• Six ans de prison requis contre #Matteo_Salvini, vice-Premier ministre italien, pour avoir refusé de laisser accoster des migrants en 2019

    L’homme politique d’extrême droite est jugé pour #privation_de_liberté et #abus_de_pouvoir, pour avoir maintenu 147 migrants en mer pendant des semaines sur un navire géré par l’organisation caritative #Open_Arms.

    Les procureurs italiens ont requis, samedi 14 septembre, une #peine de six ans de #prison contre Matteo Salvini, vice-premier ministre italien d’extrême droite, pour avoir empêché des migrants de débarquer dans un port italien en 2019.

    Matteo Salvini, qui fait partie de la coalition de la Première ministre Giorgia Meloni, est jugé pour privation de liberté et abus de pouvoir, pour avoir maintenu 147 migrants en mer pendant des semaines sur un navire géré par l’organisation caritative Open Arms. Le verdict de ce procès, qui a débuté en octobre 2021, devrait être rendu le mois prochain, a déclaré à l’AFP l’avocat d’Open Arms, Arturo Salerni.

    « Les #droits_humains doivent prévaloir »

    Matteo Salvini n’était pas présent à l’audience. Il avait auparavant publié sur Facebook : « Je le referais si j’avais à le refaire : défendre les frontières contre les migrants illégaux n’est pas un crime. » "Il est incroyable qu’un ministre de la République risque six ans de prison pour avoir fait son travail en défendant les #frontières de la nation, comme l’exige le mandat qu’il a reçu de ses concitoyens", a-t-il ajouté sur X.

    Au moment de résumer son réquisitoire, le procureur Geri Ferrara, du tribunal de Palerme, a estimé « qu’un principe clé n’est pas discutable : entre les droits humains et la protection de la souveraineté de l’Etat, les droits humains doivent prévaloir dans notre système heureusement démocratique. »

    Le #navire était resté bloqué en mer pendant près de trois semaines avant que les migrants ne soient finalement autorisés par la justice à débarquer sur l’île italienne de Lampedusa. Les membres d’Open Arms avaient assuré que l’état physique et mental des migrants avait atteint un point critique lorsque les conditions sanitaires à bord étaient devenues désastreuses, notamment en raison d’une épidémie de gale.

    https://www.francetvinfo.fr/monde/italie/six-ans-de-prison-requis-contre-matteo-salvini-vice-premier-ministre-it
    #justice #ports #migrations #réfugiés #Méditerranée #mer_Méditerranée #sauvetage

    • La cheffe de file de l’extrême droite en France, Marine Le Pen, lui a apporté son soutien samedi soir en dénonçant sur X « un véritable harcèlement judiciaire visant à le faire taire ».

      « Nous sommes solidaires et plus que jamais à tes côtés Matteo », a-t-elle aussi affirmé, fustigeant une peine « d’une extrême gravité alors que la submersion migratoire s’accentue partout en Europe ».

    • Il legale del sacerdote: «Siamo in una fase complessa e preferiamo non esprimerci»

      Due mesi di carcere preventivo per il religioso accusato di abusi – Il giudice dei provvedimenti coercitivi Paolo Bordoli ha confermato la richiesta della Procura - Don Rolando Leo è stato già trasferito alla Farera - Emerge che l’inchiesta della magistratura è stata aperta alcuni mesi fa dopo la denuncia della presunta vittima, oggi maggiorenne.

      Il giudice dei provvedimenti coercitivi Paolo Bordoli ha confermato oggi pomeriggio la carcerazione preventiva chiesta dalla Procura per don Rolando Leo, il sacerdote fermato mercoledì scorso con l’accusa di atti sessuali con fanciulli, coazione sessuale, atti sessuali con persone incapaci di discernimento o inette a resistere e pornografia. Don Leo è stato trasferito al carcere giudiziario della Farera dove potrebbe rimanere almeno per i prossimi due mesi.

      Il provvedimento cautelare era tanto atteso quanto sostanzialmente scontato. Ed è giunto al termine di un’inchiesta, si è appreso oggi, durata alcuni mesi. La prima segnalazione al Ministero pubblico, fatta dall’amministratore apostolico della diocesi di Lugano, monsignor Alain de Raemy, risale infatti a marzo, quando il prelato era stato informato dei presunti abusi direttamente dalla presunta vittima.

      Quest’ultima, ormai maggiorenne, aveva raccontato al vescovo di aver subito attenzioni improprie negli anni precedenti, quindi in età minore, e aveva confermato la volontà di far emergere la vicenda proprio per raccogliere l’appello lanciato dallo stesso de Raemy dopo la pubblicazione del rapporto sugli abusi in àmbito religioso redatto dall’Università di Zurigo.

      Una domanda inevitabile

      Una domanda è sorta subito, inevitabile: il fermo del sacerdote è avvenuto, come detto, mercoledì mattina all’alba, al Collegio Papio di Ascona. Don Rolando Leo era tornato la sera prima da un pellegrinaggio di una decina di giorni a Medjugorje, in Bosnia Erzegovina. Un viaggio, organizzato dalla Pastorale giovanile diocesana (e ampiamente documentato con servizi e fotografie sul portale catt.ch), a cui aveva partecipato un folto gruppo di ragazzi. Alla luce di quanto raccolto dal vescovo, e sapendo che la magistratura aveva aperto un fascicolo d’inchiesta su fatti sicuramente da accertare, ma comunque potenzialmente molto gravi, perché la Curia ha lasciato che il sacerdote accompagnasse i giovani, molti dei quali minori, a Medjugorje? «Una domanda lecita», hanno ammesso dalla Diocesi. Alla quale, tuttavia, non è stata data, almeno per il momento, alcuna risposta.

      Resta il fatto, e va sottolineato, che monsignor de Raemy ha in ogni caso applicato senza remore le nuove regole del Codice di diritto canonico, sospendendo il sacerdote da tutti i suoi incarichi.

      Un analogo provvedimento potrebbe prendere, nelle prossime settimane, anche il DECS in relazione al ruolo di don Leo come docente liceale e come direttore dell’Ufficio insegnamento religioso scolastico. In questo senso le autorità cantonali hanno annunciato un approfondimento di natura amministrativa.

      Risalire al passato

      Ciò che appare chiaro, in questo momento, è che per fare chiarezza e far emergere la verità occorrerà andare a ritroso nel tempo, con tatto e delicatezza. Che, in questi casi, non sono mai abbastanza. Ciò che attende la procuratrice pubblica titolare dell’inchiesta, Valentina Tuoni, non nuova a indagini così complesse - ricordiamo, su tutte, quella riguardante l’istruttore di yoga del Luganese - è un lavoro di cesello; un lavoro nel quale, alla fine, ciascun particolare potrebbe fare la differenza.

      Fermo restando il principio della presunzione d’innocenza, dal quale ogni possibile ragionamento deve necessariamente prendere le mosse, se qualcosa c’è stato va ricercato nel passato dell’uomo di fede il quale, in questi anni, ha girato in lungo e in largo il Ticino nell’àmbito del suo ministero. Sarà compito degli inquirenti, partendo dalla segnalazione fatta dalla presunta vittima, raccogliere ulteriori testimonianze da mettere poi a confronto con la tesi del sacerdote. E capire se ci si trova di fronte a un caso isolato o se vi siano altri episodi e altre persone coinvolte.

      Questa sera il Corriere del Ticino è riuscito a mettersi in contatto telefonico con il difensore di don Rolando Leo per raccogliere la versione dell’indagato. «Sono stato con il mio cliente a lungo, oggi, al momento siamo in una fase complessa e molto delicata, preferiamo per questo evitare ogni dichiarazione», ha detto il legale, rinviando ai prossimi giorni un eventuale nuovo passaggio.

      «Fatti non avvenuti al Papio»

      Chi, oggi, ha vissuto un’altra giornata difficile è stato sicuramente il rettore del Papio, don Patrizio Foletti, al quale molti si sono rivolti per capire quanto accaduto al cappellano del Collegio.

      In una lettera inviata alle famiglie degli allievi, don Foletti - insieme con il suo vice Paolo Scascighini - non ha nascosto i fatti, ma ha anche tentato di rassicurare sul futuro dell’istituzione. «Desideriamo prendere contatto con voi a seguito delle notizie che ci hanno raggiunto» e «concernenti don Rolando - si legge nella lettera -. Precisiamo soltanto che, a tutt’oggi, i fatti non sembrano toccare l’attività di don Rolando in Collegio. Siamo ovviamente sconcertati e addolorati come voi, e stiamo già facendo quanto possibile per iniziare in modo sereno l’anno scolastico. Dignità e rispetto della persona restano, come sempre anche in passato, al centro delle attenzioni del Collegio. In attesa di rivedervi restiamo a disposizione per ascoltare il vostro disagio».

      Al CdT, il rettore ha ripetuto i propri sentimenti di costernazione e di sconforto. Ma ha pure sottolineato come «le prime reazioni» interne alla scuola siano state positive. «Di una cosa sono certo - ha aggiunto don Foletti - il Collegio è estraneo a quanto accaduto».

      Se il Papio ha scelto di scrivere alle famiglie, la Diocesi - almeno per il momento - si è limitata al comunicato stampa diffuso giovedì pomeriggio. Ogni altra richiesta di commento è stata sin qui cortesemente respinta, «nel rispetto - dicono dalla Curia - della privacy delle persone coinvolte». Nessuna conferenza stampa è in programma nei prossimi giorni.

      https://www.cdt.ch/news/ticino/il-legale-del-sacerdote-siamo-in-una-fase-complessa-e-preferiamo-non-esprimerci-

  • Wide-Ranging Cases of Sexual Abuse in Swiss Catholic Church

    An independent team of historians was given unprecedented access to archives of the Swiss Catholic Church to investigate cases of sexual abuse within the church. The UZH researchers have now documented 1,002 cases of sexual abuse committed by Catholic clerics, church staff and members of Catholic orders that have occurred in Switzerland since the mid-20th century. They also examined how church officials dealt with cases of abuse and the availability and significance of archive sources. These new findings pave the way for further research.

    In 2022, the Swiss Bishops’ Conference, the Conference of Unions of Orders and Other Communities of Consecrated Life (KOVOS) and the Central Roman Catholic Conference of Switzerland (RKZ) commissioned the Department of History of the University of Zurich to shed light on sexual abuse in the Catholic Church since the mid-20th century. A team of four researchers led by professors Monika Dommann and Marietta Meier have now completed the year-long pilot study. The study covered all dioceses in all language regions of Switzerland as well as state-church institutions and Catholic religious orders. In other words, the researchers examined the Swiss Catholic Church as a whole.

    With a few exceptions, the project team was able to access the church’s archives without any major hurdles, sifting through tens of thousands of pages of previously secret documents compiled by Catholic Church officials since the mid-20th century. In addition, the researchers held numerous interviews with people affected by sexual abuse and with other parties.
    Tip of the iceberg

    The team of researchers found evidence of a wide range of sexual abuse. The cases range from problematic boundary violations to severe systematic abuse lasting several years. Overall, 1,002 cases were identified, involving 510 accused persons and 921 victims. Thirty-nine percent of victims were female, while 56 percent were male. For the remaining 5 percent, the sex could not be determined from the sources. The vast majority of the accused were men. Seventy-four percent of the documents reviewed during the study concerned sexual abuse of minors. In 14 percent of cases, the victims were adults, while the age of the victims could not be determined in 12 percent of cases.

    “The cases we identified are without a doubt only the tip of the iceberg,” say Monika Dommann and Marietta Meier. Numerous archives that likely contain further evidence of abuse have yet to be made available, such as archives of religious orders, documents created in the dioceses and the archives of Catholic day schools, boarding schools and children’s homes as well as government archives. In two dioceses, the researchers found evidence that documents had been destroyed. Moreover, there is evidence that not all reported cases of sexual abuse were consistently recorded in writing and subsequently archived. “Given what we know from research on the dark figure of crime, we assume that only a small percentage of cases was ever reported in the first place,” say the historians.
    Sexual abuse in pastoral work

    The study documents cases of sexual abuse for the whole of Switzerland and for the entire period under investigation. It identifies three social spaces with specific power constellations in which sexual abuse occurred. The most prominent of these spaces was pastoral work, in which well over 50 percent of sexual abuse cases took place. Certain elements of pastoral work were particularly affected, including spiritual care (during confession or when seeking guidance), altar service and religious education. This includes priests’ involvement in kids or youth clubs and associations.

    According to the study, a second major social space in which sexual abuse took place was the church’s educational and welfare settings, which fulfilled key social functions, especially in the first half of the 20th century. Around 30 percent of analyzed cases of sexual abuse were committed in Catholic children’s homes, day schools, boarding schools and similar institutions. Finally, Catholic religious orders and other communities as well as new spiritual communities and movements made up the third social space (just under 2 percent of cases). Here, the search for sources proved particularly difficult.
    Systematic cover-up by the church

    Under ecclesiastical law, sexual abuse of minors has long been a severe criminal offense. “However, our study reveals that ecclesiastical criminal law was hardly ever applied in the cases we investigated. Instead, many cases were kept secret, covered up or trivialized,” say the researchers. Church officials would systematically reassign clerics accused of or known to have committed sexual abuse to different posts, sometimes transferring them abroad, to avoid criminal prosecution by secular authorities and enable the clerics to continue working. In doing so, the interests of the Catholic Church and its dignitaries were given precedence over the welfare and safety of parishioners.

    This practice didn’t fundamentally change until the 21st century, when more and more scandals about the Catholic Church’s handling of sexual abuse cases came to light. As a result, the Swiss Bishops’ Conference issued guidelines on how to handle and prevent cases of sexual abuse and established professional bodies in the dioceses to deal with reported cases. However, to this day these bodies differ significantly in their approaches, and their level of professionalization also varies.
    Further research needed

    The pilot project is the first systematic attempt to conduct an academic investigation into the scope and scale of sexual abuse in the Swiss Catholic Church. Fundamental issues concerning access to archives, investigative status and documentation of abuse cases within the Catholic Church as well as previous efforts to examine and prevent such cases have now been addressed. The study provides the basis for further research. The research team believes that future studies need to examine further archives and expand the data. This will make it possible to reach more detailed conclusions about the quantity of sexual abuse that occurred as well as more accurately pinpointing when and where cases arose more frequently.

    Among other things, future studies should investigate the role of the state, especially in charitable and educational contexts, as many services in this area are delegated to the church, particularly in predominantly Catholic regions. Finally, a further focus needs to be placed on exploring the elements specific to the Catholic Church that may have abetted sexual abuse in the church, including the church’s views on sexual morals, celibacy, gender roles as well as its ambivalent stance on homosexuality. The characteristics of the Catholic community, which tacitly accepted and partly supported the described dynamics of concealment and denial, also require further investigation. “Statements and reports made by the people affected as well as by contemporary witnesses should be given great consideration in such a process, and the church’s archives should be evaluated in light of these witness statements,” say the historians Dommann and Meier.

    https://www.news.uzh.ch/en/articles/media/2023/Sexual-Abuse.html

    Conférence de presse:
    https://www.youtube.com/watch?v=ViOMQSzS6Rk

    #abus #abus_sexuels #étude #Suisse #église #église_catholique #rapport #histoire #archives

  • The Long Shadow of German Colonialism. Amnesia, Denialism and Revisionism

    From 1884 to 1914, the world’s fourth-largest overseas colonial empire was that of the German #Kaiserreich. Yet this fact is little known in Germany and the subject remains virtually absent from most school textbooks.

    While debates are now common in France and Britain over the impact of empire on former colonies and colonising societies, German imperialism has only more recently become a topic of wider public interest. In 2015, the German government belatedly and half-heartedly conceded that the extermination policies carried out over 1904–8 in the settler colony of German South West Africa (now Namibia) qualify as genocide. But the recent invigoration of debate on Germany’s colonial past has been hindered by continued amnesia, denialism and a populist right endorsing colonial revisionism. A campaign against postcolonial studies has sought to denounce and ostracise any serious engagement with the crimes of the imperial age.

    #Henning_Melber presents an overview of German colonial rule and analyses how its legacy has affected and been debated in German society, politics and the media. He also discusses the quotidian experiences of Afro-Germans, the restitution of colonial loot, and how the history of colonialism affects important institutions such as the Humboldt Forum.

    https://www.hurstpublishers.com/book/the-long-shadow-of-german-colonialism
    #livre #Allemagne #colonialisme #colonialisme_allemand #histoire_coloniale #histoire #héritage #héritage_colonial #Allemagne_coloniale #Afro-allemands #impérialisme #impérialisme_allemand #Namibie #génocide #amnésie #déni #révisionnisme

    ping @_kg_ @cede @reka

    • German colonialism in Africa has a chilling history – new book explores how it lives on

      Germany was a significant – and often brutal – colonial power in Africa. But this colonial history is not told as often as that of other imperialist nations. A new book called The Long Shadow of German Colonialism: Amnesia, Denialism and Revisionism aims to bring the past into the light. It explores not just the history of German colonialism, but also how its legacy has played out in German society, politics and the media. We asked Henning Melber about his book.
      What is the history of German colonialism in Africa?

      Imperial Germany was a latecomer in the scramble for Africa. Shady deals marked the pseudo-legal entry point. South West Africa (today Namibia), Cameroon and Togo were euphemistically proclaimed to be possessions under “German protection” in 1884. East Africa (today’s Tanzania and parts of Rwanda and Burundi) followed in 1886.

      German rule left a trail of destruction. The war against the Hehe people in east Africa (1890-1898) signalled what would come. It was the training ground for a generation of colonial German army officers. They would apply their merciless skills in other locations too. The mindset was one of extermination.

      The war against the Ovaherero and Nama people in South West Africa (1904-1908) culminated in the first genocide of the 20th century. The warfare against the Maji Maji in east Africa (1905-1907) applied a scorched earth policy. In each case, the African fatalities amounted to an estimated 75,000.

      “Punitive expeditions” were the order of the day in Cameroon and Togo too. The inhuman treatment included corporal punishment and executions, sexual abuse and forced labour as forms of “white violence”.

      During a colonial rule of 30 years (1884-1914), Germans in the colonies numbered fewer than 50,000 – even at the peak of military deployment. But several hundred thousand Africans died as a direct consequence of German colonial violence.
      Why do you think German debate is slow around this?

      After its defeat in the first world war (1914-1918), the German empire was declared unfit to colonise. In 1919 the Treaty of Versailles allocated Germany’s territories to allied states (Great Britain, France and others). The colonial cake was redistributed, so to speak.

      This did not end a humiliated Germany’s colonial ambitions. In the Weimar Republic (1919-1933) colonial propaganda flourished. It took new turns under Adolf Hitler’s Nazi regime (1933-1945). Lebensraum (living space) as a colonial project shifted towards eastern Europe.

      The Aryan obsession of being a master race culminated in the Holocaust as mass extermination of the Jewish people. But victims were also Sinti and Roma people and other groups (Africans, gays, communists). The Holocaust has overshadowed earlier German crimes against humanity of the colonial era.

      After the second world war (1939-1945), German colonialism became a footnote in history. Repression turned into colonial amnesia. But, as Jewish German-US historian and philosopher Hannah Arendt suggested in 1951 already, German colonial rule was a precursor to the Nazi regime. Such claims are often discredited as antisemitism for downplaying the singularity of the Holocaust. Such gatekeeping prevents exploration of how German colonialism marked the beginning of a trajectory of mass violence.
      How does this colonial history manifest today in Germany?

      Until the turn of the century, colonial relics such as monuments and names of buildings, places and streets were hardly questioned. Thanks to a new generation of scholars, local postcolonial agencies, and not least an active Afro-German community, public awareness is starting to change.

      Various initiatives challenge colonial memory in the public sphere. The re-contextualisation of the Bremen elephant, a colonial monument, is a good example. What was once a tribute to fallen colonial German soldiers became an anticolonial monument memorialising the Namibian victims of the genocide. Colonial street names are today increasingly replaced with names of Africans resisting colonial rule.

      Numerous skulls – including those of decapitated African leaders – were taken to Germany during colonialism. These were for pseudo scientific anthropological research that was obsessed with white and Aryan superiority. Descendants of the affected African communities are still in search of the remains of their ancestors and demand their restitution.

      Similarly, cultural artefacts were looted. They have remained in the possession of German museums and private collections. Systematic provenance research to identify the origins of these objects has only just begun. Transactions such as the return of Benin bronzes in Germany remain a matter of negotiations.

      The German government admitted, in 2015, that the war against the Ovaherero and Nama in today’s Namibia was tantamount to genocide. Since then, German-Namibian negotiations have been taking place, but Germany’s limited atonement is a matter of contestation and controversy.
      What do you hope readers will take away from the book?

      The pain and exploitation of colonialism lives on in African societies today in many ways. I hope that the descendants of colonisers take away an awareness that we are products of a past that remains alive in the present. That decolonisation is also a personal matter. That we, as the offspring of colonisers, need to critically scrutinise our mindset, our attitudes, and should not assume that colonial relations had no effect on us.

      Remorse and atonement require more than symbolic gestures and tokenism. In official relations with formerly colonised societies, uneven power relations continue. This borders on a perpetuation of colonial mindsets and supremacist hierarchies.

      No former colonial power is willing to compensate in any significant way for its exploitation, atrocities and injustices. There are no meaningful material reparations as credible efforts of apology.

      The colonial era is not a closed chapter in history. It remains an unresolved present. As the US novelist William Faulkner wrote: “The past is never dead. It’s not even past.”

      https://theconversation.com/german-colonialism-in-africa-has-a-chilling-history-new-book-explor

      #Cameroun #Togo #Tanzanie #Rwanda #Burundi #Hehe #Ovaherero #Nama #Maji_Maji #expéditions_punitives #abus_sexuels #travail_forcé #white_violence #violence_blanche #violence #Lebensraum #nazisme #Adolf_Hitler #Hitler #monuments #Kolonialelefant #Brême #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique

  • Abusi al confine greco-albanese e le omissioni di #Frontex

    La denuncia in un’inchiesta di Balkan Investigative Reporting Network.

    Continuano le denunce riguardo alle costanti violazioni dei diritti umani attuate nei confronti delle persone migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica. Questa volta al centro dell’attenzione torna il confine fra Grecia e Albania dove non cessano i respingimenti e, fatto ancor più grave, sembrerebbe che alcuni agenti di Frontex – l’Agenzia europea che supporta gli Stati membri dell’UE e dell’area Schengen nel controllo delle frontiere – abbiano ricevuto l’ordine di non segnalare le violazioni dei diritti umani commesse sul confine a danno delle persone in transito.

    A renderlo noto è il Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) che in un’inchiesta, pubblicata lo scorso giugno 2, riporta il contenuto di alcune e-mail risalenti al 2023 (quindi dopo le dimissioni dell’ex capo Fabrice Leggeri, avvenute nell’aprile 2022) in cui si riconferma che il personale di Frontex è a conoscenza dei pushback illegali che sistematicamente avvengono sul confine greco-albanese.

    Respingimenti che gettano le persone in quella che gli agenti stessi definiscono «un’interminabile partita di ping-pong».

    Inoltre, sembrerebbe che qualcuno all’interno di Frontex, non è chiaro chi, avrebbe fornito «istruzioni implicite di non emettere SIR», vale a dire di non redigere rapporti sulle segnalazioni di incidenti gravi che quindi comportano violazioni dei diritti fondamentali ai sensi delle norme UE ed internazionali.

    Frontex, presente in Albania dal 2018 e più volte criticata per il suo operato in vari Paesi poiché accusata di aver svolto attività di respingimento illegali, dispone infatti di un ufficio denominato Fundamental Rights Office (FRO) 3 a cui spetta il compito di gestire le segnalazioni SIR (Serious Incident Report) e di monitorare il rispetto dei diritti nell’ambito delle attività dell’Agenzia. In più, nel 2019, è stata istituita una procedura che consente a chiunque ritiene che i propri diritti siano stati violati di presentare un reclamo all’ufficio preposto.

    A destare preoccupazione sul confine sono soprattutto le modalità con le quali le autorità gestiscono queste operazioni. Nelle e-mail si legge che la polizia greca conduce le persone migranti al confine e la polizia albanese sistematicamente le respinge, in alcuni casi – rileva il FRO – maltrattandole e, segnala la Commissione europea, senza fornire garanzie agli aspiranti richiedenti asilo, di cui non verrebbero raccolte nemmeno le informazioni base.

    Le autorità albanesi negano di aver partecipato ai respingimenti collettivi, in ogni caso, di certo c’è, prosegue l’inchiesta, che le mancate segnalazioni portano, secondo Jonas Grimhede, capo del FRO, a sottovalutare le infrazioni.

    Queste gravi violazioni, confermano fonti di Melting Pot, colpiscono anche persone con disabilità, donne e minori.

    Eppure, l’agenzia continua a rafforzare la propria presenza nella regione: risale infatti a giugno 2024 il nuovo accordo ratificato con la Serbia, il quinto dopo quelli con Moldavia, Macedonia del Nord, Montenegro e Albania, mentre sono in corso negoziati con la Bosnia-Erzegovina.

    Tali accordi si conformano al regolamento adottato da Frontex nel 2019 che estende il proprio operato in qualsiasi Paese terzo, indipendentemente dal confine con l’Unione Europea, dove può dispiegare agenti ai quali spetta più potere esecutivo nel controllo delle persone in transito (tra il resto, la conferma dell’identità all’ingresso, il controllo documenti, l’accettazione o il respingimento dei visti, l’arresto delle persone prive di autorizzazione e la registrazione delle impronte).
    Frontex non può non sapere

    Alla luce di quanto riportato su BIRN ci si può interrogare sull’effettiva capacità di Frontex nel garantire il rispetto dei diritti umani nei Paesi e nelle operazioni di cui fa parte, dal momento che omettendo le segnalazioni si rende complice degli abusi commessi lungo i confini.

    Soltanto un mese fa un’inchiesta della BBC 4 informava che la Guardia costiera greca, anch’essa tristemente nota per i crimini internazionali commessi negli anni, sarebbe responsabile, nell’arco di tre anni, della morte in mare di oltre quaranta persone, lasciate volutamente in acqua o riportate nel Mediterraneo dopo aver raggiunto le isole greche.

    In merito Statewatch 5 riporta alcuni passi dei fascicoli relativi ai SIR contenuti nei report presentati al consiglio di amministrazione di Frontex, in cui si testimonia la responsabilità delle autorità greche: «L’ufficio (il Fundamental Rights Office appunto) considera credibile e plausibile che 7 persone furono respinte da Samos alle acque territoriali turche nell’agosto 2022 e abbandonate in mare dalla Guardia costiera ellenica, il che ha provocato l’annegamento di uno di loro», e ancora «Un migrante arrivò con la sua famiglia come parte di un gruppo di 22 persone a nord di Lesbo, 17 di loro furono presi da quattro uomini armati mascherati, caricati su un furgone e portati su una spiaggia a sud di Lesbo. Da qui furono respinti in Turchia su una barca e lasciati alla deriva su una zattera di salvataggio, in quella che l’Ufficio valuta come un’operazione coordinata che coinvolge ufficiali greci e individui sconosciuti che hanno agito in accordo».

    Via terra non va affatto meglio. È del 3 luglio la rivelazione, da parte di EUobserver 6, di alcuni documenti interni a Frontex in cui si dice che la Bulgaria avrebbe fatto pressione sui funzionari dell’Agenzia affinché ignorassero le violazioni dei diritti umani al confine con la Turchia in cambio del pieno accesso al confine.

    Nel marzo di quest’anno, invece, è stato reso pubblico un documento interno risalente al 2022 che descrive nel dettaglio le pratiche violente e disumane, deliberatamente ignorate sia da Frontex che dall’UE, subite dai richiedenti asilo nel momento in cui vengono respinti con forza verso la Turchia.

    Operando sul campo fra le varie frontiere risulta impossibile che l’Agenzia non sia al corrente di ciò che avviene e dei metodi utilizzati dalle forze dell’ordine per allontanare le persone migranti, tuttavia decide di non agire.

    Anzi, quando non è l’Agenzia stessa, con o senza forza, a praticare i respingimenti, comunque coadiuva gli abusi, come dimostra nuovamente una recente inchiesta dalla quale è emerso che tra il 2021 e il 2023 Frontex ha condiviso con soggetti libici 2.200 e-mail che comunicavano i dati esatti di geolocalizzazione delle imbarcazioni di rifugiati nel Mediterraneo, permettendone l’intercettazione illegale e il ritorno forzato in Libia.

    L’Agenzia, conclude l’inchiesta del BIRN, ha comunque riconosciuto il problema relativo alle omissioni e ne ha discusso, al di là dell’attività in Albania.

    Al momento la realtà resta preoccupante e continuamente da monitorare. Nemmeno l’uscita dell’ex direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, dimessosi per le evidenze di violazioni “di natura grave” dei diritti umani (e appena candidato alle elezioni europee con Rassemblement National), ha portato ad un vero cambio nelle sue politiche, perchè non c’è possibilità di riformarla.

    Frontex va abolita, per liberare tuttə.

    https://www.meltingpot.org/2024/07/abusi-al-confine-greco-albanese-e-le-omissioni-di-frontex

    #abus #Grèce #Albanie #frontières #migrations #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #push-backs #refoulements #SIR #refoulements_collectifs #violence

    • Frontex Officers Failing to Report Migrant Abuses on Albania-Greece Border

      EU border agents are failing to report rights violations committed against migrants and refugees on the Albanian-Greek border, according to an investigation by #BIRN.

      In February last year, Aija Kalnaja, then the acting head of the European Union’s border agency, Frontex, received a strongly-worded email from the person in charge of making sure the agency adheres to EU law and fundamental human rights in policing the bloc’s boundaries.

      To anyone unfamiliar with the bureaucratic language of Brussels, the subject line might look cryptic: “Albania, ping-pong pushbacks, and avoiding SIRs”.

      But the content was clear: a Frontex officer had just returned from deployment to the border between Albania and EU member Greece with a “very troublesome account” of what was happening there, Jonas Grimheden, head of Frontex’s Fundamental Rights Office, FRO, wrote in the email, obtained by BIRN.

      “Apart from stories of Greek police bringing migrants to the border, and Albanian police returning them in an endless ping-pong game,” Grimheden wrote, the officer said he and his colleagues had “implicit instructions not to issue SIRs”.

      A SIR is a Serious Incident Report, which Frontex officers are ‘obliged’ to file as soon as they became aware of a possible violation of the fundamental rights afforded migrants and refugees under international law, whether committed by border guards of countries that Frontex collaborates with or officers deployed directly by the agency.

      It was unclear who issued the ‘instructions’ the officer referred to.

      According to the officer, whose account was also obtained by BIRN in redacted form, so-called ‘pushbacks’ – in which police send would-be asylum seekers back over the border without due process, in violation of international human rights standards – are “a known thing within Frontex” and all the officer’s colleagues were “told not to write a serious incident report because it just went that way there”. Pushbacks, he was saying, were regularly occurring on the Albanian-Greek border.

      Frontex has faced years of criticism for failing to address rights violations committed by member-states in policing the bloc’s borders.

      Now, this BIRN analysis of internal Frontex documents and reporting from the field has unearthed serious indications of systematic pushbacks at the Albanian-Greek border as well as fresh evidence that such unlawful practices are often evading Frontex’s own rights monitoring mechanism.

      Asked whether rights violations were being underreported, a Frontex spokesman told BIRN that such claims were “completely and demonstrably false”.

      At Frontex, every officer is required to report any “suspected violations,” said Chris Borowski.

      Yet Grimheden, the FRO head, said underreporting remains a “highly problematic” issue within the agency. It “undermines the very system we are dependent on,” he told BIRN.
      ‘Sent back badly beaten’

      Three kilometres from Ieropigi, the last Greek village before the border with Albania, stands a Greek army building, disused for decades.

      On the grassy floor are signs of humans having passed through: packets of ready-made food; the ashes of a campfire; words carved in Arabic on the walls.

      Until autumn last year, dozens of migrants and refugees stopped here every day en route to Albania, hoping to then enter Kosovo or Montenegro, then Serbia and eventually Croatia or Hungary, both part of Europe’s passport-free Schengen zone. They would have originally reached Greece from Turkey, either by land or sea, but few see Greece as a final destination.

      When BIRN visited, the weather was wet and fog obscured the hill on the other side of the border, in Albania.

      “I used to meet beaten migrants and ask them if this happened in Albania and they used to reply: ‘They beat us and send us back, they take our money, mobile phones, expensive shoes. Everything they had that was expensive was taken and they were push-backed,” said Spyros Trassias, a local shepherd. “Sometimes they might shout ‘Policia’ and signalled that they were being beaten. Other times smugglers would beat them, take their money and send them back.”

      According to local residents, the number of refugees and migrants trying to cross the border near Ieropigi dropped dramatically after a network of smugglers was dismantled in September last year.

      BIRN did not come across any Greek border patrols, but the head of the Union of Border Guards of Kastoria, Kyriakos Papoutsidis, told BIRN the border is guarded 24-hours a day. Many of those they intercept, he said, have already applied for asylum on the Greek islands or in the capital, Athens. “Any migrant who comes to the area is advised to return to the city where they applied for asylum and must remain there,” Papoutsidis said.
      Warning of ‘collective expulsion’

      Frontex officers have been present on both sides of the border, under a 2019 agreement that launched the agency’s first ever joint operation outside the bloc.

      Just months after deploying, Frontex faced accusations of pushbacks being carried out by Albanian authorities.

      According to documents seen by BIRN, little has changed over the last five years. The FRO has repeatedly raised concerns about Albania’s non-compliance with lawful border management procedures, warning in multiple SIRs that “unlawful collective returns characterised by a lack of safeguards could amount to collective expulsion”.

      In one FRO report from November 2022, in reference to pushbacks, they went as far as to say that the “sum of alleged facts could indicate the existence of a pattern occurring at the border between Albania and Greece”.

      The European Commission, the EU’s executive arm, voiced similar concerns in its 2023 report on Albania’s progress towards EU accession, when it referred to “shortcomings identified in its return mechanism for irregular migrants” and cited continued reports of migrants “being returned to Greece without adequate pre-screening”.

      In July 2023, in a ‘due diligence’ assessment of plans for enhanced collaboration between Frontex and Albania, the FRO noted “cases of ill-treatment” and “allegations of irregular returns” of migrants to Greece. Yet it endorsed the new arrangement, which was rubber-stamped by Tirana and the EU two months later.

      Asked about the allegation of migrants and refugees becoming caught in a game of “endless ping-pong” between Greek and Albanian border police, Grimheden told BIRN: “We have seen and in some locations still see migrants being forced back and forth across borders in different locations in Europe. This is certainly problematic and the parts where Frontex can or can try to influence this, we have taken measures. But the issue is typically far from Frontex involvement”.

      “We see a number of concerns in several countries that we are operating in, and Albania is one of those. Some countries are more open about addressing identified problems and others less so, at least Albania belongs to the group that is not ignoring the problems.”
      Albania: ‘No irregular migrant is pushed back’

      Albanian authorities deny engaging in pushbacks. According to Albania’s Law on Aliens, anyone entering irregularly can be expelled, particularly if they intend only to transit across Albania. Data from the United Nations refugee agency, UNHCR, shows that in 2023, only 6.5 per cent of 4,307 apprehended migrants were referred to the asylum procedure.

      According to Serious Incident Reports seen by BIRN, groups of migrants and refugees are regularly apprehended either at the border or deep inside Albanian territory, taken to temporary holding facilities, transferred to nearby border crossing points, and told to cross back into Greece on foot.

      In all but one case, the Albanian authorities responded that the groups had been pre-screened – taking their basic information and making an initial assessment of their need for asylum – and served with removal orders.

      Neither the Greek Ministry of Citizens Protection nor Albania’s Ministry of Interior or General Directorate of Border Police responded to requests for comment.

      However, in exchanges with the FRO reviewed by BIRN, Albanian authorities rejected claims of systematic pushbacks.

      “No irregular migrant is pushed back,” the Albanian Ministry of Interior replied to the FRO in exchanges reviewed by BIRN. There was only one case in which four Albanian officers were found to have “led” a group of migrants back towards Greek territory and the officers were punished, it said.

      However, an investigation by the FRO, circulated in October 2023, said allegations of systematic pushbacks were “corroborated by all interviewed Frontex operational staff”.
      Intense discussions within Frontex about underreported violations

      In contrast to the widespread use of violence documented by the FRO in Frontex operations in Bulgaria or neighbouring Greece, most SIRs analysed by BIRN did not contain evidence of force being used by Albanian border police during alleged pushbacks, nor the direct involvement of Frontex personnel.

      One exception was a letter sent in August 2022 to the FRO by a Frontex officer serving in the Kakavije border region of southern Albania. The officer accused a Frontex colleague of mistreating two migrants by “hanging them” out of his vehicle while driving them.

      The letter states that upon being confronted about the incident, the officer in question laughed and claimed he had the protection of important people at Frontex HQ in Warsaw.

      Following up on the letter, the FRO found that despite the incident being “widely discussed” within the pool of Frontex officers on the ground, “no Serious Incident was reported, and no information was shared with the operational team”.

      The Frontex Press Office told BIRN that the officer involved was dismissed from the Frontex operation and his actions reported to his home country.

      The incident “served as a vital lesson and is now used in briefings for new officers to underscore the high standards expected of them”, the press office said.

      In his February 2023 email to Kalnaja, FRO head Grimheden urged her “send a message in the organisation that SIRs need to be issued when they become aware of possible fundamental rights situations – no excuses”.

      It is not clear from the documentation BIRN obtained whether Kalnaja, as acting Frontex head, responded to Grimheden’s email. She was replaced 12 days later when Hans Leijtens took on the leadership of Frontex as Leggeri’s successor.

      According to internal documents seen by BIRN, the issue of non-reporting of rights violations has been the subject of intense discussions within the Frontex Management Board, the agency’s main decision-making body, since at least September 2023.

      In January this year, the FRO issued a formal opinion on “addressing underreporting” to the Board, essentially flagging it as a serious issue beyond only Frontex operations in Albania.

      https://balkaninsight.com/2024/06/28/frontex-officers-failing-to-report-migrant-abuses-on-albania-greece-b

  • La Confessione

    Perché soltanto in Italia non è ancora scoppiato il caso degli abusi nella Chiesa cattolica? Perché il sistema di copertura degli abusatori è ancora in piedi ed efficace, coinvolge decine e decine di preti e vescovi ed è tacitamente approvato da papa Francesco. Il podcast La Confessione ricostruisce come la Chiesa italiana silenzia le denunce delle vittime, copre i preti sotto accusa e nasconde lo scandalo

    https://podcast24.fr/podcasts/la-confessione
    #podcast #audio #Eglise #Eglise_catholique #abus_sexuels #Italie #enquête #abus #silence #impunité #pape_François

  • 🤔 Peut-on invoquer les droits d’une IGPIA dans le cadre d’une procédure SYRELI ?

    👉 Décryptage du cas « Porcelaine de Limoges » avec Athenaïs Bouzidi https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/papier-expert/les-indications-geographiques-protegees-un-defi-pour-syreli

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    🤔 Can the rights of a PGI for craft and industrial products be invoked for a SYRELI procedure?

    👉 Analysis of the “Porcelaine de Limoges” case with Athénaïs Bouzidi https://www.afnic.fr/en/observatory-and-resources/expert-papers/protected-geographical-indications-a-challenge-for-syreli

    #Syreli #Afnic #domains #PGI #abuse
    #IGPIA #ndd #abus

  • Chasse aux #arrêts_de_travail : des médecins dénoncent « une campagne d’#intimidation générale »

    L’#Assurance_maladie contrôle des centaines de #médecins_généralistes qui prescriraient, selon elle, trop d’arrêts de travail, et leur impose des #quotas au mépris de la situation des patients. Des médecins, « écœurés », contestent la démarche.

    « Ça m’a fait perdre confiance en ma pratique. Je me suis dit : où est le problème, qu’est-ce que je ne fais pas bien ? » Comme d’autres confrères et consœurs, Valérie* [1] fait partie des 1000 médecins généralistes ciblés par l’Assurance maladie, parmi 6000 préalablement identifiés. En cause : leur trop grande prescription d’arrêts de travail. En juin 2023, le ministre de l’Économie, #Bruno_Le_Maire, dénonçait l’« explosion » des arrêts de travail et disait vouloir lutter contre les « #dérives » et « #abus ».

    Selon le gouvernement, les arrêts maladie auraient augmenté de 7,9 % en un an, et de 30 % entre 2012 et 2022, passant de 6,4 millions arrêts prescrits en 2012 à 8,8 millions désormais. Les #indemnités_journalières, versées par l’Assurance maladie pour compenser le salaire lors d’un arrête maladie, coûteraient 16 milliards d’euros par an.

    D’où la #chasse_aux_arrêts_de_travail, initiée par le gouvernement, qui se poursuit avec le projet de loi de financement de la #Sécurité_sociale pour 2024, adopté le 4 décembre dernier. Parmi les mesures que la #loi prévoit : la limitation à trois jours des arrêts de travail prescrits lors d’une téléconsultation, sauf prescription par le médecin traitant ou incapacité de se rendre chez le médecin. « Il y a véritablement eu un changement de politique en 2023 », constate Théo Combes, vice-président du syndicat des médecins généralistes MG France. L’homme voit dans cette offensive « une campagne d’intimidation générale contre la profession ».

    La particularité des patients oubliée

    « Qu’on discute de nos pratiques oui, mais on est dans le #soin, pas dans l’abus », réagit Valérie. Installée en Vendée, elle a eu la surprise de recevoir en juin dernier un courrier recommandé de l’Assurance maladie l’informant de sa trop grande prescription d’indemnités journalières. « En six ans, il y a une personne de 36 ans qui m’a demandé de lui faire un arrêt pour un rhume, que j’ai refusé. Là je suis d’accord qu’il ne faut pas abuser, mais ça m’est arrivé une fois ! » met-elle en avant. Surtout, les critères de contrôles ne tiennent selon elle pas du tout compte des particularités des patientèles.

    Partagée entre son cabinet en libéral et l’hôpital, Valérie est spécialisée en addictologie. « Pour les patients avec des problématiques d’addiction, on sait que les arrêts de travail, pour virus ou autre, sont source de rechute. Donc après, la pente est plus longue à remonter, et les arrêts aussi par conséquent. Pareil pour des patients qui ont des troubles psychiatriques, pour qui c’est vraiment source de décompensation », explique-t-elle. La professionnelle de santé a en effet constaté que ses prescriptions d’indemnités journalières ne font qu’augmenter : « Mais parce que ma patientèle ciblée augmente », précise-t-elle.

    Médecin depuis 30 ans dans le troisième arrondissement de Lyon et membre du Syndicat des médecins libéraux (SML), Laurent Negrello fait le même constat : « Je suis dans un quartier un peu défavorisé, avec 50 % de logements sociaux et plus de difficultés, ce qui impacte probablement mes quotas d’arrêts de travail », appuie-t-il. Contrôlé pour la deuxième fois en cinq ans, il insiste aussi sur le contexte sanitaire global, qu’il a vu nettement évoluer ces dernières années. « L’inflation des arrêts est à mon avis aussi due à des #conditions_de_travail qui sont devenues très difficiles. Les gens sont en #burn-out, ont des #accidents, une pression de rentabilité… ». Les conditions de travail (contraintes posturales, exposition à des produits toxiques, risque d’accidents, etc.) ne se sont globalement pas améliorées depuis 30 ans selon le ministère du Travail.

    Crainte de dépasser le quota

    Et il devient de plus en plus compliqué d’obtenir un rendez-vous chez un spécialiste. « À Lyon, il faut trois mois pour voir un orthopédiste ou un rhumatologue, et je ne parle même pas des psys, avec qui c’est impossible… », explique le généraliste. Plus les délais de prise en charge s’allongent, plus l’état d’un patient peut se dégrader et nécessiter un arrêt de travail. La #Caisse_nationale_d’Assurance_maladie (#Cnam) assure de son côté à Basta ! que ses données sont « standardisées » : « On essaie d’avoir des patientèles comparables. » La limite d’arrêts à ne pas dépasser, c’est plus de deux fois la moyenne du département. « Une approche purement statistique », déplore Théo Combes de MG France, qui pointe une « méthodologie contestable à plusieurs niveaux ».

    Alors que Michel Chevalier, médecin depuis 36 ans à Ousse, près de Pau, se remémore d’anciens contrôles par « entretiens confraternels », il déplore aujourd’hui « une absence de dialogue ». Après la réception d’un courrier recommandé en juin, il a été convoqué avec deux jeunes consœurs : « L’une exerce dans un quartier très pauvre de Pau et une autre dans un désert médical. Elle a 34 ans et n’en dort plus depuis le mois de juin », rapporte ce membre du Syndicat de la médecine générale (SMG). Valérie confie elle aussi s’être sentie « stressée d’être pointée du doigt » à la réception de ce courrier : « Je trouve la procédure violente en elle-même. Sachant qu’on a des délégués médicaux qui viennent régulièrement nous voir, avec qui ça se passe très bien. Je pense que ça aurait pu être fait autrement », met-elle en avant.

    À la réception du courrier, chaque médecin dispose d’un mois pour répondre et faire ses observations à l’Assurance maladie, qui décidera si les éléments apportés sont « suffisamment probants », nous détaille le service communication de la Cnam. Si ce n’est pas le cas, la procédure prévoit qu’il soit proposé au médecin ciblé une #mise_sous_objectif (#MSO) : pendant six mois, ce dernier doit réduire ses prescriptions d’arrêts de travail de 15 à 20 %. Ce que Valérie a refusé, comme de nombreux autres : « Heureusement, car au sein du cabinet médical où j’exerce, plus personne ne prend de nouveaux patients sauf moi quand ça touche des problématiques d’addiction. »

    Déjà contrôlé il y a cinq alors, Laurent Negrello avait alors accepté « la mise sous objectif » : « Pendant six mois, j’ai réduit mon temps de travail, donc les patients allaient voir ailleurs et j’ai atteint mes objectifs », relate-t-il avec ironie. Cette année, il a refusé ce procédé qu’il juge « très pesant et stressant » : « On travaille toujours dans la #crainte de dépasser le quota qui nous est imparti. Mais on est un peu dans le #flou parce qu’on ne sait pas vraiment quels sont les quotas exacts. On nous dit qu’il faut baisser de 20 %, mais c’est une zone grise, on ne sait pas comment baisser nos arrêts. Quels sont les critères ? On a face à nous des situations concrètes, donc baisser de 20 % c’est absurde », critique-t-il.

    En cas de refus de mise sous objectif, les médecins peuvent être « mis sous accord préalable », procédure pendant laquelle un médecin conseil de l’Assurance maladie doit valider tous les arrêts de travail prescrits par le médecin sous 48 heures. Valérie raconte avoir été convoquée à une commission ayant pour but de statuer sur sa soumission à ce dispositif en novembre.

    Convoqués à des « #commissions_des_pénalités »

    « Ça m’a occasionné beaucoup de stress et pris beaucoup de temps. J’ai préparé un argumentaire, fait des recherches. Sans compter les deux heures de route pour 30 minutes d’entretien prises sur ma journée de repos », relate-t-elle. La commission a voté à l’unanimité le refus de sa « #mise_sous_accord_préalable ». Mais la professionnelle de santé a dû attendre la réception d’un courrier de la CPAM, mi-décembre, pour avoir la confirmation de « l’abandon de la procédure ».

    Le 7 novembre dernier, Théo Combes a participé à l’une de ces « commissions des pénalités », notamment composées de représentants syndicaux et médecins d’un côté, et de représentants des employeurs et salariés de l’autre. « Des médecins sont venus s’expliquer. Ils étaient proches de la rupture d’un point de vue moral et psychologique, avec des risques suicidaires qui transparaissaient. J’aurais pensé que leurs récits auraient ému un mort, même si c’est peut-être un peu fort. Mais après quatre heures d’audition on s’est dit que c’était vraiment une #mascarade. C’est un système pour broyer les gens, les humilier », décrit le vice-président de MG France, écœuré.

    À l’issue des contrôles, des #pénalités_financières de plusieurs milliers d’euros peuvent s’appliquer s’il n’y a pas d’évolution du nombre de prescriptions d’arrêts de travail. « C’est très, très infantilisant. On a l’impression d’être dans la #punition plutôt que dans le dialogue, et de faire ça intelligemment », déplore Valérie, qui craint pour ses patients tout autant que pour sa profession. « On peut très bien imaginer maintenant que les médecins vont sélectionner les patients et ne plus s’occuper de ceux qui leur font faire trop d’arrêts », ajoute Michel Chevalier.

    L’Assurance maladie espère de son côté avoir un bilan chiffré de ces mesures « autour du deuxième trimestre 2024 ». Michel Chevalier, lui, ne sera plus là : « Le côté dramatique, c’est que j’ai décidé de prendre ma retraite à la suite de ces contrôles, ça a été la goutte d’eau. » Comme il n’a pas trouvé de successeur, ses patients n’ont plus de médecin depuis le 1er janvier.

    https://basta.media/chasse-aux-arrets-de-travail-medecins-denoncent-campagne-intimidation

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1041346
    #santé #France #humiliation #infantilisation #macronisme

    • Pourquoi ce médecin prescrit trois fois plus d’arrêts de travail que la moyenne à #Dieppe

      Le docteur Tribillac exerce au #Val-Druel, à Dieppe. Sanctionné pour avoir délivré trop d’arrêts de travail, il tente en vain d’expliquer la situation à l’Assurance maladie.

      « Je suis un lanceur d’alerte ! », commence #Dominique_Tribillac. Depuis 35 ans, ce médecin de famille exerce dans le quartier du Val-Druel, à Dieppe (Seine-Maritime). Âgé de 70 ans, il est ce que l’on appelle « un retraité actif ».

      Il devrait prendre bientôt sa retraite, avant l’été, mais un problème administratif l’occupe fortement depuis plusieurs mois : l’Assurance maladie l’a sanctionné car il donne trop d’arrêts de travail.

      La Sécurité sociale a fait les calculs, entre le 1er septembre 2022 et le 28 février 2023 : 4 911 journées indemnisées ont été prescrites.
      Trois fois plus d’arrêts de travail

      « Le nombre d’indemnités journalières versées, rapporté au nombre de patients a été de 16,7 », indique l’Assurance maladie. « En Normandie et au sein du groupe de communes semblables au sens de l’indice de défavorisation de l’Insee, l’institut national de la statistique et des études économiques, pour les praticiens exerçant une activité comparable, le nombre d’indemnités journalières versées par nombre de patients est de 5,90. »

      Le médecin du Val-Druel prescrit donc trois fois plus d’arrêts de travail.

      Une lettre aux médecins de France

      Mais le docteur Tribillac ne se laisse pas faire. Il conteste notamment l’indice de défavorisation mis en place par la Sécurité sociale. Selon lui, il ne reflète pas la réalité. « Il est très mal conçu, souligne-t-il. Il fait le contraire de ce qu’il est censé faire ». C’est-à-dire protéger et prendre en compte les populations les plus fragiles.

      « J’ai débusqué une véritable saloperie, ajoute Dominique Tribillac qui a le sentiment qu’on l’empêche d’aller au bout de sa démarche : « L’Assurance maladie essaie d’étouffer l’affaire. »

      Il va même envoyer une lettre ouverte à tous les médecins de France pour raconter son histoire et sa trouvaille concernant le référentiel sécu.
      Une population défavorisée

      Ce docteur, très apprécié de ses patients, ne cesse d’invoquer l’usure de ces derniers, dans un quartier prioritaire de la cité dieppoise. « Un quartier fermé avec une patientèle qui ne bouge pas, précise le professionnel. En tant que médecin de famille, j’ai vu les grands-parents, les parents, les enfants… Les gens qui vivent là y restent. »

      Au Val-Druel, « plus de la moitié de la population vit sous le seuil de pauvreté, indique-t-il. Les #polypathologies sont donc plus fréquentes, en moyenne deux fois plus élevées ». Le secteur dans lequel le médecin évolue est principalement touché par des problématiques psychologiques, de l’obésité, de chômage, de tabac, de cancers…

      Manque de spécialistes

      Selon lui, la moitié des habitants de ce quartier populaire arrive à la retraite invalide. « Ce sont des travailleurs qui ont des conditions de travail difficiles, explique Dominique Tribillac. Jusqu’à 45 ans, ils n’ont pas d’arrêt, et après ça commence.

      L’usure se déclare à cause de mouvements répétitifs qui sollicitent les mêmes membres ou muscles. « On arrive donc à une situation bancale en fin de carrière. Le patient peut-il encore travailler ou non, faire le même job… »

      Le médecin pointe aussi le manque de spécialistes dont les délais d’attente pour un rendez-vous sont de plus en plus élevés : « Les gens ne peuvent donc pas reprendre leur travail sans les avoir vus. »

      Un médecin dans l’#illégalité

      Mais tous ces arguments n’ont pas convaincu l’Assurance maladie. Ainsi, le docteur Tribillac a été sanctionné malgré un avis favorable d’une commission consultative pour le laisser exercer sereinement. C’était sans compter sur la direction de la CPAM de Seine-Maritime qui en a décidé autrement. Cette dernière n’a d’ailleurs pas souhaité répondre à nos questions au sujet du médecin du Val-Druel.

      Il exerce donc sa fonction dans l’illégalité depuis le 1er février 2024, refusant de remplir des papiers supplémentaires permettant à un médecin-conseil de vérifier les prescriptions d’arrêts maladie du docteur Tribillac. On appelle cette procédure une MSAP, une mise sur accord préalable.

      « Pas coupable »

      « Je ne suis pas coupable ! », argue-t-il. « Je ne remplirai pas ces dossiers. Ce médecin-conseil devrait plutôt voir ou appeler lui-même mes patients. »

      Conséquence pour ces derniers : ils ne peuvent plus toucher leurs indemnités journalières versées par la Sécu.

      https://actu.fr/normandie/dieppe_76217/pourquoi-ce-medecin-prescrit-trois-fois-plus-darrets-de-travail-que-la-moyenne-

  • Les experts de l’#ONU exhortent la #France à protéger les #enfants contre l’#inceste et toutes les formes d’#abus_sexuels | #OHCHR
    https://www.ohchr.org/fr/press-releases/2024/01/un-experts-urge-france-protect-children-incest-and-all-forms-sexual-abuse

    Les experts ont constaté que, selon les allégations, les enfants sont victimes d’abus sexuels ou courent un risque élevé d’abus sexuels de la part de leurs #pères ou d’auteurs présumés contre lesquels il existe des preuves crédibles et troublantes d’abus sexuels incestueux.

    « Malgré ces allégations, et en l’absence d’enquête adéquate, ces enfants sont placés sous la garde des pères contre lesquels les allégations sont faites, et les #mères sont sanctionnées pour enlèvement d’enfant pour avoir essayé de protéger leurs enfants », ont-ils déclaré.

    « Alors que la France a répondu à ces allégations, les enfants concernés restent sous la garde des auteurs présumés », ont déclaré les experts. « Nous sommes particulièrement préoccupés par la manière dont le #tribunal_des_affaires_familiales a permis à l’auteur présumé d’accuser la mère d’aliénation parentale afin de miner les allégations d’abus sexuels sur les enfants et détourner l’attention des abus présumés auxquels ils soumettent leurs partenaires et leurs enfants. »

    Ils ont exhorté les autorités à respecter le "#principe_de_précaution" et le "#principe_de_diligence_raisonnable" en matière de #protection_de_l'enfance, en particulier pendant les procédures judiciaires, afin de permettre une approche préventive dans les cas d’incertitude et de complexité.

    L’opinion de l’enfant doit être recherchée et respectée, et l’#intérêt_supérieur_de_l'enfant doit être la considération première avant que les décisions de garde ne soient prises en faveur de l’un des parents, ont-ils déclaré.

    « Il est essentiel de sensibiliser les responsables de l’application de la loi et de la justice et de renforcer leur capacité à surveiller et à traiter efficacement les violations des droits de l’homme dont sont victimes ces enfants et leurs mères », ont-ils déclaré.

    « Des mesures urgentes doivent être prises pour remédier à la situation pénible dans laquelle les enfants et leurs mères sont affectés par l’absence de prise en compte adéquate de leurs besoins », ont déclaré les experts.

    #justice

  • CARTOGRAPHIE DES VIOLATIONS SUBIES PAR LES PERSONNES EN DEPLACEMENT EN TUNISIE

    L’#OMCT publie aujourd’hui un rapport, « Les routes de la torture : Cartographie des violations subies par les personnes en déplacement en Tunisie » qui met en lumière l’ampleur et la nature des violations des #droits_humains commises en Tunisie entre juillet et octobre 2023 à l’encontre de migrant-e-s, réfugié-e-s et demandeurs d’asile.

    Depuis octobre 2022, la Tunisie a connu une intensification progressive des violations à l’encontre des personnes en déplacement essentiellement d’origine subsaharienne, sur fond de #discrimination_raciale. Le discours présidentiel du 21 février 2023 les a rendues encore plus vulnérables, et le mois de juillet 2023 a représenté un tournant dans l’échelle et le type des violations des #droits_humains commises, avec une recrudescence des #arrestations et des #détentions_arbitraires, des #déplacements_arbitraire et forcés, ayant donné lieu à des #mauvais_traitement, des #tortures, des #disparitions et, dans plusieurs cas, des #décès. Ce cycle d’#abus commence avec une situation d’irrégularité qui accroît leur #vulnérabilité et qui les expose au risque de violations supplémentaires.

    Cependant, malgré l’ampleur des violations infligées, celles-ci ont été très largement passées sous silence, invisibilisant encore davantage une population déjà marginalisée. A traves les voix de victimes directes de violations ayant voulu partager leurs souffrances avec l’OMCT, ce rapport veut contribuer à contrer cette dynamique d’#invisibilisation des migrant-e-s, refugié-e-s et demandeurs d’asile résidant en Tunisie, qui favorise la perpétuation des violations et un climat d’#impunité.

    Le rapport s’appuie notamment sur plus de 30 entretiens avec des représentant-e-s d’organisations partenaires et activistes travaillant sur tout le territoire tunisien et une vingtaine de témoignages directes de victimes de violence documentés par l’OMCT et ses partenaires. Il dresse une cartographie des violations infligées aux migrants, parmi lesquelles les expulsions forcées des logements, les #violences physiques et psychologiques exercées aussi bien par des citoyens que par des agents sécuritaires, le déni d’#accès_aux_soins, les arrestations et détentions arbitraires, les déplacements arbitraires et forcés sur le territoire tunisien, notamment vers les zones frontalières et les #déportations vers l’Algérie et la Libye. Les interactions avec les forces de l’ordre sont généralement assorties de torture et mauvais traitements tandis que les victimes sont privées, dans les faits, du droit d’exercer un recours contre ce qu’elles subissent.

    Cette #violence institutionnelle touche indistinctement les personnes en déplacement, indépendamment de leur statut, qu’elles soient en situation régulière ou non, y compris les réfugié-e-s et demandeurs d’asile. Les victimes, hommes, femmes, enfants, se comptent aujourd’hui par milliers. A la date de publication de ce rapport, les violations se poursuivent avec une intensité et une gravité croissante, sous couvert de lutte contre l’immigration clandestine et les réseaux criminels de trafic d’êtres humains. La Tunisie, en conséquence, ne peut être considérée comme un pays sûr pour les personnes en déplacement.

    Ce rapport souhaite informer les politiques migratoires des décideurs tunisiens, européens et africains vers une prise en compte décisive de l’impact humain dramatique et contre-productif des politiques actuelles.

    https://omct-tunisie.org/2023/12/18/les-routes-de-la-torture

    #migrations #asile #réfugiés #Tunisie #rapport

    ping @_kg_

  • People are beaten, sexually abused and killed in Libyan detention centres

    Refugees, asylum seekers and migrants held inside detention centres in Tripoli, Libya, have been assaulted, sexually abused, beaten, killed and systematically deprived of the most basic humane conditions, including proper access to food, water, sanitation and medical care, says Médecins Sans Frontières (MSF).

    MSF calls for an end to arbitrary detention in Libya, and calls for all refugees, asylum seekers and migrants to be released from detention centres and provided with meaningful protection, safe shelter and to safe and legal pathways out of Libya.

    Over the course of 2023, until MSF ended medical activities in Tripoli in August, our teams witnessed and documented living conditions and abuses inside Abu Salim and Ain Zara detention centres, where thousands of people, including women and children, continue to be arbitrarily detained. Our findings are contained in a report – “You’re going to die here” – Abuse in Abu Salim and Ain Zara detention centres – published by MSF today.

    “We continue to be horrified by what we saw in Abu Salim and Ain Zara detention,” says Federica Franco, MSF head of mission for Libya. “People are utterly dehumanised, exposed every day to cruel and degrading conditions and treatment.”

    According to our teams who provided medical care in both centres, mass and indiscriminate violence was frequently used by guards, often as a punishment for disobeying orders, requesting medical care, asking for extra food or in retaliation to protests or attempted escapes.

    In Abu Salim detention centre, where only women and children are held, women spoke of how they were subjected to strip searches, intimate body searches, beatings, sexual assault and rape. These abuses were perpetrated by guards but also by men, often armed, who were brought in from outside the detention centre.

    “That night, she [the guard] took us to another room in the prison, where there were men without uniforms, but maybe they were guards or policemen,” says a woman detained in Abu Salim. “When it was my turn, the woman told me that if I had sex with him, I could get out.

    “I started screaming. She pulled me out and hit me with a pipe and I was taken back to the big room with the other women. There she told me: ‘You’re going to die here.’”

    In Ain Zara detention centre, detained men told MSF staff about practices of forced labour, extortion and other human rights abuses, including the deaths of at least five people due to violence or lack of access to lifesaving medical care.

    Our teams documented 71 violent incidents that took place between January and July 2023, with medics treating injuries including bone fractures, wounds on arms and legs, black eyes and impaired vision.

    Detained people reported that violence was regularly combined with various forms of intimidation and degrading treatment, such as dirty water and sewage being thrown at women and children, meals being withheld as a form of punishment, and being forced to spend days without light.

    “Hundreds of people are crammed into cells so overcrowded that they are forced to sleep in a sitting position, with sewage spills from overflowing septic tanks and clogged toilets,” says Franco. “There is not enough food and there is too little water to drink or wash with. Combined with the awful conditions, this has contributed to the spread of infectious diseases such as acute watery diarrhoea, scabies and chicken pox.”

    Essential relief items such as clothing, mattresses, hygiene kits, blankets, diapers and baby milk formula were distributed only irregularly and were reportedly regularly confiscated by the guards. In Abu Salim detention centre, MSF teams saw the impact on babies’ skin from makeshift diapers made from towels and plastic bags, and from the prolonged use of diapers. Women said they were forced to use pieces of blanket or torn-up T-shirts as makeshift tampons and sanitary pads.

    On top of the dire living conditions and inhumane treatment, people held in Abu Salim and Ain Zara were regularly denied access to lifesaving medical care and humanitarian assistance. MSF teams were denied access to both detention centres, and to individual cells within the centres, dozens of times.

    While in Abu Salim, our teams documented more than 62 incidents of interference in our medical assistance, including breaches of medical confidentiality and the confiscation of essential relief items.

    MSF lost access to Ain Zara detention centre completely in early July, and to Abu Salim detention centre in August 2023. This loss of access and frequent obstructions to the provision of principled humanitarian assistance were a contributing factor to our decision to end activities in Tripoli.

    “After seven years of providing medical and humanitarian assistance in Tripoli, the appalling situation we have witnessed in Libya’s detention centres is a direct reverberation of Europe’s harmful migration policies aimed at preventing people from leaving Libya at all costs and forcefully returning them to a country that is not safe for them,” says Franco.

    https://www.msf.org/people-are-beaten-sexually-abused-and-killed-libyan-detention-centres
    #Libye #centres_de_détention #détention #abus_sexuels #torture #violence #migrations #asile #réfugiés

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

    • Le Pakistan déclenche une vague d’abus contre les Afghans

      Les nouveaux efforts déployés par les autorités pakistanaises pour « convaincre » les Afghans de retourner en Afghanistan peuvent se résumer en un mot : abus.

      La police et d’autres fonctionnaires ont procédé à des #détentions_massives, à des #raids nocturnes et à des #passages_à_tabac contre des Afghans. Ils ont #saisi_des_biens et du bétail et détruit des maisons au bulldozer. Ils ont également exigé des #pots-de-vin, confisqué des bijoux et détruit des documents d’identité. La #police pakistanaise a parfois harcelé sexuellement des femmes et des filles afghanes et les a menacées d’#agression_sexuelle.

      Cette vague de #violence vise à pousser les réfugiés et les demandeurs d’asile afghans à quitter le Pakistan. Les #déportations que nous avons précédemment évoquées ici sont maintenant plus nombreuses – quelque 20 000 personnes ont été déportées depuis la mi-septembre. Les menaces et les abus en ont chassé bien plus : environ 355 000.

      Tout cela est en totale contradiction avec les obligations internationales du Pakistan de ne pas renvoyer de force des personnes vers des pays où elles risquent clairement d’être torturées ou persécutées.

      Parmi les personnes expulsées ou contraintes de partir figurent des personnes qui risqueraient d’être persécutées en Afghanistan, notamment des femmes et des filles, des défenseurs des droits humains, des journalistes et d’anciens fonctionnaires qui ont fui l’Afghanistan après la prise de pouvoir par les talibans en août 2021.

      Certaines des personnes menacées s’étaient vu promettre une réinstallation aux États-Unis, au Royaume-Uni, en Allemagne et au Canada, mais les procédures de #réinstallation n’avancent pas assez vite. Ces gouvernements doivent agir.

      L’arrivée de centaines de milliers de personnes en Afghanistan « ne pouvait pas arriver à un pire moment », comme l’a déclaré le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés. Le pays est confronté à une crise économique durable qui a laissé les deux tiers de la population dans le besoin d’une assistance humanitaire. Et maintenant, l’hiver s’installe.

      Les nouveaux arrivants n’ont presque rien, car les autorités pakistanaises ont interdit aux Afghans de retirer plus de 50 000 roupies pakistanaises (175 dollars) chacun. Les agences humanitaires ont fait état de pénuries de tentes et d’autres services de base pour les nouveaux arrivants.

      Forcer des personnes à vivre dans des conditions qui mettent leur vie en danger en Afghanistan est inadmissible. Les autorités pakistanaises ont déclenché une vague d’#abus et mis en danger des centaines de milliers de personnes. Elles doivent faire marche arrière. Rapidement.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/11/29/le-pakistan-declenche-une-vague-dabus-contre-les-afghans
      #destruction #harcèlement

  • 📢⚠️ Dernier jour pour répondre aux consultations publiques :
    1⃣ Dispositif fédéré de vérification des données titulaire
    2⃣ Sanctions graduées des bureaux d’enregistrement ne respectant pas leurs engagements de lutte contre les abus.

    ➡️ https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/actualites/lutte-contre-les-abus-2-consultations-publiques-pour-renforcer-la-cooperation-

    –--------------------

    📢⚠️ Last day to answer our public consultations :
    1⃣ Common system for verifying holder’s data
    2⃣ Graduated sanctions on registrars who do not fullfil their commitments regarding the fight against abuse

    ➡️ https://www.afnic.fr/en/observatory-and-resources/news/fight-against-abuse-two-public-consultations-to-strengthen-cooperation-with-th

    #Afnic #PointFR #Abus #Numérique #ndd #domaines #DotFR #ccTLDs #Abuse

  • #Of_Land_and_Bread

    « #B'Tselem – le centre israélien d’information pour les droits de l’homme dans les #territoires_occupés – a promu en 2007 un projet qui consistait à donner des caméras vidéo aux Palestinien.ne.s en Cisjordanie afin qu’ils/elles puissent documenter les violations des droits de l’homme qu’ils étaient contraint.e.s de subir sous l’occupation israélienne. Ces #enregistrements_vidéo bruts capturent de la manière la plus simple et la plus efficace les abus quotidiens et implacables commis à répétition par les colons illégaux et l’armée contre les Palestinien.ne.s. Au fil des ans, tous ces films sont devenus des #archives vivantes et malheureusement en constante expansion des #abus incessants et de la violence dont souffre la population palestinienne et avec lesquels elle doit vivre. Of Land and Bread rassemble certains de ces courts métrages dans un long métrage documentaire qui n’est indéniablement pas facile à regarder. La brutalité des colons et de l’armée n’épargne personne. Et pourtant, il est nécessaire de voir pour bien saisir et comprendre l’ampleur du cycle sans fin des violations des droits de l’homme auxquelles les Palestinien.ne.s sont confronté.e.s, alors que le monde regarde obstinément de l’autre côté. »


    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/59534_0
    #film #documentaire #film_documentaire #Cisjordanie #Palestine #colonisation #Israël #terre #armée_israélienne #violence #humiliations #destruction #brutalité #arrestations_arbitraires #menaces #insultes #provocation #documentation #droits_humains #archive #à_voir

  • [L’actualité en 3D] Le financement public des cultes a-t-il encore un avenir ?
    https://www.radiopanik.org/emissions/lactualite-en-3d/le-financement-public-des-cultes-a-t-il-encore-un-avenir

    Dans ce nouvel épisode de l’Actualité en 3D, on revient sur une thématique qui, tel un serpent de mer, revient régulièrement à la une de l’actualité belge : le système du financement public des cultes belge et plus généralement la façon dont nos autorités politiques gèrent le fait religieux ou philosophique. Une thématique que nous avions déjà abordée en février 2019, puis développée en nous attardant à la situation de l’Islam en Belgique ou aux débats entourant le principe de laïcité et au mouvement qui le défend. Pourquoi en reparler aujourd’hui ? Parce que, ces derniers mois, il est peu de dire que la question de la reconnaissance et du financement des cultes a refait surface, de façon d’ailleurs assez confuse sinon paradoxale. C’est tout d’abord le retour du scandale des #abus_sexuels commis au sein (...)

    #religions #laïcité #régions #autorité_fédérale #bouddhisme #ministre_de_la_justice #exécutif_des_musulmans #église #religions,laïcité,régions,autorité_fédérale,bouddhisme,ministre_de_la_justice,abus_sexuels,exécutif_des_musulmans,église
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/lactualite-en-3d/le-financement-public-des-cultes-a-t-il-encore-un-avenir_16581__1.mp3

  • [L’actualité en 3D] Vocabulaire politique : Financement public des cultes - Le financement public des cultes a-t-il encore un avenir ?
    https://www.radiopanik.org/emissions/lactualite-en-3d/le-financement-public-des-cultes-a-t-il-encore-un-avenir/#16572

    Vocabulaire politique : Financement public des cultes

    Dans ce nouvel épisode de l’Actualité en 3D, on revient sur une thématique qui, tel un serpent de mer, revient régulièrement à la une de l’actualité belge : le système du financement public des cultes belge et plus généralement la façon dont nos autorités politiques gèrent le fait religieux ou philosophique. Une thématique que nous avions déjà abordée en février 2019, puis développée en nous attardant à la situation de l’Islam en Belgique ou aux débats entourant le principe de laïcité et au mouvement qui le défend. Pourquoi en reparler aujourd’hui ? Parce que, ces derniers mois, il est peu de dire que la question de la reconnaissance et du financement des cultes a refait surface, de façon d’ailleurs assez confuse (...)

    #religions #laïcité #régions #autorité_fédérale #bouddhisme #ministre_de_la_justice #abus_sexuels #exécutif_des_musulmans #église #religions,laïcité,régions,autorité_fédérale,bouddhisme,ministre_de_la_justice,abus_sexuels,exécutif_des_musulmans,église
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/lactualite-en-3d/le-financement-public-des-cultes-a-t-il-encore-un-avenir_16572__0.mp3

  • « Le #viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent

    Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.

    Au milieu de la conversation, Aissata tressaille. Adama, elle, manque plusieurs fois de faire tomber son bébé de 2 mois, gros poupon emmailloté dans un body blanc, qu’elle allaite le regard absent. Les yeux de Perry se brouillent : elle a vu trop de #violence. Ceux de Fanta sont devenus vitreux : elle est là, mais plus vraiment là. Grace regrette sa sécheresse oculaire, elle aimerait tant pleurer et hurler, peut-être la croirait-on et l’aiderait-on davantage, mais elle ne sait pas où ses larmes sont parties. Nadia sourit en montrant les cicatrices des brûlures de cigarettes qui constellent sa poitrine, comme pour s’excuser de cette vie qui l’a fait s’échouer ici. Stella porte ses lunettes de soleil à l’intérieur, et explose de rire en racontant qu’elle a été vendue quatre fois.

    Tous ces détails, ces marques de la #barbarie inscrite dans le #corps des femmes migrantes, le docteur Jérémy Khouani les observe depuis ses études de médecine. Généraliste dans une maison de santé du 3e arrondissement de Marseille – avec 55 % de ses habitants au-dessous du seuil de pauvreté, c’est l’un des endroits les plus pauvres de France –, il soigne les bobos, les angines et les gastros, mais voit surtout le #traumatisme surgir face aux mots « #excision », « #Libye », « #traite » ou « viol ».

    Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, il a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.

    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, #Jérémy_Khouani a lancé une grande enquête de #santé_publique pour mesurer l’#incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.

    « Un impondérable du #parcours_migratoire »

    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des #mutilations_génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse #Anne_Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.

    L’absence de logement, de compagnon et les antécédents de violence apparaissent comme des facteurs de risque du viol. « Le débat, ce n’est même pas de savoir si elles ont vocation à rester sur le territoire ou pas, mais, au moins, que pendant tout le temps où leur demande est étudiée, qu’elles ne soient pas violées à nouveau, elles sont assez traumatisées comme ça », pose le médecin généraliste.

    Il faut imaginer ce que c’est de soigner au quotidien de telles blessures, de rassembler 273 récits de la sorte en six mois – ce qui n’est rien par rapport au fait de vivre ces violences. L’expression « #traumatisme_vicariant » qualifie en psychiatrie le traumatisme de seconde ligne, une meurtrissure psychique par contamination, non en étant exposé directement à la violence, mais en la documentant. « Heureusement, j’avais une psychologue pour débriefer les entretiens, évoque Anne Desrues. Moi, ce qui m’a aidée, c’est de savoir que celles qu’on rencontrait étaient aussi des femmes fortes, qui avaient eu le courage de partir, et de comprendre leur migration comme une #résistance à leur condition. » Le docteur Khouani, lui, érige cette étude comme rempart à son sentiment d’impuissance.

    Le Monde, pendant quarante-huit heures, a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude. Certaines sont sous obligation de quitter le territoire français (OQTF), risquant l’expulsion. Mais elles voulaient que quelqu’un entende, note et publie tout ce qu’elles ont subi. Dans le cabinet du médecin, sous les néons et le plafond en contreplaqué, elles se sont assises et ont parlé.

    Lundi, 9 heures. Ogechi, surnommée « Perry », 24 ans. Elle regarde partout, sauf son interlocuteur. Elle a une croix autour du cou, une autre pendue à l’oreille, porte sa casquette à l’envers. Elle parle anglais tout bas, en avalant la fin des mots. Elle vient de Lagos, au Nigeria. Jusqu’à son adolescence, ça va à peu près. Un jour, dans la rue, elle rencontre une fille qui lui plaît et l’emmène chez elle. Son père ne supporte pas qu’elle soit lesbienne : il la balance contre le mur, la tabasse, appelle ses oncles. Ils sont maintenant cinq à se déchaîner sur Perry à coups de pied. « Ma bouche saignait, j’avais des bleus partout. »

    Perry s’enfuit, rejoint une copine footballeuse qui veut jouer en Algérie. Elle ne sait pas où aller, sait seulement qu’elle ne peut plus vivre chez elle, à Lagos. L’adolescente, à l’époque, prend la route : Kano, au nord du pays, puis Agadez, au Niger, où un compatriote nigérian, James, l’achète pour 2 000 euros et la fait entrer en Libye. Elle doit appeler sa famille pour rembourser sa dette. « Je n’ai pas de famille ni d’argent, je ne vaux rien », lui répond Perry. Une seule chose a de la valeur : son corps. James prélève ses cheveux, son sang, fait des incantations vaudoues « pour me contrôler ». A 15 ans, elle est prostituée dans un bordel sous le nom de « Blackgate ».

    « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? »

    Son débit est monocorde, mais son récit est vif et transporte dans une grande maison libyenne divisée en « chambres » avec des rideaux. Un lit par box, elles sont sept femmes par pièce. « Des vieilles, des jeunes, des enceintes. » Et les clients ? « Des Africains, des Arabes, des gentils, des violents. » En tout, une cinquantaine de femmes sont exploitées en continu. « J’aurais jamais pensé finir là, je ne pouvais pas imaginer qu’un endroit comme ça existait sur terre », souffle-t-elle.

    Perry passe une grosse année là-bas, jusqu’à ce qu’un des clients la prenne en pitié et la rachète pour l’épouser. Sauf qu’il apprend son #homosexualité et la revend à une femme nigériane, qui lui paye le voyage pour l’Europe pour la « traiter » à nouveau, sur les trottoirs italiens cette fois-ci. A Sabratha, elle monte sur un bateau avec 150 autres personnes. Elle ne souhaite pas rejoindre l’Italie, elle ne veut que fuir la Libye. « Je ne sais pas nager. Je n’avais pas peur, je n’étais pas heureuse, je me demandais seulement comment un bateau, ça marchait sur l’eau. » Sa première image de l’Europe : Lampedusa. « J’ai aimé qu’il y ait de la lumière 24 heures sur 24, alors que chez nous, la nuit, c’est tout noir. »

    Mineure, Perry est transférée dans un foyer à Milan, où « les gens qui travaillent avec James m’ont encore fait travailler ». Elle tape « Quel est le meilleur pays pour les LGBT ? » dans la barre de recherche de Google et s’échappe en France. « Ma vie, c’est entre la vie et la mort, chaque jour tu peux perdre ou tu peux gagner », philosophe-t-elle. Le 4 septembre 2020, elle se souvient bien de la date, elle arrive dans le sud de la France, une région qu’elle n’a pas choisie. Elle suit un cursus de maroquinerie dans un lycée professionnel avec, toujours, « la mafia nigériane » qui la harcèle. « Ils m’ont mis une arme sur la tempe, ils veulent que je me prostitue ou que je vende de la drogue. C’est encore pire parce que je suis lesbienne, ils disent que je suis une abomination, une sorcière… »

    A Marseille, elle fait trois tentatives de suicide, « parce que je suis trop traumatisée, j’arrive plus à vivre, mais Dieu m’a sauvée ». A 24 ans, pour qui Perry existe-t-elle encore ? « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? Je regrette d’avoir quitté le Nigeria, je ne pensais pas expérimenter une vie pareille », termine-t-elle, en s’éloignant dans les rues du 3e arrondissement.

    Lundi, 11 heures. A 32 ans, la jeunesse de Fanta semble s’être dissoute dans son parcours. Elle a des cheveux frisés qui tombent sur son regard sidéré. Elle entre dans le cabinet les bras chargés de sacs en plastique remplis de la lessive et des chaussures qu’elle vient de se procurer pour la rentrée de ses jumeaux en CP, qui a eu lieu le matin même. « Ils se sont réveillés à 5 heures tellement ils étaient excités, raconte-t-elle. C’est normal, on a passé l’été dans la chambre de l’hôtel du 115, on ne pouvait pas trop sortir à cause de mon #OQTF. » Fanta vient de Faranah, en Guinée-Conakry, où elle est tombée accidentellement enceinte de ses enfants. « Quand il l’a su, mon père, qui a lui même trois femmes, m’a tapée pendant trois jours et reniée. »

    Elle accouche, mais ne peut revenir vivre dans sa famille qu’à condition d’abandonner ses bébés de la honte. Elle refuse, bricole les premières années avec eux. Trop pauvre, trop seule, elle confie ses enfants à sa cousine et souhaite aller en Europe pour gagner plus d’argent. Mali, Niger, Libye. La prison en Libye lui laisse une vilaine cicatrice à la jambe. En 2021, elle atteint Bari, en Italie, puis prend la direction de la France. Pourquoi Marseille ? « Parce que le train s’arrêtait là. »

    Sexe contre logement

    A la gare Saint-Charles, elle dort par terre pendant trois jours, puis rejoint un squat dans le quartier des Réformés. Là-bas, « un homme blanc est venu me voir et m’a dit qu’il savait que je n’avais pas de papiers, et que si on ne faisait pas l’amour, il me dénonçait à la police ». Elle est violée une première fois. Trois jours plus tard, il revient avec deux autres personnes, avec les mêmes menaces. Elle hurle, pleure beaucoup. Ils finissent par partir. « Appeler la police ? Mais pour quoi faire ? La police va m’arrêter moi », s’étonne-t-elle devant notre question.

    En novembre 2022, le navire de sauvetage Ocean-Viking débarque ses passagers sur le port de Toulon. A l’intérieur, sa cousine et ses jumeaux. « Elle est venue avec eux sans me prévenir, j’ai pleuré pendant une semaine. » Depuis, la famille vit dans des hôtels sociaux, a souvent faim, ne sort pas, mais « la France, ça va, je veux bien aller n’importe où du moment que j’ai de la place ». Parfois, elle poursuit les passants qu’elle entend parler sa langue d’origine dans la rue, « juste pour avoir un ami ». « La migration, ça fait exploser la violence », conclut-elle, heureuse que ses enfants mangent à la cantine de l’école ce midi.

    Lundi, 15 heures. « C’est elle qui m’a donné l’idée de l’étude », s’exclame le docteur Khouani en nous présentant Aissata. « Oui, il faut parler », répond la femme de 31 ans. Elle s’assoit, décidée, et déroule un récit délivré de nombreuses fois devant de nombreux officiels français. Aissata passe son enfance en Guinée. En 1998, sa mère meurt et elle est excisée. « C’était très douloureux, je suis vraiment obligée de reraconter ça ? » C’est sa « marâtre » qui prend le relais et qui la « torture ». Elle devient la petite bonne de la maison de son père, est gavée puis privée de nourriture, tondue, tabassée, de la harissa étalée sur ses parties intimes. A 16 ans, elle est mariée de force à un cousin de 35 ans qui l’emmène au Gabon.

    « Comme je lui ai dit que je ne voulais pas l’épouser, son travail, c’était de me violer. J’empilais les culottes et les pantalons les uns sur les autres pour pas qu’il puisse le faire, mais il arrachait tout. » Trois enfants naissent des viols, que son époux violente aussi. Elle s’interpose, il la frappe tellement qu’elle perd connaissance et se réveille à l’hôpital. « Là-bas, je leur ai dit que ce n’était pas des bandits qui m’avaient fait ça, mais mon mari. » Sur son téléphone, elle fait défiler les photos de bleus qu’elle avait envoyées par mail à son fils – « Comme ça, si je mourais, il aurait su quelle personne était son père. »

    Un soignant lui suggère de s’enfuir, mais où ? « Je ne connais pas le Gabon et on ne peut pas quitter le mariage. » Une connaissance va l’aider à sortir du pays. Elle vend tout l’or hérité de sa mère, 400 grammes, et le 29 décembre 2018, elle prend l’avion à l’aéroport de Libreville. « J’avais tellement peur, mon cœur battait si fort qu’il allait sortir de mon corps. » Elle vit l’atterrissage à Roissy - Charles-de-Gaulle comme un accouchement d’elle-même, une nouvelle naissance en France. A Paris, il fait froid, la famille arrive à Marseille, passe de centres d’accueil humides en hôtels avec cafards du 115.

    Sans cesse, les hommes la sollicitent. Propositions de sexe contre logement ou contre de l’argent : « Les hommes, quand tu n’as pas de papiers, ils veulent toujours en profiter. Je pourrais donner mon corps pour mes enfants, le faire avec dix hommes pour les nourrir, mais pour l’instant j’y ai échappé. » Au début de l’année, l’OQTF est tombée. Les enfants ne dorment plus, elle a arrêté de soutenir leurs devoirs. « La France trouve que j’ai pas assez souffert, c’est ça ? », s’énerve celle que ses amies surnomment « la guerrière ».

    « Je suis une femme de seconde main maintenant »

    Lundi, 17 heures. Nadia a le visage rond, entouré d’un voile noir, les yeux ourlés de la même couleur. Une immense tendresse se dégage d’elle. Le docteur Khouani nous a prévenues, il faut faire attention – elle sort à peine de l’hôpital psychiatrique. Il y a quelques semaines, dans le foyer où elle passe ses journées toute seule, elle a pris un briquet, a commencé à faire flamber ses vêtements : elle a essayé de s’immoler. Quand il l’a appris, le médecin a craqué, il s’en voulait, il voyait bien son désespoir tout avaler et la tentative de suicide arriver.

    Pourtant, Nadia a fait une petite heure de route pour témoigner. Elle a grandi au Pakistan. Elle y a fait des études de finance, mais en 2018 son père la marie de force à un Pakistanais qui vit à Marseille. Le mariage est prononcé en ligne. Nadia prend l’avion et débarque en France avec un visa de touriste. A Marseille, elle se rend compte que son compagnon ne pourra pas la régulariser : il est déjà marié. Elle n’a pas de papiers et devient son « esclave », subit des violences épouvantables. Son décolleté est marqué de plusieurs cicatrices rondes : des brûlures de cigarettes.

    Nadia apparaît sur les écrans radars des autorités françaises un jour où elle marche dans la rue. Il y a une grande tache rouge sur sa robe. Elle saigne tellement qu’une passante l’alerte : « Madame, madame, vous saignez, il faut appeler les secours. » Elle est évacuée aux urgences. « Forced anal sex », explique-t-elle, avec son éternel rictus désolé. Nadia accepte de porter plainte contre son mari. La police débarque chez eux, l’arrête, mais il la menace d’envoyer les photos dénudées qu’il a prises d’elle au Pakistan. Elle retire sa plainte, revient au domicile.

    Les violences reprennent. Elle s’échappe à nouveau, est placée dans un foyer. Depuis qu’elle a témoigné auprès de la police française, la propre famille de Nadia ne lui répond plus au téléphone. Une nuit, elle s’est réveillée et a tenté de gratter au couteau ses brûlures de cigarettes. « Je suis prête à donner un rein pour avoir mes papiers. Je pense qu’on devrait en donner aux femmes victimes de violence, c’est une bonne raison. Moi, je veux juste étudier et travailler, et si je suis renvoyée au Pakistan ils vont à nouveau me marier à un homme encore pire : je suis une femme de seconde main maintenant. »

    « Je dois avoir une vie meilleure »

    Mardi, 11 heures. Médiatrice sociale du cabinet médical, Elsa Erb est une sorte d’assistante pour vies fracassées. Dans la salle d’attente ce matin, il y a une femme mauritanienne et un gros bébé de 2 mois. « C’est ma chouchoute », sourit-elle. Les deux femmes sont proches : l’une a accompagné l’autre à la maternité, « sinon elle aurait été toute seule pour accoucher ». Excision dans l’enfance, puis à 18 ans, en Mauritanie, mariage forcé à son cousin de 50 ans. Viols, coups, cicatrices sur tout le corps. Deux garçons naissent. « Je ne pouvais pas rester toute ma vie avec quelqu’un qui me fait autant de mal. » Adama laisse ses deux enfants, « propriété du père », et prend l’avion pour l’Europe.

    A Marseille, elle rencontre un autre demandeur d’asile. Elle tombe enceinte dans des circonstances troubles, veut avorter mais l’homme à l’origine de sa grossesse la menace : c’est « péché » de faire ça, elle sera encore plus « maudite ». Depuis, elle semble trimballer son bébé comme un gros paquet embarrassant. Elsa Erb vient souvent la voir dans son foyer et lui apporte des boîtes de sardines. Elle s’inquiète car Adama s’isole, ne mange pas, passe des heures le regard dans le vide, un peu sourde aux pleurs et aux vomissements du petit. « Je n’y arrive pas. Avec mes enfants là-bas et celui ici, je me sens coupée en deux », se justifie-t-elle.

    Mardi, 14 heures. A chaque atrocité racontée, Stella rit. Elle vient du Biafra, au Nigeria. Ses parents sont tués par des miliciens quand elle a 13 ans. Elle est envoyée au Bénin auprès d’un proche qui la viole. Puis elle tombe dans la #traite : elle est transférée en Libye. « J’ai été vendue quatre fois, s’amuse-t-elle. En Libye, vous pouvez mourir tous les jours, plus personne ne sait que vous existez. » Elle passe en Italie, où elle est encore exploitée.

    Puis la France, Marseille et ses squats. Elle décrit des hommes blancs qui débarquent armés, font tous les étages et violent les migrantes. La police ? Stella explose de rire. « Quel pouvoir est-ce que j’ai ? Si je raconte ça à la police française, les agresseurs me tueront. C’est simple : vous êtes une femme migrante, vous êtes une esclave sexuelle. »

    Avec une place dans un foyer et six mois de #titre_de_séjour en tant que victime de traite, elle est contente : « Quand on a sa maison, on est moins violée. » Des étoiles sont tatouées sur son cou. « Je dois avoir une vie meilleure. Mon nom signifie “étoile”, je dois briller », promet-elle. Le docteur Khouani tient à nous montrer une phrase issue du compte rendu d’une radio de ses jambes : « Lésions arthrosiques inhabituelles pour son jeune âge. » « Il est très probable qu’elle ait subi tellement de violences qu’elle a l’arthrose d’une femme de 65 ans. » Stella a 33 ans.

    Déboutés par l’Ofpra

    Mardi, 16 heures. Grace entre avec sa poussette, dans laquelle s’ébroue une petite fille de 7 mois, son quatrième enfant. Nigériane, la jeune femme a le port altier et parle très bien anglais. « J’ai été très trafiquée », commence-t-elle. Après son bac, elle est recrutée pour être serveuse en Russie. C’est en réalité un réseau de #proxénétisme qui l’emmène jusqu’en Sibérie, d’où elle finit par être expulsée. De retour au Nigeria, elle veut poursuivre ses études à la fac à Tripoli, en Libye.

    A la frontière, elle est vendue, prostituée, violée. Elle tombe enceinte, s’échappe en Europe pour « fuir, pas parce que je voulais particulièrement y aller ». Arrivée en Italie, on lui propose d’avorter de son enfant du viol. Elle choisit de le garder, même si neuf ans après, elle ne sait toujours pas comment son premier fils a été conçu. En Italie, elle se marie avec un autre Nigérian. Ils ont quatre enfants scolarisés en France, mais pas de papiers. L’Ofpra les a déboutés : « Ils trouvent que j’ai les yeux secs, que je délivre mon histoire de manière trop détachée », comprend-elle.

    Mardi, 18 heures. Abby se présente dans le cabinet médical avec sa fille de 12 ans. Elles sont originaires de Sierra Leone. Abby a été excisée : elle se remémore le couteau, les saignements, souffre toujours vingt-cinq ans après. « Ils ont tout rasé, c’est lisse comme ça », décrit-elle en caressant la paume de sa main.

    Sa fille a aussi été mutilée, un jour où sa mère n’était pas à la maison pour la protéger. « Mais pour Aminata, ce n’est pas propre. » Alors, quand la mère et la fille ont déposé leur demande d’asile à l’Ofpra, le docteur Khouani s’est retrouvé à faire un acte qui l’énerve encore. « J’ai dû pratiquer un examen gynécologique sur une préado pour mesurer la quantité de ses lèvres qui avait survécu à son excision. Si tout était effectivement rasé, elles étaient déboutées, car il n’y avait plus rien à protéger. » Les deux femmes ont obtenu des titres de séjour. Abby travaille comme femme de ménage en maison de retraite. Aminata commence sa 5e, fait du basket et veut devenir médecin, comme le docteur Khouani.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    #VSS #violences_sexuelles #migrations #femmes #femmes_migrantes #témoignage #asile #réfugiés #viols #abus_sexuels #mariage_forcé #prostitution #néo-esclavage #esclavage_sexuels #traite_d'êtres_humains #chantage

  • Vous connaissez Charline Avenel ? Mathieu Billière
    (@mathieubil sur l’oiseau mort)
    https://threadreaderapp.com/thread/1703124612811210937.html

    Vous connaissez Charline Avenel ? Non ? Laissez-moi vous la présenter. Elle a été rectrice de l’Académie de Versailles de 2018 à juillet 2023. C’est donc elle qui a géré les alertes lancées par Samuel Paty 1/7
    C’est elle qui avait déclenché le recrutement par #job_dating et donc balancé dans le grand bain des gens qui n’avaient aucune expérience, et dont près de 70% ont très vite quitté le poste. 2/7
    Et c’est donc elle qui dirigeait les bureaux qui ont envoyé la lettre menaçant les parents d’un élève harcelé de poursuites judiciaires. C’est déjà pas mal non ? Attendez. 3/7

    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Charline_Avenel

    #éducation_nationale #école #enseignants #recrutement #élèves #harcèlement_scolaire #menaces_de_poursuites_judiciaires #abus_de_pouvoir #enseignement_supérieur_privé #Ionis #népotisme

    • Harcèlement scolaire : l’association La Voix de l’enfant assure avoir reçu « le même type de courrier » que celui envoyé par le rectorat de Versailles à des parents
      https://www.francetvinfo.fr/societe/education/harcelement-a-l-ecole/harcelement-scolaire-l-association-la-voix-de-l-enfant-assure-avoir-rec

      La présidente de l’association La Voix de l’enfant, Martine Brousse, observe que les associations contre le harcèlement scolaire sont « rappelées à l’ordre parce qu’elles font trop de signalement après des interventions en classe ».

    • Éditorial du « Monde » : Harcèlement scolaire : la nécessité d’un sursaut
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/06/12/harcelement-scolaire-la-necessite-d-un-sursaut_6177285_3232.html

      cannibalisme à visage humain, de nouvelles avancées :

      Suicide de Nicolas : la révélation d’un courrier menaçant du rectorat met au jour les « manquements » de l’éducation nationale

      Dans ce courrier, révélé par BFM-TV, le rectorat de Versailles dit « réprouver » l’attitude des parents de Nicolas. Ces derniers avaient informé le proviseur, près de deux mois plus tôt, du lancement d’une procédure judiciaire à la suite du harcèlement subi par leur fils.
      Par Violaine Morin

      « Ce courrier est une honte ». Ainsi réagissait Gabriel Attal, samedi 16 septembre, lors d’un point presse organisé dans la foulée des révélations de BFM-TV, qui a diffusé à l’antenne un courrier adressé par le rectorat de Versailles aux parents de Nicolas. Le lycéen de 15 ans, victime de harcèlement scolaire s’est suicidé, le 5 septembre à Poissy (Yvelines).
      Dans ce courrier adressé le 4 mai 2023 par le « pôle Versailles » du service interacadémique des affaires juridiques aux parents de Nicolas, l’administration s’étonne du ton employé par la famille, au sujet du « supposé harcèlement » subi par leur fils, à l’égard du proviseur du lycée Adrienne-Bolland de Poissy, où il était scolarisé en troisième prépa professionnelle.
      « Les propos que vous avez tenus et le comportement que vous avez eu envers des personnels de l’éducation nationale, dont le professionnalisme et l’intégrité n’avaient pas à être remis en cause de la sorte, sont inacceptables. Je les réprouve de la façon la plus vive », peut-on y lire. Le rectorat rappelle ensuite aux parents de Nicolas l’article 226-10 du code pénal, qui réprouve la dénonciation calomnieuse et prévoit, pour ce délit, une peine de cinq ans d’emprisonnement et 45 000 euros d’amende. Contacté par Le Monde, le rectorat de Versailles n’a pas souhaité réagir.

      Des enquêtes administrative et judiciaire
      « Mettez-vous à la place des parents de Nicolas qui ont écrit à l’institution – dont le rôle absolu est de protéger les élèves – pour les informer de la détresse vécue par leur enfant, et qui ont reçu ce type de réponse ! », s’indignait M. Attal, samedi devant les journalistes. Le ministre de l’éducation nationale a rappelé qu’il avait lancé, « dès le lendemain du drame », une enquête administrative en plus de l’enquête judiciaire ouverte par le parquet de Versailles en recherche des causes de la mort. Il a précisé qu’il en tirerait « toutes les conclusions, y compris en matière de sanctions ». Le ministre a également indiqué qu’il réunirait « dès lundi » les recteurs, pour lancer un audit dans l’ensemble des rectorats sur toutes les situations de harcèlement signalées en 2022.

      Le courrier du rectorat faisait référence à une autre lettre datée de la mi-avril, également révélée par BFM-TV, dans laquelle les parents de Nicolas s’inquiétaient auprès du proviseur du lycée de ne pas voir évoluer la situation de leur fils, après un premier rendez-vous avec la direction de l’établissement à la mi-mars. Ils reprochaient au proviseur de les avoir mal reçus, et de leur avoir signifié qu’ils ne disposaient pas de preuves tangibles du harcèlement subi par leur fils. « Il est incompréhensible que vous puissiez laisser un adolescent subir une telle violence verbale et psychologique dans votre établissement sans réagir d’une quelconque manière », écrivaient-ils. « Aussi allons-nous déposer plainte et vous considérer comme responsable si une catastrophe devait arriver à notre fils. » Une main courante a été déposée au commissariat de Conflans-Sainte-Honorine (Yvelines) le 4 mai, selon Le Parisien.

      Quelques jours plus tard, dans une réponse à cette lettre, le proviseur de l’établissement aurait évoqué les mesures prises pour suivre la situation du lycéen : des entretiens avec les élèves concernés auraient été organisés et la conseillère principale d’éducation ainsi que l’assistante sociale du lycée aurait été missionnée sur le sujet. C’est donc dans un courrier séparé, reçu une quinzaine de jours plus tard par les parents du jeune homme, que le rectorat de Versailles adopte le ton menaçant qui a heurté jusqu’à Matignon. « Il y a eu manifestement défaillance sur le type de réponse adressé à des parents qui étaient extrêmement inquiets », a réagi la première ministre, Elisabeth Borne, interrogée sur ce sujet lors des journées du patrimoine à Matignon, le 16 septembre.

      La mère du jeune homme s’est exprimée, dimanche, dans les colonnes du Jounal du dimanche, pour dénoncer la situation. Elle explique avoir lu la lettre du rectorat en présence de son fils. « Nous passions désormais pour des coupables. A partir de ce moment, Nicolas n’a plus été le même, raconte-t-elle. C’était tellement grossier et surtout injuste. »
      La mère de la victime raconte ensuite la visite de Gabriel Attal et Brigitte Macron, organisée le lendemain du drame à la mairie de Poissy, et salue le soutien des élus et de la première ministre dont une lettre manuscrite lui a été remise « en main propre » par le député de sa circonscription, Karl Olive. Le jour des obsèques de son fils, vendredi 15 septembre, Gabriel Attal lui a dit : « Nous n’avons pas été à la hauteur, il y a eu des manquements. »
      Ces développements surviennent alors qu’un grand plan interministériel de lutte contre le harcèlement scolaire est en préparation, sous l’égide de Matignon. Au cours d’une soirée spéciale consacrée au harcèlement scolaire, le 12 septembre sur M6, M. Attal a donné quelques pistes de mesures qui seront dans ce plan. Il s’agirait notamment de mettre en place un questionnaire d’autoévaluation pour que les élèves eux-mêmes repèrent et signalent les situations de harcèlement. Il a également promis une réaction plus rapide et des sanctions plus claires. Un déplacement ministériel est prévu, à la fin de la semaine du 25 septembre au Danemark, un pays qui a mis en place de « bonnes pratiques » dans l’éducation au « respect de l’autre », indique-t-on rue de Grenelle.

      Une campagne de communication à destination des adultes est également prévue, ainsi que l’élargissement du programme de lutte contre le harcèlement pHARe aux parents d’élèves. « Ce sont les adultes qui, régulièrement, sont défaillants, et ne déploient pas les moyens nécessaires de prise en charge, réagit Hugo Martinez, de l’association de lutte contre le harcèlement Hugo !. On le constate avec les derniers drames connus du grand public où les enfants ont parlé mais les adultes n’ont, à chaque fois, pas pris la pleine mesure de la situation. Demander aux enfants de s’auto-évaluer dans leur situation pour confirmer ou non le harcèlement est un non-sens. Les adultes ne sont-ils pas capables d’évaluer cela, de déployer une prise en charge ? » Le plan interministériel de lutte contre le harcèlement devrait être annoncé fin septembre.

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/17/suicide-de-nicolas-la-revelation-d-un-courrier-menacant-du-rectorat-met-au-j

      la lettre du rectorat

    • « trop de signalements », 𝑺𝒖𝒓 𝒍𝒂 𝒔𝒐𝒊𝒆 𝒅𝒆𝒔 𝒎𝒆𝒓𝒔 ★𒈝 @Acrimonia1
      https://twitter.com/Acrimonia1/status/1703824359788335537

      « trop de #signalements »... ça m’est arrivé aussi qu’une assistante sociale me reproche d’avoir trop d’élèves en situation de #maltraitance familiale dans mes classes. No comment.
      Citation

      Mediavenir @Mediavenir
      🇫🇷 FLASH - L’association contre le #HarcèlementScolaire « La Voix de l’enfant » affirme avoir été menacée par l’administration scolaire de perdre son agrément pour avoir émis « trop de signalements » pour des faits de harcèlement. (BFMTV)

      UnaDonna @JustUnaDonna
      « ce n’est pas sain, madame, cette façon de prendre si à coeur le fait que S***** ingère des objets en classe, vous devriez vous demander pquoi ça vous atteint autant »

      exactement, et aussi demandez vous pourquoi les élèves se confient à vous et vous racontent comment ils ont passé la nuit à se faire exorciser jusqu’à s’évanouir et entendre que leur famille s’en va et les laisse poru morte (véridique) ou comment ils se font humilier, frapper etc
      et puis vous n’avez pas à être tenue au courant des suites éventuelles une fois que c’est dit, d’ailleurs le plus souvent il n’y en a pas, et ça ne vous regarde pas.