• 17.08.2018: German government concludes agreement with Greece
    (pour archivage)

    On 17 August 2018, the Federal Minister of the Interior, Building and Community, #Horst_Seehofer, and his Greek counterpart reached an agreement which covers cooperation regarding refusal of entry at the border and family reunification in cases under the Dublin-III-Regulation.

    In cases where internal border checks at the German-Austrian border produce a hit in the European fingerprint database #EURODAC revealing that an asylum applicant has already filed an asylum application in Greece, it will be possible under this agreement for Germany to return the persons concerned directly to Greece within 48 hours. This does not apply to unaccompanied minors.

    In line with what was agreed in the margins of the European Council meeting and in compliance with existing legal obligations, Germany is, in return, prepared to speed up processing the backlog of family reunification cases by the end of 2018. In addition, Germany is prepared to review contentious family reunification cases. Both sides confirm their resolve to continue working towards common European solutions and ensure one another of their mutual solidarity and support in case of future migration crises.

    The Federal Minister of the Interior, Building and Community, Horst Seehofer, said: ""The signing of this administrative agreement with Greece is another important step that will help establish orderly conditions in European migration policy. With this agreement, Germany and Greece set a clear signal for the enforcement of existing law which does not give individuals the freedom to choose the EU member state which is to process their asylum application.""

    Greece is the second partner country after Spain with which Germany has concluded an agreement on the refusal of entry at the border.

    https://www.bmi.bund.de/SharedDocs/pressemitteilungen/EN/2018/agreement_greece.html

    #Allemagne #frontière_sud-alpine #frontières #accord #renvois #expulsions #refoulements #Autriche #refus_d'entrée #empreintes_digitales #frontières_intérieures #Grèce

    • Deal between Greece and Germany „clearly unlawful“

      On 4 May 2021 in a chamber decision the Administrative Court of Munich found the administrative arrangement between Germany and Greece, known as the “Seehofer Deal”, which facilitates the immediate return of asylum applicants from the German border with Austria to Greece, as “clearly unlawful” and in violation of European law. The court ordered to immediately return the concerned applicant from Greece to Germany, who had been deported in August 2020. The person concerned is represented by the lawyer Matthias Lehnert. The proceedings are supported by the Greek Council for Refugees (GCR) and PRO ASYL.

      „The Administrative Court of Munich clearly states: procedural requirements and compliance with human rights cannot be bypassed by fast-track procedures at the border, especially by the Federal Police. The Dublin Regulation cannot be circumvented unilaterally or by an agreement between two Member States,“ emphasizes lawyer Matthias Lehnert. „But that’s what the federal government of Germany has done, and in doing so, it’s been breaking European law with its eyes wide open.“

      The Greek Council for Refugees and PRO ASYL expect the decision to be implemented immediately.

      Background to the case

      The person concerned, a Syrian applicant, had initially applied for asylum in Greece. There he was threatened with deportation to Turkey due to the EU-Turkey deal. He continued his flight to Germany. On 13 August 2020 he was apprehended by the Federal Police at the German-Austrian border and expressed his wish to apply for asylum. Instead of initiating the procedure required under European law within the framework of the Dublin III Regulation at the Federal Office for Migration and Refugees (BAMF), the Federal Police deported the Syrian concerned to Greece in application of the “Seehofer Deal” the following day. In Greece he was notified a rejection decision regarding his asylum application and a return decision to Turkey and was detained for several weeks before GCR was able to obtain his release. Since then he has been living homeless in Athens, threatened with deportation to Turkey.

      The „Seehofer Deal“: refoulement at the German-Austrian border

      The “Seehofer Deal” between Germany and Greece (a similar arrangement also exists with Spain) was concluded in 2018. It provides for the refusal of entry to protection seekers who were previously registered in Greece and who enter Germany via the border with Austria. They are to be detained and deported to Greece within 48 hours. As of June 2020, 39 people were affected by the deal between Greece and Germany (answer to question 42).

      As Prof. Dr. Anna Lübbe already confirmed in her expert opinion in December 2018, the binding Dublin Regulation defines the procedure and criteria for whether and how an asylum seeker can be transferred from one Member State to another – after sufficient examination and with effective access to legal protection. The “Seehofer Deal” ignores this and places itself outside the existing law.

      The deal itself was not even made available to members of the parliaments at first. It only became public thanks to PRO ASYL’s Greek partner organisation, Refugee Support Aegean.

      https://www.proasyl.de/en/pressrelease/deal-between-greece-and-germany-clearly-unlawful

  • L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

  • La Cour suprême britannique déclare illégal le partenariat migratoire entre le Royaume-Uni et le Rwanda
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/15/la-cour-supreme-britannique-declare-illegal-le-partenariat-migratoire-entre-

    La Cour suprême britannique déclare illégal le partenariat migratoire entre le Royaume-Uni et le Rwanda
    L’accord passé avec Kigali visait à transférer les demandeurs d’asile dans le pays d’Afrique. Le gouvernement de Rishi Sunak comptait sur lui pour dissuader les migrants de traverser la Manche sur des embarcations de fortune.
    Par Cécile Ducourtieux(Londres, correspondante)
    Publié hier à 16h24, modifié à 08h44
    Nouveau coup dur pour le gouvernement de Rishi Sunak : la Cour suprême britannique a tranché, mercredi 15 novembre, en confirmant l’illégalité du partenariat migratoire conclu avec Kigali pour que les demandeurs d’asile arrivés au Royaume-Uni en « small boats » (bateaux pneumatiques) soient transférés au Rwanda et que leurs demandes soient évaluées sur place. Les cinq juges de la plus haute instance juridique du Royaume-Uni ont considéré, à l’unanimité, que le risque était « réel » pour ces personnes d’être refoulées vers leur pays d’origine par les autorités rwandaises, même si leur demande de protection était justifiée.
    Signé en avril 2022 entre le gouvernement de Boris Johnson et celui de Paul Kagame, le « partenariat Rwanda » constituait la clé de voûte de la politique migratoire britannique. Il était censé dissuader les personnes tentées par la dangereuse traversée de la Manche. Mais il n’a jusqu’à présent jamais pu être mis en œuvre, ayant presque immédiatement été mis en cause devant les tribunaux nationaux.
    Alors que 46 000 personnes sont arrivées dans des embarcations de fortune sur les côtes du Kent en 2022 et que 27 000 autres ont réussi la traversée depuis début 2023 (chiffres du Home Office arrêtés au 12 novembre), Rishi Sunak se retrouve démuni, à moins d’un an des élections générales, alors qu’il avait promis en janvier aux Britanniques de « stopper les “small boats” ». Et c’est sans compter l’ex-ministre de l’intérieur Suella Braverman, qu’il a expulsée de son cabinet lundi, et qui semble avoir la ferme intention de lui nuire, en l’accusant de « trahison » sur le dossier Rwanda… « Ce n’est pas la décision que nous espérions, a sobrement réagi Rishi Sunak dans un communiqué mercredi, mais nous avons passé ces derniers mois à nous préparer à cette éventualité et nous restons totalement engagés à stopper les “small boats” ».
    Les juges de la Cour suprême ont basé leur décision sur le principe du « non-refoulement » inscrit dans le droit britannique, mais aussi dans des traités internationaux dont le Royaume-Uni est signataire : la Convention des Nations unies sur les réfugiés et la Convention européenne sur les droits de l’homme (CEDH). Or, un rapport de l’agence pour les réfugiés de l’ONU (UNHCR) cité par les juges a « produit des preuves » des déficiences du régime d’asile rwandais et des risques de refoulement qu’il présente pour des demandeurs d’asile dont la vie est en danger dans leur pays d’origine et dont le dossier aurait de bonnes chances d’être accepté s’il était traité au Royaume-Uni. Les juges ont aussi cité un rapport du gouvernement britannique de 2021 s’alarmant des assassinats extrajudiciaires au Rwanda, du manque d’indépendance de la justice et des cas de torture dans le pays. Ils ont évoqué un accord migratoire similaire signé entre Israël et le Rwanda en 2013, dans le cadre duquel les personnes transférées d’Israël au Rwanda pour que leur demande d’asile y soit examinée étaient « régulièrement expulsées vers d’autres pays tiers ».
    Le gouvernement rwandais a protesté, mercredi, jugeant dans un communiqué que la décision judiciaire britannique « pose problème » et ajoutant que « le Rwanda et le Royaume-Uni ont travaillé ensemble pour assurer l’intégration dans [la] société [rwandaise] des demandeurs d’asile déplacés. (…) Le Rwanda est attaché à ses obligations internationales et son traitement exemplaire des réfugiés a été reconnu par l’UNHCR et d’autres instances internationales ». La décision de la Cour suprême a, en revanche, été saluée par les ONG de défense des réfugiés et par la gauche britannique.
    Le partenariat Rwanda n’est pas pour autant définitivement caduc. Les juges de la Cour suprême n’ont, en effet, pas considéré comme illégal le fait de transférer des demandeurs d’asile vers un pays tiers chargé de traiter leur dossier, puis, s’ils sont approuvés, de leur offrir l’asile. Cette tentative de « sous-traitance » de l’asile tente d’ailleurs d’autres pays européens, qui ont suivi avec intérêt la bataille judiciaire britannique. « Il y a un appétit pour ce concept, la migration illégale augmente partout en Europe, et l’Italie, l’Allemagne et l’Autriche explorent tous des modèles similaires à notre partenariat Rwanda », a assuré James Cleverly, le tout nouveau ministre de l’intérieur britannique, nommé lundi en remplacement de Suella Braverman. Rishi Sunak a évoqué, mercredi, une renégociation du partenariat avec Kigali. Le Royaume-Uni assure travailler à un nouveau traité avec le Rwanda, qui devrait être adopté au Parlement de Westminster. Il a aussi parlé d’un projet de loi, qui serait déposé en urgence par son gouvernement et qui décréterait que le Rwanda est un pays « sûr » pour les demandeurs d’asile. Mais un tel texte ne préviendrait pas les nouveaux recours en justice, invoqués au nom des autres législations nationales se basant sur la CEDH. En attendant un éventuel changement des procédures d’asile au Rwanda, les options qui se présentent au dirigeant pour limiter la migration et pour enfin tenir une des promesses fondamentales du Brexit (contrôler les frontières du pays) sont limitées. Les médias britanniques évoquent d’hypothétiques autres partenariats de sous-traitance avec la Turquie, l’Egypte ou l’Irak.
    Londres peut aussi compter sur l’accord avec Paris : en mars, les Britanniques se sont engagés à verser 500 millions de livres sterling (572,5 millions d’euros) supplémentaires sur trois ans à la France pour stopper les traversées de la Manche en « small boats ». Et Downing Street a signé quelques accords bilatéraux de retours des réfugiés, avec l’Albanie notamment. Mais aucune de ces solutions n’est suffisamment dissuasive. Et le Brexit handicape le Royaume-Uni : en quittant l’Union européenne, il s’est privé de la possibilité d’invoquer le règlement de Dublin, qui permet de renvoyer vers un autre pays européen des personnes y ayant déjà formulé une demande d’asile. La décision de la Cour suprême risque, enfin, d’accentuer les divisions au sein du Parti conservateur, ses élus les plus radicaux, dont Suella Braverman, réclamant la sortie de la Convention européenne des droits de l’homme (CEDH), qui neutraliserait, selon eux, les recours judiciaires contre le « partenariat Rwanda ». Ils ne tiennent cependant pas compte du fait que le Royaume-Uni est un des premiers pays signataires de la CEDH, et que cette dernière sert de base légale au traité de paix du Vendredi saint, signé en 1998 en Irlande du Nord… Jusqu’à présent, Rishi Sunak s’est opposé à son abandon. Les juges de la Cour suprême ont d’ailleurs souligné, mercredi, que dénoncer la Convention ne suffirait pas à infléchir leur décision, qui a aussi été prise en application des principes défendus par l’ONU et des lois britanniques (notamment le Human Rights Act de 1998).

    #Covid-19#migrant#migration#grandebretagne#rwanda#france#CEDH#UNHCR#ONU#asile#droit#accordbilateraux#refoulement#politiquemigratoire#brexit

  • Accordo #Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo
    https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in #Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel #Mediterraneo_centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi (...)

    #Accordi_e_trattati_internazionali #Approfondimenti #Diritto_di_asilo #Operazioni_SAR #Redazione #Trattenimento_-_detenzione

  • Austria to work with UK on Rwanda-style plan for asylum seekers

    Suella Braverman signs ‘migration and security agreement’ with Austrian counterpart in move to work more closely together.

    Austria is seeking to adopt a Rwanda-style deal to deport asylum seekers to a third country, having agreed a deal to work with the UK on migration.

    #Suella_Braverman signed a “migration and security agreement” with her Austrian counterpart, #Gerhard_Karner, in which the two countries agreed to work more closely together.

    It is the first EU country to sign such a deal with the #UK, whose £140m Rwanda deportation scheme is on hold pending the outcome of a supreme court judgment on its legality.

    Austria’s offshoring scheme would differ from the UK’s in that people deported to a third country would be allowed to return to Austria if their asylum applications were successful. Those rejected would be returned to their home countries.

    Under the UK’s proposed Rwanda scheme, people would be deported on a one-way ticket to the central African country to claim asylum, unless they can show that it would expose them to a risk of “serious and irreversible harm”.

    Rishi Sunak and the home secretary are pushing European partners to overhaul international asylum agreements, including the refugee convention and European convention on human rights (ECHR) in the face of a worldwide migration crisis.

    The supreme court is expected to rule on the legality of the UK’s Rwanda policy in mid-December. If successful, the Home Office hopes to have the first deportation flights in the air in February.

    If it is ruled unlawful on the basis that there is a risk of asylum seekers being returned to their home country in breach of their human rights, Sunak will come under intense pressure from many Tory MPs, including at least eight members of his cabinet, to quit the ECHR.

    Austria has also been pushing the EU to adopt a Rwanda-style scheme across Europe as part of changes to deal with the rise in arrivals from across the Mediterranean and its eastern borders.

    Karner, Austria’s interior minister, said: “The UK has a lot of experience when it comes to processing asylum applications outside of Europe in the future. That was an important theme in my meeting with the home secretary in Vienna because Austria can benefit from this experience.

    “We will continue to make a consistent effort for the EU Commission to advance and enable such procedures outside of Europe.”

    Braverman said: “The global migration crisis is the challenge of our age, with the UK and the European continent seeing huge movements of people travelling illegally across our borders. This is placing an unprecedented burden on our communities and public services.

    “Austria is a close ally in tackling illegal migration, and we have already begun sharing knowledge of our actions and strategies such as third country removals. This joint statement is a commitment to work more closely together to achieve our aims, and enhance our cooperation on a wide range of security challenges.”

    Denmark is the only other country that has previously drawn up plans to deport asylum seekers to third countries but its proposals have been on hold.

    https://www.theguardian.com/world/2023/nov/02/austria-seeks-to-adopt-uk-rwanda-style-plan-for-asylum-seekers
    #Autriche #asile #migrations #réfugiés #externalisation #Rwanda #accord #Angleterre #migration_and_security_agreement

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    ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

  • Meloni, accordo con Rama prevede 2 centri migranti in Albania

    “L’accordo prevede di allestire centri per migranti in Albania che possano contenere fino a 3mila persone”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro dell’Albania Edi Rama. “L’accordo che sigliamo oggi – ha aggiunto - arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione” tra i due Paesi e “quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra Stati Ue e Stati per ora extra Ue – per ora - è fondamentale”. “In questi due centri” i migranti resteranno “il tempo necessario per le procedure e una volta a regime nei centri ci potrà essere un flusso annuale complessivo di 36 mila persone”. “L’accordo non riguarda i minori e donne in gravidanza ed i soggetti vulnerabili – precisa – la giurisdizione sarà italiana. L’Albania collabora sulla sorveglianza esterna delle strutture. All’accordo che disegna la cornice, seguiranno una serie di protocolli. Contiamo di rendere operativi i centri in primavera”. (ANSA).

    https://it.euronews.com/2023/11/06/meloni-accordo-con-rama-prevede-2-centri-migranti-in-albania

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres

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    ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

    • Migranti, accordo Italia-Albania. Meloni: “Centri italiani nel loro Paese”. Il Pd: “Un pericoloso pasticcio”. Ue: “L’Italia rispetti il diritto comunitario”

      Il premier Edi Rama ricevuto a Palazzo Chigi dove è stato siglato un protocollo d’intesa in materia di gestione dei flussi. Accoglieranno fino a 3mila persone, solo coloro che saranno salvati in mare. Protestano + Europa e Avs

      La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ricevuto a Palazzo Chigi il primo ministro dell’Albania Edi Rama. «Sono contenta di annunciare con lui un protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migranti. L’Italia è il primo partner commerciale dell’Albania. C’è una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità – dice Meloni durante le dichiarazioni congiunte con il collega albanese – L’accordo prevede di allestire due centri migranti in Albania che possano contenere fino 3mila persone. E arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione» tra i due Paesi e «quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra stati Ue e stati - per ora - è fondamentale».

      Un accordo contro cui si scagliano le opposizioni e che il Pd definisce “un pericoloso pasticcio”. Mentre da Bruxelles un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos dice: «Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale».

      L’incontro tra i due primi ministri è stata anche l’occasione per ribadire il sostegno dell’Italia all’ingresso di Tirana in Ue. "L’Albania si conferma una nazione amica e nonostante non sia ancora parte dell’Unione si comporta come se fosse un paese membro e questa è una delle ragioni per cui sono fiera che l’Italia sia da sempre uno dei paesi sostenitori dell’allargamento ai Balcani occidentali”. E ancora. «L’Ue non è un club. Quindi, io non parlo di ingressi ma di riunificazione dei Balcani occidentali che sono Paesi Ue a tutti gli effetti», osserva Meloni. Che ricorda anche come l’Italia sia «il primo partner commerciale dell’Albania. Il nostro interscambio vale circa il 20% del Pil albanese. Ci sono intensi rapporti culturali e sociali. È una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità. L’accordo di oggi arricchisce questa collaborazione con un ulteriore tassello», conclude la premier.
      Le reazioni

      Se la destra plaude all’intesa tra l’Italia e l’Albania, le opposizioni insorgono. «L’accordo che il governo Meloni ha raggiunto con il governo albanese sembra configurarsi come un pericoloso pasticcio, parecchio ambiguo. Se infatti si è, come sembra, di fronte a richiedenti asilo, appare assolutamente inimmaginabile compiere con personale italiano e senza esborso di risorse, come annunciato, le procedure di verifica delle domande d’asilo», attacca Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie della segreteria nazionale del Pd. “Praticamente si crea una sorta di Guantanamo italiana, al di fuori di ogni standard internazionale, al di fuori dell’Ue senza che possa esserci la possibilita’ di controllare lo stato di detenzione delle persone rinchiuse in questi centri"., protesta Riccardo Magi, segretario di Più Europa. E Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinisra aggiunge: Quello che il governo ha definito come un ’importantissimo protocollo di intesa’ non è altro che una politica di respingimento mascherata da cooperazione internazionale. Il governo italiano –prosegue - sta delegando la gestione dei migranti irregolari, di fatto esternalizzando le proprie responsabilità, con il rischio di creare campi di permanenza che potrebbero non assicurare standard adeguati di accoglienza e rispetto per la dignità umana".

      Ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani replica: «L’accordo rafforza il nostro ruolo da protagonista in Europa ed apre nuove strade di collaborazione nell’Adriatico. Contrasto all’immigrazione irregolare e bloccare la tratta di esseri umani. Queste le priorita’ della nostra politica estera».
      Il protocollo d’intesa

      Il protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migratori siglato oggi, secondo quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi, non si applica agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati in mare, fatta eccezione per minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili. Le strutture realizzate, viene spiegato, potranno accogliere complessivamente fino a 3mila immigrati, per una previsione di 39mila persone accolte in un anno. L’accordo si pone un obiettivo di dissuasione rispetto alle partenze e di deterrenza rispetto al traffico di esseri umani.

      La giurisdizione dei due centri per migranti in Albania sarà italiana, spiega ancora Palazzo Chigi. I migranti, viene precisato, sbarcheranno a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening; a Gjader realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. L’Albania collaborerà con le sue forze di polizia per la sicurezza e sorveglianza. L’Albania, sottolinea ancora Palazzo Chigi, già vede un’importante presenza di forze dell’Ordine e magistrati italiani.
      Rama: “Se l’Italia chiama l’Albania c’è”

      “Se l’Italia chiama l’Albania c’è – risponde Rama – Non sta a noi giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo e altre istituzioni, a noi sta rispondere ’Presente’ quando si tratta di dare una mano. Questa volta significa aiutare a gestire con un pizzico di respiro in più una situazione e difficile per l’Italia". «La geografia è diventata una maledizione per l’Italia, quando si entra in Italia si entra in Ue – spiega il premier Albanese – Noi non abbiamo la forza e la capacità di essere la soluzione ma abbiamo un dovere verso l’Italia e la capacità di dare una mano. L’Albania non fa parte dell’Unione ma è uno Stato europeo, ci manca la U davanti ma ciò non ci impedisce di essere e vedere il mondo come europei».

      https://www.repubblica.it/politica/2023/11/06/news/migranti_meloni_accordo_albania_edi_rama-419723671

      #Gjader #Shengjin #débarquement #identification #screening #premier_accueil #CPR

    • Migrants, accord Italie-Albanie. Meloni : « Des centres italiens dans leur pays ». Adhésion de Tirana à l’UE : « Nous l’avons toujours soutenue »

      Le Premier ministre Giorgia Meloni a reçu le Premier ministre de l’Albanie au Palazzo Chigi Edi Rama. “Je suis heureux d’annoncer avec lui un mémorandum d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires. L’Italie est le premier partenaire commercial de l’Albanie. Il existe déjà une collaboration très étroite dans la lutte contre l’illégalité – a déclaré Meloni lors de la réunion conjointe déclarations avec son collègue albanais – L’accord prévoit la création de centres de migrants en Albanie pouvant accueillir jusqu’à 3 mille personnes. Et il enrichit la collaboration « entre les deux pays avec une étape supplémentaire » et « lorsque nous avons commencé à en discuter, nous sommes partis du l’idée que l’immigration clandestine de masse est un phénomène auquel aucun État de l’UE ne peut lutter seul et que la collaboration entre les États de l’UE est – pour l’instant – fondamentale”.

      La rencontre entre les deux premiers ministres a également été l’occasion de réitérer le soutien de l’Italie à l’entrée de Tirana dans l’UE. “L’Albanie se confirme comme une nation amie et même si elle ne fait pas encore partie de l’Union, elle se comporte comme si elle en était un pays membre et c’est une des raisons pour laquelle je suis fier que l’Italie ait toujours été l’un des pays qui soutiennent l’élargissement. aux Balkans occidentaux”. Et encore. “L’UE n’est pas un club. Je ne parle donc pas d’entrées, mais de la réunification des Balkans occidentaux, qui sont à tous égards des pays de l’UE”, observe encore Meloni. Il rappelle également que l’Italie est “le premier partenaire commercial de l’Albanie. Nos échanges commerciaux représentent environ 20 % du PIB albanais. Il existe des relations culturelles et sociales intenses. C’est une collaboration très étroite qui existe déjà dans la lutte contre l’illégalité. L’accord d’aujourd’hui enrichit cette collaboration d’une étape supplémentaire”, conclut le Premier ministre.

      Le protocole d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires signé aujourd’hui, selon ce que l’on apprend de sources au Palazzo Chigi, ne s’applique pas aux immigrants arrivant sur les côtes et le territoire italiens mais à ceux secourus en mer, à l’exception de les mineurs, les femmes enceintes et les sujets vulnérables. Les structures créées, explique-t-on, pourront accueillir au total jusqu’à 3 mille immigrants, pour une prévision de 39 mille personnes accueillies par an. L’accord vise à dissuader les départs et à décourager la traite des êtres humains.

      « Si l’Italie appelle l’Albanie, elle est là – répond Rama – Ce n’est pas à nous de juger du mérite politique des décisions prises dans ce lieu et dans d’autres institutions, c’est à nous de répondre ‘Présent’ lorsqu’il s’agit de prêter un main. Cette fois, il s’agit d’aider à gérer une situation difficile pour l’Italie avec un peu plus de répit.” “La géographie est devenue une malédiction pour l’Italie, quand vous entrez en Italie, vous entrez dans l’UE – explique le Premier ministre Albanese – Nous n’avons pas la force et Nous avons la capacité d’être la solution, mais nous avons un devoir envers l’Italie et la capacité de lui donner un coup de main. L’Albanie ne fait pas partie de l’Union mais c’est un Etat européen, il nous manque le U devant mais cela ne nous empêche pas d’être et de voir le monde en Européens”.

      https://fr.italy24.press/local/1061085.html

    • Migrants: two structures to manage illegal flows, this is what the Italy-Albania #memorandum_of_understanding provides

      Two structures in Albanian territory under Italian jurisdiction which will serve to manage illegal migratory flows. This is the fulcrum of the memorandum of understanding signed today by Italy and Albania and announced by the Prime Minister Giorgia Meloni and the counterpart Edi Rama. Rama’s “surprise” visit was not officially announced until this morning when a brief note from Palazzo Chigi announced that the two heads of government would meet in the afternoon and that they would subsequently make statements to the press. The discretion of the two governments prevailed and, consequently, also the surprise effect at the time of the announcement. “It is an agreement that enriches the friendship between the two nations,” said Meloni at the time of the announcement, subsequently explaining the details of the agreement which focuses on three primary objectives: combating human trafficking, preventing it and welcoming who has the right to protection. “Albania will grant some areas of the territory”, where Italy will be able to create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to three thousand people who will remain here for the time necessary to process asylum applications and , possibly, for the purposes of repatriation", said Meloni, specifying that the agreement does not concern minors, pregnant women and vulnerable subjects.

      The prime minister also provided details on the areas which will host the two structures which, hopefully, will be ready by spring 2024. “In the port of Shengjin (the seaport located north of Albania) disembarkation and identification procedures will be taken care of, while in another more internal area another structure based on the Repatriation Retention Centers model will be created (Cpr)”, explained Meloni, adding that the Albanian police forces will cooperate to guarantee “the security and external surveillance of the structures”. According to Meloni, the agreement signed today is a further step in the close bilateral cooperation. “Mass illegal immigration is a phenomenon that EU member states cannot face alone and cooperation between EU states and, for now, non-EU states can be decisive,” said the Prime Minister, according to whom Albania confirms itself as a friend not only of Italy but also of the European Union. “Despite not yet being formally part of the EU, Albania is a candidate country but behaves as if it were already a de facto member country of the Union and this is one of the reasons why I am proud of the fact that Italy is has always been one of the greatest supporters of the entry of Albania and the Western Balkans into the Union", added Meloni, who defined the memorandum of understanding “an innovative solution” in the hope that “it can become the model for other agreements of this type”.

      Speaking at the end of Meloni’s statements, Prime Minister Rama – underlining that the idea for the agreement was born during the Prime Minister’s summer holiday in Vlore – he immediately wanted to point out that “when Italy calls, Albania is there”. “Albania is not an EU state, but it is in Europe. It is a European state, and this does not prevent us from seeing the world as Europeans,” said Rama. “We would not have made this agreement with any other EU state. There is an important relationship of a historical, cultural, but also emotional nature, which links Albania with Italy", continued the prime minister. “We can lend a hand and help manage a situation which, as everyone sees, is difficult for Italy. When you enter Italy, you enter Europe, the EU, but when it comes to managing this entry as an EU we know well how things go,” said Rama. “We don’t have the strength to be a solution, but I believe we have a duty towards Italy and a certain ability to lend a hand”, added Rama who then recalled how his country can boast a tradition of hospitality, which began by the thousands of Italians protected after the Second World War. “We have a history of hospitality”, Rama underlined, recalling that Albania welcomed more than half a million war refugees and those fleeing to survive the ethnic cleansing from Kosovo. “We also gave refuge to thousands of Afghan women when NATO abandoned Afghanistan, and to a few thousand Iranians,” added the Albanian prime minister.

      https://www.agenzianova.com/en/news/migrants-two-structures-to-manage-illegal-flows%2C-this-is-what-the-Ita
      #MoU

    • Migranti: Un #Protocollo_d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.osservatoriorepressione.info/migranti-un-protocollo-dintesa-lalbania-opaco-disumano-pri

    • Naufraghi e richiedenti protezione. In collisione con i diritti

      È sbagliato evocare Guantanamo e la detenzione extraterritoriale dei sospetti terroristi negli Usa, ma di certo l’accordo a sorpresa tra Italia e Albania per l’accoglienza di una parte delle persone tratte in salvo dal mare è destinato a far discutere. Il governo Meloni aveva bisogno di riprendere l’iniziativa su un dossier identitario come quello della politica dell’asilo, i cui risultati sono finora rimasti lontani dalle promesse elettorali, e ha servito all’opinione pubblica una soluzione che può presentare come “innovativa”. Ma l’innovazione può entrare in collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati europei e internazionali.

      Anzitutto, il patto Meloni-Rama ha un sottofondo post-coloniale, come l’accordo britannico con il Ruanda a cui sembra ispirarsi: un Paese del “Primo mondo”, forte delle sue risorse politiche ed economiche, dirotta su un Paese meno fortunato e più bisognoso di appoggi l’onere di accogliere sul suo territorio i migranti sgraditi. Si immagina paradossalmente che Paesi con meno risorse e istituzioni più fragili possano ricevere degnamente i profughi che da noi sono visti come un problema. Infatti, quasi tradendo il sottotesto punitivo dell’accordo, si prevede che vengano esentati dal trasferimento in Albania donne in gravidanza, minori, soggetti vulnerabili. E il governo non ha esitato a parlare di una misura finalizzata alla deterrenza nei confronti di quelli che si ostina a definire come immigrati illegali, al pari del modello britannico.

      In realtà nel 2022 il 48% dei richiedenti l’asilo ha ottenuto uno status legale in prima istanza, e ad essi si aggiunge il 72% di coloro che hanno presentato un ricorso giurisdizionale. Dunque, rischiamo di mandare in Albania delle persone che hanno diritto all’asilo. Proprio l’esempio britannico mostra che le corti di giustizia, nazionali ed europee, l’hanno finora bloccato, e la capacità di reggere al vaglio della magistratura sarà un arduo banco di prova dell’accordo.

      Qualcosa non quadra poi riguardo ai numeri: si prevede di realizzare due strutture sul territorio albanese, una per l’identificazione allo sbarco, l’altra per l’accoglienza temporanea, con una capacità di 3.000 posti complessivi, e si prevede di trattare complessivamente 36-39.000 profughi all’anno. Si lascia intendere che basteranno quattro settimane per decidere della loro domanda di asilo, mentre oggi il tempo medio è di circa 18 mesi, senza contare la possibilità di ricorso. È probabile che i profughi languiranno a lungo in Albania e che i numeri dei casi trattati rimarranno assai più bassi di quelli annunciati.

      Ma i problemi più spinosi riguardano l’integrazione dei “deportati”. Se otterranno la protezione internazionale, averli lasciati in un Paese terzo non avrà di certo preparato la strada per la loro futura integrazione in Italia, sotto il profilo della possibilità di apprendere e praticare la lingua italiana, di conoscere la società in cui dovranno inserirsi, di orientarsi nel mercato del lavoro e nel sistema dei servizi. Se invece riceveranno un diniego, occorre chiedersi che ne sarà di loro. La bassissima capacità di rimpatrio forzato da parte delle nostre istituzioni (4.304 persone nel 2022), peraltro simili in questo agli altri Paesi europei, è un dato ormai noto. Se ne occuperanno le autorità albanesi? Con quale protezione dei loro diritti umani inalienabili, per esempio il diritto alle cure mediche necessarie e urgenti, o a non morire di fame?

      La politica dell’immigrazione ci ha abituato da tempo a dichiarazioni enfatiche – basti ricordare i più volte annunciati accordi con la Tunisia – e presunte soluzioni che si rivelano inattuabili. Anche l’accordo Italia-Albania rischia ora di entrare nella serie. O meglio: se non sarà attuato, sarà l’ennesima pseudo-ricetta venduta all’opinione pubblica; se dovesse essere attuato, anche solo parzialmente, tratterà soltanto una minoranza dei casi e sferrerà comunque una picconata alla già traballante architettura giuridica dei diritti umani fondamentali.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/in-collisione-con-i-diritti

    • Accord migratoire Italie-Albanie : l’#ONU appelle au respect du #droit_international

      L’agence de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a appelé mardi au « respect du droit international relatif aux réfugiés » après l’accord signé lundi entre l’Italie et l’Albanie visant à délocaliser dans ce pays l’accueil de migrants sauvés en mer et l’examen de leur demande d’asile.

      « Les modalités de transfert des demandeurs d’asile et des réfugiés doivent respecter le droit international relatif aux réfugiés », a exhorté le HCR dans un communiqué publié à Genève.

      L’accord signé lundi à Rome par la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni et son homologue albanais Edi Rama prévoit que l’Italie va ouvrir dans ce pays, candidat à l’adhésion à l’UE, deux centres pour accueillir des migrants sauvés en mer afin de « mener rapidement les procédures de traitement des demandes d’asile ou les éventuels rapatriements ».

      Ces deux centres gérés par l’Italie, opérationnels au printemps 2024, pourront accueillir jusqu’à 3.000 migrants, soit environ 39.000 par an selon les prévisions. Les mineurs, les femmes enceintes et les personnes vulnérables ne seraient pas concernés.

      Le HCR, qui dit n’avoir « pas été informé ni consulté sur le contenu de l’accord », estime que « les retours ou les transferts vers des pays tiers sûrs ne peuvent être considérés comme appropriés que si certaines normes sont respectées - en particulier, que ces pays respectent pleinement les droits découlant de la Convention relative au statut des réfugiés et les obligations en matière de droits de l’Homme, et si l’accord contribue à répartir équitablement la responsabilité des réfugiés entre les nations, plutôt que de la déplacer ».

      Un membre du gouvernement italien a précisé mardi que les migrants seraient emmenés directement vers ces centres, sans passer par l’Italie, et que ces structures seraient placées sous l’autorité de Rome en vertu d’« un statut d’extraterritorialité ». Mais de nombreuses questions sur le fonctionnement d’un tel projet restent en suspens.

      L’Italie est confrontée à un afflux de migrants depuis janvier (145.000 contre 88.000 en 2022 sur la même période). Les règles européennes prévoient que d’une manière générale, le premier pays d’entrée d’un migrant dans l’UE est responsable du traitement de sa demande d’asile, et les pays méditerranéens se plaignent de devoir assumer une charge disproportionnée.

      https://www.mediapart.fr/journal/fil-dactualites/071123/accord-migratoire-italie-albanie-l-onu-appelle-au-respect-du-droit-interna

    • Accordo Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo

      #Fulvio_Vassallo_Paleologo: «Un protocollo opaco, disumano e privo di basi legali»

      “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel Mediterraneo centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza.

      Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi da un testo (scarica qui) di nove pagine scarse e 14 articoli che indicano come funzioneranno e verranno gestiti i centri. L’accordo ha una durata di cinque anni e sarà rinnovato automaticamente a meno che una delle due parti non comunichi il proprio dissenso entro sei mesi dalla scadenza. In un anno dovrebbero essere accolte-trattenute circa 36.000 persone. I costi, dalle spese di detenzione alla sicurezza interna, saranno tutti in capo all’Italia, mentre l’Albania fornirà gratuitamente gli spazi in cui verranno costruiti i centri: uno al porto di Shengjin, circa 70 chilometri a nord di Tirana, e un altro a Gjader, nell’entroterra. I due centri dovrebbero servire per processare entro 30 giorni le richieste di asilo e per trattenere coloro a cui verrà negata la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine oppure del probabile invio in Italia. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.
      L’Italia dovrà farsi carico anche di tutte le spese legate alla costruzione dei centri che dovranno essere aperti per la primavera del 2024. Il Post riporta che il sito albanese Gogo.al ha indicato sommariamente dei costi iniziali (vedi il documento diffuso): “l’Italia verserà all’Albania entro 3 mesi un primo fondo pari a 16,5 milioni. Si prevede che oltre 100 milioni di euro saranno congelati in un conto bancario di secondo livello come garanzia”.

      La presidente del Consiglio doveva battere un colpo, dare un messaggio al suo elettorato e alla maggioranza: il “problema immigrazione”, con gli sbarchi che non accennano a diminuire 1 e il flop dell’accordo con la Tunisia, è sempre una priorità della sua agenda politica, a tal punto che è lei stessa, senza coinvolgere nessun altro ministro, a intestarsi l’operazione e dichiarare il nuovo “punto di svolta”. E’ perciò evidente che questo protocollo si inserisce dentro il solco della narrazione mediatica e normativa, dal decreto Piantedosi sulle Ong, al cosiddetto decreto Cutro, fino alla proclamazione dello stato di emergenza dell’11 aprile e alle altre modifiche ai danni di minori e richiedenti asilo, dove vale tutto per raggiungere l’obiettivo dichiarato di ostacolare gli arrivi delle persone migranti.

      Tuttavia, tutti questi tentativi, dall’esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo fino a portare fisicamente le persone in Paesi extra Ue, non sono una prerogativa solo del governo Meloni, ma hanno avuto in questi anni diversi promotori e, pur con delle differenze tra loro, una stessa matrice ideologica anti-migranti: per esempio, i respingimenti a catena dall’Italia alla Bosnia-Erzegovina, non hanno poi uno scopo così diverso dagli accordi tra Inghilterra e Ruanda.

      Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo si tratta dell’ennesimo annuncio propagandistico del governo in quanto il protocollo d’intesa è «opaco, disumano e privo di basi legali».

      «Nulla infatti – fa notare l’esperto di diritto di asilo e immigrazione – è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su quali autorità effettuano i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?», si domanda.

      Nel protocollo – si legge nel testo – le autorità italiane avranno piena responsabilità all’interno dei centri, mentre le autorità albanesi dovranno garantire la sicurezza all’esterno dei centri e durante il trasferimento dei migranti: potranno entrare nei centri solo «in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento».

      «La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi – spiega l’esperto – al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici)».

      «In quell’occasione – prosegue Paleologo – la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama».

      Anche rispetto la procedura di cosiddetto “sbarco selettivo” tra donne, minori e uomini ci sono diversi problemi di legittimità giuridica in quanto si tratta di una palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio. Anche su questo punto Paleologo è chiaro: «Il diritto di chiedere protezione internazionale è regolato secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo. Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure se sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporrebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera».

      Da Bruxelles, la Commissione UE non esclude del tutto la validità dell’accordo, affermando che il caso è diverso dall’accordo Regno Unito-Ruanda, in quanto si applicherebbe alle persone che non hanno ancora raggiunto le coste italiane. Sempre secondo l’avvocato Paleologo «il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio».

      «La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana”? Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati.
      Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea», conclude Paleologo.

      https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    • L’accordo Italia-Albania sui migranti? Solo propaganda!

      Il nuovo memorandum d’intesa tra Italia e Albania sulla gestione dei migranti? Probabilmente solo un « ennesimo annuncio propagandistico » secondo Fulvio Vassallo Paleologo che firma su ADIF [1] un dettagliato articolo che analizza l’annuncio di Giogia Meloni ( non il provvedimento perché questo non esiste ).

      In altre parole, « per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, il “Piano Mattei per l’Africa”, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee ».

      Possibile che il giurista abbia ragione, ma è anche possibile che il fine sia creare terrore in chi in Italia è già; I CPR, ancor di più se in Albani, sono strumentali a schiavizzare i migranti.

      L’avvocato e attivista pro migranti Fulvio Vassallo Paleologo, nell’articolo solleva pure una serie di perplessità giuridiche del progetto della presidente del consiglio italiano di realizzare un CPR in Albania.

      Una tra queste: « qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [e quindi l’Italia, NdR] deve avere una espressa previsione di legge, e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa » [1].

      Come possa assicurarsi, in Albania, la difesa legale del migrante e un procedimento di convalida firmato da un magistrato italiano rappresenta un grande punto interrogativo. « Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? », scrive infatti il giurista nell’articolo.

      Precisa poi Fulvio Vassallo Paleologo come « il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi ».

      Il giudizio finale dell’autore rispetto all’annuncio della Meloni non può, quindi, che essere negativo e drastico: « appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio ».

      Tagliente anche il giudizio rispetto alla firma del leader albanese, Edi Rama: « il Memorandum d’intesa rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità ».

      La differenza tra la verità di Fulvio Vassallo Paleologo e la propaganda della Meloni, tuttavia, la fanno le “visualizzazioni” del sito ADIF rispetto a quelli di Repubblica, La Stampa, Libero, Il Giornale, La Verità, Il Gazzettino, etc dove l’effetto “annuncio” è passato senza commenti critici.

      Fonti e Note:

      [1] ADIF, 7 novembre 2023, Fulvio Vassallo Paleologo, “Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali”.

      https://www.pressenza.com/it/2023/11/laccordo-italia-albania-sui-migranti-solo-propaganda

    • Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.a-dif.org/2023/11/07/un-protocollo-dintesa-con-lalbania-opaco-disumano-e-privo-di-basi-legali

    • Accordo Italia-Albania sui migranti, la UE chiede i dettagli

      L’Italia realizzerà in Albania due centri per la gestione dei migranti che potranno gestire un flusso annuale di 36mila persone. Lo ha dichiarato oggi la premier Giorgia Meloni in conferenza stampa con il primo ministro albanese Edi Rama. Ne parliamo con Genthiola Madhi, ricercatrice di Osservatorio Balcani e Caucaso, e con Andrea Spagnolo, professore di Diritto internazionale e umanitario all’Università di Torino.

      https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/luogo-lontano/puntata/trasmissione-7-novembre-2023-160500-2404283315532563

    • Ecco perché l’accordo tra Italia e Albania è illegale: tutte le procedure che violano il diritto europeo

      Rappresenta il punto più estremo dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Le tutele per le persone bisognose di protezione, invece che garantite, vengono ridotte al minimo.

      Il Protocollo stipulato tra Italia ed Albania “per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria” è il punto finora più estremo (ma, come si vedrà, anche incoerente) a cui l’Italia è giunta nel processo di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo.

      Trattandosi di un’intesa avente una chiara natura politica, che richiede oneri finanziari, e che altresì riguarda la condizione giuridica degli stranieri, quindi una materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10 co.2 della Costituzione, il Protocollo e i suoi atti attuativi devono essere ratificati dal Parlamento ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. Prive di alcun pregio mi sembrano le argomentazioni di chi ritiene che non occorre alcuna ratifica trattandosi di una sorta rinforzo ad accordi pre-esistenti.

      Scopo del Protocollo è quello di trasportare coattivamente in Albania cittadini di paesi terzi per “i quali deve essere accertata la sussistenza o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza” (art.1) in Italia. In Albania, in “aree di proprietà demaniale” (art.1) albanesi, quindi in territorio albanese a tutti gli effetti, nel quale i migranti rimarrebbero confinati “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art.4.3).

      Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga anche in via diversa da quella marittima, quindi riguardi anche persone straniere bloccate sulle vie terrestri, magari nei Balcani, purché tale trasporto avvenga “esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane” (art. 4.4). Le autorità italiane assicurano “la permanenza dei migranti all’interno delle aree impedendo la loro uscita non autorizzata” (art. 6.5) e il periodo di permanenza in Albania “non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla normativa italiana” (art. 9.1).

      Al termine delle procedure le autorità italiane “provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese” (art. 9) ovvero al rientro in Italia. Molta enfasi è stata posta sul fatto che l’accordo sia finalizzato al trasferimento forzato in Albania dei soccorsi in mare al fine di esaminare le domande di asilo dei naufraghi; tuttavia nel protocollo non c’è alcun riferimento alla procedura di asilo né alla protezione internazionale e le uniche parole che richiamano l’asilo riguardano il rinvio a non meglio definite procedure di frontiera.

      Obiettivo non secondario del protocollo, risulterebbe dunque essere l’utilizzo del territorio albanese per farvi dei centri di detenzione amministrativa per stranieri espulsi dall’Italia, ma che verrebbero trattenuti in Albania al fine di eseguire coattivamente il rimpatrio nel paese di origine. Nonostante il ministro Piantedosi si affanni a dichiarare che non si tratterà di CPR (Centri per il Rimpatrio) il testo del Protocollo dice diversamente.

      Emerge dunque evidente il rischio che l’operazione intenda nascondere una strategia per realizzare CPR inaccessibili, lontani da sguardi indiscreti e da inchieste giornalistiche, liberandosi dell’incubo di dover trovare un luogo dove aprirli in Italia, dove nessun amministratore, di qualsiasi colore politico li vuole. Esaminiamo ora l’ipotesi che il Protocollo venga applicato principalmente a persone soccorse in mare che verrebbero portate in Albania al solo scopo di detenerle e di esaminare le loro domande di asilo.

      Nel testo del protocollo si fa riferimento esplicito all’espletamento delle procedure di frontiera previste dal diritto italiano ed europeo. Prima ancora di verificare se gli standard e le garanzie previste dal diritto dell’Unione possano essere rispettate, ciò che bisogna chiedersi è se sia possibile esaminare le domande di asilo presentate da coloro che vengono deportati dal territorio italiano in cui si trovano (le navi ed altri mezzi delle autorità italiane) nel territorio albanese.

      La risposta non può che essere negativa, dal momento che il diritto dell’Unione sull’asilo (o protezione internazionale) si applica nel territorio degli Stati membri, alle frontiere, nelle zone di transito e nelle acque territoriali. Non si applica al di fuori dell’Unione. Un’applicazione extra-territoriale del diritto dell’UE non pare possibile, come del tutto correttamente messo in luce anche dal documento “Preliminary Comments on the Italy-Albania Deal” pubblicato il 9.11.23 dall’autorevole E.C.R.E. (European Council on Refugees and Exiles).

      Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene l’ipotesi di usare i centri per l’esecuzione del trattenimento degli stranieri espulsi regolato dal diritto dell’Unione con la Direttiva 115/2008/CE. Anche in tal caso non ne risulta possibile alcuna applicazione extra territoriale al di fuori del territorio degli stati membri dell’Unione.

      Va sempre considerato che non ci troviamo di fronte alla questione di come consentire l’accesso alla procedura di asilo da parte di uno straniero che si trova all’estero, e di come si possa esaminare, almeno in fase preliminare, la sua domanda di asilo al fine di consentire un suo successivo ingresso nel territorio di uno stato membro: in altri termini, di come creare delle procedure di ingresso protette a persone con un chiaro bisogno di protezione.

      All’esatto opposto, il protocollo tra Italia e Albania configura una situazione nella quale persone che sono già sotto la giurisdizione italiana, per essere stati soccorsi e trasportati da navi dello Stato, vengono subito dopo tradotte in un paese terzo al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio nazionale e predeterminare delle condizioni di esame delle domande di asilo con garanzie procedurali ridotte al minimo.

      Ammettiamo ora, come mero esercizio, che si possa sostenere che il diritto dell’Unione sia applicabile all’esame delle domande di asilo in Albania ed esaminiamo le principali questioni che si aprono: la consegna dei migranti dalle mani delle autorità italiane a quelle albanesi, allo sbarco e fino all’ingresso nei centri di detenzione, che, nonostante l’asserita giurisdizione italiana, si trovano in territorio albanese, potrebbe configurare un respingimento collettivo vietato dal diritto dell’Unione Europea. Per i respingimenti collettivi attuati con la Libia nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani il 23.02.2013 nella causa Hirsi Jamaa.

      Nessuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane, e dunque ogni procedura giuridica dovrebbe iniziare in territorio albanese all’interno di centri sotto la giurisdizione italiana (ma anche albanese). La restrizione della libertà personale di coloro che vi verrebbero rinchiusi, per essere conforme all’art. 13 Costituzione, va convalidato dall’autorità giudiziaria con un esame caso per caso a seguito del quale il provvedimento di trattenimento viene convalidato o meno.

      Come garantire dentro il microcosmo del campo a gestione italiana il corretto funzionamento della procedura, tra cui ovviamente il diritto del richiedente che si intende trattenere di essere assistito da un legale italiano di fiducia? In ogni caso deve essere esclusa la possibilità di un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo perché tassativamente vietato dal diritto dell’Unione che vieta agli Stati di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” (Direttiva 2013/33/UE articolo 7 paragrafo 1).

      Come noto, il diritto dell’Unione prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che comunque in Albania non sarebbero mai praticabili.

      La larga maggioranza dei richiedenti asilo, sicuramente tutte le situazioni vulnerabili e i minori, ma anche tutti coloro cui non sarebbe applicabile la procedura accelerata di frontiera, non potrebbero dunque in nessun caso essere trattenuti, ma poiché non possono neppure rimanere in Albania al di fuori dal centro, dovrebbero essere trasportati in Italia immediatamente per continuare l’accoglienza e l’esame ordinario della loro domanda di asilo sul territorio nazionale.

      Nei confronti di coloro che rimarrebbero rinchiusi nei centri in Albania va garantito senza eccezioni l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di ricevere “le informazioni sulla procedura con riguardo alla situazione particolare del richiedente” nonché di comunicare con “organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti” (Direttiva 2013/32/UE art. 19).

      In caso di diniego il richiedente deve poter pienamente esercitare il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito (Cost. articolo 24) e ha diritto ad un “ricorso effettivo” (Direttiva 2013/32/UE art. 46 par.1) che per essere tale deve garantire alla persona la libertà di consultare un legale e di sceglierlo.

      Nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera il giudice mantiene la possibilità di concedere la sospensiva nelle more della decisione di merito ovvero “autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro” (art.46 par.6 lettera d). Ma, in caso di autorizzazione il richiedente non si trova affatto sul territorio dello Stato membro (!) bensì in Albania, il che comporta l’immediato trasferimento in Italia del richiedente da parte delle autorità italiane e la prosecuzione dell’iter della domanda in Italia.

      Il Protocollo appare dunque un incredibile coacervo di procedure radicalmente illegittime rispetto al diritto dell’Unione vigente e che comunque non potrebbero essere applicate in modo razionale e rispettoso di garanzie procedurali e di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti, sia che si tratti di naufraghi prima e richiedenti asilo poi, che di stranieri espulsi e poi trattenuti in Albania.

      https://www.unita.it/2023/11/10/ecco-perche-laccordo-tra-italia-e-albania-e-illegale-tutte-le-procedure-che-vi

    • Ancora lui, ancora Edi

      Periodicamente il primo ministro albanese si occupa dei flussi migratori italiani. Ripassare quali siano le sue motivazioni è utile, anche perché questa volta, forse, ha esagerato. Un commento

      Edi Rama governa l’Albania da più di dieci anni. Le prime elezioni le vinse nel 2013, pochi mesi dopo il “siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto” di Pierluigi Bersani. Da noi la sinistra pareggiava con un Berlusconi terminale; sull’altra sponda dell’Adriatico, invece, Edi l’artista, Edi il socialista, l’ex sindaco di Tirana che aveva colorato i palazzi, archiviava per sempre la stagione di Sali Berisha. Voltava pagina. “Come sono avanti questi albanesi”, è il qualunquismo mezzo di sinistra e mezzo di disprezzo che da allora dedichiamo ai nostri vicini. E su questa carenza di conoscenza, da più di un decennio, periodicamente, Edi Rama lucra politica. Non lo vediamo perché per vederlo bisogna considerare l’Albania uno stato. E invece per noi l’Albania è un luogo dell’immaginario, e i sogni non sono portatori di interessi. Non lo vediamo, perché la fiction italo-albanese è utile a mascherare la povertà della nostra politica estera.

      L’ultimo gioco di prestigio Rama lo ha regalato lunedì scorso a Palazzo Chigi, questa volta il complice non è stato l’«amico Renzi» (2014), né l’«amico Di Maio» (2021), siccome siamo nel 2023 è stata «l’amica Giorgia Meloni». Non sono certo che commentare il memorandum (https://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2023/11/08/1699429572-Protocollo-Italia-Albania-.pdf?x19465) firmato dai due governi sia utile, non solo perché è evidentemente poco praticabile sul piano pratico e giuridico, ma perché seguo da diversi anni le relazioni tra Italia e Albania e non credo più alle parole che si dicono le due diplomazie. A chi non avesse seguito, basti sapere che nel corso della conferenza stampa (https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-meloni-incontra-il-primo-ministro-della-repubblica-d-albania/24178), la Presidente del Consiglio ha dichiarato che l’Albania “concederà all’Italia alcune zone del suo territorio” (sic!), sulle quali l’Italia potrà realizzare “a proprie spese e sotto la propria giurisdizione” due strutture “per la gestione dei migranti illegali”. Per l’esattezza il governo ipotizza di portare in Albania tremila persone al mese, che dovrebbero rimanere in questi centri durante la domanda di asilo, negata la quale il richiedente verrebbe allontanato dal territorio albanese (non si capisce per andare dove, se si rimpatria dall’Italia o dall’Albania). Flusso complessivo annuale stimato: 36.000 persone. Come alla fine delle pubblicità dei farmaci, Meloni in chiusura ha messo le avvertenze – “Il protocollo disegna la cornice politica, all’accordo dovranno seguire i provvedimenti normativi conseguenti” – e ha fornito una vaga data di inizio progetto: primavera 2024. Tradotto: questo accordo non esiste, è pura propaganda.

      Nulla di nuovo sotto il sole italo-albanese. Qualcosa di simile era già avvenuto nel 2018, quando la crisi della nave Diciotti bloccata da Salvini nel porto di Catania venne “risolta” dai media manager del governo albanese, che promise su twitter l’accoglienza di 20 migranti, venendo immediatamente ripreso dall’account della Farnesina, e quindi da tutte le agenzie stampa. Anche allora i ministri Salvini e Di Maio (il governo era gialloverde) enfatizzarono la condotta del piccolo paese balcanico “più europeo e più solidale degli stati membri”: a sinistra ci si cullò nel sogno di un paese povero ma ospitale, a destra ci si vantò dei frutti dell’intransigenza del ministro degli Interni, che con il suo “no” aveva imposto una redistribuzione, peraltro a un paese che con il suo gesto ripagava finalmente l’accoglienza degli italiani (come se la Lega Nord degli anni Novanta fosse stata accogliente verso gli albanesi). Giorni di dichiarazioni allucinanti e vuote, perché nessun asilante della Diciotti arrivò mai in Albania (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Nessun-asilante-della-Diciotti-e-mai-arrivato-in-Albania-192453), né alcuna autorità si pose mai il problema che ciò accadesse, essendo illegale il trasferimento di un migrante giunto in Ue in uno stato terzo, fuori dal sistema di asilo europeo.

      Ed è proprio qui che la sparata di Meloni supera quella di Salvini: perché per evitare l’obiezione dell’illegalità di un trasferimento forzato fuori dall’Ue, a questo giro si dice che il porto di Shëngjin e le sue strutture saranno “territorio italiano”, e che da quel territorio i migranti dislocati in Albania potranno chiedere asilo all’Italia. Ammesso e non concesso che sia possibile trasportare i migranti intercettati, poniamo, al largo della Sicilia in un porto a 700 km di mare delle rotte del Mediterraneo centrale (non certo l’approdo più vicino imposto dalle Convenzioni internazionali sul soccorso in mare), davvero non si capisce come sia possibile realizzare una Italia extraterritoriale, capace di organizzare un’accoglienza rispettosa del diritto internazionale fuori dai propri confini. Ma sto contravvenendo al buon proposito di non commentare un memorandum che non diventerà mai operativo. Torniamo alla politica, e in particolare alla politica albanese. Perché, ciclicamente, Edi Rama si occupa delle nostre questioni migratorie?

      Per lo stesso motivo per cui nel 2020 sceneggiò di inviare una squadra di infermieri in Lombardia per aiutare le nostre terapie intensive intasate dal Covid-19 (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Dare-un-senso-alla-solidarieta-del-governo-albanese-200768): il video sulla pista dell’aeroporto di Tirana (https://www.youtube.com/watch?v=XYtgeZjtIko

      ), con i poveri medici già inscafandrati è degno della Corea del Nord (per la cronaca, si trattava di ragazzi inesperti, come emerse negli ospedali del bresciano dove vennero dislocati, sostanzialmente per apprendere le tecniche di contrasto al virus, nel momento in cui la pandemia divampava anche in Albania). Nel 2018, come nel 2020 come nel 2023, per Edi Rama l’obiettivo è sempre uno solo: entrare nel flusso narrativo delle vicende europee, accreditarsi tra i partner come leader d’area e dipingere presso le opinioni pubbliche l’Albania come membro di fatto dell’Unione europea. Cose che aiutano a far dimenticare che su ogni singolo dossier dei negoziati di adesione il suo paese arranca.

      La conferenza stampa di Rama e Meloni non ha raccontato l’avvenimento di un fatto diplomatico. È essa stessa il fatto diplomatico. Dinanzi agli italiani, Rama ha offerto a Meloni la possibilità di fingere che l’Italia abbia una politica estera assertiva (una funzione che lo stato albanese ha svolto altre volte nella storia d’Italia), dinanzi agli europei, Meloni ha offerto a Rama ciò che tutti i governi italiani garantiscono a prescindere dal colore politico: il certificato di europeità. “Non solo l’Albania si conferma una nazione amica dell’Italia – ha dichiarato la Presidente – ma anche una nazione amica dell’Unione europea. Nonostante sia solo un paese candidato si comporta già come un paese membro dell’Unione”. Insomma, da dieci anni il copione è lo stesso, ma i nostri governi cambiano ed ereditano il discorso dal precedente, mentre Rama resta e continua ad affinare la sua interpretazione: “Preferisco far riposare il traduttore”, dice prima di sfoderare il suo italiano, con lo sguardo umile di chi vorrebbe fare di più. E poi va dritto al cuore, dritto sul senso di colpa della sinistra, dritto sul complesso di superiorità della destra: “Non avremmo fatto questo accordo con nessuno stato Ue. Il debito che abbiamo con l’Italia non si paga, ma se l’Italia chiama l’Albania c’è. Se ci sono domande bene, se non ci sono firmiamo e andiamo in vita dopo aver fatto il nostro dovere”.

      Da dieci anni, Edi Rama governa il suo paese con i media stranieri e il consenso che miete all’estero, da Bruxelles ad Ankara (perché esiste anche un copione “orientalista” consolidato, ma questa è un’altra storia: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-candidata-all-Europa-o-provincia-ottomana-195112). Oggi in Albania manca una opposizione credibile, sia a livello nazionale che municipale, principalmente perché opporsi non conviene. La criminalità organizzata è scesa a patti con questo nuovo, singolo, potere. La corruzione non dilaga, è endemica, l’unico metodo possibile. Le riforme richieste dall’Ue arrancano, gli albanesi emigrano in massa: senza barconi, ma chiedendo asilo in nord Europa, come gli eritrei della Diciotti.

      Per tutti questi motivi Edi (che è cresciuto a Rai e Mediaset e conosce il potere ipnotico che l’estero esercita sulla periferia albanese e che il ricordo della migrazione albanese esercita su di noi) ogni tanto un giretto in Italia se lo fa. E proprio per questi motivi, proprio perché l’Albania reale, nonostante la nostra cooperazione e le nostre politiche, oggi è un paese così, noi abbiamo bisogno di un’Albania che ci racconti quanto siamo stati bravi. Che ci confermi che stiamo raccogliendo i frutti dell’accoglienza seminata trenta anni fa. Che ci rassicuri sul fatto che sappiamo stare nel Mediterraneo, e che sul Mare Nostrum disponiamo di tavoli e relazioni che ci consentono di farci ascoltare in Europa. Questa volta, forse, l’hanno sparata troppo grossa. La ricorrente bugia italo-albanese è un’impostura morale che interessa a poche persone, ma sta oltrepassando le soglie della sostenibilità. Il risveglio rischia di essere molto brusco.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Ancora-lui-ancora-Edi-228139

    • Albania Agrees to Host Centres Processing Migrants to Italy

      Albanian Prime Minister Edi Rama has signed an agreement in Rome pledging to host centers that will process the claims of thousands of migrants rescued by Italy at sea.

      Italian Prime Minister Giorgia Meloni and her Albanian counterpart, Edi Rama, on Monday in Rome signed an important memorandum of understanding under which Albania has agreed to host centres managing thousands of would-be migrants to Italy rescued at sea.

      “Mass illegal immigration is a phenomenon that no EU state can deal with alone, and collaboration between EU states and non-EU states, for now, is fundamental,” Meloni said.

      “The memorandum has three main goals”, she explained; to combat people smuggling and illegal migration, and to welcome only those that have rights to international protection.

      Under the deal, Italy will set up two centres in Albania, which Meloni said in the end might handle “a total annual flow of 36,000 people”.

      Jurisdiction over the centres will be Italian.

      “Albania will grant some areas of territory”, where Italy will create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to 3,000 people who will remain there for the time needed to process asylum applications and, possibly, for the purposes of repatriation,” said Meloni, Italy’s ANSA news agency reported.

      One centre will be at the northwestern Albanian port of Shëngjin, which will handle disembarkation and identification procedures and where Italy will set up a first reception and screening centre.

      In Gjader, also in north-western Albania, it will set up a second, pre-removal centre, CPR, structure for subsequent procedures, ANSA added.

      The deal does not apply to immigrants arriving on Italian territory but to those rescued in the Mediterranean by Italian official ships – not those rescued by NGOs. It does not apply to minors, pregnant women and vulnerable persons.

      Albania will collaborate on the external surveillance of the centres. A series of protocols will follow that outline the framework. The plan is to make the centres operational in the spring of 2024, Meloni said.

      Since Meloni’s far-right government came into power, one of its priorities has been to reduce the number of people arriving illegally in Italy through the Central Mediterranean or Western Balkan migration routes.

      This goal explains Italy’s renewed political interest in the Balkans. Several top Italian political figures, including Meloni herself and Foreign Minister Antonio Tajani, have been regularly meeting counterparts in Slovenia, Croatia and Albania in the last months. A central point of these meetings has been migration.

      Data published by the Italian Department of Public Safety show that the number of irregular arrivals in Italy in 2023 until November 1, 2023, was 145,314, a 165-per-cent increase compared to 2021, and 64 per cent higher than 2022.

      Albania’s Rama said Albania could not reach a similar agreement with any other country in the EU, citing the unique connections between Albania and Italy and Italians and Albanians.

      Sa far, Albania has had limited capacities to host migrants, most of whom use it as transit country to reach EU countries.

      Rama added that Albania owes the Italian people a debt for “what they did to us from the first day that we arrived on the shores of [Italy] to find support and to imagine and have a better life”.

      After the fall of communism of Albania in 1991, many Albanians fled to Italy’s southern coasts by boat. According to data published in 2021 by the Italian National Institute of Statistic, 230,000 Albanian citizens have acquired Italian citizenship since 1991.

      https://balkaninsight.com/2023/11/06/albania-agrees-to-host-centres-processing-migrants-to-italy

    • Italy-Albania agreement adds to worrying European trend towards externalising asylum procedures

      “The Memorandum of Understanding (MoU) between Italy and Albania on disembarkation and the processing of asylum applications, concluded last week, raises several human rights concerns and adds to a worrying European trend towards the externalisation of asylum responsibilities,” said today the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović.

      “The MoU raises a range of important questions on the impact that its implementation would have for the human rights of refugees, asylum seekers and migrants. These relate, among others, to timely disembarkation, impact on search and rescue operations, fairness of asylum procedures, identification of vulnerable persons, the possibility of automatic detention without an adequate judicial review, detention conditions, access to legal aid, and effective remedies. The MoU creates an ad hoc extra-territorial asylum regime characterised by many legal ambiguities. In practice, the lack of legal certainty will likely undermine crucial human rights safeguards and accountability for violations, resulting in differential treatment between those whose asylum applications will be examined in Albania and those for whom this will happen in Italy.

      The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalising asylum as a potential ‘quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees, asylum seekers and migrants. However, externalisation measures significantly increase the risk of exposing refugees, asylum seekers and migrants to human rights violations. The shifting of responsibility across borders by some states also incentivises others to do the same, which risks creating a domino effect that could undermine the European and global system of international protection.

      Ensuring that asylum can be claimed and assessed on member states’ own territories remains a cornerstone of a well-functioning, human rights compliant system that provides protection to those who need it. It is therefore important that member states continue to focus their energy on improving the efficiency and effectiveness of their domestic asylum and reception systems, and that they do not allow the ongoing discussion about externalisation to divert much-needed resources and attention away from this. Similarly, it is crucial that member states ensure that international co-operation efforts prioritise the creation of safe and legal pathways that allow individuals to seek protection in Europe without resorting to dangerous and irregular migration routes.”

      https://www.coe.int/en/web/commissioner/view/-/asset_publisher/ugj3i6qSEkhZ/content/id/261934338

    • German Chancellor Scholz to examine Italy-Albania asylum deal

      The German leader has signalled an openness to study Italy’s recent agreement to hold asylum seekers in centers in Albania. The deal has raised human rights concerns, including from the Council of Europe.

      German Chancellor Scholz has said he will look “closely” at Italy’s plans to establish centers in Albania to hold migrants. Speaking on the sidelines of the congress of European Socialists in the Spanish city of Malaga, he noted that Albania is a candidate for EU membership and that challenges like migration needed to be addressed on a European level, reported Reuters.

      “Bear in mind that Albania will quite soon, in our view, be a member of the EU, implying that we are talking about the question of how can we jointly solve challenges and problems within the European family,” Scholz told reporters on Saturday (November 11).

      The Memorandum of Understanding between the Italian and Albanian governments, announced last week, will see tens of thousands of migrants who were rescued in the Mediterranean housed in closed centers in Albania while authorities assess their asylum requests.

      “Such deals, that have been eyed there, are possible, and we will all look at that very closely,” Scholz stated during the briefing, according to Reuters.

      He emphasized that a clear European course in migration policy was needed “to correct things that have not been right in the past (and) to establish a solidarity mechanism so that not each country on its own has to try and master the challenges alone.”
      ’It becomes less attractive for them to pay big money to smugglers’

      If the Italy-Albania deal is implemented, it would be the first time that such an idea would actually be put in place, Ruud Koopmans, a professor for migration studies and advisor to the German Federal Office for Migration and Refugees, BAMF, told DW in an interview. He referred to unsuccessful attempts by Denmark and the UK to try something similar in Rwanda.

      From a legal perspective, the Italy-Albania deal could become problematic if people who are rescued on Italian territory instead of in international waters are sent to Albania, Koopmans noted. “When people from the Sahara come to Italy and are then sent to Albania, there is no prior connection to Albania. This could be legally problematic.”

      Koopmans said that it could also become difficult to send people back who are rejected. “…(T)his is not easy in practice, as home countries often do not cooperate and documents are missing. This is a problem that Albania will also face. But if people know that they will have to wait in Albania if they are rejected, it becomes less attractive for them to pay big money to smugglers,” he said.

      Discussions on finding solutions to increasing asylum numbers are gaining momentum, Koopmans said. “More and more countries are looking for solutions. Denmark, Austria, the Netherlands and Germany are having discussions along these lines.” Deals like the Italy-Albania agreement could present an opportunity for countries neighboring the EU, in that they could help their efforts to join the bloc, he added.

      Deal could undermine human rights safeguards, Mijatović

      Italy’s deal has raised concerns among Italy’s opposition as well as rights groups who see it as an attack on the right to asylum. The NGO Emergency said that the deal is “in reality, ...a way to block migrants from arriving on Italian soil – and therefore European soil – to ask for asylum, as required by European and international law. (This is) yet another attack on asylum rights and the provisions of Article 10 of our Constitution.”

      Concerns were also expressed by Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović. She warned that the deal’s legal ambiguities could undermine human rights safeguards and accountability. “The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalizing asylum as a potential ’quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees,” she said in a press release on November 13.

      Mijatović urged member states to focus on improving domestic asylum and reception systems and to prioritize safe and legal pathways for protection in Europe.

      Germany announces streamlined asylum process

      The chancellor’s remarks in Malaga came on the heels of an agreement with Germany’s 16 states on a tougher migration policy and increased funding for refugee hosting capacities.

      Faced with an increase in the number of asylum cases filed in Germany, estimated to reach 300,000 this year, the government has announced it will accelerate procedures.

      At all BAMF offices, the procedure for registering asylum seekers now includes photographing and fingerprinting, allowing for immediate data checks to rule out potential multiple identities. The system allows other agencies involved in the asylum process to access biometric data as well, according to BAMF. Arabic names will be transferred into the Latin alphabet to prevent differences in spelling and other mix-ups.

      Furthermore, mobile phone searches will only be conducted on a case-by-case basis, BAMF said, and queries to the Schengen Information System (SIS) will be reduced: if the last SIS search was within 14 days, an additional inquiry is waived.

      A spokesperson from BAMF said that these specific measures would make procedures more efficient, while maintaining high-security standards. The asylum procedure is meant to last 6.7 months on average. However, when considering negative decisions, administrative court proceedings take on average 21.8 months in the first instance, the spokesperson noted.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53194/german-chancellor-scholz-to-examine-italyalbania-asylum-deal

    • Accordo Italia-Albania, ASGI: è incostituzionale non sottoporlo al Parlamento

      La Costituzione italiana prevede che la ratifica di trattati internazionali spetti al Presidente della Repubblica, previa, quando occorra, l’autorizzazione con legge del Parlamento (art. 87, Cost.).

      Tutti i tipi di trattati internazionali costituiscono una delle fonti del diritto internazionale, la cui efficacia nell’ambito nazionale deriva da un ordine di esecuzione dato per effetto della loro ratifica che fa sorgere l’obbligo internazionale della loro attuazione interna.

      Come ha ricordato il Ministero degli affari esteri nella sua circolare n. 2/2021 del 30 luglio 2021 “quale che sia la loro denominazione formale (trattati, accordi, convenzioni, memorandum, etc.), i trattati internazionali possono essere conclusi tramite documenti a firma congiunta, scambi di note, scambi di lettere o altre modalità, essendo riconosciuto dal diritto internazionale il principio della libertà delle forme.”

      Gli atti per i quali l’art. 80 Cost. prescrive la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica sono i «trattati che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi».

      La dottrina giuridica afferma che si tratti di una forma di controllo democratico della politica estera e di compartecipazione delle Camere al potere estero del Governo. Anche per tale rilevanza politica complessiva l’art. 72, comma 4 Cost. prescrive che i disegni di legge per la ratifica siano esaminati sempre con procedura legislativa ordinaria.

      Inoltre, è bene ricordare che, in generale, qualsiasi norma non costituzionale deve essere interpretata sempre in modo conforme alla Costituzione, sicché anche questo Protocollo deve essere interpretato in modo conforme all’art. 80 Cost.

      Secondo il Governo, tuttavia, il Protocollo italo-albanese in materia di gestione delle migrazioni non deve essere sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica, perché sarebbe l’attuazione del Trattato di amicizia e collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, con scambio di lettere esplicativo dell’articolo 19, fatto a Roma il 13 ottobre 1995, ratificato e reso esecutivo sulla base della legge 21 maggio 1998, n. 170.

      Tesi giuridicamente infondata, perché l’art. 19 del Trattato del 1995 prevede soltanto che Italia ed Albania “concordano nell’attribuire una importanza, prioritaria ad una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi per regolare, nel rispetto della legislazione vigente, i flussi migratori” e che “riconoscono la necessità di controllare i flussi migratori anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi della Repubblica Italiana e della Repubblica di Albania e di concludere a tal fine un accordo organico che regoli anche l’accesso dei cittadini dei due Paesi al mercato del lavoro stagionale, conformemente alla legislazione vigente”.

      Dunque, nel Trattato del 1995 Italia e Albania si sono accordate per concludere successivi protocolli in materia migratoria soltanto per l’ipotesi prevista nell’art. 19 comma 2 e cioè per regolare l’immigrazione albanese in Italia (che infatti è stata poi regolata con due successivi accordi firmati in forma semplificata nel 1997 e nel 2008), mentre le norme che si riferiscono genericamente alla regolazione e al controllo dei flussi migratori alludono a materie del tutto vaghe e suscettibili delle più diverse applicazioni, future e incerte.

      Pertanto, la mera indicazione che si tratti di un Protocollo sulla “cooperazione in materia migratoria” e il richiamo a due precedenti trattati e accordi non possono certo essere lo strumento per eludere l’obbligo derivante dall’art. 80 Cost. per il Governo di presentare alle Camere un apposito disegno di legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo e della futura intesa di attuazione.

      Il Protocollo appena firmato prevede disposizioni molto dettagliate che riguardano proprio i casi in cui l’art. 80 Cost. esige la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica, perché:

      – comportano oneri alle finanze, sia perché il Protocollo pone espressamente a carico dell’Italia specifici oneri finanziari, per l’allestimento delle strutture (art. 4, comma 5), per l’erogazione di servizi sanitari (art. 4, comma 9), per la realizzazione delle strutture necessarie al personale albanese addetto alla sicurezza esterna dei centri (art. 5., comma 2), per la riconduzione nei centri da parte delle autorità albanesi di eventuali migranti usciti illegalmente dai centri (art. 6, comma 6) e per l’impiego dei mezzi e delle unità albanesi (art. 8, comma 3) e per eventuali risarcimenti del danno (art. 12, comma 2), cioè per la realizzazione e gestione dei centri, per il relativo personale, per il trasporto da e per l’Albania degli stranieri trattenuti e per la loro assistenza anche sanitaria (a cui dovrà aggiungersi anche la copertura degli oneri connessi al gratuito patrocinio per le spese di difesa degli stranieri, per quelle di interpretariato e per quelle sullo svolgimento dell’attività delle commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale e dei giudici che convalideranno il trattenimento e che giudicheranno sugli eventuali ricorsi), sia perché il Protocollo prevede specifici contributi, iniziali (16,5 milioni di euro) e una successiva garanzia di 100 milioni di euro, che devono essere erogati dall’Italia all’Albania i cui importi e scadenze sono specificati in un apposito allegato al Protocollo stesso;

      - comportano modificazioni di leggi, perché il Protocolloper essere effettivamente attuato non soltanto prevede espressamente un’intesa successiva (che, dunque, dovrà essere sottoposta alle Camere congiuntamente al Protocollo), ma prevede norme che comportano operazioni amministrative e giudiziarie concernenti stranieri giunti in Italia e che saranno svolte in Albania, cioè norme non previste dalle attuali leggi italiane. Questo significa che il protocollo, per essere attuato, esige implicitamente la modificazione di tante norme legislative vigenti in Italia, che regolano la condizione giuridica degli stranieri che giungono in Italia e che presentano in Italia una domanda per fruire del diritto di asilo nel territorio della Repubblica italiana (e la condizione giuridica dello straniero e le condizioni per il diritto di asilo sono materie coperte da riserva di legge ai sensi dell’art. 10, commi 2 e 3 Cost.). Infatti, in base alle disposizioni del protocollo costoro potranno essere soccorsi da navi italiane, e dunque in territorio italiano, e da qui trasportati poi in Albania per essere sottoposti in territorio albanese a misure restrittive alla libertà personale (e i casi e i modi dei provvedimenti restrittivi della libertà personale sono materie coperte da riserva assoluta di legge e da riserva di giurisdizione previste dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU); tali restrizioni avverranno mediante provvedimenti disposti e attuati in Albania da autorità italiane in modi che saranno, in tutto o in parte, diversi da quelli già previsti dalle vigenti norme legislative italiane (p. es. occorrerà indicare quale sarà l’autorità di pubblica sicurezza competente dal punto di vista geografico ad adottare i provvedimenti amministrativi di espulsione e i provvedimenti di trattenimento, occorrerà individuare la commissione territoriale competente ad esaminare eventuali domande di protezione internazionale, occorrerà dare una nuova applicazione al concetto di “accompagnamento immediato alla frontiera” di persone che in realtà sono già fuori del territorio italiano, occorrerà stabilire modi e garanzie per interpreti, difensori e stranieri durante lo svolgimento in Albania dei colloqui con le autorità di pubblica sicurezza e con i giudici, occorrerà disciplinare i procedimenti di trasporto degli stranieri da e per i centri albanesi);

      – comportano regolamenti giudiziari che riguardano la giurisdizione italiana, sia relativamente alla sua estensione territoriale e personale (inclusa la regolamentazione di eventuali contenziosi sulla responsabilità civile di ciò che accadrà in Albania che saranno espressamente di competenza dei giudici italiani), sia con riguardo alla effettuazione da parte dei giudici italiani nei centri albanesi dei giudizi di convalida dei trattenimenti e degli eventuali giudizi sui ricorsi contro le eventuali decisioni di diniego e di inammissibilità delle domande di protezione internazionale (occorrerà disciplinare la competenza territoriale del giudice che dovrà giudicare in Albania e le modalità delle notificazioni e dello svolgimento dei giudizi);

      - hanno natura politica, poiché le disposizioni del Protocollo impegnano durevolmente la politica estera italiana, avendo una durata di cinque anni ed essendo state negoziate e stipulate personalmente e pubblicamente dai capi dei Governi dei due Stati e non già da Ministri o da meri funzionari ministeriali, e poiché le premesse del Protocollo espressamente lo motivano con la “comunanza di interessi e di aspirazioni” tra i due Stati e dei due Stati alla prevenzione dei flussi migratori illeciti e della tratta degli esseri umani, e a promuovere la crescente collaborazione bilaterale tra Italia ed Albania “anche nella prospettiva dell’adesione della Repubblica di Albania all’UE”, che è l’evidente interesse principale di tutte le azioni di politica estera del governo albanese. La grande ed evidente politicità dell’accordo è confermata dalle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Presidente del Consiglio dei ministri al momento della firma del protocollo davanti al Primo ministro albanese: il Protocollo è stato definito «importantissimo […] che arricchisce un’amicizia storica [e] una cooperazione profonda» tra i due Stati, la «cornice politica e giuridica» della collaborazione tra Italia e Albania e «un accordo di respiro europeo».

      Inoltre, il Protocollo ha per oggetto misure che attengono alle materie della sicurezza e della difesa nazionale. L’attuazione delle disposizioni previste dal Protocollo comporta il trasporto verso l’Albania di stranieri mediante mezzi delle competenti autorità italiane, il che avverrà in modi sostanzialmente forzati, mediante aerei o navi delle Forze armate italiane, le quali hanno già basi in Albania e alle quali il Governo con l’art. 21 del decreto-legge 19 settembre 2023, n. 124 ha affidato la realizzazione dei centri di permanenza per il rimpatrio, dei punti di crisi e dei centri governativi di accoglienza per richiedenti asilo, trattandosi di materie che lo stesso articolo del citato decreto-legge attribuisce espressamente alla materia della difesa e della sicurezza la realizzazione.

      Proprio su queste materie la legge n. 25/1997 (e oggi l’art. 10, comma 1, lett. a) del codice dell’ordinamento militare, emanato con d. lgs. n. 66/2010) ha previsto che tutte le deliberazioni del Governo in materia di sicurezza e di difesa debbano essere sempre approvate dal Parlamento. Ciò comporta che dal 1997 sono sottoposti all’esame delle Camere mediante leggi di autorizzazione alla ratifica anche tutti i tipi di accordi internazionali in materia di sicurezza e di difesa.

      *

      È dunque indispensabile l’esame parlamentare del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo protocollo e della sua futura intesa di attuazione e delle norme nazionali che daranno esecuzione nell’ordinamento italiano a questi accordi.

      Va ricordato, infine che:

      – la proposta di legge di autorizzazione alla ratifica non necessariamente deve essere di iniziativa del Governo (la Costituzione non lo prescrive), sicché, come è già accaduto in alcune altre occasioni, in mancanza di una presentazione di un disegno di legge del Governo essa può essere presentata nelle Camere anche da singoli parlamentari;

      – L’Assemblea di ogni Camera ha il potere di presentare alla Corte costituzionale ricorso per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato.

      In ogni caso qualora questo Protocollo non sia sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica in conformità con l’art. 80 Cost. non potrà mai essere eseguito, né potrà essere considerato vincolante per l’ordinamento italiano, quale obbligo internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost.

      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento

    • Nell’intesa Italia-Albania, la continuità deve preoccuparci quanto la novità

      L’accordo spinge la pratica di esternalizzare le frontiere verso direzioni preoccupanti. Dubbi sulla sua effettiva applicabilità

      A più di una settimana dall’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania in materia di “gestione dei flussi migratori”, la mossa del governo italiano ha attirato diverse critiche in ambienti giuridici e militanti per le sue implicazioni in termini di diritti umani e di rispetto della legislazione italiana ed europea in materia di asilo.

      Nella consueta propaganda del governo, l’accordo (reso noto soltanto a operazione conclusa) è stato presentato come un successo diplomatico, un accordo “storico” e “innovativo”. Di fronte alle preoccupazioni sollevate da varie voci, la Presidente del Consiglio non è entrata nel merito, limitandosi a dichiararsi “fiera” di questa azione pionieristica, che “può diventare un modello per altre nazioni di collaborazione tra Paesi Ue e extra Ue” 1.

      Il protocollo prevede l’istituzione di due centri (paradossalmente definiti da alcuni media “di accoglienza”) in territorio albanese, ma sottoposti alla giurisdizione italiana: uno per le procedure di identificazione e gestione delle domande di asilo, l’altro per i rimpatri, sul “modello” dei CPR. È previsto un termine di 28 giorni per valutare le domande di ogni richiedente: una velocizzazione dei tempi che sicuramente andrebbe a discapito dell’accuratezza delle raccolte delle prove e delle valutazioni. Per quanto riguarda il “modello” del centro per i rimpatri, è ormai noto quanto gli abusi fisici e psicologici verso i detenuti siano frequenti, e quante morti evitabili sono state causate da questo sistema.

      I dubbi sulla legittimità e le possibili conseguenze dell’accordo sono tanti e fondati. E nonostante alcune affermazioni di approvazione da parte di politici europei per l’esperimento “interessante”, diversi giuristi esperti di migrazioni e diritto d’asilo hanno espresso le loro riserve sull’intesa. Una dichiarazione di ASGI sottolinea le ragioni per cui la mancata approvazione parlamentare di un accordo come questo non può ritenersi legittima. L’intesa prevede infatti disposizioni su alcune materie (finanziarie, scelte di politica estera, modifiche all’ordinamento giuridico) di cui dovrebbe necessariamente rispondere la rappresentanza democratica 2. Nel merito dei contenuti si è ampiamente espresso Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e attivista, descrivendo l’accordo come “privo di basi legali”.

      Un primo elemento di illegittimità è il trasferimento delle persone soccorse dalle navi italiane in territorio extra-europeo. Non si conoscono poi le attribuzioni delle competenze sulle procedure, le modalità dei rimpatri, i criteri per l’attribuzione delle caratteristiche di “vulnerabilità” che impedirebbero il trasferimento di alcune persone tratte in salvo da navi italiane verso l’Albania.

      Critiche sono arrivate anche da alcune organizzazioni non governative. Emergency ha descritto l’accordo come l’ennesimo attacco al diritto di asilo 3. La non appartenenza dell’Albania all’UE significa l’impossibilità di applicare la legge europea all’azione delle autorità albanesi. Inoltre, per i tempi sbrigativi con cui le persone richiedenti asilo sarebbero valutate, potrebbe non esserci spazio per il diritto al ricorso contro la decisione di rifiuto della domanda. In modo analogo, Amnesty International ha condannato l’accordo come “illegale e impraticabile” 4.

      Sia nelle presentazioni istituzionali sia nelle critiche, si è parlato di questo accordo soprattutto in termini di novità, di rottura con il quadro giuridico esistente. Ma è bene anche enfatizzare anche gli aspetti di continuità di questa scelta politica con il passato. Un’opinione autorevole arriva dal Consiglio d’Europa, che nelle parole della Commissaria per i diritti umani Dunja Mijatović esprime la sua preoccupazione per la tendenza crescente in Europa ad esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo.

      La dichiarazione mette a punto una serie di fattori ambigui e problematici dell’accordo: “le tempistiche degli sbarchi, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, la possibilità automatica di detenzione senza un adeguato controllo giudiziario, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e a rimedi effettivi […]. In pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente comprometterà le garanzie fondamentali per i diritti umani e la responsabilità per le violazioni, determinando un trattamento differenziato tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia” 5.

      E sebbene tutte le ambiguità e anomalie implicite nel trattato potrebbero comportarne il fallimento o addirittura l’inapplicabilità, il protocollo d’intesa non fa che aggravare la preoccupante tendenza a esternalizzare le frontiere, ormai consolidata.

      E non è chiaramente una prerogativa esclusiva del governo attuale e delle forze politiche che lo sostengono. Infatti, il memorandum si inserisce perfettamente nel solco di altri accordi, più o meno opachi, che i nostri governi – ma anche altri governi europei e la stessa Unione – sottoscrivono da anni con paesi extra UE. Allora, forse, vale la pena di riflettere su quanto siamo disposti ad accettare, di volta in volta, di sacrificare un pezzo in più dei diritti delle persone in movimento, in una posta al ribasso che ha normalizzato sistemi che producono morte, sfruttamento e torture come inevitabili conseguenze della sacralità dei confini.

      Questa tendenza a esternalizzare tramite accordi con paesi terzi è indice di scarsa democraticità.

      Innanzitutto perché uno strumento come un protocollo d’intesa, o Memorandum of Understanding, è per sua natura “flessibile”. La preferenza sempre più marcata per questo tipo di accordo da parte del governo italiano – si pensi al memorandum con la Libia nel 2017 e con la Tunisia nel 2020 – risponde alle logiche emergenziali con cui sono ormai quasi esclusivamente trattate le questioni legate alle migrazioni.

      Se questo è un vantaggio dal punto di vista del governo, è evidente che la mancanza di controllo sui suoi contenuti e sulla sua eventuale applicazione rappresenta un problema: un memorandum non è legalmente vincolante per le due parti, non è necessariamente sottoposto a ratifiche parlamentare e può essere mantenuto riservato.

      Se si vuole parlare la lingua degli “interessi strategici”, troppo spesso l’unica con cui le istituzioni governative si approcciano alle politiche migratorie, è però una mossa rischiosa e in alcuni casi poco lungimirante. Un paese terzo a cui vengono attribuite determinate prerogative nel controllo dei confini non è un semplice ricettore passivo di politiche neocoloniali. Benché sia evidente che i rapporti di potere sono sbilanciati in favore della controparte europea, è vero anche che accordi di questo tipo hanno dato la possibilità ad alcuni governi di esercitare forme di pressione e influenza. Pressioni che, ovviamente, sono sempre andate a scapito dei diritti delle persone in movimento, usate come merce di scambio per ottenere dei vantaggi. Controlli più serrati si alternano a periodi di “rilascio controllato” dei/delle migranti, a seconda di ciò che il governo appaltante ritiene in quel momento più funzionale ai propri bisogni. È quello che accade ad esempio con Libia, Turchia, Marocco, Tunisia.

      È in questi termini che emerge ancora la continuità con le politiche migratorie degli ultimi decenni. Esternalizzare le frontiere e le procedure permette di sorvolare più di quanto non sia possibile in Italia sulle incombenze giuridiche e burocratiche del sistema di asilo. Ma soprattutto, rende meno visibili le immancabili violazioni associate al sistema di controllo delle migrazioni. Con la creazione di spazi sotto la giurisdizione italiana in un territorio di uno stato terzo, resta da chiarire come sarebbero valutate le responsabilità in caso di carenze gravi nelle strutture, che sono già state riscontrate in moltissime altre strutture europee, e non: sovraffollamento, mancanza di servizi adeguati per i richiedenti, incuria, abusi fisici, somministrazione di psicofarmaci contro la volontà dei soggetti interessati. A chi sarebbe affidata poi la repressione di eventuali rivolte o fughe da parte delle persone detenute?

      Esternalizzare le frontiere ha quindi uno scopo pratico molto preciso: allontanare dal territorio europeo la conoscenza delle sofferenze e degli atti di ribellione delle persone sottoposte al regime delle frontiere, prevenire azioni di monitoraggio e pressioni sul rispetto dei loro diritti da parte della società civile, far svolgere ad altri il lavoro sporco che per cui le istituzioni governative e le forze di polizia europee potrebbero dover essere chiamate a rispondere.

      Sottolineare gli elementi che renderebbero questo accordo illegale e inapplicabile è necessario per prevenire situazioni difficilmente riparabili con gli strumenti a disposizione della legge. Ma potrebbe non bastare: l’esperienza ci ha mostrato come accordi e decreti contrari ad alcuni principi costituzionali e del diritto di asilo abbiano comunque trovato applicazione, soprattutto quando questa è affidata in parte ad autorità di paesi terzi. È fondamentale quindi contestare alle sue radici una gestione emergenziale delle migrazioni, che passa per il solo sistema di asilo senza prevedere canali di ingresso regolari, e che mira a prevenire l’arrivo nel territorio europeo del maggior numero di persone possibile.

      Tweet di Giorgia Meloni: https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1723027124246708620
      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento
      https://www.emergency.it/comunicati-stampa/laccordo-italia-albania-e-lennesimo-attacco-al-diritto-di-asilo-e-sottende
      https://www.amnesty.org/en/latest/news/2023/11/italy-plan-to-offshore-refugees-and-migrants-in-albania-illegal-and-unworka
      https://www.coe.int/hr/web/commissioner/-/italy-albania-agreement-adds-to-worrying-european-trend-towards-externalising-a

      https://www.meltingpot.org/2023/11/nellintesa-italia-albania-la-continuita-deve-preoccuparci-quanto-la-novi

    • Tavolo Asilo e Immigrazione: appello al Parlamento perché non ratifichi il Protocollo Italia-Albania

      L’accordo getta le basi per la violazione del principio di non respingimento e per l’attuazione di pratiche di detenzione illegittima: alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, senza una chiara base legale e nessuna garanzia del diritto di difesa e a un ricorso effettivo

      Il Tavolo Asilo e Immigrazione chiede che il Protocollo Italia-Albania venga revocato dal Governo e fa fin da ora un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera sull’intesa.

      L’accordo firmato con il governo albanese, violando gli obblighi costituzionali e internazionali del nostro Paese, si pone, come quello con la Tunisia, l’obiettivo di esternalizzare le frontiere e il diritto d’asilo.

      L’accordo Italia-Albania, così come delineato, comporta infatti il rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Il testo dell’intesa non chiarisce se i centri da realizzarsi in Albania saranno destinati alle procedure di esame delle domande di protezione internazionale e in particolare alle procedure di frontiera o al rimpatrio, ma alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, subendo di fatto un regime di detenzione automatica e prolungata, senza una chiara base legale. Anche la possibilità di controllo giurisdizionale sembra compromessa, così come il diritto di difesa e a un ricorso effettivo. L’Accordo non chiarisce infatti la competenza a convalidare il trattenimento delle persone, né che cosa accadrà alle persone che hanno chiesto protezione internazionale che non ottengano risposta entro i 28 giorni previsti dalla procedura accelerata.

      Infine, desta preoccupazione la mancanza nel Protocollo di qualsiasi riferimento alle persone maggiormente vulnerabili, minori, donne, famiglie, vittime di tortura, e di come queste sarebbero salvaguardate dall’applicazione dell’accordo, così come era stato invece annunciato nei giorni scorsi.

      Per questi motivi le Organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione ne hanno chiesto oggi la revoca da parte del Governo durante una conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e il Segretario di +Europa Riccardo Magi, il senatore Graziano Delrio, Presidente del Comitato Parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, oltre ai deputati Matteo Mauri, Giuseppe Provenzano e Alfonso Colucci.

      Le associazioni hanno inoltre lanciato un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera.

      Per il Tavolo Asilo e Immigrazione

      A Buon Diritto, ACAT, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, DRC Italia, Emergency, Europasilo, Fondazione Migrantes, Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, Intersos, Medici del Mondo, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Oxfam Italia, Refugees Welcome Italia, Save the Children Italia, Senza Confine, Società Italiana Medicina delle Migrazioni, UIL, UNIRE

      Aderiscono inoltre

      AOI, Mediterranea Saving Humans, Open Arms, Rivolti ai Balcani, Sea Watch e Sos Mediterranée Italia

      https://www.asgi.it/primo-piano/tavolo-asilo-e-immigrazione-appello-al-parlamento-perche-non-ratifichi-il-proto

    • Italy: Parliament to ratify Albania deal to process asylum seekers

      Both of Italy’s houses of parliament will be given the chance to ratify the country’s new deal to process asylum seekers in Albania. The motion was approved after a debate in the lower house on Tuesday.

      Italy’s Foreign Minister Antonio Tajani spoke to Italy’s lower house on Tuesday (November 21), explaining the Italy-Albania deal to process asylum seekers in more detail, and promising that the deal would be presented as a DDL (proposal of a law) and that both houses would have the chance to ratify it before it proceeds.

      In his long speech to the lower house, Tajani reminded parliamentarians that other similar deals with countries like Libya had not been subject to the same ratification process. Originally the Italian government said that the Italy-Albania deal didn’t need to be either, since it was not a treaty and only treaties needed to be ratified by parliament.

      However, in what the opposition has dubbed a “complete U-turn,” two weeks after the Italy-Albania deal was signed, Tajani has announced that it would be presented as a subject for debate by parliamentarians. The government hopes that the debates and ratification process will be “as quick as possible,” since the deal is meant to begin in just a few months, by spring 2024.
      Deal ’is just one additional instrument’ to manage migration

      Fighting the traffickers is “an absolute priority” for the Italian government, said Tajani during his speech to parliament. Referring to the death of a two-year-old girl during a rescue operation on Monday (November 20), Tajani said “we won’t and shouldn’t get used to these kinds of tragedies that are unfolding along our coasts.”

      He proposes that the Italy-Albania deal is just “one additional instrument” to help Italy manage migration. Tajani said that Italy has worked hard to make migration a central tenet of EU debate, and says that Italy and other members of the bloc are all working hard to “stop irregular migration, fight traffickers and strengthen the external borders of the EU.”

      Although Tajani admitted that the deal was “no panacea”, he said that Italy had “deep and historic ties with Albania” and already had joint teams to stop the trade in drugs and migrants. For the benefit of the parliament, Tajani outlined once again that the deal would be entirely paid for by Italy and was expected to cost €16.5 million initially. This would cover the two centers, one at the port and one about 30 kilometers away.

      The initial center at the port will be where people are registered and fingerprinted. They will then be moved to the reception center, where they will have their asylum requests examined. Anyone whose request is refused would be repatriated from there.
      Not comparable to UK-Rwanda deal, says Tajani

      This is no offshoring deal, said Tajani, disputing the accusations that it was “Italy’s Guantanamo” or anything like the UK-Rwanda deal. The centers will be entirely staffed by Italian personnel, be managed under Italian law, and they will come under the jurisdiction of the Italian courts, said Tajani.

      Italy’s foreign minister underlined that “no vulnerable people, women or children” would be sent to these centers. It will be exclusively to process the asylum requests of non-vulnerable migrants from safe countries, explained Tajani, or those who have already had one claim refused, or people waiting for repatriation.

      There will never be more than 3,000 people in the centers at any one time, promised Tajani. Italy will pay Albania for police patrols outside the centers and for any hospital visits that are required. Tajani also assured parliamentarians that all rights to healthcare and safety would be respected and that the only asylum seekers brought to Albania would be by Italian official boats. NGO rescue ships would not be disembarking people in Albania.
      Keeping it within the ’European family’

      Tajani said that the European Commission had already confirmed that the agreement did not violate EU law, since, as Tajani explained quoting EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson, the processing will follow Italian law which is fully in line with European law.

      Several MPs in the debate, including Minister Tajani referenced the fact that the German chancellor had said they would be following the agreement closely and thinking about similar models for their country. According to Tajani, the German Chancellor Olaf Scholz said that since Albania will soon be part of the European family, referring to Albania’s European accession process, processing asylum seekers in Albania was about “solving challenges within Europe” and not offshoring.

      Scholz, speaking in Malaga recently, said that the whole bloc was looking to “reduce irregular migration” and said he thought there should be more deals struck like the EU-Turkey 2016 deal, to help Europe manage migration.

      Increasing the legal pathways to Italy

      Nearing the conclusion of his speech, Tajani underlined that any exceptions to adhering to the rule of international law would be straight out “impossible”. Using the Albania agreement as a model, Tajani said the Italian government was seeking to conclude or extend similar deals with other friendly countries, transit countries and countries of origin.

      Tajani promised that the Italian government would also increase the number of legal pathways into Italy. He said in parliament that the new work permits for migrant workers had already been increased to about 150,000 per year from this year to 2025, compared to 82,000 in 2022.

      At the end of the debate in parliament, a majority of 189 to 126 voted to allow the proposal to continue its passage and be put forward as an official proposal of law (DDL), to be examined and ratified by both houses.
      Critics call deal ’illegitimate’ and ask for it to be revoked

      However, the law was not without its critics. During the debate, Riccardo Magi from the Più Europa (More Europe) party said that the deal “did nothing but increase uncertainty and would take away the fundamental right to personal liberty” of people who may be detained under the deal. He added that he didn’t believe that even the ministers proposing the deal believed it would really be doable.”

      On November 20, Amnesty International and 35 other NGOs, which together form the TAI (Tavalo Asilo e Immigrazione – a forum for the discussion of asylum and immigration) have also criticized the deal, calling it “illegitimate” and saying it should be “revoked.”

      The TAI held a press conference on Tuesday (November 21) where they reiterated that in their opinions, the deal violated international obligations and laws. They said that just like the deal with Tunisia, it was an attempt to “externalize the borders and the right to asylum.”

      According to a press release from the TAI, the Italian migration system is “in chaos and continuously violates the law and the rights of welcome and asylum” that under international law they are forced to offer. TAI accuses the Italian government of “making sure it implements practices in the field which just produce emergencies and discomfort.”

      The TAI says that the Italy-Albania deal “risks seriously violating human rights.” They say that once those people are on an Italian boat, they come under Italian jurisdiction, so they can’t then be transferred to another state to have their asylum requests examined.

      The deal, says TAI, goes against the principle of non-refoulement, whereby a person cannot be sent back to a land where they could knowingly be put in danger. The deal also allows for people to be detained illegitimately, claims TAI.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53392/italy-parliament-to-ratify-albania-deal-to-process-asylum-seekers

    • In Pictures: Sites Where Refugees Will be Hosted In Albania

      BIRN has taken a look at the sites in Albania where a reception centre and a refugee camp will be built in accordance with the controversial agreement reached between the Albanian and Italian governments.

      The agreement was opposed both in Italy and Albania and one of the biggest critics that it received is related to Albania’s capacities to receive 3000 migrants in a month.

      According to the protocol that has been published, a reception centre for migrants will be built inside the Port of Shengjin, in the Lezha area of northern Albania, which will process and register migrants rescued at sea by Italy.

      A second site, which will serve as a refugee camp, will be built in Gjader, a village where a former military air base was built in the 1970s during the communist era.

      Italy’s plan to build migrant centres in Albania has been criticised in both countries, where activists and human rights lawyers have questioned Albania’s capacities to handle the arrangements.

      While the deal has been criticised by human rights experts, lawyers and civil society groups in Italy, in Albania many see it as Prime Minister Edi Rama’s personal initiative, since it was not discussed previously in public.

      The deal allows Italy to set up facilities on Albanian territory for migrants it has rescued at sea, which will accommodate up to 3,000 people at any one time.

      The agreement, which BIRN has seen, although without its annexes, states: “In the event that, for any reason, the [migrant’s] right to stay in the facilities cease to exist”, Italy must immediately transfer these persons out of Albanian territory.

      “Italy will use the port of Shengjin and the Gjader area to establish, at its own expense, two entry and temporary reception facilities for immigrants rescued at sea, capable of accommodating up to 3,000 people, or 39,000 a year, to expedite the processing of asylum applications or potential repatriation”, the text of the protocol notes, adding that jurisdiction over the centres will be Italian.

      “In Shengjin, Italy will handle disembarkation and identification procedures and establish a first reception and screening centre; in Gjader, it will create a model Cpr facility for subsequent procedures. Albania will collaborate with its police forces, for security and surveillance,” it adds.

      https://balkaninsight.com/2023/11/22/in-pictures-sites-where-refugees-will-be-hosted-in-albania
      #photographie #localisation

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • Fewer boat crossings, visit to Frontex : EU and Tunisia implement migration pact

    Despite an alleged repayment of funds for migration defence, Tunisia is cooperating with the EU. Fewer refugees are also arriving across the Mediterranean – a decrease by a factor of seven.

    In June, the EU Commission signed an agreement on joint migration control with Tunisia. According to the agreement, the government in Tunis will receive €105 million to monitor its borders and “combat people smuggling”. Another €150 million should flow from the Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument (NDICI) in the coming years for the purposes of border management and countering the “smuggling” of migrants.

    Tunisia received a first transfer under the agreement of €67 million in September. The money was to finance a coast guard vessel, spare parts and marine fuel for other vessels as well as vehicles for the Tunisian coast guard and navy, and training to operate the equipment. Around €25 million of this tranche was earmarked for “voluntary return” programmes, which are implemented by the United Nations Refugee Agency and the International Organisation for Migration.

    However, a few weeks after the transfer from Brussels, the government in Tunis allegedly repaid almost the entire sum. Tunisia “does not accept anything resembling favours or alms”, President Kais Saied is quoted as saying. Earlier, the government had also cancelled a working visit by the Commission to implement the agreement.

    Successes at the working level

    Despite the supposed U-turn, cooperation on migration prevention between the EU and Tunisia has got off the ground and is even showing initial successes at the working level. Under the agreement, the EU has supplied spare parts for the Tunisian coast guard, for example, which will keep “six ships operational”. This is what Commission President Ursula von der Leyen wrote last week to MEPs who had asked about the implementation of the deal. Another six coast guard vessels are to be repaired by the end of the year.

    In an undated letter to the EU member states, von der Leyen specifies the equipment aid. According to the letter, IT equipment for operations rooms, mobile radar systems and thermal imaging cameras, navigation radars and sonars have been given to Tunisia so far. An “additional capacity building” is to take place within the framework of existing “border management programmes” implemented by Italy and the Netherlands, among others. One of these is the EU4BorderSecurity programme, which among other things provides skills in sea rescue and has been extended for Tunisia until April 2025.

    The Tunisian Garde Nationale Maritime, which is part of the Ministry of the Interior, and the Maritime Rescue Coordination Centre benefit from these measures. This MRCC has already received an EU-funded vessel tracking system and is to be connected to the “Seahorse Mediterranean” network. Through this, the EU states exchange information about incidents off their coasts. This year Tunisia has also sent members of its coast guards to Italy as liaison officers – apparently a first step towards the EU’s goal of “linking” MRCC’s in Libya and Tunisia with their “counterparts” in Italy and Malta.

    Departures from Tunisia decrease by a factor of seven

    Since the signing of the migration agreement, the departures of boats with refugees from Tunisia have decreased by a factor of 7, according to information from Migazin in October. The reason for this is probably the increased frequency of patrols by the Tunisian coast guard. In August, 1,351 people were reportedly apprehended at sea. More and more often, the boats are also destroyed after being intercepted by Tunisian officials. The prices that refugees have to pay to smugglers are presumably also responsible for fewer crossings; these are said to have risen significantly in Tunisia.

    State repression, especially in the port city of Sfax, has also contributed to the decline in numbers, where the authorities have expelled thousands of people from sub-Saharan countries from the centre and driven them by bus to the Libyan and Algerian borders. There, officials force them to cross the border. These measures have also led to more refugees in Tunisia seeking EU-funded IOM programmes for “voluntary return” to their countries of origin.

    Now the EU wants to put pressure on Tunisia to introduce visa requirements for individual West African states. This is to affect, among others, Côte d’Ivoire, where most of the people arriving in the EU via Tunisia come from and almost all of whom arrive in Italy. Guinea and Tunisia come second and third among these nationalities.

    Reception from the Frontex Director

    In September, three months after the signing of the migration agreement, a delegation from Tunisia visited Frontex headquarters in Warsaw, with the participation of the Ministries of Interior, Foreign Affairs and Defence. The visit from Tunis was personally received by Frontex Director Hans Leijtens. EU officials then gave presentations on the capabilities and capacities of the border agency, including the training department or the deportation centre set up in 2021, which relies on good cooperation with destination states of deportation flights.

    Briefings were also held on the cross-border surveillance system EUROSUR and the “Situation Centre”, where all threads from surveillance with ships, aircraft, drones and satellites come together. The armed “permanent reserve” that Frontex has been building up since 2021 was also presented to the Tunisian ministries. These will also be deployed in third countries, but so far only in Europe in the Western Balkans.

    However, Tunisia still does not want to negotiate such a deployment of Frontex personnel to its territory, so a status agreement necessary for this is a long way off. The government in Tunis is also not currently seeking a working agreement to facilitate the exchange of information with Frontex. Finally, the Tunisian coast guard also turned down an offer to participate in an exercise of European coast guards in Greece.

    Model for migration defence with Egypt

    Aiding and abetting “smuggling” is an offence that the police are responsible for prosecuting in EU states. If these offences affect two or more EU states, Europol can coordinate the investigations. This, too, is now to get underway with Tunisia: In April, EU Commissioner Ylva Johansson had already visited Tunis and agreed on an “operational partnership to combat people smuggling” (ASOP), for which additional funds will be made available. Italy, Spain and Austria are responsible for implementing this police cooperation.

    Finally, Tunisia is also one of the countries being discussed in Brussels in the “Mechanism of Operational Coordination for the External Dimension of Migration” (MOCADEM). This working group was newly created by the EU states last year and serves to politically bundle measures towards third countries of particular interest. In one of the most recent meetings, the migration agreement was also a topic. Following Tunisia’s example, the EU could also conclude such a deal with Egypt. The EU heads of government are now to take a decision on this.

    https://digit.site36.net/2023/11/01/fewer-boat-crossings-visit-to-frontex-eu-and-tunisia-implement-migrati

    #Europe #Union_européenne #EU #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accord #gestion_des_frontières #aide_financière #protocole_d'accord #politique_migratoire #externalisation #Memorandum_of_Understanding (#MoU) #Tunisie #coopération #Frontex #aide_financière #Neighbourhood_Development_and_International_Cooperation_Instrument (#NDICI) #gardes-côtes_tunisiens #militarisation_des_frontières #retours_volontaires #IOM #OIM #UNHCR #EU4BorderSecurity_programme #Seahorse_Mediterranean #officiers_de_liaison #arrivées #départs #chiffres #statistiques #prix #Frontex #operational_partnership_to_combat_people_smuggling (#ASOP) #Mechanism_of_Operational_Coordination_for_the_External_Dimension_of_Migration (#MOCADEM)

    –—
    ajouté à la métaliste sur le Mémorandum of Understanding entre l’UE et la Tunisie :
    https://seenthis.net/messages/1020591

    • En ce lundi, l’#armée_israélienne affirme avoir frappé, via les airs et au sol, plus de 600 cibles dans #Gaza ces vingt-quatre dernières heures. Dans le détail : « des dépôts d’armes, positions de lancement de missiles antichar, caches du #Hamas » et « des dizaines » de chefs du mouvement islamiste tués. Des chars israéliens sont postés à la lisière de #Gaza_City et le principal axe routier nord-sud est coupé. C’est vendredi en fin de journée que l’État hébreu a lancé son opération d’envergure, annoncée depuis près de deux semaines déjà. Mêlant #incursions_terrestres localisées – surtout dans le nord de l’enclave palestinienne – et #bombardements intensifiés. Samedi, le Premier ministre israélien Benyamin Netanyahou a prévenu : la #guerre sera « longue et difficile ».

      Vendredi, 17 h 30. La #bande_de_Gaza plonge dans le noir. Plus d’électricité, plus de réseau téléphonique, ni de connexion internet. Le #black-out total. Trente-six heures de cauchemar absolu débutent pour les Gazaouis. Coupés du monde, soumis au feu. L’armée israélienne pilonne le territoire : plus de 450 bombardements frappent, aveugles. La population meurt à huis clos, impuissante. Après avoir quitté Gaza City au début de la riposte israélienne (lire l’épisode 1, « D’Israël à Gaza, la mort aux trousses »), Abou Mounir vit désormais dans le centre de la bande de Gaza, avec ses six enfants. Ce vendredi, il est resté cloîtré chez lui. Lorsqu’il retrouve du réseau, le lendemain matin, il est horrifié par ce qu’il découvre. « Mon quartier a été visé par des tirs d’artillerie. L’école à côté de chez moi, où sont réfugiées des familles, a été touchée. Devant ma porte, j’ai vu tous ces blessés agonisants, sans que personne ne puisse les aider. C’est de la pure #folie. Ils nous assiègent et nous massacrent. Cette façon de faire la guerre… On se croirait au Moyen-Âge », souffle le père de famille, qui dénonce « une campagne de #vengeance_aveugle ». L’homme de 49 ans implore Israël et la communauté internationale d’agir urgemment. « La seule et unique solution possible pour nous tous, c’est la #solution_politique. On l’a répété un million de fois : seule une solution politique juste nous apportera la paix. »

      Toujours à Gaza City avec sa famille, la professeure de français Assya décrit ce jour et demi d’#angoisse : « On se répétait : “Mais que se passe-t-il, que va-t-il nous arriver ?” On entendait les bombardements, boum, boum, boum… Ça n’arrêtait pas ! Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire. Et elle se calmait… Chaque matin, c’est un miracle qu’on soit encore là… » Chaque jour aussi, Assya demande si nous, journalistes, en savons plus sur un cessez-le-feu.

      Plus de 8 000 Gazaouis ont péri, mais leurs suppliques résonnent dans le vide jusqu’à présent. Elles sont pourtant de plus en plus pressantes, face à la #situation_humanitaire qui se dégrade dramatiquement. Ce samedi, des entrepôts des Nations unies ont été pillés. « C’est le signe inquiétant que l’ordre civil est en train de s’effondrer après trois semaines de guerre et de #siège de Gaza. Les gens sont effrayés, frustrés et désespérés », a averti Thomas White, directeur des opérations de l’UNRWA, l’agence onusienne pour les réfugiés palestiniens. Assya confirme : l’un de ses cousins est revenu avec des sacs de sucre, de farine, des pois chiches et de l’huile. Quand elle lui a demandé d’où ça venait, il lui a raconté, le chaos à Deir Al-Balah, dans le sud de l’enclave. « Les gens ont cassé les portes des réserves de l’UNRWA, ils sont entrés et ont pris la farine pour se faire du pain eux-mêmes, car ils n’ont plus rien. La population est tellement en #colère qu’ils ont tout pris. » Depuis le 21 octobre, seuls 117 camions d’#aide_humanitaire (lire l’épisode 2, « “C’est pas la faim qui nous tuera mais un bombardement” ») ont pu entrer dans la bande de Gaza dont 33 ce dimanche), via le point de passage de Rafah au sud, à la frontière égyptienne. L’ONU en réclame 100 par jour, pour couvrir les besoins essentiels des Gazaouis. Le procureur de la Cour pénale internationale Karim Khan a averti : « Empêcher l’acheminement de l’aide peut constituer un #crime. […] Israël doit s’assurer sans délai que les #civils reçoivent de la #nourriture, des #médicaments. »

      Les corps des 1 400 victimes des attaques du 7 octobre sont dans une #morgue de fortune. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’#horreur à l’état pur

      En écho à cette situation de plus en plus dramatique, Israël a intensifié sa guerre de la #communication. Pas question pour l’État hébreu de laisser le Hamas ni les Palestiniens gagner la bataille de l’émotion au sein des opinions. Depuis une dizaine de jours, les autorités israéliennes estiment que les médias internationaux ont le regard trop tourné vers les Gazaouis, et plus assez sur le drame du 7 octobre. Alors Israël fait ce qu’il maîtrise parfaitement : il remet en marche sa machine de la « #hasbara ». Littéralement en hébreu, « l’explication », euphémisme pour qualifier ce qui relève d’une véritable politique de #propagande. Mais cela n’a rien d’un gros mot pour les Israéliens, bien au contraire. Entre 1974 et 1975, il y a même eu un éphémère ministère de la Hasbara. Avant cela, et depuis, cette tâche de communication et de promotion autour des actions de l’État hébreu, est déléguée au ministère des Affaires étrangères et à l’armée.

      Un enjeu d’autant plus important face à cette guerre d’une ampleur inédite. C’est pourquoi, chaque jour de cette troisième semaine du conflit, l’armée israélienne a organisé des événements à destination de la #presse étrangère. Visites organisées des kibboutzim où les #massacres de civils ont été perpétrés : dimanche dans celui de Beeri, mercredi et vendredi à Kfar Aza, jeudi dans celui de Holit. Autre lieu ouvert pour les journalistes internationaux : la base de Shura, à Ramla, dans la banlieue de Tel Aviv. Elle a été transformée en morgue de fortune et accueille les 1 400 victimes des attaques du 7 octobre, afin de procéder aux identifications. Dans des tentes blanches, des dizaines de conteneurs. À l’intérieur, les corps. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’horreur à l’état pur.

      Mais l’apogée de cette semaine de communication israélienne, c’est la convocation générale de la presse étrangère, lundi dernier, afin de visionner les images brutes des massacres. Quarante-trois minutes et quarante-quatre secondes d’une compilation d’images des GoPro embarquées des combattants du Hamas, des caméras de vidéosurveillance des kibboutzim, mais aussi des photos prises par les victimes avec leurs téléphones, ou par les secouristes. Le tout mis bout à bout, sans montage. Des images d’une violence inouïe. Une projection vidéo suivie d’une conférence de presse tenue par le porte-parole de l’armée israélienne, le général Daniel Hagari. Il le dit sans détour : l’objectif est de remettre en tête l’ignominie de ce qui s’est passé le 7 octobre dernier. Mais également de dire aux journalistes de mieux faire leur travail.

      Il les tance, vertement : « Vous ! Parfois, je prends trente minutes pour regarder les infos. Et j’ai été choqué de voir que certains médias essayent de COMPARER ce qu’Israël fait et ce que ces vils terroristes ont fait. Je ne peux pas comprendre qu’on essaye même de faire cette #comparaison, entre ce que nous venons de vous montrer et ce que l’armée fait. Et je veux dire à certains #médias qu’ils sont irresponsables ! C’est pour ça qu’on vous montre ces vidéos, pour qu’aucun d’entre vous ne puisse se dire que ce qu’ils font et ce que nous faisons est comparable. Vous voyez comment ils se sont comportés ! » Puis il enfonce le clou : « Nous, on combat surtout à Gaza, on bombarde, on demande aux civils d’évacuer… On ne cherche pas des enfants pour les tuer, ni des personnes âgées, des survivants de l’holocauste, pour les kidnapper, on ne cherche pas des familles pour demander à un enfant de toquer chez ses voisins pour les faire sortir et ensuite tuer sa famille et ses voisins devant lui. Ce n’est pas la même guerre, nous n’avons pas les mêmes objectifs. »

      Ce vendredi, pour finir de prouver le cynisme du Hamas, l’armée israélienne présente des « révélations » : le mouvement islamiste abriterait, selon elle, son QG sous l’hôpital Al-Shifa de Gaza City. À l’appui, une série de tweets montrant une vidéo de reconstitution en 3D des dédales et bureaux qui seraient sous l’établissement. Absolument faux, a immédiatement rétorqué le Hamas, qui accuse Israël de diffuser « ces mensonges » comme « prélude à la perpétration d’un nouveau massacre contre le peuple [palestinien] ».

      Au milieu de ce conflit armé et médiatique, le Président français a fait mardi dernier une visite en Israël et dans les territoires palestiniens. Commençant par un passage à Jérusalem, #Emmanuel_Macron a réaffirmé « le droit d’Israël à se défendre », appelant à une coalition pour lutter contre le Hamas dans « la même logique » que celle choisie pour lutter contre le groupe État islamique. Il s’est ensuite rendu à Ramallah, en Cisjordanie occupée, au siège de l’Autorité palestinienne. « Rien ne saurait justifier les souffrances » des civils de Gaza, a déclaré Emmanuel #Macron. Qui a lancé un appel « à la reprise d’un processus politique » pour mettre fin à la guerre entre Israël et le Hamas. Tenant un discours d’équilibriste, rappelant que paix et sécurité vont de pair, le Président a exigé la mise en œuvre de la solution à deux États, comme seul moyen de parvenir à une paix durable. Une visite largement commentée en France, mais qui a bien peu intéressé les Palestiniens.

      Car si les projecteurs sont braqués sur Israël et Gaza depuis le début de la guerre, les Palestiniens de #Cisjordanie occupée vivent également un drame. En à peine trois semaines, plus de 120 d’entre eux ont été tués, selon le ministère de la Santé de l’Autorité palestinienne. Soit par des colons juifs, soit lors d’affrontements avec les forces d’occupation israéliennes. Bien sûr, la montée de la #violence dans ce territoire avait commencé bien avant la guerre. Mais les arrestations contre les membres du Hamas, les raids réguliers menés par l’armée et les attaques de colons prennent désormais une autre ampleur. Ce lundi matin encore, l’armée israélienne a mené un raid sur le camp de Jénine, au nord de la Cisjordanie, faisant quatre morts. Selon l’agence de presse palestinienne Wafa, plus de 100 véhicules militaires et deux bulldozers sont entrés dans le camp. Déjà, mercredi dernier, deux missiles tirés depuis les airs en direction d’un groupe de personnes avait fait trois morts à #Jénine.

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière les murs qui encerclent les Territoires. À Gaza, mais aussi en Cisjordanie

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière le mur qui encercle les territoires palestiniens. Du sud, à Hébron, au nord, à Naplouse, en passant par Jénine et Ramallah, les #manifestations ont émaillé ces trois dernières semaines, s’intensifiant au fil du temps. À chaque fois, les Palestiniens y réclament la fin de l’#occupation, la mise en œuvre d’une solution politique pour un #accord_de_paix et surtout l’arrêt immédiat des bombardements à Gaza. Ce vendredi, quelques milliers de personnes s’étaient rassemblés à Ramallah. Drapeaux palestiniens à la main, « Que Dieu protège Gaza » pour slogan, et la rage au ventre. Yara était l’une d’entre eux. « Depuis le début de la guerre, le #traitement_médiatique en Europe et aux États-Unis est révoltant ! L’indignation sélective et le deux poids deux mesures sont inacceptables », s’énerve la femme de 38 ans. Son message est sans ambiguïté : « Il faut mettre un terme à cette agression israélienne soutenue par l’Occident. » Un sentiment d’injustice largement partagé par la population palestinienne, et qui nourrit sa colère.

      Manal Shqair est une ancienne militante de l’organisation palestinienne Stop The Wall. Ce qui se passe n’a rien de surprenant pour elle. La jeune femme, qui vit à Ramallah, analyse la situation. Pour elle, le soulèvement des Palestiniens de Cisjordanie n’est pas près de s’arrêter. « Aujourd’hui, la majorité des Palestiniens soutient le Hamas. Les opérations militaires du 7 octobre ont eu lieu dans une période très difficile traversée par les Palestiniens, particulièrement depuis un an et demi. La colonisation rampante, la violence des colons, les tentatives de prendre le contrôle de la mosquée Al-Aqsa à Jérusalem et enfin le siège continu de la bande de Gaza par Israël ont plongé les Palestiniens dans le #désespoir, douchant toute perspective d’un avenir meilleur. » La militante ajoute : « Et ce sentiment s’est renforcé avec les #accords_de_normalisation entre Israël et plusieurs pays arabes [les #accords_d’Abraham avec les Émirats arabes unis, Bahreïn, le Maroc et le Soudan, ndlr]. Et aussi le sentiment que l’#Autorité_palestinienne fait partie de tout le système de #colonialisme et d’occupation qui nous asservit. Alors cette opération militaire [du 7 octobre] a redonné espoir aux Palestiniens. Désormais, ils considèrent le Hamas comme un mouvement anticolonial, qui leur a prouvé que l’image d’un Israël invincible est une illusion. Ce changement aura un impact à long terme et constitue un mouvement de fond pour mobiliser davantage de Palestiniens à rejoindre la #lutte_anticoloniale. »

      #7_octobre_2023 #à_lire

    • Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire.

      C’est exactement ce qu’on faisait ma femme et moi à notre fils de 4 ans en 2006 au Liban.

  • Oslo 30. L’illusione della pace

    Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca, a Washington, viene scattata una storica fotografia: i due nemici, #Ytzhak_Rabin, primo ministro israeliano, e #Yasser_Arafat, leader dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, si stringono la mano, dopo aver firmato i cosiddetti Accordi di Oslo. Trent’anni dopo, che cosa resta del processo di pace che avrebbe dovuto cambiare il Medio Oriente e non solo? Come sarebbe dovuta andare e soprattutto come è andata a finire, invece, tra Israele e Palestina?

    https://altreconomia.it/oslo30
    #accord_d'Oslo #illusion #paix #Palestine #Israël #podcast #audio #Rabin #Arafat #accords_d'Oslo

  • Comment Benyamin Nétanyahou est devenu le leader autoproclamé du « monde civilisé »

    .... Nétanyahou propose « une alliance antiterroriste de toutes les démocraties occidentales ». De telles thèses sont reprises par Ronald Reagan et son administration, de 1981 à 1989, au nom d’une « nouvelle guerre froide » contre « l’empire du mal » de l’URSS, auquel serait affiliée, dans une telle vision binaire, l’Organisation de libération de la Palestine (OLP) de Yasser Arafat.

    .... Quatre ans plus tard [en 1993, 11 ans après l’invasion israélienne du Liban et l’évacuation de l’OLP], Arafat signe avec Yitzhak Rabin, le premier ministre israélien, les accords de paix d’Oslo, que Nétanyahou, devenu le chef de l’opposition, condamne comme une intolérable concession à la « terreur ». Peu importe que l’URSS ait disparu, il stigmatise l’OLP comme la tête d’une hydre terroriste, à combattre sans relâche. Nétanyahou s’affiche dans des meetings où sont scandés les slogans « Rabin, chien d’Arafat », voire « mort à Rabin ».

    Lorsque Rabin est assassiné, en 1995, certes par un terroriste, mais juif et Israélien, Nétanyahou croit sa carrière politique compromise. Mais il se remet vite à marteler le mantra de la « terreur », forcément arabe et anti-occidentale, parvenant à être élu de justesse en 1996 à la tête du gouvernement. Il s’attache, durant ses trois premières années au pouvoir, à méthodiquement vider de leur substance les #accords_d’Oslo.

    Redevenu simple député, il voit la rhétorique de l’Institut Jonathan triompher avec les attentats du 11 septembre #2001 et la « guerre globale contre la terreur » de George W. Bush. Nétanyahou se mobilise à Washington en 2002 pour assimiler l’OLP à Al-Qaida, tout en contribuant à la campagne de désinformation sur les armes de destruction massive en Irak. Jacques Chirac dénonce alors l’aveuglement d’une offensive de renversement de Saddam Hussein qui ne préparerait pas « le jour d’après ». La France évite ainsi que la désastreuse invasion de l’Irak ne débouche sur une confrontation mondialisée entre l’islam et l’Occident [hum, ndc]. Quant à Nétanyahou, il préfère, en 2006, célébrer, à l’hôtel King David de Jérusalem, le soixantième anniversaire de l’attentat de l’Irgoun, qui y fit 91 morts, dont 41 Arabes, 28 Britanniques et 17 Juifs. La plaque apposée à cette occasion est sans doute la seule au monde à honorer les auteurs d’un attentat plutôt que leurs victimes.

    https://www.lemonde.fr/un-si-proche-orient/article/2023/10/29/comment-benyamin-netanyahou-est-devenu-le-leader-du-monde-civilise_6197141_6

    https://archive.ph/Pi2Mj

    Bon, c’est Jean-Pierre Filiu hein.

    #Israël #Benyamin_Nétanyahou #biographie #Irgoun #Likoud

  • La fonte des barrières de #glace de l’#Antarctique occidental est désormais inévitable et irréversible

    La fonte qui glace. Ce processus ne peut pas être inversé et contribuera à la hausse du niveau de l’océan, même en limitant le réchauffement climatique, alerte une nouvelle étude.

    Les plateformes (ou barrières) de glace jouent un rôle stabilisateur essentiel et ralentissent la #fonte_des_glaciers dans l’#océan. Leur fonte dans l’#Antarctique_occidental va se poursuivre de manière inévitable, et ce dans tous les #scénarios de réduction des émissions de gaz à effet de serre. Autrement dit, limiter le réchauffement à +1,5°C à la fin du siècle par rapport à l’ère préindustrielle, comme le prévoit l’#Accord_de_Paris, ne suffira pas à inverser la tendance. C’est à cette glaçante conclusion que sont parvenu·es les chercheur·ses du British antarctic survey (l’opérateur britannique de recherche en Antarctique) dans cette étude parue dans Nature climate change ce lundi : https://www.nature.com/articles/s41558-023-01818-x.

    « Nous constatons qu’un réchauffement rapide des #océans, environ trois fois plus rapide que le taux historique, est susceptible de se produire au cours du XXIème siècle », écrivent les scientifiques, qui ont modélisé la #mer_d’Amundsen, à l’ouest de l’Antarctique, pour mener l’analyse la plus complète du réchauffement dans la région à ce jour.

    La poursuite de la fonte des #barrières_de_glace dans l’Antarctique ouest pourrait entraîner la débâcle irréversible des #glaciers, de quoi élever le niveau de l’océan de cinq mètres, un processus aux conséquences potentiellement désastreuses pour la planète. « Notre étude n’est pas une bonne nouvelle : nous avons peut-être perdu le contrôle de la fonte de la #plateforme_glaciaire de l’Antarctique occidental au cours du XXIe siècle », a déclaré au Guardian Kaitlin Naughten, qui a dirigé les travaux.

    « Il s’agit d’un des effets du changement climatique auquel nous devrons probablement nous adapter, ce qui signifie très probablement que certaines communautés côtières devront soit construire [des défenses], soit être abandonnées », poursuit la chercheuse du British antarctic survey.

    Aujourd’hui, environ deux tiers de la population mondiale vit à moins de cent kilomètres d’une côte. De nombreuses mégalopoles mondiales, comme New York, Shanghai, Tokyo ou Bombay, sont situées sur le littoral et particulièrement vulnérables à la montée du niveau de la mer.

    https://vert.eco/articles/la-fonte-de-lantarctique-est-desormais-inevitable-et-irreversible
    #irréversibilité #inévitabilité #climat #changement_climatique

    • Unavoidable future increase in West Antarctic ice-shelf melting over the twenty-first century

      Ocean-driven melting of floating ice-shelves in the Amundsen Sea is currently the main process controlling Antarctica’s contribution to sea-level rise. Using a regional ocean model, we present a comprehensive suite of future projections of ice-shelf melting in the Amundsen Sea. We find that rapid ocean warming, at approximately triple the historical rate, is likely committed over the twenty-first century, with widespread increases in ice-shelf melting, including in regions crucial for ice-sheet stability. When internal climate variability is considered, there is no significant difference between mid-range emissions scenarios and the most ambitious targets of the Paris Agreement. These results suggest that mitigation of greenhouse gases now has limited power to prevent ocean warming that could lead to the collapse of the West Antarctic Ice Sheet.

      https://www.nature.com/articles/s41558-023-01818-x

    • il dit lui même « synthèse » et « truc que je ne connais pas », et il le prouve, par exemple en laissant entendre que le sionisme est un mouvement fondamentaliste religieux, alors que c’était en bonne partie un mouvement de juifs sécularisés et laïcs, qui a émergé non seulement en raison des persécutions en Europe mais danse le cadre du développement des nationalismes européens du XIXeme, repris ensuite encore ailleurs et par d’autres.
      idem, si on n’évoque pas la spécificité de l’antisémitisme (il n’y qu’aux juifs que sont attribué des pouvoirs occultes, ce qui permet le « socialisme des imbéciles » et le complotisme antisémite) ou celles du racisme anti-arabe (à la fois « judéo- chrétien », depuis les monothéisme antérieurs à l’islam, et colonial, effectivement). si on veut faire des machins à l’oral plutôt que de tabler sur la lecture d’ouvrages approfondis et contradictoires, ça me semble plus intéressant de livrer des témoignages, des récits, ou des confrontations entre énonciateurs qui travaillent pour de bon sur ces questions que de prétendre tout embrasser sous l’angle d’une grille de lecture préétablie (décoloniale or whatever).

    • oui, @rastapopoulos, il tâche d’être précautionneux sur l’antisémitisme et il dit vrai dans le passage que tu cites (guerre de religion). mais il loupe ce point historiquement décisif de la (re)confessionalisation progressive des deux mouvements nationalistes, sioniste et palestinien. des deux cotés, la religion n’était en rien essentiele, bien que de part et d’autre cela ai aussi joué initialement un rôle, minoritaire (cf. l’histoire du sionisme et celle de l’OLP). voilà qui est altéré par ce qu’il dit du sionisme originel (où il se plante), dont les coordonnées se définissaient dans un espace résolument mécréant, dans un rapport conflictuel avec le Bund, avec le socialisme révolutionnaire européen.
      pour ce que je comprends d’Israël, on peut dire grossièrement que le religieux se divise en deux, un fondamentalisme messianique et guerrier qui caractérise nombre de colons (dans l’acception israélienne du terme) et l’État israélien, et de l’autre une religiosité qui refuse la sécularisation dans l’État guerrier (exemptions du service militaire pour des orthodoxes d’une part, qui fait scandale, dissidence pacifiste au nom de la Thora d’autre part).

      j’avais vu ce bobino avant qu’il soit cité par Mona et repris par toi et ne l’avait pas aimé. la vulgarisation historique est un exercice à haut risque (simplifications impossibles, déperditions, erreurs), le gars d’Histoires crépues en est d’ailleurs conscient.
      un récit au présent qui sait tirer des fils historiques et politiques nécessaires à ce qu’il énonce (comme l’a si bien réussi Mona avec son dernier papier) ne se donne pas pour objectif une synthèse historique. celle-ci émerge par surcroit depuis le présent (une critique, une représentation du présent).

      edit @sandburg, les persécutions des juifs et l’éclosion des nationalismes en Europe sont déterminantes dans cette « histoire du XXeme ». le sionisme nait, lui aussi, au XIXeme...

      #histoire #politique #présent

  • The EU-Tunisia Memorandum of Understanding : A Blueprint for Cooperation on Migration ?

    On July 16, 2023, a memorandum of understanding, known as the “migrant deal”, was signed between the EU and Tunisia, at a time when the EU is trying to find ways to limit the arrival of irregular migrants into its territory. The memorandum, however, raises some concerns regarding its content, form, and human rights implications.

    This past year, Tunisia became the primary country of departure for migrants attempting to reach the European Union via Italy through the Central Mediterranean route. With a sharp increase of arrivals in the first few months of 2023, which further accelerated during the summer, cooperation with Tunisia has turned into a key priority in the EU’s efforts to limit migration inflows.

    On July 16, 2023, after complicated negotiations, Olivér Várhelyi, the EU Commissioner for Neighborhood and Enlargement, and Mounir Ben Rjiba, Secretary of State to the Minister of Foreign Affairs, Migration and Tunisians Abroad, signed a memorandum of understanding (MoU) on “a strategic and global partnership between the European Union and Tunisia,” published in the form of a press release on the European Commission’s website. President Ursula von der Leyen labeled the deal as a “blueprint” for future arrangements, reiterating the commission’s intention to work on similar agreements with other countries. The MoU, however, in terms of its content, form, and the human rights concerns it raises, falls squarely within current trends characterizing EU cooperation on migration with third countries.
    The content of the agreement

    Known as the “migrant deal,” the MoU covers five areas of cooperation: macro-economic stability, economy and trade, green energy transition, people-to-people contacts, and migration and mobility. The EU agreed to provide €105 million to enhance Tunisia’s border control capabilities while facilitating entry to highly-skilled Tunisians, and €150 million in direct budgetary support to reduce the country’s soaring inflation. It further foresees an extra €900 million in macro-economic support conditioned on Tunisia agreeing to sign an International Monetary Fund bailout. In exchange, Tunisia committed to cooperate on the fight against the smuggling and trafficking of migrants, to carry out search and rescue operations within its maritime borders, and to readmit its own nationals irregularly present in the EU—an obligation already existent under customary international law. Much to Italy’s disappointment, and unlike what happened in the case of Turkey in 2016, Tunisia refused to accept the return of non-Tunisian migrants who transited through the country to reach the EU, in line with the position it has occupied since the onset of the negotiations.

    What was agreed on seems to be all but new, seemingly reiterating past commitments

    Overall, what was agreed on seems to be all but new, seemingly reiterating past commitments. As for funding, the EU had been providing support to Tunisia to strengthen its border management capabilities since 2015. More broadly, and despite its flaws, the MoU embeds the current carrot-and-stick approach to EU cooperation with third countries, systematically using other external policies of interest to these nations, such as development assistance, trade and investments, and energy—coupled with promises of (limited) opportunities for legal mobility—to induce third countries to cooperate on containing migration flows.
    The legal nature of the agreement

    The MoU embeds the broader trend of de-constitutionalization and informalization of EU cooperation with third countries, which first appeared in the 2005 “Global Approach to Migration” and the 2011 “Global Approach to Migration and Mobility”, and substantially grew in the aftermath of the 2015 refugee crisis, with the EU-Turkey Statement and the “Joint Way Forward on migration with Afghanistan” being the most prominent examples, in addition to several Mobility Partnerships. The common denominator among these informal arrangements consisted of the use of instruments outside the constitutional framework established for concluding international agreements, notably Article 218 on the Treaty of the Functioning of the European Union (TFEU), to agree on bilateral commitments that usually consist in the mobilization of different EU policy areas to deliver on migration containment goals.

    Recourse to informal arrangements can have its advantages, as they are capable of adapting quickly to new realities and allow for immediate implementation without requiring parliamentary ratification or authorization procedures, as highlighted by the EU Court of Auditors. However, they might fall short of constitutional guarantees, as they do not follow standard EU treaty-making rules. EU treaties are silent as to how non-binding agreements should be negotiated and concluded, and thus often lack democratic oversight, transparency, and legal certainty. They might also pose issues in terms of judicial review by the Court of Justice of the EU (CJEU), in accordance with Article 263 of the TFEU.

    In the much-debated judgment “NF”, the General Court—the jurisdiction of first instance of the CJEU—refused to assess the legality of the 2016 EU-Turkey Statement, which was published as a press release on the website of the European Council. Indeed, the Court concluded at the time that the deal was one of member states acting in their capacity as heads of state and government, and not as part of the European Council as an EU institution, rendering the deal unattributable to the EU. The Court did not specifically refer to the legal nature of the agreement, despite all EU institutions stressing that the document was “not intended to produce legally binding effects nor constitute an agreement or a treaty” (para. 27), it being “merely ‘a political arrangement’” (para. 29).

    Overall, it is apparent that the lack of clarity regarding the procedure to be followed and the actors to be involved when it comes to the conclusion of non-binding agreements by the EU is problematic from a rule of law perspective

    The EU-Tunisia MoU, on the other hand, was signed by the European Commission alone, making it fully attributable to the EU. This means that it could be potentially challenged before the CJEU, if there is reason to believe that the content of the agreement renders it a legally-binding one, infringing on the procedure foreseen by the EU treaties, or if the competencies of the Council and the Parliament, the two other EU institutions usually involved in the conclusion of international agreements, were otherwise breached. In another case, the CJEU indeed found that, while the treaties do not regulate the matter and thus Article 218 on the TFEU does not apply, the Commission should nonetheless seek prior approval of the Council before signing an MoU in the exercise of its competencies, pursuant to Article 17 (1) of the Treaty on the European Union (TEU), due to the Council’s “policy-making” powers provided by Article 16 of the TEU. The Court, however, did not clarify whether the Commission should have likewise involved the European Parliament in light of its power to exercise “political control,” provided by Article 14 TEU. With regard to the MoU with Tunisia, however, neither of the two institutions seemed to have been involved. Overall, it is apparent that the lack of clarity regarding the procedure to be followed and the actors to be involved when it comes to the conclusion of non-binding agreements by the EU is problematic from a rule of law perspective.
    Concerns over protection of fundamental rights

    The EU-Tunisia MoU has been harshly criticized by both civil society organizations and different members of the European Parliament (MEPs) in light of the Tunisian authorities’ documented abuses and hostilities against migrants, amidst a political climate of broader democratic crisis. While vaguely referring to “respect for human rights,” the MoU does not specify how the Commission intends to ensure compliance with fundamental rights. Concerns over the agreement led the European Ombudsman—a body of the EU that investigates instances of maladministration by EU institutions—to ask the EU’s executive arm whether it had conducted a human rights impact assessment before its conclusion, as well as if it intended to monitor its implementation, and if it envisaged the suspension of funding if human rights were not respected. This adds to the growing discontent over the EU’s prioritization of securing its borders over ensuring the protection of fundamental rights of migrants, through the externalization of border controls to third countries with poor human rights records and authoritarian governments, such as Libya, Turkey, Morocco, Egypt, and Sudan, among others.

    These episodes exemplify the paradox of externalization, with the EU trying to shield itself from the risk of instrumentalization of migration by third countries on one hand, and making itself dependent upon these actors’ willingness to contain migratory flows, and thus vulnerable to forms of repercussion and bad faith tactics, on the other

    In an unprecedented move, Tunisia denied entry to a group of MEPs who were due to visit the country on official duty on September 14. While no official explanation was given, the move was seen as a reaction for speaking out against the agreement. Despite this, and the fact that there is still a lack of clarity as to how compliance with fundamental rights will be guaranteed, the Commission announced that the first tranche of EU funding would be released by the end of September. However, Tunisia declared to have rejected the money precisely over the EU’s excessive focus on migration containment, although Várhelyi stated that the refusal related to budget support is unrelated to the MoU. These episodes exemplify the paradox of externalization, with the EU trying to shield itself from the risk of instrumentalization of migration by third countries on one hand, and making itself dependent upon these actors’ willingness to contain migratory flows, and thus vulnerable to forms of repercussion and bad faith tactics, on the other. Similar deals, posing similar risks, are currently envisaged with Egypt and Morocco. Moving forward, the EU should instead make efforts to create partnerships with third countries based on genuine mutually-shared interests, restoring credibility in its international relations which should be based on support for its founding values: democracy, human rights, and the rule of law.

    https://timep.org/2023/10/19/the-eu-tunisia-memorandum-of-understanding-a-blueprint-for-cooperation-on-mig
    #Tunisie #EU #Europe #Union_européenne #EU #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accord #gestion_des_frontières #aide_financière #protocole_d'accord #politique_migratoire #externalisation #memorandum_of_understanding #MoU

    –—
    ajouté à la métaliste sur le Mémorandum of Understanding entre l’UE et la Tunisie :
    https://seenthis.net/messages/1020591

  • #Etienne_Balibar : #Palestine à la #mort

    L’instinct de mort ravage la terre de Palestine et #massacre ses habitants. Nous sommes dans un cercle d’#impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La #catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    Les commandos du #Hamas, enfermés avec deux millions de réfugiés dans ce qu’on a pu appeler une « prison à ciel ouvert », se sont enterrés et longuement préparés, recevant le soutien d’autres puissances régionales et bénéficiant d’une certaine complaisance de la part d’Israël, qui voyait en eux son « ennemi préféré ».

    Ils ont réussi une sortie offensive qui a surpris Tsahal occupée à prêter main forte aux colons juifs de Cisjordanie, ce qui, de façon compréhensible, a engendré l’enthousiasme de la jeunesse palestinienne et de l’opinion dans le monde arabe.

    À ceci près qu’elle s’est accompagnée de #crimes particulièrement odieux contre la population israélienne : assassinats d’adultes et d’enfants, tortures, viols, enlèvements. De tels crimes ne sont jamais excusables par la #légitimité de la cause dont ils se réclament.

    Malgré le flou de l’expression, ils justifient qu’on parle de #terrorisme, non seulement à propos des actions, mais à propos de l’organisation de #résistance_armée qui les planifie. Il y a plus : il est difficile de croire que l’objectif (en tout cas le risque assumé) n’était pas de provoquer une #riposte d’une violence telle que la #guerre entrerait dans une phase nouvelle, proprement « exterministe », oblitérant à jamais les possibilités de #cohabitation des deux peuples. Et c’est ce qui est en train de se passer.

    Mais cela se passe parce que l’État d’Israël, officiellement redéfini en 2018 comme « État-nation du peuple juif », n’a jamais eu d’autre projet politique que l’#anéantissement ou l’#asservissement du peuple palestinien par différents moyens : #déportation, #expropriation, #persécution, #assassinats, #incarcérations. #Terrorisme_d'Etat.

    Il n’y a qu’à regarder la carte des implantations successives depuis 1967 pour que le processus devienne absolument clair. Après l’assassinat de Rabin, les gouvernements qui avaient signé les #accords_d’Oslo n’en ont pas conclu qu’il fallait faire vivre la solution « à deux États », ils ont préféré domestiquer l’#Autorité_Palestinienne et quadriller la #Cisjordanie de #checkpoints. Et depuis qu’une #droite_raciste a pris les commandes, c’est purement et simplement de #nettoyage_ethnique qu’il s’agit.

    Avec la « #vengeance » contre le Hamas et les Gazaouis, qui commence maintenant par des massacres, un #blocus_alimentaire et sanitaire, et des #déplacements_de_population qu’on ne peut qualifier autrement que de génocidaires, c’est l’irréparable qui se commet. Les citoyens israéliens qui dénonçaient l’instrumentalisation de la Shoah et se battaient contre l’#apartheid ne sont presque plus audibles. La fureur colonialiste et nationaliste étouffe tout.

    Il n’y a en vérité qu’une issue possible : c’est l’intervention de ladite communauté internationale et des autorités dont elle est théoriquement dotée, exigeant un #cessez-le-feu immédiat, la libération des #otages, le jugement des #crimes_de_guerre commis de part et d’autre, et la mise en œuvre des innombrables résolutions de l’ONU qui sont restées lettre morte.

    Mais cela n’a aucune chance de se produire : ces institutions sont neutralisées par les grandes ou moyennes puissances impérialistes, et le conflit judéo-arabe est redevenu un enjeu des manœuvres auxquelles elles se livrent pour dessiner les sphères d’influence et les réseaux d’alliances, dans un contexte de guerres froides et chaudes. Les stratégies « géopolitiques » et leurs projections régionales oblitèrent toute légalité internationale effective.

    Nous sommes dans un cercle d’impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    https://blogs.mediapart.fr/etienne-balibar/blog/211023/palestine-la-mort

    #7_octobre_2023 #génocide #colonialisme #nationalisme

  • Lettre ouverte au président de la République française - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1354010/lettre-ouverte-au-president-de-la-republique-francaise.html

    Lettre ouverte au président de la République française
    OLJ / Par Dominique EDDÉ, le 20 octobre 2023 à 10h30

    Monsieur le Président,

    C’est d’un lieu ruiné, abusé, manipulé de toutes parts, que je vous adresse cette lettre. Il se pourrait qu’à l’heure actuelle, notre expérience de l’impuissance et de la défaite ne soit pas inutile à ceux qui, comme vous, affrontent des équations explosives et les limites de leur toute puissance.

    Je vous écris parce que la France est membre du Conseil de sécurité de l’ONU et que la sécurité du monde est en danger. Je vous écris au nom de la paix.

    L’horreur qu’endurent en ce moment les Gazaouis, avec l’aval d’une grande partie du monde, est une abomination. Elle résume la défaite sans nom de notre histoire moderne. La vôtre et la nôtre. Le Liban, l’Irak, la Syrie sont sous terre. La Palestine est déchirée, trouée, déchiquetée selon un plan parfaitement clair : son annexion. Il suffit pour s’en convaincre de regarder les cartes.

    Le massacre par le Hamas de centaines de civils israéliens, le 7 octobre dernier, n’est pas un acte de guerre. C’est une ignominie. Il n’est pas de mots pour en dire l’étendue. Si les arabes ou les musulmans tardent, pour nombre d’entre eux, à en dénoncer la barbarie, c’est que leur histoire récente est jonchée de carnages, toutes confessions confondues, et que leur trop plein d’humiliation et d’impotence a fini par épuiser leur réserve d’indignation ; par les enfermer dans le ressentiment. Leur mémoire est hantée par les massacres, longtemps ignorés, commis par des Israéliens sur des civils palestiniens pour s’emparer de leurs terres. Je pense à Deir Yassin en 1948, à Kfar Qassem en 1956. Ils ont par ailleurs la conviction – je la partage – que l’implantation d’Israël dans la région et la brutalité des moyens employés pour assurer sa domination et sa sécurité ont très largement contribué au démembrement, à l’effondrement général. Le colonialisme, la politique de répression violente et le régime d’apartheid de ce pays sont des faits indéniables. S’entêter dans le déni, c’est entretenir le feu dans les cerveaux des uns et le leurre dans les cerveaux des autres. Nous savons tous par ailleurs que l’islamisme incendiaire s’est largement nourri de cette plaie ouverte qui ne s’appelle pas pour rien « la Terre sainte ». Je vous rappelle au passage que le Hezbollah est né au Liban au lendemain de l’occupation israélienne, en 1982, et que les désastreuses guerres du Golfe ont donné un coup d’accélérateur fatal au fanatisme religieux dans la région.

    Qu’une bonne partie des Israéliens reste traumatisée par l’abomination de la Shoah et qu’il faille en tenir compte, cela va de soi. Que vous soyez occupé à prévenir les actes antisémites en France, cela aussi est une évidence. Mais que vous en arriviez au point de ne plus rien entendre de ce qui se vit ailleurs et autrement, de nier une souffrance au prétexte d’en soigner une autre, cela ne contribue pas à pacifier. Cela revient à censurer, diviser, boucher l’horizon. Combien de temps encore allez-vous, ainsi que les autorités allemandes, continuer à puiser dans la peur du peuple juif un remède à votre culpabilité ? Elle n’est plus tolérable cette logique qui consiste à s’acquitter d’un passé odieux en en faisant porter le poids à ceux qui n’y sont pour rien. Écoutez plutôt les dissidents israéliens qui, eux, entretiennent l’honneur. Ils sont nombreux à vous alerter, depuis Israël et les États-Unis.

    Commencez, vous les Européens, par exiger l’arrêt immédiat des bombardements de Gaza. Vous n’affaiblirez pas le Hamas ni ne protégerez les Israéliens en laissant la guerre se poursuivre. Usez de votre voix non pas seulement pour un aménagement de corridors humanitaires dans le sillage de la politique américaine, mais pour un appel à la paix ! La souffrance endurée, une décennie après l’autre, par les Palestiniens n’est plus soutenable. Cessez d’accorder votre blanc-seing à la politique israélienne qui emmène tout le monde dans le mur, ses citoyens inclus. La reconnaissance, par les États-Unis, en 2018, de Jérusalem capitale d’Israël ne vous a pas fait broncher. Ce n’était pas qu’une insulte à l’histoire, c’était une bombe. Votre mission était de défendre le bon sens que prônait Germaine Tillion « Une Jérusalem internationale, ouverte aux trois monothéismes. » Vous avez avalisé, cette même année, l’adoption par la Knesset de la loi fondamentale définissant Israël comme « l’État-Nation du peuple juif ». Avez-vous songé un instant, en vous taisant, aux vingt et un pour cent d’Israéliens non juifs ? L’année suivante, vous avez pour votre part, Monsieur le Président, annoncé que « l’antisionisme est une des formes modernes de l’antisémitisme. » La boucle était bouclée. D’une formule, vous avez mis une croix sur toutes les nuances. Vous avez feint d’ignorer que, d’Isaac Breuer à Martin Buber, un grand nombre de penseurs juifs étaient antisionistes. Vous avez nié tous ceux d’entre nous qui se battent pour faire reculer l’antisémitisme sans laisser tomber les Palestiniens. Vous passez outre le long chemin que nous avons fait, du côté dit « antisioniste », pour changer de vocabulaire, pour reconnaître Israël, pour vouloir un avenir qui reprenne en compte les belles heures d’un passé partagé. Les flots de haine qui circulent sur les réseaux sociaux, à l’égard des uns comme des autres, n’exigent-ils pas du responsable que vous êtes un surcroît de vigilance dans l’emploi des mots, la construction des phrases ? À propos de paix, Monsieur le Président, l’absence de ce mot dans votre bouche, au lendemain du 7 octobre, nous a sidérés. Que cherchons-nous d’autre qu’elle au moment où la planète flirte avec le vide ?

    Les accords d’Abraham ont porté le mépris, l’arrogance capitaliste et la mauvaise foi politique à leur comble. Est-il acceptable de réduire la culture arabe et islamique à des contrats juteux assortis – avec le concours passif de la France – d’accords de paix gérés comme des affaires immobilières ? Le projet sioniste est dans une impasse. Aider les Israéliens à en sortir demande un immense effort d’imagination et d’empathie qui est le contraire de la complaisance aveuglée. Assurer la sécurité du peuple israélien c’est l’aider à penser l’avenir, à l’anticiper, et non pas le fixer une fois pour toutes à l’endroit de votre bonne conscience, l’œil collé au rétroviseur. Ici, au Liban, nous avons échoué à faire en sorte que vivre et vivre ensemble ne soient qu’une et même chose. Par notre faute ? En partie, oui. Mais pas seulement. Loin de là. Ce projet était l’inverse du projet israélien qui n’a cessé de manœuvrer pour le rendre impossible, pour prouver la faillite de la coexistence, pour encourager la fragmentation communautaire, les ghettos. À présent que toute cette partie du monde est au fond du trou, n’est-il pas temps de décider de tout faire autrement ? Seule une réinvention radicale de son histoire peut rétablir de l’horizon.

    En attendant, la situation dégénère de jour en jour : il n’y a plus de place pour les postures indignées et les déclarations humanitaires. Nous voulons des actes. Revenez aux règles élémentaires du droit international. Demandez l’application, pour commencer, des résolutions de l’ONU. La mise en demeure des islamistes passe par celle des autorités israéliennes. Cessez de soutenir le nationalisme religieux d’un côté et de le fustiger de l’autre. Combattez les deux. Rompez cette atmosphère malsaine qui donne aux Français de religion musulmane le sentiment d’être en trop s’ils ne sont pas muets.

    Écoutez Nelson Mandela, admiré de tous à bon compte : « Nous savons parfaitement que notre liberté est incomplète sans celle des Palestiniens, » disait-il sans détour. Il savait, lui, qu’on ne fabrique que de la haine sur les bases de l’humiliation. On traitait d’animaux les noirs d’Afrique du Sud. Les juifs aussi étaient traités d’animaux par les nazis. Est-il pensable que personne, parmi vous, n’ait publiquement dénoncé l’emploi de ce mot par un ministre israélien au sujet du peuple palestinien ? N’est-il pas temps d’aider les mémoires à communiquer, de les entendre, de chercher à comprendre là où ça coince, là où ça fait mal, plutôt que de céder aux affects primaires et de renforcer les verrous ? Et si la douleur immense qu’éprouve chaque habitant de cette région pouvait être le déclic d’un début de volonté commune de tout faire autrement ? Et si l’on comprenait soudain, à force d’épuisement, qu’il suffit d’un rien pour faire la paix, tout comme il suffit d’un rien pour déclencher la guerre ? Ce « rien » nécessaire à la paix, êtes-vous sûrs d’en avoir fait le tour ? Je connais beaucoup d’Israéliens qui rêvent, comme moi, d’un mouvement de reconnaissance, d’un retour à la raison, d’une vie commune. Nous ne sommes qu’une minorité ? Quelle était la proportion des résistants français lors de l’occupation ? N’enterrez pas ce mouvement. Encouragez-le. Ne cédez pas à la fusion morbide de la phobie et de la peur. Ce n’est plus seulement de la liberté de tous qu’il s’agit désormais. C’est d’un minimum d’équilibre et de clarté politique en dehors desquels c’est la sécurité mondiale qui risque d’être dynamitée.

    Par Dominique EDDÉ. Écrivaine.

  • Sortir de l’enfer - La méridienne
    https://www.la-meridienne.info/spip.php?article22

    « Pourquoi une bombe lâchée sur un immeuble de Gaza, ça ne te fait rien ?, demandait l’autre jour une amie arabe à un Français de son entourage bouleversé, à juste titre, par l’attaque du Hamas, mais totalement indifférent au reste. Tu crois que c’est plus doux ? » C’est une vraie question.

    « D’une manière globale, je trouve que l’international est de moins en moins présent dans les discours de gauche. Chez les jeunes générations, l’internationalisme n’est pas toujours une évidence comme il l’était pour des générations plus anciennes », disait récemment la députée de La France insoumise Clémentine Autain à Mediapart, à propos d’une autre cause : la cause arménienne. C’est une explication possible. Mais on voit aussi (et ici je demande pardon à mes lecteur-ices concerné-es pour la brutalité du constat, même si je me doute que je ne leur apprends rien) les effets de longues années de déshumanisation et de diabolisation des musulman-es. Lentement mais sûrement, l’islamophobie et ses innombrables relais ont fait leur office, ils ont émoussé les sensibilités.

  • #Tunisie : le président, #Kaïs_Saïed, refuse les #fonds_européens pour les migrants, qu’il considère comme de la « #charité »

    Un #accord a été conclu en juillet entre Tunis et Bruxelles pour lutter contre l’immigration irrégulière. La Commission européenne a précisé que sur les 105 millions d’euros d’aide prévus, quelque 42 millions d’euros allaient être « alloués rapidement ».

    Première anicroche dans le contrat passé en juillet entre la Tunisie et l’Union européenne (UE) dans le dossier sensible des migrants. Kaïs Saïed, le président tunisien, a, en effet, déclaré, lundi 2 octobre en soirée, que son pays refusait les fonds alloués par Bruxelles, dont le montant « dérisoire » va à l’encontre de l’entente entre les deux parties.

    La Commission européenne avait annoncé le 22 septembre qu’elle commencerait à allouer « rapidement » les fonds prévus dans le cadre de l’accord avec la Tunisie afin de faire baisser les arrivées de migrants au départ de ce pays. La Commission a précisé que sur les 105 millions d’euros d’aide prévus par cet accord pour lutter contre l’immigration irrégulière, quelque 42 millions d’euros allaient être « alloués rapidement ». Auxquels s’ajoutent 24,7 millions d’euros déjà prévus dans le cadre de programmes en cours.

    « La Tunisie, qui accepte la #coopération, n’accepte pas tout ce qui s’apparente à de la charité ou à la faveur, car notre pays et notre peuple ne veulent pas de la sympathie et ne l’acceptent pas quand elle est sans respect », stipule un communiqué de la présidence tunisienne. « Par conséquence, la Tunisie refuse ce qui a été annoncé ces derniers jours par l’UE », a dit M. Saïed qui recevait son ministre des affaires étrangères, Nabil Ammar.

    Il a expliqué que ce refus n’était pas lié au « montant dérisoire (…) mais parce que cette proposition va à l’encontre » de l’accord signé à Tunis et « de l’esprit qui a régné lors de la conférence de Rome », en juillet.

    Une aide supplémentaire de 150 millions d’euros

    La Tunisie est avec la Libye le principal point de départ pour des milliers de migrants qui traversent la Méditerranée centrale vers l’Europe, et arrivent en Italie.

    Selon la Commission européenne, l’aide doit servir en partie à la remise en état de bateaux utilisés par les #garde-côtes_tunisiens et à la coopération avec des organisations internationales à la fois pour la « protection des migrants » et pour des opérations de retour de ces exilés depuis la Tunisie vers leurs pays d’origine.

    Ce #protocole_d’accord entre la Tunisie et l’UE prévoit en outre une #aide_budgétaire directe de 150 millions d’euros en 2023 alors que le pays est confronté à de graves difficultés économiques. Enfin, M. Saïed a ajouté que son pays « met tout en œuvre pour démanteler les réseaux criminels de trafic d’êtres humains ».

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/10/03/tunisie-le-president-kais-saied-rejette-les-fonds-europeens-pour-les-migrant

    #refus #Memorandum_of_Understanding (#MoU) #externalisation #migrations #asile #réfugiés #UE #EU #Union_européenne

    –—

    ajouté à la métaliste sur le #Memorandum_of_Understanding (#MoU) avec la #Tunisie :
    https://seenthis.net/messages/1020591

    • Le chef de la diplomatie tunisienne : « Les Européens répètent des messages hors de l’esprit du mémorandum. C’est insultant et dégradant »

      Après deux semaines de crise sur fond de tensions migratoires, le ministre tunisien des Affaires étrangères Nabil Ammar développe dans un entretien au « Soir » le point de vue de son gouvernement sur le mémorandum d’accord avec la Commission européenne. Article réservé aux abonnésAlors que des organisations de défense des droits humains ont dénoncé des déportations massives dans le désert entre la Libye et la Tunisie, Nabil Ammar rejette la faute sur « quelques voyous ».

      La brouille est consommée. Entre l’Union européenne et la Tunisie, le ton est monté ces derniers jours sur le mémorandum d’accord signé au milieu de l’été entre Tunis et la Commission européenne, soutenu par l’Italie et les Pays-Bas. Dans un entretien au Soir, le ministre tunisien des Affaires étrangères et de la Migration, Nabil Ammar, détaille la position tunisienne dans ce dossier explosif.

      Pour cela, il faut bien comprendre de quoi l’on parle. Si l’accord comprend d’importants volets de développement économique (hydrogène vert, câbles sous-marins…), le cœur du texte porte sur la migration et prévoit 150 millions d’euros d’aide. Le pays, lui, dit refuser d’être « le garde-frontière » de l’Europe.

      Entre Tunis et la Commission, l’affaire s’est grippée après les arrivées massives à Lampedusa, venues des côtes tunisiennes. Dans la foulée, l’exécutif européen a annoncé débloquer une partie de l’aide (dans ou hors du cadre de l’accord ? Les versions divergent). Auteur d’un coup de force autoritaire, l’imprévisible et tonitruant président tunisien Kaïs Saïed a déclaré refuser la « charité ». La Commission annonçait aussi le décaissement de 60 millions (sur un autre paquet d’aide), à nouveau refusés.

      « Ce sont les Européens qui ne s’entendent pas entre eux »

      Aujourd’hui, Nabil Ammar donne très fermement sa version. « Les Européens ne sont pas clairs, à divulguer des montants un coup par ci, un coup par là. Les gens ne se retrouvent plus dans ces enveloppes, qui sont dérisoires. Même si ce n’est pas un problème de montant. Mais les Européens n’arrivaient pas à comprendre un message que l’on a répété à plusieurs reprises : “Arrêtez d’avoir cette vision de ce partenariat, comme si nous étions à la merci de cette assistance. A chaque fois, vous répétez des messages qui ne sont pas dans l’esprit de ce mémorandum d’accord, un partenariat d’égal à égal, de respect mutuel.” C’est insultant et dégradant. »

      « Il ne faut pas donner cette idée fausse, laisser penser que ce partenariat se réduit à “on vous donne quatre sous et vous faites la police en Méditerranée et vous retenez les migrants illégaux” », continue le ministre des Affaires étrangères, qui précise que « ce sont les Européens qui tenaient » au texte. « On ne veut pas être indélicat, mais ils couraient après cet accord qu’on était content de passer puisque l’on considérait que ce qui était écrit convenait aux deux parties. »

      Ces dernières années, l’UE a passé des accords migratoires avec la Libye et la Turquie, qui consistaient en somme à y délocaliser la gestion des frontières extérieures. L’ex-ambassadeur à Bruxelles, très bon connaisseur des rouages européens et chargé de négocier l’accord, croit (ou feint de croire) qu’il en était autrement avec son pays. « Ils nous l’ont dit ! “On va changer, on vous a compris.” Mais les anciens réflexes, les comptes d’épicier ont immédiatement repris. Ce langage-là n’est plus acceptable », défend-il, plaidant pour la fierté et le souverainisme de son pays, un discours dans la lignée de celui du président Saïed. « Nous sommes comme le roseau, on plie mais on ne casse pas et ce serait bien que les partenaires se le mettent en tête. »

      Alors le mémorandum est-il enterré ? « Pas du tout », veut croire Nabil Ammar qui met la responsabilité de la crise de confiance sur le dos des partenaires européens. « Cette crise est entièrement de leur part parce qu’ils n’ont pas voulu changer leur logiciel après le 16 juillet (date de signature du mémorandum, NDLR). Nous nous étions entendus sur un esprit nouveau », une coopération d’égal à égal, répète-t-il. Du côté européen, on peine à comprendre la ligne d’un régime autocratique qui souffle le chaud et le froid. « Nous n’avons dévié du mémorandum d’accord, ni du dialogue stratégique. Ce sont les Européens qui ne s’entendent pas entre eux », assure le ministre, faisant référence aux dissensions entre la Commission et les Etats membres.

      Dérive autoritaire

      Le président du Conseil Charles Michel s’est également fendu de critiques lourdes contre la méthode. Certains Etats membres, dont la Belgique, ont critiqué à la fois la forme (ils estiment n’avoir pas assez été consultés) et le fond (l’absence de référence aux droits humains et à la dérive autoritaire de Saïed). « Je vais être gentil et je ne donnerai pas les noms. Nous savons qui est pour et qui est contre », commente Nabil Ammar.

      Interrogé sur la dérive autoritaire, les atteintes aux droits des migrants ainsi que les arrestations d’opposants, le ministre détaille qu’il « n’y a pas eu un mot de critique (contre le régime tunisien, NDLR) dans ces longues réunions (avec l’UE, NDLR). C’est important de le noter ». « Pourquoi revenir aux anciens réflexes, aux comportements dégradants ? Il ne faut pas faire passer la Tunisie comme un pays qui vit de l’assistance. Cette assistance ne vaut rien par rapport aux dégâts causés par certains partenaires dans notre région. C’est d’ailleurs plutôt une réparation. »

      Questionné quant aux critiques de la ministre belge des Affaires étrangères Hadja Lahbib sur les dérives tunisiennes, Nabil Ammar estime qu’« elle est libre de faire ce qu’elle veut. J’ai vécu en Belgique. Je pourrais en dire autant et même plus. Mais je ne vais pas le faire. (…) Les Européens sont libres d’organiser leur société comme ils l’entendent chez eux et nous sommes libres d’organiser notre société, notre pays comme on l’entend. Ils doivent le comprendre. Nous avons une histoire différente et une construction différente. » Les opposants à Saïed parlent ouvertement d’une dérive dictatoriale, certainement allant jusqu’à qualifier ce régime de « pire que celui de Ben Ali ».
      Vague de violence populaire

      Ces derniers mois, une vingtaine d’opposants politiques ont été incarcérés. Ce jeudi encore, Abir Moussi, leadeuse du Parti destourien libre et dont les positions rejoignaient pourtant en certains points celles de Saïed, a été arrêtée. « Ces gens sont entre les mailles de la justice conformément à la loi et aux procédures tunisiennes. Si ces Tunisiens n’ont rien fait, ils sortiront. Et s’ils sont coupables, ils paieront », assure le chef de la diplomatie, qui défend « l’Etat de droit » tunisien. Depuis son coup de force il y a deux ans, Kaïs Saïed s’est arrogé le droit (par décret) de révoquer les juges, ce qu’il a fait à une cinquantaine de reprises.

      Quant aux atteintes aux droits humains à l’encontre de migrants subsahariens, Nabil Ammar (qui assure avoir lui-même pris en main des dossiers) rejette la faute sur « quelques voyous », qui n’auraient rien à voir avec une « politique d’Etat ». Les organisations de défense des droits humains ont dénoncé des déportations massives dans le désert entre la Libye et la Tunisie. Des images de personnes mourant de soif ont été largement diffusées. « D’autres témoignages disaient exactement le contraire, que la Tunisie avait accueilli ces gens-là et que le Croissant rouge s’est plié en quatre. Mais ces témoignages-là ne rentrent pas dans l’agenda (sic). (…) On sait qui était derrière ça, des mouvements nourrissant des témoignages à charge », continue le ministre, s’approchant de la rhétorique du président Saïed, dont les accents populistes et complotistes sont largement soulignés.

      En parallèle de ces accusations de déplacements forcés, une vague de violence populaire contre les Subsahariens s’est déchaînée (notamment dans la ville de Sfax) à la suite d’un discours présidentiel, qui mentionnait la théorie raciste du « Grand remplacement » (« Ça a été instrumentalisé dans une très large mesure. Le fait d’avoir cité une étude écrite, ça ne veut pas dire qu’il la cautionne »). Ici, Nabil Ammar défend que « la même chose se passe très souvent en Europe. Et on n’ouvre pas un procès pareil. Quelques semaines avant que je prenne mes nouvelles fonctions en Tunisie, au commissariat d’Ixelles, une Tuniso-Belge est morte très probablement sous violence policière. Pendant des mois, nous n’arrivions pas à avoir le rapport de la police », continue-t-il, faisant une référence sidérante à la mort de Sourour A.

      Questionné sur une comparaison très hasardeuse entre un décès suspect et des dizaines de morts, des atteintes aux droits humains globalement dénoncées, il ne dévie pas de sa ligne troublante : « Dans le même commissariat, c’était le troisième cas de Nord-Africain décédé. On n’en a pas fait une campagne médiatique contre la Belgique. Nous ne sommes pas traités de la même façon. C’est injuste et ça montre qu’il y a un agenda pour mettre la Tunisie dans un coin. On devient un pays raciste alors que nous sommes un melting-pot, nous sommes le Brésil de l’Afrique du Nord. » Associations de défense des droits des migrants, universités, intellectuels… à Tunis, il ne manque pas de voix pour raconter la peur des Subsahariens et leur disparition de l’espace public, pour éviter les insultes et les lynchages. Mais cette réalité-là ne semble pas au cœur des inquiétudes du ministère.
      Analyse : une autre planète

      Le moins que l’on puisse dire, c’est que Nabil Ammar ne manie pas la langue de bois. Il faut même souvent se pincer lors de l’entretien avec le ministre tunisien des Affaires étrangères. Ce proche du président Kaïs Saïed (dont il adopte les accents populistes et où point l’ombre du complotisme) prend des accents belliqueux, rares dans le milieu diplomatique. Pas question pour lui de se laisser dicter la marche d’un pays que ses ardents opposants décrivent comme une « dictature ». Personne n’a de droit de regard sur ce qui se passe en Tunisie. Alors que le haut-commissaire de l’ONU aux droits de l’homme dénonce une « répression » et des « autorités qui continuent de saper l’indépendance du pouvoir judiciaire », Nabil Ammar lui défend un « Etat de droit ».

      En Tunisie, les ONG dénoncent des dizaines de morts dans des conditions atroces, ainsi que des centaines de déportés. Aujourd’hui, des témoignages affluent sur des migrants abandonnés dans des zones rurales sans accès à un abri ou à de la nourriture. Celui qui connaît bien la Belgique va jusqu’à comparer les maltraitances racistes subies massivement à Sfax à la mort tragique de Sourour A. dans un commissariat d’Ixelles dans un parallèle qui laisse sans voix.

      Sur le mémorandum d’accord avec l’Union européenne, cet excellent connaisseur des rouages européens croit (ou feint de croire) que le cœur de l’accord ne se trouvait pas dans le deal migratoire. Et qu’il espérait développer une relation d’égal à égal avec une institution obsédée et échaudée par la crise migratoire de 2015-2016. Selon lui, ce deal n’avait rien à voir avec les précédents passés avec la Turquie et la Libye. Alors même que tout le monde, de l’autre côté de la Méditerranée, pense l’inverse.
      L’oreille de Kaïs Saïed

      Nabil Ammar connaît parfaitement les institutions européennes. Le ministre tunisien des Affaires étrangères et de l’Immigration a été ambassadeur à Bruxelles pendant deux ans et demi, nommé sous un gouvernement auquel participe notamment le parti islamiste Ennahda. Après le coup de force du président Kaïs Saïed en juillet 2021, il se pose rapidement comme un de ses ardents soutiens. On le décrit aujourd’hui comme une des rares personnes ayant l’oreille d’un président autoritaire, isolé, ne faisant confiance à personne et décrit par ses opposants comme un « dictateur ».

      https://www.lesoir.be/542182/article/2023-10-09/le-chef-de-la-diplomatie-tunisienne-les-europeens-repetent-des-messages-hors-

  • Human rights violations: German Federal Police equips Coast Guard in Tunisia

    The German Ministry of the Interior gives indications that border troops from Tunisia are using German equipment for their crimes in the Mediterranean. Organisations report stolen engines and drowned refugees. These troops received dozens of engines, inflatable boats and training from Germany.

    More than 130,000 people are reported to have crossed the Mediterranean to Italy in small boats this year to seek refuge in Europe. Most departures are now no longer from Libya, but from Tunisia. There, the refugees, most of whom come from sub-Saharan countries, are driven into the desert by the state and persecuted by the population in pogroms.

    Human rights organisations regularly report that the Tunisian coast guard steals the engines of migrant boats on the high seas, thus exposing the occupants to drowning. The Federal Ministry of the Interior, in its answer to a parliamentary question, gives indications that maritime equipment from Germany is used for these crimes.

    In the last two years, the Federal Police has donated 12 inflatable boats and 27 boat motors to the Tunisian border troops, according to the answer of the German Ministry of the Interior. In addition, the Federal Police has sent trainers to train the authorities in the use of “fast control boats”. This measure was repeated this year as a “further qualification”. In addition, there was a “basic and advanced training course” on repairing Yamaha engines.

    Already in 2019, the German government supported the coast guard in Tunisia by providing them with equipment for a boat workshop. In addition, 14 training and advanced training measures were carried out for the National Guard, the border police and the coast guard. These trainings were also aimed at learning how to use “control boats”.

    Tunisia has also received dozens of rigid-hull inflatable boats as well as patrol vessels from the USA since 2012. Several larger ships for the coast guard also come from Italy, and these donations are financed from EU funds. Germany could also be indirectly involved in these measures: according to the answer from the Ministry of the Interior, the German Federal Police has supplied Tunisia with six special tool kits for engines of 35-metre-class ships.

    By supporting the Tunisian coast guard, the German Federal Police is “actively aiding and abetting the wanton drowning of people”, comments Clara Bünger, the refugee policy spokesperson of the Left Party in the Bundestag, who is responsible for the enquiry. “The equipment and training for the coast guard serve to prevent people from fleeing in violation of international law,” Felix Weiss from the organisation Sea-Watch, which rescues refugees in the Mediterranean, also says in response to a question from “nd”. The German government is thus partly responsible for the atrocities committed by the Tunisian counterpart, which recently claimed dozens of lives in the desert.

    Tunisia also receives support from Germany in the desert region where the state crimes took place. The Ministry of Defence has financed an enhancement initiative” along the border with Libya, using surveillance technology worth millions of euros from the arms companies Airbus and later Hensoldt. This technology includes, among other things, radar systems and high-value sensors. The project was led by the US military.

    During the same period, the Federal Police began its support in Tunisia and opened a “Project Office” in the capital in 2015. A year later, a “security agreement” was concluded, after which Germany donated dozens of all-terrain vehicles, binoculars, thermal imaging equipment and other material to Tunisian authorities as part of a “Border Police Project”. The Federal Police also installed body scanners at the airport in Tunis and trained the officers there in their operation. In addition, training was provided on “information gathering from the population”.

    Other measures taken by the Federal Police include the construction and expansion of three police stations and barracks with control rooms. The funds for this project, which was carried out with France, the Netherlands, Italy and Switzerland, came from EU development aid.

    According to the answer now available from the Ministry of the Interior, 449 Federal Police officers have been deployed in Tunisia over the past eight years. A total of 3395 members of the Tunisian National Guard and the border police have been trained, including in Germany.

    The German government said it had “condemned the reported disappearance of refugees into the desert in the summer and demanded that these practices be stopped and clarified”. Most recently, the Minister of State of the Federal Foreign Office, Katja Keul, urged the observance of “general principles of the rule of law” during a visit to Tunis in August.

    The office of the Green MP did not answer a question from “nd” on whether these repeated requests were successful from her point of view. The Foreign Office subsequently wrote: “Due to Tunisia’s geographical location on the southern edge of the Mediterranean, it follows that we must try to cooperate with Tunisia.”

    After concluding a “Migration Pact”, the EU wants to provide the government in Tunis with a further €255 million from two financial pots for migration control. Despite known human rights abuses by the beneficiary authorities, the first €67 million of this will now be disbursed, the EU Commission announced on Friday. The package, announced in June, includes new vessels and thermal imaging cameras and other “operational tools”, as well as necessary training.

    In a project already launched in 2017, the EU is also funding the development of a modern surveillance system along the Tunisian coast. By connecting to EU systems, the Tunisian border police and navy will exchange information with other EU Member States and Frontex.

    https://digit.site36.net/2023/09/27/human-rights-violations-german-federal-police-equips-coast-guard-in-tu

    #Tunisie #migrations #réfugiés #militarisation_des_frontières #gardes-frontière #Allemagne #externalisation #frontières #contrôles_frontaliers #accord #technologie #complexe_militaro-industriel #équipement #équipement_maritime #formation #Italie #techonologie #radar #Airbus #Hensoldt #accord #Border_Police_Project #Trust_Fund #migration_pact #bateaux #caméras_thermiques

  • Sardegna, in arrivo pastori del #Kirghizistan per ripopolare i paesi dell’isola

    È l’accordo raggiunto tra #Coldiretti e il governo kirghiso che prevede l’arrivo di pastori abili nei lavori agricoli, assieme alle loro famiglie, in base all’intesa siglata col ministero del Lavoro della repubblica ex sovietica. L’obiettivo è salvare gli allevamenti e la tradizione agroalimentare nelle aree a rischio di spopolamento sull’isola

    Un accordo tra il lontano Kirghizistan - la repubblica ex sovietica più a est - e la Sardegna per salvare gli allevamenti e la tradizione agroalimentare nelle aree a rischio di spopolamento sull’isola nostrana. È l’accordo raggiunto da Coldiretti che prevede l’arrivo di pastori kirghisi abili nei lavori agricoli, assieme alle loro famiglie, in base all’intesa siglata col ministero del Lavoro della repubblica ex sovietica distante circa 6 mila chilometri dall’isola.

    Un progetto pilota

    Sarà avviato un progetto pilota, professionale e sociale, che prevede l’arrivo di un primo gruppo di un centinaio di kirghisi in Sardegna ( tra i 18 e i 45 anni) con capacità professionali specifiche nel settore primario che seguiranno un percorso di formazione e integrazione nel tessuto economico e sociale della Sardegna, con opportunità anche per le mogli nell’attività dell’assistenza familiare. Coldiretti lo presenta come un progetto di medio-lungo periodo per l’inserimento di migliaia stranieri, a seconda della domanda, in tre distretti rurali: Sassari, Barbagie e Sarrabus, con l’aiuto di mediatori culturali. «In Kirghizistan - precisa la Coldiretti - è fortemente presente l’attività allevamento con profonde conoscenze dell’attività casearia, diffuse competenze soprattutto nella realizzazione di formaggio da latte di pecora ma anche nell’allevamento dei cavalli. Nel Paese sono allevate soprattutto pecore di razza karakul e argali che raggiungono per il maschio adulto sino a 80 chili di peso». Il progetto pilota è stato concordato in collaborazione con l’ambasciatore del Kirghizistan in Italia, Taalay Bazarbaev.
    Contratti di apprendistato e poi tempo indeterminato

    L’accordo - precisa Coldiretti - prevede contratti di apprendistato e poi a tempo indeterminato, con la possibilità di occupare le tante case sfitte nei piccoli centri dell’Isola. Una prima selezione sarà affidata inizialmente dal ministero del lavoro kirghizo che preparerà i bandi per l’individuazione di personale per la Sardegna, dopo la firma di un protocollo tra Coldiretti e il governo kirghiso, col sostegno del ministero degli Affari esteri e di quello dell’Agricoltura, della sovranià alimentare e foreste.
    In Italia i lavoratori stranieri occupati in agricoltura - secondo Coldiretti - sono per la maggior parte provenienti da Romania, Marocco, India e Albania. Si tratta soprattutto di dipendenti a tempo determinato che arrivano dall’estero e che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale per poi tornare nel proprio Paese.

    https://tg24.sky.it/cronaca/2023/09/18/sardegna-pastori-kirghizistan

    #dépeuplement #Sardaigne #repeuplement #migrations #travail #travailleurs_étrangers #accord #pasteurs #élevage #Italie

  • En #Tunisie, l’#UE refait la même erreur, toujours aussi dangereuse

    Alors que les représentant·e·s de la « Team Europe [2] » serraient la main du président tunisien Kaïs Saïed en juillet dernier, des centaines de réfugié·e·s et de migrant·e·s bloqués aux frontières terrestres désertiques du pays avec la Libye ont été rassemblés par ses forces de sécurité et abandonnés là, sans accès à de la nourriture ni à de l’eau, sans abri.

    Le président du Parti populaire européen (PPE) Manfred Weber a par la suite évoqué ces informations, y compris les multiples décès près de la frontière, en parlant de « vidéos prises dans le désert ou quelque chose comme ça [3] ».

    Les leaders européens se sont rendus en Tunisie pour signer un protocole d’accord visant à freiner l’immigration vers l’Europe. En échange, ils lui offrent environ 100 millions d’euros pour la « gestion des frontières » et près d’un milliard en prêts supplémentaires et soutien financier, dans le contexte de la crise économique sans précédent que traverse le pays.

    Cependant, pendant que la Tunisie et l’Union européenne débattent de la manière de mettre en place ce protocole d’accord, ses coûts humains sont déjà évidents. Tandis que l’Europe ferme les yeux sur la répression croissante des droits humains en Tunisie, la population, y compris les personnes demandeuses d’asile, réfugiées et migrantes, paient le prix fort.
    Les leaders de l’Europe et de l’Union européenne doivent tout de suite changer de cap.

    Tout d’abord, même une fois l’accord conclu, les autorités tunisiennes ont continué d’amener de force les migrant·e·s à la frontière libyenne, où beaucoup ont déjà besoin d’une aide humanitaire d’urgence, les médias internationaux [4] faisant état de nombreux morts. Fait choquant, les leaders de l’UE n’ont pas encore condamné publiquement ces violations.

    En revanche, la Commission européenne s’est engagée à coopérer avec les autorités tunisiennes pour empêcher les personnes demandeuses d’asile, réfugiées et migrantes d’atteindre l’Europe, sachant pertinemment que les mêmes violations se reproduiront – piégeant ces personnes dans des situations de violence et contribuant à l’hostilité qu’elles subissent en Tunisie.

    Plus inquiétant, cet accord a été signé sans aucune condition relative aux droits humains, sans évaluation ni suivi de son impact sur les droits, et en l’absence de mécanisme permettant de suspendre la coopération en cas d’abus. La médiatrice européenne a annoncé la semaine dernière [5] avoir demandé à la Commission européenne de clarifier [6] comment elle veillera à ce que la Tunisie respecte les droits humains.

    Il semble que personne n’ait tiré les leçons de la coopération de l’UE avec la Libye [7] : le soutien du bloc apporté aux forces de sécurité libyennes l’a rendu complice d’une infrastructure de violations infligées aux réfugié·e·s et migrant·e·s – actes de torture, viols, disparitions forcées, homicides illégaux et détentions arbitraires. Une récente enquête de l’ONU [8] a conclu que ces actes pouvaient s’apparenter à des crimes contre l’humanité.

    Les accords visant à contenir les personnes dans des pays ne faisant pas partie de l’UE ne sauvent pas des vies et ne les empêchent pas d’emprunter des itinéraires clandestins. Au contraire, les personnes en mouvement sont contraintes d’entreprendre des périples encore plus dangereux afin de ne pas se faire intercepter par les autorités, tandis que les passeurs en profitent puisqu’elles dépendent encore plus de leurs services. En outre, ces accords ne résolvent en rien les problèmes qui poussent les gens à émigrer en quête de sécurité, et qui vont de toute façon perdurer. Aussi est-il décevant que, dans son « Plan en 10 points pour Lampedusa [9] », la présidente Ursula Von der Leyen renforce l’accord avec la Tunisie.

    L’accord de l’UE avec la Tunisie risque aussi de légitimer l’attaque du président Kaïs Saïed contre l’état de droit et sa répression toujours plus forte de la dissidence. En amont de l’accord, le silence des leaders européens s’est épaissi tandis qu’il démantelait quasiment tous les contrôles institutionnels du pouvoir exécutif, publiait des décrets restreignant la liberté d’expression et s’octroyait des pouvoirs sur le système judiciaire. De très nombreux détracteurs, opposant·e·s, avocat·e·s, journalistes et juges ont fait l’objet de poursuites pénales arbitraires et de mesures restrictives, allant jusqu’à l’incarcération.

    La Tunisie a récemment refusé l’entrée à cinq députés européens qui devaient se rendre dans le pays dans le cadre d’une visite officielle. Parmi eux se trouvaient les eurodéputés Mounir Satouri et Michael Gahler qui avaient auparavant critiqué l’accord [10] en raison de la répression en Tunisie. Le refus de les laisser entrer sur le territoire a été largement perçu comme une mesure de représailles.

    Jadis saluée comme la réussite du mouvement du Printemps arabe et comme un refuge pour les défenseur·e·s des droits humains de toute l’Afrique du Nord, la Tunisie risque aujourd’hui d’emboîter le pas à l’Égypte, qui a vu son président Abdelfattah al Sissi transformer son pays en une prison à ciel ouvert, tout en supervisant l’appauvrissement de millions d’Égyptiens. Les leaders de l’UE ont majoritairement gardé le silence face à cette répression brutale, lorsqu’Abdelfattah al Sissi a bloqué les routes migratoires depuis l’Égypte vers l’Europe, forçant des milliers de personnes à emprunter l’itinéraire meurtrier via la Libye.

    Enfin, tout en sachant sans doute que l’accord augmenterait le risque de violations des droits humains à l’encontre des personnes migrantes et réfugiées, la Commission a choisi de négocier le protocole d’accord en secret. Les négociations se sont déroulées sans le regard aiguisé du Parlement européen et des Parlements nationaux, et loin de toute implication de la société civile.
    Ce manque de transparence sape la légitimité de la politique migratoire de l’UE.

    Pour éviter que l’UE ne se rende complice d’atteintes aux droits et de répression, son engagement avec des partenaires concernant la migration doit s’accompagner de conditions strictes, d’évaluations d’impact et de suivi en matière de droits humains. Nous avons besoin d’une approche équilibrée qui déploie un plus grand nombre d’itinéraires migratoires sûrs et s’attache à protéger plutôt que contenir.

    L’accord avec la Tunisie ne respecte aucune de ces conditions et doit donc être suspendu.
    L’UE doit promouvoir l’indépendance de la justice, la liberté de la presse et une société civile dynamique dans le pays.

    Notes

    [1] https://www.politico.eu/article/eu-lawmakers-parliament-fumed-by-the-european-commission-tunisia-migration-

    [2] https://www.politico.eu/article/eu-lawmakers-parliament-fumed-by-the-european-commission-tunisia-migration-

    [3] https://www.politico.eu/newsletter/brussels-playbook/weber-calls-on-tunisia-to-bring-down-migrant-numbers

    [4] https://www.nytimes.com/2023/07/20/world/africa/tunisia-african-migrants.html

    [5] https://www.politico.eu/article/eu-ethics-watchdog-ombudsman-question-commission-tunisia-migrant-deal

    [6] https://www.ombudsman.europa.eu/en/opening-summary/en/175102

    [7] https://www.theguardian.com/world/2023/aug/29/video-woman-dead-floor-migrant-detention-centre-libya

    [8] https://www.ohchr.org/en/press-releases/2023/03/libya-urgent-action-needed-remedy-deteriorating-human-rights-situation-un

    [9] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/fr/ip_23_4503

    [10] https://www.theguardian.com/world/2023/jul/12/tunisia-should-not-get-1bn-on-a-silver-plate-in-migration-deal-says-mep

    https://www.amnesty.be/infos/blogs/blog-paroles-chercheurs-defenseurs-victimes/article/tunisie-refait-erreur-dangereuse

    ping @_kg_

    #Europe #Union_européenne #EU #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accord #gestion_des_frontières #aide_financière #protocole_d'accord #politique_migratoire

    • Immigrazione: gli effetti degli accordi con la Tunisia

      l’Italia e l’Ue, all’aumento degli arrivi via mare dalla Tunisia, hanno risposto chiedendo maggiori controlli e promuovendo l’accordo del 16 luglio scorso tra Tunisia e Ue. I risultati, finora, sono una serie di violenze generalizzate contro i sub-Sahariani in Tunisia e l’ulteriore aumento degli arrivi sulle coste italiane.

      Il 16 luglio scorso la Tunisia e l’Unione europea hanno firmato un memorandum d’intesa che riguarda la cooperazione su diversi fronti ma che è stato motivato in particolare dal desiderio dei governi europei di limitare i crescenti arrivi non autorizzati sulle coste italiane di persone imbarcatesi dal territorio tunisino: cittadini tunisini ma anche – e in misura crescente – cittadini di altri paesi (in particolare sub-Sahariani). A distanza di due mesi l’intesa non sembra avere avuto l’effetto sperato dai suoi principali promotori, i capi di governo dei Paesi bassi Rutte e dell’Italia Meloni, i quali hanno accompagnato la presidente della Commissione europea von der Leyen a Tunisi nella missione preparatoria di giugno e in quella finale della firma.
      Tunisia, paese di imbarco

      La Tunisia era stato il principale paese nordafricano di imbarco verso l’Italia fino al 2004. Quell’anno, in seguito al nuovo accordo tra Italia e Tunisia del dicembre 2003, il regime di Ben Alì aveva adottato una serie di misure volte a limitare le partenze, e la Tunisia era stata superata dalla Libia come principale paese di imbarco. Il primato libico non era più stato messo in discussione per molto tempo: gli stessi tunisini preferivano spesso spostarsi nel paese vicino per partire da lì anziché rischiare l’imbarco dalle proprie coste. Unica eccezione: i primi mesi del 2011, coincidenti con la rivoluzione, quando il vuoto di potere aveva fatto venire meno i controlli lungo le coste tunisine, consentendo la fuga verso l’Italia di oltre 25.000 persone. Poi l’accordo del 5 aprile 2011 tra i due governi aveva pressoché azzerato le partenze.

      Solo la crisi economica e politica degli ultimi anni ha fatto riprendere in modo sensibile gli imbarchi dalla Tunisia, dal 2017 e soprattutto dal 2020, nonostante la conclusione della Mobility Partnership tra Unione europea e Tunisia nel 2014 e ulteriori accordi tra Tunisia e Italia nel 2017 e nel 2020. Nel 2022, in un contesto di aumento generalizzato degli arrivi in Italia via mare, continua a crescere non solo il numero delle partenze dalla Tunisia ma anche la componente dei cittadini stranieri sul totale dei viaggiatori – anche questa una tendenza visibile già da un paio d’anni (Tabella 1).

      Il 18 gennaio 2023 i ministri italiani dell’interno, Piantedosi, e degli esteri, Tajani, si recano a Tunisi per chiedere maggiore impegno nei controlli e maggiore collaborazione nelle riammissioni ma il risultato non è quello sperato. Il 21 febbraio il presidente tunisino Saïed, che tra il 2021 e il 2022 ha svuotato di sostanza la giovane democrazia tunisina sospendendo il parlamento, cambiando la costituzione, arrestando gli oppositori, limitando la libertà di stampa e assicurandosi un potere quasi illimitato, trae ispirazione dalle richieste europee per dichiarare pubblicamente la propria ostilità nei confronti degli immigrati sub-Sahariani. Saïed li definisce ‘orde’ che mirano a cambiare la composizione demografica della Tunisia. Seguono non solo arresti e deportazioni di massa operati dalle autorità, ma anche aggressioni, licenziamenti e sfratti indiscriminati operati da privati cittadini contagiati dalla deriva razzista.

      Per sottrarsi alle violenze c’è chi torna nel proprio paese, ma tanti altri fuggono in Europa. E così, se fino al 19 febbraio, prima del discorso di Saïed, le persone arrivate in Italia dalla Tunisia erano 6.529, di cui un migliaio tunisini, il loro numero al 30 aprile del 2023 è già arrivato a 24.379, di cui meno di tremila tunisini. Molti tra coloro che partono sono sub-Sahariani che risiedevano da anni in Tunisia e non avrebbero lasciato il paese se non fossero stati costretti a farlo dalle violenze generalizzate.
      Il memorandum d’intesa UE-Tunisia

      L’Europa persegue allora la strada dell’accordo, che sarà siglato il 16 luglio 2023. La firma è preceduta da una nuova e cruenta ondata di deportazioni verso i confini desertici con Algeria e Libia, che provoca morte e sofferenza.

      L’intesa delude le aspettative europee. In primo luogo, essa non prevede la riammissione in Tunisia dei cittadini di paesi terzi giunti in Europa dal paese nordafricano, che era uno degli obiettivi principali. In secondo luogo, il numero degli arrivi dalla Tunisia non diminuisce ma aumenta (tabella 2).

      Se nelle sei settimane precedenti la firma dell’accordo tale numero è pari a 17.596, esso sale a 29.676 (+ 168,65%) nelle sei settimane successive. Alla fine del secondo quadrimestre del 2023 il numero delle persone arrivate dalla Tunisia risulta più che triplicato (73.827 al 27 agosto) rispetto alle 24.379 del primo quadrimestre. Nei soli primi otto mesi del 2023 sono arrivate più del doppio delle persone contate nell’intero anno precedente.

      Le politiche europee volte a esternalizzare verso i territori di paesi terzi i controlli delle frontiere raggiungono solo raramente – e mai definitivamente – l’obiettivo di ridurre l’immigrazione. Più spesso esse finiscono per sostenere regimi autoritari e alimentare nei paesi vicini sentimenti razzisti, politiche discriminatorie e pratiche violente e disumane. La Tunisia ne è l’ennesima dimostrazione.

      https://www.neodemos.info/2023/09/26/immigrazione-gli-effetti-degli-accordi-con-la-tunisia

  • Signature par le Conseil d’un #accord avec l’#Albanie sur la #coopération avec #Frontex

    Le Conseil a adopté une décision relative à la signature d’un accord avec l’Albanie en ce qui concerne les activités opérationnelles menées par l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes (Frontex). Cet accord permettra l’organisation d’#opérations_conjointes et le déploiement d’équipes de Frontex spécialisées dans la gestion des frontières en Albanie. Le déploiement d’équipes de Frontex aura lieu sous réserve que le pays soit d’accord. La décision a été prise par voie de procédure écrite.

    « La criminalité transfrontière et la gestion de l’immigration constituent des défis importants tant pour les pays de l’UE que pour nos voisins les plus proches. »
    Fernando Grande-Marlaska Gómez, ministre espagnol de l’intérieur par intérim

    Grâce à cet accord, Frontex sera en mesure d’aider l’Albanie à gérer les flux migratoires, et à lutter contre l’immigration clandestine et contre la criminalité transfrontière.

    Contexte

    Depuis l’adoption d’un nouveau règlement relatif à l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes en 2019, Frontex peut prêter assistance aux pays avec lesquels elle signe des accords sur l’ensemble de leur territoire et pas seulement dans les régions limitrophes de l’UE, comme c’était le cas en vertu du mandat précédent. Le règlement permet également au personnel de Frontex d’exercer des pouvoirs d’exécution, comme les vérifications aux frontières et l’enregistrement de personnes.

    Cet accord remplacera l’accord actuel entre l’Albanie et Frontex, qui est entré en vigueur en 2019 (et qui a été conclu avant l’entrée en vigueur du nouveau règlement relatif à l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes).

    Frontex a conclu des accords de coopération en matière de gestion des frontières avec la #Serbie (2020) en vertu des règles précédentes, et avec la #Moldavie (2022), la #Macédoine_du_Nord et le #Monténégro (tous deux en 2023) en vertu des nouvelles règles.

    Prochaines étapes

    Une fois que le Parlement européen aura donné son approbation à l’accord, celui-ci pourra être définitivement conclu par le Conseil.

    L’accord entrera en vigueur le premier jour du deuxième mois suivant la date à laquelle l’Albanie et l’UE se seront notifié l’accomplissement de leurs procédures de ratification.

    - Renforcer les frontières extérieures de l’UE (informations générales) : https://www.consilium.europa.eu/fr/policies/strengthening-external-borders
    - Accord entre l’Union Européenne et la République d’Albanie concernant les activités opérationnelles menées par l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes en République d’Albanie : https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-11944-2023-INIT/fr/pdf
    – Décision du Conseil relative à la conclusion de l’accord entre l’Union européenne et la République d’Albanie concernant les activités opérationnelles menées par l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes en République d’Albanie : https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-11945-2023-INIT/fr/pdf

    https://www.consilium.europa.eu/fr/press/press-releases/2023/09/08/council-will-sign-agreement-with-albania-on-frontex-cooperation
    #frontières #migrations #asile #réfugiés #contrôle_frontalier

  • La siccità e le politiche israeliane assetano i contadini palestinesi

    La crisi idrica ha stravolto l’economia del villaggio di #Furush_Beit_Dajan, in Cisgiordania: la tradizionale coltivazione di limoni ha lasciato spazio a serre di pomodori. E lo sfruttamento intensivo rischia di impoverire ulteriormente la terra

    Il telefono squilla incessantemente nello studio di Azem Hajj Mohammed. Il sindaco di Furush Beit Dajan, un villaggio agricolo nel Nord della Cisgiordania, ha lavorato tutta la notte per cercare di identificare due uomini del vicino villaggio di Jiftlik che, sfruttando l’oscurità, si sarebbero allacciati illegalmente alla rete di distribuzione idrica. Secondo la regolamentazione di epoca ottomana, gli abitanti di Furush Beit Dajan hanno diritto al 10% dell’acqua estratta dal pozzo artesiano situato a Nord del villaggio, mentre il 90% spetta a Jiftlik. Ma quando la pressione dell’acqua è bassa, alcuni residenti che ritengono di non riceverne abbastanza si allacciano illegalmente ai tubi, generando tensioni in questa comunità dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito per nove abitanti su dieci.

    “Devo individuare rapidamente i responsabili e trovare una mediazione prima che il furto sfoci in un conflitto tra famiglie e che intervenga l’esercito israeliano -spiega il sindaco in un momento di pausa tra due chiamate-. Nessuno vuole autodenunciarsi. Dovrò visionare i filmati delle telecamere di sorveglianza, trovarli e andare a parlarci”, dice a un suo collaboratore. Il viso è segnato dalle occhiaie, dalla fatica e dallo stress accumulati per amministrare un villaggio la cui esistenza affoga in un paradosso: nonostante sorga su una ricca falda, l’acqua è centellinata goccia per goccia. Le restrittive politiche israeliane in materia, aggravate dalla siccità nella Valle del Giordano, hanno causato una profonda crisi idrica che ha stravolto l’economia del luogo, portando i contadini a optare per l’agricoltura intensiva.

    Se Azem Hajj Mohammed è così preoccupato è perché l’accesso all’acqua garantisce la pace sociale a Furush Beit Dajan. Il villaggio si era costruito una reputazione e una posizione sul mercato agricolo palestinese grazie alle floride distese di alberi di limone, piante molto esigenti in termini di fabbisogni idrici. “Il profumo avvolgeva il villaggio come una nuvola. L’acqua sgorgava liberamente, alimentava i campi e un mulino. I torrenti erano così tumultuosi che i bambini rischiavano di annegare”, ricorda l’agricoltore ‘Abd al-Hamid Abu Firas. Aveva diciannove anni quando nel 1967 gli israeliani consolidarono il loro controllo sul territorio e le risorse idriche in Cisgiordania dopo la Guerra dei sei giorni. Da allora, l’acqua ha iniziato a ridursi.

    Nel 1993 gli Accordi di Oslo hanno di fatto conferito a Israele la gestione di questa risorsa, che oggi controlla l’80% delle riserve idriche della Cisgiordania. Le Nazioni Unite stimano che gli israeliani, compresi i coloni, abbiano accesso in media a 247 litri d’acqua al giorno, mentre i palestinesi che vivono all’interno dell’Area C, sotto controllo militare, si devono accontentare di venti litri. Solo un quinto del minimo raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità.

    Il progressivo esaurimento delle falde e le crescenti esigenze idriche delle vicine colonie israeliane di Hamra e Mekhora hanno spinto gli agricoltori a una scelta radicale: abbandonare le varietà di limoni autoctone per sostituirle gradualmente con le coltivazioni verticali e pomodori in serra, che presentano un rapporto tra produttività e fabbisogno idrico più alto. Secondo l’istituto olandese di Delft, specializzato su questi temi, per produrre una tonnellata di pomodori sono necessari mediamente 214 metri cubi d’acqua. La stessa quantità di limoni ne richiederebbe tre volte di più. L’acqua, tuttavia, ci sarebbe. La vicina colonia di Hamra -illegale secondo il diritto internazionale e costruita nel 1971 su terreni confiscati ai palestinesi- possiede una coltivazione di palme da dattero di 40 ettari: per produrre una tonnellata di questi frutti servono 2.300 metri cubi d’acqua, quasi dieci volte la quantità necessaria per la stessa quantità di pomodori.

    Le distese di campi di limoni hanno lasciato il posto a quelle che Rasmi Abu Jeish chiama le “case di plastica”. Il paesaggio è radicalmente mutato: il bianco delle serre ha sostituito il verde delle piante. Dei suoi 450 alberi di limone, il contadino ne ha lasciati in piedi soltanto 30 per onorare la tradizione familiare. Il resto dei suoi 40 dunum di terre (unità di misura di origine ottomana corrispondente a circa mille metri quadrati) sono occupate da serre.

    La diminuzione dell’acqua per l’irrigazione ha generato un cambiamento nei metodi di produzione, portando gli agricoltori ad aumentare le quantità di pomodori prodotte per assicurarsi entrate sufficienti. “Le monocolture rendono i contadini più vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi, più inclini a usare pesticidi e fertilizzanti per assicurarsi entrate stabili. Sul lungo termine questo circolo vizioso rende il terreno infertile e inutilizzabile per l’agricoltura”, avverte Muqbel Abu-Jaish, del Palestinian agricultural relief committees, che accompagna gli agricoltori del villaggio nella gestione delle risorse idriche.

    Senza l’ombra degli alberi di agrumi, anche le temperature registrate all’interno del villaggio sono aumentate, rendendo la vita ancora più difficile d’estate, quando nella Valle del Giordano si superano i 40 gradi. La mancanza di accesso all’acqua e la politica espansionistica dei coloni israeliani, aggravate dalla crisi climatica, hanno portato così l’agricoltura a contribuire soltanto al 2,6% del Prodotto interno lordo della Cisgiordania.

    Il cambiamento di produzione è stato affrontato con più elasticità dalla nuova generazione di agricoltori, non senza difficoltà. “Nonostante questa situazione abbiamo deciso di continuare. Il lavoro è diminuito molto ma qui non abbiamo altre possibilità. È come se senza l’acqua fosse sparita anche la vita. Dobbiamo adattarci”, racconta Saeed Abu Jaish, 25 anni, la cui famiglia ha ridotto i terreni coltivati da 15 a due dunum convertendoli interamente alla coltivazione di pomodori in serra. Oggi il villaggio fornisce circa l’80% dei bisogni del mercato palestinese di questo prodotto.

    Le difficoltà sono accentuate dall’impossibilità di costruire infrastrutture, anche leggere, per la raccolta e lo stoccaggio di acqua piovana. Tutto il villaggio si trova in Area C, sotto controllo amministrativo e militare israeliano, dove ogni attività agricola e di costruzione è formalmente vietata. Quando, nel 2021, il sindaco di Furush Beit Dajan ha fatto installare un serbatoio d’acqua per uso agricolo l’esercito israeliano si è mobilitato per smantellarlo nel volgere di poche ore. Come era accaduto ad altri 270 impianti idrici negli ultimi cinque anni.

    Il sindaco non può nemmeno avviare lavori di ammodernamento della rete idrica, risalente al mandato britannico terminato nel 1948. Dei nove pozzi da cui dipendeva il villaggio, la metà si sono prosciugati, mentre il flusso d’acqua di quelli restanti è diminuito inesorabilmente, passando da duemila metri cubi all’ora prima del 1967, a soli 30 metri cubi oggi, secondo il sindaco Azem Hajj Mohammed.

    Le restrizioni sull’erogazione dell’acqua in Cisgiordania hanno anche un’altra conseguenza, cruciale sul lungo periodo, in questo territorio conteso. Una legge risalente all’epoca ottomana e incorporata dal sistema legislativo israeliano permette infatti allo Stato ebraico di dichiarare “terra di Stato” tutti i campi palestinesi lasciati incolti per almeno tre anni. La carenza d’acqua, i costi, e la disperazione spingono così i contadini palestinesi ad abbandonare il loro terreni che, senza la possibilità di essere irrigati, non producono reddito e pesano sulle finanze familiari. “Non vedo possibilità di miglioramento nell’attuale status quo, con gli Accordi di Oslo che conferiscono il controllo dell’acqua ad Israele. Il numero di coloni aumenta costantemente mentre l’acqua diminuisce. Senza un cambiamento, la situazione non può che peggiorare”, analizza Issam Khatib, professore di Studi idrici e ambientali dell’Università di Birzeit.

    Adir Abu Anish ha 63 anni e coltiva ormai soltanto un sesto dei 50 dunum che possiede. Oltre alle serre di pomodoro, si è concesso di piantare delle viti che afferma essere destinate a seccarsi in un paio d’anni. Il torrente da cui si approvvigionava è contaminato dalle acque reflue provenienti dalla vicina città di Nablus, un caso di inquinamento che il sindaco ha portato in tribunale. All’ombra del suo vigneto, Abu Anish sospira: “Di solito i genitori lasciano in eredità ai loro figli possedimenti e ricchezze. Noi lasciamo campi secchi”.

    https://altreconomia.it/la-siccita-e-le-politiche-israeliane-assetano-i-contadini-palestinesi

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