• Profession gendarme

    À l’origine de son engagement, il y a la foi dans le service public, l’envie de se rendre utile aux autres, d’améliorer le monde à son échelle. La #gendarmerie lui paraît alors le lieu où il pourrait s’épanouir. Bien vite, il déchante. #Témoignage d’un gendarme démissionnaire.

    Ex-syndicaliste, fervent défenseur des valeurs humanistes de gauche, notre futur gendarme entre à l’école la fleur au fusil, enthousiaste à l’idée de se fondre dans un collectif dédié à préserver le #bien_commun. Mais l’exaltation des débuts laisse vite place à l’inquiétude.

    Fréquenter l’intolérable dès la formation

    Les remarques racistes ou sexistes de certains camarades le choquent : “Très rapidement, je me suis senti un peu de côté. On m’a catégorisé comme le le gauchiste de la promotion et fait comprendre que je n’étais pas à ma place.” Outre l’#ambiance_nauséabonde, il faut ajouter les #lacunes d’une #formation qui favorisent toutes sortes d’#abus et de #falsifications dans les procédures : "Faut pas s’étonner de la qualité des #procédures_judiciaires, on nous forme pas. Chacun fait son #micmac”. Pour surmonter les doutes, il faut alors s’accrocher à l’espoir de voir les choses changer à la sortie d’école. Il n’en est rien.

    “J’ai été naïf de croire que je pourrais changer les choses” : de la #désillusion à la #démission

    Sur le terrain, c’est le même refrain. Non seulement les discours et réflexes problématiques prospèrent, pouvant atteindre des sommets : “un jour, [un collègue] a sorti : “Moi, vous me laissez une arme dans un quartier, je tire à vue, y a pas de souci”, mais quiconque ose les dénoncer se voit vite mis au ban de l’équipe : “Quand on essaie d’en parler avec eux, ils s’en foutent et répètent que c’est comme ça et pas autrement”. Ainsi, toute protestation se heurte au #silence d’une institution au sein de laquelle le racisme et la #violence restent des questions taboues.

    Face à cette #inertie, tout ce qu’il restait d’espoir dans la droiture des forces de l’ordre s’épuise. Les positions de notre témoin se radicalisent. Désormais anarchiste, comment rester flic ? “Défendre l’État et en même temps vouloir abolir l’État, c’est un peu compliqué”. Une seule solution : la démission.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-pieds-sur-terre/gendarme-8281224
    #racisme #sexisme

    –—

    ajouté à la #métaliste de #témoignages de #forces_de_l'ordre, #CRS, #gardes-frontière, qui témoignent de leur métier. Pour dénoncer ce qu’ils/elles font et leurs collègues font, ou pas :
    https://seenthis.net/messages/723573

  • Une relation d’une année universitaire… et d’un été
    https://academia.hypotheses.org/51044

    Sur une relation pédagogique abusive à l’UPEC Une étudiante, qui a fait son Master à l’UPEC, raconte son expérience d’une relation pédagogique abusive et ses prolongements en trois épisodes. TW : mention de violences psychiques, suicide, VSS. Épisode 1. Une … Continuer la lecture →

    #Academic_Feminist_Fight_Club #Lectures_/_Readings #Libertés_académiques_:_pour_une_université_émancipatrice #Témoignages #abus_de_pouvoir #UPEC

  • “Così le multinazionali occidentali non pagano le tasse in Mozambico”

    Le grandi società estrattive approfitterebbero dei trattati firmati da Maputo con paradisi fiscali come Mauritius o Emirati Arabi Uniti. Il centro di ricerca indipendente SOMO stima che cinque compagnie -inclusa Eni- eviteranno di pagare imposte per un valore compreso tra 1,4 e due miliardi di dollari. A proposito di “Piano Mattei”

    Per via dei trattati fiscali siglati dal Mozambico con diversi Paesi stranieri diverse multinazionali -tra cui le società fossili TotalEnergies ed Eni- eviteranno di versare circa due miliardi di dollari di tasse al governo di Maputo: una cifra superiore a quanto spende il Paese africano per la sanità in un anno intero. Nello specifico, le due aziende europee “non pagano la loro giusta quota dal momento che fanno transitare i propri investimenti attraverso società di comodo negli Emirati Arabi Uniti”, come denuncia il report “The treaty trap: tax avoidance in Mozambique’s extractive industries” (La trappola del trattato: l’elusione fiscale nell’industria estrattiva in Mozambico) pubblicato il 21 luglio dal Centro di ricerca olandese sulle multinazionali SOMO.

    Il meccanismo che permette alle società di gas e petrolio (ma non solo) di arricchirsi a dismisura era già stato al centro di un dettagliato rapporto “How Mozambique’s tax treaties enable tax avoidance“, pubblicato lo scorso marzo sempre da SOMO e dal Centro mozambicano per la democrazia e lo sviluppo (Cdd) e del quale avevamo già scritto. Il report denuncia come la rete di trattati fiscali siglati dal Mozambico stia privando il Paese di centinaia di milioni di dollari di entrate ogni anno, a causa degli accordi stretti con paradisi fiscali come Mauritius ed Emirati Arabi Uniti. Secondo le stime delle due organizzazioni, solo nel 2021 il Paese africano avrebbe perso circa 390 milioni di dollari in mancato gettito fiscale.

    In questo nuovo rapporto SOMO evidenzia come TotalEnergies ed Eni abbiano approfittato del trattato fiscale siglato dal governo di Maputo con Abu Dhabi, creando società di comodo negli Emirati Arabi Uniti. “Gli investimenti sono sostenuti da prestiti di banche d’investimento pubbliche, agenzie di credito all’esportazione e banche commerciali di tutto il mondo. Se i prestiti per questi megaprogetti non fossero passati attraverso gli Emirati Arabi Uniti, il Mozambico avrebbe potuto applicare una ritenuta fiscale del 20% su quasi tutti i pagamenti degli interessi, per un importo che oscilla tra 1,3 e due miliardi di dollari”, osservano i ricercatori di SOMO.

    Accuse a cui la società italiana guidata da Claudio Descalzi ha risposto dichiarando che “come contribuente, Eni opera nel pieno rispetto del quadro legislativo e fiscale locale e internazionale. I progetti di Eni nei Paesi in cui è presente generano benefici economici e sociali a livello locale in termini di tasse, occupazione, formazione e progetti sociali, formazione e progetti sociali -si legge nella nota pubblicata nel report di SOMO-. Inoltre, le Linee guida fiscali di Eni assicurano una corretta interpretazione della normativa fiscale con il divieto di intraprendere operazioni fiscalmente aggressive. Il Mozambico, a seguito dei progetti a cui Eni partecipa, sta diventando un importante attore globale nel settore del Gas ‘naturale’ liquefatto (Gnl)”.

    I giacimenti di gas interessati dalle operazioni dei due colossi europei si trovano al largo della provincia di Cabo Delgado, nel Nord del Paese: un’area economicamente emarginata e impoverita, dove gli investimenti miliardari per lo sfruttamento dei combustibili fossili non hanno portato alcun beneficio alla popolazione locale, alimentando invece le disuguaglianze. Dopo la scoperta dei primi giacimenti (tra il 2010 e il 2014) migliaia di persone hanno dovuto abbandonare i propri villaggi a causa delle operazioni industriali. La situazione è ulteriormente peggiorata a causa di una violenta insurrezione di matrice jihadista che dal 2017 ha provocato migliaia di morti e costretto milioni di persone alla fuga.

    Ma non ci sono solo le società del settore degli idrocarburi al centro dell’attenzione. SOMO ha infatti analizzato le pratiche fiscali di alcune aziende minerarie come la britannica Gemfields, che estrae rubini nel distretto di Montepuez (sempre nella provincia di Cabo Delgado), e l’irlandese Kenmare Resources, che opera in una miniera di titano a Moma (nel Nord-Est del Paese). Entrambe controllano le loro operazioni in Mozambico dalle Mauritius, approfittando di un trattato fiscale che gli avrebbe permesso di evitare circa 20 milioni di dollari di ritenute sui dividendi tra il 2017 e il 2022.

    Infine c’è la gestione del corridoio logistico di Nacala: una rete ferroviaria lunga 912 chilometri utilizzata per il trasporto di carbone delle miniere nella provincia di Tete (nel Mozambico occidentale) fino al porto di Nacala, affacciato sull’oceano Indiano, sulla costa orientale. L’infrastruttura è controllata al 50% dalla compagnia mineraria brasiliana Vale e dalla società elettrica giapponese Mitsui & Co. SOMO ritiene che le due aziende abbiano evitato di versare nelle casse del governo di Maputo circa 96,9 milioni di dollari tra il 2016 e il 2020: “Ciò è stato possibile reindirizzando i prestiti attraverso società di intermediazione con sede negli Emirati Arabi Uniti per trarre vantaggio dal trattato fiscale tra gli Emirati Arabi Uniti e il Mozambico, che riduce dal 20% a zero l’aliquota applicabile per la ritenuta alla fonte sugli interessi in Mozambico”, si legge nel report.

    Il sottosuolo del Mozambico è ricco di minerali che possono svolgere un ruolo fondamentale nella transizione energetica. E, nel contesto dell’esplosione della domanda globale di queste materie prime, è fondamentale affrontare tempestivamente il tema dell’evasione fiscale -avverte SOMO- per evitare che anche in questo ambito si ripeta quello che è successo con i combustibili fossili. “È indispensabile che il Mozambico abbandoni questi trattati fiscali iniqui, ponendo un freno all’elusione fiscale delle imprese e salvaguardando gli interessi della popolazione -ha spiegato Nelsa Langa, assistente di ricerca presso il Centro mozambicano per la democrazia e lo sviluppo-. Dovrebbe liberarsi da questi trattati fiscali obsoleti, che costano molto al Paese e forniscono pochi benefici”.

    Il ricercatore di SOMO Vincent Kiezebrink aggiunge che “le multinazionali devono smettere di abusare di questi trattati fiscali per evitare di pagare le tasse in uno dei Paesi più vulnerabili del mondo. E i governi dei paradisi fiscali come gli Emirati Arabi Uniti e le Mauritius devono permettere al Mozambico di rinegoziarli”. L’esperienza di Paesi come Senegal, Kenya, Lesotho e Ruanda -che hanno rinegoziato o cancellato con successo gli accordi fiscali con le Mauritius- dimostra che è possibile cambiare questa situazione.

    https://altreconomia.it/cosi-le-multinazionali-occidentali-non-pagano-le-tasse-in-mozambico
    #multinationales #pétrole #évasion_fiscale #fisc #Eni #industrie_pétrolière #Mozambique #île_Maurice #TotalEnergies #total #Emirats_arabes_unis #Abu_Dhabi #gaz #énergie #extractivisme

    • Oil and gas multinationals avoid up to $2 billion in taxes in Mozambique

      TotalEnergies and ENI are set to avoid up to $2 billion in withholding taxes in Mozambique – more than the country’s annual healthcare spending – research by SOMO and CDD reveals. The oil and gas giants fail to pay their fair share of taxes in the African country because they rout their investments through letterbox companies in the United Arab Emirates (UAE). Mozambique could prevent these practices by cancelling or renegotiating its outdated tax treaties with tax havens like the UAE and Mauritius. Several other African countries have successfully done so already.

      TotalEnergies (France) and ENI (Italy) lead two megaprojects in Mozambique to exploit gas reserves in the northern province of Cabo Delgado, constituting the biggest investments in Africa to date. Both multinationals established letterbox companies in the UAE to channel their consortium’s multi-billion-dollar investments, taking advantage of the 0 % interest withholding tax rate in its tax treaty with Mozambique. The investments are backed by loans from public investment banks, export credit agencies and commercial banks worldwide. If the loans for these megaprojects had not been routed through the UAE, Mozambique could have charged a 20 per cent withholding tax on nearly all related interest payments, which amounts to $1.3 – $2 billion.
      publication cover - The treaty trap: tax avoidance in Mozambique’s extractive industries
      Publication / July 21, 2023
      The treaty trap: tax avoidance in Mozambique’s extractive industries
      The miners

      The backdrop for these gas projects is Mozambique’s northernmost province of Cabo Delgado, an economically marginalised region where a violent insurgency has wreaked havoc since 2017. The discovery of gas and the resulting increase in inequality in the area has been a key driver behind the conflict.

      Treaty shopping using complex corporate structures
      The use of UAE-based letterbox companies by TotalEnergies and ENI are just two examples of treaty shopping, depriving Mozambique of much-needed tax revenue. SOMO found similar tax avoidance structures by mining companies Vale, Kenmare and Gemfields, which are estimated to have avoided an $117 million in Mozambican taxes between 2017 and 2022. The tax treaties with the UAE and Mauritius are estimated to have cost Mozambique $315 million in 2021 alone, SOMO calculated in a March 2023 report.

      Following these revelations, SOMO delved into the details by studying the tax practices of specific companies in the Mozambican gas and mining sectors. Besides the gas projects, case studies include Gemfields, a UK miner extracting rubies in Montepuez and the Irish mining company Kenmare Resources, which operates the Moma titanium mine. On paper, both companies control their operations in Mozambique from Mauritius, taking advantage of a tax treaty that allowed them to avoid approximately $20 million in dividend withholding taxes between 2017 and 2022. Finally, there is the case of Vale and Mitsui & Co., who avoided approximately $96.9 million in interest withholding taxes associated with their Nacala Logistics Corridor between 2016 and 2020 through a financing structure routed via the UAE.

      Unfair and outdated tax treaties
      It is imperative that Mozambique steps out of these unfair tax treaties, curbing corporate tax avoidance and safeguarding its people’s interests. Nelsa Langa (Research Assistant at CDD): “Mozambique should free itself from these outdated tax treaties, which cost the country dearly while providing little benefit. Senegal, Kenya, Lesotho and Rwanda have all successfully renegotiated or cancelled tax treaties with tax havens Mauritius.”

      Mozambique is rich in natural resources, with vast deposits not only of fossil fuels but also minerals that are of key importance for the energy transition. Amidst the exploding demand for these minerals, it is crucial to address tax avoidance promptly to prevent replication.

      Vincent Kiezebrink (Researcher at SOMO): “Multinational companies need to stop abusing Mozambique’s tax treaties to avoid taxes in one of the world’s most vulnerable countries, and tax haven governments such as the UAE and Mauritius need to allow Mozambique to renegotiate these harmful tax treaties.”

      The Mozambican government has the tools to stop this widespread tax avoidance. By renegotiating or terminating its tax treaties with Mauritius and the UAE, it could limit companies’ opportunities for tax avoidance.

      https://www.somo.nl/oil-and-gas-multinationals-avoid-up-to-2-billion-in-taxes-in-mozambique

  • Außenministerin war auf Weg nach Australien : Baerbock sitzt nach Flugzeugpanne in Abu Dhabi fest
    https://www.tagesspiegel.de/politik/aussenministerin-auf-weg-nach-australien-gestrandet-baerbock-sitzt-nach

    Quand on s’intéresse à la politique on rencontre parfois des chiffres impressionnants qui frôlent l’absurde. Ici c’est la maniére de dépenser de l’argent pour la mise en scène du personnage de notre ministre des affaires extérieures connue pour sa sagesse qui bat Chuck Norris à tous les niveaux.

    D’abord on la fait voyager dans un Airbus assemblé avec amour par les petites mains habiles d’ouvre:ièr:e:s toulousain:e:s. Cela aurait été un bon plan s’il n’y avait pas eu l’entretien de l’engin par les spécialistes de la Bundeswehr connus pour avoir augmenté ces dernières années la disponibilité de nos Eurofighters prèsque neufs à 70 pour cent. Autrement dit on peut compter avec trois interruptions de voyage de notre brillante ministre sur dix décollages.

    Passon sur les dizaines de milliers que la ministre facture chaque année au contribuable pour ses coiffeu:ses:rs et visagistes. Son voyage chez les assassins de Ned Kelly et leurs voisins pulverise des sommes nettement plus intéressantes. En bonne hypocrite verte elle ne partage pas les fauteuils étroits de première classe avec son équipe sur un vol de ligne mais elle profite de son Airbus personnel. Il faut bien dépenser les milliards d’Euros que son gouvernement a emprunté pour mener des guerres pendant qu’il soumet les enfants et retraités du pays aux mesures d’austérité systématiques digne d’une Margaret Thatcher.

    On pourrait continuer encore longtemps à dénoncer et ridiculiser la bêtise inhumaine de ce gouvernement. Sans exception chaque décision qu’il prend nuit aux intérêts des gens ordinaires et profite au capital transatlantique.Il faudrait arrêter de s’en moquer. Il faudrait commencer à terminer ce foutage de geule.

    14.9.2023 - Baerbock sitzt nach Flugzeugpanne in Abu Dhabi fest

    Wegen eines Defekts der Landeklappen ist die Außenministerin in Abu Dhabi gestrandet. Ihr Reiseplan ist durcheinandergewirbelt. Es ist nicht die erste Panne bei einem Regierungsflieger.

    Erneute Flugzeugpanne für Außenministerin Annalena Baerbock: Nach einer Zwischenlandung zum Auftanken in Abu Dhabi in den Vereinigten Arabischen Emiraten musste die Grünen-Politikerin am frühen Montagmorgen ihren Flug zu einer einwöchigen Reise nach Australien, Neuseeland und Fidschi abbrechen.

    Ein Sprecher des Auswärtigen Amts hatte zuvor an Bord erklärt: „Wegen eines mechanischen Problems müssen wir aus Sicherheitsgründen nach Abu Dhabi zurückkehren.“ Das Flugzeug landete um 5.33 Uhr Ortszeit (3.33 Uhr MESZ) wieder sicher in Abu Dhabi.

    Im Laufe des Tages soll entschieden werden, wann Baerbock ihre Reise in die Pazifik-Region fortsetzen kann. Unter anderem wegen der gesetzlich vorgeschriebenen Ruhezeiten der Flugzeugbesatzung wurde bei dem erzwungenen Zwischenstopp nicht damit gerechnet, dass sie noch im Laufe des Montags mit der Flugbereitschaft der Bundeswehr weiterfliegen kann.

    Auf dem Flughafen von Abu Dhabi prüften mitgereiste Techniker, ob der Defekt mit Bordmitteln zu beheben ist, Ersatzteile beschafft werden müssen oder ob eine Ersatzmaschine von Köln/Bonn, dem Standort der Flugbereitschaft, zum Golf-Emirat geflogen werden muss.

    Die Regierungsmaschine, ein Airbus A340-300, steht auf dem Flughafen von Abu Dhabi.
    Die Regierungsmaschine, ein Airbus A340-300, steht auf dem Flughafen von Abu Dhabi.

    Denkbar war auch, dass Baerbock mit einem kleinen Teil der Delegation einen Linienflug nimmt und der Rest der Mitreisenden mit einer Regierungsmaschine nachkommt.. Allerdings starten Linienflüge erst am Montagabend nach Australien.

    Das Flugzeug war nach einer Zwischenlandung zum Auftanken in Abu Dhabi um 3.33 Uhr Ortszeit wieder gestartet. Drei Minuten später wurde das Problem in der Luft bemerkt und der Flieger musste aus Sicherheitsgründen zurückkehren.

    Der Flugkapitän hatte zuvor über den Bordlautsprecher darüber informiert, dass es Probleme beim Einfahren der Landeklappen gebe.

    Um sicher in Abu Dhabi landen zu können, musste zunächst Treibstoff abgelassen werden. Der Airbus war für die lange Strecke mit 110 Tonnen Kerosin betankt. Davon mussten 80 abgelassen werden.

    Das Flugzeug war mit einem maximalen Startgewicht von 271 Tonnen gestartet. Für die Landung musste es auf ein Gewicht von unter 190 Tonnen kommen.

    Hintere Landeklappen defekt

    Nach der Landung begleitete die Flughafenfeuerwehr den Airbus. Der Flugkapitän sprach von einer normalen Landung, die für eine solche Situation im Simulator geübt werde. Er habe die Begleitung durch die Feuerwehr nicht beantragt.

    Der Kapitän sagte, er sei seit 35 Jahren Pilot und seit 30 Jahren bei der Flugbereitschaft. Ein solcher Fehler sei in der ganzen Zeit noch nicht aufgetreten.

    Den Angaben zufolge war eine der beiden hinteren Landeklappen defekt. Aus diesem Grund konnten diese nicht symmetrisch eingefahren werden. Dies erhöhte den Kerosinverbrauch. Zudem konnten weder die Reiseflughöhe noch die normale Reisegeschwindigkeit erreicht werden.

    Baerbocks Flugplan verschiebt sich deutlich

    Baerbock selbst wollte sich zunächst nicht öffentlich zu dem Vorfall äußern. Es wurde aber davon ausgegangen, dass sie die Reise fortsetzen will.

    Ursprünglich wollte die Außenministerin am Dienstagabend von der australischen Hauptstadt Canberra nach Sydney weiterfliegen. Am Donnerstagmorgen Ortszeit war der Weiterflug nach Neuseeland geplant. Noch am Donnerstagabend sollte es nach Fidschi weitergehen. Baerbock war am Sonntag zu einer einwöchigen Reise in die Pazifikregion aufgebrochen.

    Es ist nicht das erste Mal, dass die Außenministerin auf ihren Reisen aufgehalten wird. Erst Mitte Mai war Baerbock wegen eines Reifenschadens an ihrem Regierungsairbus in Doha im Wüsten-Emirat Katar gestrandet und musste ihre Reise in die Golfregion unfreiwillig verlängern.
    Bereits mehrere Pannen bei Regierungsfliegern

    Doch auch andere Regierungsmitglieder mussten bereits wegen Pannen an einer Maschine der Flugbereitschaft der Bundeswehr unplanmäßige Aufenthalte in Kauf nehmen.

    Beispielsweise musste der Luftwaffen-Airbus „Konrad Adenauer“ im November 2018 mit der damaligen Kanzlerin Angela Merkel (CDU) und dem damaligen Finanzminister Olaf Scholz (SPD) an Bord auf dem Weg zum G20-Gipfel in Buenos Aires umkehren. Unter anderem war das Funksystem lahmgelegt. Beide flogen Linie nach Argentinien.

    Im Oktober 2018 knabberten zudem Nagetiere bei einem Stopp in Indonesien wichtige Kabel der „Adenauer“ an. Scholz kehrte damals per Linienflug von der Tagung des Internationalen Währungsfonds zurück.

    Im Dezember 2016 strandete die damalige Verteidigungsministerin Ursula von der Leyen (CDU) auf dem Weg nach Mali. Wegen eines Computerproblems bei ihrem A340 in der nigerianischen Hauptstadt Abuja musste sie dort übernachten.

    Baerbocks jüngster Flug nach Australien war ursprünglich mit der Schwestermaschine der früheren „Konrad Adenauer“ geplant, einer nahezu baugleichen A340-300. Diese war jedoch ebenfalls kaputt. (dpa)

    #Allemagne #politique #relations_internationales #verts #qviation #Airbus #Abu_Dhabi #Australie #Nouvelle_Zélande #Fidji

    • Defekte am Regierungsflieger Baerbock bricht Pannenreise nach Australien ab
      https://www.spiegel.de/politik/deutschland/annalena-baerbock-bricht-pannen-reise-nach-australien-ab-a-0dfee713-b344-410
      C’est la fin. Même notre super-intelligente ministre des affaires extérieures ne peut rien y changer. Vol de ligne.
      https://www.youtube.com/watch?v=6FMGYycBAMU&pp=ygUNZG9vcnMgdGhlIGVuZA%3D%3D

      15.08.2023, 06.34 Uhr
      - Es geht nicht weiter: Nach zwei Pannen an der Regierungsmaschine hat Annalena Baerbock ihre geplante Reise nach Australien abgesagt. Die in Abu Dhabi gestrandete Außenministerin kehrt nun nach Berlin zurück – per Linienflug.

      Nach den wiederholten Pannen mit ihrem Regierungsflugzeug bricht Außenministerin Annalena Baerbock ihre geplante Reise zu einem einwöchigen Besuch in der Pazifik-Region ab. »Wir haben bis zuletzt geprüft und geplant, aber leider war es nicht mehr möglich, die geplanten Reisestationen der Indo-Pazifik-Reise nach dem Ausfall des Flugzeugs der Flugbereitschaft mit den noch verfügbaren Optionen logistisch darzustellen«, sagte ein Sprecher des Auswärtigen Amts am Dienstagmorgen.

      Da die Landeklappen nicht wie nötig vollständig und synchron eingefahren werden konnten, konnte das Flugzeug die normale Reiseflughöhe und -geschwindigkeit nicht erreichen – der Kerosinverbrauch auf der langen Strecke nach Australien wäre deutlich gestiegen. Da das Flugzeug für den knapp 14-stündigen Flug vollgetankt war, musste das Gewicht für die Landung stark reduziert werden.

      Ein zweiter Versuch scheiterte in der Nacht. Der Flieger war nach dem Start um 1.00 Ortszeit (23.00 Uhr MESZ) in Abu Dhabi zu Anfang zwar gestiegen, nahm aber kein Tempo auf. 15 Minuten nach dem Abheben drehte der Airbus vom Typ A340-300 dann erneut vom Kurs ab und flog zurück in Richtung des Wüstenemirats, wo er schließlich um 2.57 Uhr Ortszeit wieder landete.

      Laut Angaben aus ihrer Delegation hätte Baerbock wegen der defekten Luftwaffen-Maschine eigentlich am Vormittag von der Hauptstadt der Vereinigten Arabischen Emirate, Abu Dhabi, mit ihrem Tross per Linienflug direkt zur australischen Metropole Sydney aufbrechen sollen. Doch das erwies sich offenkundig als nicht praktikabel.
      Schwere Entscheidung

      Noch in der Nacht waren Baerbocks Delegation und die mitreisenden Journalisten gebeten worden, sich zur Abfahrt zum Flughafen um 08.00 Uhr in der Lobby des Hotels zu treffen. Die zu diesem Zeitpunkt völlig überraschende Entscheidung zum Abbruch der Reise fiel erst, als der gesamte Tross bereits abfahrbereit in der Lobby stand.

      Aus der Delegation war von einer am Ende schweren Entscheidung die Rede. »Das ist alles sehr misslich«, hieß es. In den kommenden Monaten werde es darauf ankommen, den entstandenen Schaden wieder gutzumachen. So müssten voraussichtlich hochrangige Beamte nach Australien, Neuseeland und Fidschi zu Gesprächen und wichtigen Terminen reisen. Die abgebrochene Reise müsse nachgearbeitet werden. Der Indo-Pazifik bleibe Schwerpunkt für die Bundesregierung.

      Baerbock war am Sonntag zu einer einwöchigen Reise nach Australien, Neuseeland und Fidschi aufgebrochen. Auch bei der Golfreise der Außenministerin im Mai hatte es technische Probleme mit der Regierungsmaschine gegeben . Damals musste Baerbock ihren Aufenthalt im Emirat Katar um einen Tag verlängern, weil der Luftwaffen-Airbus wegen eines platten Reifens nicht wie geplant den Rückflug antreten konnte.

  • Paderborn : les évêques négligents face aux abus cloués au pilori Maurice Page - cath.ch

    Dans la crypte de la cathédrale de Paderborn, en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, est posé un panneau avec le texte suivant : « Les archevêques inhumés ici ont commis pendant leur mandat, du point de vue actuel, de graves erreurs dans leur gestion des abus sexuels. Trop souvent, ils ont fait passer la protection et la réputation de l’institution et des coupables avant la souffrance des personnes touchées ». Le texte a été formulé par le chapitre métropolitain et adopté par la représentation des victimes a expliqué l’archevêché, au site katholisch.de .

    Le porte-parole des associations de victimes, Reinhold Harnisch, a déclaré que les responsables de l’archevêché avaient « rapidement » approuvé cette proposition. Selon lui, il y a toujours des membres du clergé à Paderborn qui occultent la thématique des abus et ne veulent pas en parler. C’est aussi pour cette raison que les représentants des victimes avaient demandé un panneau explicatif.


    La crypte de la cathédrale de Paderborn dans laquelle sont ensevelis les évêques | DR

    Le signe d’un dialogue
    L’archevêché prévoit en outre d’apposer un code QR qui mènera à un site Internet encore en cours d’élaboration. « Ce site Internet présentera non seulement les manquements des deux anciens archevêques de Paderborn, mais aussi des informations sur leur vie et leur œuvre », a déclaré une porte-parole de l’évêché. En combinaison avec le panneau d’information, cette solution est le « signe d’un bon dialogue » et une « forme appropriée de confrontation avec les fautes commises ». 
    Depuis 2020, deux historiennes ont mené une enquête sur les abus commis de 1941 à 2002, sous les épiscopats de Mgr Lorenz Jaeger et Mgr Johannes Joachim Degenhardt. Un premier résultat intermédiaire atteste que les anciens archevêques ont commis de graves erreurs dans leur gestion des auteurs d’abus, en protégeant les accusés et en manquant de sollicitude envers les victimes.

    Faut-il punir les morts ?
    La décision de l’archidiocèse de désigner ainsi nommément des coupables à tous les visiteurs de la crypte n’a pas manqué de faire bondir d’indignation certaines personnes. « Pilate avait rédigé un écriteau qu’il fit placer sur la croix ; il était écrit : ‘Jésus le Nazaréen, roi des Juifs’. (Jn,19,20) Cette association m’est inévitablement venue à l’esprit lorsque j’ai lu avec horreur la décision de poser cette prétendue plaque d’abus », écrit ainsi Sœur Anna Mirijam Kaschner, secrétaire générale de la Conférence des évêques des pays nordiques.

    « Comme les évêques sont soustraits à la justice séculière par leur mort, il faut bien les « punir » ultérieurement d’une manière ou d’une autre »
    Sœur Anna Mirijam Kaschner

    Pour la religieuse originaire de Paderborn, une démarche de clarification est peut-être utile, « mais une clarification n’implique-t-elle pas que les personnes accusées puissent s’expliquer, prendre position et demander pardon ? Tout cela n’est malheureusement pas possible pour les deux cardinaux. Et comme ils se sont soustraits à la justice séculière par leur mort, il faut bien les ‘punir’ ultérieurement d’une manière ou d’une autre – même si c’est par une ‘plaque d’abus’. »

    Une question de foi
    « On peut toutefois se demander pourquoi, en bonne logique, on ne trouve pas de telles plaques de culpabilité sur chaque tombe d’un père de famille pédophile, de chaque violeur, de chaque enseignant qui battait ses élèves il y a 50 ans et sur chaque tombe d’une mère qui a avorté un ou plusieurs enfants ? » poursuit Sœur Anna Mirijam. Les cimetières deviendrait des forêts de panneaux d’accusation.

    Pour la religieuse, il y a fondamentalement une question de foi chrétienne : « Je crois en un Dieu juste, qui ne jugera pas seulement les vivants, mais aussi les morts. Ainsi, le panneau des abus dans la crypte de la cathédrale de Paderborn, sur la tombe des deux cardinaux, n’est finalement rien d’autre qu’un signe d’une profonde incrédulité selon laquelle Dieu n’est précisément pas juste et ne demandera pas de comptes aux deux cardinaux. » Sœur Anna Mirijam appelle dès lors l’archidiocèse, le chapitre cathédral et chaque visiteur à reprendre en mains cette question.

    Prisonnière d’une Église coupable
    Le porte-parole du conseil des victimes auprès de la Conférence des évêques allemands, Johannes Norpoth, a réagi avec « une horreur sans nom » au commentaire de Sœur Anna Mirijam Kaschner. Dans une lettre ouverte, il lui reproche « non seulement l’ignorance de la recherche en la matière, mais aussi le manque d’approche sensible aux traumatismes des personnes touchées. Dans son texte, elle exprime une attitude « qui a conduit notre Église exactement là où elle se trouve actuellement : dans une crise existentielle ».

    « Sœur Anna-Mirijam est prisonnière du système de pouvoir de cette Église constituée de manière absolutiste ».
    Johannes Norpoth

    En tant que victime, Johannes Norpoth se dit consterné par les comparaisons et les relativisations qui se trouvent dans l’argumentation. Selon lui, le lien entre avortement et abus sexuels sur des enfants est faux et ne tient pas compte de la complexité de ces questions.

    Il rappelle en outre que les reproches formulés à l’encontre des évêques décédés de Paderborn ne sont pas de vagues suppositions ou des accusations unilatérales de victimes, mais des constatations issues de l’enquête diocésaine.

    « Abstenez-vous de tenir des propos aussi dénués d’empathie et de sens »
    Johannes Norpoth reproche à la religieuse d’être prisonnière « du système de pouvoir de cette Église constituée de manière absolutiste ». Son horreur est d’autant plus grande quand il sait que la secrétaire générale des évêques nordiques participera au synode mondial cet automne avec un droit de vote, contrairement aux victimes de violences sexuelles.

    Le représentant des victimes met en garde Sœur Anna Mirijam contre la poursuite du « système du mensonge » au sein de « l’organisation coupable qu’est l’Eglise » et contre le mépris qu’elle témoigne ainsi aux milliers de victimes de violences sexuelles. « Si vous ne pouvez pas reconnaître et accepter tout cela, accordez-moi au moins une requête : à l’avenir, abstenez-vous de tenir des propos aussi dénués d’empathie et de sens », conclut-il.

    L’archevêché ne veut pas de polémique
    Contacté par katholisch.de , l’archevêché de Paderborn n’a pas souhaité s’exprimer sur la polémique. « En règle générale, l’archevêché ne répond pas aux lettres ouvertes, aux lettres de lecteurs ou aux commentaires. Chacun et chacune peut et doit exprimer son opinion. Il y a des points de vue différents », a expliqué la porte-parole.

    A l’occasion de la célébration des festivités de saint Liboire (évêque du Mans au IVe siècle) patron de la cathédrale de Paderborn, l’administrateur diocésain Mgr Michael Bredeck a reconnu, le 23 juillet 2023, que la mise en place d’un panneau d’information dans la crypte épiscopale était controversée. « Mais nous sommes convaincus qu’elle est un signe important de dialogue, et ce délibérément dans la crypte, lieu où l’histoire, le présent et l’avenir de notre archevêché se rejoignent ». (cath.ch/katholisch.de/mp)

    #Abus_sexuels #archevêque #Cathédrale #Paderborn #Allemagne #pouvoir #église_catholique #religion #QR #crimes_sexuels

    Source : https://www.cath.ch/newsf/paderborn-les-eveques-negligents-face-aux-abus-cloues-au-pilori

    • 44 millions d’euros de bénéfice pour le diocèse allemand de Paderborn

      L’archidiocèse allemand de Paderborn a clôturé ses comptes 2015 avec un bénéfice de 44,2 millions d’euros. Ce montant représente une augmentation d’environ 3 millions d’euros (9%) par rapport à l’année précédente, a indiqué le diocèse le 25 octobre 2016.

      Les rentrées de l’impôt ecclésiastique se sont montées à 396 millions d’euros en augmentation de 20 millions d’euros. Les revenus totaux de l’archidiocèse ont atteint 514 millions d’euros. Quant à la fortune, elle se monte à 4,16 milliards d’euros . L’archidiocèse de Paderborn est ainsi le deuxième plus riche d’Allemagne après Munich (6,26 milliards) et devant Cologne (3,52 milliards).
      . . . . .
      L’archidiocèse de Paderborn en Rhénanie du Nord-Westphalie compte 1,55 million de catholiques sur une population globale de 4,8 mios d’habitants pour un territoire de 14’745 km2. Il regroupe 703 paroisses dans lesquelles sont actifs 1’711 agents pastoraux dont 683 prêtres. Il compte 19 écoles et 498 jardins d’enfants. (cath.ch-apic/kna/mp)

      #richesse #argent #fric #impôt_ecclésiastique #argent

      Source : https://www.cath.ch/newsf/44-millions-deuros-de-benefice-diocese-allemand-de-paderborn

  • L’omerta sur les abus sexuel dans l’Eglise commence à se briser en Amérique latine Carole Pirker/asch - RTS

    De récentes manifestations suite à des révélations pourraient marquer un tournant dans la crise des abus sexuels de l’Eglise catholique en Bolivie. La chappe de plomb commence aussi à se soulever au Brésil sur ces actes longtemps passés sous silence.

    En Amérique latine, l’indignation publique face aux abus sexuels a été très longtemps mise en sourdine, en partie parce que l’Eglise catholique reste l’une des institutions les plus puissantes du continent.


    Cela pourrait néanmoins changer. En Bolivie, un pays à 75% catholique, des centaines de personnes ont manifesté ces dernières semaines contre l’Eglise romaine pour dénoncer les abus commis par des prêtres ces dernières décennies, selon l’agence Religion News Service.

    Dissimulation active par l’Eglise
    L’affaire du prêtre espagnol Alfonso Pedraja, révélée par le quotidien El Pais, a mis le feu aux poudres. Dans son journal de bord, que les journalistes se sont procuré, il raconte avoir abusé au moins 85 jeunes garçons de l’école catholique de Cochabamba, au centre de la Bolivie, dans laquelle il a travaillé 17 ans.

    Son récit met aussi en avant la dissimulation active de ces pratiques par les chefs de l’Eglise, et ce durant des décennies. Tout cela a fait sauter la chape de plomb et ouvert les vannes de l’indignation et de la colère des Boliviens.

    Les survivants de ces abus ont aussi réagi en déposant plainte et le gouvernement a créé une commission pour enquêter et punir ces cas d’abus.

    Le Brésil aussi concerné
    La Bolivie n’est pas le seul pays concerné. Le Brésil, qui compte quelque 120 millions de catholiques, l’est aussi depuis la publication, fin mai, d’un livre sur la pédophilie dans l’Église. Il a révélé que 108 prêtres et dirigeants catholiques ont fait face à des poursuites judiciaires au Brésil depuis l’an 2000. Des chiffres largement en-deçà de la réalité, selon les deux journalistes brésiliens auteurs de l’enquête.

    Leur travail vise à corriger le manque d’attention porté à cette crise des abus qui dure depuis des décennies.

    Selon Religion News Service, les récents événements au Brésil et en Bolivie sont le signe d’une nouvelle prise en compte de ces réalités. En mai dernier, un frère dominicain a par exemple été arrêté à Sao Paulo pour avoir produit et stocké des photos pornographiques d’adolescents. Selon la police locale, l’ordre dominicain a collaboré avec elle et le religieux a été démis de ses fonctions sacerdotales.

    #Brésil #Bolivie #Amérique_latine #viols #culture_du_viol #enfants #abus #prêtres #église_catholique #violences_sexuelles #éducation_religieuse #domination #éducation #paroisses

  • Crise de foi (les abus sexuels dans l’Eglise) 2 témoignages Les pieds sur terre Reportage : Timothée de Rauglaudre , Réalisation : Somaya Dabbech , Mixage : Ludovic Auger

    Marie n’est jamais retournée dans une église depuis qu’elle a appris l’agression de sa sœur par un prêtre. Marion, elle, a longtemps essayé de concilier religion et engagement à gauche, jusqu’à découvrir les abus sexuels dans l’Eglise… Un récit signé Timothée de Rauglaudre

    https://media.radiofrance-podcast.net/podcast09/10078-14.06.2023-ITEMA_23410554-2023C6612S0165-21.mp3

    Marie , 33 ans, est issue d’une famille de quatre enfants. Ses parents sont catholiques pratiquants et très investis au sein de la vie de leur église. « Moi, j’étais très fière de ma famille. On pratiquait énormément, on allait à la messe tous les dimanches, on se confessait régulièrement et on était très proches des prêtres. » Marie
    « Parfois, j’avais l’impression que les prêtres étaient des gens de ma famille. Je jouais avec eux tout le temps. »

    Marie prend alors conscience de la crise des abus sexuels dans les églises en 2016. Pour sa famille, c’est le début d’un long cheminement vers de graves révélations… "Mon frère, ma sœur et moi, on voyait tous les trois des psys. On a été interpellés parce qu’ils nous ont dit qu’on avait des symptômes d’abus sexuels tous les trois. On est tombés des nues. On se demandait comment c’était possible dans une famille aussi parfaite que la nôtre…" parce qu’on se disait dans notre famille si parfaite qu’il ne peut pas y avoir eu de tels actes chez nous."

    Petit à petit la vérité refait surface et suite à des séances d’hypnose, le voile se lève. C’est le choc. Pour Marie tout s’effondre. Elle ne peut plus entrer dans une église. « Je commence petit à petit à aller beaucoup moins à la messe. Je navigue un peu entre les différentes paroisses parce que de toute façon, je ne supporte plus aucun prêtre. »

    Marion est élevée dans la foi et la pratique. Père diacre et mère responsable de l’aumônerie, elle reçoit une éducation religieuse dès le plus jeune âge. "J’ai été vraiment éduquée dans cette idée que Dieu est amour, que Dieu veut notre bien."

    Très vite elle se questionne et s’émancipe de cette éducation. Dans le cadre de ses études et de ses rencontres, elle s’interroge sur la religion tout en gardant la foi. "Quand je suis parti de chez mes parents pour aller faire mes études, j’ai arrêté d’aller à la messe. Ça m’a fait du bien de ne pas être obligée d’y aller tous les dimanches. Il y avait une dimension d’émancipation."

    Pourtant au fil du temps, de plus en plus d’aspects érode sa foi et elle finit par se libérer totalement de ce qui ressemblait à un carcan. Elle fait son « coming-out de sortie de la foi » ! « En fait, je crois même plus qu’il y a un Dieu. Ça m’a quitté. »

    « J’ai vraiment cette image où j’ai l’impression de voir la structure de pouvoir en face de moi, de voir une domination s’exercer et c’est insoutenable. Finalement de découvrir tout ça, m’a fait progressivement déconstruire mes croyances. Je me suis demandée en quoi je croyais réellement. »

    « Quand je dis que je ne suis plus catholique, on parle à la négative. On a perdu quelque chose et je trouve ça assez agaçant. J’aimerais trouver un mot pour le dire autrement parce que moi, je n’ai pas du tout l’impression d’avoir perdu quelque chose. En fait, j’ai l’impression que mon chemin continue. Moi, je n’ai jamais été aussi épanouie dans ma vie. J’ai l’impression de m’être libérée d’énormément d’injonctions, de normes que je trouvais extrêmement pesantes. »

    Merci à Marie et à Marion, ainsi qu’à Églantine du café associatif Le Simone, à Lyon.

    #viols #culture_du_viol #femmes #enfants #abus #prêtres #église_catholique #violences_sexuelles #France #éducation_religieuse #domination #éducation #paroisses #Radio #podcast

    Source : https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-pieds-sur-terre/crise-de-foi-7196373

  • Communiqué de presse du Conseil « Justice et affaires intérieures » (#JAI) de l’Union européenne :

    Migration policy : Council reaches agreement on key asylum and migration laws

    The Council today took a decisive step towards a modernisation of the EU’s rulebook for asylum and migration. It agreed on a negotiating position on the asylum procedure regulation and on the asylum and migration management regulation. This position will form the basis of negotiations by the Council presidency with the European Parliament.

    “No member state can deal with the challenges of migration alone. Frontline countries need our solidarity. And all member states must be able to rely on the responsible adherence to the agreed rule. I am very glad that on this basis we agreed on our negotiating position.”
    Maria Malmer Stenergard, Swedish minister for migration
    Streamlining of asylum procedure

    The asylum procedure regulation (APR) establishes a common procedure across the EU that member states need to follow when people seek international protection. It streamlines the procedural arrangements (e.g. the duration of the procedure) and sets standards for the rights of the asylum seeker (e.g. being provided with the service of an interpreter or having the right to legal assistance and representation).

    The regulation also aims to prevent abuse of the system by setting out clear obligations for applicants to cooperate with the authorities throughout the procedure.
    Border procedures

    The APR also introduces mandatory border procedures, with the purpose to quickly assess at the EU’s external borders whether applications are unfounded or inadmissible. Persons subject to the asylum border procedure are not authorised to enter the member state’s territory.

    The border procedure would apply when an asylum seeker makes an application at an external border crossing point, following apprehension in connection with an illegal border crossing and following disembarkation after a search and rescue operation. The procedure is mandatory for member states if the applicant is a danger to national security or public order, he/she has misled the authorities with false information or by withholding information and if the applicant has a nationality with a recognition rate below 20%.

    The total duration of the asylum and return border procedure should be not more than 6 months.
    Adequate capacity

    In order to carry out border procedures, member states need to establish an adequate capacity, in terms of reception and human resources, required to examine at any given moment an identified number of applications and to enforce return decisions.

    At EU level this adequate capacity is 30 000. The adequate capacity of each member state will be established on the basis of a formula which takes account of the number of irregular border crossings and refusals of entry over a three-year period.
    Modification of Dublin rules

    The asylum and migration management regulation (AMMR) should replace, once agreed, the current Dublin regulation. Dublin sets out rules determining which member state is responsible for the examination of an asylum application. The AMMR will streamline these rules and shorten time limits. For example, the current complex take back procedure aimed at transferring an applicant back to the member state responsible for his or her application will be replaced by a simple take back notification
    New solidarity mechanism

    To balance the current system whereby a few member states are responsible for the vast majority of asylum applications, a new solidarity mechanism is being proposed that is simple, predictable and workable. The new rules combine mandatory solidarity with flexibility for member states as regards the choice of the individual contributions. These contributions include relocation, financial contributions or alternative solidarity measures such as deployment of personnel or measures focusing on capacity building. Member states have full discretion as to the type of solidarity they contribute. No member state will ever be obliged to carry out relocations.

    There will be a minimum annual number for relocations from member states where most persons enter the EU to member states less exposed to such arrivals. This number is set at 30 000, while the minimum annual number for financial contributions will be fixed at €20 000 per relocation. These figures can be increased where necessary and situations where no need for solidarity is foreseen in a given year will also be taken into account.

    In order to compensate for a possibly insufficient number of pledged relocations, responsibility offsets will be available as a second-level solidarity measure, in favour of the member states benefitting from solidarity. This will mean that the contributing member state will take responsibility for the examination of an asylum claim by persons who would under normal circumstances be subject to a transfer to the member state responsible (benefitting member state). This scheme will become mandatory if relocation pledges fall short of 60% of total needs identified by the Council for the given year or do not reach the number set in the regulation (30 000).
    Preventing abuse and secondary movements

    The AMMR also contains measures aimed at preventing abuse by the asylum seeker and avoiding secondary movements (when a migrant moves from the country in which they first arrived to seek protection or permanent resettlement elsewhere). The regulation for instance sets obligations for asylum seekers to apply in the member states of first entry or legal stay. It discourages secondary movements by limiting the possibilities for the cessation or shift of responsibility between member states and thus reduces the possibilities for the applicant to chose the member state where they submit their claim.

    While the new regulation should preserve the main rules on determination of responsibility, the agreed measures include modified time limits for its duration:

    - the member state of first entry will be responsible for the asylum application for a duration of two years
    - when a country wants to transfer a person to the member state which is actually responsible for the migrant and this person absconds (e.g. when the migrant goes into hiding to evade a transfer) responsibility will shift to the transferring member state after three years
    - if a member state rejects an applicant in the border procedure, its responsibility for that person will end after 15 months (in case of a renewed application)

    https://nsl.consilium.europa.eu/104100/Newsletter/axgy5g4bs3zixsx3bkhgg2epeiecucjvrcybx7b6shr3lt7za5b4x3vrbmpevnc

    #conseil_de_l'Europe #asile #migrations #réfugiés #Dublin #règlement_Dublin #accord #8_juin_2023 #UE #Union_européenne #EU #asylum_procedure_regulation (#APR) #procédure_d'asile #frontières #procédure_accélérée #inadmissibilité #procédure_de_frontière #frontières_extérieures #capacité_adéquate #asylum_and_migration_management_regulation (#AMMR) #mécanisme_de_solidarité #solidarité #relocalisation #contribution_financière #compensation #responsibility_offsets #mouvements_secondaires #abus

    –—

    ajouté à la métaliste sur le pacte :
    https://seenthis.net/messages/1019088

    • Analyse de #Fulvio_Vassallo_Paleologo:

      Paesi terzi “sicuri”, sicurezza delle persone migranti e propaganda di Stato

      1.Le conclusioni del Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea riuniti a Lussembugo lo scorso 8 giugno sono state propagandate come una vittoria della linea tenuta dal governo Meloni fino alle ultime ore di una convulsa trattativa, che si è conclusa con una spaccatura che avrà certamente ripercussioni sulla prossima fase di codecisione sulle politiche migratorie e sulle procedure di asilo, nella quale analoghe divisioni si potrebbero riprodurre all’interno del Parlamento europeo.

      La materia sulla quale i ministri del’interno dei diversi paesi europei hanno alla fine trovato una soluzione di compromesso, su cui il ministro Piantedosi ha espresso soddisfazione, riguarda buona parte della vigente legislazione europea in materia di imigrazione ed asilo, sia per quanto riguarda la cd. dimensione esterna, con riferimento ai paesi terzi di origine e transito, che per quanto concerne i cd. meccanismi di solidarietà, in materia di rimpatri forzati e al fine di contrastare i cd. movimenti secondari, con una sostanziale rivisitazione del vigente Regolamento Dublino III del 2013. A tale riguardo si prevede espressamente che “Gli Stati membri hanno piena discrezionalità quanto al tipo di solidarietà cui contribuiscono. Nessuno Stato membro sarà mai obbligato a effettuare ricollocazioni”. Una sconfitta che il governo italiano non può nascondere dietro i propositi di espellere o respingere i richiedenti asilo denegati nei paesi di transito.

      I ministri dell’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea hanno così trovato a maggioranza una intesa che però appare come una scatola vuota, se si pensa alla mole delle normative (dal Regolamento frontiere Schengen alla Direttiva 2008/115/ CE sui rimpatri) che dovrebbero essere modificate per approvare definitivamente quanto si è deciso a Lussemburgo, ed all’esiguo tempo che manca in vista delle prosime elezioni europee, dopo tre anni di stallo seguiti alla prima versione del Patto sull’immigrazione e l’asilo adottata dalla Commissione nel 2020. Inoltre la spaccatura tra i paesi di Visegrad Ungheria e Polonia, ed i conservatori del gruppo della Meloni, non lasciano presagire risultati definitivi nel breve periodo.

      2. La proposta di regolamento sulla procedura di asilo (Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on asylum and migration management and amending Council Directive (EC) 2003/109 and the proposed Regulation (EU) XXX/XXX [Asylum and Migration Fund] tenta di stabilire una procedura comune in tutta l’UE che gli Stati membri devono seguire quando le persone fanno richiesta di protezione internazionale. Si snelliscono le disposizioni procedurali (ad esempio la durata della procedura) e si stabiliscono norme per i diritti del richiedente asilo (ad esempio, la fornitura del servizio di un interprete o il diritto all’assistenza e alla rappresentanza legali). La procedura di frontiera si applicherebbe quando un richiedente asilo presenta domanda a un valico di frontiera esterna, a seguito di arresto in relazione a un attraversamento illegale della frontiera e in seguito allo sbarco dopo un’operazione di ricerca e soccorso. Ma anche quando proviene da un paese terzo ritenuto sicuro. La procedura è obbligatoria per gli Stati membri se il richiedente rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ha ingannato le autorità con informazioni false o nascondendo informazioni e se il richiedente ha una nazionalità di un paese con un tasso di riconoscimento delle richieste di asilo inferiore al 20%.

      Il punto sul quale in Italia il governo Meloni ed il ministro dell’interno Piantedosi hanno insistito di più, a livello di comunicazione, ma anche come base per una intensa attività diplomatica che conducono da mesi senza risultati effettivi, riguardava la possibilità di rinviare nei paesi di transito i richiedenti asilo denegati dopo la procedura in frontiera, già prevista in modo più rigoroso dalla legge 50 del 2023 (ex Decreto Cutro). Una legge approvata senza il parere delle competenti Comissioni Affari costituzionali, che sta già facendo vitime, con espulsioni comminate dai prefetti “in automatico” a persone già inserite in Italia, che chiedono il rinnovo del permesso di soggiorno per protezione speciale, ma che ad oggi appare in contrasto non solo con importanti principi fondamentali del nostro ordinamento (come gli articoli 10, 13,24,32,113 della Costituzione), ma anche con molti dei principi di garanzia ribaditi con grande nettezza dalle proposte legislative adottate a Lussemburgo dal Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea.

      Durante l’iter di conversione del decreto legge in Parlamento, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR- UNHCR) aveva inviato una “Nota tecnica” al governo, nel tentativo di avviare un confronto su diversi punti “critici” che non rispettavano norme internazionali o Direttive dell’Unione Europea. Come ha dichiarato la rappresentante dell’UNHCR per l’Italia, “Avevamo rappresentato queste criticità, confidando che nel procedimento legislativo alcuni correttivi potessero essere apportati”.

      Nella sua ultima nota tecnica, l’UNHCR evidenzia innanzitutto come la nuova legge 50/2023 “ estende la preesistente procedura accelerata di frontiera ai richiedenti provenienti da Paesi di origine designati come sicuri e dispone il trattenimento per quei richiedenti, tra coloro che siano stati avviati a tale procedura, i quali non abbiano consegnato il “passaporto o altro documento equipollente” o non prestino “idonea garanzia finanziaria”. Il trattenimento avverrà nei punti di crisi (hotspot) esistenti presso i maggiori luoghi di sbarco, nelle strutture analoghe ai punti di crisi che verranno individuate o nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) che si trovino in prossimità della frontiera. I minori e tutte le altre persone con esigenze particolari, come da disposizioni vigenti, sono esonerati da ogni forma di procedura accelerata”.

      L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
      In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso.

      3. La nozione di Paese terzo sicuro è presente nella legislazione eurounitaria con la direttiva 2005/85/Ce del Consiglio del 1° dicembre 2005. L’art. 29 prevedeva che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, potesse adottare un elenco comune minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi d’origine sicuri. Tale disposizione fu annullata dalla Corte di giustizia perché introduceva una riserva di competenza in favore del Consiglio, con semplice obbligo di consultazione del Parlamento europeo, che non poteva essere prevista da un atto derivato.

      Con la cd. direttiva procedure (dir. 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013) la traccia è stata ripresa e ampliata.
      Gli articoli da 36 a 39 disciplinano infatti in termini molto dettagliati i contorni della nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.
      L’art. 36 detta le condizioni soggettive alle quali è subordinato il riconoscimento della natura di Paese sicuro di un determinato richiedente: questi deve essere cittadino del Paese di provenienza definito sicuro o apolide che in quel Paese soggiornasse abitualmente; inoltre, non deve avere invocato gravi motivi a lui riferibili, tesi a escludere che il Paese di origine sia sicuro.
      L’art. 37 fa rinvio all’allegato I della stessa direttiva, dove sono dettate le condizioni alle quali è possibile designare un Paese come sicuro. Il testo dell’Allegato I è il seguente: “Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
      Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta
      protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante:
      a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate;
      b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e sociali

      L’art. 38 della Direttiva atualmente in vigore, fino a quando non verrà espressamente abrogata, fornisce il: “Concetto di paese terzo sicuro”.

      1. Glic Stati membri possono applicare il oncetto di paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri:
      a) non sussistono minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione,
      nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
      b) non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;
      c) è rispettato il principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra;
      d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né
      trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e
      e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato,
      ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra.
      2. L’applicazione del concetto di paese terzo sicuro è subordinata alle norme stabilite dal diritto nazionale, comprese:
      a) norme che richiedono un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo le quali sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese;
      b) norme sul metodo mediante il quale le autorità̀ competenti accertano che il concetto di paese terzo sicuro può̀ essere applicato a un determinato paese o a un determinato richiedente. Tale metodo comprende l’esame caso per caso della sicurezza del paese per un determinato richiedente e/o la designazione nazionale dei paesi che possono essere considerati generalmente sicuri;
      c) norme conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente e che consentano almeno al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente è altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo ai sensi della lettera a)”

      4. Secondo la nuova proposta legislativa sulle procedure di asilo, approvata dal Consiglio dei ministri del’interno dell’Unione Europea a Lussemburgo, gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di applicare il concetto di terzo sicuro paese […] come motivo di inammissibilità ove esista la possibilità per il richiedente[…] di chiedere e, se ne ricorrono i presupposti, di ricevere effettivo protezione in un paese terzo, dove la sua vita e la sua libertà non sono minacciate conto di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica, dove lui o lei non è soggetto a persecuzione né affronta un rischio reale di danno grave come definito nel regolamento (UE) n. XXX/XXX [Nuovo Regolamento sulle Qualifiche ancora da approvare] ed è tutelato contro il respingimento e contro l’allontanamento, o contro le violazioni del diritto alla protezione dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani o degradanti prevista dal diritto internazionale.
      Si aggiungono poi nuove condizioni per considerare inammissibile una domanda di asilo.
      Si prevede in particolare che Il concetto di un paese terzo sicuro può essere applicato solo se esiste […] un collegamento tra il richiedente e […] il paese terzo in base al quale sarebbe […] ragionevole[…] che il richiedente […] si rechi in quel paese […], compreso il fatto che […] ha transitato […] in quel paese terzo. La connessione in particolare tra il richiedente e il paese terzo sicuro potrebbe essere considerata stabilita dove i membri della famiglia del richiedente siano presenti in quel paese o dove il richiedente si è stabilito o ha soggiornato in quel paese. Nella fase convulsa di ricerca del compromesso finale, nella notte dei ministri del’interno a Lussemburgo, è saltata la previsione sostenuta dall’Italia che anche un transito temporaneo avrebbe potuto comportare l’acertamento di questa “commessione” e dunque comportare l’inammissibilità della domanda di protezione già nella procedura in frontiera e la possibilità di respingimento o espulsione con immediato accompagnamento forzato. La posizione dei cittadini di paesi terzi “in transito” rimane comunque molto a rischio e sarà sicuramente oggetto di trattative in sede di rinegoziazione degli accordi bilaterali già esistenti.

      Al Considerando 37b) si prevede comunque che, “Nel valutare se i criteri per una protezione effettiva come stabilito nel presente Regolamento sono soddisfatte da un paese terzo, l’accesso ai mezzi di sussistenza sufficienti a mantenere un tenore di vita adeguato dovrebbe essere inteso come comprensivo dell’accesso a vitto, vestiario, alloggio o alloggio e il diritto a svolgere un’attività lavorativa remunerata a condizioni non meno favorevoli di quelle previste per gli stranieri del Paese terzo generalmente nelle stesse circostanze”. Anche nella proposta di nuovo Regolamento oltre alla situazione dei transitanti nei paesi terzi ritenuti sicuri si deve aggiungere anche la considerazione della maggiore ampiezza operativa che si sta attribuento, anche a livello interno, alla categoria di paese di origine sicuro.

      Al Considerando (46) si aggiunge che […] Dovrebbe essere possibile designare un paese terzo come paese di origine sicuro con eccezioni per parti specifiche del suo territorio o categorie chiaramente identificabili di persone. Inoltre, il fatto che un paese terzo sia incluso in una lista di paesi di origine sicuri non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese paese, anche per coloro che non appartengono a una categoria di persone per le quali tale è fatta eccezione, e quindi non dispensa dalla necessità di condurre un’adeguata esame individuale della domanda di protezione internazionale. Per sua stessa natura, la valutazione sottesa alla designazione non può che tener conto del carattere generale, civile, circostanze legali e politiche in quel paese e se autori di persecuzioni, torture o trattamenti o punizioni inumani o degradanti sono soggetti a sanzione quando ritenuti responsabili in quel paese. Per questo motivo, dove il richiedente può dimostrare elementi che giustificano il motivo per cui il concetto di paese di origine sicuro non è applicabile a lui, la designazione del paese come sicuro non può più essere considerata rilevante per lui o lei.

      5. Il governo italiano si vanta di avere costretto l’Unione europea a spostare l’attenzione dai problemi che interssano maggiormente agli Stati continentali, e dunque dai cd. “movimenti secondari” alla questione dei “movimenti primari”, con particolare riferimento alle frontiere esterne del Mediteraneo. La prospettiva che si persegue, magari in collaborazione con l’UNHCR, che però ha posizioni di garanzia molto precise sul punto, è di favorire la “deportazione” in questi paesi, ritenuti “sicuri”, di immigrati irregolari di diversa nazionalità, dopo il diniego sulla domanda di protezione, alla fine della “procedura in frontiera”. Sfugge evidentemente alla premier Meloni, o si preferisce nascondere, la situazione dei diritti umani nei paesi nordafricani di transito, come l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, che pure ministri e sottosegretari italiani hanno intensamente frequentato in questi ultimi mesi. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Adesso ci riproveranno a Tunisi, con la visita in programma per domenica 11 giugno in cui la Meloni sarà accompagnata adirittura da Ursula Von der Layen a nome della Commissione europea e dal premier olandese Rutte.

      Nella propaganda governativa si omette di ricordare che nessun accordo di riammissione stipulato con paesi terzi, anche quello tuttora vigente con la Tunisia, prevede deportazioni di cittadini provenienti da altri Stati e giunti irregolarmente nel nostro territorio, o che hanno ricevuto un diniego sulla richiesta di protezione internazionale. A parte la considerazione che l’ingresso per ragioni di soccorso non può essere equiparato all’ingresso clandestino. E questo lo chiarisce bene la Corte di Cassazione con la sentenza sul caso Rackete n.6626/2020. Si vedrà se la prossima missione della Meloni a Tunisi, in compagnia della Presidente della Commissione europea convincerà l’autocrate Saied che sta espellendo sistematicamente dal suo paese tutti i migranti subsahariani, ad accettare di riprendersi cittadini non tunisini sbarcati in Italia. Ed è pure abbastanza improbabile che aumenti la quota di cittadini tunisini che, in base agli accordi vigenti, vengono espulsi o respinti (respingimento differito) verso Tunisi, sulla base degli accordi bilaterali già vigenti con l’Italia. Due voli alla settimana, o poco più per circa sessanta persone. Difficile immaginare una intensificazione dei rimpatri con accompagnamento di polizia. In questi casi, come osserva il Garante nazionale per le persone private della libertà personale in un recente rapporto, “L’aspetto di maggiore criticità è che “le regole dell’attività di rimpatrio forzato da parte della Polizia di Stato sono in larga parte definite da semplici circolari e disposizioni interne e non da fonti normative di rango primario. Manca cioè un quadro legislativo che specifichi le regole operative e ciò ha inevitabili ricadute”. Per esempio, “la disciplina compiuta del possibile ricorso all’impiego della forza, al di là di principi generali, che definisca i possibili strumenti contenitivi, le modalità e la durata del loro impiego. Così come mancano disposizioni operative sui controlli di sicurezza, la cui attuazione talvolta si avvicina a una perquisizione personale, pratica eccezionale anche in contesti ben più problematici”. Ma anche in Tunisia la discrezionalità di polizia sconfina sempre più spesso nell’arbitrio.

      Come denuncia l’ASGI, “Alla luce dell’attuale trasformazione autoritaria dello Stato tunisino e dell’estrema violenza e persecuzione della popolazione nera, delle persone in movimento, degli oppositori politici e degli attori della società civile, noi, le organizzazioni firmatarie, rilasciamo questa dichiarazione per ricordare che la Tunisia non è né un paese di origine sicuro né un paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, POS) per le persone soccorse in mare”.

      Come riferisce il sito Meltingpot, a margine di un diniego dopo la richiesta di protezione internazionale alla competente Commissione territoriale, il Tribunale di Cagliari ha accolto la richiesta di sospensiva di un cittadino tunisino. La situazione è peculiare e occorrerà attendere il merito per approfondirla ma il decreto è significativo perché, il Tribunale “smentisce” il fatto che la Tunisia sia un Paese Sicuro“. Si tratta naturalmente di decisioni che valgono per casi individuali, e sarà fondamentale provare la situazione di ciascuna persona che in frontiera, ma anche nei CPR, possa risultare destinataria di un provedimento di allontanbamento forzato verso la Tunisia.

      6. La seconda proposta legislativa su nuovi criteri di gestione in materia di immigrazione ed asilo di portata più ampia approvata a Lussemburgo lo scorso 8 giugno (Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on asylum and migration management and amending Council Directive (EC) 2003/109 and the proposed Regulation (EU) XXX/XXX [Asylum and Migration Fund] non prevede particolari impegni dell’Unione Europea per sostenere le politiche di rimpatrio forzato di citt che adini di paesi terzi verso gli Stati da cui sono transitati prima di entrare in territorio europeo. Materia che richiederebbe una modifica radicale della Direttiva rimpatri 2008/115/CE.

      Il nuovo regolamento sulla gestione della migrazione e dell’asilo dovrebbe sostituire, una volta concordato, l’attuale regolamento Dublino che stabilisce norme che determinano quale Stato membro è competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Il nuovo Regolamento dovrebbe semplificare queste regole e ridurre i termini. Ad esempio, l’attuale complessa procedura di ripresa in carico finalizzata al trasferimento di un richiedente nello Stato membro responsabile della sua domanda sarà sostituita da una semplice notifica di ripresa in carico. Rimane comunque confermata la responsabilità primaria dei paesi di primo ingresso, quello che Salvini voleva evitare ricattando i paesi membri con la chiusura dei porti. Lo Stato membro di primo ingresso sarà competente per la domanda di asilo per una durata di due anni. Quando un paese vuole trasferire una persona nello stato membro che è effettivamente responsabile del migrante e questa persona fugge (ad esempio quando il migrante si nasconde per eludere un trasferimento) la responsabilità passerà allo stato membro di trasferimento solo dopo tre anni.

      La nuova proposta legislativa su immigrazione ed asilo, faticosamente elaborata a Lussemburgo, si limita, con l’art. 7 (Cooperazione con i paesi terzi per facilitare il rimpatrio e la riammissione), a prevedere che dove la Commissione e il Consiglio ritengano che un terzo paese non collabora sufficientemente alla riammissione di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, la Commissione e il Consiglio, nell’ambito delle rispettive competenze, prendono in considerazione le azioni appropriate tenendo conto delle competenze dell’Unione e delle relazioni generali degli Stati membri con il paese terzo.
      In particolare, in questi casi, 1. […] La Commissione può, sulla base dell’analisi effettuata a norma dell’articolo 25 bis, paragrafi 2 o 4, del regolamento (UE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio e di qualsiasi altra informazione disponibile dagli Stati membri, nonché dall’Unione istituzioni, organi e organismi, […] presentare al Consiglio una relazione comprendente, se del caso, l’identificazione di eventuali misure che potrebbero essere adottate per migliorare la cooperazione di tale paese terzo in materia di riammissione, tenendo conto dell’Unione e delle relazioni generali degli Stati membri con il paese terzo.

      7. Al di là delle perplessità sui tempi di attuazione delle proposte varate dal Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione europea e della loro dubbia compatibilità con il vigente diritto eurounitario e con il diritto internazionale umanitario e dei rifugiati, si deve rimarcare come il governo italiano, con un decreto interministeriale approvato lo scorso marzo, abbia ulteriormente ampliato la lista di paesi terzi sicuri che preclude di fatto sia l’esame approfondito delle domande di protezione nelle procedure in frontiera, che il rinnovo della maggior parte dei permessi di soggiorno finora concessi per protezione speciale. Con questo ultimo aggiornamento di marzo 2023 vengono ritenuti paesi terzi sicuri: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia.

      La categoria di “paese terzo sicuro” esisteva da anni nella legislazione italiana e nella normativa europea, ma è stato con il Decreto sicurezza Salvini n.113 del 2018 che se ne è estesa la portata e assieme ad altre modifiche legislative, ha ridotto di molto la portata effettiva del diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 della Costituzione italiana.

      L’art. 7-bis del dl 4 ottobre 2018, n. 113 (cd. decreto sicurezza), introdotto in sede di conversione dall’art. 1 della l. 1°dicembre 2018, n. 132, ha inserito nel d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25 l’art. 2-bis, intitolato «Paesi di origine sicuri». E’ dunque chiaro che nell’ordinamenro italiano non esiste al momento alcuna categoria di paese di transito “sicuro” e dunque questo criterio, ancora allo stato di proposta legislativa da parte del Conisglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea NON potrà avere nell’immediato alcuna portata normativa, almeno fino a quando, al termine della procedura di codecisione, un nuovo Regolamento che lo preveda non venga pubblicato nella Gazzetta Ufficiale europea.

      L’art. 2-bis del d. lgs n. 25 del 2008, modificato dal decreto sicurezza del 2018, era articolato in cinque commi:

      «Art. 2-bis (Paesi di origine sicuri). – 1. Con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, è adottato l’elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base dei criteri di cui al comma 2. L’elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente ed è notificato alla Commissione europea.

      2. Uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone.

      3. Ai fini della valutazione di cui al comma 2 si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881, e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, in particolare dei diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della predetta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.

      4. La valutazione volta ad accertare che uno Stato non appartenente all’Unione europea è un Paese di origine sicuro si basa sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale anche delle notizie elaborate dal centro di documentazione di cui all’articolo 5, comma 1, nonché su altre fonti di informazione, comprese in particolare quelle fornite da altri Stati membri dell’Unione europea, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.

      5. Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova».

      8. Adesso si sta tentando di estendere la nozione di paese terzo sicuro non solo ai cittadini di quel paese, ma anche a coloro che provengono da altri paesi e sono transitati nel paese terzo “sicuro”. Anche per queste persone, con la sola eccezione di MSNA (minori non accompagnati) e di altri soggetti vulnerabili, si prevedono procedure accelerate in frontiera e un numero più ampio di casi di trattenimento amministrativo, per facilitare respingimenti ed espulsioni al termine delle procedure in frontiera, in modo forse da dissuadere le partenze verso l’Italia e l’Europa, aspirazione di vari governi, che comunque, nel corso degli anni, è stata sistematicamente smentita dai fatti. Non si vede peraltro con quali mezzi, risorse umane e luoghi di detenzione amministrativa, si potrà attuare il trattenimento dei richiedenti asilo nelle procedure in frontiera, subito dopo gli sbarchi. Le norme al riguardo, tra l’altro, non saranno operative per 90 giorni dall’entrata in vigore della legge n.50/2023, in assenza del decreto interministeriale che dovrebbe fissare l’entità delle risorse economiche che il richiedente asilo dovrebbe dimostrare per evitare il trattenimento nella prima fase di esame della sua richiesta di protezione. Per tutta l’estate, dunque, la situazione nei punti di sbarco, ma anche nei centri di prima accoglienza, resterà caotica, e sarà affidata esclusivamente ai provvedimenti delle autorità amministrative, prefetti e questori, senza una chiara cornice legislativa.

      Su questo sarà battaglia legale, e solidarietà verso chi chiede comunque protezione, soprattutto nei territori più vicini alle frontiere esterne, sempre che sia possibile esercitare i diritti di difesa, e che le misure di accompagnamento forzato non vengano eseguite prima del riesame da parte della giurisdizione, dato l’abbattimento dei casi di effetto sospensivo del ricorso, ed i precedenti purtroppo non sono molti. La sentenza della Cassazione (Sez. 1, 18 novembre 2019, n. 29914) ha cassato una precedente decisione di merito che aveva rigettato la domanda di protezione internazionale, facendo leva sul principio, già più volte enunciato, secondo cui “nei giudizi di protezione internazionale, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicché il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente”. Rimane quindi alto il rischio che la categoria dei paesi terzi sicuri, o dei paesi di transito sicuri, considerate anche le nuove procedure in frontiera introdotte dalla legge n.50 del 2023, riducano fortemente la portata effettiva del diritto di asilo costituzionale.

      Il Diritto di asilo previsto nelle sue diverse forme dall’art. 10 della Costituzione italiana, e ribadito nelle Direttive europee e nei Regolamenti fin qui vigenti, ha natura individuale e costituisce un dirito fondamentale della persona. La ratio fondante di tutta la disciplina in materia di protezione internazionale consiste proprio nella protezione dei singoli da condotte gravemente lesive dei loro diritti umani. Ciò è confermato con grande apertura e
      chiarezza dalla nostra Costituzione, all’art. 10, co. 3 che ha una portata molto più ampia della formulazione dello stesso diritto nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nelle Direttive europee. Al contrario, la nozione di «Paesi di origine sicuri» si fonda su una valutazione di «safety for the majority» che difficilmente si concilia con la dimensione individuale del diritto di asilo, fortemente sminuendo «the role of individual case by case assessment»”previsto dalle Convenzioni internazionali. In Italia la legge vigente prevede soltanto una presunzione relativa di sicurezza rispetto al Paese di origine, ma senza alcun riferimento automatico alla situazione in questo paese o al transito in un altro paese terzo ritenuto sicuro. Il richiedente e la Commissione teritoriale, e poi il giudice in caso di ricorso giurisdizionale, sono tenuti a cooperare per fare emergere i necesari elementi probatori per affermare o escludere un diritto alla protezione. Ma non ci può essere alcun automatismo nel diniego di uno status di protezione nei confronti di chi provenga o sia transitato da un paese terzo sicuro.

      Si deve ricordare a tale proposito la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo del 21 novembre 2019, Ilias and Ahmed c. Ungheria, che ha accertato la violazione dell’art. 3 della CEDU da parte dell’Ungheria, le cui autorità avevano rigettato la domanda di protezione di due cittadini bengalesi espulsi verso la Serbia, sul semplice presupposto che tale Stato era stato incluso in un elenco governativo sui Paesi sicuri, senza compiere una
      valutazione seria e approfondita del caso specifico e senza preoccuparsi degli effetti di
      un respingimento a catena verso altri Stati.

      9. La pressione dei governi europei, e del governo italiano in particolare, sulle procedure in frontiera e sulla possibilità di ricorrere alle categorie di paese terzo di origine o di transito “sicuro” apre scenari inquietanti, soprattutto dopo che con la legge n.50/2023 si sono introdotte norme procedurali che intaccano i diritti di difesa dei richiedenti asilo giunti in frontiera, sia pure a seguito di operazioni di soccorso in mare. Toccherà operare un attento monotoraggio sul riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali, a partire dai diritti all’informazione ed alla comprensione linguistica, e dal diritto di accesso effettivo ad una procedura di asilo, in tutti i luoghi di frontiera soprattutto in quelli che sono definiti “punti di fontiera esterna”. Ocorrerà vigilare sulla attuazione degli accordi con i paesi di transito e origine che possano essere ritenuti “sicuri”, ma solo sulla carta, dalle autorità amministrative. Bisogna impedire che attraverso l’esecuzione immediata di misure di allontanamento forzato, adottate magari con modalità sostanzialmente uniformi e collettive, senza riguardo alla situazione individuale delle singole persone, o delle loro condizioni psico-fisiche, possano ripetersi quelle violazioni dei diritti umani che hanno già portato a pesanti condanne dell’Italia da parte dei Tribunali internazionali, come nei tre fondamentali casi Hirsi, Sharifi e Khlaifia.

      https://www.a-dif.org/2023/06/09/paesi-terzi-sicuri-sicurezza-delle-persone-migranti-e-propaganda-di-stato

    • Editorial : Migration Pact Agreement Point by Point

      What was agreed? What are the consequences? Where are we now?

      ECRE will analyse the detailed texts of the General Approach, when they are available. In the meantime, 48 points can already be made on the agreement reached yesterday among the EU Member States on the Pact on Migration and Asylum to reform EU asylum law.

      - The EU Member States have reached an agreement on key pillars of the EU asylum system, responsibility, solidarity and procedural rules. The agreement has been under discussion throughout the Swedish Presidency.
      - This is not the final word – the Council will negotiate with the Parliament on the basis of this agreement and the Parliament’s respective agreement in order to reach a common position which will become law. However, it is to be expected that Parliament will concede – and these are more or less the positions likely to be adopted.
      - The agreement reduces protection standards in Europe, which is kind of the point. Whether it will meet its other objectives of deterring arrivals, rapid returns or reducing so-called secondary movement remains to be seen.
      – Two countries opposed the agreement: Hungary and Poland, primarily on the basis that they don’t believe that Europe should have an asylum system. Four countries abstained: Bulgaria, Malta, Lithuania and Slovakia, for different reasons in each case.

      The headlines

      - Overall, states have agreed on labyrinth of procedural rules, byzantine in their complexity and based on trying to limit the number of people who are granted international protection in Europe.
      - They fail to address the major the dysfunction of the system, the Dublin rules, which escape largely intact.
      - An underlying objective is to transfer responsibility to countries outside Europe, even though 85% of the world’s refugees are hosted outside Europe, mainly in desperately poor countries. The targets are the countries of the Western Balkans and North Africa, through the use of legal tools such as the “safe third country” concept. Nonetheless, the reforms do nothing to increase the likelihood that these countries agree to host people returned from the EU.
      - Within Europe, the reforms increase the focus at the borders.
      - As such, the reforms go in the opposite direction to the successful response to displacement from Ukraine, which demonstrated the value of light procedures, rapid access to a protection status, allowing people to work as soon as possible so they can contribute, and freedom of movement which allows family unity and a fairer distribution of responsibility across Europe.

      Procedural changes

      – Instead, new elements include expanded use of border procedures, inadmissibility procedures, and accelerated procedures, and the Pact deploys legal concepts to deflect responsibility to other countries, such as the safe third country concept. More people will be stuck at the borders in situations akin to the Greek island model.
      - There will be an expanded use of the border procedure with it becoming mandatory for people from countries where the protection rate is 20% or below.
      - Countries in the centre and north insisted on this change before agreeing to solidarity because their primary concern is ending so-called “secondary movement”. Safeguards such as access to legal assistance or to an appeal are reduced. There will be almost no exemptions for vulnerable people, families or children, and more procedures will be managed in detention.

      No new responsibility rules

      - The rules on responsibility remain the same as now under Dublin, with the principle of first entry still in place.
      - The period of responsibility of the country of arrival for an applicant is extended. It will be two years for people who enter at the external border, but reduced to 15 months after a rejection in the border procedure (to give states an incentive to use the border procedure), and reduced to 12 months for those rescued at sea (to give states an incentive to stop watching people drown).
      – The improvements to the rules on responsibility (compared to Dublin) proposed by the Commission have been rejected, including a wider family definition to allow family unification with siblings.

      A new solidarity mechanism

      - To compensate for the effects of the rules, a solidarity mechanism is introduced to compensate the countries at the borders in situations of “migratory pressure”. A separate mechanism for situations of search and rescue has been rejected.
      – Solidarity is mandatory but flexible, meaning that all countries have to contribute but that they can chose what to offer: relocation and assuming responsibility for people; capacity-building and other support; or a financial contribution.

      The numbers

      – The states have agreed on a minimum of 30,000 people to have their applications processed in a border procedure every year. There will also be a “cap”, a maximum set several times this number which increases over the first three years.
      – Member States’ individual adequate capacity (minimum number or target for border procedures) will be set using a formula based on the overall adequate capacity and the number of a “irregular” entries (i.e. people arriving to seek protection).
      – Member States can cease to use the border procedure when they approach their target with a notification to the Commission.
      – At the same time, the target for relocations is also set at 30,000.
      – There is an incentive to provide relocations (rather than other solidarity) in the form of “offsets” (reductions of solidarity contributions for those offering relocation).
      - The financial equivalent of a relocation is set at EUR 20,000. Money will also be provided from EU funding for reception capacity to manage the border procedure.

      The good news

      - This is the beginning of the end of the reforms.
      - There is a solidarity mechanism, to be codified in EU law.

      The bad news

      – Expanded use of the border procedure equals more people in detention centres at the external border, subject to sub-standard asylum procedures.
      – With the increase in responsibility for countries at the border, and given how controversial centres are for local communities, there is a risk that they chose pushbacks instead. If Italy’s share of the 30,000 annual border procedure cases is 5000, for example, are they likely to go ahead with detention centres or to deny entry?
      – Setting a numerical target for the use of the border procedure – which will almost always take place in detention – creates the risk of arbitrariness in its application.
      - The rules on responsibility remain as per Dublin. The Commission’s improvements have been removed so the incentives to avoid compliance, for instance on reception conditions, remain.
      – There is strong encouragement of the use of “safe third concept” as a basis for denying people access to an in-merits asylum procedure or to protection in Europe.
      - The definition of a safe third country has been eroded as Member States will decide which countries meet the definition. A country needs to meet certain protection criteria and there needs to be a connection between the person and the country, as per international law. However, what constitutes a connection is determined by national law. Examples in the text are family links and previous residence, but a MS could decide that pure transit is a sufficient connection.
      - Solidarity is flexible. If Member States can choose, how many will choose relocation? Relocation of people across the EU would lead to a fairer division of responsibility instead of too much being required of the countries at the external border.
      - The procedural rules appear complex to the point of unworkability.

      Uncertain as yet

      – What has been agreed on offsets – solidarity obligation offsets (reductions in a country’s solidarity obligations to others) in the case of offering relocation places and solidarity benefit offsets (reductions in solidarity entitlements of a country under pressure) in the case of failure to accept Dublin transfers.
      - Definition of migratory pressure and whether and how it incorporates “instrumentalisation” and SAR.

      What will change in practice?

      – More of the people arriving to seek protection in Europe will be subject to a border procedure, rather than having their case heard in a regular asylum procedure.
      – People will still arrive seeking protection in Europe but they will face a harsher system.
      - Responsibilities of the countries at the external borders are increased, which continues to provide an incentive to deny access to territory and to keep standards – on reception or inclusion, for example – low.
      - There could now be greater focus on implementation and management of asylum systems. However, the only concrete references to compliance are in relation to achieving the set number of border procedures and in ensuring Dublin transfers happen.
      – Onward (“secondary”) movement is still likely, and smugglers will continue to adapt, offering more to take people to countries away from the external borders.

      The winners

      – The Commission, which has invested everything on getting the Pact passed. “Trust and cooperation is back in the Council,” according to the Commissioner.
      – France, the Netherlands and the other hardliners, who have largely got what they wanted.
      - The Swedish Presidency, which has brokered a deal and one that suits them – as a less than honest broker. The Minister’s presentation at the press conference underlined secondary movement and enforcement of Dublin.
      – Smugglers, who will be able to charge more for the more complex and longer journeys that people will have to take.

      The losers

      - Refugees, for whom access to a fair asylum procedure will be harder. Risk of detention is higher. Risk of pushbacks is increased. Length and complexity of procedures is increased.
      - Non-EU countries at the borders who will deal with more pushed back people and who will be under pressure to build asylum systems to be safe enough to be “safe” third countries.
      - The Med5+ who have conceded on every major point and gained very little. They will have to manage the border procedures and, while solidarity is mandatory, it is flexible, meaning that relocation is not prioritised. It all begs the question: what have they really been offered in return?
      - Germany, which refused to stand firm and defend the even minor improvements that the government coalition agreement required, and on which it had the support of a small progressive alliance, and potential alliances with the south. For example, on exemptions to the border procedure. Given the desperation to reach a deal more could and should have been demanded.

      https://ecre.org/editorial-migration-pact-agreement-point-by-point

    • Décryptage – Pacte UE migration et asile : une approche répressive et sécuritaire au mépris des droits humains

      Le #8_juin_2023, les Etats membres de l’UE réunis en #Conseil_Justice_et_Affaires_Intérieures sont parvenus à un #accord sur deux des #règlements du #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile. Alors que les négociations entre le Parlement et le Conseil se poursuivent, La Cimade décrypte les principaux enjeux des réformes européennes en cours d’adoption en matière de migration et d’asile et rend publique ses analyses et propositions.

      Le 23 septembre 2020, la Commission européenne dévoilait sa proposition de « pacte euro­péen sur la migration et l’asile » comme une « une nouvelle approche en matière de migration » visant à « instaurer un climat de confiance et un nouvel équilibre entre responsabi­lité et solidarité ».

      Sur la forme, ce pacte se traduit par un éventail de mesures législatives et opérationnelles pour la mise en œuvre de cette « nouvelle » politique migra­toire. À ce jour, la plupart de ces propositions n’ont pas encore été adoptées et font encore l’objet d’intenses négociations entre le Conseil et le Parlement européen.

      Sur le fond, les mesures proposées s’inscrivent dans la continuité des logiques déjà largement éprouvées. Elles sont fondées sur une approche répressive et sécuritaire au service de l’endiguement des migrations et de l’encouragement des expulsions, solutions qui ont prouvé leur inefficacité, et surtout qui coutent des vies humaines.

      La Cimade appelle l’UE et ses Etats membres à engager un véritable changement de paradigme, pour une Europe qui se fonde sur le respect des droits humains et les solidarités internationales, afin d’assurer la protection des personnes et non leur exclusion. La Cimade continuera à se mobiliser avec d’autres pour défendre les droits des personnes en exil tout au long des parcours migratoires.

      A travers ce document de décryptage, La Cimade souhaite contribuer à la compréhension des principaux enjeux des réformes européennes en cours d’adoption en matière de migration et d’asile et rendre publique ses analyses ainsi que ses propositions.

      https://www.lacimade.org/decryptage-pacte-ue-migration-et-asile-une-approche-repressive-et-securita
      #pacte #pacte_migration_et_asile #pacte_migration_asile

    • L’Europe se ferme un peu plus aux réfugiés

      Au moment où le Haut-Commissariat aux réfugiés des Nations unies (UNHCR) annonce, dans son rapport annuel, que le nombre de réfugiés et de déplacés dans le monde n’a jamais été aussi élevé qu’en 2022, le Conseil de l’Union européenne (UE) se félicite qu’après trois ans de négociation, les Etats membres se sont mis enfin mis d’accord sur un projet de réforme du droit d’asile.

      Ce pourrait être une bonne nouvelle. Car le rapport de l’ONU indique que les pays riches, dont font partie la plupart des Etats européens, sont loin de prendre leur part de cet exode. Ils n’accueillent que 24 % de l’ensemble des réfugiés, la grande majorité de ceux-ci se trouvant dans des Etats à revenu faible ou intermédiaire.

      En témoigne la liste des cinq pays qui accueillent le plus de réfugiés : si l’on excepte l’Allemagne, qui occupe la quatrième place, il s’agit de la Turquie (3,6 millions), de l’Iran (3,4 millions), du Pakistan (1,7 million) et de l’Ouganda (1,5 million).

      Et si l’on rapporte le nombre de personnes accueillies à la population, c’est l’île caribéenne d’Aruba (un réfugié pour six habitants) et le Liban (un réfugié pour sept habitants) qui viennent en tête du classement. A titre de comparaison, on compte en France un réfugié pour 110 habitants.
      Un partage plus équitable

      L’Europe aurait-elle décidé de corriger ce déséquilibre, pour répondre à l’appel de Filippo Gandi, le Haut-Commissaire pour les réfugiés, qui réclame « un partage plus équitable des responsabilités, en particulier avec les pays qui accueillent la majorité des personnes déracinées dans le monde » ?

      S’il s’agissait de cela, quelques moyens simples pourraient être mis en œuvre. En premier lieu, on pourrait ouvrir des voies légales permettant aux personnes en besoin de protection de gagner l’Europe sans être confrontées aux refus de visas qui leur sont quasi systématiquement opposés.

      On pourrait ensuite mettre en place une politique d’accueil adaptée, à l’instar de celle que les pays européens ont su mettre en place pour faire face à l’arrivée de plusieurs millions d’Ukrainiens en 2022.

      A la lecture du communiqué du Conseil de l’UE du 8 juin, on comprend que la réforme ne vise ni à faciliter les arrivées, ni à offrir de bonnes conditions d’accueil. Il y est certes question d’un « besoin de solidarité », mais l’objectif n’est pas de soulager ces pays qui accueillent la majorité des déracinés : il s’agit d’aider les Etats membres « en première ligne » à faire face aux « défis posés par la migration ».

      Autrement dit, de faire baisser la pression qui pèse sur les pays qui forment la frontière méditerranéenne de l’UE (principalement l’Italie, la Grèce et Malte) du fait des arrivées d’exilés par la voie maritime.

      Non que leur nombre soit démesuré – il était de l’ordre de 160 000 personnes en 2022 –, mais parce que la loi européenne prévoit que le pays responsable d’une demande d’asile est celui par lequel le demandeur a pénétré en premier dans l’espace européen.

      En vertu de ce règlement dit « Dublin », ce sont donc les pays où débarquent les boat people qui doivent les prendre en charge, et ces derniers sont censés y demeurer, même si leur projet était de se rendre ailleurs en Europe.

      L’accord conclu le 8 juin, qui doit encore être approuvé par le Parlement européen, ne remet pas en cause ce principe profondément inéquitable, qui n’est réaménagé qu’à la marge. Il porte sur deux propositions de règlements.

      La première réforme la procédure d’asile applicable à la frontière, avec notamment une phase de « screening » impliquant l’obligation de placer en détention la plupart des personnes qui demandent l’asile à la suite d’un débarquement, le temps de procéder au tri entre celles dont les demandes seront jugées irrecevables – pour pouvoir procéder à leur éloignement rapide – et celles dont les demandes seront examinées.

      Un dispositif contraire aux recommandations du Haut-Commissariat aux réfugiés qui rappelle, dans ses lignes directrices sur la détention, que « déposer une demande d’asile n’est pas un acte criminel ».

      La seconde met en place un « mécanisme de solidarité », particulièrement complexe, destiné à organiser la « relocalisation » des exilés admis à déposer une demande d’asile dans un autre Etat membre que celui dans lequel ils ont débarqué.
      Un goût de réchauffé

      Ces deux « innovations », dont le Conseil de l’UE prétend qu’elles marquent « une étape décisive sur la voie d’une modernisation du processus en matière d’asile et d’immigration », ont pourtant un goût de réchauffé.

      En 2015, en réaction aux arrivées en grand nombre de boat people sur les côtes grecques et italiennes, essentiellement dues à l’exil massif de Syriens fuyant la guerre civile – épisode qui fut alors qualifié de « crise migratoire majeure » – , le Conseil de l’UE avait mis en place l’« approche hotspot », destinée à assister les pays dont les frontières extérieures sont soumises à une « pression migratoire démesurée ».

      Ce dispositif, incluant déjà une procédure de filtrage pour distinguer les potentiels réfugiés des migrants présumés « irréguliers », visait à organiser l’expulsion de ces derniers dans des délais rapides et à répartir les autres ailleurs en Europe.

      A cette fin, le Conseil avait adopté un programme de « relocalisation », en vue de transférer 160 000 personnes reconnues éligibles à demander l’asile depuis l’Italie et la Grèce vers d’autres Etats membres de l’UE.

      On le voit, les innovations de 2023 présentent de grandes similitudes avec le plan d’action de 2015. Qu’est-il advenu de celui-ci ? Loin de permettre la prise en charge rapide des exilés ayant surmonté la traversée de la Méditerranée, l’approche hotspot a entraîné la création, dans cinq îles grecques de la mer Egée, de gigantesques prisons à ciel ouvert où des milliers de personnes ont été entassées sans possibilité de rejoindre le continent, parfois pendant plusieurs années, dans un déni généralisé des droits humains (surpopulation, insécurité, manque d’hygiène, violences sexuelles, atteintes aux droits de l’enfant et au droit d’asile). Un désastre régulièrement documenté, à partir de 2016, tant par les ONG que par les agences onusiennes et européennes, et qui perdure.

      La principale raison de cet échec tient à l’absence de solidarité des autres Etats de l’UE à l’égard de la Grèce et, dans une moindre mesure, de l’Italie. Car les promesses de « relocalisation » n’ont pas été tenues : sur les 160 000 demandeurs d’asile qui auraient dû être transférés en 2015, 30 000 seulement ont bénéficié de ce programme.

      La France, qui s’était engagée pour 30 000, en a accueilli moins du tiers. Un signe, s’il en était besoin, que les pays européens répugnent à remplir leurs obligations internationales à l’égard des réfugiés, malgré le nombre dérisoire de ceux qui frappent à leur porte, au regard des désordres du monde.

      On se souvient de l’affaire d’Etat qu’a suscitée l’arrivée à Toulon, au mois de novembre 2022, de l’Ocean Viking, ce bateau humanitaire qui a débarqué quelque 230 boat people sauvés du naufrage, immédiatement placés en détention.

      Emboîtant le pas d’une partie de la classe politique qui s’est empressée de crier à l’invasion, le ministre de l’Intérieur avait annoncé que la plupart seraient expulsés – avant que la justice ordonne leur mise en liberté.
      Quelle efficacité ?

      On peine à croire, dans ce contexte, que les promesses de 2023 seront mieux tenues que celles de 2015. Si le nouveau « mécanisme de solidarité » est présenté comme « obligatoire », le communiqué du Conseil de l’UE ajoute qu’il sera « flexible », et qu’« aucun Etat membre ne sera obligé de procéder à des relocalisations » !

      Une façon de prévenir l’opposition frontale de quelques pays, comme la Pologne ou la Hongrie, dont le Premier ministre a déjà fait savoir que le programme de relocalisation imposé par Bruxelles était « inacceptable ». Sur cette base, le système de compensation financière imaginé pour mettre au pas les récalcitrants n’a guère plus de chances de fonctionner.

      De nombreux commentateurs ont salué l’accord conclu le 8 juin comme l’étape inespérée d’un processus qui paraissait enlisé depuis plusieurs années. Ils voient surtout dans ce texte de compromis un espoir de voir la réforme de l’asile adoptée avant le renouvellement, en 2024, du Parlement européen, pour éviter que ces questions ne phagocytent la campagne électorale.

      C’est une analyse à courte vue. Car il y a tout lieu de craindre que cette réforme, qui s’inscrit dans la continuité d’une politique européenne de rejet des exilés, ne fera qu’intensifier le déséquilibre constaté par les Nations unies dans la répartition mondiale des réfugiés. Et poussera toujours davantage ceux-ci vers les routes migratoires qui font de l’Europe la destination la plus dangereuse du monde.

      https://www.alternatives-economiques.fr/claire-rodier/leurope-se-ferme-un-plus-aux-refugies/00107291

      #Claire_Rodier

    • Pacte européen sur la migration et l’asile : repartir sur d’autres bases

      La présidence belge de l’UE qui aura lieu en 2024 ambitionne de faire adopter le nouveau pacte européen sur la migration et l’asile. L’approche qui domine est essentiellement répressive et contraire aux droits fondamentaux. Elle ne répond pas aux enjeux des migrations internationales. A ce stade, le pacte ne semble plus pouvoir apporter une amélioration à la situation des personnes exilées. Il faut donc y mettre fin et redémarrer les discussions sur base d’une approche radicalement différente.
      Le nouveau pacte UE : le phénix de Moria ?

      En septembre 2020, à la suite de l’incendie meurtrier du hotspot grec surpeuplé et insalubre de Moria (centre d’enregistrement et de tri mis en place lors de la crise de l’accueil de 2015), la Commission européenne a présenté son projet de pacte sur la migration et l’asile. Celui-ci est censé répondre au « plus jamais ça » et offrir « un modèle de gestion prévisible et stable des migrations internationales ». Il est décrit par Margarítis Schinás, vice-président de la Commission, chargé des Migrations et de la promotion du mode de vie européen, comme une maison commune dont les fondations sont l’externalisation, les étages sont les contrôles aux frontières, et le grenier est l’accueil.

      Mais le nouvel « air frais » annoncé n’est en réalité qu’un air vicié. Ce pacte présente en effet les mêmes solutions inefficaces, couteuses et violatrices des droits qui dès lors continueront de produire inévitablement les mêmes crises structurelles de l’accueil et l’aggravation des situations humanitaires et meurtrières le long des routes de l’exil. De nombreuses études documentées, depuis plus d’une vingtaine d’années, analysent l’impact d’une politique migratoire basée sur l’externalisation des frontières ainsi qu’une vision restrictive de l’accueil, et montrent ses dérives et son inefficacité

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      Un pacte contre les migrations : détenir, trier, expulser

      Le projet de Pacte repose sur cinq règlements législatifs et quelques recommandations et lignes directrices. Ceux-ci concernent respectivement : les procédures et contrôles aux frontières (APR et Filtrage), le Règlement de Dublin (AMMR), la gestion des crises aux frontières, l’enregistrement, ainsi que le partage des données numériques des personnes exilées (EURODAC)

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      A ce jour, les négociations autour du nouveau pacte européen sur la migration et l’asile sont au stade ultime du trilogue

      . La Présidence belge de l’Union européenne, qui aura lieu au premier semestre 2024, ambitionne d’aboutir à son adoption. Les positions de la Commission (septembre 2020), du Parlement (mars 2023) et du Conseil (juin 2023) sont, malgré des nuances, globalement similaires.

      L’orientation répressive et sélective des personnes exilées tout comme l’externalisation des questions migratoires dominent le contenu du pacte. Il est donc inéluctable, qu’une fois le trilogue terminé et le pacte en voie d’être adopté, la mise en œuvre par les Etats membres de ces cinq règlements occasionnera pour les personnes exilées :

      – une pérennisation des entraves, contrôles et criminalisation de leurs départs avec des risques de refoulements en chaîne, y compris vers des pays aussi dangereux que la Lybie et la Syrie ;
      - une procédure de filtrage ou tri avec une fiction de non entrée, à savoir que les droits et devoirs garantis sur le territoire européen ne leur sont pas applicables, malgré leur présence sur ce territoire ;
      - une mise en détention quasi systématique aux frontières y compris pour les enfants dès douze ans avec la possibilité de prolongation en cas de situation dite de crise ;
      – une procédure express d’analyse des demandes de protection qui est incompatible avec une réelle prise en compte des vulnérabilités notamment chez les mineurs, les femmes et les personnes LGBTQI+ ;
      – des décisions rapides d’expulsions sur base du concept de pays tiers « sûrs » avec un recours non suspensif ;
      – la récolte obligatoire, l’enregistrement et le partage des données personnelles entre agences européennes (Frontex, Europol, EASO etc.) et ce, dès l’âge de 6 ans ;
      - un système d’accueil à la carte est envisagé par le Conseil où les 27 auront le choix entre la relocalisation ou la participation financière à un pot commun européen en vue de financer notamment la dimension externe du pacte. Il s’agit du seul progrès par rapport à la situation actuelle, mais la Hongrie et la Pologne, malgré la position prise à la majorité qualifiée au Conseil de juin 2023, ont déjà annoncé leur refus d’y participer.

      Il est clair qu’avec ce type de mesures, le droit d’asile est en danger, les violences et le nombre de décès sur les routes de l’exil (faute de voies légales accessibles et de refoulements systématiques) vont augmenter et que les crises structurelles de l’accueil ne pourront être résolues.
      Le respect des droits des personnes exilées est résiduel

      La situation actuelle des migrations internationales exige des solutions immédiates et durables vu l’étendue du non-respect des droits fondamentaux des personnes exilées et du droit international.
      Selon l’ONU, près de 300 enfants sont morts depuis le début de l’année 2023

      en essayant de traverser la Méditerranée pour atteindre l’Europe. « Ce chiffre est deux fois plus important que celui des six premiers mois de l’année 2022. Nous estimons qu’au cours des six premiers mois de 2023, 11 600 enfants ont effectué la traversée, soit également le double par rapport à la même période de 2022. Ces décès sont absolument évitables », a souligné la responsable aux migrations et aux déplacés à l’Unicef, Verena Knaus. Les chiffres réels sont probablement plus élevés car de nombreux naufrages ne sont pas enregistrés.

      Le racisme et la répression contre les personnes exilées augmentent en Europe et dans les pays du Maghreb, entrainant à leur tour des refoulements systématiques impunis parfois même sous la surveillance de Frontex. Le récent naufrage de Pylos
      au large des côtes grecques et les refoulements effectués depuis la Tunisie dans le désert aux frontières algériennes et libyennes en sont les dramatiques illustrations.
      Quant au volet de l’accueil, il fait l’objet de profonds désaccords. Premièrement, les pays du « MED5 » (Italie, Espagne, Grèce, Malte et Chypre) se disent toujours seuls à assumer la responsabilité de l’accueil sur le sol européen. D’autres pays comme la Belgique se disent également victimes des mouvements secondaires. Face à eux, les pays du groupe de Visegrad (Pologne, Hongrie, Tchéquie, Slovaquie) bloquent tout mécanisme de répartition solidaire. Au niveau européen, la Commission promeut, comme elle l’a fait en juillet 2023 avec la Tunisie, l’adoption de protocoles d’entente avec des Etats peu respectueux des droits humains comme le Maroc et l’Egypte. Cela en vue de limiter la mobilité vers et en Europe. Ces partenariats ont un objectif essentiellement sécuritaire (matériel et formations des garde-côtes aux services du contrôle des frontières et des retours) et n’abordent pas les questions de protection et intégration des personnes migrantes dans les pays du Sud et du Nord

      .
      La solution : suspendre les négociations en repartant sur d’autres bases

      Ni la vision générale du Pacte, ni le contenu de ses cinq règlements législatifs ne répondent aux nombreux défis et opportunités que représentent les migrations internationales. Comme l’a démontré Alice Chatté dans son analyse Regard juridique sur les cinq volets législatifs du pacte européen sur la migration et l’asile

      , « les cinq instruments législatifs proposés dans le pacte, qu’ils soient nouveaux ou réformés, ne sont en réalité que la transcription en instruments légaux des pratiques actuelles des Etats membres, qui ont hélas montré leurs faiblesses et dysfonctionnements. Cela se traduit par des procédures, dorénavant légales, qui autorisent le tri et le recours à la détention systématique à l’ensemble des frontières européennes ainsi que l’examen accéléré des demandes de protection internationale sur base du concept de pays « sûrs » favorisant de facto les pratiques de refoulement et le non-accueil au bénéfice du retour forcé ». Elle ajoute que « le projet du pacte, ainsi que les cinq règlements qui le traduisent juridiquement, ne respectent pas les droits fondamentaux des personnes exilées. Il est en l’état incompatible avec le respect du droit international et européen, ainsi qu’avec le Pacte mondial sur les migrations des Nations Unies ».

      A ce stade final du trilogue, les positions des trois Institutions (Commission, Parlement, et Conseil) ne divergent pas fondamentalement entre elles. Les quelques améliorations défendues par le Parlement (dont un monitoring des droits fondamentaux aux frontières et une réforme des critères du Règlement Dublin), sont insuffisantes pour constituer une base de négociation et risquent de ne pas survivre aux négociations ardues du trilogue

      . Puisque le Pacte ne peut plus suffisamment être réformé pour apporter une amélioration immédiate et durable à la situation des personnes exilées, il faut donc se résoudre à mettre fin aux négociations en cours pour repartir sur de nouvelles bases, respectueuses des droits humains et des principes des Pactes mondiaux sur les migrations et sur les réfugiés.
      La Présidence belge de l’UE doit promouvoir la justice migratoire

      Face aux dérives constatées dans de nombreux Etats membres, y compris la Belgique, condamnée à de nombreuses reprises par la justice pour son manque de respect des droits fondamentaux des personnes en demande d’asile, une approche européenne s’impose. Celle-ci doit être basée sur une approche multilatérale, cohérente et positive des migrations internationales, guidée par le respect des droits fondamentaux des personnes exilées et par la solidarité. Le Pacte mondial des migrations des Nations unies adopté en 2018 et la gestion de l’accueil en 2022 d’une partie de la population ukrainienne sont des sources d’inspiration pour refonder les politiques migratoires de l’Union européenne. Plutôt que de chercher à faire aboutir un pacte qui institutionnalise des pratiques de violation des droits humains, la future Présidence belge de l’UE devrait promouvoir une telle vision, afin de promouvoir le respect du droit d’asile et, plus largement, la #justice_migratoire.

      https://www.cncd.be/Pacte-europeen-sur-la-migration-et

  • Zahra, morte pour quelques #fraises espagnoles

    Le 1er mai, un bus s’est renversé dans la région de #Huelva, au sud de l’Espagne. À son bord, des ouvrières agricoles marocaines qui se rendaient au travail, dont l’une a perdu la vie. Mediapart est allé à la rencontre des rescapées, qui dénoncent des conditions de travail infernales.
    Aïcha* s’installe péniblement à la table, en jetant un œil derrière le rideau. « Si le patron apprend qu’on a rencontré une journaliste, on sera expulsées et interdites de travailler en Espagne. On a peur qu’un mouchard nous ait suivies, on est sous surveillance permanente. »

    Aïcha sait le risque qu’elle encourt en témoignant, même à visage couvert, sous un prénom d’emprunt. Mais elle y tient, pour honorer Zahra. Foulard assorti à sa djellaba, elle est venue clandestinement au point de rendez-vous avec Farida* et Hanane*, elles aussi décidées à parler de Zahra. « Elle était comme notre sœur. » Deux images les hantent.

    Sur la première, la plus ancienne, Zahra sourit, visage net, rond, plein de vie, lèvres maquillées de rouge, regard foncé au khôl. Sur la seconde, elle gît devant la tôle pliée dans la campagne andalouse, corps flou, cœur à l’arrêt. « Elle avait maigri à force de travailler, on ne la reconnaissait plus. Allah y rahmo [« Que Dieu lui accorde sa miséricorde » – ndlr] », souffle Aïcha en essuyant ses larmes avec son voile.

    Zahra est morte juste avant le lever du soleil, en allant au travail, le 1er mai 2023, le jour de la Fête internationale des travailleuses et des travailleurs. Elle mangeait un yaourt en apprenant des mots d’espagnol, à côté de Malika* qui écoutait le Coran sur son smartphone, quand, à 6 h 25, le bus qui les transportait sans ceinture de sécurité s’est renversé.

    Elles étaient une trentaine d’ouvrières marocaines, en route pour la « finca », la ferme où elles cueillent sans relâche, à la main, les fraises du géant espagnol Surexport, l’un des premiers producteurs et exportateurs européens, détenu par le fonds d’investissement Alantra. Le chauffeur roulait vite, au-dessus de la limite autorisée, dans un épais brouillard. Il a été blessé légèrement.

    Zahra est morte sur le coup, dans son survêtement de saisonnière, avec son sac banane autour de la taille, au kilomètre 16 de l’autoroute A484, à une cinquantaine de kilomètres de Huelva, en Andalousie, à l’extrême sud de l’Espagne, près de la frontière portugaise. Au cœur d’une des parcelles les plus rentables du « potager de l’Europe » : celle qui produit 90 % de la récolte européenne de fraises, « l’or rouge » que l’on retrouve en hiver sur nos étals, même quand ce n’est pas la saison, au prix d’un désastre environnemental et social.

    Cet « or rouge », qui génère plusieurs centaines de millions d’euros par an, et emploie, d’après l’organisation patronale Freshuelva, 100 000 personnes, représente près de 8 % du PIB de l’Andalousie, l’une des régions les plus pauvres d’Espagne et d’Europe. Et il repose sur une variable d’ajustement : une main-d’œuvre étrangère saisonnière ultraflexible, prise dans un système où les abus et les violations de droits humains sont multiples.

    Corvéable à merci, cette main-d’œuvre « bon marché » n’a cessé de se féminiser au cours des deux dernières décennies, les travailleuses remplaçant les travailleurs sous les serres qui s’étendent à perte de vue, au milieu des bougainvilliers et des pins parasols. Un océan de plastique blanc arrosé de produits toxiques : des pesticides, des fongicides, des insecticides...

    À l’aube des années 2000, elles étaient polonaises, puis roumaines et bulgares. Elles sont aujourd’hui majoritairement marocaines, depuis le premier accord entre l’Espagne, l’ancien colonisateur, et le Maroc, l’ancien colonisé, lorsqu’en 2006 la ville espagnole de Cartaya a signé avec l’Anapec, l’agence pour l’emploi marocaine, une convention bilatérale de « gestion intégrale de l’immigration saisonnière » dans la province de Huelva.

    Une migration circulaire, dans les clous de la politique migratoire sécuritaire de Bruxelles, basée sur une obligation contractuelle, celle de retourner au pays, et sur le genre : l’import à moindre frais et temporairement (de trois à neuf mois) de femmes pour exporter des fraises.

    Le recrutement se fait directement au Maroc, par les organisations patronales espagnoles, avec l’aide des autorités marocaines, des gouverneurs locaux, dans des zones principalement rurales. Ce n’est pas sans rappeler Félix Mora, cet ancien militaire de l’armée française, surnommé « le négrier des Houillères », qui sillonnait dans les années 1960 et 1970 les villages du sud marocain en quête d’hommes réduits à leurs muscles pour trimer dans les mines de la France, l’autre ancienne puissance coloniale.

    Même état d’esprit soixante ans plus tard. L’Espagne recherche en Afrique du Nord une force de travail qui déploie des « mains délicates », des « doigts de fée », comme l’a montré dans ses travaux la géographe Chadia Arab, qui a visibilisé ces « Dames de fraises », clés de rentabilité d’une industrie agro-alimentaire climaticide, abreuvée de subventions européennes.

    Elle recherche des « doigts de fée » très précis. Ceux de femmes entre 25 et 45 ans, pauvres, précaires, analphabètes, mères d’au moins un enfant de moins de 18 ans, idéalement célibataires, divorcées, veuves. Des femmes parmi les plus vulnérables, en position de faiblesse face à d’éventuels abus et violences.

    Zahra avait le profil type. Elle est morte à 40 ans. Loin de ses cinq enfants, âgés de 6 à 21 ans, qu’elle appelait chaque jour. Loin de la maison de fortune, à Essaouira, sur la côte atlantique du Maroc, où après des mois d’absence, elle allait bientôt rentrer, la récolte et le « contratación en origen », le « contrat en origine », touchant à leur fin.

    C’est ce qui la maintenait debout lorsque ses mains saignaient, que le mal de dos la pliait de douleur, lorsque les cris des chefs la pressaient d’être encore plus productive, lorsque le malaise menaçait sous l’effet de la chaleur suffocante des serres.

    L’autocar jusqu’à Tarifa. Puis le ferry jusqu’à Tanger. Puis l’autocar jusqu’au bercail : Zahra allait revenir au pays la valise pleine de cadeaux et avec plusieurs centaines d’euros sur le compte bancaire, de quoi sauver le foyer d’une misère aggravée par l’inflation, nourrir les proches, le premier cercle et au-delà.

    Pour rempiler la saison suivante, être rappelée, ne pas être placée sur « la liste noire », la hantise de toutes, elle a été docile. Elle ne s’est jamais plainte des conditions de travail, des entorses au contrat, à la convention collective.

    Elle l’avait voulu, ce boulot, forte de son expérience dans les oliveraies et les plantations d’arganiers de sa région, même si le vertige et la peur de l’inconnu l’avaient saisie la toute première fois. Il avait fallu convaincre les hommes de la famille de la laisser voyager de l’autre côté de la Méditerranée, elle, une femme seule, mère de cinq enfants, ne sachant ni lire ni écrire, ne parlant pas un mot d’espagnol. Une nécessité économique mais aussi, sans en avoir conscience au départ, une émancipation, par le travail et le salaire, du joug patriarcal, de son mari, dont elle se disait séparée.

    Et un certain statut social : « On nous regarde différemment quand on revient. Moi, je ne suis plus la divorcée au ban de la société, associée à la prostituée. Je suis capable de ramener de l’argent comme les hommes, même beaucoup plus qu’eux », assure fièrement Aïcha.

    Elle est « répétitrice » depuis cinq ans, c’est-à-dire rappelée à chaque campagne agricole. Elle gagne de 1 000 à 3 000 euros selon la durée du contrat, une somme inespérée pour survivre, améliorer le quotidien, acheter une machine à laver, payer une opération médicale, économiser pour un jour, peut-être, accéder à l’impossible : la propriété.

    Cette saison ne sera pas la plus rémunératrice. « Il y a moins de fraises à ramasser », à cause de la sécheresse historique qui frappe l’Espagne, tout particulièrement cette région qui paie les conséquences de décennies d’extraction d’eau pour alimenter la culture intensive de la fraise et d’essor anarchique d’exploitations illégales ou irriguées au moyen de puits illégaux.

    Au point de plonger dans un état critique la réserve naturelle de Doñana, cernée par les serres, l’une des zones humides les plus importantes d’Europe, classée à l’Unesco. Le sujet, explosif, est devenu une polémique européenne et l’un des enjeux des élections locales qui se tiennent dimanche 28 mai en Espagne.

    « S’il n’y a plus d’eau, il n’y aura plus de fraises et on n’aura plus de travail », s’alarme Aïcha. Elle ne se relève pas de la perte de son amie Zahra, seule passagère du bus à avoir rencontré la mort, ce 1er mai si symbolique, jour férié et chômé en Espagne, où l’on a manifesté en appelant à « augmenter les salaires, baisser les prix, partager les bénéfices ». Les autres ouvrières ont été blessées à des degrés divers.

    Trois semaines plus tard, elles accusent le coup, isolées du monde, dans la promiscuité de leur logement à San Juan del Puerto, une ancienne auberge où elles sont hébergées, moyennant une retenue sur leur salaire, par l’entreprise Surexport, qui n’a pas répondu à nos sollicitations. Privées d’intimité, elles se partagent les chambres à plusieurs. La majorité des femmes accidentées est de retour, à l’exception des cas les plus graves, toujours hospitalisés.

    « Ils nous ont donné des béquilles et du paracétamol. Et maintenant, ils nous demandent de revenir travailler alors qu’on en est incapables, qu’on est encore sous le choc. Le médecin mandaté par l’entreprise a dit qu’on allait très bien, alors que certaines ont des fractures et qu’on met des couches à l’une d’entre nous qui n’arrive pas à se lever ! On a eu droit à un seul entretien avec une psychologue », raconte Aïcha en montrant la vidéo d’une camarade qui passe la serpillère appuyée sur une béquille.

    « On a perdu le sommeil », renchérit Hanane. Chaque nuit, elles revivent l’accident. Farida fait défiler « le chaos » sur son téléphone, les couvertures de survie, les cris, les douas (invocations à Allah), le sang. Elle somnolait quand le bus s’est couché. Quand elle a rouvert les yeux, elle était écrasée par plusieurs passagères. Elle s’est vue mourir, étouffée.

    Le trio montre ses blessures, des contusions, des entorses, un bassin luxé, un traumatisme cervical. Elles n’ont rien dit à la famille au Maroc, pour ne pas affoler leurs proches. Elles ne viennent pas du même coin. « Tu rencontres ici tout le pays. » Des filles des montagnes, des campagnes, des villes, de la capitale… Elles ont la trentaine, plusieurs enfants en bas âge restés avec la grand-mère ou les tantes, sont divorcées. Analphabètes, elles ne sont jamais allées à l’école.

    « Ici ou au bled, se désole Hanane en haussant les épaules, on est exploitées, mais il vaut mieux être esclave en Espagne. Au Maroc, je gagnais à l’usine moins de cinq euros par jour, ici, 40 euros par jour. » Elles affirment travailler, certaines journées, au-delà du cadre fixé par la convention collective de Huelva, qui prévoit environ 40 euros brut par jour pour 6 h 30 de travail, avec une journée de repos hebdomadaire. Sans être payées plus.

    Elles affirment aussi avoir droit à moins de trente minutes de pause quotidienne, « mal vivre, mal se nourrir, mal se soigner », du fait d’un système qui les contrôle dans tous les aspects de leur vie et les maintient « comme des prisonnières » à l’écart des centres urbains, distants de plusieurs kilomètres.

    Il faut traverser la région de Huelva en voiture pour mesurer l’ampleur de leur isolement. Le long des routes, des dizaines d’ouvrières marocaines, casquette sur leur voile coloré, seules ou à plusieurs, marchent des heures durant, en sandales ou en bottes de caoutchouc, faute de moyen de transport, pour atteindre une ville, un commerce. Certaines osent l’autostop. D’autres se retournent pour cacher leur visage à chaque passage de véhicule.

    Les hommes sont nombreux aussi. À pied mais surtout à vélo, plus rarement à trottinette. Originaires du Maghreb ou d’Afrique subsaharienne, une grande partie d’entre eux est soumise à l’emploi illégal, qui cohabite avec « le contrat en origine », au rythme des récoltes de fruits et légumes. Dans les champs de fraises, ils sont affectés à l’épandage des pesticides, au démontage des serres, à l’arrachage des plastiques…

    « La liste des abus est interminable, surtout pendant les pics de production, quand il faut récolter, conditionner, encore plus vite », soupire Fatima Ezzohairy Eddriouch, présidente d’Amia, l’association des femmes migrantes en action. Elle vient de débarquer dans le local sombre, escortée de Jaira del Rosario Castillo, l’avocate qui représente la famille « très affectée » de Zahra au Maroc, une spécialiste du droit du travail.

    Aïcha, Hanane et Farida lui tombent dans les bras, heureuses de rencontrer en vrai « Fatima de TikTok », une épaule pour de nombreuses saisonnières qui se refilent son numéro de portable, tant elle ne vit que pour l’amélioration de leur sort, malgré « un climat d’omerta, de terreur ».

    Travail forcé ou non payé, y compris les jours fériés, les dimanches, heures supplémentaires non rémunérées, passeports confisqués par certains patrons, absence de repos, contrôles du rendement avec renvoi vers le Maroc si celui-ci est jugé insuffisant, absence de mesures de sécurité et de protection sur le lieu de travail, tromperie à l’embauche, harcèlement moral, violences sexuelles, racisme, xénophobie, logement indigne, accès aux soins de santé entravé… Fatima Ezzohairy Eddriouch est confrontée au « pire de l’humanité tous les jours ». Avant de nous rejoindre, elle aidait Rahma, qui s’est brisé le cou en cueillant les fraises : « Son employeur veut la licencier et refuse de prendre en charge les soins médicaux. »

    Elle-même a été saisonnière pendant plus de dix ans. Elle en avait 19 quand elle a quitté Moulay Bousselham, au Maroc, et rejoint Huelva. Elle doit sa « survie » à Manuel, un journalier andalou rencontré dans les champs devenu son époux. « Vingt-trois ans d’amour, ça aide à tenir », sourit-elle. Seule ombre au tableau : alors que sa famille a accueilli avec joie leur union, celle de son mari continue de la rejeter. « Le racisme est malheureusement très fort en Espagne. »

    Le 1er mai, Fatima Ezzohairy Eddriouch a été l’une des premières informées de la tragédie. Des travailleuses blessées l’ont sollicitée. Mais elle s’est heurtée aux murs de l’administration, de l’employeur : « Un accident mortel de bus qui transporte des ouvrières agricoles étrangères, le jour de la Fête des travailleurs, c’est une bombe à l’échelle locale et nationale. Heureusement pour le gouvernement et le patronat agricole, elles sont des immigrées légales, pas sans papiers. »

    Devant le logement de San Juan del Puerto, elle a découvert le portail cadenassé, une entrave à la liberté de circuler des ouvrières. Elle l’a dénoncée sur les réseaux sociaux. Et dans la presse, auprès du journaliste indépendant Perico Echevarria notamment, poil à gratter avec sa revue Mar de Onuba, seul média local à déranger un système agroalimentaire et migratoire qui broie des milliers de vies. Surexport a fini par faire sauter le verrou.

    « Elles ont été enfermées, interdites de parler à des associations, à la presse. Ce n’est pas tolérable », s’indigne encore la militante. Son regard s’arrête sur une des photos de Zahra. Celle où elle a basculé de vie à trépas. Elle n’était pas prête. Elle s’effondre. Cette fois, ce sont Aïcha, Hanane et Farida qui l’enlacent en claudiquant. Le corps de Zahra a été rapatrié, enterré dans un cimetière d’Essaouira.

    La presse, d’une rive à l’autre, spécule sur le montant des pensions et des indemnités que pourraient percevoir les proches de la défunte, selon le droit espagnol. « C’est indispensable de rendre justice à cette famille meurtrie à jamais, à défaut de pouvoir rendre la vie à Zahra », dit l’avocate. Aïcha, Hanane et Farida, elles, veulent qu’on retienne son visage souriant à travers l’Europe, en France, au Pays-Bas, en Belgique..., et qu’on l’associe à chaque barquette de fraises marquée « origine : Huelva (Espagne) ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/270523/zahra-morte-pour-quelques-fraises-espagnoles
    #décès #Espagne #agriculture #exploitation #esclavage_moderne #migrations #travail #Maroc #agricultrices #femmes #conditions_de_travail #ouvrières_agricoles #Surexport #industrie_agro-alimentaire #Alantra #saisonniers #saisonnières #Andalousie #or_rouge #abus #féminisation #féminisation_du_travail #convention_bilatérale #Anapec #migration_circulaire #genre #violence #contrat_en_origine #contratación_en_origen #émancipation #sécheresse #eau #isolement #travail_forcé

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    ajouté au fil de discussion sur la cueillette de fraises en Espagne :
    https://seenthis.net/messages/693859

  • Découvrez la synthèse des contributions reçues à l’occasion de la consultation publique dédiée au projet de procédure de médiation sur les noms de domaine en .fr et ultramarins. https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/actualites/consultation-publique-sur-la-mediation-la-synthese-des-contributions-est-en-li

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    Discover the summary of contributions received as part of the public consultation on the proposed mediation procedure for .fr and French overseas #ccTLDs https://www.afnic.fr/en/observatory-and-resources/news/public-consultation-on-mediation-the-summary-of-contributions-is-online

    #Abus #PointFR #PARL #Syreli #Internet #Web #France #Numérique #Afnic #Abuse #ADR #Disputes #Domains #DotFR

  • La grande corsa alla terra di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita
    https://irpimedia.irpi.eu/grainkeepers-controllo-filiera-alimentare-globale-emirati-arabi-uniti

    Le aziende controllate dai fondi sovrani delle potenze del Golfo stanno acquistando aziende lungo tutta la filiera dell’agroalimentare, anche in Europa. Con la scusa di garantirsi la propria “sicurezza alimentare” Clicca per leggere l’articolo La grande corsa alla terra di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita pubblicato su IrpiMedia.

  • ⚠️⏱️ Vous avez jusqu’à ce soir minuit pour répondre à notre consultation publique pour la mise en place d’un nouveau service de médiation comme mode amiable de résolution des différends entre un ayant droit et un titulaire de nom de domaine.

    ➡️ RDV sur https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/consultations-publiques/consultation-publique-lutte-contre-les-abus-mise-en-place-dune-procedure-de-me

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    ⚠️⏱️ You have until midnight today to answer to our public consultation on a new mediation service as a means of amicable resolution of disputes between rights holders and domain name holders.

    ➡️ Answer on https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/consultations-publiques/consultation-publique-lutte-contre-les-abus-mise-en-place-dune-procedure-de-me

    #Abuse #DotFR #ccTLDs

  • ⚠️🗓️ Derniers jours pour répondre à notre consultation publique pour la mise en place d’un nouveau service de médiation comme mode amiable de résolution des différends entre un ayant droit et un titulaire de nom de domaine.

    ➡️ Répondez sur https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/consultations-publiques/consultation-publique-lutte-contre-les-abus-mise-en-place-dune-procedure-de-me

    ⚠️🗓️ Last days to answer to our public consultation on a new mediation service as a means of amicable resolution of disputes between rights holders and domain name holders.

    ➡️ Answer on https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/consultations-publiques/consultation-publique-lutte-contre-les-abus-mise-en-place-dune-procedure-de-me

    #Abuse #DotFR #ccTLDs #PointFR #Internet #Numérique #Afnic #Litiges #Abus

  • Violences sexuels dans la communauté mennonite de Manitoba, Bolivie
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Abus_sexuels_dans_la_communaut%C3%A9_mennonite_de_Manitoba,_Bolivie

    Les Abus sexuels dans la communauté mennonite de Manitoba, Bolivie est une affaire judiciaire mettant en cause huit hommes de confession mennonite et membres d’une communauté mennonite indépendante fondamentaliste à Manitoba, Bolivie. Ils sont accusés d’avoir agressé sexuellement plus de 150 femmes entre 2005 et 2009 et condamnés en 2011 à des peines de prison.
    Historique

    De 2005 à 2009, des familles d’une communauté mennonite indépendante fondamentaliste à Manitoba sont droguées pendant leur sommeil, dans leur maison, à l’aide d’un sédatif destiné aux bêtes. Une fois l’ensemble des membres de la famille inconscients, des hommes de la communauté pénètrent dans les maisons et violent les femmes et les jeunes filles. Les victimes sont âgées de 3 à 65 ans. Celles-ci se réveillent le matin dans un état comateux sans se souvenir de ce qu’il s’est passé la nuit, mais elles ont le corps meurtri, parfois couvert de bleus et en sang. En 2009, des hommes de la communauté sont surpris dans ces viols et arrêtés. Avant cette découverte, les agressions étaient attribués au sein de la communauté à un fantôme ou à un démon1,2,3.

    En 2009, huit hommes, tous de confession mennonite, sept de la communauté du Manitoba et un d’une communauté voisine sont mis en cause. Les agresseurs sont livrés à la police bolivienne par les responsables de la communauté4. En août 2011, les huit accusés sont jugés coupables des accusations de viol. Sept sont condamnés à 25 ans de prison. Le vétérinaire Weiber, qui a fourni le sédatif, est condamné à 12 ans. Les avocats des agresseurs envisagent de faire appel. Un neuvième homme accusé de viols est toujours en fuite5.

    Une enquête de 2013 a révélé une continuité de cas similaires d’agressions sexuelles, bien que les hommes condamnés en 2011 soient en prison6.
    Fiction

    En 2018, l’écrivaine Miriam Toews publie le roman Women Talking, traduit en 2019 en français par Ce Qu’elles disent . L’auteure s’est inspirée de ces évènements d’agressions sexuelles dans la colonie mennonite de Manitoba fondamentaliste7. Pour Miriam Toews : « Il s’agit là d’un type de communauté très isolée et régie par l’autoritarisme, où la misogynie vient d’une interprétation fondamentaliste des Écritures. Les femmes sont illettrées, et elles ne peuvent pas s’exprimer »8.

    Women Talking est un film dramatique américain écrit et réalisé par Sarah Polley, et basé sur le roman de Miriam Toews9.


    La fiche wikipédia abuse du mot abus, alors qu’il s’agit de viols comme le dit la fiche elle même par la suite.

    25 ans de prison pour les 7 violeurs et 12 ans de prison pour le vétérinaire qui a fourni le sédatif.

    #abus #viol #culture_du_viol

    • En fait il y a bcp d’articles intutulés « abus sexuels sur... » sur wikipédia. Par exemple : « Abus sexuel sur mineur »
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Abus_sexuel_sur_mineur

      Un abus sexuel sur mineur est une action à caractère sexuel exercée à l’encontre d’un enfant ou d’un adolescent. Si l’âge du consentement varie selon les pays, il est communément admis qu’en dessous de cette limite, en raison du manque de discernement du mineur et de l’autorité de l’adulte, toute relation sexuelle entre ce dernier et un adulte est abusive .

      L’abus sexuel comporte souvent un contact corporel, mais pas toujours (exhibition ou pédopornographie). Il entraîne de multiples conséquences traumatiques à court et à long terme, comme le stress post-traumatique. L’agresseur peut être extérieur à l’entourage du mineur mais est souvent quelqu’un de familier voire de proche, comme le montrent les cas d’inceste. Des dynamiques institutionnelles peuvent étendre la fréquence de ces relations abusives.

      Cette définition est vraiment mauvaise. elle comporte le mot « abusif » ce qui est pas une bonne manière de définir ce qu’est un « abus ». Définir l’abus par une action abusive ca me définit rien. Et est ce que l’abus n’est qu’une action sexuelle !? Une agression sexuelle ok mais pas une action sexuelle.

      Il y a une section « terminologie » qui evoque le soucis d’utiliser le mot abus sans en tenir compte

      Bien que ce soit le terme utilisé par la directive européenne2, l’expression d’« abus sexuel sur mineur » est parfois contestée, pour des raisons différentes, dans son usage et dans sa forme. Certains pédopsychiatres3 lui reprochent de suggérer, par la notion d’« abus », qu’« un usage modéré pourrait être licite et que seul l’excès serait traumatisant pour l’enfant et répréhensible »4.

      on a aussi « Abus sexuels sur mineurs dans l’Église catholique »
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Abus_sexuels_sur_mineurs_dans_l%27%C3%89glise_catholique

      L’Église catholique fait face depuis la fin du XXe siècle à la révélation de nombreuses affaires d’abus sexuels sur mineurs commis par des prêtres, des religieux ou des laïcs en mission ecclésiale sur différents continents.

      Les abus sur mineurs sont des abus sur mineurs...
      –—

      Abus sexuels sur les femmes dans l’Église catholique
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Abus_sexuels_sur_les_femmes_dans_l%27%C3%89glise_catholique

      Les abus sexuels sur les femmes dans l’Église catholique désignent des agressions sexuelles de femmes, principalement des religieuses, commises au sein de l’Église catholique par certains de ses clercs et agents pastoraux.

      Et là on apprend que les abus sont des agressions et on se demande bien pourquoi on appel pas les agressions des agressions.

      Car pour les abus on trouve aussi ceci
      Abus de biens sociaux
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Abus_de_biens_sociaux

      En France, l’abus de biens sociaux ou ABS est un délit qui consiste, pour un dirigeant de société commerciale, à utiliser en connaissance de cause les biens, le crédit, les pouvoirs ou les voix de la société à des fins personnelles, directes ou indirectes.

      Alors là deja contrairement aux abus sexuels dont on sais pas si c’est du crime ou un délit ou de la simple contravention, là on sais tout de suite qu’il s’agit d’un délit. En plus on t’explique le délit sans utiliser le mot abusif dans la phrase... incroyable.

      On fait des abus de confiance, des abus de langage, des abus de procedures, des abus de faiblesse, abus de marché, abus d’alcool, mais pas des abus d’enfants ni de femmes. Pour la bonne raison que les femmes et les enfants ne sont pas des objets ni des notions abstraites.

    • Les médias et la justice ont peut-être “abusé” du substantif “abuse” de la langue anglaise. Cependant :
      Abuse is the improper usage or treatment of a thing, often to unfairly or improperly gain benefit. Abuse can come in many forms, such as: physical or verbal maltreatment, injury, assault, violation, rape, unjust practices, crimes, or other types of aggression. To these descriptions, one can also add the Kantian notion of the wrongness of using another human being as means to an end rather than as ends in themselves.[2] Some sources describe abuse as “socially constructed”, which means there may be more or less recognition of the suffering of a victim at different times and societies. ...
      https://en.wikipedia.org/wiki/Abuse

      Pour moi, il serait indispensable de qualifier de viol toute atteinte à l’intimité sur le corps d’une personne qui ne consent pas à la relation ou qui n’est pas à même d’évaluer avec pertinence la nature de la relation (enfants, personne mineure, personne déficiente, etc).

  • 📩 L’e-mail est un canal de plus en plus privilégié par les auteurs d’abus. DKIM, DMARC et SPF permettent de prévenir et de lutter 💪 durablement contre ces cyberattaques.

    🗓️ Apprenez à sécuriser 🔐 vos e-mails avec une formation par Stéphane Bortzmeyer les 20 et 21 avril prochain !

    ➡️ Informations et inscriptions sur https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/agenda/formation-securiser-son-courrier-electronique-grace-au-dns-avec-dkim-dmarc-spf

    #DNS #cybersécurité #abus #formation

  • Dans les plantations de thé fournissant Lipton, le scandale des abus sexuels
    « Le vrai coût de notre thé ». Voilà le nom de l’enquête terrifiante que vient de publier la BBC. Une journaliste sous couverture a intégré des plantations kényanes qui fournissent du thé à des marques comme Lipton. Elle a recueilli les témoignages de dizaines de femmes victimes d’abus sexuel de leurs supérieurs. La journaliste elle-même a été victime de harcèlement sexuel alors que plusieurs responsables ont été suspendus depuis les révélations.

    C’est un scandale d’ampleur que vient de révéler la BBC. https://www.bbc.com/news/uk-64662056 Dans une enquête publiée le 20 février, la chaine britannique a recueilli les témoignages de nombreuses femmes victimes d’abus sexuels dans des plantations de thé au Kenya. Les plantations pointées du doigt appartiennent à Lipton Teas and Infusion, qui était il y a peu une filiale du géant britannique de l’agroalimentaire et des produits d’hygiène Unilever, ainsi qu’à sa compatriote James Finlay, filiale du conglomérat Swire.

    « Plus de 70 femmes dans des plantations de thé kényanes détenues pendant des années par deux sociétés britanniques ont raconté à la BBC avoir été abusées sexuellement par leurs supérieurs » , a rapporté la chaîne britannique sur son site internet. Selon les témoignages recueillis par la BBC, plusieurs victimes ont affirmé n’avoir d’autre choix que de céder aux exigences sexuelles de leurs patrons pour obtenir ou conserver leur emploi.

    Viol d’une jeune fille de 14 ans
    L’une d’elles dit avoir été infectée par le VIH, tandis que d’autres sont tombées enceintes, selon cette enquête de BBC Africa Eye/Panorama. Un responsable est accusé d’avoir violé une jeune fille de 14 ans qui vivait dans l’une des plantations. « Katy », une journaliste sous couverture, a également subi du harcèlement sexuel de la part de deux supérieurs. L’un des recruteurs de l’entreprise James Finlay & Co l’a plaquée contre une fenêtre en lui demandant de se déshabiller. « Katy a également été victime de harcèlement sexuel lorsqu’elle était sous couverture dans une ferme, qui était à l’époque dirigée par Unilever », note la BBC.


    Unilever, dont la vente de ses opérations au Kenya est intervenue pendant le tournage, s’est dit « profondément choqué par les allégations du programme de la BBC », . . . .

    La suite : https://www.novethic.fr/actualite/social/droits-humains/isr-rse/dans-les-plantations-de-the-de-lipton-le-scandale-des-abus-sexuels-151363.h

    #Thé #viols #abus_sexuels #Lipton #unilever (étonné) #Kenya #violence #multinationale

  • A Fraught New Frontier in Telehealth : Ketamine - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/02/20/us/ketamine-telemedicine.html

    Un (long) article passionnant. On retrouve un processus qui a créé la crise des opioides. Même si le danger de la kétamine n’est pas comparable, le pattern de comportement des autorités, comme des fabricants, des médecins et des patients est similaire. Et on retrouve toujours « l’excuse » des mauvais comportement avec un « bon » produit que les fabricants d’opioides, notamment les Sackler, ont utilisé très longtemps (avant qu’ils ne se mettent à fabriquer des produits pour sauver des overdoses, puis se déclarent en faillite pour ne pas payer d’amendes).

    Covid-19 exacerbated the nation’s mental health crisis and underscored the inadequacy of many existing treatments, accelerating a reconsideration of once-stigmatized psychedelics. Because the Food and Drug Administration approved ketamine as an anesthetic more than 50 years ago, federal rules allow doctors to prescribe it for other conditions as well, and its use for depression, anxiety and post-traumatic stress disorder was growing before the pandemic.

    With the rule changes in 2020, the at-home ketamine industry appeared practically overnight.

    Tech start-ups and individual doctors began offering medical services online, and so-called compounding pharmacies, which can make variations of approved drugs, found a market for tablet and lozenge versions of ketamine, normally manufactured as a liquid and distributed in vials.

    Primed by glowing media coverage and aggressive advertising, many patients interviewed by The Times came to regard the drug — and its remote availability — as akin to a miracle cure with few risks.

    Studies of recreational users have documented that ketamine — popularly known as K or Special K, with a reputation as a club drug — can be addictive and, when taken chronically in high doses, can cause severe bladder damage that in the worst cases requires surgical reconstruction of the organ. There are indications that abuse may also lead to cognitive impairment.

    Advocates of increased therapeutic use say those issues are exceedingly rare or nonexistent at the doses and frequencies commonly prescribed. But because treatment is remote and there is little mandatory reporting of side effects, it is nearly impossible to accurately gauge their prevalence.

    Many ketamine patients described the drug as a reset button for the brain. During treatment sessions, they experienced pleasant visualizations, sometimes accompanied by a sense of existing outside themselves and melding with the universe. Afterward, their daily problems seemed less weighty.

    The considerable hype surrounding ketamine stems in part from the drug’s ability to affect brain receptors that traditional antidepressants do not target. The psychedelic-like trip, many believe, is integral to the drug’s therapeutic effect.

    But for some patients who spoke to The Times, including a Tennessee cybersecurity manager and a former Pennsylvania factory worker, the profound experiences of their early sessions faded. Chasing the lost high, they sought increased doses, took multiple days’ worth at once or altered the medicine to release more of its payload.

    For others — a Utah data analyst, a California bartender and a Pennsylvania internet entrepreneur — ketamine treatment eventually meant dealing with a constant urge to urinate, often painfully, as well as other bladder ailments.

    The experiences of the dozens of patients who shared their stories with The Times encapsulate both the well-publicized promise of ketamine and the lesser-discussed risks.

    “We know at a certain point you will get both the neurotoxic and the bladder-toxic effects — we just don’t know at what level,” said Dr. Gerard Sanacora, a psychiatrist and leading ketamine researcher at Yale University.

    In the absence of data, some medical professionals said they were becoming more conservative in their prescribing because of anecdotes in published case reports or online forums.

    Professional groups have developed informal guidelines that emphasize catching symptoms early, reducing the dose and spacing out treatments. But some at-home providers are pushing in the opposite direction, viewing ketamine as just another medicine to be taken regularly.

    “I would be worried about chronic usage,” said Dr. Adam Howe, a urologist at Albany Medical Center who advises a group developing treatment guidance. Damage is avoidable with proper safeguards, he said, but “common sense would tell you, if you’re to use this every day for years on end, then at a certain point, you’re going to be damaging your bladder probably.”

    The literature on addiction and abuse among medical users is also thin and inconclusive. Supporters point to studies indicating that patients on ketamine rarely, if ever, have those issues. Others note a pattern common in drug development: an initial overestimation of benefit, followed by more tempered results and recognition of previously undetected harm.

    Production Is Booming

    For years, mental health clinics have administered the F.D.A.-approved liquid form of ketamine that doctors also use to sedate patients in surgery. But at-home treatment created demand for a version that was less potent and easier to take — something not available from drugmakers.

    Enter a uniquely positioned industry: compounding pharmacies.

    These specialized companies operate in a murky regulatory space somewhere between a corner drugstore and a pharmaceutical manufacturer. They can produce variations of approved drugs but do not have to follow the same quality-control rules as drugmakers.

    Most compounding pharmacies do not have to notify federal regulators when they learn of a patient experiencing a problem, and they are rarely, if ever, inspected by the F.D.A. In many cases, the agency may not even know they exist.

    Companies that once served primarily local customers now ship their products across the country as the ketamine boom has presented an alluring opportunity.

    “It’s become the new buzz in this space,” said Jeanine Sinanan-Singh, chief executive of Vitae Industries, which sells a machine that compounding pharmacies can use to produce doses at a faster clip than with other methods.

    Joyous is the new kid on the at-home ketamine block, a reflection of where market forces and scant regulation have taken the fledgling industry. The company has sought to distinguish itself by promoting its tech-driven, customizable treatment plans, but the real draw for many patients is its pricing.

    “I signed up for Joyous, if we’re being honest, just because of the price,” said Francisco Llauger, who, like Mr. Curl, found in-clinic treatments effective but too expensive.

    Joyous illustrates a reality of how at-home ketamine has evolved: Patients with some of the most serious and complicated mental health challenges are turning to some of the most hands-off treatment, according to The Times’s interviews.

    The company has carved out its place with a novel approach: Instead of prescribing higher doses to be taken once or twice a week, Joyous offers lower doses to be taken daily.

    Melding the argots of Silicon Valley and self-care, Joyous delivers treatment primarily by text message, replete with exclamation points and emojis. Each morning, patients receive a questionnaire on their phones asking about symptoms and side effects, and each evening, they get a text with the next day’s recommended dose.

    “Our algorithms use all of this information to tailor the protocol exactly to your brain and body’s needs,” Sharon Niv, co-founder and chief of customer experience, says in a video. In written responses to questions from The Times, the company said its general treatment approach “has been adapted and used by providers nationally and internationally” for more than five years and its internal data indicated that “this medicine is highly effective for both anxiety and depression.” It declined to provide details about how its technology works.

    The company says lower doses translate to lower risk. Yet most of the eight Joyous patients who spoke with The Times said their doses reached the maximum the company would prescribe within weeks. Some providers who generally support at-home treatment expressed concern that taking ketamine every day, even at lower doses, could heighten the risk of tolerance, addiction and bladder problems.

    “We believe that the patients who choose Joyous understand the risks and feel that the benefits outweigh the potential risks,” the company said, adding that nine out of every 10 patients “report feeling better overall.”

    “We want to emphasize that Joyous is a public benefits corporation,” the company said, “meaning that we prioritize public goods over profits.”

    The future of the ketamine boom depends largely on the actions of the federal government in the coming months. While states have some authority, the most important policy decision rests with the D.E.A. If the agency doesn’t take action before the Covid-19 public health emergency is scheduled to end in May, patients may be required to have at least one in-person visit before they can be prescribed ketamine. The D.E.A. declined to comment on its plans.

    Many patients who spoke with The Times expressed hope for a middle ground: something more stringent than the current laissez-faire approach but not so restrictive that a potentially lifesaving treatment became inaccessible.

    Mr. Curl said he hoped that his and other patients’ negative experiences would not ruin the at-home ketamine experiment more broadly.

    “I’m not on a mission to get them shut down or anything,” he said, “because that’s not going to solve any problems for people like me.”

    #Kétamine #Psychédéliques #Dépression #Abus #Pharmacie #Déontologie #Santé_publique

  • #Inceste 1/5 - Le zizi de Papinou

    Mère de deux filles, Jessica a découvert que son propre beau-père abusait d’elles depuis plusieurs années. Elle l’a dénoncé à la police et raconte son parcours de combattante jusqu’au jugement. En matière d’inceste, l’article 213 du Code pénal visait à l’origine à protéger les liens du sang. Pour l’avocate lausannoise Coralie Devaud, il est trop restrictif et archaïque, comme celui qui définit le viol.

    https://www.rts.ch/audio-podcast/2023/audio/inceste-1-5-le-zizi-de-papinou-25899822.html
    #podcast #audio #pédocriminalité

  • « Le #Canada accorde un #dédommagement historique aux peuples autochtones ».

    Excuses, repentir et dédommagements tardifs, mais l’occasion de rappeler le rôle criminel joué par les Églises dans la mise aux pas des peuples.

    Pendant près de cent ans, 150.000 enfants autochtones ont été retirés de leurs familles, envoyés dans une centaine de pensionnats majoritairement catholiques, et coupés de leur langue et de leur culture. Parmi eux, plusieurs milliers sont morts sous l’effet de maladies, d’#abus_sexuels, et de #malnutrition.

    (Les Échos)

    #peuples_autochtones #génicide_culturel #crime #pensionnat #église_catholique #maladie #maltraitance #amérindiens #Commission_de_vérité_et_réconciliation_du_Canada (#CVR) #Premier_ministre #Justin_Trudeau

  • 📢 RAPPEL : modification des conditions tarifaires de #Syreli, Procédure de résolution des litiges de l’Afnic à partir du 1er janvier 2023 https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/actualites/modification-des-conditions-tarifaires-de-syreli-procedure-de-resolution-des-l

    #PARL #Abus #PointFR #Afnic

    📢 REMINDER : change to the price conditions of #Syreli, the Afnic Alternative dispute resolution procedure as of January 1st, 2023 https://www.afnic.fr/en/observatory-and-resources/news/change-to-the-price-conditions-of-syreli-the-afnic-alternative-dispute-resolut

    #ADR #disputes #dotFR #Afnic