplacé pour le CCIF. La voie la plus simple, pour cela, consiste à inventer de nouvelles limites à la libre expression des enseignant·es et des chercheur·ses, afin d’exclure du champ académique, et donc du champ des libertés académiques, certains propos et certain·es collègues.

      Cette démarche d’exclusion hors du champ des libertés académiques, dont les fondements épistémologiques ne sont pas neufs3, a pris une dimension professionnelle particulière depuis quelques années. Épistémologiquement, il s’agit de « faire coupure » entre ce qui est bonne science et mauvaise science, selon un principe médical de l’amputation pour éviter la propagation de la gangrène au corps entier : certain·es rappellent ainsi régulièrement que les sciences sociales critiques ne sont pas des sciences militantes, l’invocation du « militantisme » disqualifiant la légitimité épistémologique des travaux menés par des hommes et des femmes engagé∙es. Olivier Beaud, voix écoutée et reconnue de l’association Qualité de la science française, s’exprimait ainsi dans Le Monde du 2 décembre :

      « Je refuse l’inquisition politique mais je refuse aussi le silence qui serait de la lâcheté intellectuelle et reviendrait à cautionner des universitaires dont la pratique serait de surdéterminer leurs recherches censément scientifiques (donc objectives) par des considérations lourdement idéologiques, fût-ce au motif de défendre telle ou telle minorité ».

      L’article du Monde précise ensuite les propos d’Olivier Beaud : selon lui, des universitaires « radicaux » auraient délaissé la distinction opérée par Max Weber entre le « jugement de fait », qui fonde leurs recherches, et le « jugement de valeur », qui fonde leurs opinions.

      En se référant ainsi à la « neutralité axiologique » de Max Weber, Olivier Beaud tord la pensée d’un homme profondément engagé dans la construction de l’État prussien par les sciences économiques et sociales. Par chance pour notre démonstration, la traduction commandée à Julien Freund par Raymond Aron et parue en 1963 dans un contexte de guerre froide, a fait récemment l’objet de plusieurs éditions critiques qui retraduisent en français le texte original Du métier de savant (Wissenschaft als Beruf, 1917)4. Pour celles et ceux qui ont eu accès au texte de Weber par la seule traduction française, la lecture de cette traduction révisée est très éclairante : l’universitaire, pour faire science, a besoin d’une « inspiration », qui donne un sens à son travail, notamment ses tâches calculatoires ; cette inspiration a partie liée avec une question éthique, intime et indispensable : « quelle est la vocation de la science pour l’ensemble de la vie de l’humanité ? Quelle en est la valeur ? ».

      De nos jours, il est fréquent que l’on parle d’une « sciences sans présupposés, écrit Max Weber. Une telle science existe-t-elle ? Tout dépend ce que l’on entend par là. Tout travail scientifique présuppose la validité des règles de la logique et de la méthode, ces fondements universels de notre orientation dans le monde. Ces présupposés-là sont les moins problématiques du moins pour la question particulière qui nous occupe. Mais on présuppose aussi que le résultat du travail scientifique est important au sens où il mérite d’être connu. Et c’est de là que découlent, à l’évidence, tous nos problèmes. Car ce présupposé, à son tour, ne peut être démontré par les moyens de la science. On ne peut qu’en interpréter le sens ultime, et il faut le refuser ou l’accepter selon les positions ultimes que l’on adopte à l’égard de la vie
      — Weber, 1917 [2005], p. 36

      Les problèmes que Max Weber5 repérait hier sont les nôtres aujourd’hui : certains ou certaines disqualifient le travail scientifique de leurs collègues, non à l’aune de leur qualité scientifique intrinsèque, reposant sur la qualité de la réflexion, de la documentation, de l’analyse, mais par les présupposés qui ont initié la recherche.

      Ces derniers mois, les choses sont devenues très claires de ce point de vue : il y a des recherches dont certain·es ne veulent plus.

      C’est leur scientificité même qui est déniée : ces recherches sont renvoyées à de la pure « idéologie », sans qu’aucune explication précise ne soit jamais donnée, si ce n’est la référence à une autre idéologie, qu’il s’agisse des « valeurs de la République » ou de « l’unité de la nation ». « L’unité de la nation », c’est ce à quoi renvoyait l’association Qualité de la science française dans un récent communiqué : « il fait peu de doute que se développent dans certains secteurs de l’université des mouvances différentialistes plus ou moins agressives, qui mettent en cause l’unité de la nation, et dont l’attitude envers les fondamentalismes est ambiguë ». La comparaison sémantique avec les textes académiques prônant le maccarthysme est à ce titre très éclairante, même si leur rédaction doit être replacée dans le contexte de la guerre froide6 : le caractère scandaleux de toute opération de « chasse aux sorcières » se mesure, considère-t-on alors, à l’aune des risques encourus par la nation.

      Quelle va être la suite ? Va-t-on exclure ces savant∙es contemporain∙es de l’université, qui repose pourtant sur le principe de la pluralité et du dissensus ? Va-t-on les exclure en leur déniant tout travail de production et de transmission des connaissances scientifiques, pour les rejeter du côté de la simple expression des opinions ? Le risque, derrière ce feu qu’allument certain∙es universitaires, est connu : c’est évidemment que le pouvoir politique s’en saisisse, pour en tirer des conséquences juridiques.

      Nous nous trouvons très précisément au seuil d’un mouvement de ce type aujourd’hui en France. On y a échappé de peu lors des débats sur la loi de programmation de la recherche, avec l’amendement subordonnant les libertés académiques au respect des valeurs de la République auquel la ministre Vidal avait donné, on ne le rappellera jamais assez, un « avis extrêmement favorable ».

      Dans un contexte aussi pesant, c’est avec beaucoup d’appréhension, désormais, que l’on attend, du côté de la rédaction d’Academia, l’examen du « projet de loi renforçant les principes républicains » (plus connu sous le nom de « projet de loi Séparatismes »). Plusieurs collègues ont en particulier alerté Academia sur le fait qu’un collectif dénommé Vigilance Universités échange à propos de ce projet de loi avec la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur, chargée de la Citoyenneté, pour introduire les universités dans le champ de celui-ci. Nous craignons le pire. Cela fait plusieurs années maintenant que ces mêmes collègues propagent le sentiment d’une immense insécurité physique et de grands dangers intellectuels dans les universités, sans vouloir reconnaître qu’en conséquence de leurs propos, des personnalités politiques de premier rang, à droite et à l’extrême droite, appellent désormais à combattre les « dérives intellectuelles idéologiques » et dresse des listes de « coupables ».

      Peut-être est-il temps maintenant, pour elles et eux, de prendre conscience de leur responsabilité historique dans le mouvement de rétraction des libertés académiques en cours, à défaut d’avoir accepté de prendre la moindre position critique, lors des débats sur la loi de programmation de la recherche, sur la pénalisation des universités à laquelle ils et elles ont directement contribué par leurs propos et leurs actions.

      Il est surtout temps que l’ensemble des collègues prennent la juste mesure du danger. Il est temps que nous prenions, collectivement et clairement, position sur ce que défendre l’université veut dire.

      https://academia.hypotheses.org/29291

    • Antiracisme : la guerre des facs n’aura pas lieu

      Depuis la fin de l’automne 2018, par poussées de fièvre belliqueuse, surgissent périodiquement les tribunes, appels, articles qui mettent en garde contre un nouvel ennemi de la République : les « décoloniaux », qui « mènent la guerre des facs », écrit par exemple Étienne Girard dans Marianne, le 12 avril 2019. Des dizaines d’autres intellectuels, journalistes, personnalités publiques, ont pris la plume pour dénoncer « les obsédés de la race à la Sorbonne » (Charlie Hebdo 23 janvier 2019), les « énervés de la race » qui « martèlent leurs fameuses théories sur la race » (Le Canard Enchaîné, 24 juin 2020). Ils mettent en accusation la « stratégie hégémonique » du « décolonialisme » (Le Point, 28 novembre 2018) qui se lance « à l’assaut de l’université » (Le Nouvel Obs, 30 novembre 2018), qui « menace la liberté académique » (Le Monde, 12 avril 2019) et qui, « nouveau terrorisme intellectuel », « infiltre les universités » (La Revue des deux Mondes, 18 avril 2019) par une « grande offensive médiatique et institutionnelle » (L’Express, 26 décembre 2019), traduisant « une stratégie décoloniale de radicalité » (Le Monde, blog, 06 juillet 2020) en même temps qu’une « quête de respectabilité académique » (L’Express, 26 décembre 2019).

      La rhétorique est guerrière – et l’ennemi, puissant, organisé, déterminé, mobilisant des méthodes de guérilla, voire de « terrorisme », est déjà en passe de l’emporter, au point qu’il faut « appeler les autorités publiques, les responsables d’institutions culturelles, universitaires, scientifiques et de recherche, mais aussi la magistrature, au ressaisissement » (Le Point, 28 novembre 2018) et « sanctionner la promotion de l’idéologie coloniale » (Marianne, 26 juin 2020).

      Mais de quoi parle-t-on exactement ? Comme cela a déjà été souligné, si stratégie hégémonique il y a, elle est remarquablement peu efficace : aucun poste ni aucune chaire, dans aucun domaine de sciences humaines et sociales, n’a jamais été profilé « études postcoloniales ou décoloniales » à l’université ; pas de revue spécialisée, pas de maison d’édition ni même de collection de presses universitaires dans le domaine. Une analyse sociologique fine menée en termes de « correspondances multiples » sur plusieurs années et croisant plusieurs variables (publications, visibilité, lieux institutionnels, etc.) démontre que

      « les travaux sur la question minoritaire, la racialisation ou le postcolonial demeurent des domaines de niche […] bénéficiant d’une faible audience dans le champ académique comme dans l’espace public »
      — Inès Bouzelmat, « Le sous-champ de la question raciale dans les sciences sociales », Mouvements, 12 février 2019.

      Si guerre il y a, les deux camps en présence témoignent d’un « rapport de forces inégal » où la puissance, sinon l’hégémonie, est bien du côté du savoir contesté par « la mouvance post ou décoloniale » (L’Obs, 11 janvier 2020), qui fait figure de David contre le Goliath de l’universalisme républicain.

      De plus, il est remarquable que les combats de l’université, comme récemment contre la Loi de Programmation Pluriannuelle de la Recherche, dont le projet a été rendu public le 7 juin et qui est sur le point d’être adoptée en dépit de l’opposition explicite, massive et continue de la communauté universitaire, troublent généralement bien peu les penseurs institutionnels et les personnalités publiques. On compte sur les doigts d’une main les journalistes qui ont relayé les inquiétudes des universitaires : la vraie guerre est ailleurs. Pour les gardiens du temple, les « décoloniaux » menacent bien davantage l’université que la remise en cause des statuts des enseignants-chercheurs, la précarisation des personnels, la diminution accrue de financement récurrent et la mise en concurrence généralisée des institutions, des laboratoires et des individus. Ce n’est pas la disparition programmée du service public qui doit appeler « à la plus grande mobilisation » de la communauté universitaire (Marianne, 26 juin 2020), c’est la diffusion de « l’idéologie décoloniale ».

      C’est que cette guerre-là ne touche pas seulement l’université – sinon, qui s’en soucierait ? Comme l’a affirmé Emmanuel Macron dans des propos rapportés le 10 juin 2020 dans Le Monde, « le monde universitaire a été coupable », « il a encouragé l’ethnicisation de la question sociale en pensant que c’était un bon filon » et une telle stratégie « revient à casser la République en deux ». Voilà le véritable enjeu : les décoloniaux, par opportunisme et sens du « postcolonial business » (L’Express, 26 dec. 2019) ou par désir de promouvoir la haine et la division de la communauté politique, ou peut-être enfin par incompréhension et ignorance des vraies fractures sociales – par cynisme, par gauchisme ou par bêtise -, sont accusés de chercher à provoquer une « guerre des races » qui brisera la République. Ils sont ceux qui guident « les jeunes » dans les manifestations contre le racisme et les violences policières, ceux qui suscitent le déboulonnage des statues et les changements de noms des rues et places qui rendent hommage aux héros du colonialisme, ceux qui plaident pour l’introduction de statistiques ethniques afin de visibiliser les phénomènes de discrimination… C’est pourquoi, dans ces lignes de front qui se tracent, c’est bien eux qu’on prend à partie via ce « vous » populaire qu’ils incarnent comme une avant-garde : « J’exige de vous le respect. Sinon ce sera la guerre » (Marianne, 9 juillet 2020).
      Cette déclaration de guerre repose sur une confusion, un renversement et un double mensonge.

      La confusion est évidente : sont rassemblés sous une étiquette mal taillée des chercheurs et chercheuses aux positions épistémologiques précises et parfois en désaccord, qui travaillent depuis des années sur des objets dont l’importance n’est pas encore vraiment reconnue. Leur recherche, selon les règles d’usage de la discussion académique, exige de se confronter lors de séminaires, colloques et conférences où entrent en conversation les tenants de positions différentes avec les outils académiques de l’argumentation logique, de la distinction conceptuelle et de l’érudition textuelle. La « mouvance post ou décoloniale » n’existe pas. Et pour cause : les études décoloniales sont d’abord menées par des chercheuses et chercheurs latino-américains, parfois caribéens, qui diffèrent des courants postcoloniaux indiens ou, surtout, étasuniens, selon trois critères désormais bien établis : géopolitique, disciplinaire et généalogique1. Décoloniaux et postcoloniaux ne partagent ni les mêmes influences intellectuelles ni les mêmes contextes socio-économiques et culturels ; ils et elles mobilisent des outils méthodologiques différents pour poser des problèmes théoriques ou normatifs différents. Les désaccords scientifiques traversent aussi les disciplines, y compris entre celles et ceux qui sont persuadés de l’importance de s’intéresser au passé colonial pour comprendre le présent : historiens de l’esclavage et de la colonisation s’affrontent sur les aires géographiques pertinentes, sur les méthodologies de l’histoire globale ou locale, sur les sources archivistiques ou leur absence, etc. Bien loin de mettre en place des stratégies hégémoniques de domination académique, les universitaires échangent du savoir, de la connaissance, du raisonnement, avec humilité, rigueur et ténacité. Ils et elles travaillent et soumettent leurs hypothèses au test de l’évaluation par les pairs : ils font leur métier.

      Le renversement de perspective est tout aussi massif. Tout se passe comme si s’efforcer de mettre au jour les effets de domination historiquement fondés sur des rapports de race traduits dans l’organisation coloniale du monde, puis hérités de cet ordre sans être réellement déconstruits, revenait à créer ces effets de domination. Lorsque les chercheuses et chercheurs parlent de racialisation ou racisation, on leur oppose que le mot est « épouvantable » (Jean-Michel Blanquer, dans Libération, 21 novembre 2017). C’est un néologisme qui, selon la critique, ne permet pas de révéler une réalité sociale, mais qui produit, dans un geste performatif, la réalité qu’il prétend désigner.

      Or parler de groupe racisé consiste bien à nommer une réalité sociale : la catégorisation et la hiérarchisation de groupes sociaux, dans des contextes précis, en raison de facteurs visuels ou généalogiques réels ou fantasmés2. Il s’agit de chercher à expliquer, et non pas excuser, la construction, les mécanismes, les processus de reproduction de cette réalité. Parler de racialisation permet précisément de souligner que la race n’existe pas en tant que réalité biologique, de l’historiciser, la désessentialiser et la dénaturaliser. Il s’agit de produire de nouvelles ressources épistémiques pour dénoncer la hiérarchisation et l’inégalité raciales tout en évitant de reproduire les interprétations obsolètes et racistes du monde social.

      Sous la plume de ceux qui veulent « sanctionner » « l’idéologie coloniale », « supprimer les références racialistes », effacer la « nuée de concepts » qui traitent de la question raciale — non seulement dans la législation et la Constitution, mais aussi à l’université — une telle mise sous silence permettrait de supprimer le mal. Ces mots « réactivent l’idée de race » et « détournent des valeurs de liberté, égalité, fraternité qui fondent notre démocratie », affirment-ils (Le Point, 28 novembre 2018) : cessons d’utiliser ces mots abominables, et la « question sociale » sera enfin désethnicisée, la République réparée. Ils estiment sans doute qu’en France régnait l’égalité réelle jusqu’à ce que certains se mettent à dénoncer la domination raciale dont ils font l’expérience, et d’autres parviennent à admettre le privilège racial dont ils bénéficient.

      C’est là nier le travail des chercheuses et chercheurs qui, décrivant et évaluant les dominations raciales, s’efforçant de poser un diagnostic clair sur la nature et l’ampleur des inégalités qui traversent notre société, non seulement ne les créent pas, mais espèrent même contribuer à les faire disparaître. Vouloir les faire taire, c’est contribuer au racisme ordinaire en lui permettant d’avancer sous la « cape d’invisibilité » que procure l’étendard du républicanisme bafoué.

      Enfin le mensonge est double : d’une part, il consiste à faire semblant de croire qu’une poignée d’universitaires peut entraîner à elle seule les mouvements sociaux d’ampleur inédite qui ont vu le jour après le confinement pour dénoncer le racisme institutionnel et réclamer justice. C’est trop d’honneur. Trop de mépris, aussi, pour le travail de terrain des mouvements antiracistes et les associations de défense des droits qui mènent la lutte au quotidien auprès des victimes de stigmatisation et discrimination raciales. C’est enfin, surtout, être aveugle à la lame de fond qui nous emporte, à la transformation sociale massive que vit notre vieux modèle. Car d’autre part, le mensonge réside dans l’accusation selon laquelle les manifestant·es qui protestent contre le racisme et les discriminations, et réclament une participation égale et un statut paritaire dans le récit national, veulent « casse[r] la République en deux ». Or cela a été amplement souligné : les hommes et femmes, jeunes et moins jeunes, racisé·es ou non, qui défilaient pour condamner les violences policières racistes en juin dernier3 chantaient ensemble La Marseillaise ; celles et ceux qui proposent de déplacer les statues des héros de la colonisation pour les muséifier le font au nom d’un hommage que la république pourrait rendre, sur ses places publiques, à d’autres héroïnes et d’autres héros français oubliés ou trop longtemps traités en objets et non en sujets politiques. La république peut être inclusive et réparée ; l’universel peut être visé — un universel concret, construit à partir des particularités et non pas en négation de celles-ci. Ce sont les fondations d’un nouvel universalisme possible qui sont en train d’être posées. Le mensonge consiste à prétendre que Cassandre veut la guerre.
      Et si ce n’était pas une guerre, mais une révolution ?

      Ce à quoi on assiste, et qui provoque la panique morale des puissants, peut se comprendre, c’est l’hypothèse faite ici, à la fois comme une révolution scientifique et comme une révolution politique, parce que les deux sont indissociables dans les sciences humaines et sociales. C’est à la fois un tournant copernicien ou changement de paradigme4, une nouvelle manière de façonner les problèmes et les solutions dans un processus discontinu de production du savoir, et le mouvement du « passage de l’idée dans l’expérience historique », la « tentative pour modeler l’acte sur une idée, pour façonner le monde dans un cadre théorique »5.

      L’ancien modèle théorique s’essouffle : les énigmes se multiplient, les exceptions ou anomalies ne confirment plus la règle mais s’accumulent pour miner l’autorité du vieux cadre interprétatif colorblind de notre monde social. Trop d’injustices sociales débordent le modèle de la lutte des classes, les inégalités socio-économiques à elles seules n’expliquent pas toutes les différences de trajectoire collective ou individuelle, les différences culturelles se naturalisent, l’écart se creuse et se visibilise entre les idéaux de la république et la réalité sociologique de leur mise en œuvre – y compris institutionnelle. L’épaisseur de l’histoire esclavagiste et coloniale pèse sur le mythe du contrat social républicain établi entre des partenaires égaux consentant librement à « faire peuple », ensemble. Ce qui est requis, ce n’est donc pas simplement une nouvelle grille de lecture à appliquer sur des données par ailleurs bien connues : c’est la manière même de voir le monde qui change, ce sont de nouveaux positionnements, de nouvelles perspectives, de nouvelles perceptions, la mise au jour de nouvelles archives, les témoignages de nouvelles voix, qui produisent des données jusque là méconnues ou ignorées, et qui entraînent l’exigence de renouveler le paradigme.

      La résistance de la vieille garde est d’autant plus désespérée que les sujets producteurs de ces nouvelles connaissances sont aussi des agents usuellement dominés et discrédités dans les circonstances « normales » du discours public. Ce sont des agents dont les idées, les ressources théoriques, les productions cognitives, souffrent d’un déficit de crédibilité dû soit à des biais ou stéréotypes négatifs qui conduisent à mettre en doute leur capacité à produire un discours valide, rationnel et raisonnable, sur leurs expériences singulières, soit à un excès de crédibilité accordé à d’autres agents dissonants, au témoignage ou à l’analyse desquels on a tendance à accorder une confiance supérieure. Racialisation, discrimination systémique, privilège blanc, stigmatisation raciale, parmi d’autres, sont des concepts et des ressources épistémiques précieuses pour décrire des expériences sociales, les partager, les interpréter, les évaluer, et peut-être transformer le monde où elles ont cours. Le monde universitaire n’est pas une armée de terroristes qui infiltre les lieux de savoir et casse la République en deux : le monde universitaire est l’espace institutionnel inclusif où ces agents producteurs de connaissance inédits et inaudibles peuvent participer à la production de savoirs qui nous concernent tous parce que tous, nous sommes la république. La guerre des facs n’aura pas lieu, parce que le monde d’après est déjà là : les monstres, et leurs derniers gémissements, disparaissent avec le clair-obscur.

      https://academia.hypotheses.org/29341

    • Academic Freedom Under Attack in France

      For many years, in what now seems the distant past, France was known as the nation that welcomed refugees from authoritarian countries; revolutionary activists, artists, exiled politicians, dissident students, could find sustenance and support in the land of liberty, equality, and fraternity. It is also the country whose philosophers gave us many of the tools of critical thinking, including perhaps the very word critique. In recent years—at least since the bicentennial of the French Revolution in 1989—that image has been replaced by a more disturbing one: a nation unable to decently cope (and increasingly at war) with people of color from its former colonies (black, Arab, Muslim) as well as Roma; a nation whose leaders are condemning critical studies of racial discrimination and charges of “Islamophobia” in the name of “the values of the Republic.”

      The years since the bicentennial have seen a dramatic increase in discrimination against a number of groups, but Arab/Muslims, many of them citizens (according to the settlement that ended the Algerian War) have been singled out. The charge against them has been that they practice their religion publicly, in violation of laïcité, the French version of secularism, the separation of church and state. Enshrined in a 1905 law, laïcité calls for state neutrality in matters of religion and protects individual rights of private religious conscience. Although the state is extremely supportive of Catholic religious practices (state funds support churches as a matter of preserving the national heritage, and religious schools, the majority of them Catholic, in the name of freedom of educational choice; the former president, Nicolas Sarkozy has insisted that Catholicism is an integral aspect of laïcité), Islam has been deemed a threat to the “values” upon which national unity is based.

      National unity is a peculiar concept in France, at least from an American perspective. The nation “one and indivisible” is imagined as culturally homogeneous. Anything that suggests division is scrupulously avoided. Thus there is no exact calculation of the numbers of Muslims in the French population because no official statistics are kept on racial, ethnic, or religious difference. To make those very real differences visible is thought to introduce unacceptable divisions in the representation of the unity of the national body.

      The presence of an estimated 6 to 10 million Muslims (in a country of some 67 million) has become a potent political weapon. Initially claimed by the far Right National Front party (now renamed the Rally for the Republic), the “Muslim problem” has become a concern of parties across the spectrum (in differing degrees from Right to Left). In 2003, in the face of increasing electoral success on the far Right, the conservative government of Jacques Chirac commissioned a report that redefined laïcité for the twenty-first century’s “clash of civilizations.” Titled “The New Laïcité, “ it extended the demand for neutrality from the state to its individual citizens, forbidding any display of religious affiliation in public space. Although said to be universally applicable, everyone understood this to be a policy aimed at Muslims. Thus the hijab (the Islamic headscarf) is prohibited in public schools; women are fined for wearing the niqab (the full face covering) on the streets of their towns; veiled women are prevented from serving as witnesses at weddings conducted in city halls; burkini clad women were forced to undress on some beaches in the summer of 2016….the list goes on. Women were the target of these rules and regulations (for reasons I have analyzed in my The Politics of the Veil (2007), but men, too, experience economic and social discrimination, as well as violent police surveillance in their homes and on the streets.

      In the wake of a number of horrific terrorist attacks in the name of Islam in French cities—the assassinations of the Charlie Hebdo journalists and the murders at the Bataclan theater in 2015, and most recently, in 2020, the beheading of a school teacher, Samuel Paty—all Muslims are increasingly defined as a threat to the security of the nation. The Interior Minister, Gérald Darmanin, has effectively declared war, defining not religion but Islamist ideology as “an enemy within.” Despite this careful distinction, a wartime, ethno-nationalist mentality has identified Muslims as a dangerous class. Antipathy to Muslims has become evidence of patriotism; those who argue that not all Muslims are terrorists and that discrimination against them might contribute to their radicalization, have been met with denunciations and vehement attacks. University professors are among these groups, and they have faced particularly nasty accusations of treason. The campaigns being mounted against them don’t just target individuals; in their insistence that teaching cannot deviate from “the values of the Republic,” the charges amount to a sustained attack on academic freedom.

      The call to rally around the Republic has come not only from the expected quarters—politicians and publicists on the Right—but also from the current (neo-) liberal administration and from within the academy itself. Historians, sociologists, and anthropologists who work on the history of colonialism, on issues of ethnic and racial discrimination, and who seek to account, within the problematics of their disciplines, for the inequalities evident in French society, have been labelled “islamo-gauchistes” for their presumed support for or identification with Muslims. The term is used as an insult, and it is employed regularly by intellectuals such as the philosopher Elisabeth Badinter and the feminist writer Caroline Fourest, neither of whom are considered to be on the Right. In 2018, following a conference at the University of Paris, 7, on “Racism and racial discrimination in the university,” some 80 intellectuals signed a letter condemning as “ideological” the increasing number of “racialist” university events and they called upon “the authorities” to put an end to their “use against the Republic.”

      The “authorities” have responded. In 2020, the Minister of Education, Jean-Michel Blanquer declared that anti-racist intellectuals were “complicit” in Samuel Paty’s murder. He accused “islamo-gauchistes” of “wreaking havoc” in the university. Those employing ideas of “intersectionality,” he denounced as “intellectual accomplices of terrorism.” He deemed intersectionality a pernicious import from multicultural America that “essentializes communities and identities, the antithesis of our model of the Republic.” If Muslims were “separatists,” these intellectuals were too. President Emmanuel Macron charged that “The academy is guilty. It has encouraged the ethnicization of the social question, thinking it’s a good subject to study. But, the outcome can only be secessionist. It will rebound to split the Republic in two.” In October, a bill was proposed in the Senate stating that “academic freedom must respect the values of the Republic.” And Frédérique Vidal, the Minister of Higher Education and Research, whose portfolio most directly pertains to the academy, asserted that “the values of laïcité, of the Republic, are not open for debate.”

      Although no one has yet been fired from a university position, the warning signs are clear. If the nation is at war with Islam, those who struggle to find alternatives to this divisiveness are, ironically, accused of dividing the nation. When professor of sociology (University of Paris 8) Eric Fassin was threatened on Twitter with decapitation for his “islamo-gauchiste views” by a right-wing extremist, his university president offered support (as did academic collectives from Turkey to Brazil), but there was no comment from those higher up in the education ministries. [Fassin sued and won a ruling against the man, but the court treated him not as member of a domestic, neo-Nazi, terrorist network (which he is), but as a lone aberrant individual.] Calls to rein in teachers who address racism and discrimination are widespread, and the threats of disciplinary action are particularly severe against the still relatively rare academics of color, many of whom hold junior, therefore vulnerable positions. State surveillance of research can make it difficult for those studying discrimination, as well as aspects of Islamic culture, to get access to the archives and repositories of data that they need. And then there is the self-policing that inevitably accompanies state surveillance and disapproval.

      But the resistance is impressive. There is no national organization equivalent to the AAUP in France, yet faculty have nonetheless mobilized. Courses continue to be taught, books and articles published, and conferences held on race and discrimination, and these are rightly justified as realizing the values of the Republic—those that stand for liberty and equality above all. There is a site, Université Ouverte where information on protests and other activities can be found, as well as the blog Academia with in-depth critical analyses. In response to a denunciation of their work by 100 intellectuals as “racializing” (racialiste) because it allegedly taught students to “hate whites and France,” more than 2000 academics replied this way in Le Monde: “To call the approach that examines, among other things, the impact of social, sexist, and racist oppression, ‘racialist,’ is despicable. [Racialist] signifies racist thought and regimes based on a supposed hierarchy of race….[But our] sociological and critical approach to racial questions, as the intersectional approaches so often attacked, do the opposite by exposing oppression in order to combat it.” An international letter of support for these efforts was circulated in November, 2020. It makes the case very clear: an increasingly ethno-nationalist politics is posing a dire threat to French academic freedom.

      As I write this in early 2021, the old slogan from May ’68 in France sums up the state of things: La lutte continue (the struggle goes on).

      https://academeblog.org/2021/01/05/academic-freedom-under-attack-in-france
      #Joan_Scott

    • Comment les militants décoloniaux prennent le pouvoir dans les universités
      https://seenthis.net/messages/900839

      ... où on parle notamment de ce nouveau site web :
      L’#Observatoire_du_décolonialisme_et_des_idéologies_identitaires :

      Ce site propose un regard critique, tantôt profond et parfois humoristique, sur l’émergence d’une nouvelle tendance de l’Université et de la Recherche visant à « décoloniser » les sciences qui s’enseignent. Il dénonce la déconstruction revendiquée visant à présenter des Institutions (la langue, l’école, la République, la laïcité) comme les entraves des individus. Le lecteur trouvera outre une série d’analyses et de critiques, une base de données de textes décoloniaux interrogeable en ligne, un générateur de titre de thèses automatique à partir de formes de titres, des liens d’actualités et des données sur la question et un lexique humoristique des notions-clés.

      Cet observatoire n’a pas pour but de militer, ni de prendre des positions politiques. Il a pour but d’observer et d’aider à comprendre, à lire la production littéraire, scientifique et éditoriale des études en sciences humaines ou prétendument scientifiques orientées vers le décolonialisme. Il veut surtout aider à comprendre la limite entre science et propagande.

      L’équipe :


      http://decolonialisme.fr

    • La France contaminée par les idées venues des campus américains

      Entre l’Élysée et la presse outre-Atlantique, la controverse ne s’arrête plus : « Les idées américaines menacent-elles la cohésion française ?? » s’interroge le New York Times. Le prestigieux quotidien américain revient sur une série d’observations et de déclarations entendues en France à la suite du discours d’Emmanuel Macron contre les séparatismes le 2 octobre.

      Ce jour-là, le président français avait mis en garde les universités contre « certaines théories en sciences sociales totalement importées des États-Unis d’Amérique ». L’Hexagone, affirme le New York Times, se sentirait menacé par « les idées progressistes américaines - notamment sur la race, le genre, le post-colonialisme ». Certains « politiciens, d’éminents intellectuels et nombre de journalistes français » craignent qu’elles soient « en train de saper leur société ».

      Il y a eu les déclarations de Jean-Michel Blanquer, ministre de l’Éducation nationale, qui avait parlé d’un « combat à mener contre une #matrice_intellectuelle venue des universités américaines », et aussi le livre de deux éminents spécialistes des sciences sociales françaises, #Stéphane_Beaud et #Gérard_Noiriel, critiquant le principe d’#études_raciales. La virulence des réactions antiaméricaines étonne le NYT. Il note cependant :

      D’une certaine manière, c’est un combat par procuration autour de questions qui sont parmi les plus brûlantes au sein de la société française, celles notamment de l’#identité_nationale et du #partage_du_pouvoir."

      Car si, dans les universités françaises, la jeune génération de chercheurs n’est plus sur la même ligne que la précédente, la contestation de certains volets du #modèle_français est arrivée dans la société. Le journaliste américain cite plusieurs exemples, à commencer par les manifestations contre les violences policières suscitées par l’assassinat de George Floyd de juin 2020.

      [Celles-ci] remettaient en cause la non-reconnaissance institutionnelle de la race et le racisme systémique. Une génération #MeToo de féministes s’est dressée à la fois contre le pouvoir masculin et contre les féministes plus âgées. La répression qui a suivi une série d’attaques islamistes a soulevé des interrogations sur le modèle français de laïcité et l’intégration des immigrés des anciennes colonies de la France."

      Il se peut bien, estime le NYT en citant le chercheur français Éric Fassin, que derrière les attaques du gouvernement contre les universités américaines « se cachent les tensions d’une société où le pouvoir établi est bousculé ».

      https://www.courrierinternational.com/article/vu-des-etats-unis-la-france-contaminee-par-les-idees-venues-d

    • Will American Ideas Tear France Apart? Some of Its Leaders Think So

      Politicians and prominent intellectuals say social theories from the United States on race, gender and post-colonialism are a threat to French identity and the French republic.

      The threat is said to be existential. It fuels secessionism. Gnaws at national unity. Abets Islamism. Attacks France’s intellectual and cultural heritage.

      The threat? “Certain social science theories entirely imported from the United States,’’ said President Emmanuel Macron.

      French politicians, high-profile intellectuals and journalists are warning that progressive American ideas — specifically on race, gender, post-colonialism — are undermining their society. “There’s a battle to wage against an intellectual matrix from American universities,’’ warned Mr. Macron’s education minister.

      Emboldened by these comments, prominent intellectuals have banded together against what they regard as contamination by the out-of-control woke leftism of American campuses and its attendant cancel culture.

      Pitted against them is a younger, more diverse guard that considers these theories as tools to understanding the willful blind spots of an increasingly diverse nation that still recoils at the mention of race, has yet to come to terms with its colonial past and often waves away the concerns of minorities as identity politics.

      Disputes that would have otherwise attracted little attention are now blown up in the news and social media. The new director of the Paris Opera, who said on Monday he wants to diversify its staff and ban blackface, has been attacked by the far-right leader, Marine Le Pen, but also in Le Monde because, though German, he had worked in Toronto and had “soaked up American culture for 10 years.”

      The publication this month of a book critical of racial studies by two veteran social scientists, Stéphane Beaud and Gérard Noiriel, fueled criticism from younger scholars — and has received extensive news coverage. Mr. Noiriel has said that race had become a “bulldozer’’ crushing other subjects, adding, in an email, that its academic research in France was questionable because race is not recognized by the government and merely “subjective data.’’

      The fierce French debate over a handful of academic disciplines on U.S. campuses may surprise those who have witnessed the gradual decline of American influence in many corners of the world. In some ways, it is a proxy fight over some of the most combustible issues in French society, including national identity and the sharing of power. In a nation where intellectuals still hold sway, the stakes are high.

      With its echoes of the American culture wars, the battle began inside French universities but is being played out increasingly in the media. Politicians have been weighing in more and more, especially following a turbulent year during which a series of events called into question tenets of French society.

      Mass protests in France against police violence, inspired by the killing of George Floyd, challenged the official dismissal of race and systemic racism. A #MeToo generation of feminists confronted both male power and older feminists. A widespread crackdown following a series of Islamist attacks raised questions about France’s model of secularism and the integration of immigrants from its former colonies.

      Some saw the reach of American identity politics and social science theories. Some center-right lawmakers pressed for a parliamentary investigation into “ideological excesses’’ at universities and singled out “guilty’’ scholars on Twitter.

      Mr. Macron — who had shown little interest in these matters in the past but has been courting the right ahead of elections next year — jumped in last June, when he blamed universities for encouraging the “ethnicization of the social question’’ — amounting to “breaking the republic in two.’’

      “I was pleasantly astonished,’’ said Nathalie Heinich, a sociologist who last month helped create an organization against “decolonialism and identity politics.’’ Made up of established figures, many retired, the group has issued warnings about American-inspired social theories in major publications like Le Point and Le Figaro.

      For Ms. Heinich, last year’s developments came on top of activism that brought foreign disputes over cultural appropriation and blackface to French universities. At the Sorbonne, activists prevented the staging of a play by Aeschylus to protest the wearing of masks and dark makeup by white actors; elsewhere, some well-known speakers were disinvited following student pressure.

      “It was a series of incidents that was extremely traumatic to our community and that all fell under what is called cancel culture,’’ Ms. Heinich said.

      To others, the lashing out at perceived American influence revealed something else: a French establishment incapable of confronting a world in flux, especially at a time when the government’s mishandling of the coronavirus pandemic has deepened the sense of ineluctable decline of a once-great power.

      “It’s the sign of a small, frightened republic, declining, provincializing, but which in the past and to this day believes in its universal mission and which thus seeks those responsible for its decline,’’ said François Cusset, an expert on American civilization at Paris Nanterre University.

      France has long laid claim to a national identity, based on a common culture, fundamental rights and core values like equality and liberty, rejecting diversity and multiculturalism. The French often see the United States as a fractious society at war with itself.

      But far from being American, many of the leading thinkers behind theories on gender, race, post-colonialism and queer theory came from France — as well as the rest of Europe, South America, Africa and India, said Anne Garréta, a French writer who teaches literature at universities in France and at Duke.

      “It’s an entire global world of ideas that circulates,’’ she said. “It just happens that campuses that are the most cosmopolitan and most globalized at this point in history are the American ones.’’

      The French state does not compile racial statistics, which is illegal, describing it as part of its commitment to universalism and treating all citizens equally under the law. To many scholars on race, however, the reluctance is part of a long history of denying racism in France and the country’s slave-trading and colonial past.

      “What’s more French than the racial question in a country that was built around those questions?’’ said Mame-Fatou Niang, who divides her time between France and the United States, where she teaches French studies at Carnegie Mellon University.

      Ms. Niang has led a campaign to remove a fresco at France’s National Assembly, which shows two Black figures with fat red lips and bulging eyes. Her public views on race have made her a frequent target on social media, including of one of the lawmakers who pressed for an investigation into “ideological excesses’’ at universities.

      Pap Ndiaye, a historian who led efforts to establish Black studies in France, said it was no coincidence that the current wave of anti-American rhetoric began growing just as the first protests against racism and police violence took place last June.

      “There was the idea that we’re talking too much about racial questions in France,’’ he said. “That’s enough.’’

      Three Islamist attacks last fall served as a reminder that terrorism remains a threat in France. They also focused attention on another hot-button field of research: Islamophobia, which examines how hostility toward Islam in France, rooted in its colonial experience in the Muslim world, continues to shape the lives of French Muslims.

      Abdellali Hajjat, an expert on Islamophobia, said that it became increasingly difficult to focus on his subject after 2015, when devastating terror attacks hit Paris. Government funding for research dried up. Researchers on the subject were accused of being apologists for Islamists and even terrorists.

      Finding the atmosphere oppressive, Mr. Hajjat left two years ago to teach at the Free University of Brussels, in Belgium, where he said he found greater academic freedom.

      “On the question of Islamophobia, it’s only in France where there is such violent talk in rejecting the term,’’ he said.

      Mr. Macron’s education minister, Jean-Michel Blanquer, accused universities, under American influence, of being complicit with terrorists by providing the intellectual justification behind their acts.

      A group of 100 prominent scholars wrote an open letter supporting the minister and decrying theories “transferred from North American campuses” in Le Monde.

      A signatory, Gilles Kepel, an expert on Islam, said that American influence had led to “a sort of prohibition in universities to think about the phenomenon of political Islam in the name of a leftist ideology that considers it the religion of the underprivileged.’’

      Along with Islamophobia, it was through the “totally artificial importation’’ in France of the “American-style Black question” that some were trying to draw a false picture of a France guilty of “systemic racism’’ and “white privilege,’’ said Pierre-André Taguieff, a historian and a leading critic of the American influence.

      Mr. Taguieff said in an email that researchers of race, Islamophobia and post-colonialism were motivated by a “hatred of the West, as a white civilization.’’

      “The common agenda of these enemies of European civilization can be summed up in three words: decolonize, demasculate, de-Europeanize,’’ Mr. Taguieff said. “Straight white male — that’s the culprit to condemn and the enemy to eliminate.”

      Behind the attacks on American universities — led by aging white male intellectuals — lie the tensions in a society where power appears to be up for grabs, said Éric Fassin, a sociologist who was one of the first scholars to focus on race and racism in France, about 15 years ago.

      Back then, scholars on race tended to be white men like himself, he said. He said he has often been called a traitor and faced threats, most recently from a right-wing extremist who was given a four-month suspended prison sentence for threatening to decapitate him.

      But the emergence of young intellectuals — some Black or Muslim — has fueled the assault on what Mr. Fassin calls the “American boogeyman.’’

      “That’s what has turned things upside down,’’ he said. “They’re not just the objects we speak of, but they’re also the subjects who are talking.’’

      https://www.nytimes.com/2021/02/09/world/europe/france-threat-american-universities.html?searchResultPosition=5

    • Le manifeste des 100 repris par la tribune des généraux qui appellent Macron à défendre le #patriotisme...

      Qui sont donc les ennemis que ces militaires appellent à combattre pour sauver « la Patrie » ? Qui sont les agents du « délitement de la France » ? Le premier ennemi désigné reprend mot pour mot les termes de l’appel des universitaires publié le 1 novembre 2020 sous le titre de « Manifeste des 100 » : « un certain antiracisme » qui veut « la guerre raciale » au travers du « racialisme », « l’indigénisme » et les « théories décoloniales ». Le second ennemi est « l’islamisme et les hordes de banlieue » qui veulent soumettre des territoires « à des dogmes contraires à notre constitution ». Le troisième ennemi est constitué par « ces individus infiltrés et encagoulés saccagent des commerces et menacent ces mêmes forces de l’ordre » dont ils veulent faire des « boucs émissaires ».

      https://seenthis.net/messages/912643
      Et plus précisément : https://seenthis.net/messages/912643#message913950

    • « Islamo-gauchisme » à l’université : la ministre Frédérique Vidal accusée d’abus de pouvoir devant le Conseil d’Etat

      Six enseignants-chercheurs ont déposé en avril un #recours devant le #Conseil_d’Etat. La ministre de l’enseignement supérieur va devoir justifier sa décision d’ouvrir une enquête sur l’« islamo-gauchisme à l’université ».

      Qu’est devenue l’enquête sur l’ « islamo-gauchisme à l’université » voulue par la ministre de l’enseignement supérieur ? Le 14 février, Frédérique Vidal annonçait sur CNews qu’elle allait demander, « notamment au CNRS », de mener une enquête portant sur « l’ensemble des courants de recherche » en lien avec « l’islamo-gauchisme » à l’université. Deux jours plus tard, à l’Assemblée nationale, elle confirmait la mise en place d’ « un bilande l’ensemble des recherches » en vue de « distinguer ce qui relève de la recherche académique et ce qui relève du militantisme et de l’opinion .

      Quatre mois ont passé et c’est le silence complet. Sollicité par Le Monde à de multiples reprises, l’entourage de la ministre refuse d’indiquer si une enquête a été lancée et, le cas échéant, à qui a été confié le soin de la mener, le CNRS ayant décliné la demande.

      C’est désormais sur le terrain juridique que se joue l’affaire, six enseignants-chercheurs attaquant la ministre pour #abus_de_pouvoir. Une procédure de référé et un recours en annulation ont été introduits le 13 avril devant le Conseil d’Etat par les avocats William Bourdon et Vincent Brengarth. Les requérants demandent à Frédérique Vidal de renoncer officiellement et définitivement à cette enquête « qui bafoue les libertés académiques et menace de soumettre à un contrôle politique, au-delà des seules sciences sociales, la recherche dans son ensemble .

      Le 7 mai, le Conseil d’Etat qui a rejeté le référé a transmis la requête en annulation au ministère pour l’interroger sur sa position. « La ministre de l’enseignement supérieur dispose désormais de deux mois pour démontrer que sa décision ne constitue pas un détournement des pouvoirs et des attributions qui lui sont confiés », indiquent MM. Bourdon et Brengarth. « Info ou intox ? Les masques vont tomber. Quand on a suscité un tel émoi, il est essentiel que la ministre assume soit la décision, soit le rétropédalage », ajoute William Bourdon.

      « Police de la pensée »

      Si le Conseil d’Etat s’est déclaré incompétent, il demande au ministère des explications, souligne Fabien Jobard, l’un des requérants, chercheur au CNRS, spécialiste des questions pénales. « Il agit comme une commission d’accès aux documents administratifs en demandant à Mme Vidal de nous dire ce qu’il en est. Soit oui, une commission existe avec tel et tel membre, soit non c’est le plus probable , il n’y a pas de commission d’enquête », projette-t-il.

      Pour la requérante Fanny Gallot, maîtresse de conférences en histoire à l’université Paris-Est-Créteil, « ce recours marque le fait que les bornes ont été largement dépassées. Aujourd’hui, l’offensive est très forte et elle est autorisée par Frédérique Vidal . Ainsi, « mener des recherches sur les discriminations ethnoraciales quand on est soi-même racisé est d’emblée considéré comme se faire le porte-parole des minorités. Mener des recherches quand on est féministe, comme moi, peut être utilisé par certains pour remettre en question la scientificité de mes recherches », illustre-t-elle.

      Des étudiants de deuxième année de master qui voulaient s’inscrire en thèse hésitent à travailler sur certains sujets, notamment liés à l’intersectionnalité (qui consiste à croiser divers mécanismes de domination, liés au genre, à l’âge ou encore à la couleur de peau). « C’est une #intimidation, même s’il n’y a pas eu véritablement de commission d’enquête. Pour pouvoir assumer de parler de certains sujets, il faut être un enseignant en poste, sinon c’est trop risqué », confirme Caroline Ibos, maîtresse de conférences en science politique à l’université Rennes-II.

      Les effets sont donc « très concrets » et vont « dans le sens d’une #police_de_la_pensée », alors que sont en question des savoirs déjà marginalisés en France. « Il y a peu d’endroits où l’on peut se former en études de genre et un seul Paris-VIII qui décerne des doctorats en études de genre en France, décrit la chercheuse. Il n’y a pas de section au CNRS, ni au CNU [Conseil national des universités], c’est un champ particulièrement sous-financé et aujourd’hui le gouvernement décide de le livrer à la vindicte populaire ? »

      Fanny Gallot décrit « un climat d’angoisse » depuis les déclarations de la ministre. « Il y a des moments d’échanges académiques qui sont empêchés », comme lors d’une table ronde au mois de mars consacrée à l’intersectionnalité qui s’est déroulée dans une ambiance « électrique », rapporte-t-elle. « Je pense que je n’ai pas dit exactement ce que j’aurais dit si nous n’avions pas été trois semaines après les propos de Frédérique Vidal. Nous nous autocensurons dans une certaine mesure parce que nous avons #peur. Dans des conférences Zoom où on ne sait pas toujours qui est présent, on redoute des trolls. On ne sait plus ce que l’on peut dire en classe ou dans les séminaires », confie Fanny Gallot.

      Une #suspicion constante

      « Nous souhaitions mettre la ministre face à ses responsabilités, explique Nacira Guénif, professeure de sociologie à Paris-VIII, également requérante. On ne peut pas faire n’importe quelle déclaration sans que cela ait des implications. » Née en France de parents algériens, Nacira Guénif « travaille depuis longtemps dans ces conditions de suspicion.

      « J’ai eu un procès en imposture avant même d’avoir mon poste à l’université », narre-t-elle. Dans les années 1990, auprès de la direction des populations et des migrations, qui finançait une recherche obtenue par la jeune chercheuse après un appel d’offres, elle fait face à une « curée générale . « Je ne collais pas aux stéréotypes de la beurette, qui était précisément le sujet de ma thèse. On me reprochait de ne pas dire ce qu’on attendait de moi et cela s’est transformé en déloyauté de ma part », poursuit Nacira Guénif.

      Depuis, la suspicion de militance est constante, les promesses non tenues d’invitations dans des colloques se poursuivent et les prises à partie également. Dans la volonté de la ministre, Fabien Jobard voit « au mieux un doublon inutile et au pire, une volonté du gouvernement de substituer ou d’ajouter aux procédures scientifiques habituelles une procédure dérogatoire .

      Car, pour faire des enquêtes, il existe des commissions dans chacun des établissements, tel le comité national au CNRS, chargé d’évaluer les collègues et de recruter les nouveaux chercheurs. « C’est le principe de l’évaluation de l’action scientifique par les pairs, rappelle-t-il. Si un collègue au CNRS présente un projet visant à nous dire que le prolétariat nouveau est constitué d’islamistes et exige que le politique mette genou à terre devant lui, alors je suis suffisamment grand pour émettre un avis d’alerte sur ce collègue », illustre celui qui a siégé au comité national dans la section science politique entre 2004 et 2008.

      Lui aussi témoin d’effets concrets après l’annonce de Mme Vidal, Fabien Jobard cite le cas d’une collègue chargée de suivre plusieurs sujets pour le compte du gouvernement. « Dans le cadre de ses missions, elle travaille avec des militaires et, alors qu’elle voulait organiser un colloque, l’un d’eux s’est opposé à ce qu’il se tienne à La Sorbonne, "à cause des problèmes d’islamo-gauchisme" », relate Fabien Jobard, qui s’inquiète du discrédit jeté sur les travaux de recherche. « J’essaye de maintenir une crédibilité, mais si mes interlocuteurs habituels que sont les procureurs, les policiers et les gendarmes s’effraient de mon travail, ma relation en sera-t-elle grillée ? Vont-ils travailler uniquement avec des universités et organismes qui feront le voeu de ne pas être islamo-gauchistes ? »

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/06/10/islamo-gauchisme-a-l-universite-la-ministre-frederique-vidal-accusee-d-abus-

    • Ces attaques répétées contre le monde universitaire sont un chiffon rouge agité devant une opinion surchauffée par le #confusionnisme d’extrême droite qui se nourrit des frustrations sociales en les exacerbant « en même temps » avec des fantasmes identitaires et une volonté de renouer avec une certaine « grandeur » tout aussi fantasmée, lesquels fantasmes ont malheureusement contaminé une partie de la gauche nostalgique de « l’esprit des lumières » et d’une vision biaisée de la #laïcité. C’est une logique hégémonique de #reconquista pour conforter les « valeurs » mortifères héritées de l’occident gréco-romain puis chrétien. Cette logique hégémonique procède des mêmes intentions que le nazisme avec l’antisémitisme et le fantasme « judéo-bolchevique ». Quelques années après le deuxième conflit mondial, on a pu voir outre-atlantique se développer un anti-communisme propulsé par le sénateur Joseph McCarthy et plus récemment, cette logique était également à la manœuvre pendant le mandat de Trump avec pour conséquence la résurgence des mouvances issues du #suprémacisme_blanc.

      Make the Christian Occident great again ! ...

      #propagande_d'état

      (Mon propos est certainement synthétique mais c’est pourtant cela qu’évoquent les analyses d’ #Éric_Fassin)

    • #Caroline_Fourest sur LCP, 02.07.2021 :

      Journaliste : La société se racialise. A ce point-là ?
      Caroline Fourest : « En France, je peux vous dire, dans nos universités, à commencer par nos universités... regardez la façon dont les chercheurs ont réagi à une interpellation, certes peut-être trop directe et pas tout à fait bien choisie de la ministre de l’enseignement supérieur, mais il y a un corporatisme violent qui est en train de protéger le déni. D’abord, aujourd’hui quand on parle de questions qui fâchent ceux qui vous attaquent le plus violemment ce sont des chercheurs du CNRS. C’est un problème que l’alerte soit interdite. Que le fait de penser soit interdit de la part de gens qui sont des chercheurs du CNRS. Et puis il y a une très forte attraction du modèle américain qui passe évidemment par toutes les plateformes culturelles de ce modèle-là et aussi qui attire à l’université qui manque de moyen. »
      Journaliste : « Donc il y a vraiment une perméabilité »
      Caroline Fourest : « Tout le monde s’identitarise. »
      Journaliste : « Les combats idéologiques sont toujours menés par des minorités, mais est-ce que c’est toute la société ? »
      Caroline Fourest : « Toute la société s’identitarise. Version d’extrême droite évidemment ça peut donner des jeunes blancs déclassés qui vont désormais dire blancs au lieu de se dire pauvres et de se mettre ne mouvement pour essayer de lutter contre les inégalités. ça va donner des jeunes qu’au lieu de se dire ’On va lutter contre les inégalités’ se mettent à lutter par identité à l’extrême gauche »

      https://twitter.com/LCP/status/1411024030296064004

    • Un article d’avril 2021 :

      #Stéphane_Troussel : ’La République ne sait que faire des différences physiques ou des couleurs de peau multiples’

      Refusant l’affrontement qu’imposent la droite et l’extrême droite sur les réunions non mixtes, le président (PS) du conseil départemental de Seine-Saint-Denis appelle, dans une tribune au « Monde », la gauche à s’extraire d’une polémique stérile et dangereuse pour lutter véritablement contre les discriminations qui fracturent la société.

      La polémique est repartie, le brouhaha médiatique ne retombe pas. Après les outrances et les manipulations de la droite et de l’extrême droite, c’est maintenant au Sénat de surenchérir en adoptant un amendement à l’exposé des motifs caricatural au projet de loi dit « contre les #séparatismes » [celui-ci permettrait de dissoudre les associations qui organisent des réunions non mixtes racisées]. A en croire certains, sommant tous les autres de choisir leur camp, la République pourrait bien vaciller.

      Au fond, de quoi s’agit-il ? Des personnes se rassemblent pour échanger sur leurs expériences sociales douloureuses, les #discriminations vécues à partir d’un critère physique, d’une #orientation personnelle... Caractéristiques qui leur sont régulièrement renvoyées en pleine face comme une insulte : #sexisme, #racisme, #homophobie, etc. Il s’agit de paroles de victimes de racisme, de discrimination, d’inégalités. Il faut les prendre comme telles et, bien évidemment, je refuse que cela enferme les personnes concernées dans une « #victimisation » et que cela devienne une #parole_politique autrement que par son intégration unifiée contre toutes les formes de discrimination.

      Mais peu importe pour celles et ceux (Jean-Michel Blanquer, des députés et sénateurs LR, l’extrême droite...) qui ont lancé, puis alimenté la polémique. Toutes celles et tous ceux qui expriment, même avec nuance ou avec des réserves, une quelconque approbation de ces démarches, de ces expérimentations militantes, souvent transitoires, consistant à permettre de libérer la parole, sont accusés de « #dérive_séparatiste », « racialisante ».

      Artifices antiracistes

      Les gros mots sont de sortie. Les voilà lancés, jetés à une foule de commentateurs qui les voient comme un affront fait à une République censée être aveugle à la #couleur_de_peau, à la religion réelle ou supposée, au sexe... L’affrontement est en place, les camps bien délimités, chacun est sommé de choisir le sien et de laisser les nuances au vestiaire : les #racialistes d’une part, les #universalistes de l’autre. « Il faut choisir son camp, crient les repus de la haine », écrivait Albert Camus, dans son Pour une trêve civile, en 1956, en pleine guerre d’Algérie, condamnant à égalité les massacres de civils du FLN et les massacres répressifs de l’armée française.

      Cela semble ne poser de problème à personne que cette #polémique permette, à un an de la présidentielle, à la chef de l’extrême droite de se parer d’artifices antiracistes et de tenter de cohabiter, avec d’autres, dans le camp universaliste. Ici se situerait donc le débat politique de notre temps, la nouvelle #fracture : je m’y refuse. Je m’y refuse, parce que, si nous en sommes là, c’est que la gauche est tombée dans le piège tendu par la droite la plus réactionnaire et l’extrême droite qui, désormais, fixent les termes du débat et l’agenda politiques de notre pays.

      Je m’y refuse parce que, justement, la bonne question, celle qui devrait animer unanimement une gauche solidaire, droite dans ses bottes, fière de ses valeurs, cette question-là, la gauche française n’a pas su, ou pas suffisamment su, quelle réponse y apporter. Pourquoi, en France, les dispositifs républicains de lutte concrète contre les discriminations et les inégalités qui fracturent notre société piétinent ou ne s’imposent qu’au forceps (#loi_SRU [Solidarité et renouvellement urbain], #testing, #CV_anonyme, récépissé de contrôle d’identité, #droit_de_vote des étrangers aux élections locales, conventions ZEP-Sciences Po, mariage pour tous, droits des femmes...) ? Celles et ceux qui, à droite et à l’extrême droite, hurlent avec les loups ont combattu chacune de ces avancées.

      Pourtant, il n’y a qu’à se baisser pour constater le chemin qu’il reste à parcourir dans la lutte contre les #inégalités_femmes-hommes, le racisme, l’homophobie ou le #passé_colonial et ses conséquences pour les descendants des ex-pays colonisés.

      Il faudrait interdire les organisations qui reprendraient à leur compte des solutions avancées par la gauche libérale américaine, fondée sur le multiculturalisme et la valorisation des identités plurielles ? Ou bien faut-il se demander pourquoi n’opposer qu’un discours « il faut réduisons les inégalités socio-économiques pour que tout le monde ait sa chance » - ou qu’un slogan « la République, rien que la République » ? qui sonne de plus en plus creux aux oreilles de celles et ceux qui restent au bord du chemin, alors que les inégalités sociales et territoriales explosent dans notre société.

      L’#égalité_réelle

      Voilà mon explication. Oui, sans aucun doute, la République a un problème avec le #corps des individus, elle ne sait que faire de ces #différences_physiques, de ces #couleurs multiples, de ces orientations diverses, parce qu’elle a affirmé que pour traiter chacun et chacune également, elle devait être #aveugle.

      Mais, sans aucun doute également, d’autres dans la République ont détourné cette promesse d’une #égalité_républicaine, politique et donc sociale, pour exclure. Exclure les #femmes d’abord, les #pauvres ensuite, les #ouvriers, ces « classes laborieuses donc classes dangereuses », puis les #étrangers, la « #racaille » et ses « #sauvageons », venus d’ailleurs, emmenant leurs religions, leurs mémoires et leurs histoires. Et la gauche ne verrait pas cela. Elle passerait à côté de ce détournement, voire y inscrirait ses pas, au lieu de saisir le problème à bras-le-corps.

      Au lieu d’affirmer que dans ce pays, où a été défendue la République, puis la République sociale, il faut maintenant défendre la #République_citoyenne_et_universelle, la #République_métissée, la #République_de_l'égalité_réelle, en tentant de comprendre son passé, ses erreurs et ses oublis, pour regarder ensemble, tous et toutes ensemble, plus sereinement son avenir.

      Note(s) :

      Stéphane Troussel est président du conseil départemental de la Seine-Saint-Denis.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/04/07/stephane-troussel-la-republique-a-un-probleme-avec-le-corps-des-individus-el

      #non-mixité

    • En 2004, dans Vivre Ensemble, on parlait déjà de ORS...
      Abri PC du #Jaun Pass :

      La logique de la dissuasion

      Le régime d’aide d’urgence imposé aux personnes frappées de non-entrée en matière (NEM) vise à déshumaniser l’individu. Tout est fait pour leur rendre le séjour invivable et les pousser à disparaître dans la clandestinité, comme le montrent les exemples ci-dessous relevés en Suisse allemande, où les personnes frappées de NEM et les requérants déboutés de la procédure d’asile sont placés dans des « centres d’urgence » ou « centres minimaux » (Minimalzentren). Petit tour des lieux dans les cantons de Berne et Soleure.

      Le canton de Berne, pionnier en la matière, avait déjà concrétisé le principe d’assignation à un territoire (art. 13e LSEE) bien avant l’entrée en vigueur de la loi au 1er janvier 2007, en ouvrant deux centres d’urgence, l’un sur le col du Jaun en juin 2004 et l’autre qui lui a succédé en 2005, sur l’alpage du Stafelalp : « Si notre choix s’est porté sur le Col du Jaun », expliquait la Cheffe de l’Office de la population lors d’une conférence de presse le 7 juin 2004, c’est notamment parce que cette solution « (…) n’incite pas à s’attarder en Suisse. » Et que : « D’autres personnes vont l’utiliser également. Il s’agit de personnes qui ont activement empêché leur renvoi ou qui dissimulent leur identité et qui n’ont pas encore fait l’objet d’une décision de refus d’entrer en matière… ».

      L’abri PC du Jaun

      Un des journalistes présents le décrit ainsi dans le Journal du Jura du 8 juin 2004 :

      « A l’extérieur, des grillages ont été installés afin que le lieu soit un peu isolé, et pour protéger les requérants d’éventuels importuns. (…) Les gens sont répartis dans des chambres de quatre à douze personnes (…) les requérants ne touchent pas d’argent liquide, mais des prestations en nature. Ce sont des bons qu’ils peuvent échanger contre de la marchandise au kiosque tenu par l’ORS (Organisation pour mandats spéciaux et en régie SA) qui gère le centre (…) ».

      Très peu de requérants s’y rendirent ; d’autres s’enfuirent, telle une mère avec une petite fille de deux ans qui vint chercher de l’aide à… Soleure ! Une jeune femme fut hospitalisée, suite à une grève de la faim.

      Sur l’alpage

      A l’abri de protection civile du col du Jaun fermé en novembre 2004, succéda le centre d’urgence du Stafelalp. En 2005, les NEM et d’autres personnes désignées comme des « NIKOS », abréviation de « Nichtkooperativ », ont été logés dans une ancienne colonie de vacances isolée, située sur l’alpage de Stafelalp. Dans ce centre, comme auparavant dans celui du Jaun, les requérants ont été cantonnés dans un périmètre de 2 km autour du centre, avec interdiction formelle de franchir ces « frontières ». Le centre de Stafelalp plus fréquenté que celui du Jaun était considéré comme « trop attractif » pour les autorités, et la durée moyenne de séjour des NEM (52 jours) trop longue. Il fallait trouver autre chose.

      En janvier 2006, le centre fut fermé et les NEM ont été réintégrés dans un centre de transit. Ils ne touchent pas d’argent mais ont droit à trois repas par jour. Ils s’y déplacent plus librement, du moins à pied. Mais le fait qu’ils ne disposent d’aucun pécule pour payer les transports publics restreint leur liberté de mouvement aux alentours et dans la commune de Lyss où est situé le centre.

      Soleure ne fait pas mieux

      Depuis mai 2006 (auparavant ils bénéficiaient d’aide en espèce et aucun hébergement n’avait été mis à leur disposition), les « NEM » soleurois sont logés dans le centre d’accueil pour requérants d’asile situé sur la montagne du Balmberg, mais ils n’y sont pas nourris. Ils y touchent 8 fr. par jour pour leur entretien, versés sur place tous les jeudis par le responsable du centre. Le contrôle de présence est journalier et ceux qui s’absentent perdent leur pécule pour les jours d’absence, voire leur droit à l’hébergement en cas de récidive. Les occupants n’ont pas le droit d’y accueillir des amis pour la nuit. Le visiteur externe doit demander une autorisation au responsable (qui lui est parfois refusée sous divers prétexte) pour y entrer.

      Là-haut sur la montagne !

      Le lieu est isolé. On y trouve trois téléskis et un restaurant, mais aucun magasin, si bien que les requérants frappés de NEM sont obligés d’utiliser l’autobus circulant de Soleure au Balmberg (prix du billet aller et retour : 11 fr.!) pour faire leurs achats et se procurer le nécessaire. Si les requérants d’asile encore en procédure, également logés dans ce centre, bénéficient de tickets de bus gratuits, ce n’est pas le cas des personnes frappées d’une NEM. Ils n’ont le droit de consulter un médecin qu’en cas d’urgence et c’est un des responsables du centre, sans formation médicale, qui prend la décision. Depuis quelques mois, les NEM doivent débourser quelques centimes pour des comprimés : antidouleurs, aspirine etc. (obtenus gratuitement auparavant) distribués sur place par le préposé à la pharmacie.

      Une stratégie efficace

      Le régime drastique, l’isolement et le nombre de descentes de police qui les terrorisent fait qu’au bout de quelques semaines, les NEM soleurois « disparaissent » dans la clandestinité. La méthode, il faut le reconnaître, est efficace et la stratégie de découragement sur laquelle l’Office des réfugiés (actuellement l’Office fédéral des migrations) avait misé dans un rapport de mars 2000 pour se débarrasser des indésirables, a l’air de se réaliser. Les six NEM qui sont encore au Balmberg ne pèsent pas lourd, en regard des centaines de ces « disparus volontaires », soumis dans les centres d’urgence « à une pression psychique insupportable » au point qu’ils ont préféré la clandestinité. Beau résultat pour un pays qui se vante d’être un Etat de droit.

      https://asile.ch/2007/02/05/suisse-allemandecentres-d%e2%80%99urgence-pour-nemla-logique-de-la-dissuasion

    • RTS | Des voix s’élèvent contre la prise en charge des migrants par des entreprises privées

      Amnesty International dénonce la situation dans le centre de migrants de Traiskirchen en #Autriche. L’organisation pointe du doigt la surpopulation et les conditions d’hygiène déplorables qui y règnent. Or ce centre est géré par la filiale autrichienne de l’entreprise privée zurichoise ORS. Une nouvelle qui relance le débat sur l’encadrement des requérants par des privés.

      https://seenthis.net/messages/402089

    • The Corporate Greed of Strangers
      –-> ORS Service AG in Austria and Switzerland

      Other international players like the Swiss company ORS Service AG are also expanding into Germany. ORS in 2015 had five reception centres in Munich.

      ORS Service is based in Zurich in Switzerland and was set up as a private company to work with the Swiss federal government from 1991 to house asylum seekers. For twenty years, through to 2011, although the contract should have been retendered every five years the Swiss government did not put the contract out to tender.

      In 2011 ORS Service outbid European Homecare for the federal contract in Austria for reception centres under the responsibility of the ministry of interior. By the end of 2014, they were providing twelve reception centres including tent camps in Salzburg and Linz and being paid around 22 million euros by the federal government. ORS runs Austria’s main initial reception centre in the town of Traiskirchen, near Vienna, which was designed for around 1700 refugees. By the summer of 2015 over 3,000 refugees were living there, Amnesty International called the ORS camp ‘shameful’, with 1,500 people forced to sleep outside on lawns and nearby roads.

      On its home territory ORS Service works in partnership with the Swiss Securitas private security company in delivering a very controversial reception and accommodation policy which has included remote locations and housing asylum seekers underground in wartime military bunkers. Reception and detention policies have been influenced by Swiss politics which over the past few years have been dominated by the anti-immigrant Swiss People’s Party (UDC) which has become the largest party at the federal level. Currently refugees arriving in Switzerland have to turn over to the state any assets worth more than 1,000 Swiss francs (£690) to help pay for their upkeep, a practice that has drawn sharp rebukes for Denmark.

      https://seenthis.net/messages/465487

    • Quand l’accueil des personnes en exil devient un bizness

      A l’origine, il s’agit d’une agence d’intérim lausannoise créée en 1977 nommée ORS Services SA. En 1992, la société devient ORS Service AG et déménage à Zurich. En 2005, le fondateur de l’entreprise la revend à #Argos_Soditic qui la revend à #Invision en 2009, qui finalement la revend à #Equistone en 2013. Equistone Partners Europe est un fond d’investissement international avec des antennes dans 4 pays européens. ORS déclare un chiffre d’affaires de 65 millions de francs suisses pour 2014, essentiellement en provenance de fonds publics. Selon plusieurs médias, celui-ci atteint 85 millions en 2015 mais son bénéfice n’a jamais été divulgué. Alors quand Claude Gumy, directeur opérationnel à Fribourg dit dans le journal Le Temps « Notre but n’est pas de gagner de l’argent pour le compte d’investisseurs. Nous nous occupons avant tout d’êtres humains », de qui se moque-t-il ? Pour faire des économies l’État suisse délègue la gestion de « l’accueil » a des investisseurs qui après avoir spéculé sur les marchandises et dépouillé les pays pauvres spéculent sur les flux migratoires qu’ils ont ainsi engendrés. Leur entreprise est d’ailleurs réputée pour sa collaboration inconditionnelle avec les services étatique et la police dont les pratiques répressives ne font aucun doute.

      https://seenthis.net/messages/573420

    • Gestion de l’asile | ORS Fribourg : Quand l’État fait la sourde oreille. Business is Business ?

      Pour faire la lumière sur les agissements d’ORS, le mouvement solidaritéS et le collectif Droit de rester ont rédigé un rapport d’une trentaine de pages. Il recense les témoignages de quelques dizaines de personnes : usagèr.e.s d’ORS, bénévoles et travailleurs/euse sociaux/ales. Le groupe s’est confronté à la réticence de certain.e.s témoins potentiels. ORS interdit à ses employé.e.s de parler de l’entreprise à des personnes externes, sous peine de sanctions, même après la fin du contrat.

      https://seenthis.net/messages/786789
      #rapport

    • ODAE-romand | L’envers du décor dans les centres fédéraux

      Une demandeuse d’asile a passé près de six mois dans les CFA de #Zurich, #Boudry et de #Giffers. Dans le bulletin d’Augenauf de novembre 2020, elle raconte les #conditions_de_vie, les #brimades, #vexations et #violences quotidiennes qu’elle y a vécues. L’ODAE romand en publie quelques extraits.

      https://seenthis.net/messages/893672

      Texte original publié par Augenauf (en allemand) :
      https://www.augenauf.ch/images/BulletinProv/Bulletin_106_Nov2020.pdf

    • Lettre ouverte au SEM - Droits humains gravement violés au Centre Fédéral d’Asile de #Boudry : peut-on encore parler d’un centre “d’asile” ?

      Chères et chers journalistes et sympathisant·es,

      Vous trouverez ci-dessous une lettre ouverte que nous avons adressée ce jour au Secrétariat d’Etat aux Migrations, à travers Messieurs Mario Gattiker, Secrétaire d’Etat, et Pierre-Alain Ruffieux, responsable asile pour la Suisse romande. Elle a également été envoyée à Monsieur Jean-Nathanaël Karakash, conseiller d’Etat neuchâtelois en charge du Département de l’Economie et de l’Action Sociale.
      Droits humains gravement violés au Centre Fédéral d’Asile de Boudry : peut-on encore parler d’un centre “d’asile” ?

      –---

      Nous dénonçons depuis longtemps des situations inhumaines au Centre Fédéral d’Asile (CFA) de Boudry (NE)[1], mais les cas de réfugié·es subissant de #mauvais_traitements - le mot est faible - s’accroît de façon préoccupante. Ce qui se passe depuis plusieurs mois maintenant est intolérable et ne peut rester sans réaction de notre part.

      Selon nos informations et observations, nous ne sommes pas face à des cas isolés, mais devant un véritable #système_punitif, qui va au-delà de tout ce qu’on peut imaginer. #Abus_de_pouvoir de certain·es agent·es de sécurité de l’entreprise #Protectas, #mépris et #comportements_racistes qui créent un climat de #peur et poussent à bout certain·es habitant·es du Centre. Visites impromptues du personnel de sécurité dans les chambres, sans frapper, ni dire bonjour, gestion catastrophique des #conflits, sans souci de calmer le jeu, ni d’écouter. "Ils ne savent pas parler, ils répriment”, raconte un habitant du Centre. Des requérant·es jugé·es arbitrairement et hâtivement comme récalcitrant·es sont enfermé·es pendant des heures dans des containers insalubres et sous-chauffés. Plusieurs témoignages attestent d’une salle sans aucun mobilier, avec des taches de sang et des odeurs de vomi et d’urine. Beaucoup en ressortent traumatisés. Une personne s’est récemment retrouvée en état d’#hypothermie [2].

      Les témoignages vont tous dans le même sens : peur de porter #plainte par #crainte des conséquences pour sa procédure d’asile ou par crainte de recroiser les mêmes agent·es de sécurité. Mais les faits sont là : utilisation abusive du #spray_au_poivre, #plaquages_au_sol, #insultes_homophobes, #harcèlement envers des personnes vulnérables et #hospitalisations suite à l’#enfermement dans des cellules. Plusieurs #tentatives_de_suicide sont attestées et il y a eu #mort d’homme : le 23 décembre, un requérant d’asile est décédé aux abords du Centre de Boudry. Il s’agissait d’une personne vulnérable, suivie en psychiatrie et qui avait déjà tenté de se suicider. Alors que cette personne avait besoin d’aide, à plusieurs reprises, le personnel de sécurité de Protectas lui a refusé l’accès au Centre, du fait de son état d’ivresse.

      A Boudry, la #violence est banalisée. Au lieu d’apaiser les conflits, les agent·es de Protectas les attisent. Des membres du personnel de sécurité abusent de leur pouvoir en faisant régner leurs propres lois. Ainsi, alors que les #cellules_d’isolement ne sont prévues que pour protéger les requérant·es d’asile et le personnel du CFA de personnes ayant un comportement violent et pour une durée n’excédant pas deux heures[3], on constate que la réalité est tout autre. Le moindre dérangement est réprimé par un #enfermement_abusif et qui dépasse souvent le temps réglementaire, allant jusqu’à un #isolement d’une nuit entière. Nous avons eu connaissance d’un mineur qui a été enfermé alors que le règlement l’interdit. De telles #privations_de_liberté sont illégales. Pour échapper à ces mauvais traitements, beaucoup quittent la procédure d’asile en cours de route.

      Les droits humains sont violés dans les CFA, en toute impunité, dans un #silence de plomb que nous voulons briser. Ce qui se passe à Boudry se passe aussi ailleurs[4] et c’est la conséquence d’une logique de camps. C’est tout un système que nous dénonçons et non pas des dysfonctionnements ponctuels.

      ***

      Face à cette gestion désastreuse et les drames humains qu’elle entraîne, nous demandons qu’une enquête indépendante soit ouverte établissant les faits en toute objectivité. En accord avec les personnes qui ont pris contact avec Droit de Rester, nous sommes prêt·es à témoigner.

      Nous demandons que des mesures concrètes soient prises pour mettre fin à ce système défaillant, qui transforme les CFA en prisons. Il n’est pas normal que le budget alloué à l’encadrement sécuritaire par le SEM soit plus important que celui consacré à l’encadrement social et sanitaire dans les CFA. Il est nécessaire de renverser la vapeur en engageant des professionnel·les du travail social et de la santé en nombre suffisant et ayant pour mission de soutenir, d’écouter, de soigner et de répondre aux besoins spécifiques des requérant·es d’asile. Ceci dans l’optique de créer un climat de bienveillance, réparateur des traumatismes vécus sur la route de l’exil par les personnes dont ils-elles ont la charge. Actuellement, les agent·es de sécurité ont des prérogatives immenses qui ne devraient absolument pas leur être confiées en raison d’un manque de formation flagrant.

      Nous demandons la suppression immédiate de ces cellules-containers et la refonte complète du régime de sanctions.

      Nous exigeons la fin de la privatisation du domaine de l’asile ; l’arrêt de toute collaboration avec des entreprises de sécurité ou d’encadrement privées de surcroit cotées en bourse (telles que Protectas, Securitas ou ORS) dans le cadre des CFA et autres lieux d’hébergement. L’asile n’est pas un business. L’argent attribué à ces tâches par l’Etat doit revenir à des structures sociales et de soins publiques.

      Nous exigeons transparence et respect du droit suisse et international. Actuellement les CFA sont des boîtes noires : les règlements internes sont inaccessibles, les requérant·es d’asile n’obtiennent pas les rapports des sanctions prononcées à leur encontre, rapports rédigés par Protectas dont le contenu varie à leur guise afin de justifier les sanctions aux yeux du SEM. Toute sanction devrait être prononcée par du personnel cadre du SEM.

      Nous demandons l’introduction d’un organe de médiation indépendant de gestion des plaintes vers qui les requérant·es d’asile lésé·es pourraient se tourner. Finalement, il est nécessaire d’ouvrir les portes des CFA aux organisations et personnes de la société civile – comme c’est notamment le cas en Hollande, pays dont la Suisse s’est inspirée pour mettre en œuvre le système actuel – afin de rompre l’isolement et de cesser avec ces zones de non-droit.

      Nous demandons aussi la fermeture du Centre spécifique des Verrières, restreignant la liberté de mouvement de ses occupants de par son emplacement-même et conçu comme un centre punitif. C’est de soutien psychologique et de soins dont les requérant·es d’asile, y compris celles et ceux qui sont jugés récalcitrant·es, ont besoin à leur arrivée. L’équité des soins par rapport à ceux offerts à la population résidente doit être effective. Ce sont l’isolement, l’exclusion, la promiscuité et l’armada d’interdits qui accentuent les traumatismes, les addictions, le stress et les tensions. Stop à la logique de camp !

      C’est une alerte que nous lançons. Nous espérons qu’elle sera entendue et attendons qu’elle soit suivie d’effets dans les meilleurs délais.

      Contact médias :
      Denise Graf, 076 523 59 36
      Louise Wehrli, 076 616 10 85
      Caterina Cascio, 077 928 81 82

      [1] Voir par exemple ici : https://rester.ch/wp-content/uploads/2020/05/2020.05.28_Communiqu%C3%A9_de_presse_camp_nous_d%C3%A9non%C3%A7ons-1.pdf ou là : https://www.canalalpha.ch/play/minimag/episode/3819/risque-de-suicide-quel-soutien-psy-pour-les-migrants-a-boudry

      [2] Le 17 février, la radio RTN révèle un cas d’hypothermie survenue au centre de Boudry 2 jours plus tôt : https://www.rtn.ch/rtn/Actualite/Region/20210215-Etat-d-hypothermie-au-Centre-de-Perreux.html

      [3] Voir à ce sujet les p. 51-52 du Plan d’exploitation Hébergement : https://www.plattform-ziab.ch/wp-content/uploads/2020/10/SEM_PLEX_2020.pdf

      [4] A ce sujet, sur les violences au Centre de Giffers : https://asile.ch/2020/06/23/le-courrier-violences-a-chevrilles, sur celles au centre de Bâle : https://3rgg.ch/securitas-gewalt-im-lager-basel , témoignages récoltés par Migrant Solidarity Network (1 et 2), ici le rapport de la Commission Nationale de Prévention de la Torture : https://asile.ch/wp-content/uploads/2021/01/CNPT_CFA_DEC_2020-fr-1.pdf et là le communiqué de humanrights.ch : https://www.humanrights.ch/fr/qui-sommes-nous/commentaire-violences-cfa

      Lettre reçu via la mailing-list Droit de rester, le 12.03.2021

    • Les conséquences de l’asile au rabais

      Le Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) est enfin sorti de son mutisme. Mercredi, sous pression, après d’énième révélations sur des cas de mauvais traitements dans les centres d’asile, il a annoncé qu’il mandatait une enquête indépendante concernant plusieurs cas de recours excessif à la force.

      C’est une avancée car, jusqu’ici, l’institution n’avait jamais reconnu de dysfonctionnements. Alors que quatre plaintes avaient été déposées contre la société de sécurité #Protectas en juin dernier par des demandeurs d’asile blessés au centre de #Chevrilles, il n’avait pas bronché, déléguant d’éventuelles sanctions à la société privée. Plus d’un an après, justice n’a toujours pas été rendue. Certains plaignants ont été expulsés…

      Le SEM affirme avoir aussi suspendu 14 membres du personnel de sécurité impliqués dans différentes affaires, notamment pour un recours abusif à des « #salles_de_réflexion », que certain·es nomment « salles de torture ». Berne a été sommé de réagir suite à un enregistrement clandestin qui prouve que les agent·es n’hésitent pas à falsifier des rapports dans le but de justifier le recours à la violence. Le SEM a annoncé qu’il allait réexaminer les modalités de recrutement du personnel de sécurité et leur formation.

      C’est un premier pas, mais insuffisant. Quatorze suspensions pour combien d’incidents impunis ? « J’ai vu des gens se faire tabasser sous mes yeux… la plupart ne portent jamais plainte. Si tu te plains, tu peux être sûr que les sévices doubleront », nous confiait hier un homme qui a résidé au centre de #Boudry et de Chevrilles.

      Les associations actives dans le domaine de la migration dénoncent depuis des années le processus de #privatisation de l’asile. La Confédération recoure à des sociétés privées pour assurer la sécurité et l’encadrement dans ses centres. Or, ces entreprises ont pour objectif de faire du profit. Il n’est pas étonnant qu’elles lésinent sur les moyens. Recrutements à la va-vite, formations inexistantes et contrats précaires engendrent des situations explosives où le personnel est démuni face à une population au parcours extrêmement difficile.

      La Suisse doit faire mieux, elle en a les moyens. Alors que des personnes cherchent ici protection, elles rencontrent violence et mépris. Il est inacceptable que nos impôts continuent à financer un système arbitraire perpétuant une terreur que les personnes migrantes ont fuit au péril de leur vie.

      https://lecourrier.ch/2021/05/06/les-consequences-de-lasile-au-rabais

    • Documentation | Violences dans les centres fédéraux d’asile

      Depuis plusieurs mois en Suisse des cas de violences perpétrées dans et autour des centres fédéraux d’asile (CFA) ont été dénoncés. Sans changements significatifs opérés, d’autres sont à craindre. Pour que les personnes réfugiées ne soient pas à nouveau des victimes isolées, il est important d’apporter un regard externe sur ce qui se passe au sein des CFA. Ces questions touchent à la cohésion sociale. Le 5 mai 2021, les résultats d’une enquête de médias associés ont été présentés au public (https://www.rts.ch/info/suisse/12175381-bavures-et-rapports-trafiques-la-securite-derape-dans-les-centres-feder), révélant à nouveau des exactions commises par les employé.es des sociétés de sécurité envers des résident.es. Le Secrétariat d’État à la migration (SEM) a réagit par voie de presse (https://www.sem.admin.ch/sem/fr/home/sem/medien/mm.msg-id-83389.html) en annonçant l’amorce d’une enquête indépendante. Les médias et la société civile jouent un rôle essentiel pour faire la lumière sur des questions de sécurité publique et de respect des droits humains.

      Le 5 mai dernier les résultats d’une enquête de la RTS (https://www.rts.ch/info/suisse/12175381-bavures-et-rapports-trafiques-la-securite-derape-dans-les-centres-feder), SRF et la WOZ a été rendue publique. En s’appuyant sur des enregistrements et témoignages, elle documente plusieurs exactions commises par les personnes en charge de la sécurité dans différents centres fédéraux d’asile. “Des rapports sont parfois truqués par les agents de sécurité pour se couvrir. En réaction à ces révélations, le Secrétariat d’État aux migrations a fait suspendre 14 de ces employés de sociétés privées et lance une enquête externe” (RTS). Le téléjournal de midi, de 19h30 et l’émission Forum en ont parlé. Le matin même, le SEM a publié un communiqué annonçant avoir été informé du recours à des “mesures coercitives disproportionnées” de la part d’agent.es de sécurité. Demandé depuis plusieurs années par la société civile, il annonce avoir chargé l’ancien juge Niklaus Oberholzer d’une enquête indépendante et vouloir réfléchir au recrutement et à la formation de ces personnes . Le quotidien Le Courrier (https://lecourrier.ch/2021/05/05/quatorze-agent%c2%b7es-de-securite-suspendu%c2%b7es) est allé à la rencontre du collectif Droit des rester Neuchâtel qui doute de ces dernières mesures : « Nous demandons que ce soit des entités publiques à but non lucratif qui gèrent l’encadrement. Celles-ci doivent engager des professionnel·les de la médiation, du travail social, de l’interculturalité et de la santé. »

      Avant cela, le 28 avril 2021 le Secrétariat d’État à la migration (SEM) avait publié un communiqué (https://www.sem.admin.ch/sem/fr/home/sem/medien/mm.msg-id-83251.html) déplorant l’augmentation des menaces envers les centres d’asile fédéraux (CFA). Il y est fait état de déprédations faites aux bâtiments, mais également de menaces et de mises en danger d’employé.es du SEM. Dans le viseur, des « groupes de gauche radicale » qui feraient appel via leur site à des actes de vandalisme, ou même appel à la violence envers des employé⸱es. Les associations de défense du droit d’asile ont condamné de tels procédés. La Plateforme Société civile dans les centres fédéraux s’est positionnée (https://mailchi.mp/d2895a50615c/neuigkeiten-baz-nouveauts-cfa) en rejetant toute forme de violence. Le collectif bâlois 3RGG -auteur d’un rapport répertoriant les actes violents envers les personnes requérantes d’asile au sein du centre fédéral d’asile du canton de Bâle (BässlerGut) – se distancie également de ces méthodes (https://asile.ch/2021/04/30/3rgg-communique-violences-dans-les-camps-federaux-dasile) qui ne sont pas les leurs. Ses auteurs regrettent que leurs appels à se mobiliser contre les violences impunies du personnel de sécurité envers des résident⸱es isolé⸱es n’ait connu que peu d’échos dans les médias et dans la vie des centres en conséquent.
      Jusqu’ici ce sont d’autres types de dénonciations de violence en lien avec les CFA qui ont été exprimées. En 2021, au CFA de Boudry (NE) c’est un cas d’hypothermie (https://lecourrier.ch/2021/02/17/hypothermies-au-centre-dasile) pour une personne placée en « cellule de dégrisement » qui a servit de révélateur à ce que Droit de rester Neuchâtel décrit comme un « réel système punitif ». En 2020, dans le centre de renvoi de Giffers, quatre #plaintes (https://asile.ch/2020/09/22/solidarite-tattes-giffers-visite-aux-requerants-qui-ont-denonce-des-violences) ont été déposées contre la société de sécurité Protectas pour des exactions envers des résident.es. A BässlerGut, le travail d’enquête (https://asile.ch/2020/07/30/enquete-violences-au-centre-federal-de-bale-quand-le-systeme-deraille) poussé qu’avait publié le collectif 3 RGG faisait état de violences graves perpétrées par des personnes en charge de la sécurité envers les personnes résidentes, avec des processus de dénonciation inefficient à l’interne. La commission nationale de prévention de la torture (CNPT) après une visite au sein de plusieurs CFA en janvier 2021 suggérait elle aussi des améliorations (https://asile.ch/2021/01/20/cnpt-rapport-dobservation-des-centres-federaux-dasile-la-violence-pointee-du-d) concernant la gestion des conflits, la prévention de la violence et la gestion des plaintes. Une des réponses offerte par le SEM est celle de la réouverture du centre spécifique des Verrières pour accueillir les personnes qui « représentent une menace pour elles-mêmes ou pour autrui ». L’OSAR s’inquiète (https://www.osar.ch/communique-de-presse/centre-des-verrieres-les-requerants-dasile-doivent-beneficier-dune-representati) de cette mise à l’écart pour des personnes généralement fragilisées. Selon l’organisation, il vaudrait bien mieux miser sur la prévention de la violence et renforcer l’encadrement.

      Liées à des conditions structurelles, ces dénonciations de part et d’autres ne s’arrêteront probablement pas là. Dans ce jeu du chat et de la souris, les médias et la société civile jouent un rôle important pour faire la lumière sur des dynamiques en présence. L’éditorial du dernier numéro de la revue Vivre Ensemble le rappelait : ” […] les centres fédéraux réunissent les deux ingrédients de la violence institutionnelle : fermés d’accès au regard public, ils donnent au personnel un pouvoir énorme sur une catégorie de personnes. Or, les véritables garde-fous à l’impunité et à l’arbitraire se situent du côté de la transparence. Et la société civile est bien là, du côté des victimes, et ne manque pas de le lui rappeler. “

      https://asile.ch/2021/05/07/documentation-violences-dans-les-centres-federaux-dasile

    • Centres fédéraux | À l’écoute des victimes

      Le #déni des autorités intenable face à la médiatisation des violences

      Le mois de mai aura vu la question des violences dans les CFA tenir une belle place dans l’actualité. D’abord avec les enquêtes de la RTS, de la SRF et de la Wochenzeitung, puis avec le rapport d’Amnesty International qui relate des cas de maltraitances à l’égard de requérant·es d’asile qui pourraient s’assimiler à de la torture [1]. Des témoignages de victimes, mais également d’ancien·es employé·es des centres ont été recueillis et des enregistrements, effectués à l’insu du personnel de sécurité, ont permis d’établir que leurs rapports de sanction à destination du SEM sont truqués.

      Ces enregistrements proviennent du téléphone d’une femme enfermée dans un container-cellule. Le mobile lui avait été confisqué par le personnel de sécurité et a capté deux heures de leurs conversations. Cela se passe donc dans la loge des agent·es de sécurité de Protectas, il y a quelques mois au CFA de Boudry dans le canton de Neuchâtel. On y entend les agent·es discuter du contenu du rapport qu’ils doivent faire parvenir au SEM pour justifier leur mise en cellule. Une agente qui n’a pas assisté aux événements est chargée de le taper. Les cellules, ce sont donc ces containers sans aucuns meubles, dotés seulement d’une petite fenêtre, à l’odeur de vomi, d’urine et tâchés de sang au sol. Les requérant·es d’asile y sont enfermé·es, parfois pendant deux heures, parfois plus. Une caméra permet de les filmer.

      Ces pratiques, éminemment choquantes ne sont pas étonnantes. Elles sont davantage la conséquence d’un système, plutôt que le fait d’individus. Car les événements qui ont eu lieu dans différents CFA, à différentes dates, se ressemblent de façon troublante. À l’origine de ces actes de violence, il y a le plus souvent des événements que l’on pourrait qualifier d’incidents. Un téléphone volé, un masque sous le nez ou une perte de patience dans la longue file d’attente pour le repas. Et plutôt que d’apaiser les conflits de façon non violente et bienveillante, le personnel de sécurité les amplifie en usant de sa force physique et verbale, de ses gros bras et de son uniforme imposant. À cela s’ajoutent des mesures radicales comme ces mises en cellule appliquées de façon arbitraire et non conforme au règlement du SEM. Comme on l’a entendu, il suffit d’enjoliver le rapport pour le SEM pour maquiller ces imperfections. Le SEM doit d’ailleurs en être conscient, mais en déléguant ces tâches à des prestataires privés, il peut allégrement fermer les yeux. La responsabilité est dissoute dans la chaîne hiérarchique. Alors que légalement le SEM est pleinement responsable.

      Les dénonciations de nombreux collectifs dans différents CFA depuis plus d’une année et à de nombreuses reprises ont longtemps été traitées avec mépris par le SEM, qui a toujours nié ou prétendu avoir pris des mesures. Il aura fallu ces preuves irréfutables et un dégât d’image important pour le faire plier, un tout petit peu.

      Il a annoncé la suspension de 14 agent·es de sécurité, un audit interne, une enquête externe à Boudry par un ancien juge fédéral, la suppression des containers et une réflexion sur la mise en place d’un bureau externe chargé de recueillir les plaintes des requérant·es d’asile. On peut se réjouir de ce dernier point. Mais reste encore à voir quelle sera la mise en œuvre concrète. Pour le reste, ne nous méprenons pas. Il ne s’agit pas là d’une révolution, mais bien d’une communication bien rôdée.

      Car évidemment il ne suffira pas que les containers insalubres soient remplacés par de jolies salles de « réflexion » aux couleurs apaisantes. Parce que sales ou propres, cela restera des cellules. Il n’est pas suffisant non plus que les agent·es de sécurité impliqué·es dans les quelques affaires récemment médiatisées soient remplacé·es par d’autres. Tant que le cadre de travail sera le même, les mêmes violences se reproduiront. Il suffit de lire le rapport d’Amnesty et les témoignages d’anciens agents de sécurité ou d’assistants sociaux pour comprendre combien celles-ci font partie de la culture d’entreprise. On ne peut que redouter qu’un nouveau lieu à haut potentiel de violence systémique sorte de terre à Genève, dans le cadre du projet de construction d’un centre fédéral au Grand-Saconnex (lire ici).

      Tant que les requérant·es d’asile continueront à être considéré·es comme une catégorie de la population à part, rien ne changera. Il faudra continuer de dénoncer ce qui se passe derrière les portes de ces centres. Et d’écouter, sans mettre en doute, la parole des réfugié·es qui se seraient bien passé de subir de nouvelles violences, après avoir fui celles de leur pays et en avoir subi sur la route de leur exil. On peut ici souligner le rôle des médias qui ont, à travers leurs investigations, contribué à amener sur la place publique des pratiques dénoncées depuis de nombreuses années par des organisations de la société civile. Et contraint les autorités d’asile à sortir du bois.

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      INÉDIT | Immersion dans la loge des agent·es de sécurité du CFA de Boudry

      L’enregistreur vocal du smartphone était enclenché. Confisqué par des agent·es de sécurité du Centre fédéral de Boudry, le téléphone d’une requérante d’asile a enregistré par inadvertance durant près de deux heures les conversations qui se sont tenues dans leur loge. Nous publions la retranscription complète et inédite de cette capture audio, anonymisée.

      Discussions entre membres du personnel, interactions avec des requérant·es d’asile : les échanges sont révélateurs d’un climat latent d’irrespect et de violence ordinaire induite par le rapport de force et le choix de confier l’encadrement des résident·es des Centres fédéraux d’asile à des agents de sécurité démunis d’outils de médiation. La gestion uniquement sécuritaire des tensions, inévitables dans des lieux de vie collectifs, l’absence de prise en compte par le personnel d’une réalité évidente, celle que les personnes logées là sont dans une angoisse existentielle liée à leur demande de protection, l’impunité renforcée par des mécanismes visant à tout régler « à l’interne », ressortent de leurs propos. Dans la dernière édition de la revue « Vivre Ensemble », nous avons publié un extrait de cet enregistrement : celui-ci montre comment les agent·es trafiquent un rapport justifiant la mise en cellule d’isolement d’une femme, en accusant celle-ci d’acte de violence. La retranscription complète de l’enregistrement montre que celle-ci était venue solliciter l’aide de la sécurité pour que celle-ci aide un enfant (en pleurs) à récupérer un téléphone portable qu’il s’était fait voler par un homme hébergé au centre, et que face au refus de l’agent, elle avait voulu en référer à la direction du centre. La suite permet de s’immerger dans un huis clos quasi fictionnel.

      https://asile.ch/2021/08/23/centres-federaux-a-lecoute-des-victimes
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      Transcription d’un enregistrement audio réalisé au Centre fédéral d’asile de Perreux (Boudry)

      Date: mercredi 20 janvier 2021, en fin de journée

      Légende

      A : femme requérante d’asile, dont le téléphone a capté cet enregistrement
      AS 1 : agent de sécurité impliqué dans la scène de démarrage du conflit
      AS 2 : agent de sécurité qui vient rapidement en renfort du 1er. Il semble qu’il y ait deux personnes derrière AS 2. Les voix sont difficiles à identifier
      AS 3 : agente de sécurité avec une fonction qui semble supérieur à AS 1 et 2
      AS 4 : agente de sécurité avec une fonction dirigeante, ou en tout cas davantage administrative car elle rédige les rapports
      + autres agent·es non-distingués les un·es des autres
      Le téléphone d’un enfant vient d’être volé dans le centre par un requérant d’asile à qui il l’avait confié. « A » interpelle alors un agent de sécurité pour lui demander d’agir et de retrouver le téléphone. L’agent de sécurité pense que l’enfant est son fils, mais ce n’est pas le cas. A enclenche alors le mode enregistrement sur son téléphone.

      A : You’re the security and you should to take a look
      Agent de sécurité 1 : No, no security for look the child, look your phone there
      A : I’ll complain, I’ll complain about that interacting
      AS 1 : No, what what, the time where you put your phone here, no security must look, it’s your mission.
      A : You’ll not try to search, not at all ?
      AS 1 : No, no, no, that your responsability.
      A : But you’re security
      AS 1 : That your responsability. Look, your children, madame, your children, they go up. The time when something happens to up, you come see security ?
      A : But normally you’re accessing the doors without permission ?
      AS 1 : I ask you, you no see your children you (mot incompréhensible)
      A : I’ll complain about that. What is your name or number of the working ? Because you’re just not searching for this telling stuff but discussing about me
      AS 1 : Yes
      A : You don’t do that. So what is your name because I need to complain.
      AS 1 : For me ?
      A : Yes or number of working.
      AS 1 : My number ?
      A : Yes
      AS 1 : For what ?
      A : For working. Because you’re working here and you have the number. I’ll complain, believe me, you don’t do your work
      AS 1 : No. Madame, I’m telling you something, ok ? I know place you’re coming from, ok ?
      A : Poland
      AS 1 : Ok in Switzer… I don’t know.
      A : We’re complainig pretty much and we’ll complain, not to the SEM, but your boss I’ll complain, Protectas, and to the SEM, to the SEM, to the government and to the everyone.
      AS 1 : If you don’t take your responsability… (en s’adressant à un autre requérant d’asile) Brother, brother, come in please. Tell this woman, ok, « if you come here… »
      A : (également à l’autre requérant d’asile) He doesn’t want to check the stealing stuff but they’re accessing the doors and checking the people. But he can’t check the stealing stuff.
      AS 1 : Can you leave me talk with him ?

      Brouhaha car A et AS 1 parlent en même temps avec beaucoup de bruits en arrière-fond et notamment l’enfant qui s’est fait voler son téléphone qui pleure. On entend plusieurs autres requérants d’asile parler de ce qui s’est passé. AS1 finit par proposer à A de se rendre à la loge des agent.es de sécurité pour discuter de l’affaire.

      AS 1 : Can you go to the security office ?
      A : (A l’enfant qui pleure) Yes, we’ll look for you phone. (à AS 1) You still didn’t tell me your number !

      Echanges entre différents requérants d’asile avec l’agent de sécurité. A redemande le numéro de l’agent et insiste.

      AS 1 : Take my picture
      A : No, I don’t want to take your picture
      AS 1 : Take my picture
      A : Ok no problem

      A le prend en photo. On entend ensuite du bruit et on imagine que l’AS1 essaie de lui retirer son téléphone et user de la force. A commence à gémir « ahouaoua, ahouaha » (« aïe » à de multiples reprises).

      https://asile.ch/2021/06/30/inedit-immersion-dans-la-loge-des-agent%c2%b7es-de-securite-du-cfa-de-boudry

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      Violences | un arrière-goût de déjà-vu

      Une enquête est en cours pour déterminer si des mesures coercitives disproportionnées ont été utilisées à l’encontre de requérants d’asile dans certains centres fédéraux. Il s’agirait, selon certains, de dérives individuelles. Selon d’autres, l’autorité a tort de sous-traiter une tâche régalienne à des sociétés privées.

      En fait, le problème se pose depuis belle lurette. En 1993 déjà, l’aumônerie genevoise auprès des requérants d’asile (AGORA) relevait, dans une lettre à l’Office fédéral des réfugiés (ODR), le SEM d’alors, que le personnel mis en place dans le Centre d’enregistrement de La Praille, inauguré l’année précédente, « n’était ni assez nombreux ni suffisamment formé pour remplir sa tâche. » L’aumônerie ajoutait que ce personnel n’assurait pas « un minimum d’écoute permettant de désamorcer les tensions ».

      La gestion de ce centre avait été confiée à l’ORS Service SA et à Securitas. Le CHERANE (Conseil pour l’hébergement des requérants non-enregistrés) qui, avec le soutien d’associations et du canton, assurait depuis deux ans l’accueil des candidats à l’asile, avait été écarté. Le M. Réfugiés de l’époque, Peter Arbenz, avait déclaré « ne pas avoir besoin d’assistants sociaux avec une mentalité tiers-mondiste ». Le Conseil d’État genevois avait boycotté l’inauguration, expliquant le refus de l’offre du CHERANE par « la crainte d’introduire le loup des œuvres d’entraide dans la bergerie fédérale ». « Les locaux de la discorde », avait titré la Tribune de Genève (18.04.1992).

      L’aumônerie, qui pouvait, avec de strictes limitations, pénétrer dans le Centre d’enregistrement, a dénoncé maintes fois, au cours des années suivantes, ce qu’elle considérait comme des abus. Certes, des membres du personnel faisait preuve d’empathie envers les requérants, mais, dans l’ensemble, le système policier établi manifestait bien plus une méfiance, voire un rejet qu’un accueil de personnes en quête de protection.

      À mes yeux, cette attitude reflétait le regard de peur, ou même d’hostilité porté par une partie de la population et des autorités sur des requérants d’asile dont beaucoup venaient de subir moult épreuves et souffrances. J’ai peur qu’il en soit toujours de même.

      https://asile.ch/2021/08/23/violences-un-arriere-gout-de-deja-vu

      #violence #torture #maltraitance #Protectas #SEM #Boudry #responsabilité

  • La #RTS, #Darius_Rochebin et la loi du silence

    Gestes déplacés, propos salaces, utilisation de fausses identités sur les réseaux sociaux : de nombreux témoignages font état de dysfonctionnements au sein de la RTS. Parmi les figures épinglées, l’ancien présentateur phare Darius Rochebin

    Genève, décembre 2017. A l’intérieur de la tour de verre qui abrite la RTS, il est environ 20h. Dans un enregistrement transmis au Temps, deux journalistes discutent hors antenne de la bombe médiatique du moment : l’affaire Yannick Buttet (PDC/VS). En pleine vague #MeToo, le politicien valaisan quitte le parlement à la suite de l’ouverture d’une procédure pénale à son encontre après le dépôt d’une plainte pour harcèlement sexuel. La polémique est nationale.

    « Je trouve que c’est l’arbre qui cache la forêt, dit une première voix, celle d’une présentatrice du service public. En tant que nana… on est là, on s’étonne. Tu te dis, excusez-moi, mais ici, c’est quand qu’on la fait, l’enquête ? » Son collègue rebondit : « C’est un autre débat, ça. Qui c’est qui plaque contre les murs ici ? » Elle rétorque : « Darius, il fait ça. »

    En une phrase, le mythe vacille. Darius Rochebin aurait-il outrepassé ses droits ? La suite de l’enregistrement laisse par ailleurs entendre qu’il n’est pas le seul. Le Temps a mené l’enquête. Fruits de plusieurs mois de travail, nos recherches ont permis de lever le voile sur des comportements pour le moins problématiques de la part de plusieurs collaborateurs du service public. Survenus à partir du début des années 2000, certains de ces faits étaient connus à l’interne mais n’ont jamais été révélés publiquement.

    Connivence entre cadres, personnalités influentes, taille de l’entreprise publique permettant à certains départements de déplacer les personnes mises en cause plutôt que de les sanctionner, crainte d’un dégât d’image dans le cadre de la votation « No Billag », peur de représailles professionnelles : les raisons du silence sont nombreuses.

    Pourquoi le briser maintenant ? A la faveur d’une libération historique de la parole ces dernières années et à la suite du départ en France de Darius Rochebin, une chape de plomb semble progressivement se lever à la RTS. A une exception près, les personnes qui apparaissent dans l’article ont toutefois souhaité que leur nom soit modifié. Certaines d’entre elles sont en effet encore en poste, tout comme celles qu’elles désignent.

    Lire aussi : Harcèlement sexuel au travail : de quoi parle-t-on ?
    1. Des dysfonctionnements depuis le début des années 2000

    Trois cas emblématiques témoignent de l’inaction aujourd’hui dénoncée. Le premier concerne un cadre toujours en poste – appelons-le Robert*. « Cette affaire représente environ dix ans de dysfonctionnement de la part d’un manager envers ses subordonnés en position de faiblesse et autant d’alertes ignorées par la direction », témoigne Pierre*, un collaborateur de la RTS.

    Entre 2005 et 2015, une quinzaine d’employés du service public se plaignent tour à tour de ce dernier : mobbing, harcèlement sexuel, envoi intempestif de lettres « vicieuses », SMS suggestifs pendant et en dehors des heures de bureau. Des subalternes affirment sortir « abîmés » de séances d’évaluation en sa compagnie. Le climat de travail est si mauvais qu’un collaborateur en vient presque aux mains avec lui au bureau. L’idée d’une plainte collective auprès de la police est même évoquée, avant que le front commun ne se délite. Pierre l’affirme : Robert est à l’origine de plusieurs burn-out et d’au moins deux démissions. « Il sait se rendre aimable avec ses égaux et ses supérieurs, dit-il. Mais une fois dans son pré carré, il réduit les gens en bouillie. »
    « Dans un placard doré »

    Pendant plusieurs années, la gravité de la situation est régulièrement signalée à la direction, sans effet. Au milieu des années 2010, un mail explosif parvient aux ressources humaines : une employée a récolté toutes les preuves (lettres, SMS) du harcèlement sur plus d’un an de la part de Robert à son encontre et demande des actes. La RTS tente de la raisonner et propose une médiation aux deux collaborateurs. Elle refuse. A sa demande, elle sera finalement mutée dans une autre ville. Selon une source proche du dossier, la RTS lui signifie en outre de « respecter la confidentialité la plus stricte » sur la situation. Robert aurait quant à lui reçu un simple avertissement.

    Quatre mois plus tard, il refait parler de lui : une autre de ses subalternes est mise en arrêt maladie à la suite de ce qu’elle estime être du mobbing. La direction est de nouveau interpellée et traite le problème à sa façon : en 2015, Robert est promu. « Placé dans un placard doré. » L’expression revient chez la demi-douzaine de personnes qui ont témoigné à son sujet. « Il n’a plus le droit d’avoir de subordonnés directs, mais jouit d’un statut confortable au sein de la hiérarchie, souligne Pierre. C’est malheureusement trop souvent ainsi que fonctionne la gestion des ressources humaines à la RTS. Tant qu’il n’y a pas de scandale public, les problèmes sont étouffés. »

    « De manière générale, il n’y a pas de prévention du harcèlement à la RTS, corrobore une autre de ses anciennes subalternes, qui a, depuis, changé d’employeur. J’ai essayé d’alerter mes supérieurs, mais personne n’a voulu m’écouter. Robert a été couvert et défendu par la hiérarchie. J’ai eu l’impression que le même profil du mâle alpha quinquagénaire se retrouvait à tous les échelons de la direction. La politique de management est rétrograde et ce type de comportement est protégé. »
    « La main baladeuse »

    L’enregistrement évoquant Darius Rochebin en début d’article mentionne un deuxième cas problématique : celui de Georges*, employé de longue date à la télévision romande, connu à l’interne pour avoir « la main baladeuse ». Son comportement est cependant allé plus loin. Selon nos informations, il a embrassé plusieurs fois l’une de ses anciennes subalternes sans son accord, avant d’insister par SMS à de nombreuses reprises. Cette dernière a confié son histoire au Temps, tout en souhaitant limiter l’exposé des détails afin de se préserver autant que possible.

    « J’aurais dû lui foutre une claque plus tôt, dit-elle. Mais il y avait une relation de pouvoir et j’avais honte. » Elle n’osera pas en informer ses supérieurs. Ceux-ci étaient-ils au courant ? Sans pouvoir le confirmer, cette ancienne employée de la RTS répond qu’après avoir raconté ce qu’il lui était arrivé à ses collègues, on l’avait avisée qu’il « avait déjà fait ce genre de choses auparavant ». Si ce n’est de la direction, l’affaire était connue d’un bon nombre d’employés. « La RTS est une maison où les collaborateurs se cramponnent à leur siège, juge cette ancienne collaboratrice. Certains sont là depuis trois décennies et se soutiennent les uns les autres. » Comme Robert, Georges est toujours en poste.

    Contactée par Le Temps, au sujet de ces deux collaborateurs, la direction de la RTS a fourni la réponse suivante : « Nous ne pouvons pas commenter les cas particuliers en raison de la protection de la personnalité. Lorsqu’un cas survient, nous le traitons toujours avec diligence et fermeté. »

    Les personnes qui se confient aujourd’hui sont nombreuses à évoquer la honte et la crainte que leur vécu ne soit ramené à une simple affaire de « drague lourde ». Pourtant, la loi est claire, comme le rappelle Sylvie Durrer, la directrice du Bureau fédéral de l’égalité : « Tout comportement importun de caractère sexuel ou tout autre comportement fondé sur l’appartenance sexuelle, qui porte atteinte à la dignité de la personne sur son lieu de travail, relève du harcèlement sexuel, selon l’article 4 de la loi fédérale sur l’égalité entre femmes et hommes. » Il n’existe pas de définition exhaustive dudit harcèlement, qui peut se manifester sous diverses formes : « contacts physiques, attouchements non souhaités, avances ou encore pressions ». « Les comportements qui contribuent à créer un climat de travail hostile, par exemple des plaisanteries déplacées, peuvent aussi représenter du harcèlement sexuel », précise la directrice.

    Les responsabilités de l’employeur sont également encadrées par la loi, souligne-t-elle : « En plus de son obligation d’instaurer des mesures de prévention contre le harcèlement sexuel, l’entreprise est tenue de prendre au sérieux les signalements de tels harcèlements et doit établir les faits. Les rumeurs et allusions doivent aussi donner lieu à une enquête. »

    Autour de Darius Rochebin, un silence assourdissant

    Des bruits de comportements déplacés, il en existe depuis des années au sujet d’un autre employé du service public : Darius Rochebin, présentateur phare de la RTS jusqu’à l’été 2020. Au-delà de ses compétences professionnelles incontestables, sa réputation, à l’interne, le précède : mains glissées sous les chemises de collègues masculins, allusions salaces récurrentes ou encore proximité avec de jeunes hommes sont régulièrement évoquées. Au sein de la chaîne publique, on raille volontiers sa conduite, sans toujours en mesurer les conséquences.

    Depuis que le présentateur a quitté la chaîne nationale pour LCI, plusieurs témoins commencent à évoquer ce qu’ils ont vécu, même si des craintes demeurent. Comme deux faces d’une même médaille, Darius Rochebin renvoie une image assurée à l’écran mais peut se comporter de manière inadéquate une fois les caméras éteintes. D’anciens ou d’actuels collaborateurs de la RTS rapportent ainsi le malaise, la sidération même, ressentis lors de conversations banales qui dérapent subitement sur le terrain sexuel ou intime. La parole a même fait place aux actes, comme en témoignent Aurore* et Clémence*.

    Un comportement « ahurissant et totalement déplacé »

    Avant l’incident, Aurore, employée de la RTS depuis une dizaine d’années, n’avait eu que des contacts épisodiques et toujours strictement professionnels, avec Darius Rochebin. « On se croisait dans les couloirs, parfois dans des séances, on s’échangeait un ou deux e-mails par année », précise la quinquagénaire. Un soir de 2014, elle quitte son bureau pour se rendre à une réunion. « J’ai croisé Darius Rochebin qui sortait de l’ascenseur, raconte-t-elle. On a fait quelques pas ensemble dans un couloir vide en discutant du boulot. Subitement, il a pris mon visage dans ses mains et a essayé de m’embrasser. Je l’ai immédiatement repoussé. Il est parti de manière furtive, sans me regarder ni présenter d’excuses. » Sous le choc, Aurore arrive « décalquée » à sa séance. « J’étais interloquée par son comportement que je jugeais ahurissant et totalement déplacé. J’ai pris ça pour un coup de folie. » Par la suite, leurs rares échanges professionnels se sont déroulés comme si de rien n’était. « J’ai voulu oublier cet épisode, confie Aurore, qui n’a jamais averti sa hiérarchie. Si ça s’était répété, j’aurais sans doute réagi différemment. »

    Collaboratrice de la RTS, Clémence relate des faits analogues. Au cours de sa carrière, cette mère de famille côtoie régulièrement Darius Rochebin. Peu après le Nouvel An 2006, à quelques heures du journal télévisé, c’est l’effervescence en salle de maquillage. « Tout le monde s’embrassait et s’échangeait des vœux pour la nouvelle année », se souvient Clémence. Darius Rochebin est là, aux côtés d’autres collègues. « Il s’est approché de moi, je l’ai pris par l’épaule pour lui faire la bise, il a saisi ma main libre et l’a fermement posée sur ses parties génitales », raconte Clémence. Les autres personnes présentes dans la salle ne réagissent pas. « Je ne sais pas si elles ont vu la scène », souligne la journaliste, qui relate l’incident à des collègues proches et à son mari, mais pas à sa hiérarchie de l’époque. C’est seulement à l’automne 2017, en pleine vague #MeToo, qu’elle en informe son supérieur. « Il est tombé des nues et a dit qu’il allait lui parler. Je ne sais pas ce qui s’est passé ensuite, je n’ai plus jamais eu de nouvelles. Je crois que c’est allé plus haut, mais je n’ai pas eu d’écho direct, je n’ai plus voulu me mêler de cette histoire.
    Un « malaise » apparaît

    Un autre témoignage illustre la marge de manœuvre dont bénéficiait Darius Rochebin au sein de la RTS : celui d’Antoine*, 22 ans au moment des faits. En mai 2012, Darius Rochebin entame une conversation privée avec le jeune homme sur le réseau social Twitter. A l’époque, le Genevois est un étudiant en lettres qui tente de percer dans le journalisme et voit en Darius Rochebin « un mentor inespéré » dans un milieu très compétitif. « Les conversations ont commencé de manière anodine, raconte Antoine. J’étais flatté qu’une telle star s’adresse à moi. Le ton était ambigu et est rapidement devenu aguicheur. J’étais surpris, mais intrigué. »

    Quelques jours plus tard, Darius Rochebin propose à Antoine un café, puis un dîner. « Il me disait qu’il devait tester de grands restaurants pour des articles et payait à chaque fois pour nous deux, précise l’étudiant. J’étais impressionné par ce faste, et évidemment par son statut. Lors de notre troisième rencontre, quelques semaines après notre première conversation, nous sommes allés en voiture dans la campagne genevoise. Au restaurant, il m’a présenté comme un jeune journaliste prometteur. »

    C’est sur le trajet du retour qu’Antoine raconte avoir eu « de premières appréhensions », termes qu’il utilise pour retranscrire son malaise dans un journal intime. « Il s’est arrêté au bord de la route. Il a initié un rapport sexuel, je ne l’ai pas repoussé. Je n’avais pas envie d’aller plus loin, mais j’avais l’impression de ne plus pouvoir revenir en arrière. En partant, il a dit qu’il m’enverrait le contact d’un rédacteur en chef qui pourrait m’offrir un stage. Son mentorat prenait implicitement une dimension transactionnelle, et je m’y suis plié. » Peu après, le présentateur met comme promis l’étudiant en relation avec un éminent producteur de la RTS et lui propose une visite des locaux de la télévision publique.
    « Une mission sur mesure »

    Quelques mois après leur premier échange sur Twitter, Darius Rochebin intervient directement auprès de la direction de la RTS pour mettre en place une collaboration avec Antoine : « Il m’a créé une mission sur mesure en tant que photographe. Il m’emmenait partout, du Festival de Cannes aux conférences du dalaï-lama », se souvient l’étudiant.

    Interrogée au sujet de cette mission, la direction de la RTS répond qu’en 2012, « Darius Rochebin a collaboré avec un photographe free-lance. Cette collaboration ponctuelle n’était pas effectuée dans le cadre du mandat de production de l’émission Pardonnez-moi, mais a eu lieu à l’occasion d’un événement pour le 10e anniversaire de l’émission. Pour cette exposition uniquement, la RTS a rémunéré le photographe sur la base des tarifs de droits d’auteur. »

    Des documents en notre possession laissent pourtant supposer qu’Antoine n’a pas été rémunéré uniquement sur la base des droits d’auteur. Selon la facture adressée par le jeune homme à la direction de la RTS, la rémunération est par ailleurs arrêtée à 800 francs, avec mention « forfait indiqué par M. Darius Rochebin ».

    Au fil des mois, la relation entre la star et l’étudiant se tend. « Plus j’étais distant, plus il devenait jaloux, inquisiteur, raconte ce dernier. Je redoutais les conséquences de mes refus sur ma situation professionnelle. Je ne savais plus comment mettre fin à cette relation. C’était une lutte continuelle. J’ai pris peur. » Antoine finit par couper les ponts et ignorer les relances du présentateur, avec qui il n’a aujourd’hui plus aucun lien.

    Des aspirants journalistes fascinés

    Alexandre* et Hugo*, deux jeunes hommes qui ont travaillé directement avec le présentateur, racontent eux aussi ses multiples tentatives d’immixtion dans leur vie privée : allusions déplacées, questions lubriques pendant et en dehors des heures de bureau, rapports de pouvoir ambigus. Fascinés, les jeunes journalistes peinent à réagir.

    Le premier, Alexandre, 24 ans au moment des faits, a travaillé à la RTS lorsqu’il était étudiant. En 2014, Darius Rochebin lui propose un soir d’aller manger. « Au restaurant, on discutait de choses et d’autres, et puis, soudain, il m’a demandé : « Mais toi Alexandre, tu te branles souvent ? » Choqué, le jeune étudiant élude. « Sur le moment, j’ai paniqué, j’ai fait une petite crise d’angoisse », raconte-t-il. Par la suite, Alexandre reçoit régulièrement des messages de Darius Rochebin sur Facebook : « ah, mais tu es tellement beau », « tu m’avais manqué », « ta bizarrerie brillante est trop attachante », « on se refait un dîner ? » Des sollicitations auxquelles le jeune homme répond peu, tentant de contenir les rapports au niveau strictement professionnel.

    Le deuxième, Hugo, a également travaillé à la RTS durant ses études entre 2011 et 2015. Dès leur premier contact, Darius Rochebin l’ajoute sur Facebook. « Lorsque l’on est stagiaire et qu’il s’agit de la star de la rédaction, c’est flatteur », souligne Hugo, 22 ans à l’époque. Darius Rochebin lui envoie ensuite des messages privés ambigus puis à caractère sexuel sur les réseaux sociaux. Le jeune étudiant décrit un malaise : « C’est comme s’il avait une double personnalité : l’une brillante, l’autre pas assumée, perverse. Plusieurs autres journalistes m’ont parlé de leur gêne lorsqu’ils étaient seuls avec lui en plateau et qu’ils ne pouvaient plus vraiment le côtoyer sans y penser. J’ai été surpris de voir à quel point cette facette du présentateur était connue dans son environnement professionnel, mais pas hors de la RTS. Une omerta à la mesure de l’épaisseur du personnage. »
    2. De fausses identités sur les réseaux sociaux

    Des alertes, la direction de la RTS en a pourtant reçu. « Tout le monde sait, mais personne ne fait rien » : c’est l’intuition qui anime Thomas Wiesel en 2017 lorsque le mouvement #MeToo libère la parole des victimes d’abus. Le jeune humoriste a rencontré Darius Rochebin en 2015 alors qu’il débutait dans le métier. « Quand il m’a contacté professionnellement, il faisait des remarques sur mon physique, me proposait de se voir pour une émission ou un verre, voulait mon numéro de téléphone plutôt que mon e-mail. Plusieurs personnes m’avaient mis en garde. J’ai immédiatement mis des barrières et il n’a pas insisté. »

    S’il ne s’est pas senti lui-même en danger, Thomas Wiesel craint que d’autres personnes ne restent silencieuses par peur des conséquences ou par honte de s’être laissé amadouer. D’autant que le Vaudois s’interroge depuis longtemps sur l’utilisation des réseaux sociaux par Darius Rochebin : alerté par plusieurs personnes, il soupçonne le présentateur d’avoir créé de faux comptes de femmes sur Facebook pour entrer en contact avec de jeunes hommes, dont certains de ses amis. Pour en avoir le cœur net, l’humoriste commence à enquêter.
    Une campagne « No Billag » très sensible

    A l’automne 2017, peu avant la votation sur l’initiative « No Billag » qui visait à supprimer la redevance radio-TV, Thomas Wiesel contacte le nouveau directeur de la RTS, Pascal Crittin, en poste depuis quelques mois seulement, afin de l’interpeller sur le sujet. Que savait la direction de la réputation de Darius Rochebin et de l’alerte formelle lancée par Clémence ? « Affirmant n’être au courant de rien, Pascal Crittin a fait part de son étonnement, raconte l’humoriste. Il m’a toutefois assuré qu’il ferait toute la lumière sur l’affaire et que Darius Rochebin serait suspendu si une plainte contre lui était déposée. »

    La direction de la RTS confirme aujourd’hui ces échanges. « Nous avons pris très au sérieux les propos de Thomas Wiesel et l’avons invité à nous fournir des éléments concrets, ainsi qu’à inciter les personnes concernées à prendre contact avec la justice, souligne Pascal Crittin. Toutefois et à ce jour, nous n’avons reçu aucune preuve, aucun document, ni aucun témoignage direct. » Pour Thomas Wiesel, il est « surprenant que l’entreprise n’ait jamais cherché à enquêter elle-même en profondeur, suite aux rumeurs qui circulaient depuis des années et encore plus suite à ce signalement ».

    Après l’intervention de l’humoriste, le nouveau directeur convoque néanmoins Darius Rochebin, une information confirmée par la direction de la RTS : « Nous lui avons fermement et formellement rappelé nos règles professionnelles concernant la présence sur les réseaux sociaux. » Selon nos informations, l’intéressé aurait reconnu, lors de l’entretien, l’existence de ces comptes Facebook mais affirmé qu’ils étaient gérés par des amis. Aujourd’hui, ces comptes Facebook ont été nettoyés.

    Si l’éventualité que les faux comptes mentionnés par Thomas Wiesel aient été gérés par des personnes voulant nuire à la réputation de Darius Rochebin a longtemps été évoquée, Le Temps a aujourd’hui la preuve qu’il n’en est rien. C’est bien l’ancien présentateur de la RTS qui a usé de fausses identités créées de toutes pièces pour entrer en contact tant avec des collègues qu’avec des inconnus. Il s’en est notamment servi pour obtenir des informations sur leur vie privée et orchestrer des rendez-vous. Une dizaine d’entre eux, contactés par Darius Rochebin entre 2009 et 2017, nous ont livré leur récit. L’un était mineur au moment des faits. Par souci de concision, tous ces témoignages n’ont pas été reproduits ici.
    Les mystérieuses Laetitia Krauer et Lea Magnin

    Sur Facebook, le présentateur a créé au moins deux fausses identités formellement identifiées : Laetitia Krauer et Lea Magnin. La première ayant de loin été la plus active. Toutes deux sont supposées être étudiantes à l’Université de Genève. Sur leur photo de profil, dont on ignore la provenance, elles semblent très jeunes.

    Dans plusieurs conversations en ligne datant de 2012 que Le Temps a pu obtenir, Darius Rochebin évoque ouvertement son stratagème. « Tu veux voir l’un de mes avatars ? » questionne le présentateur, avant d’ajouter : « Regarde Laetitia Krauer, elle t’a envoyé un message », le tout accompagné d’une capture d’écran. « Sur Facebook, si Lea Magnin poste ça va ? Ou tu la trouves faux profil ? » poursuit Darius Rochebin dans une autre conversation. « J’ai aussi le code de mon ex mais je l’utilise pas trop, écrit-il encore. Les plus malins voient qu’il n’y a pas de vraie activité normale, mais si une fois tu veux sonder des gens (...) c’est génial comme les gens se livrent... » Le compte à travers lequel il s’exprime a été créé à partir de son ancienne adresse mail professionnelle de la RTS.

    Juriste en droit des technologies, Mikhaël Salamin précise que « l’utilisation d’une photo de profil – une donnée personnelle – pourrait être considérée comme une usurpation d’identité » puisque celle-ci est définie comme « l’usage abusif de données personnelles d’une tierce personne permettant son identification ». « L’usurpation d’identité en tant que telle ne figure pour l’instant pas dans le Code pénal suisse et ne peut donc être réprimée que si elle est liée à d’autres méfaits, comme l’atteinte à l’honneur, la violation de la personnalité, voire le harcèlement, détaille le juriste. Elle devrait néanmoins être introduite d’ici deux ans à la faveur d’une révision complète de la loi sur la protection des données, en l’absence d’un référendum populaire. »

    Une systématique précise

    Le procédé mis en place par Darius Rochebin obéit à une systématique précise, tant sur l’approche que sur les personnes ciblées. Ce sont, pour la plupart, de jeunes étudiants, stagiaires journalistes ou engagés en politique. Des individus qui, un jour ou l’autre, pourraient avoir besoin des médias et qui, de prime abord, ont toutes les raisons d’être flattés que Darius Rochebin s’intéresse à eux. Les conversations avec l’animateur débouchent d’ailleurs régulièrement sur des invitations à venir visiter les locaux de la RTS, voire à intervenir sur le plateau du téléjournal.

    Le premier contact intervient souvent après une première et modeste apparition à l’antenne, un événement ou encore un débat estudiantin auquel Darius Rochebin participe en tant qu’invité de marque. La plupart du temps, les internautes contactés croient parler à deux personnes distinctes : Darius Rochebin et une jeune étudiante – soit Laetitia Krauer, soit Lea Magnin. Ils ignorent que le présentateur mène en réalité ces deux discussions en même temps. Systématiquement, le présentateur star, dissimulé sous les traits de ces jeunes femmes, invite son interlocuteur à répandre des rumeurs à son propre sujet : « tu sais que Darius a une mini-bite ? », « son mini-kiki ne dépasse pas la taille de sa main en pleine action », « un dé à coudre » – et insiste sur la nécessité d’en parler.

    Une fois le domaine de la sexualité mis en avant, les questions de Laetitia Krauer ou de Lea Magnin au sujet de l’anatomie de leurs interlocuteurs s’enchaînent. Elles sondent les pratiques et les préférences sexuelles de ces derniers, demandent leur avis au sujet de Darius Rochebin. Sous les traits de Laetitia Krauer et de Lea Magnin, le présentateur cherche même à entraîner ses interlocuteurs sur le terrain de la critique insultante envers lui-même. Dans quel dessein tente-t-il de susciter de telles accusations ? Que fait-il des informations ainsi récoltées ? Ces questions restent ouvertes.

    Au fil des années, le procédé commence à éveiller des soupçons. Certaines cibles, alertées par d’autres, font rapidement le rapprochement entre Lea Magnin, Laetitia Krauer et Darius Rochebin et mettent un terme à la discussion. Pensant parler à une vraie femme, d’autres poursuivent en revanche l’échange et « se livrent ».

    A noter qu’une certaine Laetitia Krauer intervient également dans les médias pour saluer les performances de Darius Rochebin. Dans Télétop Matin en 2007 : « Merci à Darius Rochebin pour le merveilleux moment de « Pardonnez-moi » avec Mimie Mathy. A la fois drôle, piquant, émouvant à certains moments. » Idem en 2013, dans le guide TV et cinéma encarté dans La Liberté : « Sympa, l’initiative. J’adore Darius Rochebin qui est classe avec une pointe d’humour. »
    Un mineur trompé par un faux profil

    Plusieurs jeunes hommes révèlent avoir été visés par ces doubles approches en ligne. Samuel* a 16 ans lorsqu’il rencontre pour la première fois Darius Rochebin. Le collégien genevois s’intéresse à la politique, aux médias, et milite dans la section jeune d’un parti. A ses yeux, l’animateur est un modèle de réussite, une icône. En avril 2012, il est contacté sur Facebook par une certaine Laetitia Krauer qui lui parle immédiatement du petit pénis de Darius Rochebin, cherche à savoir ce qu’il pense de lui et lui demande son âge. Samuel répond qu’il a 17 ans – arrondissant son âge à la hausse, à quelques mois de son anniversaire. Le lendemain, l’adolescent reçoit une invitation Facebook de Darius Rochebin lui-même. Troublé par cette coïncidence, il en fait état au présentateur. Ce dernier lui répond que Laetitia Krauer est une « copine de son ex », « chaude comme la braise » et l’incite à tenter sa chance.

    Par la suite – la conversation durera plus d’un an – Darius Rochebin s’intéresse à la vie de Samuel, lui propose de visiter les coulisses de la RTS avec des camarades, promet de lui donner des conseils professionnels. « Il a instauré une forme de camaraderie entre nous, il adoptait le langage d’un pote, me donnait des conseils de drague », souligne Samuel, alors mis en confiance. En parallèle, Laetitia Krauer lui suggère de répandre les rumeurs précitées quant à l’anatomie de Darius Rochebin et s’évertue par tous les moyens à connaître la taille du sexe de Samuel, ce qu’elle n’obtiendra pas. Au fil du temps, Samuel commence à douter de l’identité de Laetitia Krauer qui l’inonde de messages, et s’en ouvre à Darius Rochebin. Le présentateur rassure immédiatement le collégien, tout en se distanciant de Laetitia Krauer : « Je pense qu’elle existe, mais elle est instrumentalisée par mon ex », dit-il.

    Samuel ne répondra plus aux sollicitations de Laetitia Krauer, mais acceptera trois rendez-vous avec Darius Rochebin. A deux reprises, le présentateur le convie au pied de la tour RTS. Le jour du premier rendez-vous, l’adolescent est impatient de partager un moment privilégié avec une star de l’audiovisuel. S’attendant à retrouver le présentateur pour un café à la RTS, il est étonné d’être invité à monter dans sa voiture garée dans un parking souterrain, après avoir marché quelques minutes dans la rue. « Je l’ai suivi mécaniquement sans poser de questions, raconte Samuel. J’étais intimidé, mais exalté. Avec le recul, je me dis que des alertes auraient dû sonner. » Ils roulent pendant quinze minutes avant que Darius Rochebin ne le dépose devant un hôtel proche de la gare. En rentrant chez lui, Samuel, « interloqué et un peu honteux », esquive les questions de ses parents, curieux de savoir comment s’est déroulée la rencontre avec celui qu’ils voient comme un modèle pour leur jeune fils.

    Le lendemain, Darius Rochebin s’excuse pour la brièveté du rendez-vous et lui propose un café. Lors de cette rencontre et de la suivante, le présentateur tient des propos salaces au jeune homme toujours mineur : « C’est vrai que les collégiennes sucent de bon cœur ? » « Tu baises qui en ce moment ? » Des questions qui achèvent de dérouter Samuel, au stade de ses premières expériences sexuelles. Avec le recul, il peine encore à mettre des mots sur ce qu’il a ressenti : un mélange de dégoût, de gêne, mais surtout le sentiment d’avoir été piégé.
    « J’ai l’impression d’avoir été manipulé »

    Dylan* et Sébastien* ont eux aussi été contactés par Darius Rochebin et son avatar Laetitia Krauer, respectivement en 2009 et 2011. Pour Dylan, 18 ans à l’époque, qui rêve de devenir journaliste, Darius Rochebin est un « modèle de réussite ». Lorsque le présentateur entame la discussion, l’adolescent déchante : « J’ai immédiatement senti une ambiguïté dans sa manière de me parler, il n’avait pas l’air détaché, mais au contraire très intéressé. » Très vite, Darius Rochebin lui propose un rendez-vous, que Dylan annule au dernier moment, prétextant une grippe. « Une star de son envergure qui invite un jeune étudiant à boire un verre, je ne le sentais pas, j’avais peur. J’en avais parlé à mes parents qui avaient aussi été intrigués par l’invitation et m’avaient conseillé de décliner. » A l’époque, un autre indice avait aussi alerté Dylan : les étranges conversations avec Laetitia Krauer qui ne cesse d’évoquer l’anatomie de Darius Rochebin. « J’ai discuté avec elle durant des mois, sans jamais la voir. Lorsque je proposais un rendez-vous, elle esquivait toujours, elle jouait à un jeu malsain. J’ai vraiment l’impression d’avoir été manipulé. »

    Avec Sébastien, Darius Rochebin évoque d’emblée Laetitia Krauer, « amie commune » sur Facebook, dont il se sert pour justifier un premier échange. « Il m’a dit qu’il avait appris que cette fille me parlait et qu’il ne fallait pas que je rentre dans son jeu. J’ai trouvé cette approche très bizarre. J’étais agacé par ces histoires qui ne me regardaient pas. » Alors qu’ils se connaissent à peine, Darius Rochebin lui propose d’intervenir dans le cadre d’un débat à la RTS. « Ça m’a semblé étrange comme proposition, se souvient Sébastien. Comme s’il mélangeait les casquettes privée et professionnelle. Par la suite, il m’écrivait souvent pour me proposer de boire des cafés. Il m’a recontacté quand j’ai commencé dans le métier, pour me reparler de Laetitia Krauer, parfois jusqu’à 3h ou 4h du matin. Au point que ma copine de l’époque l’a remarqué. J’ai fini par couper les ponts. En en parlant autour de moi, j’ai réalisé que d’autres jeunes étaient concernés, à Genève et au-delà. »
    Les médias, un monde comme les autres

    Entre les personnes contactées, le mot circule en effet largement. A tel point qu’à l’aube de la votation sur l’initiative « No Billag », en 2018, plusieurs médias romands s’intéressent de près aux mystérieux avatars de Darius Rochebin. Selon plusieurs sources concordantes, la direction va alors jusqu’à mettre en place une stratégie de communication de crise pour parer à l’éventualité d’un scandale. Sans que celle-ci doive, pour finir, être actionnée.

    Contacté, Darius Rochebin a répondu par l’intermédiaire de son avocat. Il « conteste fermement s’être livré à des actes pénalement répréhensibles » et précise n’avoir « jamais fait l’objet d’une plainte pénale, ni a fortiori d’une quelconque condamnation pénale ».

    Baiser de force, main placée sur les parties génitales, propos déplacés, allusions sexuelles : la direction de la RTS était-elle au courant de tels comportements ? « Tout comportement déplacé et blessant dans le cadre professionnel, de quelque nature que ce soit, est incompatible avec les valeurs de notre entreprise et la RTS les condamne avec force, précise Pascal Crittin. Lorsque des cas sont portés à notre connaissance, ils sont immédiatement traités, le cas échéant avec une enquête externe indépendante. Selon les conclusions de l’enquête, des sanctions sont prises allant jusqu’au licenciement immédiat. »

    En novembre 2017, Darius Rochebin saluait lui-même la « libération de la parole » liée au mouvement #MeToo. Née dans le monde du cinéma, la vague de dénonciations s’est étendue à tous les secteurs. Dans l’univers médiatique toutefois, certains tabous continuent de persister, mais comme partout ailleurs, des voix commencent à s’élever.

    https://www.letemps.ch/suisse/rts-darius-rochebin-loi-silence
    #Suisse #sexisme #me_too #harcèlement_sexuel #MeToo #silence #omerta #dysfonctionnement #mobbing #plainte_collective #harcèlement #confidentialité #main_baladeuse #Laetitia_Krauer #fausse_identité #Lea_Magnin #avatars

    • #MeToo : mis en cause dans une enquête, Darius Rochebin se met en retrait de #LCI « quelques jours »

      L’ex-présentateur phare du journal télévisé suisse est accusé de comportements déplacés par une enquête du Temps.

      Trois ans après l’affaire #MeToo, une enquête du média suisse Le Temps vient ébranler une nouvelle icône médiatique. Ce samedi 31 octobre, un article du quotidien a mis en lumière des comportements sexistes et troublants au sein de RTS, la Radio télévision suisse. Après plusieurs mois de recherches, les trois auteurs de l’enquête dénoncent « des comportements pour le moins problématiques de la part de plusieurs collaborateurs du service public ». Ces actions sont survenues « à partir du début des années 2000 » et certaines étaient connues par les équipes de RTS, ajoutent les journalistes.

      Le cas le plus frappant concerne une « star » du petit écran helvétique, Darius Rochebin. Le journaliste, ancien présentateur du journal télévisé de RTS et désormais sur LCI est soupçonné de comportements « inadéquats », dont des « mains glissées sous les chemises de collègues masculins, allusions salaces récurrentes ou encore proximité avec de jeunes hommes ».

      Une collaboratrice l’ayant croisé dans un couloir raconte : « subitement, il a pris mon visage dans ses mains et a essayé de m’embrasser. Je l’ai immédiatement repoussé. Il est parti de manière furtive, sans me regarder ni présenter d’excuses ». Une autre se souvient d’un moment survenu peu après le Nouvel an 2006 : « Il s’est approché de moi, je l’ai pris par l’épaule pour lui faire la bise, il a saisi ma main libre et l’a fermement posée sur ses parties génitales ».

      Le présentateur est aussi accusé d’utiliser son influence pour rencontrer des étudiants d’une vingtaine d’années, avec lesquels il a des relations ambiguës. Il aurait également créé de faux profils de jeunes femmes sur Facebook pour « entrer en contact avec de jeunes hommes ». Il se serait servi de ces profils pour « obtenir des informations sur leur vie privée et orchestrer des rendez-vous », révèle Le Temps. Les conversations pouvaient aussi prendre une autre tournure : « Sous les traits de [ces faux comptes], le présentateur cherche même à entraîner ses interlocuteurs sur le terrain de la critique insultante envers lui-même », ajoute l’enquête.
      Darius Rochebin se met à l’écart « quelques jours » de LCI

      Visé par ces accusations, Darius Rochebin a répondu aux journalistes par l’intermédiaire de son avocat, contestant « fermement s’être livré à des actes pénalement répréhensibles ». « Jamais je n’ai fait l’objet d’une plainte. Jamais je n’ai eu de relation non consentie ou illicite. Je me battrai donc contre les amalgames, les ragots ou les insinuations dont je suis victime et j’examine avec mon avocat la suite judiciaire que je donnerai », a-t-il réagi, se disant « choqué par le récit malveillant » du Temps, qu’il juge « émaillé de propos anonymes ». « Jamais je n’en ai fait une position de pouvoir. Je n’ai d’ailleurs jamais exercé d’autorité hiérarchique. C’est dire combien il est faux que j’ai pu obtenir des échanges de faveurs et imposer une loi du silence pour couvrir des comportements illicites, s’ils avaient existé », conteste-t-il.

      Actuellement présentateur d’une émission sur LCI, Le 20h de Darius Rochebin, diffusée du lundi au jeudi entre 20h et 21h15, le journaliste ajoute avoir « demandé à LCI de [le] libérer quelques jours pour être auprès de [sa] famille ». « L’expérience de l’actualité m’a appris que tout pathos est inutile mais je tiens à dire combien je suis blessé par des attaques injustes. J’en suis d’autant plus déterminé », conclut-il.

      De son côté, le groupe TF1 a expliqué au Figaro n’avoir eu connaissance d’« aucun incident de cette nature » signalé au sein de la rédaction de LCI à l’encontre du journaliste. Le média « rappelle être très attaché à la présomption d’innocence, suit très attentivement cette affaire et prendra les mesures qui s’imposent selon son évolution. L’entreprise, qui sensibilise régulièrement ses collaborateurs, rappelle mener une politique active contre toute forme de harcèlement ».
      La direction de RTS se dit « consternée par la gravité et l’ampleur des faits reprochés »

      Parmi les exemples repérés par les auteurs figure également « Robert », un cadre toujours en poste et accusé, entre 2005 et 2015, de nombreux actes répréhensibles par « une quinzaine d’employés du service public ». Harcèlement sexuel, SMS suggestifs, envoi de lettres « vicieuses »... Les actions de ce cadre entraînent une dégradation du cadre de travail, provoquent des burn-out d’employés et il finit par être écarté par sa direction dans un « placard doré », après qu’une employée assure avoir « récolté toutes les preuves (lettres, SMS) du harcèlement sur plus d’un an de la part de Robert à son encontre et demande des actes ».

      La direction de RTS, quant à elle, nous assure être « consternée par la gravité et l’ampleur des faits reprochés. Si ces faits sont avérés, la RTS les condamne avec la plus grande fermeté. » Elle ajoute : « La RTS rejette fermement toute accusation de laxisme dans la gestion des cas de harcèlement ou de protection de ses collaborateurs. Les cas portés à la connaissance de la direction sont toujours traités avec diligence et de manière professionnelle, y compris avec le recours à des enquêtes externes. »

      Concernant Darius Rochebin, la direction indique avoir été uniquement informée « des faux profils ». « Nous allons vérifier toutes les informations figurant dans cet article, réexaminer ses processus internes et prendre toutes les mesures nécessaires pour les améliorer le cas échéant », ajoute notre source, défendant les outils mis en place au sein de l’entreprise pour « libérer la parole (...) et signaler tous cas problématiques ».

      « Plusieurs rédactions ont travaillé ces dernières années sur les manquements de l’institution RTS au sujet d’affaires similaires, sans jamais toutefois aboutir. Si nous y parvenons aujourd’hui, c’est au prix d’un travail acharné et d’une minutieuse collecte de faits », explique Le Temps dans un édito cinglant. Le quotidien, qui défend ses « trois courageux journalistes », juge que leur enquête a un « intérêt public » : « tout a été fait pour mettre sous cloche des comportements inacceptables » au sein de RTS, et le journaliste Darius Rochebin, l’une des anciennes figures de proue du groupe, n’a « pas été à la hauteur » de sa réputation de « modèle pour la profession et le grand public ».

      https://www.lefigaro.fr/medias/plusieurs-figures-du-media-suisse-rts-accusees-de-comportements-deplaces-20

    • Entre Darius Rochebin et la France, la désillusion

      La presse française relaie avec stupéfaction l’enquête du « Temps » sur les agissements du présentateur vedette, aujourd’hui en poste à LCI. Il annonce se mettre en retrait « quelques jours »

      Après le concert de louanges, la stupéfaction. Samedi, la presse française a découvert avec effarement les révélations du Temps sur le présentateur vedette Darius Rochebin, accusé d’avoir eu des comportements déplacés pendant sa carrière à la RTS. « Il était la curiosité de la rentrée médiatique française », rappelle le quotidien Libération dans un article relatant les faits. De son côté, Le Parisien juge que cette enquête « va faire de gros remous à LCI », en référence à la chaîne française qui a réalisé le transfert surprise de l’intervieweur suisse.

      Prévue à 14 heures ce samedi, son émission de « grands entretiens » a été remplacée par une discussion entre David Pujadas et le professeur controversé Didier Raoult. LCI s’apprête-t-elle à tirer la prise ? Contacté par Le Figaro, le groupe TF1, propriétaire de la chaîne, assure n’avoir eu connaissance d’« aucun incident de cette nature » au sein de la rédaction de LCI.
      « Des attaques injustes »

      Le média français « rappelle être très attaché à la présomption d’innocence, suit très attentivement cette affaire et prendra les mesures qui s’imposent selon son évolution. L’entreprise, qui sensibilise régulièrement ses collaborateurs, rappelle mener une politique active contre toute forme de harcèlement ». Egalement sollicité par Le Figaro, Darius Rochebin indique se mettre en retrait « quelques jours ». « L’expérience de l’actualité m’a appris que tout pathos est inutile mais je tiens à dire combien je suis blessé par des attaques injustes. J’en suis d’autant plus déterminé », indique-t-il, examinant avec son avocat « la suite judiciaire » à donner.

      En septembre, son arrivée a au départ intrigué le landerneau médiatique parisien, peu habitué à intégrer de nouvelles recrues en provenance de l’étranger. L’animateur occupe la tranche du soir sur LCI. Son nom figure en majesté dans le titre de l’émission : Le 20H de Darius Rochebin. A une heure hautement concurrentielle, le journaliste reçoit des personnalités de premier plan pour commenter l’actualité. Dernier en date : l’ancien président socialiste François Hollande.
      Des compétences professionnelles reconnues

      Cette confiance, il la doit au patron de la chaîne d’information en continu, Thierry Thuillier, séduit par son intervention virale dans une émission de David Pujadas en novembre 2019. « Darius possède à la fois une immense culture politique et historique de notre pays et, en tant qu’étranger, il nous regarde avec beaucoup de décalage. On avait besoin de cette distance amusée qu’il nourrit sur nos querelles, nos passions », expliquait-il à Libération dans un portrait consacré au présentateur.

      Dans ce texte, le quotidien saluait son ton modéré, qui tranche avec le traditionnel désordre des plateaux de télévision français. Ce talent devait l’amener à suivre de près l’élection présidentielle de 2022. Libération l’imaginait alors en modérateur du débat de l’entre-deux-tours, moment décisif dans la vie démocratique du pays. L’enquête du Temps pourrait-elle mettre un coup d’arrêt à sa récente et fulgurante carrière française ?

      https://www.letemps.ch/monde/entre-darius-rochebin-france-desillusion

    • Suite aux révélations du Temps, la RTS « réfute toute accusation de laxisme »

      La direction de la chaîne publique a réagi samedi au contenu de l’enquête du jour faisant état de plusieurs comportements problématiques visant notamment l’ancien présentateur phare Darius Rochebin. Les collaborateurs ont par ailleurs été informés par un message interne

      « La RTS rejette fermement toute accusation de laxisme dans la gestion des cas de harcèlement ou de protection de ses collaborateurs. » Samedi matin, la direction du service public a réagi, par voie de communiqué, à l’enquête du Temps faisant état de comportements problématiques de la part de plusieurs collaborateurs dont l’ancien présentateur phare Darius Rochebin. Elle réfute fermement avoir eu connaissance des faits évoqués.

      Comportements déplacés, allusions salaces, utilisation de fausses identités sur les réseaux sociaux : notre article rapporte plusieurs dysfonctionnements de la part du journaliste qui travaille aujourd’hui pour la chaîne française LCI. A son propos, la direction de la RTS poursuit : « Si les témoignages concernant les comportements de Darius Rochebin sont confirmés, la RTS fait part de sa consternation et condamne avec force tout manquement ou écart de conduite. »

      Trois outils pour « libérer la parole »

      La chaîne publique insiste par ailleurs sur sa politique en matière de gestion des cas de harcèlement : « Les cas portés à la connaissance de la direction sont toujours traités avec diligence et de manière professionnelle, y compris avec le recours à des enquêtes externes. » Par quels moyens un collaborateur peut-il effectuer une dénonciation ? « Outre la communication auprès de la hiérarchie directe, la RTS dispose de trois outils efficaces propices à libérer la parole, en vigueur depuis plusieurs années. » Le communiqué de presse mentionne d’une part une « plateforme de whistleblowing », d’autre part un « groupe de médiation interne » et, enfin, une « directive précise » qui concerne tout type de harcèlement.

      Un dispositif certifié

      Enfin, la direction de la RTS rappelle que cet arsenal fait l’objet de la certification Edge (certification de standard international Edge sur les entreprises favorisant l’égalité des genres). « La RTS invite toute personne concernée à utiliser ces différents moyens, en tout temps, afin qu’elle puisse agir rapidement et fermement, dans le respect de la protection de la personnalité et améliorer encore la gestion de tels cas. »

      Un message interne

      Les collaborateurs de la chaîne publique ont par ailleurs reçu ce matin un message à propos de ces révélations, dont la teneur est proche du communiqué de presse. Pascal Crittin, directeur de la RTS, sera présent à l’émission Forum de RTS La Première (18h-19h) et au 19h30, très probablement pour revenir sur l’affaire.

      https://www.letemps.ch/suisse/suite-aux-revelations-temps-rts-refute-toute-accusation-laxisme

    • La RTS réagit après l’annonce de cas de harcèlement dans ses murs

      Le quotidien Le Temps publie samedi une enquête sur de supposés cas de harcèlement au sein de la RTS. Les faits relatés concerneraient plusieurs collaborateurs, dont l’ancien présentateur du 19h30 Darius Rochebin. La RTS a réagi en prenant acte de l’enquête et en condamnant fermement les agissements décrits s’ils sont vérifiés.

      Selon les témoignages recueillis par le quotidien, l’ex-présentateur du 19h30 aurait eu des gestes déplacés envers des collègues hommes et femmes. Des cas de harcèlement impliquant d’autres collaborateurs de la RTS sont également mentionnés dans l’article du Temps.

      La RTS a réagi samedi en rejetant fermement toute accusation de laxisme dans la gestion des cas de harcèlement ou de protection de ses collaborateurs et collaboratrices. Les cas portés à la connaissance de la direction sont toujours traités « avec diligence et de manière professionnelle, y compris avec le recours à des enquêtes externes », explique-t-elle dans un communiqué.

      Interrogé dans l’émission Forum, le directeur de la RTS, Pascal Crittin, s’est dit « consterné » par ces révélations. « Si ces faits sont avérés, ils sont graves. Ces agissements sont totalement inacceptables et contraires aux valeurs et aux pratiques de la RTS », a-t-il expliqué.

      Concernant le cas de l’ancien présentateur du 19h30, « il y a eu beaucoup de rumeurs », concède Pascal Crittin. « Le problème pour nous, c’est de pouvoir agir sur des témoignages, et pas des rumeurs. Si nous avions eu un seul des témoignages parus dans Le Temps, nous aurions pu agir avec une enquête externe », développe le directeur de la RTS.
      Améliorer les outils

      La RTS précise qu’elle va vérifier toutes les informations figurant dans l’article du Temps, réexaminer ses processus internes et prendre toutes les mesures nécessaires pour les améliorer le cas échéant.

      Outre la communication auprès de la hiérarchie directe, la RTS rappelle qu’elle dispose d’outils « propices à libérer la parole ». Ainsi, la SSR a mis en place une plateforme anonyme d’annonce de cas. En outre, la RTS dispose depuis 1998 d’un groupe de médiation paritaire à l’interne et d’une directement certifiée concernant le harcèlement.

      Mais au regard des révélations du Temps, « on voit que tout le dispositif qui est en place ne fonctionne pas encore suffisamment bien », admet Pascal Crittin dans Forum.

      Le directeur de la RTS indique que ces procédures seront réexaminées et des mesures seront prises pour les améliorer.

      https://www.rts.ch/info/suisse/11717841-la-rts-reagit-apres-lannonce-de-cas-de-harcelement-dans-ses-murs.html
      #abus_de_pouvoir

  • Le 24 octobre, la campagne unitaire de soutien à Georges Abdallah appelle à manifester, pour exiger sa libération comme elle le fait depuis dix ans, devant la prison de Lannemezan...
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2020/10/14/liberez-georges-abdallah_152221.html

    L’arbitraire de l’État français égale ainsi celui des États-Unis qui laissent pourrir en prison Mumia #Abu-Jamal et Léonard Peltier pour leur fidélité à leurs convictions.

    #Georges_Abdallah #prisonnier_politique

  • DE LA TOUTE PUISSANCE DES PRÉDATEURS HAUT-PLACÉS

    [TW : #Violences_psychologiques]

    [TW : Mention de suicide]

    Ce texte est long, mais il mérite d’être lu. Il vous raconte ce que c’est que l’emprise.

    Vous êtes autorisé·es et même plus que bienvenu·es à le partager largement.

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    Novembre dernier, j’ai pris la décision de quitter ma thèse et la licence dans laquelle je donnais cours pour les mêmes raisons qui ont poussé mon amie, que nous allons appeler « Ewilan », à mettre fin à sa vie.

    J’ai rencontré cet enseignant — partons sur « M. Ts’liche » — en L3, quand j’étais enceinte, isolée dans une ville éloignée de Nancy et dans un couple qui battait déjà de l’aile, traumatisée par un premier accouchement assez violent. Vulnérable, donc, comme je l’avais déjà été souvent, avec mon profil psy assez lourd dont la tentative de suicide à 17 ans.

    Quelle bouffée d’air frais quand ce professeur, directeur de la licence, s’intéresse à vous ! Quel soulagement que ces longues heures passées à discuter par messenger, cette conversation presque ininterrompue et de plus ne plus intime alors que vous vous sentiez si perdue et désœuvrée. C’est même moi qui, un jour, ai initié un contact physique : je l’ai pris dans mes bras à la fin de l’année, si reconnaissante de cette attention qu’il m’offrait, un peu angoissée à l’idée de quitter la formation — et lui ! — pour l’été. Qu’est-ce que j’allais pouvoir faire dans ma vie si vide ?

    Mais ouf ! la conversation ne s’arrête pas à la faveur de l’été. Elle ne s’arrête jamais, en fait. Heureusement, parce qu’on en a besoin. De plus en plus, et très vite. Vous sentez bien que le ton devient un peu ambigu, un peu dragueur, mais ce n’est pas bien méchant que ce ton badin légèrement séducteur, et puis vous pouvez bien le supporter en échange de cette narcissisation dont vous aviez tant besoin. Ce n’est même pas désagréable en fait, vous êtes un peu « l’élue », la complice à qui on envoie des petits sms pendant les cours ou les colloques, à travers laquelle on fait passer des petites infos au reste de la promo. Celle si spéciale à qui il raconte toute sa vie, ses anciennes aventures, ses « casseroles » comme on dit. Il vous trouve merveilleuse quand vous vous êtes si souvent sentie indésirable. La gratitude pour toute cette attention vous fait donner ce qu’il attend, des mots et des gestes attentionnés. Vous êtes prête à tout pour continuer d’être « aimée ».

    Très vite, le prix à payer augmente. Le #chantage_affectif, les gestes ou propos hors limites que vous acceptez néanmoins tôt ou tard, la perspective d’être abandonnée étant bien plus terrible que celle de céder à la fin d’une scène durant laquelle on vous a reproché de dire non à une main un peu trop baladeuse, de mettre une photo de profil vous représentant avec votre conjoint, ou encore de prétendre boire un verre avec vos camarades à la fin des cours alors qu’il avait prévu ce créneau chaque semaine spécialement pour vous. Vous vous faites enfermer, prétendument sans qu’il y pense, dans une image de duo qu’il entretient férocement, en « chuchotant » à grand bruit devant la promo entière un compliment déplacé, en vous demandant devant elle si vous « allez bien » en plein cours ou pourquoi vous n’avez pas pensé à son café à lui quand vous revenez de la machine après la pause. Un jour, il vous demande même, devant toute votre bande de copines de fac, de lui mettre un morceau de gâteau dans la bouche sous le prétexte qu’il tient sa pipe dans une main et son paquet de tabac dans l’autre. Vous êtes gênée, mais c’est seulement de la maladresse, il ne se rend pas compte, vous n’allez pas le blesser pour ça, enfin ! Parallèlement, il supporte assez mal que vous vous entichiez de nouveaux·elles ami·es, et vous trouve des raisons de les considérer finalement assez nocif·ves. Cette copine que vous appréciez particulièrement, par exemple, essaie de vous « voler » votre sujet de mémoire, ne le réalisez-vous donc pas ? Et ce professeur qui vous a prêté un livre après une conversation sympathique, vous devriez vous en méfier, c’est un feignant obsédé par le pouvoir. D’ailleurs, vous entrez dans ses petites mesquineries, il se moque auprès de vous d’à peu près tout le monde et, flattée de cette marque d’intimité et de confiance, vous entrez dans ce petit jeu-là comme dans les autres. La confusion, quant à elle, s’est installée depuis un moment : si vous avez tant peur qu’il vous « quitte », c’est forcément que vous avez des sentiments que vous n’osez pas vous avouer.

    J’ai passé presque une année dans cette relation perverse qui m’étouffait chaque jour un peu plus, comme un moucheron dans une toile, l’étau d’autant mieux resserré grâce à cette impression donnée à tout notre entourage commun que nous étions une entité indéboulonnable — ainsi que l’impression que l’on couche ensemble, accessoirement.

    Le hasard de la vie m’a fait passer une soirée avec un amour passé : je me suis rappelé ce que c’était, justement, l’amour, et réalisé que cette relation qui me préoccupait et m’angoissait toujours davantage n’en était pas. C’est ce qui m’a donné le courage de mettre fin à tout ça.

    On ne se libère néanmoins pas de M. Ts’liche sans frais, et la vague de #violence verbale a été terrible. Je m’étais servie de lui, grâce à moi il savait « ce que l’étron ressent lorsqu’on tire la chasse », et quand il a été question de me faire participer à un colloque alors que j’étais en M1 seulement, j’ai été rassurée sur mes craintes d’être injustement avantagée : « t’as pas besoin de craindre que je te favorise, parce que là j’aurais plutôt envie de t’enfoncer la tête sous l’eau jusqu’à ce que tu te noies ».

    La vague de violence directe est passée, les vacances d’été aidant. Je suis arrivée en M2 le cœur serré d’angoisse, j’étais honteuse et dégoutée par cette histoire, je me sentais coupable, me disais que c’était un peu de ma faute, que j’avais pêché par narcissisme, que j’avais forcément, à un moment ou à un autre, laissé la porte ouverte, sinon il n’aurait pas pu s’y engouffrer si facilement. Et l’année suivante j’ai malgré tout fait une thèse avec lui. Parce que j’étais persuadée que c’était avec lui ou pas du tout — il avait tout fait pour construire cette certitude –, et j’avais travaillé si dur pour avoir des résultats excellents et des chances optimales d’obtenir ce contrat doctoral. On m’avait même dit que si je renonçais à mon projet de thèse à cause de lui, je le laissais gagner deux fois. Alors j’y suis allée. J’ai tâché de feindre une relation cordiale, de faire un effort pour que ce doctorat se passe au mieux. Je me suis convaincue qu’il n’avait pas réalisé le tort qu’il m’avait causé, aussi, et qu’une nouvelle page pouvait commencer, un retour à des échanges de travail normaux dans des conditions à peu près saines.

    Évidemment, c’était se voiler la face. Durant ces années de doctorat, je n’ai pas été encadrée, pas présentée, pas soutenue. J’ai été maltraitée. Ma tentative de relation à peu près cordiale le temps de cette thèse n’a pas vraiment rencontré de succès — au début, les petits reproches sur mon manque d’intérêt pour sa vie personnelle m’ont demandé un certain art de l’esquive ; après, j’ai été ballotée entre le fait d’être ignorée et celui de me faire décourager. Je me suis sentie marginalisée, mise de côté de tous les colloques, des pots et repas de doctorants, des événements où j’étais censée être intégrée. J’ai tenté d’en parler, il m’a alors laissé penser que c’était le fait des autres doctorant·es, décidé·es à activement m’exclure — surtout une parmi elleux, jalouse que soit arrivée une « autre jolie femme ». Une conversation à cœur ouvert avec la « jolie femme » nous aura permis de découvrir, bien plus tard malheureusement, la manière dont nous avions été roulées dans la farine, elle apprenant qu’elle était manipulatrice et jalouse, moi qu’il fallait se méfier de moi et de mes ambitions carriéristes me poussant à détruire tout et tout le monde sur mon passage. Diviser pour mieux régner. J’ai réalisé que je serai punie à jamais d’avoir osé m’extraire — dans une certaine mesure seulement pourtant — de cette emprise, et qu’il m’avait prise en thèse pour des raisons qui n’avaient pas l’air très bienveillantes.

    J’ai dû payer mes postures politiques, aussi. Subir des interventions grossières lors de mes communications (quelle désagréable expérience de se faire couper la parole pour entendre « Mais bien sûr, que les réalisatrices s’approprient les héroïnes, et après les noirs feront des films pour les noirs et les pédés (sic) feront des films pour les pédés ! »). La dernière année a été la pire : j’avais de plus ne plus de mal à rester de marbre, et on en est arrivé à une relation où M. Ts’liche ne se donne même plus la peine de ne pas répondre « Ah non ! » sur un ton similaire à « plutôt crever » quand on lui suggère de me convier à un repas d’après soutenance. Ce jour-là, j’ai compris qu’il fallait définitivement admettre que je n’avais plus droit à la moindre foutue considération ou once de respect. Mais aussi que, au fond, je n’étais jamais totalement sortie de cette emprise, que j’avais encore peur qu’il m’en veuille, et que j’attachais encore de l’importance à son regard sur moi. Qu’il était encore en mesure de me faire du mal. Je ne pouvais plus le supporter, faire semblant et fermer ma gueule, alors je me suis rendue à l’évidence : tant pis pour la thèse, il devenait vital de partir.

    Cette prise de conscience et de parole a son élément déclencheur, évidemment : j’ai tenu bon toutes ces années en me mettant comme limite que je réagirais et parlerais si je le vois faire ça à une autre. Je me disais qu’il y avait peu de risques : il n’est plus tout jeune, et puis il m’a après tout dit lui-même qu’il n’avait pas l’habitude de faire ça, que j’étais « exceptionnelle ».

    Il y a bien eu cette jeune masterante, un été pendant une semaine de colloque, qu’il avait fait venir et avec qui il entretenait une relation très visiblement malsaine. J’ai entendu alors des propos très déplacés de la part des autres universitaires . Certains ont même participé à la « fête » à coup de « blagues » dégradantes dans l’indifférence (presque) générale. Mais elle n’était là que pour la semaine et n’était pas son étudiante à lui. Je me suis rassurée, malgré mon écœurement, en me disant que son éloignement géographique la protégeait de lui.

    Et puis il y a eu Ewilan, sa nouvelle doctorante arrivée en 2019. On se connaissait déjà un peu et s’appréciait, partageant des affinités humaines et politiques, mais on s’est vraiment liées d’amitié en devenant collègues. Puis, peu de temps après la rentrée, j’ai été témoin d’une scène intrigante : j’ai vu M. Ts’liche arriver dans la pièce où nous étions, saluer bruyamment et ostensiblement son autre doctorante et tourner le dos à Ewilan, pourtant à deux mètres à peine, indifférent à ses timides tentatives de le saluer.

    « J’ai rêvé ou il ne t’a pas dit bonjour ?

    – Ah non tu n’as pas rêvé, il me fait la gueule et m’ignore depuis cet été. »

    Alors, elle m’a tout raconté. La relation malsaine qu’ils avaient depuis sa L3, où il l’emmenait et l’exhibait partout au début, lui envoyait des sms même dans la nuit, lui faisait des confidences intimes. Parfois lui criait dessus, mais finissait par lui mettre un bras autour des épaules en lui disant « Mais Ewilan, vous savez bien que si on se dispute tous les deux c’est parce qu’on s’aime trop. ». Jusqu’au jour, à la fin de son master, où, pour un prétexte bidon, il l’a « abandonnée » pour la punir de d’avoir « manqué de loyauté », ne lui offrant de l’attention plus que par miettes, suffisantes néanmoins pour qu’elle reste sous contrôle. Elle aussi, il l’a marginalisée après l’avoir rendue dépendante de son attention continuelle, profitant de la vulnérabilité psychologique qu’elle présentait également pour la malmener.

    Je crois que ça a été pire pour Ewilan. Elle était plus jeune et plus fragile que je ne l’avais été, et surtout elle n’a pas eu la chance d’être celle qui stoppe tout ça, de reprendre un peu de contrôle, de réinvestir au moins un peu une place de sujet après avoir été si longtemps un objet. Je peux imaginer, pour l’avoir tant craint, le sentiment d’abandon et de rejet insupportable qu’elle a dû ressentir.

    La voilà celle à qui il refaisait subir ça. La voilà, la fin de ma capacité à encaisser silencieusement ; en novembre dernier, j’ai commencé certaines démarches pour partir et pour dénoncer les agissements de M. Ts’liche — qui ont le plus souvent été bien peu entendues, mis à part par une personne qui m’a montré tout de suite le soutien dont j’avais désespérément besoin et que je remercie du fond du cœur.

    J’accuse M. Ts’liche, 6 ans après le début de toute cette histoire, de harcèlement moral, de violences psychologiques et d’abus de son pouvoir et de sa position hiérarchique, et ce notamment et dans les cas les plus graves pour mettre sous emprise des jeunes femmes vulnérables.

    Je reproche à un certain nombre de personnes une complaisance inacceptable face à tout cela. J’ai encaissé des « plaisanteries » pleines de sous-entendus sans que ces personnes ne se soucient de comment je vivais une relation dont les indices extérieurs semblaient plus les amuser que les inquiéter. J’ai raconté mon histoire, tâché de faire part de mon mal-être personnel et de mes inquiétudes pour les suivantes et souvent je n’ai trouvé qu’un mur, une minimisation des actes que j’avais subi ; on m’a demandé de me taire et de laisser tomber toute volonté de procédures pour éviter que ça rejaillisse sur toute l’équipe et porte préjudice à la licence. Certains de mes interlocuteurs ont admis le tempérament toxique de M. Ts’liche mais ne semblaient pas vouloir y faire quoi que ce soit. Il a même ses défenseur·euses acharné·es, qui semblent considérer que sa sympathie avec elleux prouve qu’il est sympathique avec tout le monde, loyaux·ales jusqu’au bout, qui trouvaient toutes les bonnes raisons de justifier ses comportements abusifs, qu’il est pour le coup loin de ne réserver qu’à ses proies : ses colères terribles quand il n’obtient pas ce qu’il veut, ses humiliations publiques, etc.

    Ce mail, je l’écris depuis des mois dans ma tête en en repoussant depuis autant de temps la rédaction. Je savais déjà comme je voulais le finir : « à partir de maintenant et pour la suite, vous ne pourrez plus faire comme si vous ne vous rendiez pas compte ». Ewilan m’a prise de court. Ewilan qui concentrait l’essentiel de mes inquiétudes, dont j’avais également fait part à certains enseignants de mon équipe pédagogique. Elle me parle depuis des mois de son mal-être, de ses idées noires. J’ai fait ce que j’ai pu pour qu’elle ne se sente pas seule, puis pour la convaincre qu’elle pouvait partir, qu’il n’était pas tout puissant en dépit de ses efforts pour nous en convaincre. « J’suis pas prête », qu’elle disait. Elle est partie finalement, pas comme je voulais, en me laissant une demande très claire que j’honorerai du mieux que je peux. Avec tout juste quelques mots en cadeau de départ, mon Ewilan peut se vanter d’avoir chez moi fait partir toute la colère, et d’avoir envoyé un gros stock de courage et de détermination.

    Car certains diront qu’elle est facile, ma place. Opportuniste, même. Aucun doute que je serai traînée dans la boue, taxée de manipulatrice. Je suis prête. Parce que c’est faux, elle n’est pas facile cette place, elle ne me fait et ne me fera rien gagner. Elle me demande d’être courageuse. Je ne veux punir personne, même pas M. Ts’liche. Je veux juste que les opportunités de recommencer lui soient retirées, je veux juste que soit refusé tout ça, qu’importe si ça demande de sortir de son confort ou de la facilité. Plus jamais de M. Ts’liche, plus jamais d’Ewilan. Ça suffit.

    J’aimerais bien que vous soyez courageux et courageuses, vous aussi.

    https://medium.com/@Camille_Thizbel/de-la-toute-puissance-des-pr%C3%A9dateurs-haut-plac%C3%A9s-d875001c28a6
    #suicide #ESR #enseignement_supérieur #témoignage #Camille_Zimmermann #culpabilité #harcèlement #contrat_doctoral #maltraitance #marginalisation #emprise #peur #sentiment_d'abandon #abus_de_pouvoir #harcèlement_psychologique #harcèlement_moral #complaisance #plaisanteries #manipulation #prédation

    • Omerta mode d’emploi

      Hier, jeudi 10 septembre 2020, nous avons republié sur Academia du texte émouvant de Camille Zimmermann à la mémoire de sa consœur doctorante qui avait mis fin à ses jours. Est-ce son témoignage ou plutôt la pression syndicale qui a pesé ? Ce matin, la présidence s’est fendu d’une lettre au personnel de l’Université de Lorraine.

      La lettre de Prof. Pierre Mutzenhardt, Président de l’Université de Lorraine, Président de la commission Recherche et Innovation de la CPU, a connu une large diffusion et n’était en rien confidentielle : nous la reproduisons en l’assortissant d’une petite explication de texte.

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      À : « all-ncy-ens » <all-ncy-ens@univ-lorraine.fr>, « all-ncy-ater-ens » <all-ncy-ater-ens@univ-lorraine.fr>, « all-ncy-lecteur-ens » <all-ncy-lecteur-ens@univ-lorraine.fr>, all-ncy-biatss@univ-lorraine.fr
      Cc : « president » <president@univ-lorraine.fr>
      Envoyé : Vendredi 11 Septembre 2020 09:04:13
      Objet : [all-ncy] Evénement tragique

      Mesdames, Messieurs,

      Une doctorante de notre établissement a mis fin à ces jours au début du mois d’août. Il s’agit d’un événement plus que terrible et dramatique. Très rapidement, avec la directrice de l’école doctorale, nous avons été en contact avec la famille de la doctorante et avons, je l’espère, respecté au mieux ses volontés. Nous avons pu rencontrer ses parents à la fin du mois d’août.

      Il apparaît que ce drame pourrait être lié en partie aux conditions de sa thèse et à son environnement professionnel. En conséquence, l’ouverture d’une enquête du CHSCT sera proposée le vendredi 11 septembre lors d’un CHSCT exceptionnel de l’établissement pour examiner ces conditions de travail et faire des recommandations.

      Par ailleurs des témoignages récents, indépendants de ce que peuvent diffuser les réseaux sociaux, font état de faits qui pourraient être qualifiés de harcèlement. Ils m’ont amené à diligenter une enquête administrative rapide qui a pour but d’établir les faits de manière contradictoire et d’en tirer toutes les conséquences.

      J’ai également suspendu de manière conservatoire le professeur et directeur de thèse de la doctorante le temps de l’investigation administrative pour protéger l’ensemble des personnes y compris lui-même.

      Enfin, nous devons être attentifs également aux jugements hâtifs, à ne pas confondre ce qui relève de témoignages avec les accusations qui se propagent sur les réseaux sociaux. Si les réseaux sociaux peuvent être des révélateurs de situations, ils sont aussi devenus des armes qui blessent, harcèlent et propagent trop souvent la haine. Nous avons pu nous en rendre compte à d’autres occasions.

      Très attaché aux valeurs de notre établissement, je m’engage à prendre toutes les mesures qui apparaîtront nécessaires à l’issue de cette enquête pour s’assurer qu’une telle situation ne puisse pas se reproduire. Le doctorat est, en effet, une période très importante dans le développement de la carrière d’un chercheur. Il appartient à l’établissement de garantir que cette période soit la plus fructueuse possible dans un contexte professionnel favorable pour les doctorants.

      Bien cordialement,
      Prof. Pierre Mutzenhardt
      Président de l’Université de Lorraine
      Président de la commission Recherche et Innovation de la CPU

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      Il me semble que cette correspondance est parfaitement exemplaire du fonctionnement de l’omerta qui pèse sur les violences faites aux femmes à l’Université, dans le cadre d’un fonctionnement universitaire analogue à l’emprise mafieuse, comme l’ont récemment argumentés des collègues anthropologues1.

      Considérons le courriel.

      En premier lieu le président met en cause directement la formation doctorale dispensée par l’université. Ce serait la famille — laisse entendre le président — qui s’est ouvert du lien fait le lien entre le suicide et la thèse. Au vu du bruit sur les réseaux sociaux, on se serait attendu à ce que le président s’adresse à l’ensemble de la communauté universitaire, étudiant·es inclus·es.

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      Courriel adressé à l’ensemble des personnesl de l’Université de Lorraine, le 10 septembre 2020

      « Mesdames, Messieurs, cher(e)s collègues,

      Je vous prie de trouver ci-dessous l’ordre du jour du prochain CHSCT programmé le vendredi 11 septembre 2020 :
      Point 1 – Adaptation des conditions de rentrée et déroulement du 1er semestre 2020-2021 – mesures complémentaires (pour avis)
      Point 2 – Modification du programme 2020 des visites du CHSCT (pour avis)
      Point 3 – Procédure d’analyse à déterminer suite à l’événement grave survenu à l’Institut Régional du Travail (pour avis)
      Point 4 – Procédure à mettre en place suite à la survenue d’un événement grave susceptible de présenter un lien avec les conditions de travail (pour avis)

      Meilleures salutations,
      Pierre Mutzenhardt
      Président de l’UL »

      –----

      Que nenni ! Si le jeudi 10 septembre, les personnels de l’Université de Lorraine ont été informé de l’ordre du jour du CHSCT, seuls les personnels du site nancéen de l’UFR Arts Langages Littératures (ALL) se trouvent informés de ce que la présidence nomme pudiquement l’« événement tragique ». L’Université de Lorraine dans son entièreté n’est pas concernée par le suicide d’une de ses étudiant·es : ni les étudiant·es, ni même les autres enseignant·es-chercheur·ses, directeurices de thèses des UFR de médecine et de sciences ne sont alerté·es ou sensibilisé·es à l’idée que la présidence prend ce très grave problème à bras le corps. Presque personne ne sera donc informé avant qu’éventuellement la presse locale ou un blog de l’ESR ne s’en empare.

      Soit.

      Balkanisons les pratiques inappropriées vis-à-vis des femmes.

      Le message semble avoir été écrit à la va-vite, ce qui est pour le moins curieux pour ce type de communication présidentielle hautement sensible : coquilles, phrases contournées, expressions inappropriées. C’est davantage sous le coup de l’urgence que dans le cadre d’une politique plus large, mûrement réfléchie, qu’il a pris la décision d’écrire aux Nancéen·nes d’ALL. Le président a refusé de recourir à l’écriture inclusive, pourtant recommandée dans une affaire relevant des violences faites aux femmes. À ce titre, la formulation conclusive choisie pourrait heurter :

      « Très attaché aux valeurs de notre établissement, je m’engage à prendre toutes les mesures qui apparaîtront nécessaires à l’issue de cette enquête pour s’assurer qu’une telle situation ne puisse pas se reproduire. Le doctorat est, en effet, une période très importante dans le développement de la carrière d’un chercheur. Il appartient à l’établissement de garantir que cette période soit la plus fructueuse possible dans un contexte professionnel favorable pour les doctorants ».

      On peut s’étonner, puisque l’affaire a été ébruitée par une femme qui choisissait de mettre fin à sa thèse, que le seul masculin soit retenu pour désigner les hommes et les femmes qui se trouvent en situation de domination. On peut s’étonner de même — je pourrais même m’en offusquer si j’étais maîtresse de conférences à l’Université de Lorraine — du ton plus que maladroit employé. L’objet du message, la formule de salutation finales, l’usage de « blessures » portées par les réseaux sociaux, alors que c’est un suicide qui est à l’origine de la communication présidentielle. Sous la plume du président, il ne s’agit pas de prendre en charge avec tact et empathie la douleur, l’empathie, la colère, l’émotion qui pourrait saisir enseignant·es et étudiant·es. Un problème de plus à régler dans une rentrée très chargée, voire apocalyptique.


      *

      Venons-en aux faits.

      L’Université — soit la présidence et la directrice de l’École doctorale — a été informée du suicide de la doctorante. La famille, devine-t-on, fait connaître ses volontés, dont on ne saura rien, mais que le président espère « avoir respecté au mieux ». La famille, rencontrée fin août,a fait le lien entre le suicide et ce que le président désigne de manière euphémisée comme « aux conditions de sa thèse et à son environnement professionnel ». Il faut donc attendre le 11 septembre pour le Comité Hygiène Sécurité et Conditions de Travail (CHSCT) soit réuni, saisi quelques heures avant la publication par Camille de son texte sur Medium. Selon nos informations et la « formule magnifiquement trouvée par notre admin[istration] », il s’agit du point 4. « Procédure à mettre en place suite à la survenue d’un événement grave susceptible de présenter un lien avec les conditions de travail ». Le président suit ici strictement le droit : il informe le CHSCT du suicide à la rentrée, et inscrit le point concernant une enquête à l’ordre du jour.

      Le président ajoute cependant quelque chose de surprenant.

      « Par ailleurs des témoignages récents, indépendants de ce que peuvent diffuser les réseaux sociaux, font état de faits qui pourraient être qualifiés de harcèlement. Ils m’ont amené à diligenter une enquête administrative rapide qui a pour but d’établir les faits de manière contradictoire et d’en tirer toutes les conséquences ».

      Sortant du sujet de la correspondance, M. Pierre Mutzenhardt informe ses lecteurices de plusieurs choses : les témoignages de harcèlement ou, à tout le moins de conduite inappropriée, ont circulé sur les « réseaux sociaux » ; la parole se déliant, d’autres témoignages ont été portés avec insistance à ses oreilles. Cet ensemble, qui établirait quelque fondement à l’accusation grave de harcèlement, le font diligenter une enquête administrative. Il précise que l’enquête sera

      « rapide qui a pour but d’établir les faits de manière contradictoire et d’en tirer toutes les conséquences ».

      Il faut attendre longtemps pour apprendre que c’est le directeur de thèse qui est mis en cause. Nous savons par le recoupement du témoignage, qu’il s’agit du directeur de thèse de la doctorante qui est visé par les deux procédures, soit Christian Chelebourg2. Il n’est pourtant pas nommé ; mais désigné par son statut de professeur et sa fonction de direction de thèse. C’est le premier volet du dispositif du silencement : la responsabilité du professeur n’est engagée que dans le cadre de l’« environnement de travail » dans lequel il exerce, bien qu’il soit seul « suspendu à titre conservatoire ». Il ajoute qu’il prend cette mesure « pour protéger l’ensemble des personnes y compris lui-même ».

      L’environnement de travail est-il en cause ? Les témoignages qui ont paru sur Internet, les personnes qui se sont confiées à moi, font état de sérieux problèmes rencontrés par différentes étudiant·es et différentes enseignant·es titulaires et non-titulaires par la proximité professionnelle de M. Chelebourg. Elles n’ont pas mentionné d’autres comportements déviants. En revanche, ce qu’elles précisent, c’est qu’elles n’ont pas trouvé de soutien ou d’écoute de la part de certains collègues masculins, qui ont reconnu à demi-mot une certaine capacité de nuisance, s’empressant de préciser que « ce n’est pas un monstre ». D’autres enseignantes ont fait état d’une inquiétude, craignant des mesures de rétorsion si elles évoquaient la procédure à la demande des étudiant·es. Sans chercher à justifier pourquoi ce type de discours est tenu — ni à minimiser les responsabilités qu’il y aurait à n’avoir pas protégé les étudiant·es de comportements apparemment connus — je propose ainsi de voir dans l’environnement de travail le deuxième niveau de silencement : minimiser le comportement malfaisant ; faire comme si ce dernier n’était pas problématique, de la part des collègues dudit professeur.On comprend que les hordes féministes sont à la porte de l’Université et menaceraient l’ordre patriarchal qui y règne. Faisons-les taire.

      Le troisième dispositif de silencement est construit par le président lui-même. Plutôt que de reconnaître la souffrance vécue par des femmes sous la responsabilité de son Université, M. Pierre Mutzenhardt choisit une autre stratégie : la minimisation des faits, la dénonciation de rumeurs et, plus grave, la protection du mis en cause.

      « Enfin, conclut-il, nous devons être attentifs également aux jugements hâtifs, à ne pas confondre ce qui relève de témoignages avec les accusations qui se propagent sur les réseaux sociaux. Si les réseaux sociaux peuvent être des révélateurs de situations, ils sont aussi devenus des armes qui blessent, harcèlent et propagent trop souvent la haine. Nous avons pu nous en rendre compte à d’autres occasions ».

      À la lecture de ce paragraphe, je me suis étouffée3. Une femme est morte, peut-être à cause du comportement de son directeur de thèse, mais c’est ce dernier que le président de l’Université de Lorraine entend protéger. Il le fait en prenant une mesure conservatoire, au motif que « si les réseaux sociaux peuvent être des révélateurs de situations, ils sont aussi devenus des armes qui blessent, harcèlent et propagent trop souvent la haine ». Il le fait aussi en donner un signal aux agresseurs : ce sont vous, « victimes » d’une cabale publique, vous qui est le cœur et l’âme de l’Université qu’il me faut défendre ; celles et ceux qui se sentent « heurtées » par le courriel sont ainsi prévenu·es : l’Université de Lorraine n’a pas vocation à les prendre soin d’elleux.

      Balkanisation de l’information, ato-défense collective en formation de tortue romaine, mesure conservatoire à titre de protection : la stratégie est limpide et antithétique avec celles que plusieurs assocations féministe ou savantes, l’Association des sociologues des enseignant·es de l’enseignement supérieur en tête, préconisent. Il ne m’appartient pas de juger si c’est une façon de se protéger lui-même contre quelques mandarins qui grimperaient aux rideaux. Ce que je sais, depuis lundi, c’est que l’omerta, ce silencement patiemment construit au sein de l’Université de Lorraine, a pu tuer.

      Camille a souhaité être courageuse.

      Soyons désinvoltes. N’ayons l’air de rien.

      Addendum. Lundi 14 septembre 2020, vers 9h30, avant suppression entre 11h42 et 11h45.

      Sur Facebook et Twitter, l’Université de Lorraine écrit ton nom, professeur. Et le sien aussi.

      https://academia.hypotheses.org/25555

    • Un harcèlement peut en cacher un… ou deux autres

      Le 7 septembre 2020, Camille Zimmermann, université de Lorraine, explique sur Medium pourquoi elle a interrompu sa thèse, financée – le détail n’est pas anodin dans une discipline (les lettres) où les allocations doctorales sont très rares – : après des années de comportements toxiques, elle y a vu le seul moyen d’échapper à l’emprise de son directeur de thèse. Elle explique aussi pourquoi elle rend public ce témoignage : une autre doctorante, qui lui avait confié être victime d’agissements comparables, a mis fin à ses jours. Le texte utilise des pseudos, transparents pour ceux qui ont lu le cycle de romans sur lequel portait la thèse (La Quête d’Ewilan, de Pierre Bottero), et se termine par une accusation :

      « J’accuse M. Ts’liche, 6 ans après le début de toute cette histoire, de harcèlement moral, de violences psychologiques et d’abus de son pouvoir et de sa position hiérarchique, et ce notamment et dans les cas les plus graves pour mettre sous emprise des jeunes femmes vulnérables. »

      Academia republie le témoignage de Camille dans un billet le 10 septembre, avec une courte introduction qui permet de suivre un lien vers la plate-forme Thèses.fr si on veut connaître le nom du directeur désigné, ainsi qu’un autre lien vers une liste d’articles précédemment parus au sujet du harcèlement. Le court texte lâche également un mot : « omerta », parce qu’il ne s’agit pas d’une affaire isolée, et que ce qu’elle révèle est tout autant le harcèlement que la loi du silence qui lui permet de perdurer.

      Dès le 11 septembre, Academia a l’occasion de développer ce point : peut-être agité par la circualtion du texte de Camille sur les réseaux, le président de l’université de Lorraine écrit à certains de ses collègues. Oh, pas tous ! seulement ceux du domaine Arts Lettres Langues et Sciences Humaines et Sociales – ALL-SHS, dans nos jargons. Il ne faudrait quand même pas que tout le monde soit au courant. Le mail jette plutôt de l’huile sur le feu : il s’achève sur un indigne retournement de la charge contre Camille, et « les accusations qui se propagent sur les réseaux sociaux » dont il exhorte chacun·e à se méfier comme la peste. Le professeur est suspendu à titre conservatoire pour le protéger. On croit cauchemarder ; Camille Zimmermann se dit heurtée, Academia s’étouffe. Mais on n’a encore rien vu…

      Le 14 septembre, comme si de rien n’était, l’université de Lorraine touitte benoîtement une invitation à écouter le professeur, spécialiste des fictions d’apocalypse, sur un sujet qui attirera tous les regards : à quoi ressemblera le monde post-Covid ? Touitt’ supprimé quelques heures plus tard, ici cliché avant disparition. Des souffrances sont signalées, des drames surviennent, mais rien ne bouge ; une jeune femme brise ce mur du silence sur un réseau social, son témoignage circule, les réactions se font enfin entendre… mais c’est pour dévaloriser son témoignage, pendant qu’une « enquête » est évoquée, sous les opacités de la novlangue administrative, et sans aucune communication auprès du public ; le public, pendant ce temps, il continue d’être alimenté avec le ronronnement des travaux du principal intéressé, sans vergogne.

      Ce touitt’ lamentable manifeste, au moins la surdité d’un service Communication fonctionnant en vase clos, où ne parvient pas un son des réseaux ou des couloirs de l’établissement, au pire le cynisme d’un programme de com’ qui se moquerait comme d’une guigne des plus graves accusations possibles pesant sur un auteur, et, dans tous les cas, d’une rhétorique qui confine à la faute morale.


      Aucune communication officielle de l’université de Lorraine, donc. C’est dans la presse régionale qu’il faudra aller lire le président de l’Université de Lorraine, Pierre Mutzenhardt : le 23 septembre, L’Est Républicain porte l’affaire sur la place publique – pas celle des réseaux, dont il faut se méfier comme la peste, rappelons-nous. Le journal publie deux articles aussi cloisonnés qu’ont pu l’être deux univers : celui des doctorantes victimes et celui d’une administration qui n’a pas su les aider.

      La mise en page, pour qui serait sensible à l’énonciation typographique, donne toutefois bien l’impression que le monsieur dont on voit la photo est un peu cerné par le texte qui se referme sur lui : c’est celui qui est consacré à Camille. La journaliste, quant à elle, adopte professionnellement l’anonymat de rigueur ; mais cette page exprime finalement bien plus que ce nom de l’enseignant-chercheur dont, désormais, tout le monde a pu prendre connaissance par soi-même.

      Rendons d’abord compte de l’article consacré à Camille Zimmermann : « Harcèlement à l’université : le “j’accuse” d’une doctorante » s’ouvre sur le résumé des deux affaires, puisqu’il y en a bien deux :

      Longtemps étudiante puis thésarde à la faculté de lettres, Camille Zimmermann a dénoncé, sur les réseaux sociaux, l’emprise son directeur de thèse, qui l’a poussée à quitter la fac. L’université a ouvert une double enquête interne suite au suicide d’une autre doctorante.

      L’article met ses pas dans ceux de Camille, et relate d’abord la manière dont les réseaux ont pu relayer sa parole :

      Dans ce récit largement partagé sur Facebook et Twitter, et repris sur divers blogs spécialisés…

      Le contraste est net avec la méfiance du président, indistinctement adressée aux « réseaux ». L’article se met ensuite à l’écoute de Camille et rapporte les grandes lignes de son témoignage publié sur Medium : la complexité du rapport de genre et de la relation pédagogique, et le caractère insidieusement toxique de la relation entre le professeur et l’étudiante. Les intertitres du journal soulignent le fonctionnement pervers de ce système binaire :

      « Processus de #marginalisation », pour résumer l’emprise, les abus du professeur, l’isolement de la victime ;
      https://academia.hypotheses.org/26261

      « Manque d’écoute de la “cellule harcèlement” », pour résumer la loi du silence dans – grâce à – laquelle tout cela peut continuer.

      Car le journal donne la parole à d’autres personnes, après avoir rapporté le témoignage de Camille :

      Depuis ce témoignage sur les réseaux, rapidement ébruité dans les couloirs et les amphis de la faculté, des langues se sont déliées. D’autres ont signalé les agissements du professeur mis en cause – suspendu actuellement, et présumé innnocent – autant que la nocivité d’une organisation plaçant parfois les thésards dans une impasse.

      “Quand cela se passe mal, il est compliqué de changer de directeur de thèse, de crainte d’être blacklisté. Un directeur a tous les pouvoirs, et il a un réseau. Parfois, c’est du chantage au poste”, témoigne cette autre ancienne doctorante, qui, elle aussi, était suivie par le professeur incriminé. Et a également abandonné sa thèse pour les mêmes raisons que Camille Zimmermann.

      On apprend donc ici, sous la plume d’un journal qui n’est pas né de la dernière pluie et sait parfaitement ce qu’il fait en imprimant ces mots, qu’une troisième affaire pourrait exister. Le touitt’ du 14/9 était révoltant ; cette information-ci est accablante : l’administration n’a pas voulu les aider.

      Pour ce qui est de l’administration, qu’apprend-on ? L’article titre sur les suites données aux affaires : « Double enquête et enseignant suspendu ». Pourquoi deux enquêtes ? Parce que deux affaires, en fait. Et peut-être même bien trois, comme la presse le suggère. L’une des enquêtes se fait sous l’égide du Comité Hygiène, Sécurité et Conditions de Travail (CHSCT) et n’a pas vocation à déboucher sur des sanctions mais sur des « préconisations ». En prenant son temps, prévient le président de l’université :

      « il semblerait que la relation entre cette jeune fille, décrite comme fragile, et son encadrant, n’était pas saine et pas normale », résume Pierre Mutzenhardt, président de l’Université de Lorraine. Ce possible « lien de causalité » étant à l’origine de l’enquête du CHSCT, qui devrait être « plutôt longue ». « Elle portera sur les conditions de travail ayant pu conduire la doctorante à mettre fin à ses jours, et devra déboucher sur des préconisations ».

      Au temps pour cette voie de prise en charge, la seule sur laquelle il existe actuellement des sources partageables et consultables, en l’espèce : l’ordre du jour du CHSCT du 11/9. C’est celle qui porte, je le rappelle, sur le suicide survenu pendant l’été. Tournons-nous vers l’autre enquête :

      Ce sont d’autres témoignages, écrits, émanant de deux autres doctorantes et mettant en cause ce même directeur, qui ont conduit à l’ouverture de l’enquête administrative. « Il s’agira, par des audits contradictoires, de voir s’il y a bien harcèlement ou pas », poursuit le président. « Néanmoins, il y avait assez d’éléments pour que cet enseignant soit suspendu, pour trois semaines car on ne peut pas suspendre quelqu’un plus d’un mois. » Les premières conclusions sont attendues fin septembre/début octobre. « J’aviserai alors s’il faut envisager des sanctions disciplinaires, qui peuvent aller du blâme à l’exclusion, ou ne pas donner suite. »

      On a donc bien trois affaires, si l’on compte toujours, et deux enquêtes : l’une portant très globalement sur les « conditions de travail », l’autre portant plus clairement sur l’enseignant-chercheur. Face à la presse, les témoignages écrits semblent désormais assez graves pour que le président Mutzenhardt ne fasse plus passer la décision de suspendre ce dernier pour une mesure de protection « y compris de lui-même », comme dans le mail du 11/9 qui avait heurté tant de monde. Il s’excuse même par avance de ne pas pouvoir le suspendre plus de 3 semaines ; mais que se passe-t-il après ? Des actions décidées par le président. On se demande si, comme dans une affaire récente, ça se passera « d’homme à homme »… Et un signalement au procureur ? La suite de l’article l’évoque : « Il ne faut pas hésiter à formaliser, en saisissant le procureur de la République. » Et l’article se clôt sur « il faut oser dire les choses ». Nous voilà rassuré·es !


      Eh bien peut-être faut-il rester patient·es quand même. Le 30 septembre, à 11h26, une semaine après la parution de ces deux articles, alors qu’on attend toujours les résultats de l’enquête administrative, le président Mutzenhardt envoie à nouveau un mail à ses collègues. Cette fois, c’est sur la liste de tous les personnels, pas que les ALL-SHS ; mais ça ne sort pas de l’université de Lorraine. Academia en reçoit une copie :

      J’ai vu que vous aviez suivi cette affaire avec intérêt. Donc pour votre information, voici ce que l’on a reçu aujourd’hui
      « Au début du mois d’août, une doctorante de l’Université de Lorraine a mis fin à ses jours à l’extérieur de l’université, en mettant en cause les modalités de direction de sa thèse au sein de son laboratoire de rattachement. Il s’agit, quelles que soient les circonstances, d’une tragédie. J’ai mobilisé les services de l’établissement dès sa réouverture le 17 août et j’ai proposé au comité d’hygiène, de sécurité et des conditions de travail (CHSCT) de réaliser une enquête sur les conditions de travail dans le laboratoire concerné. En parallèle, des témoignages sont parvenus à l’université début septembre (que je ne confonds pas avec des déclarations sur les réseaux sociaux). Ils m’ont amené à diligenter une enquête interne administrative et à suspendre de manière conservatoire le directeur de thèse concerné. Les enquêtes sont actuellement en cours. »

      Cette obsession pour les réseaux sociaux a quelque chose d’inquiétant. C’est pourtant bien l’un d’eux qui a mis en alerte la communauté universitaire, et non la communication de l’UL, qui s’obstine à rester dispersée, laconique, et surtout compartimentée.

      Quels sont donc ces « témoignages arrivés début septembre » ? Sont-ils ceux de Camille Zimmermann, enfin entendus, alors que ses premières plaintes remontent à 2019 ? Sont-ils ceux de cette troisième étudiante dont L’Est Républicain a retranscrit les paroles ?

      On est le 1er octobre : on en saura bientôt plus. Le président Mutzenhardt l’a promis…

    • Une #cagnotte en ligne pour récolter de l’argent pour les frais d’avocat de #Camille_Zimmermann :

      Il y un peu plus d’un an, je publiais sur les réseaux un texte qui dénonçait les violences que j’avais connues au sein de l’Université française et qui avaient poussé au suicide mon amie #Scylla. J’y ai « caché » le nom de mon ancien directeur, non pas pour le protéger, mais pour tendre à une forme d’"universalité" parce que je savais que ces violences n’étaient pas une exception mais monnaie courante dans le monde de la recherche. Des violences dont les victimes sont, comme souvent, principalement les personnes les plus en situation de précarité.

      Ma lettre ouverte a eu un fort retentissement dans le milieu, partagé plus d’un millier de fois, sans compter les envois par listes de diffusion internes. Il a, je crois, aidé la libération d’autres paroles qui ont suivi peu de temps après. J’ai reçu aussi plus d’une centaine de messages de soutien, de remerciement, de solidarité, d’assurance que ma voix avait eu un écho et que des projets avaient été montés.

      J’en ai été touchée et reconnaissante, car c’est là la raison pour laquelle j’ai fait cette démarche extrêmement couteuse émotionnellement : l’espoir qu’elle aide à bouger les lignes.

      Aujourd’hui, j’ai à nouveau besoin de votre soutien, économique cette fois-ci. Une procédure pénale a suivi celle interne, et je vais devoir être assistée d’un avocat pour continuer.

      Les raisons de ma cagnotte

      Ma démarche est depuis ses débuts pensée pour le collectif, pour qu’elle serve à un maximum de monde possible. Il n’a néanmoins pas toujours été facile d’en être le visage, et j’ai subi intimidations, plainte pour #diffamation, tentatives de me décrédibiliser, #slut-shaming etc. qui font qu’aujourd’hui je suis éreintée et ai plus que jamais besoin de vous, d’être moi aussi soutenue collectivement. J’ouvre ce pot commun car payer de ma propre poche ces frais me prendrait plusieurs mois et m’obligerait à renoncer à des projets d’avenir alors que j’ai déjà sacrifié beaucoup de choses depuis le début de cette affaire – mes espoirs de carrière et une part de ma santé mentale notamment. Je commence seulement à retrouver un horizon, et je ne me sens pas capable de le plomber par cette charge financière.

      Plus simplement et comme depuis le début, je ne peux pas avancer seule, émotionnellement mais aussi, désormais, financièrement.

      Le montant de ma cagnotte

      Mes besoins aujourd’hui sont de 500€. Cette première cagnotte permettra de couvrir les premières procédures et consultations.

      Si cette somme est dépassée, l’intégralité des fonds sera reversée au Cha-U, association qui s’est créée au cours de l’année passée au sein de l’#Université_de_Lorraine et qui œuvre à combattre le harcèlement dans l’enseignement supérieur mais aussi à en penser les origines et structures afin de mieux l’éradiquer.

      Si l’enquête débouche sur un procès, une nouvelle cagnotte sera ouverte pour couvrir les frais lui étant liés, qui s’élèveront à une somme entre 1200 et 1500€.

      Si vous en avez la possibilité et que vous souhaitez mettre votre contribution, quel que soit son montant, je vous envoie toute ma gratitude. Si vous êtes précaire et ne pouvez pas m’aider, votre soutien moral compte aussi énormément.

      https://www.onparticipe.fr/cagnottes/yAk2mVjD

  • #Abus_sexuels dans l’#Église : la #carte mondiale de la #justice

    Des dizaines de milliers de victimes, à travers le monde, sur plusieurs décennies : le dossier des abus sexuels impliquant des membres du clergé catholique présente une question de justice inédite. Pour révéler et faire face à l’ampleur des crimes, une multitude de mécanismes de justice transitionnelle sont à l’œuvre. Rapports d’experts, commissions d’enquête, commissions vérité, procès : Justice Info publie la #carte_mondiale de cette #justice parcellaire, très sensible, souvent innovante, face à un #crime institutionnel hors normes.

    https://www.justiceinfo.net/fr/divers/44735-abus-sexuels-eglise-carte-mondiale-justice.html

    #Eglise #cartographie #visualisation #monde #impunité #pédophilie #pédocriminalité

    @justiceinfo

  • « La misogynie d’une partie du milieu académique français est notoire et elle fait des ravages »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/09/07/la-misogynie-d-une-partie-du-milieu-academique-francais-est-notoire-et-elle-

    Pour preuve, le nombre d’anecdotes qui circulent sur le comportement des #jurys. #Intimidations, pressions en tout genre, #moqueries, #humiliations, #sarcasmes : tout y passe dans ces oraux, qui s’apparentent assez souvent à de petites séances de tortures psychologiques et morales dont les jeunes #femmes sortent moins souvent victorieuses – pour diverses raisons. Il n’est sans doute pas inutile de s’attarder un peu sur les pratiques des commissions des jurys de concours qui vous jaugent sur votre apparence physique, vous toisent de toute leur hauteur d’universitaires patentés et vous intimident à loisir par des regards, des petits mots échangés entre eux avec un sourire complice qui en dit long sur la jouissance qui est la leur à vous mettre sur le grill. « Cela fait partie du jeu », dit-on, avec fatalisme et par résignation.

    ensuite #paywall #misogynie #sexisme #abus_de_pouvoir

    • A la faveur des résultats des concours de la filière lettres de l’ENS-Ulm, une occasion inédite se présente d’entreprendre une réflexion sur un sujet qui, disons-le tout de go, reste tabou, en même temps qu’il est un lieu commun fréquemment dénoncé « en off » dans les milieux académiques. Comme le dit – courageusement – Joëlle Alazard, secrétaire générale de l’Association des professeurs de premières et de lettres supérieures, « ce bond significatif de la part des femmes est une interpellation. Un chantier doit s’ouvrir autour de l’épreuve orale et de ses paramètres ». Le chantier, à coup sûr, est immense mais mérite qu’on s’y lance.

      Pour preuve, le nombre d’anecdotes qui circulent sur le comportement des jurys. Intimidations, pressions en tout genre, moqueries, humiliations, sarcasmes : tout y passe dans ces oraux, qui s’apparentent assez souvent à de petites séances de tortures psychologiques et morales dont les jeunes femmes sortent moins souvent victorieuses – pour diverses raisons. Il n’est sans doute pas inutile de s’attarder un peu sur les pratiques des commissions des jurys de concours qui vous jaugent sur votre apparence physique, vous toisent de toute leur hauteur d’universitaires patentés et vous intimident à loisir par des regards, des petits mots échangés entre eux avec un sourire complice qui en dit long sur la jouissance qui est la leur à vous mettre sur le grill. « Cela fait partie du jeu », dit-on, avec fatalisme et par résignation.

      Pour siéger des heures durant sous les chaleurs parfois torrides du mois de juin, le jury s’autorise de comportements inouïs qui seraient partout ailleurs dans la société probablement qualifiés de harcèlements ou d’abus de pouvoir caractérisés. Le jury, mal payé pour faire sa besogne, prélève son tribut en petites récréations perverses et en exerçant son pouvoir. Car siéger à ces commissions de jury est un honneur, le couronnement symbolique d’une carrière puisqu’à votre tour vous avez le droit de juger qui fera partie du club. A l’agrégation interne, ces pratiques sont bien plus rares parce que le jury a affaire à des professeurs déjà expérimentés, à des gens dont la moyenne d’âge est autour de la quarantaine : on ne peut se permettre les mêmes sévices et humiliations qu’avec un public de vingtenaires.

      Tremblements et ricaneries

      Les jurys « se lâchent » souvent : ils tremblent de rage, ils soufflent, ils ricanent, ils s’envoient des textos ou des blagues dont on n’ose pas imaginer le contenu. C’est humain, dira-t-on. Certainement. Mais il est inhumain d’être en face d’eux et rien ne saurait justifier ce rituel archaïque, pas même une vieille tradition républicaine qu’il faut avoir le courage de remettre en question lorsqu’elle donne lieu à pareilles dérives qui sont hélas monnaie courante. Combien de candidats, et surtout de candidates, sortent brisés des salles d’examen dont le huis clos favorise les abus qu’on pourrait égrener à l’envi ?

      Problème : il n’y a pas de recours possible puisqu’il s’avère en pratique impossible de contester l’attribution d’une note par une commission. La contester, c’est se condamner soi-même à ne plus jamais pouvoir passer le concours. Si l’on veut tenter une seconde fois le concours, on se tait, à moins que l’on ait la force d’aller à la « confession » où, en faisant acte de contrition, le malheureux candidat ou la malheureuse candidate demandera au jury ce qui lui a tant déplu dans sa performance. Le jury, trop souvent despotique, est en effet susceptible et ne pardonne pas qu’on soit en désaccord avec ses « thèses » sur tel ou tel auteur.

      « Si les chiffres traduisent une plus faible performance des femmes lors de ces épreuves, les raisons en sont largement culturelles »

      Car des thèses, les jurys en ont, bien plus que les rapports ne veulent bien l’admettre, qui proclament que « le jury n’a aucune attente ». Et les membres du jury ont aussi des préjugés, des a priori, des convictions parfois. Tel universitaire de Paris-IV Sorbonne assénait à ses étudiants masculins que « la féminisation du métier est une catastrophe ». On peut penser que la vue d’une candidate lui causait des sueurs froides et un déplaisir difficile à cacher. La misogynie d’une partie du milieu académique français est notoire et elle fait des ravages. Les filles ne sont pas ostensiblement sacquées, non ; la chose est plus subtile. On attend d’elles un certain type de parole, une prise de risque modérée, un certain ethos. Si les chiffres traduisent une plus faible performance des femmes lors de ces épreuves, les raisons en sont largement culturelles.

      Les petits arrangements de Montaigne

      Justement, les choses se passent autrement aux Etats-Unis, où le féminisme et la liberté de penser ne sont pas de vains mots. Vivre à l’étranger m’a montré qu’on pouvait tout à la fois allier hauteur de vue, exigence académique et humanité, qu’on pouvait y tolérer des points de vue différents du sien à condition qu’ils soient argumentés. Nul besoin, là-bas, d’éradiquer les moutons noirs et autres flamands roses qui osent suggérer, comme j’en eus l’audace sacrilège (et qui me coûta cher) lors d’un oral mémorable (au moins pour moi), que Montaigne ne fait pas tout à fait ce qu’il dit qu’il fait.

      C’est pourtant là que, du point de vue de l’exercice de l’esprit critique, les choses deviennent intéressantes… Un texte n’est pas toujours ce qu’il semble être et une analyse rigoureuse peut permettre d’apercevoir qu’une affirmation doit être sérieusement nuancée. Montaigne corrige son texte, oui, n’en déplaise à certains. Il s’arrange un peu – beaucoup, parfois – avec la vérité et ça n’enlève rien à la grandeur des Essais.

      Nos grands oraux de concours français non plus ne sont pas exactement ce qu’ils disent qu’ils sont, et se grandiraient sans doute plus encore à se corriger un peu. Ces concours ne valent pas rien, non – et celles et ceux qui les ont eus ne sont pas des imposteurs –, mais il en va certainement de leur survie d’arriver à se réformer. Ce n’est pas Montaigne qui aurait dit le contraire.

      Loriane Lafont est doctorante à l’université de Chicago et à l’Ecole pratique des hautes études, et autrice de Misère et décadence des grandes écoles. Confessions d’une khâgneuse atterrée (Jean-Claude Gawsewitch, 2013)

      #ESR #académie #université #jurys #concours #France (mais c’est pas mieux ailleurs...)

  • With Israel’s encouragement, NSO sold spyware to UAE and other Gulf states
    https://www.haaretz.com/middle-east-news/.premium-with-israel-s-encouragement-nso-sold-spyware-to-uae-and-other-gulf

    The Israeli spyware firm has signed contracts with Bahrain, Oman and Saudi Arabia. Despite its claims, NSO exercises little control over use of its software, which dictatorships can use to monitor dissidents The Israeli firm NSO Group Technologies, whose software is used to hack into cellphones, has in the past few years sold its Pegasus spyware for hundreds of millions of dollars to the United Arab Emirates and other Persian Gulf States, where it has been used to monitor anti-regime (...)

    #NSO #Pegasus #spyware #smartphone #activisme #journalisme #surveillance #écoutes

  • #Arabian_Transfer

    “Arabian Transfer” is a photographic series highlighting the transitory condition
    of six cities in the Arabian Peninsula – #Abu_Dhabi, #Doha, #Dubai, #Kuwait_City, #Manama,
    #Riyadh – representing them as places of passage for cultures and people.
    “Arabia” is historically a mythical place of the Western imagery, of exchange with the
    East, but in recent decades cities like Dubai, Abu Dhabi and Doha have appeared as new
    worlds, new global epicentres made possible by a condition of hyper-mobility of people,
    cultural models, images, finances, goods, transferred from one place to another.
    These cities are mostly populated (as well as physically built) by expats from
    around the world, and today represent a living laboratory in which the local identity
    aspirations are measured against Western models and the traditions and cultures
    of origin of the inhabitants. In the title, the word “Transfer” refers to a place where
    travelers can spend some time, but can’t be a final destination, a condition that
    happens to the large majority of people living in those countries.

    These photographs were taken between 2010 and 2017 in the margin of other researches
    on spectacular architecture in the Gulf. In this series I wanted to avoid the sublime
    and grotesque character that photography tends to acquire in representing the most
    spectacular aspects of these landscapes; but I also sought to give substance to the
    abstract imagery of the new skylines – which remain in the background as the New York
    by Dos Passos to which the title refers.
    In these images I have favored a more intimate and direct relationship with the cities
    and their inhabitants, which took place mainly by walking and spending a lot of time
    on the streets and in urban areas, without hiding the difficulty of the metropolitan
    condition. Through everyday habits, gestures and faces, I tried to bring out a sense
    of presence, showing how these cities are actual places where people live, and where,
    in the extreme and paradoxical form that characterizes them, it is possible to
    recognize the global contemporary condition to which we ourselves participate.

    https://www.michelenastasi.com/portfolio/arabian-transfer
    #photographie #Michele_Nastasi #péninsule_arabique #Arabie #villes #urban_matter #villes

    ping @albertocampiphoto

  • Un #rapport de l’ONU s’inquiète de l’augmentation des #violences_sexuelles liées aux #conflits

    Malgré une décennie de lutte, l’#ONU constate que les violences sexuelles restent une #arme_de_guerre dans de nombreux conflits et qu’elles continuent d’augmenter sur toute la planète. L’ONU analyse dans son dernier rapport (https://news.un.org/fr/story/2020/07/1073341) les violations constatées dans 19 pays, principalement contre des jeunes #filles et des #femmes.

    Les violences sexuelles augmentent dans la plupart des #conflits_armés. C’est ce qui ressort du dernier rapport de l’ONU sur les violences sexuelles liées aux conflits publié en juillet dernier.

    Le rapport insiste sur le fait que ce type de violence a un impact direct sur les déplacements en masse de populations, la montée de l’extrémisme, des inégalités et des discriminations entre les hommes et les femmes. Par ailleurs, selon l’ONU, les violences sexuelles sont particulièrement répandues dans des contextes de détention, de captivité et de migration.

    Fin 2019, plus de 79 millions de personnes se trouvaient déplacées dans le monde. Cela signifie que près d’un pourcent de la population mondiale a dû abandonner son domicile à cause d’un conflit ou de persécutiosn. L’an denier, le nombre de déplacés a augmenté, tout comme le niveau de violences sexuelles se produisant sur des sites accueillant des déplacés.

    Ces violences ont notamment lieu quand des femmes et des filles mineures fuient des attaques. Ce 11ème rapport du Secrétaire général de l’ONU (en anglais) sur ce sujet se penche particulièrement sur les violences sexuelles utilisées comme tactiques de guerre ou comme une arme utilisée par les réseaux terroristes.

    Il dresse la situation dans 19 pays, entre janvier et décembre 2019, et se base sur des cas documentés par les Nations unies.

    En tout, 2 838 cas de violences sexuelles ont été rapportés dans ces 19 pays. Dans 110 cas, soit environ 4 % des cas, les victimes sont des hommes ou des garçons.

    #Afghanistan

    En 2019, la Mission d’assistance des Nations unies en Afghanistan (MANUA) a documenté 102 cas de violences sexuelles : 27 étaient liées au conflit qui oppose le pouvoir aux rebelles Talibans, touchant 7 femmes, 7 filles et 13 garçons.

    Alors que la plupart des agressions sont attribuées aux Talibans, les forces de sécurité et des milices pro-gouvernementales ont également été impliquées.

    #Centrafrique

    La Mission des Nations unies en Centrafrique (MINUSCA) a confirmé 322 incidents de violences sexuelles liées aux conflits, affectant 187 femmes, 124 filles, 3 hommes, 2 garçons, et 6 femmes d’âge inconnu. Parmi ces cas, 174 sont des viols ou tentatives de viol et 15 cas sont des mariages forcés.

    Le gouvernement de Bangui a signé avec les groupes armés, en février 2019, un accord de paix qui appelle à la fin de toutes formes de violences liées au sexe. Mais les signataires continuent d’utiliser la violence sexuelle comme moyen de terroriser les civils, conclut le rapport de l’ONU.

    #Colombie

    En 2019, un organisme de l’État venant en aide aux victimes a recensé 356 victimes de violences sexuelles liées aux conflits dans un pays où sévissent de nombreux groupes criminels et armés. Dans quasiment 90 % des cas, il s’agissait de femmes et de filles. Près de la moitié des victimes avaient des origines africaines.

    51 cas d’abus ont été commis sur des enfants (31 filles et 20 garçons). Dans au moins une dizaine de cas, les agresseurs présumés appartenaient au groupe rebelle de l’Armée de libération nationale ou à d’autres groupes armés et organisations criminelles.

    #RDC

    En 2019, la mission de l’ONU en #République_démocratique_du_Congo (MONUSCO), a documenté 1 409 cas de violences sexuelles liées aux conflits, ce qui représente une hausse de 34 % depuis 2018.

    Parmi ces cas, 955 sont attribués à des groupes armés. Mais des membres de l’armée congolaise sont eux aussi impliqués dans 383 agressions. Enfin, la police nationale est responsable dans 62 cas.

    #Irak

    Au cours de l’année 2019, des civils qui étaient détenus par l’organisation de l’État islamique (OEI) en Syrie ont continué à retourner en Irak. Certains sont des survivants de violences sexuelles.

    En novembre dernier, le gouvernement régional du Kurdistan irakien a publié des statistiques sur les cas de disparition dans la communauté des Yazidis depuis 2014. Plus de 6 400 Yazidis ont ainsi été enlevés. Parmi eux près de 3 500 ont été libérés, en grande partie des femmes et des filles.

    Une commission crée en 2014 par les autorités régionales kurdes pour faire la lumière sur les crimes commis par l’OEI a enregistré plus de 1 000 cas de violences sexuelles liées aux conflits. Ces abus ont en grande partie touché les femmes et filles yazidies.

    #Libye

    La mission de l’ONU en Libye (MANUL) n’a pu vérifier que 7 cas de violences sexuelles qui ont touché 4 femmes, deux filles et un homme activiste pour les droits des LGBTQ.

    D’après le rapport, les femmes retenues dans le centre de détention très controversé de #Mitiga n’ont aucune possibilité de contester la légalité de leur détention. Ce centre est contrôlé par la « Force de dissuasion » qui est placée sous la responsabilité du ministère libyen de l’Intérieur.

    Quatre prisonnières ont été violées et forcées de se montrer nues. L’activiste pour les droits des LGBTQ a été victime d’un viol en groupe perpétré par des gardiens de la Force de dissuasion.

    La MANUL a aussi rapporté des schémas de violences et d’exploitation sexuelles, d’extorsion et de trafic de migrants dans des centres de détention de #Zaouïa, #Tadjourah, #Garian, #Tariq_al_Sikka à #Tripoli et #Khoms qui sont liés aux autorités chargées de la lutte contre la migration illégale.

    Certaines femmes et filles migrants sont exposées au risque d’être vendues pour des travaux forcés ou être exploitées sexuellement dans des réseaux criminels internationaux, dont certains sont liés aux groupes armées présents en Libye. A Tariq al-Sikka, deux filles, frappées en public, ont été victimes d’abus sexuels.

    #Mali

    En 2019, la force onusienne au Mali (MINUSMA) a enquêté sur 27 cas de violences sexuelles liées aux conflits, commis contre 15 femmes, 11 filles et un homme. Des accusations d’esclavage sexuel, de mariages forcés, de castration et de grossesses forcées ont également été rapportées.

    #Birmanie (#Myanmar)

    L’absence de responsabilité pour des violences sexuelles perpétrées contre la minorité musulmane #Rohingyas reste de mise.

    Une mission d’enquête sur les violences sexuelles en Birmanie a montré que ce genre d’agressions étaient une marque de fabrique de l’armée birmane lors des opérations qu’elle a menées en 2016 et 2017.

    De plus, comme le rappelle le rapport de l’ONU, les abus sexuels commis contre les femmes et filles Rohingyas étaient une #tactique_de_guerre qui avait pour objectif d’intimider, de terroriser et de punir les populations civiles.

    #Somalie

    La mission de l’ONU en Somalie (ONUSOM) a confirmé près de 240 cas de violences sexuelles liées aux conflits, dont l’immense majorité contre des mineures. Elles sont en majorité attribuées à des hommes armés non identifiés, au groupe des #Shebabs somaliens, mais aussi à des forces de #police locales et à l’armée somalienne. Près de la moitié de ces abus ont été commis dans l’État de #Jubaland, dans le sud-ouest du pays.

    #Soudan_du_Sud

    La mission onusienne de maintien de la paix au Soudan du Sud (MINUSS) a documenté 224 cas de violences sexuelles liées aux conflits, touchant 133 femmes, 66 filles, 19 hommes et 6 garçons.
    Soudan

    En 2019, l’opération de l’ONU au #Darfour (MINUAD) a constaté 191 cas de violences sexuelles contre des femmes et des filles. Les viols et tentatives de viol ont constitué près de 80 % des cas.

    Les agressions ont été attribuées à des nomades armés, des membres de l’#Armée_de_libération_du_Soudan et à des miliciens. Les forces de sécurité du gouvernement, dont les forces armés soudanaises et la police ont également été impliquées.

    #Nigeria

    En 2019, l’ONU a recensé 826 allégations de violences sexuelles liées aux conflits, dont des viols et des #mariages_forcés.

    La quasi-totalité de ces cas sont attribués à des #groupes_armés, dont #Boko_Haram et la #Civilian_Joint_Task_Force, une #milice d’autodéfense. Les forces de sécurité de l’État sont impliquées dans 12% des cas.

    Les efforts de l’ONU restent vains

    En avril 2019, une résolution (https://www.un.org/press/fr/2019/cs13790.doc.htm) adoptée par le Conseil de sécurité des Nations unies reconnait le besoin d’une approche centrée sur les survivants pour informer et mettre en place des mesures pour lutter contre les violences sexuelles liées aux conflits.

    La #résolution ne peut que constater que « malgré le condamnation répétées des violences, dont les violences sexuelles contre des femmes et des enfants dans des situations de conflit, et malgré l’appel à toutes les parties prenantes dans les conflits armés pour qu’elles cessent ce genre d’actes, ces derniers continuent de se produire. »

    Le rapport conclut en rappelant que l’#impunité accompagne souvent les #abus et que les efforts des parties impliquées dans un conflit à suivre les résolutions de l’ONU restent très faibles.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/26635/un-rapport-de-l-onu-s-inquiete-de-l-augmentation-des-violences-sexuell
    #guerres #guerre #viols

    ping @odilon

    • Violence sexuelle liée aux conflits : l’ONU plaide pour une nouvelle décennie d’action

      Il faut continuer à garder les crimes de violence sexuelle dans les conflits et leurs auteurs sous les projecteurs de la communauté internationale, a plaidé vendredi Pramilla Patten, la Représentante spéciale du Secrétaire général de l’ONU sur la violence sexuelle dans les conflits.

      « Comme le dit la célèbre maxime juridique : justice doit être rendue et être vue comme étant rendue. Les survivantes doivent être considérées par leur société comme les détentrices de droits qui seront, en fin de compte, respectés et appliqués », a déclaré Mme Patten lors d’un débat du Conseil de sécurité sur ce thème.

      Outre Mme Patten, l’Envoyée spéciale du Haut-Commissaire des Nations Unies pour les réfugiés, Angelina Jolie et deux responsables d’ONG, Khin Omar, fondatrice et présidente de Progressive Voice s’exprimant au nom du groupe de travail des ONG sur les femmes, la paix et la sécurité, et Nadia Carine Thérèse Fornel-Poutou, présidente de l’Association des femmes juristes de la République centrafricaine, ont pris la parole devant le Conseil.

      Selon la Représentante spéciale, le débat au Conseil de sécurité ouvre la voie à une nouvelle décennie d’action décisive, selon trois axes :

      Premièrement, l’autonomisation des survivantes et des personnes à risque grâce à des ressources accrues et à une prestation de services de qualité, afin de favoriser et de créer un environnement propice dans lequel elles peuvent signaler les violations en toute sécurité et demander réparation.

      Deuxièmement, agir sur la base des rapports et des informations reçus pour faire en sorte que les parties prenantes respectent les normes internationales.

      Troisièmement, le renforcement de la responsabilité en tant que pilier essentiel de la prévention et de la dissuasion, garantissant que lorsque les parties prenantes ne respectent pas leurs engagements, elles sont dûment tenues de rendre des comptes.

      « La prévention est la meilleure réponse. Pourtant, nous avons du mal à mesurer - ou même à définir - les progrès du pilier prévention de ce programme. Le respect est un exemple concret : la violence sexuelle persiste non pas parce que les cadres et obligations existants sont inadéquats, mais parce qu’ils sont mal appliqués », a souligné Mme Patten.

      « La résolution 1820 de 2008 ne demandait rien de moins que ‘la cessation immédiate et complète par toutes les parties aux conflits armés de tous les actes de violence sexuelle contre les civils’. Cette résolution a écrit une nouvelle norme et a tracé une ligne rouge. Maintenant, nous devons démontrer clairement quelles sont les conséquences quand elle est franchie », a-t-elle ajouté.
      Aller au-delà de la rhétorique

      De son côté, Angelina Jolie a rappelé la résolution 2467 adoptée par le Conseil de sécurité l’an dernier.

      « C’était la première à placer les survivantes, leurs besoins et leurs droits au centre de toutes les mesures. Mais les résolutions, les mots sur papier, ne sont que des promesses. Ce qui compte, c’est de savoir si les promesses sont tenues », a dit l’actrice américaine devant les membres du Conseil de sécurité.

      Celle qui est également réalisatrice de films a noté que la résolution 2467 a promis des sanctions, la justice et des réparations pour les victimes et la reconnaissance des enfants nés de viol.

      « Ce sont toutes des promesses qui doivent être tenues. Je vous exhorte donc tous à vous réengager aujourd’hui à tenir ces promesses : aller au-delà de la rhétorique et mettre en œuvre vos décisions », a dit Angelina Jolie.

      « Je vous prie de demander des comptes aux auteurs, d’aborder les causes profondes et structurelles de la violence et de la discrimination sexistes dans vos pays. Et s’il vous plaît, augmentez d’urgence le financement des programmes qui répondent aux besoins de tous les survivants, et en particulier des victimes invisibles - les enfants », a ajouté la star du cinéma qui a fait preuve ces 20 dernière années d’un engagement pour les causes humanitaires, notamment en faveur des réfugiés et des droits des femmes et enfants.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/26635/un-rapport-de-l-onu-s-inquiete-de-l-augmentation-des-violences-sexuell

  • Portland, ville symbole de la résistance à Trump
    https://www.courrierinternational.com/article/manifestations-portland-ville-symbole-de-la-resistance-trump

    Voilà plus de cinquante jours que les manifestations contre le racisme et les violences policières se succèdent à Portland, la plus grosse ville de l’Oregon. Le récent déploiement de forces spéciales du gouvernement fédéral n’a fait qu’envenimer les choses.

    #paywall

    • Cinquante-deux jours consécutifs de #manifestations. Si la #mobilisation contre les #violences_policières à la suite de la mort de George Floyd a fléchi dans les rues des autres grandes villes et des petites villes américaines, à Portland, dans l’#Oregon, « la détermination des manifestants va croissant », rapporte le New York Times.

      Et pour cause, la ville est devenue un #symbole du #bras_de_fer engagé par Donald Trump pour mettre un terme aux troubles et aux manifestations en déployant des #forces_spéciales de #police_fédérale.

      « Flagrant #abus_de_pouvoir »

      Le locataire de la Maison-Blanche a encore dénoncé sur Twitter ce dimanche 19 juillet les « anarchistes et agitateurs » qu’il considère comme « une #menace_nationale » et qu’il désigne comme responsables du « #chaos et de l’#anarchie » qui règne dans cette ville de la côte Ouest. Or « davantage de manifestants sont sortis dans les rues de Portland pour protester contre la #militarisation du #maintien_de_l'ordre », rendue palpable par le déploiement de forces spéciales de police fédérale dans la ville depuis le début du mois de juillet, souligne le quotidien new-yorkais.

      Dans un second article, le New York Times décrit plus précisément ces forces spéciales de police fédérale : « Des #agents_fédéraux vêtus de tenues camouflage et d’équipements tactiques, usant de #gaz_lacrymogène et de #brutalité, et embarquant à l’occasion des manifestants dans des véhicules banalisés », ce que la gouverneure démocrate de l’Oregon, Kate Brown, a qualifié de « flagrant abus de pouvoir ».

      La procureure générale de l’État a également indiqué que ses services avaient ouvert une #enquête à la suite de #violences sur un manifestant et avaient enregistré une #plainte devant un tribunal local contre les méthodes répressives illégales des agents fédéraux.

      Les agents présents à Portland font partie des « équipes à déploiement rapide mises en place par le ministère de la Sécurité intérieure ». Il s’agit d’une demande expresse du président américain auprès de différentes agences fédérales d’envoyer des renforts pour « protéger les #statues, #monuments et bâtiments fédéraux pendant les manifestations ».

      Tout un symbole

      Ces équipes incluent environ « 2 ?000 hommes issus de la #police_des_frontières, mais aussi du ministère des Transports et des #gardes-côtes qui viennent prêter main-forte au #Federal_Protective_Service », une agence fédérale peu connue chargée de la #protection_des_propriétés du gouvernement fédéral sur tout le territoire américain.

      Ces renforts fédéraux « ont été déployés à #Seattle, à #Washington et à Portland », souligne le New York Times. Depuis, les images chocs, les vidéos amateurs et les témoignages se multiplient sur les réseaux sociaux et dans les médias américains pour dénoncer la violence de la #répression à Portland.

      Parmi les images les plus frappantes qui ont fait le tour de la Toile figure cette vidéo d’un groupe de mères casquées venues protester contre la présence des agents fédéraux aux cris de « Feds stay clear. Moms are here ?! » ("Allez-vous-en les fédéraux, les mères sont là !").

      Ou encore les photos et vidéos de cette manifestante nue exécutant un drôle de ballet devant les forces de l’ordre. Une manifestante anonyme qualifiée par le Los Angeles Times d’"Athéna", en référence à la déesse grecque de la guerre, émergeant « telle une apparition au milieu des nuages de gaz lacrymogène lancé par les agents fédéraux et ne portant rien d’autre qu’un masque et un bonnet noir face à une dizaine d’agents lourdement armés et vêtus de treillis militaire ».

      Le symbole même de la « vulnérabilité humaine » face à une répression disproportionnée.

      #résistance #Trump #USA #Etats-Unis #plainte #Naked_Athena #Athena

      ping @davduf

    • A Portland, la « milice personnelle de Trump » à l’œuvre

      Ils jaillissent de voitures banalisées, vêtus d’uniformes kaki tout neufs dignes de la guerre d’Irak, pour interpeller des manifestants, ou, trop souvent, de simples passants soupçonnés d’être de « dangereux anarchistes ». Une vidéo montre un de leurs commandos maîtriser à dix, avec l’aide d’un chien policier, un tagueur devant la cour de justice fédérale de Portland, Oregon.

      Ces forces de l’ordre inconnues, dénuées du moindre insigne déclinant leur identité ou leur administration d’origine, côtoient depuis près de deux semaines la police de Portland pour disperser les rassemblements de militants Black Lives Matter, toujours actifs depuis la mort de George Floyd. S’ils coordonnent parfois officieusement leurs actions avec les policiers locaux, connus pour leur brutalité, ils ne prennent leurs ordres que de Washington. Essentiellement du Department of Homeland Security, l’administration de la sécurité intérieure fondée après le 11 Septembre, aujourd’hui étroitement contrôlée par Donald Trump en personne – au grand désarroi des autorités locales, qui assurent n’avoir jamais demandé un tel renfort. « Ces dizaines, voire ces centaines d’officiers fédéraux qui débarquent dans notre ville ne font qu’envenimer la situation, a déploré Ted Wheeler, le maire démocrate de Portland. Leur présence ne fait qu’accroître les violences et le vandalisme. »

      Pour toute réponse, Donald Trump a annoncé qu’il entendait poursuivre ces déploiements dans d’autres villes, telles Chicago, Detroit, Philadelphie, Baltimore et Oakland (en Californie), ainsi que…New York, qui ne connaît plus de manifestations d’envergure, pour rétablir l’ordre dans des municipalités « mal dirigées par des Démocrates de gauche ».

      Aucune compétence sur la voie publique

      L’offensive de la Maison Blanche, décrite comme une manifestation d’autoritarisme et une crise constitutionnelle par l’Aclu, importante association de défense des droits civils, provoque un choc dans l’opinion. Révulsée, Nancy Pelosi, la présidente démocrate de la Chambre des représentants, demande le retrait des « troupes d’assaut de Donald Trump ». Tom Ridge, premier directeur du Homeland Security Department entre 2003 et 2005, a pour sa part rappelé que cette agence de l’Etat fédéral n’a pas été conçue « pour servir de milice personnelle à Donald Trump ».

      Le maintien de l’ordre est traditionnellement la responsabilité des autorités locales : des Etats mais plus couramment des maires des villes, des shérifs élus et des dirigeants de comtés. Les forces fédérales, tels le FBI, la Drug Enforcement Administration et les agences de lutte contre l’immigration clandestine, ne sont compétentes que pour les crimes et délits impliquant des mouvements entre plusieurs Etats ou dûment inscrits en raison de leur gravité dans une liste approuvée par le Congrès. Hormis pour la protection des bâtiments fédéraux, un prétexte largement utilisé à Portland, ils n’ont aucune compétence sur la voie publique, alors qu’ils quadrillent la ville impunément sans autorisation des autorités locales.

      Donald Trump, brutalisé par les sondages et en mal de démonstration d’autorité, a fait son miel du slogan de Black Lives Matter « defund the police », soit retirer ses financements à la police. Le mot d’ordre appelait à la fin de la militarisation du maintien de l’ordre local et au rééquilibrage des fonds publics vers les services sociaux ou de prévention de la criminalité. La Maison Blanche y voit l’occasion de se présenter comme la championne de la loi et de l’ordre face au prétendu laxisme des élus démocrates, quitte à attiser les conflits locaux avant les élections de novembre.

      Rempart contre le prétendu chaos

      Le Président n’a eu de cesse, depuis trois ans, de stigmatiser les « villes sanctuaires » qui limitent leur appui à ses campagnes d’arrestation d’immigrants clandestins. Il trouve maintenant une nouvelle occasion de monter sa base électorale, largement rurale, contre les zones urbaines, majoritairement démocrates, et de s’imposer comme un rempart contre le prétendu chaos. Donald Trump avait évoqué Chicago et son taux de criminalité terrible dès son discours inaugural apocalyptique de janvier 2017 pour promettre la fin de ce « massacre américain ». Mais on ignore l’impact qu’aura sa centaine d’enquêteurs fédéraux dans une ville qui a connu 62 attaques armées entre gangs le week-end dernier. Le maire de Detroit, comme celui de Philadelphie, demandent quant à eux poliment d’où le Président tire ses informations sur le désordre et la criminalité locale.

      Plus perfidement, Trump profite de la colère des polices locales, notamment à New York, ou le maire, Bill de Blasio, à réduit le budget du NYPD sous la pression de Black Lives Matter, pour tenter de déstabiliser les élus démocrates au moment où, certes, la criminalité augmente depuis le déconfinement sans pour autant renverser vingt ans de progrès spectaculaires dans la sécurité de la ville.

      Le Président a, de plus, accru son emprise sur les forces fédérales usant non du FBI, qu’il déteste en raison des enquêtes sur sa possible collusion avec Moscou, mais des agences qui lui sont dévouées, comme la police des frontières et l’Immigration and Customs Enforcement (ICE), responsable des arrestations de clandestins. Ces officiers, dénués de toute expérience en matière de contrôle des désordres sur la voie publique, constituent la majorité des troupes en uniforme kaki qui traquent les tagueurs de Portland et pourraient bientôt imposer la marque Trump dans les ghettos du South Side, à Chicago.

      https://www.liberation.fr/planete/2020/07/22/a-portland-la-milice-personnelle-de-trump-a-l-oeuvre_1794940?xtor=rss-450