• Who profits from brutal and muderous Pushbacks?

    The podcast is in English

    Anlässlich des World Refugee Days am 20. Juni hört ihr einen Podcast von unserem Kooperationsradio Radio Mytilini auf Lesvos. Es geht um die brutalen und mörderischen Pushbacks an den Außengrenzen der EU und wer davon finanziell profitiert. Die Menschen die solche Pushbacks durchführen werden dafür bezahlt, wo das Geld herkommt erfahrt ihr in dieser Sendung.

    https://de.cba.fro.at/624115
    #asile #migrations #réfugiés #push-backs #refoulements #frontières #profit #Grèce #responsabilité #mer_Egée #Evros #frontières_terrestres #frontières_maritimes #violence #complexe_militaro-industriel #integrated_border_management_fund #technologie #Thales #Frontex #european_peace_facility #visa #industrie_militaire #consultants #McKinzie #accord_UE-Turquie

    #podcast #audio

    ping @_kg_ @kaparia

  • Frontex mette a bando un servizio di traghetti per riportare i migranti in Turchia

    A metà maggio l’Agenzia europea ha indetto una gara da due milioni di euro per un servizio di “trasferimento” via mare dalla Grecia di minimo 100 persone alla volta in forza del patto tra Ue e Turchia del 2016. Una fase inedita che segna l’avvio di respingimenti alla luce del sole e ignora le gravi e documentate violazioni dei diritti

    A metà maggio di quest’anno l’Agenzia europea Frontex ha pubblicato un bando dal valore di due milioni di euro per organizzare il trasferimento di “passeggeri via mare”, almeno 100 per volta, dall’isola greca di Lesbo alla località di Dikili, sulle coste turche. La documentazione di gara consultata da Altreconomia segna l’inizio di una nuova fase alla luce del sole per la “strategia” di respingimento dei migranti verso la Turchia, a pochi giorni dalla rielezione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e dagli inquietanti video pubblicati dal New York Times sulle brutali modalità di respingimento della Guardia costiera greca.

    È in questo contesto dunque che Frontex è pronta a prendere direttamente in mano la questione, assumendo un ruolo centrale nell’ambito del cosiddetto accordo Ue-Turchia del marzo 2016 sotto il quale “formalmente” dovrebbe rientrare questa nuova attività. “L’Agenzia avrà il monopolio della gestione di queste operazioni assumendo un ruolo che, in questi termini, non ha mai avuto in passato”, spiega Martina Tazzioli, ricercatrice al Goldsmiths College di Londra.

    Le operazioni sono parte del meccanismo “1:1” previsto dall’intesa da sei miliardi di euro annunciata tra le istituzioni comunitarie (Consiglio europeo) e il governo di Ankara nel marzo 2016. Con l’obiettivo dichiarato di scoraggiare le persone ad affidarsi ai trafficanti, lo schema prevedeva che per ogni migrante giunto “irregolarmente” in Grecia e perciò respinto in Turchia, un altro sarebbe dovuto essere ricollocato tramite vie legali in un Paese europeo.

    In realtà non è mai stato implementato in modo significativo: dal 2016 al 2022 sarebbero stati respinti “ufficialmente” indietro, dati dell’International rescue committee, 2.140 rifugiati mentre i reinsediati dal territorio turco verso l’Ue ammonterebbero a 36.763, tutti siriani (fonte è il ministero dell’Intero turco). La “sostanza” di quell’accordo era però quella di bloccare le partenze e, soprattutto, puntare tutto sui respingimenti informali: secondo la Ong Agean boat report, dal 2017 al giugno 2023 più di 284mila persone sarebbero state fermate dalla guardia costiera turca e 60mila respinte da quella greca.

    E la citata inchiesta del New York Times di fine maggio ha ricostruito, con tanto di video in alta definizione, le procedure di respingimento messe in atto dalle autorità di Atene che, dopo aver prelevato a forza i naufraghi arrivati sul territorio, li riportano in mare su assetti della Guardia costiera per poi abbandonarli al largo delle coste turche su “barche di fortuna” per l’ultimo tratto. Una procedura definita “assolutamente inaccettabile” da parte della commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson che però in tutta risposta, attraverso Frontex, investe sui nuovi respingimenti alla luce del sole rispolverando lo zoppicante meccanismo del patto Ue-Turchia.

    “Questi ricollocamenti sono stati sospesi nel marzo 2020 prima con la giustificazione della diffusione del Covid-19 poi perché il presidente Erdoğan ha smesso di accettare i ‘respinti’ di fronte al rifiuto delle istituzioni europee di fornire ulteriori finanziamenti -ricorda Tazzioli-. Evidentemente Frontex ha annunciato che presto queste operazioni riprenderanno”.

    L’appalto da due milioni di euro prevede la fornitura di traghetti che devono garantire “la capacità di imbarcare un minimo di cento passeggeri in aree chiuse [a cui si aggiungono] i ponti aperti e sedili al di fuori delle aree chiuse”. Deve essere prevista la possibilità di “limitare l’accesso al ponte esterno della nave” e i sedili dei “passeggeri” devono essere “singoli, fissi (senza panche) e disposti in file”. I bagni, inoltre, devono essere accessibili direttamente dall’area dei passeggeri senza la necessità di attraversare l’area “aperta”. Almeno uno dei traghetti messi a disposizione deve essere “interamente riservato al personale di Frontex”. Sulla nave deve essere poi garantito un servizio catering per tutti i “passeggeri di Frontex”: nello specifico “due panini confezionati senza carne di maiale: vegetariani o halal”, come se fossero “scontate” le nazionalità dei passeggeri, e soft drinks. Inoltre si sottolinea che è necessaria la presenza di un medico che deve disporre di un “kit di rianimazione di base comprendente farmaci di uso comune”. L’Agenzia sottolinea però che “il servizio medico può non essere richiesto in tutti i trasferimenti”. La stessa tipologia di traghetto utilizzata per i trasferimenti deve essere infine messa a disposizione di Frontex nel porto di Mitilene, a Lesbo, per “permettere all’Agenzia di svolgere esercitazioni per gli ufficiali di scorta al fine di prepararli alle operazioni di ritorno in uno scenario di ‘vita reale’”. Queste esercitazioni dureranno fino a due giorni.

    L’Agenzia stima due servizi di trasporto andata e ritorno al mese e un’esercitazione. Ma queste indicazioni “non sono vincolanti” e possono variare durante i due anni di contratto, rinnovabili per un periodo di 12 mesi e per un massimo di due volte. Appena cinque righe vengono dedicate nel bando al “contesto in cui si rende necessario il servizio” e che quindi giustifica la possibilità di svolgere questi “trasferimenti”. Viene specificato come detto che si tratta di operazioni che avvengono sotto il cappello del mai stipulato accordo Ue-Turchia e che “più informazioni sulla dichiarazione congiunta Ue-Turchia e sul piano per porre fine all’immigrazione irregolare sono disponibili nel comunicato stampa siglato il 18 marzo 2016”.

    Viene citato un “comunicato stampa” perché giuridicamente non è stato firmato nulla di vincolante: come ricordato da Chiara Favilli, professoressa di Diritto dell’Unione europea all’Università di Firenze, è il “paradosso di un accordo che viene definito dichiarazione e sul piano materiale svanisce impedendo che sia contestato sul piano giuridico”. Quello che non c’è nella nota stampa, invece, sono i Paesi di provenienza che nel frattempo sono stati aggiunti tra coloro che vengono ricollocati in forza di quell’accordo: Afghanistan, Siria, Somalia, Bangladesh e Pakistan. “Le persone di queste nazionalità che arrivano in Grecia vivono di fatto in un limbo: la loro richiesta d’asilo viene dichiarata inammissibile ma dal marzo 2020 non venivano neanche riportati sulle coste turche. Una sorta di elefante nella stanza per le autorità greche che non sapevano cosa fare con queste persone”. Ora l’indirizzo dato sembra essere chiaro.

    Il modus operandi è sintetizzato al settimo punto del capitolato. Sono infatti previste condizioni molto rigide per il contraente che deve seguire “prontamente e diligentemente le istruzioni di Frontex e delle autorità greche”, “applicare discrezione e riservatezza in relazione all’attività” con l’impossibilità di “documentare o condividere informazioni sull’attività con mezzi quali foto, video, commenti o condivisioni sui social media” e non può consentire “la presenza a bordo di passeggeri che non siano partecipanti alle attività non espressamente autorizzati da Frontex”.

    Il neo direttore esecutivo Hans Leijtens, che si è insediato all’inizio di aprile di quest’anno, sembra così seguire la via tracciata dal suo predecessore, Fabrice Leggeri. A nulla vale il fatto che il 9 marzo di quest’anno l’Agenzia per la prima volta sia stata costretta a comparire dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea: il caso promosso dall’avvocata tedesca Lisa-Marie Komp riguarda il rimpatrio nel 2016 di una famiglia siriana con quattro bambini piccoli che, pochi giorni dopo aver presentato richiesta d’asilo in Grecia è stata caricata su un aereo e riportata in Turchia su un volo gestito proprio da Frontex sempre nell’ambito dell’accordo Ue-Turchia.

    La stessa “dinamica” che si vorrebbe replicare per mezzo dei traghetti: l’Agenzia, in altri termini, non si fa problemi nel non attendere l’esito di un procedimento che ha come oggetto proprio la stessa attività che verrebbe riproposta con i ferry. Altreconomia ha domandato a Frontex, a seguito dell’inchiesta del New York Times, quali azioni intenda intraprendere in merito alle pratiche della polizia di frontiera greca chiedendo espressamente se sia in discussione l’attivazione dell’articolo 46 del regolamento dell’Agenzia che prevede il ritiro degli agenti da un Paese qualora non vengano rispettati i diritti umani durante le operazioni di “controllo” dei confini. Nessuna risposta anche se il nuovo bando per traghettare centinaia di persone verso la Turchia parla da sé.

    Le offerte per aggiudicarsi la commessa devono giungere a Frontex entro il 29 giugno, il 30 verranno aperte le buste per aggiudicare la gara e assegnare il servizio. I contraenti così come l’affidatario (cioè l’Agenzia) devono garantire che “si comporteranno in conformità con l’ordine pubblico, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Una clausola che sa di farsa.

    https://altreconomia.it/frontex-mette-a-bando-un-servizio-di-traghetti-per-riportare-i-migranti

    #Grèce #Turquie #refoulements #push-backs #asile #migrations #réfugiés #Frontex #Dikili #Lesbos #accord_UE-Turquie #ferry #limbe

  • Greece says Turkey continues to block returns of illegal migrants

    Greece made on Wednesday a new request to the EU Commission and FRONTEX for the immediate return to Turkey of 1,908 rejected asylum seekers living on the Aegean islands. Athens says Turkey has been blocking the returns of people not eligible for asylum for the past 17 months.

    The 2016 EU-Turkey Statement on migration provides that people who entered Greece from Turkey after 20 March, 2016 and are not entitled to international protection will return to Turkey.

    But according to Greek migration minister Notis Mitarakis, this is not the case.

    “The process of returns has stopped since 15 March, 2020, when Turkey referred to the difficulties caused by the outbreak of the COVID-19 pandemic. For about 17 months, Turkey has insisted on refusing to implement its commitments without any argument,” the minister wrote in a letter to Commission Vice-President Margaritis Schinas and FRONTEX.

    Mitarakis also referred to the Commission’s proposed new migration pact, which has reached a deadlock due to divisions among EU member states over whether the relocation of recognised refugees will be mandatory or not.

    The Greek minister said it was crucial for Europe to establish a common mechanism, as well as the necessary legal arsenal for returns.

    “And to fortify, in this way, the first host countries against uncontrolled migration flows, but also the action of smuggling networks,” he added.

    Greece recently proposed to declare Turkey a safe third state for migrants from countries such as Somalia, Pakistan, Afghanistan, Syria and Bangladesh. Were the proposal to be adopted, migrants from these countries entering Greece via Turkey would not be able to apply for asylum status.

    Austrian Interior Minister Karl Nehammer has backed the Greek proposal adding that the Danish model to move asylum seekers to third countries as their application is processed would be a viable option.

    https://www.euractiv.com/section/politics/short_news/greece-says-turkey-continues-to-block-returns-of-illegal-migrants

    #Grèce #Turquie #réfugiés #asile #migrations #réfugiés #renvois #accord_UE-Turquie #réadmission #expulsions #requête #Frontex #Mer_Egée

    ping @isskein @karine4

  • #Mitsotakis blasts use of migrants as pawns to pressure the EU

    Prime Minister #Kyriakos_Mitsotakis on Friday decried the use of migrants and refugees as “geopolitical pawns to put pressure on the European Union.”

    Mitsotakis referred to efforts made by Turkey, in March 2020, and the recent surge of migrants reaching Spain’s African territories.

    Mitsotakis made this statement in a meeting with #Frontex Executive Director #Fabrice_Leggeri. Also present at the meeting were the Minister for Asylum ad Migration Policy Notis Mitarakis, Chief of the Greek Armed Forces Staff Konstantinos Floros and the heads of Police and the Coast Guard, as well as the head of the Prime Minister’s Diplomatic Office.

    Mitsotakis said that thanks to Frontex’s assistance, migrant flows dropped by 80% in 2020 and a further 72% so far in 2021.

    https://www.ekathimerini.com/news/1161528/mitsotakis-blasts-use-of-migrants-as-pawns-to-pressure-the-eu

    Et cette vidéo insupportable... une suite d’hypocrisie et mensonges :
    https://www.youtube.com/watch?v=o5-_StRXLpw

    #Grèce #migrations #asile #réfugiés #UE #Union_européenne #collaboration #coopération #frontières #passeurs #protection_des_frontières #fermeture_des_frontières #criminalisation_de_la_migration #hypocrisie #mensonge #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #renvois #expulsions #accord_UE-Turquie #déclaration #reconnaissance #réadmission #Turquie

    ping @karine4 @isskein

  • Αίτημα επιστροφής 1.500 προσφύγων στην Τουρκία κατέθεσε η Ελλάδα στην Ε.Ε.
    –-> La Grèce demande à l’UE le #retour de 1 500 réfugiés en Turquie.

    Αίτημα προς την Ευρωπαϊκή Επιτροπή και τη Frontex για την άμεση επιστροφή 1.450 προσώπων, των οποίων έχουν απορριφθεί τα αιτήματα παροχής ασύλου, κατέθεσε το υπουργείο Μετανάστευσης και Ασύλου, επικαλούμενο την Κοινή Δήλωση Ε.Ε.-Τουρκίας. Ωστόσο να σημειωθεί ότι πλέον η έκδοση των αποφάσεων παροχής ασύλου σε πρώτο βαθμό γίνονται με διαδικασίες εξπρές, μη εξασφαλίζοντας επαρκή νομική βοήθεια και κατά συνέπεια δίκαιη απόφαση.

    Στην ανακοίνωση του υπουργείου Μετανάστευσης αναφέρεται ότι η Ελλάδα ζητά να επιστρέψουν στην Τουρκία 955 αλλοδαποί που μπήκαν στη χώρα μας από την Τουρκία και βρίσκονται στη Λέσβο, 180 που βρίσκονται στη Χίο, 128 που βρίσκονται στη Σάμο και 187 στην Κω, επισημαίνοντας ότι τα αιτήματά τους για άσυλο έχουν απορριφθεί τελεσίδικα και ως εκ τούτου είναι επιστρεπτέοι, βάσει της Κοινής Δήλωσης ΕΕ- Τουρκίας.

    Το πρώτο δίμηνο του 2020 καταγράφηκαν συνολικά 139 επιστροφές προς την Τουρκία, με τη διαδικασία να έχει σταματήσει από τις 15 Μαρτίου 2020, καθώς η Τουρκία επικαλέστηκε τις δυσκολίες που επέφερε το ξέσπασμα της πανδημίας του κορονοϊού. Πλέον, το υπουργείο Μετανάστευσης ισχυρίζεται ότι « οι ταχείες διαδικασίες ελέγχων για κορονοϊό στην Ελλάδα και η σημαντική επιτάχυνση της διαδικασίας ασύλου, έχουν δημιουργήσει τις κατάλληλες συνθήκες για την επανέναρξη της διαδικασίας επιστροφών με ασφάλεια όσων αλλοδαπών δεν δικαιούνται διεθνούς προστασίας και εισήλθαν στην Ελλάδα από την Τουρκία ».

    Ο υπουργός Μετανάστευσης και Ασύλου, Νότης Μηταράκης, επισημαίνει στη δήλωσή του ότι η Ελλάδα αναμένει από την Τουρκία « να ενισχύσει τις προσπάθειες στα πλαίσια της Κοινής Δήλωσης : πρώτον, στην αποτροπή διέλευσης βαρκών που ξεκινούν από τα παράλιά της με προορισμό τη χώρα μας. Δεύτερον, στην αποδοχή επιστροφών στη βάση της Κοινής Δήλωσης Ε.Ε.-Τουρκίας, αλλά και των διμερών συμφωνιών επανεισδοχής ».

    Και αναφερόμενος στην ευρωπαϊκή πολιτική για το προσφυγικό/μεταναστευτικό, σημειώνει ότι « το ζητούμενο για την Ευρώπη είναι να κατοχυρώσει στο νέο Σύμφωνο Μετανάστευσης και Ασύλου έναν κοινό μηχανισμό, καθώς και το απαραίτητο νομικό οπλοστάσιο για επιστροφές. Και να οχυρώσει, με αυτόν τον τρόπο, τις χώρες πρώτης υποδοχής απέναντι σε ανεξέλεγκτες μεταναστευτικές ροές, αλλά και τη δράση κυκλωμάτων λαθροδιακινητών ».

    Την ίδια ώρα, με αφορμή το αίτημα του ελληνικού υπουργείου Μετανάστευσης και Ασύλου προς την Κομισιόν και τη Frontex, η οργάνωση-ομπρέλα για τα ανθρώπινα δικαιώματα HIAS Greece εξέδωσε ανακοίνωση στην οποία σημειώνει ότι η ταχεία διαδικασία που ακολουθείται για την εξέταση των αιτημάτων ασύλου δεν εξασφαλίζει σωστή και δίκαιη απόφαση.

    Επίσης οι αιτούντες άσυλο δεν έχουν επαρκή νομική βοήθεια και η διαδικασία της προσφυγής σε δεύτερο βαθμό είναι νομικά περίπλοκη, ουσιαστικά αποτρέποντας τους πρόσφυγες από να διεκδικήσουν την παραμονή τους στη χώρα.

    « Καθίσταται σαφές ότι χωρίς νομική συνδρομή είναι αδύνατον οι αιτούντες/ούσες άσυλο να παρουσιάσουν εγγράφως και μάλιστα στην ελληνική γλώσσα, τους νομικούς και πραγματικούς λόγους για τους οποίους προσφεύγουν κατά της απορριπτικής τους απόφασης », σημειώνει μεταξύ άλλων, τονίζοντας επίσης :

    « Η έλλειψη δωρεάν νομικής συνδρομής αποβαίνει εις βάρος του δίκαιου και αποτελεσματικού χαρακτήρα που θα έπρεπε να διακρίνει τη διαδικασία ασύλου στο σύνολό της, ιδίως αν ληφθούν υπόψη οι εξαιρετικά σύντομες προθεσμίες που προβλέπονται για διαδικασία των συνόρων και τα σημαντικά κενά στη πρόσβαση σε νομική συνδρομή ήδη από το πρώτο βαθμό της διαδικασίας ασύλου ».

    https://www.efsyn.gr/node/276785

    –—

    Traduction de Vicky Skoumbi via la mailing-list Migeurop :

    Le ministère de l’Immigration et de l’Asile a soumis une demande à la Commission européenne et à #Frontex pour le #retour_immédiat de 1 450 personnes dont la demande d’asile a été rejetée, citant la déclaration commune UE-Turquie. Cependant, il convient de noter que désormais, les décisions d’asile en première instance sont prises par des procédures expresses, sans que soit assuré une aide juridique suffisante au requérant, ce qui pourrait garantir une décision équitable.

    L’annonce du ministère de l’Immigration indique que la Grèce demande le retour en Turquie de 955 étrangers qui sont entrés dans notre pays depuis la Turquie et se trouvent à #Lesbos, 180 à #Chios, 128 à #Samos et 187 à #Kos, notant que leurs demandes d’asile ont été définitivement rejetés et qu’il est possible de les renvoyer, en vertu de la déclaration commune UE-Turquie. Au cours des deux premiers mois de 2020, un total de 139 #retours_forcés en Turquie ont été enregistrés, un processus qui est au point mort depuis le 15 mars 2020, date à laquelle la Turquie a évoqué les difficultés supplémentaires causées par l’apparition de la #pandémie de #coronavirus.

    Désormais, le ministère de l’Immigration affirme que "les procédures de #dépistage_rapide du coronavirus en Grèce et l’accélération significative du processus d’asile, ont créé les bonnes conditions pour la #reprise en toute sécurité du processus de retour des étrangers qui n’ont pas droit à une protection internationale et sont entrés en Grèce depuis la Turquie. ». Le ministre de l’Immigration et de l’Asile, #Notis_Mitarakis, souligne dans sa déclaration que la Grèce attend de la Turquie "un renforcement des efforts dans le cadre de la Déclaration commune : premièrement, pour empêcher le passage des bateaux partant de ses côtes vers notre pays". Deuxièmement, par l’acceptation des retours sur la base de la déclaration commune UE-Turquie, mais aussi des accords bilatéraux de #réadmission ". Faisant référence à la politique européenne des réfugiés / immigration, il a noté que « l’objectif de l’Europe est d’établir un mécanisme commun dans le nouveau pacte d’immigration et d’asile, ainsi que l’arsenal juridique nécessaire pour les retours. Et de fortifier, de cette manière, les premiers pays d’accueil contre les flux migratoires incontrôlés, mais aussi l’action des réseaux de passeurs ".

    Dans le même temps, à l’occasion de la demande du ministère grec de l’Immigration et de l’asile à la Commission et à Frontex, l’organisation de défense des droits de l’homme HIAS Greece a publié une déclaration dans laquelle elle note que la procédure rapide suivie pour l’examen des demandes d’asile ne garantit pas décision juste et équitable. De plus, les demandeurs d’asile ne bénéficient pas d’une aide juridique suffisante et la procédure de recours en deuxième instance est juridiquement compliquée, ce qui empêche les réfugiés de défendre leur droit de séjour dans le pays. « Il devient clair que sans assistance juridique, il est impossible pour les demandeurs d’asile de présenter par écrit et qui plus est en langue grecque, les raisons juridiques et réelles pour lesquelles ils font appel de la décision de rejet de leur demande », notent-t-ils, entre autres, en soulignant : « L’absence d’assistance juridique gratuite se fait au détriment du caractère équitable et efficace de la #procédure_d'asile dans son ensemble, en particulier compte tenu des délais extrêmement courts prévus de la #procédure_à_la_frontière (#Border_procedure) et des lacunes importantes déjà en matière d’accès à l’#aide_juridique, dès la première instance de la procédure d’asile ".

    #Grèce #Turquie #asile #migrations #renvois #expulsions #réfugiés #accord_UE-Turquie #déboutés

    ping @isskein @karine4

    • « Ναι » στις επιστροφές μεταναστών λέει η Τουρκία

      Πρόκειται για αίτημα που κατέθεσε την περασμένη εβδομάδα στην Ε.Ε. και στον Frontex ο υπουργός Μετανάστευσης και Ασύλου Νότης Μηταράκης.

      Θετική ανταπόκριση της Τουρκίας στο ελληνικό αίτημα για επιστροφή 1.450 αλλοδαπών των οποίων τα αιτήματα ασύλου έχουν απορριφθεί τελεσιδίκως προκύπτει από τη χθεσινή συνάντηση του αντιπροέδρου της Ευρωπαϊκής Επιτροπής Μαργαρίτη Σχοινά με τον Τούρκο υπουργό Εξωτερικών Μεβλούτ Τσαβούσογλου. Πρόκειται για αίτημα που κατέθεσε την περασμένη εβδομάδα στην Επιτροπή και στον Frontex ο υπουργός Μετανάστευσης και Ασύλου Νότης Μηταράκης. Ο κ. Τσαβούσογλου, σύμφωνα με πληροφορίες της εφημερίδας Καθημερινη , είπε ότι το ζήτημα θα επιλυθεί με ορίζοντα τον Μάρτιο.

      Σύμφωνα με τις ίδιες πληροφορίες, η συνάντηση με τον κ. Σχοινά –η πρώτη μεταξύ των δύο ανδρών– διήρκεσε μία ώρα και συζητήθηκαν όλα τα θέματα αρμοδιότητος του αντιπροέδρου : το μεταναστευτικό, η ασφάλεια, ο διαθρησκειακός διάλογος και οι επαφές μεταξύ των λαών. Κοινοτικές πηγές αναφέρουν ότι, ενόψει της Συνόδου Κορυφής του Μαρτίου και της έκθεσης Μπορέλ για τις ευρωτουρκικές σχέσεις, είναι επιτακτική ανάγκη η οικοδόμηση ενός πλαισίου θετικής συνεννόησης και η αποφυγή διχαστικών δηλώσεων που θα οξύνουν εκ νέου τις εντάσεις. Ο κ. Τσαβούσογλου κάλεσε τον κ. Σχοινά να συμμετάσχει ως κεντρικός ομιλητής στο Φόρουμ της Αττάλειας τον προσεχή Ιούνιο.

      Σε θετικό κλίμα εξελίχθηκε και η συνάντηση του Τούρκου υπουργού με την επίτροπο Εσωτερικών Υποθέσεων Ιλβα Γιόχανσον. Τα βασικά θέματα τα οποία συζήτησαν, σύμφωνα με πληροφορίες, ήταν οι δεσμεύσεις των δύο πλευρών όπως απορρέουν από την Κοινή Δήλωση Ε.Ε. – Τουρκίας για τη διαχείριση του μεταναστευτικού και τα προαπαιτούμενα με τα οποία πρέπει να συμμορφωθεί η Αγκυρα για να υπάρξει πρόοδος στο θέμα της απελευθέρωσης των θεωρήσεων. Ο κ. Τσαβούσογλου συναντήθηκε επίσης με τον Ζοζέπ Μπορέλ και τον επίτροπο Διεύρυνσης Ολιβερ Βαρχέλι, ενώ είχε και ένα σύντομο τετ α τετ με την Ούρσουλα φον ντερ Λάιεν. Σε δηλώσεις του πριν από τη δική του συνάντηση με τον κ. Τσαβούσογλου, ο ύπατος εκπρόσωπος της Ε.Ε. για την Εξωτερική Πολιτική χαρακτήρισε το 2020 « περίπλοκο έτος » για τις σχέσεις των δύο πλευρών. « Πρόσφατα όμως », πρόσθεσε ο κ. Μπορέλ, « έχουμε δει βελτίωση της ατμόσφαιρας » και « κάποια σημαντικά βήματα » στην αναζήτηση « κοινών στρατηγικών συμφερόντων ».

      « Ενα θετικό βήμα είναι η ανακοινωθείσα επανέναρξη των διερευνητικών συνομιλιών μεταξύ Ελλάδας και Τουρκίας », είπε ο κ. Μπορέλ, σημειώνοντας : « Πρέπει να υπάρξει επιμονή σε αυτές τις προσπάθειες. Προθέσεις και ανακοινώσεις πρέπει να μεταφραστούν σε πράξεις ». Επανέλαβε δε την « πλήρη δέσμευση » της Ε.Ε. να στηρίξει την « ταχεία επανέναρξη » των διαπραγματεύσεων για το Κυπριακό, υπό την αιγίδα του γ.γ. του ΟΗΕ. « Είναι ισχυρή μας επιθυμία να υπάρξει μια αποκλιμάκωση διαρκείας στην Ανατ. Μεσόγειο και στην ευρύτερη περιοχή και είμαι βέβαιος ότι μπορούμε να έχουμε ένα διάλογο ουσίας για να ενισχύσουμε τις πολιτικές διαδικασίες που συνδέονται με συγκρούσεις στην περιοχή, στη Λιβύη, στη Συρία ή στο Ναγκόρνο-Καραμπάχ », είπε.

      Επιπλέον, « με πλήρη αμοιβαίο σεβασμό, θα μιλήσουμε ειλικρινά και ανοιχτά για την πολιτική κατάσταση στην Τουρκία και τις προοπτικές ένταξης [της χώρας στην Ε.Ε.] », ανέφερε ο κ. Μπορέλ. Μιλώντας νωρίτερα στο Ευρωκοινοβούλιο, ο ύπατος εκπρόσωπος επανέλαβε τις ανησυχίες της Ε.Ε. για τα ανθρώπινα δικαιώματα στην Τουρκία. Εκανε αναφορά στις υποθέσεις Ντεμιρτάς και Καβαλά αλλά και στις « βαθιά ανησυχητικές » διώξεις δημάρχων της αντιπολίτευσης.

      ​​​​​​Από την πλευρά του, ο κ. Τσαβούσογλου χαρακτήρισε κι αυτός το περασμένο έτος « προβληματικό » για τις σχέσεις Ε.Ε. – Τουρκίας. Χαιρέτισε τις αμοιβαίες κινήσεις βελτίωσης της ατμόσφαιρας που έχουν γίνει έκτοτε και είπε ότι μαζί με τον κ. Μπορέλ θα « εργαστούν για να προετοιμάσουν » την επίσκεψη στην Αγκυρα της Ούρσουλα φον ντερ Λάιεν και του προέδρου του Ευρωπαϊκού Συμβουλίου Σαρλ Μισέλ. Υπενθυμίζεται, πάντως, ότι η επίσκεψη αυτή δεν έχει επιβεβαιωθεί ακόμα από ευρωπαϊκής πλευράς.

      https://www.stonisi.gr/post/14486/nai-stis-epistrofes-metanastwn-leei-h-toyrkia

    • Le Ministre grec de la politique migratoire demande la #révision de l’accord UE-Turquie, afin que les retours puissent être également effectués depuis la #frontière_terrestre

      Traduction du grec reçue via la mailing-list Migreup :

      "Il est clair qu’aucune nouvelle structure ne sera créée en #Thrace", a déclaré M. Mitarakis.

      La nécessité de réviser la déclaration commune UE-Turquie, de manière à inclure les frontières terrestres, mais si et seulement si elle est accompagnée par la levée de restriction géographique pour ceux qui arrivent aux îles, a été mise en avant lors d’une conférence de presse d’Alexandroupolis par le ministre de l’Immigration et de l’Asile Notis Mitarakis.

      Évoquant les points qui doivent être modifiés dans l’accord, M. Mitarakis a déclaré que << le premier est la question de la levée de la restriction géographique imposée par l’accord qui a créé une énorme pression sur les îles de la mer Égée, car elle associait a possibilité d’un renvoi à Turquie de ceux qui n’ont pas droit à une protection internationale à leur confinement géographique aux îles jusqu’à la fin de la procédure d’asile.

      Le ministre a souligné que si la clause de la restriction géographique est levée, nous devrions reconsidérer l’accord européen afin que les retours puissent être effectués depuis les frontières terrestres [et non pas uniquement par voie maritime], "à condition de ne pas rendre obligatoire le séjour des demandeurs d’asile qui arrivent par voie terrestre à la région Evros », dit-il.

      Après les réactions extrêmes de certains habitants d’Orestiada avant-hier, Notis Mitarakis a souligné que "la politique nationale pour Thrace et Evros ne change pas, il est clair qu’aucune nouvelle structure ne sera créée en Thrace, et qu’il n’y aura pas de séjour d’immigrants en Thrace. Le caractère du #hotspot #Fylakio ne change pas non plus, tous les demandeurs vont être transférés après les contrôles nécessaires vers les structures existantes de régions non-frontalières ».

      Enfin, le ministre a essentiellement annoncé la décision prise de déplacer le bureau régional d’asile d’#Alexandroupoli à #Kavala, arguant que la présence d’immigrants à Alexandroupoli pour traiter leurs dossiers est contraire à la politique qui stipule que les migrants ne doivent pas s’installer à la région frontalière d’#Evros.

      source en grec :
      https://www.efsyn.gr/ellada/koinonia/280765_mitarakis-epanexetasi-tis-symfonias-gia-na-mporoyn-na-ginontai-epistrof

      #transferts

  • Le droit d’asile à l’épreuve de l’externalisation des politiques migratoires

    Le traitement des #demandes_d’asile s’opère de plus en plus en #périphérie et même en dehors des territoires européens. #Hotspots, missions de l’#Ofpra en #Afrique, #accord_UE-Turquie : telles sont quelques-unes des formes que prend la volonté de mise à distance des demandeurs d’asile et réfugiés qui caractérise la politique de l’Union européenne depuis deux décennies.

    Pour rendre compte de ce processus d’#externalisation, les auteur·es de ce nouvel opus de la collection « Penser l’immigration autrement » sont partis d’exemples concrets pour proposer une analyse critique de ces nouvelles pratiques ainsi que de leurs conséquences sur les migrants et le droit d’asile. Ce volume prolonge la journée d’étude organisée par le #Gisti et l’Institut de recherche en droit international et européen (Iredies) de la Sorbonne, le 18 janvier 2019, sur ce thème.

    Sommaire :

    Introduction
    I. Les logiques de l’externalisation

    – Externalisation de l’asile : concept, évolution, mécanismes, Claire Rodier

    - La #réinstallation des réfugiés, aspects historiques et contemporains, Marion Tissier-Raffin

    – Accueil des Syriens : une « stratification de procédures résultant de décisions chaotiques », entretien avec Jean-Jacques Brot

    - #Dublin, un mécanisme d’externalisation intra-européenne, Ségolène Barbou des Places

    II. Les lieux de l’externalisation

    - L’accord Union européenne - Turquie, un modèle ? Claudia Charles

    – La #Libye, arrière-cour de l’Europe, entretien avec Jérôme Tubiana

    - L’#Italie aux avant-postes, entretien avec Sara Prestianni

    - Le cas archétypique du #Niger, Pascaline Chappart

    #Etats-Unis- #Mexique : même obsession, mêmes conséquences, María Dolores París Pombo

    III. Les effets induits de l’externalisation

    – Une externalisation invisible : les #camps, Laurence Dubin

    - #Relocalisation depuis la #Grèce : l’illusion de la solidarité, Estelle d’Halluin et Émilie Lenain

    - Table ronde : l’asile hors les murs ? L’Ofpra au service de l’externalisation

    https://www.gisti.org/publication_pres.php?id_article=5383
    #procédures_d'asile #asile #migrations #réfugiés #rapport #USA

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  • Budget européen pour la migration : plus de contrôles aux frontières, moins de respect pour les droits humains

    Le 17 juillet 2020, le Conseil européen examinera le #cadre_financier_pluriannuel (#CFP) pour la période #2021-2027. À cette occasion, les dirigeants de l’UE discuteront des aspects tant internes qu’externes du budget alloué aux migrations et à l’#asile.

    En l’état actuel, la #Commission_européenne propose une #enveloppe_budgétaire totale de 40,62 milliards d’euros pour les programmes portant sur la migration et l’asile, répartis comme suit : 31,12 milliards d’euros pour la dimension interne et environ 10 milliards d’euros pour la dimension externe. Il s’agit d’une augmentation de 441% en valeur monétaire par rapport à la proposition faite en 2014 pour le budget 2014-2020 et d’une augmentation de 78% par rapport à la révision budgétaire de 2015 pour ce même budget.

    Une réalité déguisée

    Est-ce une bonne nouvelle qui permettra d’assurer dignement le bien-être de milliers de migrant.e.s et de réfugié.e.s actuellement abandonné.e.s à la rue ou bloqué.e.s dans des centres d’accueil surpeuplés de certains pays européens ? En réalité, cette augmentation est principalement destinée à renforcer l’#approche_sécuritaire : dans la proposition actuelle, environ 75% du budget de l’UE consacré à la migration et à l’asile serait alloué aux #retours, à la #gestion_des_frontières et à l’#externalisation des contrôles. Ceci s’effectue au détriment des programmes d’asile et d’#intégration dans les États membres ; programmes qui se voient attribuer 25% du budget global.

    Le budget 2014 ne comprenait pas de dimension extérieure. Cette variable n’a été introduite qu’en 2015 avec la création du #Fonds_fiduciaire_de_l’UE_pour_l’Afrique (4,7 milliards d’euros) et une enveloppe financière destinée à soutenir la mise en œuvre de la #déclaration_UE-Turquie de mars 2016 (6 milliards d’euros), qui a été tant décriée. Ces deux lignes budgétaires s’inscrivent dans la dangereuse logique de #conditionnalité entre migration et #développement : l’#aide_au_développement est liée à l’acceptation, par les pays tiers concernés, de #contrôles_migratoires ou d’autres tâches liées aux migrations. En outre, au moins 10% du budget prévu pour l’Instrument de voisinage, de développement et de coopération internationale (#NDICI) est réservé pour des projets de gestion des migrations dans les pays d’origine et de transit. Ces projets ont rarement un rapport avec les activités de développement.

    Au-delà des chiffres, des violations des #droits_humains

    L’augmentation inquiétante de la dimension sécuritaire du budget de l’UE correspond, sur le terrain, à une hausse des violations des #droits_fondamentaux. Par exemple, plus les fonds alloués aux « #gardes-côtes_libyens » sont importants, plus on observe de #refoulements sur la route de la Méditerranée centrale. Depuis 2014, le nombre de refoulements vers la #Libye s’élève à 62 474 personnes, soit plus de 60 000 personnes qui ont tenté d’échapper à des violences bien documentées en Libye et qui ont mis leur vie en danger mais ont été ramenées dans des centres de détention indignes, indirectement financés par l’UE.

    En #Turquie, autre partenaire à long terme de l’UE en matière d’externalisation des contrôles, les autorités n’hésitent pas à jouer avec la vie des migrant.e.s et des réfugié.e.s, en ouvrant et en fermant les frontières, pour négocier le versement de fonds, comme en témoigne l’exemple récent à la frontière gréco-turque.

    Un budget opaque

    « EuroMed Droits s’inquiète de l’#opacité des allocations de fonds dans le budget courant et demande à l’Union européenne de garantir des mécanismes de responsabilité et de transparence sur l’utilisation des fonds, en particulier lorsqu’il s’agit de pays où la corruption est endémique et qui violent régulièrement les droits des personnes migrantes et réfugiées, mais aussi les droits de leurs propres citoyen.ne.s », a déclaré Wadih Al-Asmar, président d’EuroMed Droits.

    « Alors que les dirigeants européens se réunissent à Bruxelles pour discuter du prochain cadre financier pluriannuel, EuroMed Droits demande qu’une approche plus humaine et basée sur les droits soit adoptée envers les migrant.e.s et les réfugié.e.s, afin que les appels à l’empathie et à l’action résolue de la Présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen ne restent pas lettre morte ».

    https://euromedrights.org/fr/publication/budget-europeen-pour-la-migration-plus-de-controles-aux-frontieres-mo


    https://twitter.com/EuroMedRights/status/1283759540740096001

    #budget #migrations #EU #UE #Union_européenne #frontières #Fonds_fiduciaire_pour_l’Afrique #Fonds_fiduciaire #sécurité #réfugiés #accord_UE-Turquie #chiffres #infographie #renvois #expulsions #Neighbourhood_Development_and_International_Cooperation_Instrument

    Ajouté à la métaliste sur la #conditionnalité_de_l'aide_au_développement :
    https://seenthis.net/messages/733358#message768701

    Et à la métaliste sur l’externalisation des contrôles frontaliers :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765319

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  • OP-ed : La guerre faite aux migrants à la frontière grecque de l’Europe par #Vicky_Skoumbi

    La #honte de l’Europe : les #hotspots aux îles grecques
    Devant les Centres de Réception et d’Identification des îles grecques, devant cette ‘ignominie à ciel ouvert’ que sont les camps de Moria à Lesbos et de Vathy à Samos, nous sommes à court de mots ; en effet il est presque impossible de trouver des mots suffisamment forts pour dire l’horreur de l’enfermement dans les hot-spots d’hommes, femmes et enfants dans des conditions abjectes. Les hot-spots sont les Centres de Réception et d’Identification (CIR en français, RIC en anglais) qui ont été créés en 2015 à la demande de l’UE en Italie et en Grèce et plus particulièrement dans les îles grecques de Lesbos, Samos, Chios, Leros et Kos, afin d’identifier et enregistrer les personnes arrivantes. L’approche ‘hot-spots’ introduite par l’UE en mai 2015 était destinée à ‘faciliter’ l’enregistrement des arrivants en vue d’une relocalisation de ceux-ci vers d’autres pays européens que ceux de première entrée en Europe. Force est de constater que, pendant ces cinq années de fonctionnement, ils n’ont servi que le but contraire de celui initialement affiché, à savoir le confinement de personnes par la restriction géographique voire par la détention sur place.

    Actuellement, dans ces camps, des personnes vulnérables, fuyant la guerre et les persécutions, fragilisées par des voyages longs et éprouvants, parmi lesquels se trouvent des victimes de torture ou de naufrage, sont obligées de vivre dans une promiscuité effroyable et dans des conditions inhumaines. En fait, trois quart jusqu’à quatre cinquième des personnes confinées dans les îles grecques appartiennent à des catégories reconnues comme vulnérables, même aux yeux de critères stricts de vulnérabilité établis par l’UE et la législation grecque[1], tandis qu’un tiers des résidents des camps de Moria et de Vathy sont des enfants, qui n’ont aucun accès à un circuit scolaire. Les habitants de ces zones de non-droit que sont les hot-spots, passent leurs journées à attendre dans des files interminables : attendre pour la distribution d’une nourriture souvent avariée, pour aller aux toilettes, pour se laver, pour voir un médecin. Ils sont pris dans un suspens du temps, sans aucune perspective d’avenir de sorte que plusieurs d’entre eux finissent par perdre leurs repères au détriment de leur équilibre mental et de leur santé.

    Déjà avant l’épidémie de Covid 19, plusieurs organismes internationaux comme le UNHCR[2] avaient dénoncé les conditions indignes dans lesquelles étaient obligées de vivre les demandeurs d’asile dans les hot-spots, tandis que des ONG comme MSF[3] et Amnesty International[4] avaient à plusieurs reprises alerté sur le risque que représentent les conditions sanitaires si dégradées, en y pointant une situation propice au déclenchement des épidémies. De son côté, Jean Ziegler, dans son livre réquisitoire sorti en début 2020, désignait le camp de #Moria, le hot-spot de Lesbos, comme la ‘honte de l’Europe’[5].

    Début mars 2020, 43.000 personnes étaient bloquées dans les îles dont 20.000 à Moria et 7.700 à Samos pour une capacité d’accueil de 2.700 et 650 respectivement[6]. Avec les risques particulièrement accrus de contamination, à cause de l’impossibilité de respecter la distanciation sociale et les mesures d’hygiène, on aurait pu s’attendre à ce que des mesures urgentes de décongestion de ces camps soient prises, avec des transferts massifs vers la Grèce continentale et l’installation dans des logements touristiques vides. A vrai dire c’était l’évacuation complète de camps si insalubres qui s’imposait, mais étant donné la difficulté de trouver dans l’immédiat des alternatives d’hébergement pour 43.000 personnes, le transfert au moins des plus vulnérables à des structures plus petites offrant la possibilité d’isolement- comme les hôtels et autres logements touristiques vides dans le continent- aurait été une mesure minimale de protection. Au lieu de cela, le gouvernement Mitsotakis a décidé d’enfermer les résidents des camps dans les îles dans des conditions inhumaines, sans qu’aucune mesure d’amélioration des conditions sanitaires ne soit prévue[7].

    Car, les mesures prises le 17 mars par le gouvernement pour empêcher la propagation du virus dans les camps, consistaient uniquement en une restriction des déplacements au strict minimum nécessaire et même en deça de celui-ci : une seule personne par famille aura désormais le droit de sortir du camp pour faire des courses entre 7 heures et 19 heures, avec une autorisation fournie par la police, le nombre total de personnes ayant droit de sortir par heure restant limité. Parallèlement l’entrée des visiteurs a été interdite et celle des travailleurs humanitaires strictement limitée à ceux assurant des services vitaux. Une mesure supplémentaire qui a largement contribué à la détérioration de la situation des réfugiés dans les camps, a été la décision du ministère d’arrêter de créditer de fonds leur cartes prépayés (cash cards ) afin d’éviter toute sortie des camps, laissant ainsi les résidents des hot-spots dans l’impossibilité de s’approvisionner avec des produits de première nécessité et notamment de produits d’hygiène. Remarquez que ces mesures sont toujours en vigueur pour les hot-spots et toute autre structure accueillant des réfugiés et des migrants en Grèce, en un moment où toute restriction de mouvement a été déjà levée pour la population grecque. En effet, après une énième prolongation du confinement dans les camps, les mesures de restriction de mouvement ont été reconduites jusqu’au 5 juillet, une mesure d’autant plus discriminatoire que depuis cinq semaines déjà les autres habitants du pays ont retrouvé une entière liberté de mouvement. Etant donné qu’aucune donnée sanitaire ne justifie l’enfermement dans les hot-spots où pas un seul cas n’a été détecté, cette extension de restrictions transforme de facto les Centres de Réception et Identification (RIC) dans les îles en centres fermés ou semi-fermés, anticipant ainsi à la création de nouveaux centres fermés, à la place de hot-spots actuels –voir ici et ici. Il est fort à parier que le gouvernement va étendre de prolongation en prolongation le confinement de RIC pendant au moins toute la période touristique, ce qui risque de faire monter encore plus la tension dans les camps jusqu’à un niveau explosif.

    Ainsi les demandeurs d’asile ont été – et continuent toujours à être – obligés de vivre toute la période de l’épidémie, dans une très grande promiscuité et dans des conditions sanitaires qui suscitaient déjà l’effroi bien avant la menace du Covid-19[8]. Voyons de plus près quelles conditions de vie règnent dans ce drôle de ‘chez soi’, auquel le Ministre grec de la politique migratoire invitait les réfugiés à y passer une période de confinement sans cesse prolongée, en présentant le « Stay in camps » comme le strict équivalent du « Stay home », pour les citoyens grecs. Dans l’extension « hors les murs » du hotspot de Moria, vers l’oliveraie, repartie en Oliveraie I, II et III, il y a des quartiers où il n’existe qu’un seul robinet d’eau pour 1 500 personnes, ce qui rend le respect de règles d’hygiène absolument impossible. Dans le camp de Moria il n’y a qu’une seule toilette pour 167 personnes et une douche pour 242, alors que dans l’Oliveraie, 5 000 personnes n’ont aucun accès à l’électricité, à l’eau et aux toilettes. Selon le directeur des programmes de Médecins sans Frontières, Apostolos Veizis, au hot-spot de Samos à Vathy, il n’y a qu’une seule toilette pour 300 personnes, tandis que l’organisation MSF a installé 80 toilettes et elle fournit 60 000 litres d’eau par jour pour couvrir, ne serait-ce que partiellement- les besoins de résidents à l’extérieur du camp.

    Avec la restriction drastique de mouvement contre le Covid-19, non seulement les sorties du camp, même pour s’approvisionner ou pour aller consulter, étaient faites au compte-goutte, mais aussi les entrées, limitant ainsi dramatiquement les services que les ONG et les collectifs solidaires offraient aux réfugiés. La réduction du nombre des ONG et l’absence de solidaires a créé un manque cruel d’effectifs qui s’est traduit par une désorganisation complète de divers services et notamment de la distribution de la nourriture. Ainsi, dans le camp de Moria en pleine pandémie, ont eu lieu des scènes honteuses de bousculade effroyable où les réfugiés étaient obligés de se battre pour une portion de nourriture- voir la vidéo et l’article de quotidien grec Ephimérida tôn Syntaktôn. Ces scènes indignes ne sauraient que se multiplier dans la mesure où le gouvernement en imposant aux ONG un procédé d’enregistrement très complexe et coûteux a réussi à exclure plus que la moitié de celles qui s’activent dans les camps. Car, par le processus de ‘régulation’ d’un domaine censément opaque, imposé par la récente loi sur l’asile, n’ont réussi à passer que 18 ONG qui elles seules auront désormais droit d’entrée dans les hot-spots[9]. En fait, l’inscription des ONG dans le registre du Ministère s’avère un procédé plein d’embûches bureaucratiques. Qui plus est le Ministre peut décider à son gré de refuser l’inscription des organisations qui remplissent tous les critères requis, ce qui serait une ingérence flagrante du pouvoir dans le domaine humanitaire.

    Car, il faudrait aussi savoir que les réfugiés enfermés dans les camps se trouvent à la limite de la survie, après la décision du Ministère de leur couper, à partir du début mars, les aides –déjà très maigres, 90 euros par mois pour une personne seule- auxquelles ils avaient droit jusqu’à maintenant. En ce qui concerne la couverture sociale de santé, à partir de juillet dernier les demandeurs ne pouvaient plus obtenir un numéro de sécurité sociale et étaient ainsi privés de toute couverture santé. Après des mois de tergiversation et sous la pression des organismes internationaux, le gouvernement grec a enfin décidé de leur accorder un numéro provisoire de sécurité sociale, mais cette mesure reste pour l’instant en attente de sa pleine réalisation. Entretemps, l’exclusion des demandeurs d’asile du système national de santé a fait son effet : non seulement, elle a conduit à une détérioration significative de la santé des requérant, mais elle a également privé des enfants réfugiés de scolarisation, car, faute de carnet de vaccination à jour, ceux-ci ne pouvaient pas s’inscrire à l’école.

    En d’autres termes, au lieu de déployer pendant l’épidémie une politique de décongestion avec transferts massifs à des structures sécurisées, le gouvernement a traité les demandeurs d’asile comme porteurs virtuels du virus, à tenir coûte que coûte à l’écart de la société ; non seulement les réfugiés et les migrants n’ont pas été protégés par un confinement sécurisé, mais ils ont été enfermés dans des conditions sanitaires mettant leur santé et leur vie en danger. La preuve, si besoin est, ce sont les mesures prises par le gouvernement dans des structures d’accueil du continent où des cas de coronavirus ont été détectés ; par ex. la gestion catastrophique de la quarantaine dans une structure d’accueil hôtelière à Kranidi en Péloponnèse où une femme enceinte a été testée positive en avril. Dans cet hôtel géré par l’IOM qui accueille 470 réfugiés de l’Afrique sub-saharienne, après l’indentification de deux cas (une employée et une résidente), un dépistage généralisé a été effectué et le 21 avril 150 cas ont été détectés ; très probablement le virus a été ‘importé’ dans la structure par les contacts des réfugiés et du personnel avec les propriétaires de villas voisines installés dans la région pour la période de confinement et qui les employaient pour divers services. Après une quarantaine de trois semaines, trois nouveaux cas ont été détectés avec comme résultat que toutes les personnes testées négatives ont été placées en quarantaine avec celles testées positives au même endroit[10].

    Exactement la même tactique a été adoptée dans les camps de Ritsona (au nord d’Athènes) et de Malakassa (à l’est d’Attique), où des cas ont été détectés. Au lieu d’isoler les porteurs du virus et d’effectuer un dépistage exhaustif de toute la population du camp, travailleurs compris, ce qui aurait pu permettre d’isoler tout porteur non-symptomatique, les camps avec tous leurs résidents ont été mis en quarantaine. Les autorités « ont imposé ces mesures sans prendre de dispositions nécessaires …pour isoler les personnes atteintes du virus à l’intérieur des camps, ont déclaré deux travailleurs humanitaires et un résident du camp. Dans un troisième cas, les autorités ont fermé le camp sans aucune preuve de la présence du virus à l’intérieur, simplement parce qu’elles soupçonnaient les résidents du camp d’avoir eu des contacts avec une communauté voisine de Roms où des gens avaient été testés positifs [11] » [il s’agit du camp de Koutsohero, près de Larissa, qui accueille 1.500 personnes][12].

    Un travailleur humanitaire a déclaré à Human Rights Watch : « Aussi scandaleux que cela puisse paraître, l’approche des autorités lorsqu’elles soupçonnent qu’il pourrait y avoir un cas de virus dans un camp consiste simplement à enfermer tout le monde dans le camp, potentiellement des milliers de personnes, dont certaines très vulnérables, et à jeter la clé, sans prendre les mesures appropriées pour retracer les contacts de porteurs du virus, ni pour isoler les personnes touchées ».

    Il va de soi qu’une telle tactique ne vise nullement à protéger les résidents de camp, mais à les isoler tous, porteurs et non-porteurs, ensemble, au risque de leur santé et de leur vie. Au fond, la stratégie du gouvernement a été simple : retrancher complètement les réfugiés du reste de la population, tout en les excluant de mesures de protection efficiantes. Bref, les réfugiés ont été abandonnés à leur sort, quitte à se contaminer les uns les autres, pourvu qu’ils ne soient plus en contact avec les habitants de la région.

    La gestion par les autorités de la quarantaine à l’ancien camp de Malakasa est également révélatrice de la volonté des autorités non pas de protéger les résidents des camps mais de les isoler à tout prix de la population locale. Une quarantaine a été imposée le 5 avril suite à la détection d’un cas. A l’expiration du délai réglementaire de deux semaines, la quarantaine n’a été que très partiellement levée. Pendant la durée de la quarantaine l’ancien camp de Malakasa abritant 2.500 personnes a été approvisionné en quantité insuffisante en nourriture de basse valeur nutritionnelle, et pratiquement pas du tout en médicaments et aliments pour bébés. Le 22 avril un nouveau cas a été détecté et la quarantaine a été de nouveau imposée à l’ensemble de 2.500 résidents du camp. Entretemps quelques tests de dépistage ont été faits par-ci et par-là, mais aucune mesure spécifique n’a été prise pour les cas détectés afin de les isoler du reste de la population du camp. Pendant cette nouvelle période de quarantaine, la seule mesure prise par les autorités a été de redoubler les effectifs de police à l’entrée du camp, afin d’empêcher toute sortie, et ceci à un moment critique où des produits de première nécessité manquaient cruellement dans le camp. Ni dépistage généralisé, ni visite d’équipes médicales spécialisées, ni non plus séparation spatiale stricte entre porteurs et non-porteurs du virus n’ont été mises en place. La quarantaine, avec une courte période d’allégement de mesures de restriction, dure déjà depuis deux mois et demi. Car, le 20 juin elle a été prolongée jusqu’au 5 juillet, transformant ainsi de facto les résidents du camp en détenus[13].

    La façon aussi dont ont été traités les nouveaux arrivants dans les îles depuis le début de la période du confinement et jusqu’à maintenant est également révélatrice de la volonté du gouvernement de ne pas faire le nécessaire pour assurer la protection des demandeurs d’asile. Non seulement ceux qui sont arrivés après le début mars n’ont pas été mis à l’abri pour y passer la période de quarantaine de 14 jours dans des conditions sécurisées, mais ils ont été systématiquement ‘confinés en plein air’ à la proximité de l’endroit où ils ont débarqué : les nouveaux arrivants, femmes enceintes et enfants compris, ont été obligés de vivre en plein air, exposés aux intempéries dans une zone circonscrite placée sous la surveillance de la police, pendant deux, trois voire quatre semaines et sans aucun accès à des infrastructures sanitaires. Le cas de 450 personnes arrivées début mars est caractéristique : après avoir été gardées en « quarantaine » dans une zone entourée de barrières au port de Mytilène, elles ont été enfermées pendant 13 jours dans des conditions inimaginables dans un navire militaire grec, où ils ont été obligés de dormir sur le sol en fer du navire, vivant littéralement les uns sur les autres, sans même qu’on ne leur fournisse du savon pour se laver les mains.

    Cet enfermement prolongé dans des conditions abjectes, en contre-pied du confinement sécurisé à la maison, que la plupart d’entre nous, citoyens européens, avons connu, transforme de fait les demandeurs en détenus et crée inévitablement des situations explosives avec une montée des incidents violents, des affrontements entre groupes ethniques, des départs d’incendies à Lesbos, à Chios et à Samos. Ne serait-ce qu’à Moria, et surtout dans l’Oliveraie qui entoure le camp officiel, dès la tombée de la nuit l’insécurité règne : depuis le début de l’année on y dénombre au moins 14 agressions à l’arme blanche qui ont fait quatre morts et 14 blessés[14]. Bref aux conditions de vie indignes et dangereuses pour la santé, il faudrait ajouter l’insécurité croissante, encore plus pesante pour les femmes, les personnes LGBT+ et les mineurs isolés.

    Affronté aux réactions des sociétés locales et à la pression des organismes internationaux, le gouvernement grec a fini par reconnaître la nécessité de la décongestion des îles par le biais du transfert de réfugiés et des demandeurs d’asile vulnérables au continent. Mais il s’en est rendu compte trop tard ; entretemps le discours haineux qui présente les migrants comme une menace pour la sécurité nationale voire pour l’identité de la nation, ce poison qu’elle-même a administré à la population, a fait son effet. Aujourd’hui, le ministre de la politique migratoire a été pris au piège de sa propre rhétorique xénophobe haineuse ; c’est au nom justement de celle-ci que les autorités régionales et locales (et plus particulièrement celles proches à la majorité actuelle), opposent un refus catégorique à la perspective d’accueillir dans leur région des réfugiés venant des hot-spots des îles. Des hôtels où des familles en provenance de Moria auraient dû être logées ont été en partie brûlés, des cars transportant des femmes et des enfants ont été attaqués à coup de pierres, des tenanciers d’établissements qui s’apprêtaient à les accueillir, ont reçu des menaces, la liste des actes honteux ne prend pas fin[15].

    Mais le ministre grec de la politique migratoire n’est jamais en court de moyens : il a un plan pour libérer plus que 10.000 places dans les structures d’accueil et les appartements en Grèce continentale. A partir du 1 juin, les autorités ont commencé à mettre dans la rue 11.237 réfugiés reconnus comme bénéficiaires de protection internationale, un mois après l’obtention de leur carte de réfugiés ! Evincés de leurs logements, ces réfugiés, femmes, enfants et personnes vulnérables compris, se retrouveront dans la rue et sans ressources, car ils n’ont plus le droit de recevoir les aides qui ne leur sont destinées que pendant les 30 jours qui suivent l’obtention de leur carte[16]. Cette décision du ministre Mitarakis a été mise sur le compte d’une politique moins accueillante, car selon lui, les aides, assez maigres, par ailleurs, constituaient un « appel d’air » trop attractif pour les candidats à l’exil ! Le comble de l’affaire est que tant le programme d’hébergement en appartements et hôtels ESTIA que les aides accordées aux réfugiés et demandeurs d’asile sont financées par l’UE et des organismes internationaux, et ne coûtent strictement rien au budget de l’Etat. Le désastre qui se dessine à l’horizon a déjà pointé son nez : une centaine de réfugiés dont une quarantaine d’enfants, transférés de Lesbos à Athènes, ont été abandonnés sans ressources et sans toit en pleine rue. Ils campent actuellement à la place Victoria, à Athènes.

    Le dernier cercle de l’enfer : les PROKEKA

    Au moment où est écrit cet article, les camps dans les îles fonctionnent cinq, six voire dix fois au-dessus de leur capacité d’accueil. 34.000 personnes sont actuellement entassées dans les îles, dont 30.220 confinées dans les conditions abjectes de hot-spots prévus pour accueillir 6 000 personnes au grand maximum ; 750 en détention dans les centres de détention fermés avant renvoi (PROΚEΚA), et le restant dans d’autres structures[17].

    Plusieurs agents du terrain ont qualifié à juste titre les camps de Moria à Lesbos et celui de Vathy à Samos[18] comme l’enfer sur terre. Car, comment désigner autrement un endroit comme Moria où les enfants – un tiers des habitants du camp- jouent parmi les ordures et les déjections et où plusieurs d’entre eux touchent un tel fond de désespoir qu’ils finissent par s’automutiler et/ou par commettre de tentatives de suicide[19], tandis que d’autres tombent dans un état de prostration et de mutisme ? Comment dire autrement l’horreur d’un endroit comme le camp de Vathy où femmes enceintes et enfants de bas âge côtoient des serpents, des rats et autres scorpions ?

    Cependant, il y a pire, en l’occurrence le dernier cercle de l’Enfer, les ‘Centres de Détention fermés avant renvoi’ (Pre-moval Detention Centers, PROKEKA en grec), l’équivalent grec des CRA (Centre de Rétention Administrative) en France[20]. Aux huit centres fermés de détention et aux postes de police disséminés partout en Grèce, plusieurs milliers de demandeurs d’asile et d’étrangers sans-papiers sont actuellement détenus dans des conditions terrifiantes. Privés même des droits les plus élémentaires de prisonniers, les détenus restent presque sans soins médicaux, sans contact régulier avec l’extérieur, sans droit de visite ni accès assuré à une aide judiciaire. Ces détenus qui sont souvent victimes de mauvais traitements de la part de leurs gardiens, n’ont pas de perspective de sortie, dans la mesure où, en vertu de la nouvelle loi sur l’asile, leur détention peut être prolongée jusqu’à 36 mois. Leur maintien en détention est ‘justifié’ en vue d’une déportation devenue plus qu’improbable – qu’il s’agisse d’une expulsion vers le pays d’origine ou d’une réadmission vers un tiers pays « sûr ». Dans ces conditions il n’est pas étonnant qu’en désespoir de cause, des détenus finissent par attenter à leur jours, en commettant des suicides ou des tentatives de suicide.

    Ce qui est encore plus alarmant est qu’à la fin 2018, à peu près 28% des détenus au sein de ces centres fermés étaient des mineurs[21]. Plus récemment et notamment fin avril dernier, Arsis dans un communiqué de presse du 27 avril 2020, a dénoncé la détention en tout point de vue illégale d’une centaine de mineurs dans un seul centre de détention, celui d’Amygdaleza en Attique. D’après les témoignages, c’est avant tout dans les préfectures et les postes de police où sont gardés plus que 28% de détenus que les conditions de détention virent à un cauchemar, qui rivalise avec celui dépeint dans le film Midnight Express. Les cellules des commissariats où s’entassent souvent des dizaines de personnes sont conçus pour une détention provisoire de quelques heures, les infrastructures sanitaires sont défaillantes, et il n’y a pas de cour pour la promenade quotidienne. Quant aux policiers, ils se comportent comme s’ ils étaient au-dessus de la loi face à des détenus livrés à leur merci : ils leur font subir des humiliations systématiques, des mauvais traitements, des violences voire des tortures.

    Plusieurs témoignages concordants dénoncent des conditions horribles dans les préfectures et les commissariats : les détenus peuvent être privés de nourriture et d’eau pendant des journées entières, plusieurs entre eux sont battus et peuvent rester entravés et ligotés pendant des jours, privés de soins médicaux, même pour des cas urgents. En mars 2017, Ariel Rickel (fondatrice d’Advocates Abroad) avait découvert dans le commissariat du hot-spot de Samos, un mineur de 15 ans, ligoté sur une chaise. Le jeune homme qui avait été violement battu par les policiers, avait eu des côtes cassées et une blessure ouverte au ventre ; il était resté dans cet état ligoté trois jours durant, et ce n’est qu’après l’intervention de l’ombudsman, sollicité par l’avocate, qu’il a fini par être libéré.[22] Le cas rapporté par Ariel Rickel à Valeria Hänsel n’est malheureusement pas exceptionnel. Car, ces conditions inhumaines de détention dans les PROKEKA ont été à plusieurs reprises dénoncées comme un traitement inhumain et dégradant par la Cour Européenne de droits de l’homme[23] et par le Comité Européen pour la prévention de la torture du Conseil de l’Europe (CPT).

    Il faudrait aussi noter qu’au sein de hot-spot de Lesbos et de Kos, il y a de tels centres de détention fermés, ‘de prison dans les prisons à ciel ouvert’ que sont ces camps. Un rapport récent de HIAS Greece décrit les conditions inhumaines qui règnent dans le PROKEKA de Moria où sont détenus en toute illégalité des demandeurs d’asile n’ayant commis d’autre délit que le fait d’être originaire d’un pays dont les ressortissants obtiennent en moyenne en UE moins de 25% de réponses positives à leurs demandes d’asile (low profile scheme). Il est évident que la détention d’un demandeur d’asile sur la seule base de son pays d’origine constitue une mesure de ségrégation discriminatoire qui expose les requérants à des mauvais traitements, vu la quasi inexistence de services médicaux et la très grande difficulté voire l’impossibilité d’avoir accès à l’aide juridique gratuite pendant la détention arbitraire. Ainsi, p.ex. des personnes ressortissant de pays comme le Pakistan ou l’Algérie, même si ils/elles sont LGBT+, ce qui les exposent à des dangers graves dans leur pays d’origine, seront automatiquement détenus dans le PROKEKA de Moria, étant ainsi empêchés d’étayer suffisamment leur demande d’asile, en faisant appel à l’aide juridique gratuite et en la documentant. Début avril, dans deux centres de détention fermés, celui au sein du camp de Moria et celui de Paranesti, près de la ville de Drama au nord de la Grèce, les détenus avaient commencés une grève de la faim pour protester contre la promiscuité effroyable et réclamer leur libération ; dans les deux cas les protestations ont été très violemment réprimées par les forces de l’ordre.

    La déclaration commune UE-Turquie

    Cependant il faudrait garder à l’esprit qu’à l’origine de cette situation infernale se trouve la décision de l’UE en 2016 de fermer ses frontières et d’externaliser en Turquie la prise en charge de réfugiés, tout en bloquant ceux qui arrivent à passer en Grèce. C’est bien l’accord UE-Turquie du 18 mars 2016[24] – en fait une Déclaration commune dépourvue d’un statut juridique équivalent à celui d’un accord en bonne et due forme- qui a transformé les îles grecques en prison à ciel ouvert. En fait, cette Déclaration est un troc avec la Turquie où celle-ci s’engageait non seulement à fermer ses frontières en gardant sur son sol des millions de réfugiés mais aussi à accepte les réadmissions de ceux qui ont réussi à atteindre l’Europe ; en échange une aide de 6 milliards lui serait octroyée afin de couvrir une partie de frais générés par le maintien de 3 millions de réfugiés sur son sol, tandis que les ressortissants turcs n’auraient plus besoin de visa pour voyager en Europe. En fait, comme le dit un rapport de GISTI, la nature juridique de la Déclaration du 18 mars a beau être douteuse, elle ne produit pas moins les « effets d’un accord international sans en respecter les règles d’élaboration ». C’est justement le statut douteux de cette déclaration commune, que certains analystes n’hésitent pas de désigner comme un simple ‘communiqué de presse’, qui a fait que la Cour Européenne a refusé de se prononcer sur la légalité, en se déclarant incompétente, face à un accord d’un statut juridique indéterminé.

    Or, dans le cadre de la mise en œuvre de cet accord a été introduite par l’article 60(4) de la loi grecque L 4375/2016, la procédure d’asile dite ‘accélérée’ dans les îles grecques (fast-track border procedure) qui non seulement réduisaient les garanties de la procédure au plus bas possible en UE, mais qui impliquait aussi comme corrélat l’imposition de la restriction géographique de demandeurs d’asile dans les îles de première arrivée. Celle-ci fut officiellement imposée par la décision 10464/31-5-2017 de la Directrice du Service d’Asile, qui instaurait la restriction de circulation des requérant, afin de garantir le renvoi en Turquie de ceux-ci, en cas de rejet de leurs demandes. Rappelons que ces renvois s’appuient sur la reconnaissance -tout à fait infondée-, de la Turquie comme ‘pays tiers sûr’. Même des réfugiés Syriens ont été renvoyés en Turquie dans le cadre de la mise en application de cette déclaration commune.

    La restriction géographique qui contraint les demandeurs d’asile de ne quitter sous aucun prétexte l’île où ils ont déposé leur demande, jusqu’à l’examen complet de celle-ci, conduit inévitablement au point où nous sommes aujourd’hui à savoir à ce surpeuplement inhumain qui non seulement crée une situation invivable pour les demandeurs, mais a aussi un effet toxique sur les sociétés locales. Déjà en mai 2016, François Crépeau, rapporteur spécial de NU aux droits de l’homme de migrants, soulignait que « la fermeture de frontières de pays au nord de la Grèce, ainsi que le nouvel accord UE-Turquie a abouti à une augmentation exponentielle du nombre de migrants irréguliers dans ce pays ». Et il ajoutait que « le grand nombre de migrants irréguliers bloqués en Grèce est principalement le résultat de la politique migratoire de l’UE et des pays membres de l’UE fondée exclusivement sur la sécurisation des frontières ».

    Gisti, dans un rapport sur les hotspots de Chios et de Lesbos notait également depuis 2016 que, étant donné l’accord UE-Turquie, « ce sont les Etats membres de l’UE et l’Union elle-même qui portent l’essentiel de la responsabilité́ des mauvais traitements et des violations de leurs droits subis par les migrants enfermés dans les hotspots grecs.

    La présence des agences européennes à l’intérieur des hotspots ne fait que souligner cette responsabilité ». On le verra, le rôle de l’EASO est crucial dans la décision finale du service d’asile grec. Quant au rôle joué par Frontex, plusieurs témoignages attestent sa pratique quotidienne de non-assistance à personnes en danger en mer voire sa participation à des refoulements illégaux. Remarquons que c’est bien cette déclaration commune UE-Turquie qui stipule que les demandeurs déboutés doivent être renvoyés en Turquie et à cette fin être maintenus en détention, d’où la situation actuelle dans les centres de détention fermés.

    Enfin la situation dans les hot-spots s’est encore plus aggravée, en raison de la décision du gouvernement Mitsotakis de geler pendant plusieurs mois tout transfert vers la péninsule grecque, bloquant ainsi même les plus vulnérables sur place. Sous le gouvernement précédent, ces derniers étaient exceptés de la restriction géographique dans les hot-spots. Mais à partir du juillet 2020 les transferts de catégories vulnérables -femmes enceintes, mineurs isolés, victimes de torture ou de naufrages, personnes handicapées ou souffrant d’une maladie chronique, victimes de ségrégations à cause de leur orientation sexuelle, – avaient cessé et n’avaient repris qu’au compte-goutte début janvier, plusieurs mois après leurs suspension.

    Le dogme de la ‘surveillance agressive’ des frontières

    Les refoulements groupés sont de plus en plus fréquents, tant à la frontière maritime qu’à la frontière terrestre. A Evros cette pratique était assez courante bien avant la crise à la frontière gréco-turque de mars dernier. Elle consistait non seulement à refouler ceux qui essayaient de passer la frontière, mais aussi à renvoyer en toute clandestinité ceux qui étaient déjà entrés dans le territoire grec. Les faits sont attestés par plusieurs témoignages récoltés par Human Rights 360 dans un rapport publié fin 2018 : "The new normality : Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river" (https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e). Les « intrus » qui ont réussi à passer la frontière sont arrêtés et dépouillés de leur biens, téléphone portable compris, pour être ensuite déportés vers la Turquie, soit par des forces de l’ordre en tenue, soit par des groupes masqués et cagoulés difficiles à identifier. En effet, il n’est pas exclu que des patrouilles paramilitaires, qui s’activent dans la région en se prenant violemment aux migrants au vu et au su des autorités, soient impliquées à ses opérations. Les réfugiés peuvent être gardés non seulement dans des postes de police et de centres de détention fermés, mais aussi dans des lieux secrets, sans qu’ils n’aient la moindre possibilité de contact avec un avocat, le service d’asile, ou leurs proches. Par la suite ils sont embarqués de force sur des canots pneumatiques en direction de la Turquie.

    Cette situation qui fut dénoncée par les ONG comme instaurant une nouvelle ‘normalité’, tout sauf normale, s’est dramatiquement aggravée avec la crise à la frontière terrestre fin février et début mars dernier[25]. Non seulement la frontière fut hermétiquement fermée et des refoulements groupés effectués par la police anti-émeute et l’armée, mais, dans le cadre de la soi-disant défense de l’intégrité territoriale, il y a eu plusieurs cas où des balles réelles ont été tirées par les forces grecques contre les migrants, faisant quatre morts et plusieurs blessés[26].

    Cependant ces pratiques criminelles ne sont pas le seul fait des autorités grecques. Depuis le 13 mars dernier, des équipes d’Intervention Rapide à la Frontière de Frontex, les Rapid Border Intervention Teams (RABIT) ont été déployées à la frontière gréco-turque d’Evros, afin d’assurer la ‘protection’ de la frontière européenne. Leur intervention qui aurait dû initialement durer deux mois, a été entretemps prolongée. Ces équipes participent elles, et si oui dans quelle mesure, aux opérations de refoulement ? Il faudrait rappeler ici que, d’après plusieurs témoignages récoltés par le Greek Council for Refugees, les équipes qui opéraient les refoulements en 2017 et 2018 illégaux étaient déjà mixtes, composées des agents grecs et des officiers étrangers parlant soit l’allemand soit l’anglais. Il n’y a aucune raison de penser que cette coopération en bonne entente en matière de refoulement, entre forces grecques et celles de Frontex ait cessé depuis, d’autant plus que début mars la Grèce fut désignée par les dirigeants européens pour assurer la protection de l’Europe, censément menacée par les migrants à sa frontière.

    Plusieurs témoignages de réfugiés refoulés à la frontière d’Evros ainsi que des documents vidéo attestent l’existence d’un centre de détention secret destiné aux nouveaux arrivants ; celui-ci n’est répertorié nulle part et son fonctionnement ne respecte aucune procédure légale, concernant l’identification et l’enregistrement des arrivants. Ce centre, fonctionnant au noir, dont l’existence fut révélée par un article du 10 mars 2020 de NYT, se situe à la proximité de la frontière gréco-turque, près du village grec Poros. Les malheureux qui y échouent, restent détenus dans cette zone de non-droit absolu[27], car, non seulement leur existence n’est enregistrée nulle part mais le centre même n’apparaît sur aucun registre de camps et de centres de détention fermés. Au bout de quelques jours de détention dans des conditions inhumaines, les détenus dépouillés de leurs biens sont renvoyés de force vers la Turquie, tandis que plusieurs d’entre eux ont été auparavant battus par la police.

    La situation est aussi alarmante en mer Egée, où les rapports dénonçant des refoulements maritimes violents mettant en danger la vie de réfugiés, ne cessent de se multiplier depuis le début mars. D’après les témoignages il y aurait au moins deux modes opératoires que les garde-côtes grecs ont adoptés : enlever le moteur et le bidon de gasoil d’une embarcation surchargée et fragile, tout en la repoussant vers les eaux territoriaux turques, et/ou créer des vagues, en passant en grande vitesse tout près du bateau, afin d’empêcher l’embarcation de s’approcher à la côte grecque (voir l’incident du 4 juin dernier, dénoncé par Alarm Phone). Cette dernière méthode de dissuasion ne connaît pas de limites ; des vidéos montrent des incidents violents où les garde-côtes n’hésitent pas à tirer des balles réelles dans l’eau à côté des embarcations de réfugiés ou même dans leurs directions ; il y a même des vidéos qui montrent les garde-côtes essayant de percer le canot pneumatique avec des perches.

    Néanmoins, l’arsenal de garde-côtes grecs ne se limite pas à ces méthodes extrêmement dangereuses ; ils recourent à des procédés semblables à ceux employés en 2013 par l’Australie pour renvoyer les migrants arrivés sur son sol : ils obligent des demandeurs d’asile à embarquer sur des life rafts -des canots de survie qui se présentent comme des tentes gonflables flottant sur l’eau-, et ils les repoussent vers la Turquie, en les laissant dériver sans moteur ni gouvernail[28].

    Des incidents de ce type ne cessent de se multiplier depuis le début mars. Victimes de ce type de refoulement qui mettent en danger la vie des passagers, peuvent être même des femmes enceintes, des enfants ou même des bébés –voir la vidéo glaçante tournée sur un tel life raft le 25 mai dernier et les photographies respectives de la garde côtière turque.

    Ce mode opératoire va beaucoup plus loin qu’un refoulement illégal, car il arrive assez souvent que les personnes concernées aient déjà débarqué sur le territoire grec, et dans ce cas ils avaient le droit de déposer une demande d’asile. Cela veut dire que les garde-côtes grecs ne se contentent pas de faire des refoulements maritimes qui violent le droit national et international ainsi que le principe de non-refoulement de la convention de Genève[29]. Ioannis Stevis, responsable du média local Astraparis à Chios, avait déclaré au Guardian « En mer Egée nous pouvions voir se dérouler cette guerre non-déclarée. Nous pouvions apercevoir les embarcations qui ne pouvaient pas atteindre la Grèce, parce qu’elles en étaient empêchées. De push-backs étaient devenus un lot quotidien dans les îles. Ce que nous n’avions pas vu auparavant, c’était de voir les bateaux arriver et les gens disparaître ».

    Cette pratique illégale va beaucoup plus loin, dans la mesure où les garde-côtes s’appliquent à renvoyer en Turquie ceux qui ont réussi à fouler le sol grec, sans qu’aucun protocole ni procédure légale ne soient respectés. Car, ces personnes embarquées sur les life rafts, ne sont pas à strictement parler refoulées – et déjà le refoulement est en soi illégal de tout point de vue-, mais déportées manu militari et en toute illégalité en Turquie, sans enregistrement ni identification préalable. C’est bien cette méthode qui explique comment des réfugiés dont l’arrivée sur les côtes de Samos et de Chios est attestée par des vidéos et des témoignages de riverains, se sont évaporés dans la nature, n’apparaissant sur aucun registre de la police ou des autorités portuaires[30]. Malgré l’existence de documents photos et vidéos attestant l’arrivée des embarcations des jours où aucune arrivée n’a été enregistrée par les autorités, le ministre persiste et signe : pour lui il ne s’agirait que de la propagande turque reproduite par quelques esprits malveillants qui voudraient diffamer la Grèce. Néanmoins les photographies horodatées publiées sur Astraparis, dans un article intitulé « les personnes que nous voyons sur la côte Monolia à Chios seraient-ils des extraterrestres, M. le Ministre ? », constituent un démenti flagrant du discours complotiste du Ministre.

    Question cruciale : quelle est le rôle exact joué par Frontex dans ces refoulements ? Est-ce que les quelques 600 officiers de Frontex qui opèrent en mer Egée dans le cadre de l’opération Poséidon, y participent d’une façon ou d’une autre ? Ce qui est sûr est qu’il est quasi impossible qu’ils n’aient pas été de près ou de loin témoins des opérations de push-back. Le fait est confirmé par un article du Spiegel sur un incident du 13 mai, un push-back de 27 réfugiés effectué par la garde côtière grecque laquelle, après avoir embarqué les réfugiés sur un canot de sauvetage, a remorqué celui-ci en haute mer. Or, l’embarcation de réfugiés a été initialement repéré près de Samos par les hommes du bateau allemand Uckermark faisant partie des forces de Frontex, qui l’ont ensuite signalé aux officiers grecs ; le fait que cette embarcation ait par la suite disparu sans laisser de trace et qu’aucune arrivée de réfugiés n’ait été enregistrée à Samos ce jour-là, n’a pas inquiété outre-mesure les officiers allemands.

    Nous savons par ailleurs, grâce à l’attitude remarquable d’un équipage danois, que les hommes de Frontex reçoivent l’ordre de ne pas porter secours aux réfugiés navigant sur des canots pneumatiques, mais de les repousser ; au cas où les réfugiés ont déjà été secourus et embarqués à bord d’un navire de Frontex, celui-ci reçoit l’ordre de les remettre sur des embarcations peu fiables et à peine navigables. C’est exactement ce qui est arrivé début mars à un patrouilleur danois participant à l’opération Poséidon, « l’équipage a reçu un appel radio du commandement de Poséidon leur ordonnant de remettre les [33 migrants qu’ils avaient secourus] dans leur canot et de les remorquer hors des eaux grecques »[31], ordre, que le commandant du navire danois Jan Niegsch a refusé d’exécuter, estimant “que celui-ci n’était pas justifiable”, la manœuvre demandée mettant en danger la vie des migrants. Or, il n’y aucune raison de penser que l’ordre reçu -et fort heureusement non exécuté grâce au courage du capitaine Niegsch et du chargé de l’unité danoise de Frontex, Jens Moller- soit un ordre exceptionnel que les autres patrouilleurs de Frontex n’ont jamais reçu. Les officiers danois ont d’ailleurs confirmé que les garde-côtes grecs reçoivent des ordres de repousser les bateaux qui arrivent de Turquie, et ils ont été témoins de plusieurs opérations de push-back. Mais si l’ordre de remettre les réfugiés en une embarcation non-navigable émanait du quartier général de l’opération Poséidon, qui l’avait donc donné [32] ? Des officiers grecs coordonnant l’opération, ou bien des officiers de Frontex ?

    Remarquons que les prérogatives de Frontex ne se limitent pas à la surveillance et la ‘protection’ de la frontière européenne : dans une interview que Fabrice Leggeri avait donné en mars dernier à un quotidien grec, il a révélé que Frontex était en train d’envisager avec le gouvernement grec les modalités d’une action communes pour effectuer les retours forcés des migrants dits ‘irréguliers’ à leurs pays d’origine. « Je m’attends à ce que nous ayons bientôt un plan d’action en commun. D’après mes contacts avec les officiers grecs, j’ai compris que la Grèce est sérieusement intéressée à augmenter le nombre de retours », avait-il déclaré.

    Tout démontre qu’actuellement les sauvetages en mer sont devenus l’exception et les refoulements violents et dangereux la règle. « Depuis des années, Alarm Phone a documenté des opérations de renvois menées par des garde-côtes grecs. Mais ces pratiques ont considérablement augmenté ces dernières semaines et deviennent la norme en mer Égée », signale un membre d’Alarm Phone à InfoMigrants. De sorte que nous pouvons affirmer que le dogme du gouvernement Mitsotakis consiste en une inversion complète du principe du non-refoulement : ne laisser passer personne en refoulant coûte que coûte. D’ailleurs, ce nouveau dogme a été revendiqué publiquement par le ministre de Migration et de l’Asile Mitarakis, qui s’est vanté à plusieurs reprises d’avoir réussi à créer une frontière maritime quasi-étanche. Les quatre volets de l’approche gouvernementale ont été résumés ainsi par le ministre : « protection des frontières, retours forcés, centres fermés pour les arrivants, et internationalisation des frontières »[33]. Dans une émission télévisée du 13 avril, le même ministre a déclaré que la frontière était bien gardée, de sorte qu’aujourd’hui, les flux sont quasi nuls, et il a ajouté que “l’armée et des unités spéciaux, la marine nationale et les garde-côtes sont prêts à opérer pour empêcher les migrants en situation irrégulière d’entrer dans notre pays’’. Bref, des forces militaires sont appelées de se déployer sur le front de guerre maritime et terrestre contre les migrants. Voilà comment est appliqué le dogme de zéro flux dont se réclame le Ministre.

    Le Conseil de l’Europe a publié une déclaration très percutante à ce sujet le 19 juin. Sous le titre Il faut mettre fin aux refoulements et à la violence aux frontières contre les réfugiés, la commissaire aux droits de l’homme Dunja Mijatović met tous les états membres du Conseil de l’Europe devant leurs responsabilités, en premier lieu les états qui commettent de telles violations de droits des demandeurs d’asile. Loin de considérer que les refoulements et les violences à la frontière de l’Europe sont le seul fait de quelques états dont la plupart sont situés à la frontière externe de l’UE, la commissaire attire l’attention sur la tolérance tacite de ces pratiques illégales, voire l’assistance à celles-ci de la part de la plupart d’autres états membres. Est responsable non seulement celui qui commet de telles violations des droits mais aussi celui qui les tolère voire les encourage.

    Asile : ‘‘mission impossible’’ pour les nouveaux arrivants ?

    Actuellement en Grèce plusieurs dizaines de milliers de demandes d’asile sont en attente de traitement. Pour donner la pleine mesure de la surcharge d’un service d’asile qui fonctionne actuellement à effectifs réduits, il faudrait savoir qu’il y a des demandeurs qui ont reçu une convocation pour un entretien en…2022 –voir le témoignage d’un requérant actuellement au camp de Vagiohori. En février dernier il y avait 126.000 demandes en attente d’être examinées en première et deuxième instance. Entretemps, par des procédures expéditives, 7.000 demandes ont été traitées en mars et 15 000 en avril, avec en moyenne 24 jours par demande pour leur traitement[34]. Il devient évident qu’il s’agit de procédures expéditives et bâclées. En même temps le pourcentage de réponses négatives en première instance ne cesse d’augmenter ; de 45 à 50% qu’il était jusqu’à juillet dernier, il s’est élevé à 66% en février[35], et il a dû avoir encore augmenté entre temps.

    Ce qui est encore plus inquiétant est l’ambition affichée du Ministre de la Migration de réaliser 11000 déportations d’ici la fin de l’année. A Lesbos, à la réouverture du service d’asile, le 18 mai dernier, 1.789 demandeurs ont reçu une réponse négative, dont au moins 1400 en première instance[36]. Or, ces derniers n’ont eu que cinq jours ouvrables pour déposer un recours et, étant toujours confinés dans l’enceinte de Moria, ils ont été dans l’impossibilité d’avoir accès à une aide judiciaire. Ceux d’entre eux qui ont osé se déplacer à Mytilène, chef-lieu de Lesbos, pour y chercher de l’aide auprès du Legal Center of Lesbos ont écopé des amendes de 150€ pour violation de restrictions de mouvement[37] !

    Jusqu’à la nouvelle loi votée il y a six semaines au Parlement Hellénique, la procédure d’asile était un véritable parcours du combattant pour les requérants : un parcours plein d’embûches et de pièges, entaché par plusieurs clauses qui violent les lois communautaires et nationales ainsi que les conventions internationales. L’ancienne loi, entrée en vigueur seulement en janvier 2020, introduisait des restrictions de droits et un raccourcissement de délais en vue de procédures encore plus expéditives que celles dites ‘fast-track’ appliquées dans les îles (voir ci-dessous). Avant la toute nouvelle loi adoptée le 8 mai dernier, Gisti constatait déjà des atteintes au droit national et communautaire, concernant « en particulier le droit d’asile, les droits spécifiques qui doivent être reconnus aux personnes mineures et aux autres personnes vulnérables, et le droit à une assistance juridique ainsi qu’à une procédure de recours effectif »[38]. Avec la nouvelle mouture de la loi du 8 mai, les restrictions et la réduction de délais est telle que par ex. la procédure de recours devient vraiment une mission impossible pour les demandeurs déboutés, même pour les plus avertis et les mieux renseignés parmi eux. Les délais pour déposer une demande de recours se réduisent en peau de chagrin, alors que l’aide juridique au demandeur, de même que l’interprétariat en une langue que celui-ci maîtrise ne sont plus assurés, laissant ainsi le demandeur seul face à des démarches complexes qui doivent être faites dans une langue autre que la sienne[39]. De même l’entretien personnel du requérant, pierre angulaire de la procédure d’asile, peut être omis, si le service ne trouve pas d’interprète qui parle sa langue et si le demandeur vit loin du siège de la commission de recours, par ex. dans un hot-spot dans les îles ou loin de l’Attique. Le 13 mai, le ministre Mitarakis avait déclaré que 11.000 demandes ont été rejetées pendant les mois de mars et avril, et que ceux demandeurs déboutés « doivent repartir »[40], laissant entendre que des renvois massifs vers la Turquie pourraient avoir lieu, perspective plus qu’improbable, étant donné la détérioration grandissante de rapport entre les deux pays. Ces demandeurs déboutés ont été sommés de déposer un recours dans l’espace de 5 jours ouvrables après notification, sans assistance juridique et sous un régime de restrictions de mouvements très contraignant.

    En vertu de la nouvelle loi, les personnes déboutées peuvent être automatiquement placées en détention, la détention devenant ainsi la règle et non plus l’exception comme le stipule le droit européen. Ceci est encore plus vrai pour les îles. Qui plus est, selon le droit international et communautaire, la mesure de détention ne devrait être appliquée qu’en dernier ressort et seulement s’il y a une perspective dans un laps de temps raisonnable d’effectuer le renvoi forcé de l’intéressé. Or, aujourd’hui et depuis quatre mois, il n’y a aucune perspective de cet ordre. Car les chances d’une réadmission en Turquie ou d’une expulsion vers le pays d’origine sont pratiquement inexistantes, pendant la période actuelle. Si on tient compte que plusieurs dizaines de milliers de demandes restent en attente d’être traitées et que le pourcentage de rejet ne cesse d’augmenter, on voit avec effroi s’esquisser la perspective d’un maintien en détention de dizaines de milliers de personnes pour un laps de temps indéfini. La Grèce compte-t-elle créer de centres de détention pour des dizaines de milliers de personnes, qui s’apparenteraient par plusieurs traits à des véritables camps de concentration ? Le fera-t-elle avec le financement de l’UE ?

    Nous savons que le rôle de EASO, dont la présence en Grèce s’est significativement accrue récemment,[41] est crucial dans ces procédures d’asile : c’est cet organisme européen qui mène le pré-enregistrement de la demande d’asile et qui se prononce sur sa recevabilité ou pas. Jusqu’à maintenant il intervenait uniquement dans les îles dans le cadre de la procédure dite accélérée. Car, depuis la Déclaration de mars 2016, dans les îles est appliquée une procédure d’asile spécifique, dite procédure fast-track à la frontière (fast-track border procedure). Il s’agit d’une procédure « accélérée », qui s’applique dans le cadre de la « restriction géographique » spécifique aux hotspots »,[42] en application de l’accord UE-Turquie de mars 2016. Dans le cadre de cette procédure accélérée, c’est bien l’EASO qui se charge de faire le premier ‘tri’ entre les demandeurs en enregistrant la demande et en effectuant un premier entretien. La procédure ‘fast-track’ aurait dû rester une mesure exceptionnelle de courte durée pour faire face à des arrivées massives. Or, elle est toujours en vigueur quatre ans après son instauration, tandis qu’initialement sa validité n’aurait pas dû dépasser neuf mois – six mois suivis d’une prolongation possible de trois mois. Depuis, de prolongation en prolongation cette mesure d’exception s’est installée dans la permanence.

    La procédure accélérée qui, au détriment du respect des droits des réfugiés, aurait pu aboutir à un raccourcissement significatif de délais d’attente très longs, n’a même pas réussi à obtenir ce résultat : une partie des réfugiés arrivés à Samos en août 2019, avaient reçu une notification de rendez-vous pour l’entretien d’asile (et d’admissibilité) pour 2021 voire 2022[43] ! Mais si les procédures fast-track ne raccourcissent pas les délais d’attente, elles raccourcissent drastiquement et notamment à une seule journée le temps que dispose un requérant pour qu’il se prépare et consulte si besoin un conseiller juridique qui pourrait l’assister durant la procédure[44]. Dans le cas d’un rejet de la demande en première instance, le demandeur débouté ne dispose que de cinq jours après la notification de la décision négative pour déposer un recours en deuxième instance. Bref, le raccourcissement très important de délais introduits par la procédure accélérée n’affectait jusqu’à maintenant que les réfugiés qui sont dans l’impossibilité d’exercer pleinement leurs droits, et non pas le service qui pouvait imposer un temps interminable d’attente entre les différentes étapes de la procédure.

    Cependant l’implication d’EASO dépasse et de loin le pré-enregistrement, car ce sont bien ses fonctionnaires qui, suite à un entretien de l’intéressé, dit « interview d’admission », établissent le dossier qui sera transmis aux autorités grecques pour examen[45]. Or, nous savons par la plainte déposée contre l’EASO par les avocats de l’ONG European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), en 2017, que les agents d’EASO ne consacrait à l’interrogatoire du requérant que 15 minutes en moyenne,[46] et ceci bien avant que ne monte en flèche la pression exercée par le gouvernement actuel pour accélérer encore plus les procédures. La même plainte dénonçait également le fait que la qualité de l’interprétation n’était point assurée, dans la mesure où, au lieu d’employer des interprètes professionnels, cet organisme européen faisait souvent recours à des réfugiés, pour faire des économies. A vrai dire, l’EASO, après avoir réalisé un entretien, rédige « un avis (« remarques conclusives ») et recommande une décision à destination des services grecs de l’asile, qui vont statuer sur la demande, sans avoir jamais rencontré » les requérants[47]. Mais, même si en théorie la décision revient de plein droit au Service d’Asile grec, en pratique « une large majorité des recommandations transmises par EASO aux services grecs de l’asile est adoptée par ces derniers »[48]. Or, depuis 2018 les compétences d’EASO ont été étendues à tout le territoire grec, ce qui veut dire que les officiers grecs de cet organisme européen ont le droit d’intervenir même dans le cadre de la procédure régulière d’asile et non plus seulement dans celui de la procédure accélérée. Désormais, avec le quadruplication des effectifs en Grèce continentale prévue pour 2020, et le dédoublement de ceux opérant dans les îles, l’avis ‘consultatif’ de l’EASO va peser encore plus sur les décisions finales. De sorte qu’on pourrait dire, que le constat que faisait Gisti, bien avant l’extension du domaine d’intervention d’EASO, est encore plus vrai aujourd’hui : l’UE, à travers ses agences, exerce « une forme de contrôle et d’ingérence dans la politique grecque en matière d’asile ». Si avant 2017, l’entretien et la constitution du dossier sur la base duquel le service grec d’asile se prononce étaient faits de façon si bâclée, que va—t-il se passer maintenant avec l’énorme pression des autorités pour des procédures fast-track encore plus expéditives, qui ne respectent nullement les droits des requérants ? Enfin, une fois la nouvelle loi mise en vigueur, les fonctionnaires européens vont-ils rédiger leurs « remarques conclusives » en fonction de celle-ci ou bien en respectant la législation européenne ? Car la première comporte des clauses qui ne respectent point la deuxième.

    La suspension provisoire de la procédure d’asile et ses effets à long terme

    Début mars, afin de dissuader les migrants qui se rassemblaient à la frontière gréco-turque d’Evros, le gouvernement grec a décidé de suspendre provisoirement la procédure d’asile pendant la durée d’un mois[49]. L’acte législatif respectif stipule qu’à partir du 1 mars et jusqu’au 30 du même mois, ceux qui traversent la frontière n’auront plus le droit de déposer une demande d’asile. Sans procédure d’identification et d’enregistrement préalable ils seront automatiquement maintenus en détention jusqu’à leur expulsion ou leur réadmission en Turquie. Après une cohorte de protestations de la part du Haut-Commissariat, des ONG, et même d’Ylva Johansson, commissaire aux affaires internes de l’UE, la procédure d’asile suspendue a été rétablie début avril et ceux qui sont arrivés pendant la durée de sa suspension ont rétroactivement obtenu le droit de demander la protection internationale. « Le décret a cessé de produire des effets juridiques à la fin du mois de mars 2020. Cependant, il a eu des effets très néfastes sur un nombre important de personnes ayant besoin de protection. Selon les statistiques du HCR, 2 927 personnes sont entrées en Grèce par voie terrestre et maritime au cours du mois de mars[50]. Ces personnes automatiquement placées en détention dans des conditions horribles, continuent à séjourner dans des établissements fermés ou semi-fermés. Bien qu’elles aient finalement été autorisées à exprimer leur intention de déposer une demande d’asile auprès du service d’asile, elles sont de fait privées de toute aide judiciaire effective. La plus grande partie de leurs demandes d’asile n’a cependant pas encore été enregistrée. Le préjudice causé par les conditions de détention inhumaines est aggravé par les risques sanitaires graves, voire mortels, découlant de l’apparition de la pandémie COVID-19, qui n’ont malheureusement pas conduit à un réexamen de la politique de détention en Grèce ».[51]

    En effet, les arrivants du mois de mars ont été jusqu’à il y a peu traités comme des criminels enfreignant la loi et menaçant l’intégrité du territoire grec ; ils ont été dans un premier temps mis en quarantaine dans des conditions inconcevables, gardés par la police en zones circonscrites, sans un abri ni la moindre infrastructure sanitaire. Après une période de quarantaine qui la plupart du temps durait plus longtemps que les deux semaines réglementaires, ceux qui sont arrivés pendant la suspension de la procédure, étaient transférés, en vue d’une réadmission en Turquie, à Malakassa en Attique, où un nouveau camp fermé, dit ‘le camp de tentes’, fut créé à proximité de de l’ancien camp avec les containeurs.

    700 d’entre eux ont été transférés au camp fermé de Klidi, à Serres, au nord de la Grèce, construit sur un terrain inondable au milieu de nulle part. Ces deux camps fermés présentent des affinités troublantes avec des camps de concentration. Les conditions de vie inhumaines au sein de ces camps s’aggravaient encore plus par le risque de contamination accru du fait de la très grande promiscuité et des conditions sanitaires effrayantes (coupures d’eau sporadiques à Malakassa, manque de produits d’hygiène, et approvisionnement en eau courante seulement deux heures par jour à Klidi)[52]. Or, après le rétablissement de la procédure d’asile, les 2.927 personnes arrivées en mars, ont obtenu–au moins en théorie- le droit de déposer une demande, mais n’ont toujours ni l’assistance juridique nécessaire, ni interprètes, ni accès effectif au service d’asile. Celui-ci a rouvert depuis le 18 mars, mais fonctionne toujours à effectif réduit, et est submergé par les demandes de renouvellement des cartes. Actuellement les réfugiés placés en détention sont toujours retenus dans les même camps qui sont devenus des camps semi-fermés sans pour autant que les conditions de vie dégradantes et dangereuses pour la santé des résidents aient vraiment changé. Ceci est d’autant plus vrai que le confinement de réfugiés et de demandeurs d’asile a été prolongé jusqu’au 5 juillet, ce qui ne leur permet de circuler que seulement avec une autorisation de la police, tandis que la population grecque est déjà tout à fait libre de ses mouvements. Dans ces conditions, il est pratiquement impossible d’accomplir des démarches nécessaires pour le dépôt d’une demande bien documentée.

    Refugee Support Aegean a raison de souligner que « les répercussions d’une violation aussi flagrante des principes fondamentaux du droit des réfugiés et des droits de l’homme ne disparaissent pas avec la fin de validité du décret, les demandeurs d’asile concernés restant en détention arbitraire dans des conditions qui ne sont aucunement adaptées pour garantir leur vie et leur dignité. Le décret de suspension crée un précédent dangereux pour la crédibilité du droit international et l’intégrité des procédures d’asile en Grèce et au-delà ».

    Cependant, nous ne pouvons pas savoir jusqu’où pourrait aller cette escalade d’horreurs. Aussi inimaginable que cela puisse paraître , il y a pire, même par rapport au camp fermé de Klidi à Serres, que Maria Malagardis, journaliste à Libération, avait à juste titre désigné comme ‘un camp quasi-militaire’. Car les malheureux arrêtés à Evros fin février et début mars, ont été jugés en procédure de flagrant délit, et condamnés pour l’exemple à des peines de prison de quatre ans ferme et des amendes de 10.000 euros -comme quoi, les autorités grecques peuvent revendiquer le record en matière de peine pour entrée irrégulière, car même la Hongrie de Orban, ne condamne les migrants qui ont osé traverser ses frontières qu’à trois ans de prison. Au moins une cinquantaine de personnes ont été condamnées ainsi pour « entrée irrégulière dans le territoire grec dans le cadre d’une menace asymétrique portant sur l’intégrité du pays », et ont été immédiatement incarcérées. Et il est fort à parier qu’aujourd’hui, ces personnes restent toujours en prison, sans que le rétablissement de la procédure ait changé quoi que ce soit à leur sort.

    Eriger l’exception en règle

    Qui plus est la suspension provisoire de la procédure laisse derrière elle des marques non seulement aux personnes ayant vécu sous la menace de déportation imminente, et qui continuent à vivre dans des conditions indignes, mais opère aussi une brèche dans la validité universelle du droit international et de la Convention de Genève, en créant un précédent dangereux. Or, c’est justement ce précédent que M. Mitarakis veut ériger en règle européenne en proposant l’introduction d’une clause de force majeure dans la législation européenne de l’asile[53] : dans le débat pour la création d’un système européen commun pour l’asile, le Ministre grec de la politique migratoire a plaidé pour l’intégration de la notion de force majeure dans l’acquis européen : celle-ci permettrait de contourner la législation sur l’asile dans des cas où la sécurité territoriale ou sanitaire d’un pays serait menacée, sans que la violation des droits de requérants expose le pays responsable à des poursuites. Pour convaincre ses interlocuteurs, il a justement évoqué le cas de la suspension par le gouvernement de la procédure pendant un mois, qu’il compte ériger en paradigme pour la législation communautaire. Cette demande fut réitérée le 5 juin dernier, par une lettre envoyée par le vice-ministre des Migrations et de l’Asile, Giorgos Koumoutsakos, au vice-président Margaritis Schinas et au commissaire aux affaires intérieures, Ylva Johansson. Il s’agit de la dite « Initiative visant à inclure une clause d’état d’urgence dans le Pacte européen pour les migrations et l’asile », une initiative cosignée par Chypre et la Bulgarie. Par cette lettre, les trois pays demandent l’inclusion au Pacte européen d’une clause qui « devrait prévoir la possibilité d’activer les mécanismes d’exception pour prévenir et répondre à des situations d’urgence, ainsi que des déviations [sous-entendu des dérogations au droit européen] dans les modes d’action si nécessaire ».[54] Nous le voyons, la Grèce souhaite, non seulement poursuivre sa politique de « surveillance agressive » des frontières et de violation des droits de migrants, mais veut aussi ériger ces pratiques de tout point de vue illégales en règle d’action européenne. Il nous faudrait donc prendre la mesure de ce que laisse derrière elle la fracture dans l’universalité de droit d’asile opérée par la suspension provisoire de la procédure. Même si celle-ci a été bon an mal an rétablie, les effets de ce geste inédit restent toujours d’actualité. L’état d’exception est en train de devenir permanent.

    Une rhétorique de la haine

    Le discours officiel a changé de fond en comble depuis l’arrivée au pouvoir du gouvernement Mitsotakis. Des termes, comme « clandestins » ont fait un retour en force, accompagnés d’une véritable stratégie de stigmatisation visant à persuader la population que les arrivants ne sont point des réfugiés mais des immigrés économiques censés profiter du laxisme du gouvernement précédent pour envahir le pays et l’islamiser. Cette rhétorique haineuse qui promeut l’image des hordes d’étrangers envahisseurs menaçant la nation et ses traditions, ne cesse d’enfler malgré le fait qu’elle soit démentie d’une façon flagrante par les faits : les arrivants, dans leur grande majorité, ne veulent pas rester en Grèce mais juste passer par celle-ci pour aller ailleurs en Europe, là où ils ont des attaches familiales, communautaires etc. Ce discours xénophobe aux relents racistes dont le paroxysme a été atteint avec la mise en avant de l’épouvantail du ‘clandestin’ porteur du virus venant contaminer et décimer la nation, a été employé d’une façon délibérée afin de justifier la politique dite de la « surveillance agressive » des frontières grecques. Il sert également à légitimer la transformation programmée des actuels CIR (RIC en anglais) en centres fermés ‘contrôlés’, où les demandeurs n’auront qu’un droit de sortie restreint et contrôlé par la police. Le ministre Mitarakis a déjà annoncé la transformation du nouveau camp de Malakasa, où étaient détenus ceux qui sont arrivés pendant la durée de la suspension d’asile, un camp qui était censé s’ouvrir après la fin de validité du décret, en camp fermé ‘contrôlé’ où toute entrée et sortie seraient gérées par la police[55].

    Révélateur des intentions du gouvernement grec, est le projet du Ministre de la politique migratoire d’étendre les compétences du Service d’Asile bien au-delà de la protection internationale, et notamment aux …expulsions ! D’après le quotidien grec Ephimérida tôn Syntaktôn, le ministre serait en train de prospecter pour la création de trois nouvelles sections au sein du Service d’Asile : Coordination de retours forcés depuis le continent et retours volontaires, Coordination des retours depuis les îles, Appels et exclusions. Bref, le Service d’Asile grec qui a déjà perdu son autonomie, depuis qu’il a été attaché au Secrétariat général de la politique de l’Immigration du Ministère, risque de devenir – et cela serait une première mondiale- un service d’asile et d’expulsions. Voilà comment se met en œuvre la consolidation du rôle de la Grèce en tant que « bouclier de l’Europe », comme l’avait désigné début mars Ursula von der Leyden. Voilà ce qu’est en train d’ériger l’Europe qui soutient et finance la Grèce face à des personnes persécutées fuyant de guerres et de conflits armés : un mur fait de barbelés, de patrouilles armés jusqu’aux dents et d’une flotte de navires militaires. Quant à ceux qui arrivent à passer malgré tout, ils seront condamnés à rester dans les camps de la honte.

    Que faire ?

    Certaines analyses convoquent la position géopolitique de la Grèce et le rapport de forces dans l’UE, afin de présenter cette situation intolérable comme une fatalité dont on ne saurait vraiment échapper. Mais face à l’ignominie, dire qu’il n’y aurait rien ou presque à faire, serait une excuse inacceptable. Car, même dans le cadre actuel, des solutions il y en a et elles sont à portée de main. La déclaration commune UE-Turquie mise en application le 20 mars 2016, n’est plus respectée par les différentes parties. Déjà avant février 2020, l’accord ne fut jamais appliqué à la lettre, autant par les Européens qui n’ont pas fait les relocalisations promises ni respecté leurs engagements concernant la procédure d’intégration de la Turquie en UE, que par la Turquie qui, au lieu d’employer les 6 milliards qu’elle a reçus pour améliorer les conditions de vie des réfugiés sur son sol, s’est servi de cet argent pour construire un mur de 750 km dans sa frontière avec la Syrie, afin d’empêcher les réfugiés de passer. Cependant ce sont les récents développements de mars 2020 et notamment l’afflux organisé par les autorités turques de réfugiés à la frontière d’Evros qui ont sonné le glas de l’accord du 18 mars 2016. Dans la mesure où cet accord est devenu caduc, avec l’ouverture de frontières de la Turquie le 28 février dernier, il n’y plus aucune obligation officielle du gouvernement grec de continuer à imposer le confinement géographique dans les îles des demandeurs d’asile. Leur transfert sécurisé vers la péninsule pourrait s’effectuer à court terme vers des structures hôtelières de taille moyenne dont plusieurs vont rester fermées cet été. L’appel international Évacuez immédiatement les centres d’accueil – louez des logements touristiques vides et des maisons pour les réfugiés et les migrants ! qui a déjà récolté 11.500 signatures, détaille un tel projet. Ajoutons, que sa réalisation pourrait profiter aussi à la société locale, car elle créerait des postes de travail en boostant ainsi l’économie de régions qui souvent ne dépendent que du tourisme pour vivre.

    A court et à moyen terme, il faudrait qu’enfin les pays européens honorent leurs engagements concernant les relocalisations et se mettent à faciliter au lieu d’entraver le regroupement familial. Quelques timides transferts de mineurs ont été déjà faits vers l’Allemagne et le Luxembourg, mais le nombre d’enfants concernés est si petit que nous pouvons nous pouvons nous demander s’il ne s’agirait pas plutôt d’une tentative de se racheter une conscience à peu de frais. Car, sans un plan large et équitable de relocalisations, le transfert massif de requérants en Grèce continentale, risque de déplacer le problème des îles vers la péninsule, sans améliorer significativement les conditions de vie de réfugiés.

    Si les requérants qui ont déjà derrière eux l’expérience traumatisante de Moria et de Vathy, sont transférés à un endroit aussi désolé et isolé de tout que le camp de Nea Kavala (au nord de la Grèce) qui a été décrit comme un Enfer au Nord de la Grèce, nous ne faisons que déplacer géographiquement le problème. Toute la question est de savoir dans quelles conditions les requérants seront invités à vivre et dans quelles conditions les réfugiés seront transférés.

    Les solutions déjà mentionnées sont réalisables dans l’immédiat ; leur réalisation ne se heurte qu’au fait qu’elles impliquent une politique courageuse à contre-pied de la militarisation actuelle des frontières. C’est bien la volonté politique qui manque cruellement dans la mise en œuvre d’un plan d’urgence pour l’évacuation des hot-spots dans les îles. L’Europe-Forteresse ne saurait se montrer accueillante. Tant du côté grec que du côté européen la nécessité de créer des conditions dignes pour l’accueil de réfugiés n’entre nullement en ligne de compte.

    Car, même le financement d’un tel projet est déjà disponible. Début mars l’UE s’est engagé de donner à la Grèce 700 millions pour qu’elle gère la crise de réfugiés, dont 350 millions sont immédiatement disponibles. Or, comme l’a révélé Ylva Johansson pendant son intervention au comité LIBE du 2 avril dernier, les 350 millions déjà libérés doivent principalement servir pour assurer la continuation et l’élargissement du programme d’hébergement dans le continent et le fonctionnement des structures d’accueil continentales, tandis que 35 millions sont destinés à assurer le transfert des plus vulnérables dans des logements provisoires en chambres d’hôtel. Néanmoins la plus grande somme (220 millions) des 350 millions restant est destinée à financer de nouveaux centres de réception et d’identification dans les îles (les dits ‘multi-purpose centers’) qui vont fonctionner comme des centres semi-fermés où toute sortie sera règlementée par la police. Les 130 millions restant seront consacrés à financer le renforcement des contrôles – et des refoulements – à la frontière terrestres et maritime, avec augmentation des effectifs et équipement de la garde côtière, de Frontex, et des forces qui assurent l’étanchéité des frontières terrestres. Il aurait suffi de réorienter la somme destinée à financer la construction des centres semi-fermés dans les îles, et de la consacrer au transfert sécurisé au continent pour que l’installation des requérants et des réfugiés en hôtels et appartements devienne possible.

    Mais que faire pour stopper la multiplication exponentielle des refoulements à la frontière ? Si Frontex, comme Fabrice Leggeri le prétend, n’a aucune implication dans les opérations de refoulement, si ses agents n’y participent pas de près ou de loin, alors ces officiers doivent immédiatement exercer leur droit de retrait chaque fois qu’ils sont témoins d’un tel incident ; ils pouvaient même recevoir la directive de ne refuser d’appliquer tout ordre de refoulement, comme l’avait fait début mars le capitaine danois Jan Niegsch. Dans la mesure où non seulement les témoignages mais aussi des documents vidéo et des audio attestent l’existence de ces pratiques en tous points illégales, les instances européennes doivent mettre une condition sine qua non à la poursuite du financement de la Grèce pour l’accueil de migrants : la cessation immédiate de ces types de pratiques et l’ouverture sans délai d’une enquête indépendante sur les faits dénoncés. Si l’Europe ne le fait pas -il est fort à parier qu’elle n’en fera rien-, elle se rend entièrement responsable de ce qui se passe à nos frontières.

    Car,on le voit, l’UE persiste dans la politique de la restriction géographique qui oblige réfugiés et migrants à rester sur les îles pour y attendre la réponse définitive à leur demande, tandis qu’elle cautionne et finance la pratique illégale des refoulements violents à la frontière. Les intentions d’Ylva Johansson ont beau être sincères : une politique qui érige la Grèce en ‘bouclier de l’Europe’, ne saurait accueillir, mais au contraire repousser les arrivants, même au risque de leur vie.

    Quant au gouvernement grec, force est de constater que sa politique migratoire du va dans le sens opposé d’un large projet d’hébergement dans des structures touristiques hors emploi actuellement. Révélatrice des intentions du gouvernement actuel est la décision du ministre Mitarakis de fermer 55 à 60 structures hôtelières d’accueil parmi les 92 existantes d’ici fin 2020. Il s’agit de structures fonctionnant dans le continent qui offrent un niveau de vie largement supérieur à celui des camps. Or, le ministre invoque un argument économique qui ne tient pas la route un seul instant, pour justifier cette décision : pour lui, les structures hôtelières seraient trop coûteuses. Mais ce type de structure n’est pas financé par l’Etat grec mais par l’IOM, ou par l’UE, ou encore par d’autres organismes internationaux. La fermeture imminente des hôtels comme centres d’accueil a une visée autre qu’économique : il faudrait retrancher complètement les requérants et les réfugiés de la société grecque, en les obligeant à vivre dans des camps semi-fermés où les sorties seront limitées et contrôlées. Cette politique d’enfermement vise à faire sentir tant aux réfugiés qu’à la population locale que ceux-ci sont et doivent rester un corps étranger à la société grecque ; à cette fin il vaut mieux les exclure et les garder hors de vue.

    Qui plus est la fermeture de deux tiers de structures hôtelières actuelles ne pourra qu’aggraver encore plus le manque de places en Grèce continentale, rendant ainsi quasiment impossible la décongestion des îles. Sauf si on raisonne comme le Ministre : le seul moyen pour créer des places est de chasser les uns – en l’occurrence des familles de réfugiés reconnus- pour loger provisoirement les autres. La preuve, les mesures récentes de restrictions drastiques des droits aux allocations et à l’hébergement des réfugiés, reconnus comme tels, par le service de l’asile. Ceux-ci n’ont le droit de séjourner aux appartements loués par l’UNHCR dans le cadre du programme ESTIA, et aux structures d’accueil que pendant un mois (et non pas comme auparavant six) après l’obtention de leur titre, et ils ne recevront plus que pendant cette période très courte les aides alloués aux réfugiés qui leur permettraient de survivre pendant leur période d’adaptation, d’apprentissage de la langue, de formation etc. Depuis la fin du mois de mai, les autorités ont entrepris de mettre dans la rue 11.237 personnes, dont la grande majorité de réfugiés reconnus, afin de libérer des places pour la supposée imminente décongestion des îles. Au moins 10.000 autres connaîtront le même sort en juillet, car en ce moment le délai de grâce d’un mois aura expiré pour eux aussi. Ce qui veut dire que le gouvernement grec non seulement impose des conditions de vie inhumaines et de confinements prolongés aux résidants de hot-spots et aux détenus en PROKEKA (les CRA grecs), mais a entrepris à réduire les familles de réfugiés ayant obtenu la protection internationale en sans-abri, errant sans toit ni ressources dans les villes.

    La dissuasion par l’horreur

    De tout ce qui précède, nous pouvons aisément déduire que la stratégie du gouvernement grec, une stratégie soutenue par les instances européennes et mise en application en partie par des moyens que celles-ci mettent à la disposition de celui-là, consiste à rendre la vie invivable aux réfugiés et aux demandeurs d’asile vivant dans le pays. Qui plus est, dans le cadre de cette politique, la dérogation systématique aux règles du droit et notamment au principe de non-refoulement, instauré par la Convention de Genève est érigée en principe régulateur de la sécurisation des frontières. Le maintien de camps comme Moria à Lesbos et Vathy à Samos témoignent de la volonté de créer des lieux terrifiants d’une telle notoriété sinistre que l’évocation même de leurs noms puisse avoir un effet de dissuasion sur les candidats à l’exil. On ne saurait expliquer autrement la persistance de la restriction géographique de séjour dans les îles de dizaines de milliers de requérants dans des conditions abjectes.

    Nous savons que l’Europe déploie depuis plusieurs années en Méditerranée centrale la politique de dissuasion par la noyade, une stratégie qui a atteint son summum avec la criminalisation des ONG qui essaient de sauver les passagers en péril ; l’autre face de cette stratégie de la terreur se déploie à ma frontière sud-est, où l’Europe met en œuvre une autre forme de dissuasion, celle effectuée par l’horreur des hot-spots. Aux crimes contre l’humanité qui se perpétuent en toute impunité en Méditerranée centrale, entre la Libye et l’Europe, s’ajoutent d’autres crimes commis à la frontière grecque[56]. Car il s’agit bien de crimes : poursuivre des personnes fuyant les guerres et les conflits armés par des opérations de refoulement particulièrement violentes qui mettent en danger leurs vies est un crime. Obliger des personnes dont la plus grande majorité est vulnérable à vivoter dans des conditions si indignes et dégradantes en les privant de leurs droits, est un acte criminel. Ceux qui subissent de tels traitement n’en sortent pas indemnes : leur santé physique et mentale en est marquée. Il est impossible de méconnaître qu’un séjour – et qui plus est un séjour prolongé- dans de telles conditions est une expérience traumatisante en soi, même pour des personnes bien portantes, et à plus forte raison pour celles et ceux qui ont déjà subi des traumatismes divers : violences, persécutions, tortures, viols, naufrages, pour ne pas mentionner les traumas causés par des guerres et de conflits armés.

    Gisti, dans son rapport récent sur le hotspot de Samos, soulignait que loin « d’être des centres d’accueil et de prise en charge des personnes en fonction de leurs besoins, les hotspots grecs, à l’image de celui de Samos, sont en réalité des camps de détention, soustraits au regard de la société civile, qui pourraient n’avoir pour finalité que de dissuader et faire peur ». Dans son rapport de l’année dernière, le Conseil Danois pour les réfugiés (Danish Refugee Council) ne disait pas autre chose : « le système des hot spots est une forme de dissuasion »[57]. Que celle-ci se traduise par des conditions de vie inhumaines où des personnes vulnérables sont réduites à vivre comme des bêtes[58], peu importe, pourvu que cette horreur fonctionne comme un repoussoir. Néanmoins, aussi effrayant que puisse être l’épouvantail des hot-spots, il n’est pas sûr qu’il puisse vraiment remplir sa fonction de stopper les ‘flux’. Car les personnes qui prennent le risque d’une traversée si périlleuse ne le font pas de gaité de cœur, mais parce qu’ils n’ont pas d’autre issue, s’ils veulent préserver leur vie menacée par la guerre, les attentats et la faim tout en construisant un projet d’avenir.

    Quoi qu’il en soit, nous aurions tort de croire que tout cela n’est qu’une affaire grecque qui ne nous atteint pas toutes et tous, en tout cas pas dans l’immédiat. Car, la stratégie de « surveillance agressive » des frontières, de dissuasion par l’imposition de conditions de vie inhumaines et de dérogation au droit d’asile pour des raisons de « force majeure », est non seulement financée par l’UE, mais aussi proposée comme un nouveau modèle de politique migratoire pour le cadre européen commun de l’asile en cours d’élaboration. La preuve, la récente « Initiative visant à inclure une clause d’état d’urgence dans le Pacte européen pour les migrations et l’asile » lancée par la Grèce, la Bulgarie et Chypre.

    Il devient clair, je crois, que la stratégie du gouvernement grec s’inscrit dans le cadre d’une véritable guerre aux migrants que l’UE non seulement cautionne mais soutient activement, en octroyant les moyens financiers et les effectifs nécessaires à sa réalisation. Car, les appels répétés, par ailleurs tout à fait justifiés et nécessaires, de la commissaire Ylva Johansson[59] et de la commissaire au Conseil de l’Europe Dunja Mijatović[60] de respecter les droits des demandeurs d’asile et de migrants, ne servent finalement que comme moyen de se racheter une conscience, devant le fait que cette guerre menée contre les migrants à nos frontières est rendue possible par la présence entre autres des unités RABIT à Evros et des patrouilleurs et des avions de Frontex et de l’OTAN en mer Egée. La question à laquelle tout citoyen européen serait appelé en son âme et conscience à répondre, est la suivante : sommes-nous disposés à tolérer une telle politique qui instaure un état d’exception permanent pour les réfugiés ? Car, comment désigner autrement cette ‘situation de non-droit absolu’[61] dans laquelle la Grèce sous la pression et avec l’aide active de l’Europe maintient les demandeurs d’asile ? Sommes-nous disposés à la financer par nos impôts ?

    Car le choix de traiter une partie de la population comme des miasmes à repousser coûte que coûte ou à exclure et enfermer, « ne saurait laisser intacte notre société tout entière. Ce n’est pas une question d’humanisme, c’est une question qui touche aux fondements de notre vivre-ensemble : dans quel type de société voulons-nous vivre ? Dans une société qui non seulement laisse mourir mais qui fait mourir ceux et celles qui sont les plus vulnérables ? Serions-nous à l’abri dans un monde transformé en une énorme colonie pénitentiaire, même si le rôle qui nous y est réservé serait celui, relativement privilégié, de geôliers ? [62] » La commissaire aux droits de l’homme au Conseil de l’Europe, avait à juste titre souligné que les « refoulements et la violence aux frontières enfreignent les droits des réfugiés et des migrants comme ceux des citoyens des États européens. Lorsque la police ou d’autres forces de l’ordre peuvent agir impunément de façon illégale et violente, leur devoir de rendre des comptes est érodé et la protection des citoyens est compromise. L’impunité d’actes illégaux commis par la police est une négation du principe d’égalité en droit et en dignité de tous les citoyens... »[63]. A n’importe quel moment, nous pourrions nous aussi nous trouver du mauvais côté de la barrière.

    Il serait plus que temps de nous lever pour dire haut et fort :

    Pas en notre nom ! Not in our name !

    https://migration-control.info/?post_type=post&p=63932
    #guerre_aux_migrants #asile #migrations #réfugiés #Grèce #îles #Evros #frontières #hotspot #Lesbos #accord_UE-Turquie #Vathy #Samos #covid-19 #coronavirus #confinement #ESTIA #PROKEKA #rétention #détention_administrative #procédure_accélérée #asile #procédure_d'asile #EASO #Frontex #surveillance_des_frontières #violence #push-backs #refoulement #refoulements #décès #mourir_aux_frontières #morts #life_rafts #canots_de_survie #life-raft #Mer_Egée #Méditerranée #opération_Poséidon #Uckermark #Klidi #Serres

    ping @isskein

    • The new normality: Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river

      The Greek Council for Refugees, ARSIS-Association for the Social Support of Youth and HumanRights360 publish this report containing 39 testimonies of people who attempted to enter Greece from the Evros border with Turkey, in order to draw the attention of the responsible authorities and public bodies to the frequent practice of push-backs that take place in violation of national, EU law and international law.

      The frequency and repeated nature of the testimonies that come to our attention by people in detention centres, under protective custody, and in reception and identification centres, constitutes evidence of the practice of pushbacks being used extensively and not decreasing, regardless of the silence and denial by the responsible public bodies and authorities, and despite reports and complaints denouncements that have come to light in the recent past.
      The testimonies that follow substantiate a continuous and uninterrupted use of the illegal practice of push-backs. They also reveal an even more alarming array of practices and patterns calling for further investigation; it is particularly alarming that the persons involved in implementing the practice of push-backs speak Greek, as well as other languages, while reportedly wearing either police or military clothing. In short, we observe that the practice of push-backs constitutes a particularly wide-spread practice, often employing violence in the process, leaving the State exposed and posing a threat for the rule of law in the country.
      Τhe organizations signing this report urge the competent authorities to investigate the incidents described, and to refrain from engaging in any similar action that violates Greek, EU law, and International law.

      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e

      Pour télécharger le #rapport:


      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/download/492_22e904e22458d13aa76e3dce82d4dd23

  • Asylum Outsourced : McKinsey’s Secret Role in Europe’s Refugee Crisis

    In 2016 and 2017, US management consultancy giant #McKinsey was at the heart of efforts in Europe to accelerate the processing of asylum applications on over-crowded Greek islands and salvage a controversial deal with Turkey, raising concerns over the outsourcing of public policy on refugees.

    The language was more corporate boardroom than humanitarian crisis – promises of ‘targeted strategies’, ‘maximising productivity’ and a ‘streamlined end-to-end asylum process.’

    But in 2016 this was precisely what the men and women of McKinsey&Company, the elite US management consultancy, were offering the European Union bureaucrats struggling to set in motion a pact with Turkey to stem the flow of asylum seekers to the continent’s shores.

    In March of that year, the EU had agreed to pay Turkey six billion euros if it would take back asylum seekers who had reached Greece – many of them fleeing fighting in Syria, Iraq and Afghanistan – and prevent others from trying to cross its borders.

    The pact – which human rights groups said put at risk the very right to seek refuge – was deeply controversial, but so too is the previously unknown extent of McKinsey’s influence over its implementation, and the lengths some EU bodies went to conceal that role.

    According to the findings of this investigation, months of ‘pro bono’ fieldwork by McKinsey fed, sometimes verbatim, into the highest levels of EU policy-making regarding how to make the pact work on the ground, and earned the consultancy a contract – awarded directly, without competition – worth almost one million euros to help enact that very same policy.

    The bloc’s own internal procurement watchdog later deemed the contract “irregular”.

    Questions have already been asked about McKinsey’s input in 2015 into German efforts to speed up its own turnover of asylum applications, with concerns expressed about rights being denied to those applying.

    This investigation, based on documents sought since November 2017, sheds new light on the extent to which private management consultants shaped Europe’s handling of the crisis on the ground, and how bureaucrats tried to keep that role under wraps.

    “If some companies develop programs which then turn into political decisions, this is a political issue of concern that should be examined carefully,” said German MEP Daniel Freund, a member of the European Parliament’s budget committee and a former Head of Advocacy for EU Integrity at Transparency International.

    “Especially if the same companies have afterwards been awarded with follow-up contracts not following due procedures.”

    Deal too important to fail

    The March 2016 deal was the culmination of an epic geopolitical thriller played out in Brussels, Ankara and a host of European capitals after more than 850,000 people – mainly Syrians, Iraqis and Afghans – took to the Aegean by boat and dinghy from Turkey to Greece the previous year.

    Turkey, which hosts some 3.5 million refugees from the nine-year-old war in neighbouring Syria, committed to take back all irregular asylum seekers who travelled across its territory in return for billions of euros in aid, EU visa liberalisation for Turkish citizens and revived negotiations on Turkish accession to the bloc. It also provided for the resettlement in Europe of one Syrian refugee from Turkey for each Syrian returned to Turkey from Greece.

    The EU hailed it as a blueprint, but rights groups said it set a dangerous precedent, resting on the premise that Turkey is a ‘safe third country’ to which asylum seekers can be returned, despite a host of rights that it denies foreigners seeking protection.

    The deal helped cut crossings over the Aegean, but it soon became clear that other parts were not delivering; the centrepiece was an accelerated border procedure for handling asylum applications within 15 days, including appeal. This wasn’t working, while new movement restrictions meant asylum seekers were stuck on Greek islands.

    But for the EU, the deal was too important to be derailed.

    “The directions from the European Commission, and those behind it, was that Greece had to implement the EU-Turkey deal full-stop, no matter the legal arguments or procedural issue you might raise,” said Marianna Tzeferakou, a lawyer who was part of a legal challenge to the notion that Turkey is a safe place to seek refuge.

    “Someone gave an order that this deal will start being implemented. Ambiguity and regulatory arbitrage led to a collapse of procedural guarantees. It was a political decision and could not be allowed to fail.”

    Enter McKinsey.

    Action plans emerge simultaneously

    Fresh from advising Germany on how to speed up the processing of asylum applications, the firm’s consultants were already on the ground doing research in Greece in the summer of 2016, according to two sources working with the Greek asylum service, GAS, at the time but who did not wish to be named.

    Documents seen by BIRN show that the consultancy was already in “initial discussions” with an EU body called the ‘Structural Reform Support Service’, SRSS, which aids member states in designing and implementing structural reforms and was at the time headed by Dutchman Maarten Verwey. Verwey was simultaneously EU coordinator for the EU-Turkey deal and is now the EU’s director general of economic and financial affairs, though he also remains acting head of SRSS.

    Asked for details of these ‘discussions’, Verwey responded that the European Commission – the EU’s executive arm – “does not hold any other documents” concerning the matter.

    Nevertheless, by September 2016, McKinsey had a pro bono proposal on the table for how it could help out, entitled ‘Supporting the European Commission through integrated refugee management.’ Verwey signed off on it in October.

    Minutes of management board meetings of the European Asylum Support Office, EASO – the EU’s asylum agency – show McKinsey was tasked by the Commission to “analyse the situation on the Greek islands and come up with an action plan that would result in an elimination of the backlog” of asylum cases by April 2017.

    A spokesperson for the Commission told BIRN: “McKinsey volunteered to work free of charge to improve the functioning of the Greek asylum and reception system.”

    Over the next 12 weeks, according to other redacted documents, McKinsey worked with all the major actors involved – the SRSS, EASO, the EU border agency Frontex as well as Greek authorities.

    At bi-weekly stakeholder meetings, McKinsey identified “bottlenecks” in the asylum process and began to outline a series of measures to reduce the backlog, some of which were already being tested in a “mini-pilot” on the Greek island of Chios.

    At a first meeting in mid-October, McKinsey consultants told those present that “processing rates” of asylum cases by the EASO and the Greek asylum service, as well as appeals bodies, would need to significantly increase.

    By December, McKinsey’s “action plan” was ready, involving “targeted strategies and recommendations” for each actor involved.

    The same month, on December 8, Verwey released the EU’s own Joint Action Plan for implementing the EU-Turkey deal, which was endorsed by the EU’s heads of government on December 15.

    There was no mention of any McKinsey involvement and when asked about the company’s role the Commission told BIRN the plan was “a document elaborated together between the Commission and the Greek authorities.”

    However, buried in the EASO’s 2017 Annual Report is a reference to European Council endorsement of “the consultancy action plan” to clear the asylum backlog.

    Indeed, the similarities between McKinsey’s plan and the EU’s Joint Action Plan are uncanny, particularly in terms of increasing detention capacity on the islands, “segmentation” of cases, ramping up numbers of EASO and GAS caseworkers and interpreters and Frontex escort officers, limiting the number of appeal steps in the asylum process and changing the way appeals are processed and opinions drafted.

    In several instances, they are almost identical: where McKinsey recommends introducing “overarching segmentation by case types to increase speed and quality”, for example, the EU’s Joint Action Plan calls for “segmentation by case categories to increase speed and quality”.

    Much of what McKinsey did for the SRSS remains redacted.

    In June 2019, the Commission justified the non-disclosure on the basis that the information would pose a “risk” to “public security” as it could allegedly “be exploited by third parties (for example smuggling networks)”.

    Full disclosure, it argued, would risk “seriously undermining the commercial interests” of McKinsey.

    “While I understand that there could indeed be a private and public interest in the subject matter covered by the documents requested, I consider that such a public interest in transparency would not, in this case, outweigh the need to protect the commercial interests of the company concerned,” Martin Selmayr, then secretary-general of the European Commission, wrote.

    SRSS rejected the suggestion that the fact that Verwey refused to fully disclose the McKinsey proposal he had signed off on in October 2016 represented a possible conflict of interest, according to internal documents obtained during this investigation.

    Once Europe’s leaders had endorsed the Joint Action Plan, EASO was asked to “conclude a direct contract with McKinsey” to assist in its implementation, according to EASO management board minutes.

    ‘Political pressure’

    The contract, worth 992,000 euros, came with an attached ‘exception note’ signed on January 20, 2017, by EASO’s Executive Director at the time, Jose Carreira, and Joanna Darmanin, the agency’s then head of operations. The note stated that “due to the time constraints and the political pressure it was deemed necessary to proceed with the contract to be signed without following the necessary procurement procedure”.

    The following year, an audit of EASO yearly accounts by the European Court of Auditors, ECA, which audits EU finances, found that “a single pre-selected economic operator” had been awarded work without the application of “any of the procurement procedures” laid down under EU regulations, designed to encourage transparency and competition.

    “Therefore, the public procurement procedure and all related payments (992,000 euros) were irregular,” it said.

    The auditor’s report does not name McKinsey. But it does specify that the “irregular” contract concerned the EASO’s hiring of a consultancy for implementation of the action plan in Greece; the amount cited by the auditor exactly matches the one in the McKinsey contract, while a spokesman for the EASO indirectly confirmed the contracts concerned were one and the same.

    When asked about the McKinsey contract, the spokesman, Anis Cassar, said: “EASO does not comment on specifics relating to individual contracts, particularly where the ECA is concerned. However, as you note, ECA found that the particular procurement procedure was irregular (not illegal).”

    “The procurement was carried under [sic] exceptional procurement rules in the context of the pressing requests by the relevant EU Institutions and Member States,” said EASO spokesman Anis Cassar.

    McKinsey’s deputy head of Global Media Relations, Graham Ackerman, said the company was unable to provide any further details.

    “In line with our firm’s values and confidentiality policy, we do not publicly discuss our clients or details of our client service,” Ackerman told BIRN.

    ‘Evaluation, feedback, goal-setting’

    It was not the first time questions had been asked of the EASO’s procurement record.

    In October 2017, the EU’s fraud watchdog, OLAF, launched a probe into the agency (https://www.politico.eu/article/jose-carreira-olaf-anti-fraud-office-investigates-eu-asylum-agency-director), chiefly concerning irregularities identified in 2016. It contributed to the resignation in June 2018 of Carreira (https://www.politico.eu/article/jose-carreira-easo-under-investigation-director-of-eu-asylum-agency-steps-d), who co-signed the ‘exception note’ on the McKinsey contract. The investigation eventually uncovered wrongdoings ranging from breaches of procurement rules to staff harassment (https://www.politico.eu/article/watchdog-finds-misconduct-at-european-asylum-support-office-harassment), Politico reported in November 2018.

    According to the EASO, the McKinsey contract was not part of OLAF’s investigation. OLAF said it could not comment.

    McKinsey’s work went ahead, running from January until April 2017, the point by which the EU wanted the backlog of asylum cases “eliminated” and the burden on overcrowded Greek islands lifted.

    Overseeing the project was a steering committee comprised of Verwey, Carreira, McKinsey staff and senior Greek and European Commission officials.

    The details of McKinsey’s operation are contained in a report it submitted in May 2017.

    The EASO initially refused to release the report, citing its “sensitive and restrictive nature”. Its disclosure, the agency said, would “undermine the protection of public security and international relations, as well as the commercial interests and intellectual property of McKinsey & Company.”

    The response was signed by Carreira.

    Only after a reporter on this story complained to the EU Ombudsman, did the EASO agree to disclose several sections of the report.

    Running to over 1,500 pages, the disclosed material provides a unique insight into the role of a major private consultancy in what has traditionally been the realm of public policy – the right to asylum.

    In the jargon of management consultancy, the driving logic of McKinsey’s intervention was “maximising productivity” – getting as many asylum cases processed as quickly as possible, whether they result in transfers to the Greek mainland, in the case of approved applications, or the deportation of “returnable migrants” to Turkey.

    “Performance management systems” were introduced to encourage speed, while mechanisms were created to “monitor” the weekly “output” of committees hearing the appeals of rejected asylum seekers.

    Time spent training caseworkers and interviewers before they were deployed was to be reduced, IT support for the Greek bureaucracy was stepped up and police were instructed to “detain migrants immediately after they are notified of returnable status,” i.e. as soon as their asylum applications were rejected.

    Four employees of the Greek asylum agency at the time told BIRN that McKinsey had access to agency staff, but said the consultancy’s approach jarred with the reality of the situation on the ground.

    Taking part in a “leadership training” course held by McKinsey, one former employee, who spoke on condition of anonymity, told BIRN: “It felt so incompatible with the mentality of a public service operating in a camp for asylum seekers.”

    The official said much of what McKinsey was proposing had already been considered and either implemented or rejected by GAS.

    “The main ideas of how to organise our work had already been initiated by the HQ of GAS,” the official said. “The only thing McKinsey added were corporate methods of evaluation, feedback, setting goals, and initiatives that didn’t add anything meaningful.”

    Indeed, the backlog was proving hard to budge.

    Throughout successive “progress updates”, McKinsey repeatedly warned the steering committee that productivity “levels are insufficient to reach target”. By its own admission, deportations never surpassed 50 a week during the period of its contract. The target was 340.

    In its final May 2017 report, McKinsey touted its success in “reducing total process duration” of the asylum procedure to a mere 11 days, down from an average of 170 days in February 2017.

    Yet thousands of asylum seekers remained trapped in overcrowded island camps for months on end.

    While McKinsey claimed that the population of asylum seekers on the island was cut to 6,000 by April 2017, pending “data verification” by Greek authorities, Greek government figures put the number at 12,822, just around 1,500 fewer than in January when McKinsey got its contract.

    The winter was harsh; organisations working with asylum seekers documented a series of accidents in which a number of people were harmed or killed, with insufficient or no investigation undertaken by Greek authorities (https://www.proasyl.de/en/news/greek-hotspots-deaths-not-to-be-forgotten).

    McKinsey’s final report tallied 40 field visits and more than 200 meetings and workshops on the islands. It also, interestingly, counted 21 weekly steering committee meetings “since October 2016” – connecting McKinsey’s 2016 pro bono work and the 2017 period it worked under contract with the EASO. Indeed, in its “project summary”, McKinsey states it was “invited” to work on both the “development” and “implementation” of the action plan in Greece.

    The Commission, however, in its response to this investigation, insisted it did not “pre-select” McKinsey for the 2017 work or ask EASO to sign a contract with the firm.

    Smarting from military losses in Syria and political setbacks at home, Turkish President Recep Tayyip Erdogan tore up the deal with the EU in late February this year, accusing Brussels of failing to fulfil its side of the bargain. But even before the deal’s collapse, 7,000 refugees and migrants reached Greek shores in the first two months of 2020, according to the United Nations refugee agency.

    German link

    This was not the first time that the famed consultancy firm had left its mark on Europe’s handling of the crisis.

    In what became a political scandal (https://www.focus.de/politik/deutschland/bamf-skandal-im-news-ticker-jetzt-muessen-sich-seehofer-und-cordt-den-fragen-d), the German Federal Office for Migration and Refugees, according to reports, paid McKinsey more than €45 million (https://www.augsburger-allgemeine.de/politik/Millionenzahlungen-Was-hat-McKinsey-beim-Bamf-gemacht-id512950) to help clear a backlog of more than 270,000 asylum applications and to shorten the asylum process.

    German media reports said the sum included 3.9 million euros for “Integrated Refugee Management”, the same phrase McKinsey pitched to the EU in September 2016.

    The parallels don’t end there.

    Much like the contract McKinsey clinched with the EASO in January 2017, German media reports have revealed that more than half of the sum paid to the consultancy for its work in Germany was awarded outside of normal public procurement procedures on the grounds of “urgency”. Der Spiegel (https://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/fluechtlinge-in-deutschland-mckinsey-erhielt-mehr-als-20-millionen-euro-a-11) reported that the firm also did hundreds of hours of pro bono work prior to clinching the contract. McKinsey denied that it worked for free in order to win future federal contracts.

    Again, the details were classified as confidential.

    Arne Semsrott, director of the German transparency NGO FragdenStaat, which investigated McKinsey’s work in Germany, said the lack of transparency in such cases was costing European taxpayers money and control.

    Asked about German and EU efforts to keep the details of such outsourcing secret, Semsrott told BIRN: “The lack of transparency means the public spending more money on McKinsey and other consulting firms. And this lack of transparency also means that we have a lack of public control over what is actually happening.”

    Sources familiar with the decision-making in Athens identified Solveigh Hieronimus, a McKinsey partner based in Munich, as the coordinator of the company’s team on the EASO contract in Greece. Hieronimus was central in pitching the company’s services to the German government, according to German media reports (https://www.spiegel.de/spiegel/print/d-147594782.html).

    Hieronimus did not respond to BIRN questions submitted by email.

    Freund, the German MEP formerly of Transparency International, said McKinsey’s role in Greece was a cause for concern.

    “It is not ideal if positions adopted by the [European] Council are in any way affected by outside businesses,” he told BIRN. “These decisions should be made by politicians based on legal analysis and competent independent advice.”

    A reporter on this story again complained to the EU Ombudsman in July 2019 regarding the Commission’s refusal to disclose further details of its dealings with McKinsey.

    In November, the Ombudsman told the Commission that “the substance of the funded project, especially the work packages and deliverable of the project[…] should be fully disclosed”, citing the principle that “the public has a right to be informed about the content of projects that are financed by public money.” The Ombudsman rejected the Commission’s argument that partial disclosure would undermine the commercial interests of McKinsey.

    Commission President Ursula von Der Leyen responded that the Commission “respectfully disagrees” with the Ombudsman. The material concerned, she wrote, “contains sensitive information on the business strategies and the commercial relations of the company concerned.”

    The president of the Commission has had dealings with McKinsey before; in February, von der Leyen testified before a special Bundestag committee concerning contracts worth tens of millions of euros that were awarded to external consultants, including McKinsey, during her time as German defence minister in 2013-2019.

    In 2018, Germany’s Federal Audit Office said procedures for the award of some contracts had not been strictly lawful or cost-effective. Von der Leyen acknowledged irregularities had occurred but said that much had been done to fix the shortcomings (https://www.ft.com/content/4634a3ea-4e71-11ea-95a0-43d18ec715f5).

    She was also questioned about her 2014 appointment of Katrin Suder, a McKinsey executive, as state secretary tasked with reforming the Bundeswehr’s system of procurement. Asked if Suder, who left the ministry in 2018, had influenced the process of awarding contracts, von der Leyen said she assumed not. Decisions like that were taken “way below my pay level,” she said.

    In its report, Germany’s governing parties absolved von der Leyen of blame, Politico reported on June 9 (https://www.politico.eu/article/ursula-von-der-leyen-german-governing-parties-contracting-scandal).

    The EU Ombudsman is yet to respond to the Commission’s refusal to grant further access to the McKinsey documents.

    https://balkaninsight.com/2020/06/22/asylum-outsourced-mckinseys-secret-role-in-europes-refugee-crisis
    #accord_UE-Turquie #asile #migrations #réfugiés #externalisation #privatisation #sous-traitance #Turquie #EU #UE #Union_européenne #Grèce #frontières #Allemagne #EASO #Structural_Reform_Support_Service (#SRSS) #Maarten_Verwey #Frontex #Chios #consultancy #Joint_Action_Plan #Martin_Selmayr #chronologie #Jose_Carreira #Joanna_Darmanin #privatisation #management #productivité #leadership_training #îles #Mer_Egée #Integrated_Refugee_Management #pro_bono #transparence #Solveigh_Hieronimus #Katrin_Suder

    ping @_kg_ @karine4 @isskein @rhoumour @reka

  • EU proposes to ’top up support’ for refugees in Turkey

    The European Commission on June 3 proposes to release a payment of €485 million ($545 million) for Turkey to support Syrian refugees in 2020.

    The institution presented a budget amendment on June 3 suggesting “to top up support for refugees and host communities in response to the Syria crisis by a total of €585 million.”

    €100 million ($112 million) will be allocated to Jordan and Lebanon, while Turkey receives the rest.

    The proposal reflects the current circumstances of the coronavirus pandemic “with no immediate end in sight of the Syrian crisis”, EU commissioner for enlargement and neighborhood Oliver Varhelyi explained in a statement.

    “The European Union continues to show strong solidarity with our partner countries Jordan, Lebanon, and Turkey, as well as with the refugees they are hosting”, he added.

    According to the plan, €485 million transfer will extend the functioning of two established programs in Turkey until the end of the next year.

    The program, #Emergency_Social_Safety_Net, provides monthly financial assistance to more than 1.7 million refugees.

    The other one, #Conditional_Cash_Transfers, helps over 600,000 refugee children to attend school.

    The funding is part of 2016 EU-Turkey deal, meant to stop irregular refugee flows and improve the conditions of Syrian refugees in Turkey.

    The EU had pledged €6 billion ($6.5 billion) aid for the refugees.

    According to EU’s latest data, all operational funds have been committed, €4.7 billion ($5.3 billion) contracted and €3.4 billion ($3.8 billion) disbursed.

    In previous communications, the EU promised to pay €4 billion ($4.5 billion) by 2020.

    If the current proposal is approved by the European Parliament and the EU member states, the €485 million will top up the €4 billion.

    The full €6 billion amount is expected to be paid by 2025.

    Turkey currently hosts 3.58 million Syrian refugees, more than any country in the world.

    https://www.hurriyetdailynews.com/eu-proposes-to-top-up-support-for-refugees-in-turkey-155326
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #EU #UE #Union_européenne #Turquie #aide_financière #réfugiés_syriens #Liban #Jordanie #accord_UE-Turquie #budget #2020

    ping @rhoumour @karine4 @isskein

  • Frontières européennes et #Covid-19 : la commission des affaires européennes du Sénat sensible à l’inquiétude du directeur exécutif de #Frontex

    Jeudi 9 avril 2020

    La commission des affaires européennes du Sénat a entendu, le 8 avril
    2020, par audioconférence, Fabrice LEGGERI, directeur exécutif de
    Frontex, agence européenne chargée de la sécurité des frontières
    extérieures de l’Union européenne (UE).

    Les sénateurs ont interrogé le directeur sur la façon dont Frontex avait
    adapté ses missions à la #fermeture_des_frontières européennes et à la
    période de #confinement actuelle, sur l’évolution récente des #flux_migratoires, sur la situation à la frontière gréco-turque, et enfin sur les moyens alloués à Frontex pour remplir ses missions, en particulier mettre en place le corps européen de 10 000 gardes-frontières et gardes-côtes annoncé pour 2027.

    Fabrice LEGGERI a indiqué que Frontex devait actuellement gérer une
    double #crise : sanitaire, avec les #contrôles imposés par l’épidémie de
    Covid-19, et géopolitique, avec la pression migratoire qu’exerce la
    Turquie sur l’Union européenne en ne régulant plus le flux migratoire à
    la frontière, au mépris de l’accord conclu en 2016. Fin février-début
    mars, 20 000 migrants hébergés en Turquie se sont ainsi présentés aux
    frontières terrestres et maritimes grecques : moins de 2 000 – et non
    pas 150 000 comme allégué par les autorités turques – les ont franchies,
    dans un contexte parfois violent tout à fait inédit. Les autorités
    grecques ont été très réactives, et, avec l’appui de l’UE, la situation
    est aujourd’hui maîtrisée. En dépit du confinement, Frontex a déployé
    900 de ses garde-frontières équipés de protections sanitaires sur le
    terrain, dont 600 en Grèce, priorité du moment pour assurer la
    protection des frontières extérieures européennes.

    Le directeur exécutif a insisté sur le risque budgétaire qui pèse
    lourdement sur Frontex. Alors que cette agence devait se voir allouer 11
    milliards d’euros sur les années 2021 à 2027, les Présidences
    finlandaise puis croate du Conseil de l’UE ont proposé de réduire ce
    budget de moitié. Fabrice LEGGERI a qualifié cette situation de
    « catastrophique » : non seulement, la création du corps européen ne
    serait pas financée, alors que 7 000 candidatures ont été reçues pour
    700 postes à pourvoir au 1er janvier prochain, mais l’agence ne pourrait
    pas renforcer sa contribution au retour effectif des étrangers en
    situation irrégulière vers leur pays d’origine, question pourtant
    essentielle pour la crédibilité de la politique migratoire de l’Union
    européenne.

    Fabrice LEGGERI a indiqué que les flux migratoires avaient logiquement
    diminué dans le contexte actuel de confinement de la majorité de la
    population mondiale, mais qu’il était trop tôt pour évaluer l’effet de
    l’épidémie sur leur évolution de moyen terme. Des sorties de crise à des dates différentes selon les régions du monde devront en tout cas
    conduire à renforcer les contrôles sanitaires aux frontières extérieures
    de l’Europe pour ne pas relancer l’épidémie quand elle sera en voie de
    résorption dans l’UE.

    Le président #Jean_BIZET a déclaré : « Vouloir une Europe qui protège tout en assurant la libre circulation, qui plus est dans un contexte
    d’épidémie, requiert des moyens : il faut absolument sécuriser le #budget de Frontex pour les prochaines années ».

    http://www.senat.fr/presse/cp20200409.html
    #coronavirus #crise_sanitaire #contrôles_frontaliers #crise_géopolitique #pression_migratoire #Turquie #EU #UE #Union_européenne #accord_UE-Turquie #Grèce #frontières #migrations #asile #réfugiés #gardes-frontières #frontières_extérieures #risque_budgétaire

    –----

    –-> commentaire reçu via la mailing-list Migreurop, le 10.04.2020 :

    D’après ce communiqué du Sénat, la pandémie cause des inquiétudes
    à Frontex.
    Mais apparemment ça ne concerne pas la santé des migrants bloqués aux frontières européennes.

    ping @thomas_lacroix @luciebacon

  • Réfugiés en #Turquie : évaluation de l’utilisation des #fonds de l’#UE et de la coopération avec Ankara

    Les députés évalueront mercredi la situation des #réfugiés_syriens en Turquie et les résultats du #soutien_financier fourni par l’UE au gouvernement turc.

    Des représentants de la Commission européenne informeront les députés des commissions des libertés civiles, des affaires étrangères et du développement avant de participer à un débat. Ils se concentreront sur la facilité de l’UE en faveur des réfugiés en Turquie, mise en place en 2015 pour aider les autorités turques à venir en aide aux réfugiés sur leur territoire. Elle dispose d’un #budget total de six milliards d’euros à distribuer au plus tard en 2025.

    Sur les 5,6 millions de réfugiés syriens dans le monde, près de 3,7 millions seraient en Turquie, selon les données du HCR.

    #Accord_UE-Turquie et situation en Grèce

    Les députés de la commission des libertés civiles débattront également de la mise en œuvre de la déclaration UE-Turquie, l’accord conclu par les dirigeants européens avec le gouvernement turc en mars 2016 pour mettre un terme au flux de réfugiés en direction des îles grecques.

    Ils échangeront dans un premier temps avec #Michalis_Chrisochoidis, le ministre grec en charge de la protection des citoyens. Les conséquences de l’accord ainsi que la situation dans les #îles grecques feront ensuite l’objet d’une discussion avec des représentants de la Commission européenne, de l’Agence des droits fondamentaux de l’UE, du Bureau européen d’appui en matière d’asile et de Médecins sans frontières.

    DATE : mercredi 6 novembre, de 9h à 12h30

    LIEU : Parlement européen, Bruxelles, bâtiment Paul-Henri Spaak, salle 3C50

    https://www.europarl.europa.eu/news/fr/press-room/20191104IPR65732/refugies-en-turquie-evaluation-de-l-utilisation-des-fonds-de-l-ue
    #réfugiés #asile #migrations #EU #accord_UE-Turquie #aide_financière #financement #catastrophe_humanitaire #crise_humanitaire #externalisation #hotspot

    –-------------

    Ici le lien vers la vidéo de la deuxième partie de la séance : https://www.europarl.europa.eu/ep-live/fr/committees/video?event=20191106-1000-COMMITTEE-LIBE

    Vous pouvez y voir l’intervention d’MSF sur le deal avec la Turquie et la situation en Grèce à la min 11:55.
    #suicide #santé_mentale #violences_sexuelles #santé #enfants #mineurs #enfance #surpopulation #toilettes #vulnérabilité #accès_aux_soins

    • Pour la #Cour_européenne_des_droits_de_l’Homme, tout va bien dans les hotspots grecs

      La Cour européenne des droits de l’Homme vient de rejeter pour l’essentiel la requête dont l’avaient saisie, le 16 juin 2016, 51 personnes de nationalités afghane, syrienne et palestinienne - parmi lesquelles de nombreux mineurs -, maintenues de force dans une situation de détresse extrême dans le hotspot de #Chios, en Grèce [1].

      Les 51 requérant.es, soutenu.es par nos associations*, avaient été identifié.es lors d’une mission d’observation du Gisti dans les hotspots grecs au mois de mai 2016 [2]. Privées de liberté et retenues dans l’île de Chios devenue, comme celles de #Lesbos, #Leros, #Samos et #Kos, une prison à ciel ouvert depuis la mise en œuvre de la #Déclaration_UE-Turquie du 20 mars 2016, les personnes concernées invoquaient la violation de plusieurs dispositions de la Convention européenne des droits de l’Homme [3].

      Dans leur requête étaient abondamment et précisément documentés l’insuffisance et le caractère inadapté de la nourriture, les conditions matérielles parfois très dangereuses (tentes mal fixées, serpents, chaleur, promiscuité, etc.), les grandes difficultés d’accès aux soins, l’absence de prise en charge des personnes les plus vulnérables - femmes enceintes, enfants en bas âge, mineurs isolés -, aggravées par le contexte de privation de liberté qui caractérise la situation dans les hotspots, mais aussi l’arbitraire administratif, particulièrement anxiogène du fait de la menace permanente d’un renvoi vers la Turquie.

      La seule violation retenue par la Cour concerne l’impossibilité pour les requérant.es de former des recours effectifs contre les décisions ordonnant leur expulsion ou leur maintien en détention, du fait du manque d’informations accessibles sur le droit au recours et de l’absence, dans l’île de Chios, de tribunal susceptible de recevoir un tel recours.

      Pour le reste, il aura fallu plus de trois ans à la Cour européenne des droits de l’Homme pour juger que la plainte des 51 de Chios n’est pas fondée. Son argumentation se décline en plusieurs volets :

      s’agissant du traitement des personnes mineures, elle reprend à son compte les dénégations du gouvernement grec pour conclure qu’elle n’est « pas convaincue que les autorités n’ont pas fait tout ce que l’on pouvait raisonnablement attendre d’elles pour répondre à l’obligation de prise en charge et de protection » ;

      elle reconnaît qu’il a pu y avoir des problèmes liés à l’accès aux soins médicaux, à la mauvaise qualité de la nourriture et de l’eau et au manque d’informations sur les droits et d’assistance juridique, mais les relativise en rappelant que « l’arrivée massive de migrants avait créé pour les autorités grecques des difficultés de caractère organisationnel, logistique et structurel » et relève qu’en l’absence de détails individualisés (pour chaque requérant.e), elle « ne saurait conclure que les conditions de détention des requérants [y ayant séjourné] constituaient un traitement inhumain et dégradant » ;

      s’agissant de la surpopulation et de la promiscuité, elle n’en écarte pas la réalité – tout en relevant que les requérant.es n’ont « pas indiqué le nombre de mètres carrés dans les conteneurs » – mais pondère son appréciation des risques que cette situation entraîne en précisant que la durée de détention « stricte » n’a pas dépassé trente jours, délai dans lequel « le seuil de gravité requis pour que [cette détention] soit qualifiée de traitement inhumain ou dégradant n’avait pas été atteint ».

      *

      L’appréciation faite par la Cour de la situation de privation de liberté invoquée par les requérant.es est en effet au cœur de sa décision, puisqu’elle s’en sert pour relativiser toutes les violations des droits qu’elles et ils ont subies. C’est ainsi que, sans contester les très mauvaises conditions matérielles qui prévalaient au camp de Vial, elle (se) rassure en précisant qu’il s’agit d’« une structure semi-ouverte, ce qui permettait aux occupants de quitter le centre toute la journée et d’y revenir le soir ». De même, « à supposer qu’il y eut à un moment ou à un autre un problème de surpopulation » au camp de Souda, elle estime « ce camp a toujours été une structure ouverte, fait de nature à atténuer beaucoup les nuisances éventuelles liées à la surpopulation » [4].

      Autrement dit, peu importe, pour la Cour EDH, que des personnes soient contraintes de subir les conditions de vie infrahumaines des camps insalubres du hotspot de Chios, dès lors qu’elles peuvent en sortir. Et peu importe qu’une fois hors de ces camps, elles n’aient d’autre solution que d’y revenir, puisqu’elles n’y sont pas officiellement « détenues ». Qu’importe, en effet, puisque comme dans le reste de « l’archipel des camps » de la mer Égée [5], c’est toute l’île de Chios qu’elles n’ont pas le droit de quitter et qui est donc leur prison.

      En relayant, dans sa décision, l’habillage formel donné par les autorités grecques et l’Union européenne au mécanisme des hotspots, la Cour EDH prend la responsabilité d’abandonner les victimes et conforte l’hypocrisie d’une politique inhumaine qui enferme les exilé.es quand elle devrait les accueillir.

      Contexte

      Depuis trois ans, des dizaines de milliers de personnes sont confinées dans les cinq hotspots de la mer Égée par l’Union européenne, qui finance la Grèce afin qu’elle joue le rôle de garde-frontière de l’Europe.

      Dès leur création, des associations grecques et des ONG, mais aussi des instances européennes et internationales comme, le Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR), le rapporteur spécial de l’ONU pour les droits de l’Homme des migrants, le Comité de prévention de la torture du Conseil de l’Europe, l’Agence de l’UE pour les droits fondamentaux, n’ont cessé d’alerter sur les nombreuses violations de droits qui sont commises dans les hotspots grecs : des conditions d’accueil marquées par la surpopulation, l’insécurité, l’insalubrité et le manque d’hygiène, des violences sexuelles, des atteintes répétées aux droits de l’enfant, le défaut de prise en compte des situations de vulnérabilité, un accès à l’information et aux droits entravé ou inexistant, le déni du droit d’asile. On ne compte plus les témoignages, rapports et enquêtes qui confirment la réalité et l’actualité des situations dramatiques engendrées par ces violations, dont la presse se fait périodiquement l’écho.

      http://www.migreurop.org/article2939.html?lang=fr
      #CEDH

  • Turkey stops 300,000 irregular migrants en route to EU so far this year

    Turkey has prevented some 269,059 irregular migrants, the highest ever, from crossing into Europe in the first eight and a half months of this year.

    The country is located in between European and African continents and is often used as a junction point to enter the European countries.

    Each year thousands of illegal migrants, many of them fleeing war, hunger and poverty back in their home countries, take a dangerous route to cross into Europe for a better life.

    Some of the migrants reach Turkey on foot before eventually taking a dangerous journey across the Aegean to reach the Greek islands. People have lost their lives trying to make the journey of “hope” while many of them were rescued by Turkish security forces.

    Turkey continues to fight against irregular migration, particularly in the northwestern province of Edirne and the Aegean Sea.

    According to the migration authority’s most recent data, the authorities have intercepted some 269,059 irregular migrants between the period of Jan. 1 and Sept. 12. The number is expected to rise until the end of the year. Last year Turkey intercepted 268,003 illegal migrants. The number was 146,485 in 2015, 174,466 in 2016 and 175,752 in 2017 – meaning the number has almost doubled over the last three years.

    In all, Turkey stopped more than 1,530,677 illegal migrants in the last 15 years.

    The majority of the irregular migrants captured this were Afghans, some 117,437. They were followed by 43,204 Pakistanis and 29,796 Syrians.

    The country’s Thrace region has become a hot spot for irregular migrants.

    In Edirne, one of Turkey’s westernmost provinces, 73,978 irregular migrants have been captured this year. It is also worth mentioning that the number of terrorists captured in Edirne has increased by 70% compared to the last year. In the Aegean Sea, on the other hand, 31,642 migrants were captured. Meanwhile, 28 irregular migrants were killed in the sea while trying to reach Europe.

    Last year, 25,398 irregular migrants were captured in the Aegean while 65 lost their lives.

    https://www.dailysabah.com/politics/2019/09/18/turkey-stops-300000-irregular-migrants-en-route-to-eu-so-far-this-year
    #Turquie #EU #frontières #externalisation #asile #migrations #accord_UE-Turquie #réfugiés #Evros #îles #Mer_Egée #visualisation #infographie

    ping @isskein @karine4

  • En #Grèce, des centaines de migrants font pression sur les autorités pour quitter le pays

    Près de 200 migrants et demandeurs d’asile ont envahi les rails de la principale gare d’Athènes, en Grèce, vendredi. Ils réclament entre autre l’ouverture de la frontière avec la Macédoine. Au même moment, 500 migrants se sont rassemblés à Diavata, non loin de Thessalonique. Eux aussi réclament l’ouverture du poste-frontière d’#Idomeni.

    Le trafic ferroviaire entre Athènes et Thessalonique était perturbé vendredi 5 avril en raison d’une manifestation d’environ 200 demandeurs d’asile qui ont envahi les rails de la principale gare de la capitale grecque, Larisis. Les manifestants réclament l’ouverture de la frontière greco-macédonienne, plus de rapidité dans le traitement de leur dossier d’asile et de meilleures conditions de vie.

    « Saloniki (Thessalonique ndrl) », « Germany ! », scandaient les manifestants, dont certains ont installé des tentes sur le quai de la gare, selon un journaliste de l’AFP.

    Aucun train ne pouvait quitter la gare d’Athènes alors que la police tentait de persuader les manifestants de quitter les lieux.

    Cette #manifestation est « un message pour l’Europe qui doit comprendre que la question [migratoire] demande une solution européenne », a expliqué aux médias Miltiadis Klapas, secrétaire général au ministère de la Politique migratoire, qui s’est rendu sur place.

    Un #rassemblement de 500 migrants à #Diavata

    Selon le journal grec, Ekathimerini, les manifestants ont demandé un bus pour les conduire dans la région de Diavata, dans le nord de la Grèce, près de Thessalonique, où environ 500 migrants, y compris des familles avec de jeunes enfants, se sont rassemblés depuis jeudi dans un champ de maïs à l’extérieur d’un #camp, à la suite d’appels sur les réseaux sociaux.

    Ces centaines de migrants rassemblés à Diavata réclament l’ouverture du poste-frontalier d’Idomeni, selon Nikos Ragos, responsable local de la politique migratoire. « Les migrants ont commencé à arriver à Diavata après des rumeurs et ‘#fake_news’ véhiculés sur les #réseaux_sociaux, les appelant à venir dans le nord de la Grèce pour faire pression et réclamer l’ouverture de la frontière ».

    Des heurts ont d’ailleurs éclaté dans la petite ville de Diavata, ce vendredi, entre forces de l’ordre et migrants.

    Situé sur la « route des Balkans », un camp gigantesque s’était formé à Idomeni en 2015. Des dizaines de milliers de migrants y étaient passés en direction du nord de l’Europe avant sa fermeture à la suite de la signature d’un pacte migratoire Union européenne-Turquie en mars 2016 et de son démantèlement.

    Près de 70 000 migrants sont actuellement installés en Grèce, dont 15 000 entassés dans des camps disséminés sur des îles de la mer Égée.

    Depuis le début de l’année, la Grèce a repris la première place pour les arrivées illégales en Europe, devant l’Espagne, avec près de 5 500 arrivées en janvier et février, en hausse d’un tiers par rapport au début 2018, selon l’agence européenne de protection des frontières, Frontex.


    https://twitter.com/JohnPapanikos/status/1113898606405267457/photo/1?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1113898606405267457&

    https://www.infomigrants.net/fr/post/16147/en-grece-des-centaines-de-migrants-font-pression-sur-les-autorites-pou
    #résistance #asile #migrations #réfugiés #gare #occupation #campement #route_des_balkans #frontières #fermeture_des_frontières #Macédoine #accord_UE-Turquie

  • L’agenda européen en matière de migration : l’UE doit poursuivre les progrès accomplis au cours des quatre dernières années

    Dans la perspective du Conseil européen de mars, la Commission dresse aujourd’hui le bilan des progrès accomplis au cours des quatre dernières années et décrit les mesures qui sont encore nécessaires pour relever les défis actuels et futurs en matière de migration.

    Face à la crise des réfugiés la plus grave qu’ait connu le monde depuis la Seconde Guerre mondiale, l’UE est parvenue à susciter un changement radical en matière de gestion des migrations et de protection des frontières. L’UE a offert une protection et un soutien à des millions de personnes, a sauvé des vies, a démantelé des réseaux de passeurs et a permis de réduire le nombre d’arrivées irrégulières en Europe à son niveau le plus bas enregistré en cinq ans. Néanmoins, des efforts supplémentaires sont nécessaires pour assurer la pérennité de la politique migratoire de l’UE, compte tenu d’un contexte géopolitique en constante évolution et de l’augmentation régulière de la pression migratoire à l’échelle mondiale (voir fiche d’information).

    Frans Timmermans, premier vice-président, a déclaré : « Au cours des quatre dernières années, l’UE a accompli des progrès considérables et obtenu des résultats tangibles dans l’action menée pour relever le défi de la migration. Dans des circonstances très difficiles, nous avons agi ensemble. L’Europe n’est plus en proie à la crise migratoire que nous avons traversée en 2015, mais des problèmes structurels subsistent. Les États membres ont le devoir de protéger les personnes qu’ils abritent et de veiller à leur bien-être. Continuer à coopérer solidairement dans le cadre d’une approche globale et d’un partage équitable des responsabilités est la seule voie à suivre si l’UE veut être à la hauteur du défi de la migration. »

    Federica Mogherini, haute représentante et vice-présidente, a affirmé : « Notre collaboration avec l’Union africaine et les Nations unies porte ses fruits. Nous portons assistance à des milliers de personnes en détresse, nous en aidons beaucoup à retourner chez elles en toute sécurité pour y démarrer une activité, nous sauvons des vies, nous luttons contre les trafiquants. Les flux ont diminué, mais ceux qui risquent leur vie sont encore trop nombreux et chaque vie perdue est une victime de trop. C’est pourquoi nous continuerons à coopérer avec nos partenaires internationaux et avec les pays concernés pour fournir une protection aux personnes qui en ont le plus besoin, remédier aux causes profondes de la migration, démanteler les réseaux de trafiquants, mettre en place des voies d’accès à une migration sûre, ordonnée et légale. La migration constitue un défi mondial que l’on peut relever, ainsi que nous avons choisi de le faire en tant qu’Union, avec des efforts communs et des partenariats solides. »

    Dimitris Avramopoulos, commissaire pour la migration, les affaires intérieures et la citoyenneté, a déclaré : « Les résultats de notre approche européenne commune en matière de migration parlent d’eux-mêmes : les arrivées irrégulières sont désormais moins nombreuses qu’avant la crise, le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes a porté la protection commune des frontières de l’UE à un niveau inédit et, en collaboration avec nos partenaires, nous travaillons à garantir des voies d’entrée légales tout en multipliant les retours. À l’avenir, il est essentiel de poursuivre notre approche commune, mais aussi de mener à bien la réforme en cours du régime d’asile de l’UE. En outre, il convient, à titre prioritaire, de mettre en place des accords temporaires en matière de débarquement. »

    Depuis trois ans, les chiffres des arrivées n’ont cessé de diminuer et les niveaux actuels ne représentent que 10 % du niveau record atteint en 2015. En 2018, environ 150 000 franchissements irréguliers des frontières extérieures de l’UE ont été détectés. Toutefois, le fait que le nombre d’arrivées irrégulières ait diminué ne constitue nullement une garantie pour l’avenir, eu égard à la poursuite probable de la pression migratoire. Il est donc indispensable d’adopter une approche globale de la gestion des migrations et de la protection des frontières.

    Des #mesures immédiates s’imposent

    Les problèmes les plus urgents nécessitant des efforts supplémentaires sont les suivants :

    Route de la #Méditerranée_occidentale : l’aide au #Maroc doit encore être intensifiée, compte tenu de l’augmentation importante des arrivées par la route de la Méditerranée occidentale. Elle doit comprendre la poursuite de la mise en œuvre du programme de 140 millions d’euros visant à soutenir la gestion des frontières ainsi que la reprise des négociations avec le Maroc sur la réadmission et l’assouplissement du régime de délivrance des visas.
    #accords_de_réadmission #visas

    Route de la #Méditerranée_centrale : améliorer les conditions d’accueil déplorables en #Libye : les efforts déployés par l’intermédiaire du groupe de travail trilatéral UA-UE-NU doivent se poursuivre pour contribuer à libérer les migrants se trouvant en #rétention, faciliter le #retour_volontaire (37 000 retours jusqu’à présent) et évacuer les personnes les plus vulnérables (près de 2 500 personnes évacuées).
    #vulnérabilité #évacuation

    Route de la #Méditerranée_orientale : gestion des migrations en #Grèce : alors que la déclaration UE-Turquie a continué à contribuer à la diminution considérable des arrivées sur les #îles grecques, des problèmes majeurs sont toujours en suspens en Grèce en ce qui concerne les retours, le traitement des demandes d’asile et la mise à disposition d’un hébergement adéquat. Afin d’améliorer la gestion des migrations, la Grèce devrait rapidement mettre en place une stratégie nationale efficace comprenant une organisation opérationnelle des tâches.
    #accord_ue-turquie

    Accords temporaires en matière de #débarquement : sur la base de l’expérience acquise au moyen de solutions ad hoc au cours de l’été 2018 et en janvier 2019, des accords temporaires peuvent constituer une approche européenne plus systématique et mieux coordonnée en matière de débarquement­. De tels accords mettraient en pratique la #solidarité et la #responsabilité au niveau de l’UE, en attendant l’achèvement de la réforme du #règlement_de_Dublin.
    #Dublin

    En matière de migration, il est indispensable d’adopter une approche globale, qui comprenne des actions menées avec des partenaires à l’extérieur de l’UE, aux frontières extérieures, et à l’intérieur de l’UE. Il ne suffit pas de se concentrer uniquement sur les problèmes les plus urgents. La situation exige une action constante et déterminée en ce qui concerne l’ensemble des éléments de l’approche globale, pour chacun des quatre piliers de l’agenda européen en matière de migration :

    1. Lutte contre les causes de la migration irrégulière : au cours des quatre dernières années, la migration s’est peu à peu fermement intégrée à tous les domaines des relations extérieures de l’UE :

    Grâce au #fonds_fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique, plus de 5,3 millions de personnes vulnérables bénéficient actuellement d’une aide de première nécessité et plus de 60 000 personnes ont reçu une aide à la réintégration après leur retour dans leur pays d’origine.
    #fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique

    La lutte contre les réseaux de passeurs et de trafiquants a encore été renforcée. En 2018, le centre européen chargé de lutter contre le trafic de migrants, établi au sein d’#Europol, a joué un rôle majeur dans plus d’une centaine de cas de trafic prioritaires et des équipes communes d’enquête participent activement à la lutte contre ce trafic dans des pays comme le #Niger.
    Afin d’intensifier les retours et la réadmission, l’UE continue d’œuvrer à la conclusion d’accords et d’arrangements en matière de réadmission avec les pays partenaires, 23 accords et arrangements ayant été conclus jusqu’à présent. Les États membres doivent maintenant tirer pleinement parti des accords existants.
    En outre, le Parlement européen et le Conseil devraient adopter rapidement la proposition de la Commission en matière de retour, qui vise à limiter les abus et la fuite des personnes faisant l’objet d’un retour au sein de l’Union.

    2. Gestion renforcée des frontières : créée en 2016, l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes est aujourd’hui au cœur des efforts déployés par l’UE pour aider les États membres à protéger les frontières extérieures. En septembre 2018, la Commission a proposé de renforcer encore le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes et de doter l’Agence d’un corps permanent de 10 000 garde-frontières, afin que les États membres puissent à tout moment bénéficier pleinement du soutien opérationnel de l’UE. La Commission invite le Parlement européen et les États membres à adopter la réforme avant les élections au Parlement européen. Afin d’éviter les lacunes, les États membres doivent également veiller à un déploiement suffisant d’experts et d’équipements auprès de l’Agence.

    3. Protection et asile : l’UE continuera à apporter son soutien aux réfugiés et aux personnes déplacées dans des pays tiers, y compris au Moyen-Orient et en Afrique, ainsi qu’à offrir un refuge aux personnes ayant besoin d’une protection internationale. Plus de 50 000 personnes réinstallées l’ont été dans le cadre de programmes de l’UE depuis 2015. L’un des principaux enseignements de la crise migratoire est la nécessité de réviser les règles de l’UE en matière d’asile et de mettre en place un régime équitable et adapté à l’objectif poursuivi, qui permette de gérer toute augmentation future de la pression migratoire. La Commission a présenté toutes les propositions nécessaires et soutient fermement une approche progressive pour faire avancer chaque proposition. Les propositions qui sont sur le point d’aboutir devraient être adoptées avant les élections au Parlement européen. La Commission continuera de travailler avec le Parlement européen et le Conseil pour progresser vers l’étape finale.

    4. Migration légale et intégration : les voies de migration légale ont un effet dissuasif sur les départs irréguliers et sont un élément important pour qu’une migration ordonnée et fondée sur les besoins devienne la principale voie d’entrée dans l’UE. La Commission présentera sous peu une évaluation complète du cadre de l’UE en matière de migration légale. Parallèlement, les États membres devraient développer le recours à des projets pilotes en matière de migration légale sur une base volontaire. L’intégration réussie des personnes ayant un droit de séjour est essentielle au bon fonctionnement de la migration et plus de 140 millions d’euros ont été investis dans des mesures d’intégration au titre du budget de l’UE au cours de la période 2015-2017.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-19-1496_fr.htm
    –-> Quoi dire plus si ce n’est que... c’est #déprimant.
    #Business_as_usual #rien_ne_change
    #hypocrisie
    #langue_de_bois
    #à_vomir
    ....

    #UE #EU #politique_migratoire #asile #migrations #réfugiés #frontières

  • #Chronologie des #politiques_migratoires européennes

    En octobre #2013, l’#Italie lance l’opération #Mare_Nostrum suite au naufrage survenu à quelques kilomètres de l’île de Lampedusa en Sicile où 366 personnes ont perdu la vie. Elle débloque alors des moyens matériels (hélicoptères, bateaux, garde-côtes, aide humanitaire) et des fonds considérables (environ 9 millions d’euros par mois) pour éviter de nouveaux naufrages et contrôler les migrants arrivant au sud de l’Italie.

    Au sein de l’Union Européenne, les États votent la résolution #Eurosur qui met en place système européen de surveillance des frontières qui sera assuré par l’agence #Frontex. Frontex est chargée d’assister techniquement les pays pour protéger leurs frontières extérieures et former leurs garde-côtes. En 2018, son siège à Varsovie lui a accordé un budget de 320 millions d’euros. Elle dispose à ce jour (février 2019) de 976 agents, 17 bateaux, 4 avions, 2 hélicoptères, et 59 voitures de patrouille, des moyens qui seront accrus d’ici 2020 avec la formation d’un corps permanent de 10 000 agents et un pouvoir d’exécution renforcé et souhaité par la Commission européenne d’ici 2027.

    Dans le cadre de leur mission de surveillance de la mer, les agents de Frontex interceptent les embarcations d’exilés, contrôlent les rescapés et les remettent aux autorités du pays où ils sont débarqués. Les bateaux Frontex sillonnent ainsi les eaux internationales du Maroc à l’Albanie. Les ONG humanitaires l’accusent de vouloir repousser les migrants dans leurs pays d’origine et de transit comme le prévoient les États de l’Union Européenne.

    Octobre 2014, l’opération Mare Nostrum qui a pourtant permis de sauver 150 000 personnes en un an et d’arrêter 351 passeurs, est stoppée par l’Italie qui investit 9 millions d’euros par mois et ne veut plus porter cette responsabilité seule. L’agence européenne Frontex via l’opération Triton est chargée de reprendre le flambeau avec des pays membres. Mais elle se contente alors de surveiller uniquement les eaux territoriales européennes là où Mare Nostrum allait jusqu’aux côtes libyennes pour effectuer des sauvetages. La recherche et le sauvetage ne sont plus assurés, faisant de ce passage migratoire le plus mortel au monde. L’Italie qui est alors pointée du doigts par des États membres car elle n’assure plus sa mission de sauvetage, de recherche et de prise en charge au large de ses côtes est dans le même temps accusée par les mêmes d’inciter les traversées « sécurisées » en venant en aide aux exilés et de provoquer un appel d’air. Une accusation démentie très rapidement par le nombre de départs qui est resté le même après l’arrêt de l’opération Mare Nostrum.

    L’Italie qui avait déployé un arsenal impressionnant pour le sauvetage durant cette période n’avait pas pour autant assuré la prise en charge et procédé à l’enregistrement des dizaines de milliers d’exilés arrivant sur son sol comme le prévoit l’accord de Dublin (prise empreintes et demande d’asile dans le premier pays d’accueil). Le nombre de demandes d’asile enregistrées fut bien supérieur en France, en Allemagne et en Suède à cette même période.

    #2015 marque un tournant des politiques migratoires européennes. Le corps du petit syrien, #Aylan_Kurdi retrouvé sans vie sur une plage turque le 2 septembre 2015, a ému la communauté européenne seulement quelques semaines, rattrapée ensuite par la peur de ne pas pouvoir gérer une crise humanitaire imminente. « Elle n’a jusqu’ici pas trouvé de réponse politique et collective à l’exil », analysent les chercheurs. Les pays membres de l’Union Européenne ont opté jusqu’à ce jour pour des politiques d’endiguement des populations de migrants dans leurs pays d’origine ou de transit comme en Turquie, en Libye ou au Maroc, plutôt que pour des politiques d’intégration.

    Seule l’#Allemagne en 2015 avait opté pour une politique d’accueil et du traitement des demandes d’asile sans les conditions imposées par l’accord de #Dublin qui oblige les réfugiés à faire une demande dans le premier pays d’accueil. La chancelière allemande avait permis à un million de personnes de venir en Allemagne et d’entamer une demande d’asile. « Elle démontrait qu’on peut être humaniste tout en légalisant le passage de frontières que l’Europe juge généralement indésirables. Elle a aussi montré que c’est un faux-semblant pour les gouvernements de brandir la menace des extrêmes-droites xénophobes et qu’il est bien au contraire possible d’y répondre par des actes d’hospitalité et des paroles », décrit Michel Agier dans son livre “Les migrants et nous”.

    En mars #2016, la #Turquie et l’Union européenne signent un #accord qui prévoit le renvoi des migrants arrivant en Grèce et considérés comme non éligibles à l’asile en Turquie. La Turquie a reçu 3 milliards d’aide afin de garder sur son territoire les candidats pour l’Europe. A ce jour, des réseaux de passeurs entre la Turquie et la #Grèce (5 kms de navigation) sévissent toujours et des milliers de personnes arrivent chaque jour sur les îles grecques où elles sont comme à Lesbos, retenues dans des camps insalubres où l’attente de la demande d’asile est interminable.
    #accord_UE-Turquie

    En #2017, l’OIM (Office international des migrations), remarque une baisse des arrivées de réfugiés sur le continent européen. Cette baisse est liée à plusieurs facteurs qui vont à l’encontre des conventions des droits des réfugiés à savoir le renforcement des contrôles et interceptions en mer par l’agence Frontex, le refus de l’Europe d’accueillir les rescapés secourus en mer et surtout la remise entre les mains des garde-côtes libyens des coordinations de sauvetages et de leur mise en place, encouragés et financés par l’UE afin de ramener les personnes migrantes en #Libye. Cette baisse ne signifie pas qu’il y a moins de personnes migrantes qui quittent leur pays, arrivent en Libye et quittent ensuite la Libye : 13 185 personnes ont été ainsi interceptées par les Libyens en Méditerranée en 2018, des centaines ont été secourues par les ONG et plus de 2 250 seraient mortes, sans compter celles dont les embarcations n’ont pas été repérées et ont disparu en mer.

    En avril #2018, le président Macron suggérait un pacte pour les réfugiés pour réformer le système de #relocalisation des migrants en proposant un programme européen qui soutienne directement financièrement les collectivités locales qui accueillent et intègrent des réfugiés : « nous devons obtenir des résultats tangibles en débloquant le débat empoisonné sur le règlement de Dublin et les relocalisations », déclarait-il. Mais les pourparlers qui suivirent n’ont pas fait caisse de raisonnance et l’Europe accueille au compte goutte.

    La #Pologne et la #Hongrie refuse alors l’idée de répartition obligatoire, le premier ministre hongrois
    Victor #Orban déclare : « Ils forcent ce plan pour faire de l’Europe un continent mixte, seulement nous, nous résistons encore ».

    Le 28 juin 2018, lors d’un sommet, les 28 tentent de s’accorder sur les migrations afin de répartir les personnes réfugiées arrivant en Italie et en Grèce dans les autres pays de l’Union européenne. Mais au terme de ce sommet, de nombreuses questions restent en suspend, les ONG sont consternées. La politique migratoire se durcit.

    Juillet 2018, le ministre italien Matteo #Salvini fraîchement élu annonce, en totale violation du droit maritime, la #fermeture_des_ports italiens où étaient débarquées les personnes rescapées par différentes entités transitant en #Méditerranée dont les #ONG humanitaires comme #SOS_Méditerranée et son bateau l’#Aquarius. Les bateaux de huit ONG se retrouvent sans port d’accueil alors que le droit maritime prévoit que toute personne se trouvant en danger en mer doit être secourue par les bateaux les plus proches et être débarquées dans un port sûr (où assistance, logement, hygiène et sécurité sont assurés). Malgré la condition posée par l’Italie de ré-ouvrir ses ports si les autres États européens prennent en charge une part des migrants arrivant sur son sol, aucun d’entre eux ne s’est manifesté. Ils font aujourd’hui attendre plusieurs jours, voir semaines, les bateaux d’ONG ayant à leur bord seulement des dizaines de rescapés avant de se décider enfin à en accueillir quelques uns.

    Les 28 proposent des #zones_de_débarquement hors Europe, dans des pays comme la Libye, la Turquie, le Maroc, le Niger où seraient mis en place des centres fermés ou ouverts dans lesquels serait établie la différence entre migrants irréguliers à expulser et les demandeurs d’asile légitimes à répartir en Europe, avec le risque que nombre d’entre eux restent en réalité bloqués dans ces pays. Des pays où les droits de l’homme et le droit à la sécurité des migrants en situation de vulnérabilité, droits protégés en principe par les conventions dont les Européens sont signataires, risquent de ne pas d’être respectés. Des représentants du Maroc, de la Tunisie et d’Albanie, pays également évoqués par les Européens ont déjà fait savoir qu’ils ne sont pas favorables à une telle décision.
    #plateformes_de_désembarquement #disembarkation_paltforms #plateformes_de_débarquement #regional_disembarkation_platforms

    Malgré les rapports des ONG, Médecins sans frontières, Oxfam, LDH, Amnesty International et les rappels à l’ordre des Nations Unies sur les conditions de vie inhumaines vécues par les exilés retenus en Grèce, en Libye, au Niger, les pays de l’Union européenne, ne bougent pas d’un millimètre et campent sur la #fermeture_des_frontières, avec des hommes politiques attachés à l’opinion publique qui suit dangereusement le jeu xénophobe de la Hongrie et de la Pologne, chefs de file et principaux instigateurs de la peur de l’étranger.

    Réticences européennes contre mobilisations citoyennes :
    Malgré les positions strictes de l’Europe, les citoyens partout en Europe poursuivent leurs actions, leurs soutiens et solidarités envers les ONG. SOS Méditerranée active en France, Allemagne, Italie, et Suisse est à la recherche d’une nouveau bateau et armateur, les bateaux des ONG Sea Watch et Sea Eye tentent leur retour en mer, des pilotes solidaires originaires de Chamonix proposent un soutien d’observation aérienne, la ligne de l’association Alarm Phone gérée par des bénévoles continue de recevoir des appels de détresse venant de la Méditerranée, ils sont ensuite transmis aux bateaux présents sur zone. Partout en Europe, des citoyens organisent la solidarité et des espaces de sécurité pour les exilés en mal d’humanité.

    https://www.1538mediterranee.com/2019/02/28/politique-migratoire-europeenne-chronologie
    #migrations #asile #réfugiés #EU #UE #frontières

    ping @reka

  • La facilité en faveur des réfugiés en Turquie a permis une réaction rapide dans un contexte difficile, mais des améliorations doivent être apportées pour optimiser l’utilisation des fonds, estime la Cour des comptes européenne.

    Selon un nouveau rapport de la #Cour_des_comptes européenne, la facilité en faveur des réfugiés en Turquie, qui soutient les réfugiés et leurs communautés d’accueil turques, a permis de réagir rapidement à la crise dans des circonstances difficiles. Les auditeurs affirment que les #projets_humanitaires ont aidé les réfugiés à subvenir à leurs besoins fondamentaux, mais que l’utilisation des ressources n’a pas toujours été optimale.

    https://www.eca.europa.eu/Lists/ECADocuments/INSR18_27/INSR_TRF_FR.pdf
    #externalisation #accord_ue-turquie #aide_financière #Turquie #Grèce #UE #EU #Europe #facilité #humanitaire #argent

    Le #rapport de la Cour des comptes :
    https://www.eca.europa.eu/Lists/ECADocuments/SR18_27/SR_TRF_FR.pdf

    • En 2016, on expliquait ainsi la « facilité »...
      GESTION DE LA CRISE DES RÉFUGIÉS. LA FACILITÉ EN FAVEUR DES RÉFUGIÉS EN TURQUIE

      En raison de sa situation géographique, la Turquie est un pays de premier accueil et de transit pour de nombreux réfugiés
      et migrants. Confrontée à un afflux sans précédent de personnes en quête de refuge, elle accueille actuellement plus
      de 2,7 millions de réfugiés syriens enregistrés et déploie des efforts méritoires pour leur apporter une aide humanitaire
      et un soutien – la Turquie a déjà consacré plus de 7 milliards d’euros à cette crise. L’UE est déterminée à ne pas laisser
      la Turquie seule face à cette situation. La Commission européenne fournit une aide humanitaire destinée aux réfugiés
      vulnérables qui ont fui la violence dans leur pays, et en particulier à ceux qui vivent hors des camps et ont besoin d’une
      aide immédiate, ainsi qu’à ceux qui ont besoin d’une aide médicale et d’un accès à l’éducation.


      https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/background-information/docs/20160420/factsheet_financing_of_the_facility_for_refugees_in_turkey_fr.pdf

    • 1.5 million refugees in Turkey supported by EU’s biggest ever humanitarian programme

      The #Emergency_Social_Safety_Net, the largest ever EU humanitarian programme, has now assisted 1.5 million of the most vulnerable refugees in Turkey.

      The EU funded programme, launched in September 2016, is the largest single humanitarian project in the history of the European Union.

      Christos Stylianides, Commissioner for Humanitarian Aid and Crisis Management, visiting Turkey on the occasion said: “1.5 million refugees in Turkey are now able to meet their basic needs and live in dignity. The European Union, in cooperation with Turkey, is bringing a real change in the lives of the most vulnerable refugees. I am very proud of what we have achieved together. Jointly with Turkey we will continue this support, focusing on making our assistance sustainable.”

      EU humanitarian assistance in Turkey continues to deliver tangible results for the most vulnerable refugees in Turkey. The Emergency Social Safety Net provides monthly cash transfers via a debit card to help refugees buy what they need the most, such as food, medicines, or paying the rent. Another flagship programme, the Conditional Cash Transfer for Education, has surpassed its initial goals and now supports the families of more than 410,000 children who attend school regularly.

      The EU programmes will continue in 2019, with a focus on further supporting the most vulnerable and ensuring a sustainable transition from humanitarian aid to a long-term response. The EU humanitarian funding foreseen for 2019 is €640 million, out of which €80 million will be dedicated to support education in emergencies. This funding is part of the second tranche of €3 billion of the Facility for Refugees in Turkey for both humanitarian and non-humanitarian assistance.

      Background

      The EU Facility for Refugees in Turkey was set up in 2015 in response to the European Council’s call for significant additional funding to support refugees in Turkey. The EU Facility has a total budget of €6 billion for humanitarian and non-humanitarian projects, of which €3 billion for 2016-2017 and €3 billion for 2018-2019.

      The Emergency Social Safety Net programme is implemented by the World Food Programme and the Turkish Red Crescent in close collaboration with the Turkish authorities. With financing from the EU of almost €1 billion to date, the refugees receive around €20 per person per month, plus quarterly top-ups to meet their basic needs.

      Another flagship initiative, the Conditional Cash Transfer for Education (CCTE) project, helps refugee children register for and attend school. The programme builds on the Emergency Social Safety Net. It provides cash assistance to vulnerable refugee families with children who attend school regularly.

      In addition to humanitarian assistance, the EU Facility for Refugees in Turkey focuses on education, migration management, health, municipal infrastructure, and socio-economic support.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-19-1_en.htm
      #programme_humanitaire

  • #métaliste (qui va être un grand chantier, car il y a plein d’information sur seenthis, qu’il faudrait réorganiser) sur :
    #externalisation #contrôles_frontaliers #frontières #migrations #réfugiés

    Des liens vers des articles généraux sur l’externalisation des frontières de la part de l’ #UE (#EU) :
    https://seenthis.net/messages/569305
    https://seenthis.net/messages/390549
    https://seenthis.net/messages/320101

    Ici une tentative (très mal réussie, car évidement, la divergence entre pratiques et les discours à un moment donné, ça se voit !) de l’UE de faire une brochure pour déconstruire les mythes autour de la migration...
    La question de l’externalisation y est abordée dans différentes parties de la brochure :
    https://seenthis.net/messages/765967

    Petit chapitre/encadré sur l’externalisation des frontières dans l’ouvrage "(Dé)passer la frontière" :
    https://seenthis.net/messages/769367

    Les origines de l’externalisation des contrôles frontaliers (maritimes) : accord #USA-#Haïti de #1981 :
    https://seenthis.net/messages/768694

    L’externalisation des politiques européennes en matière de migration
    https://seenthis.net/messages/787450

    "#Sous-traitance" de la #politique_migratoire en Afrique : l’Europe a-t-elle les mains propres ?
    https://seenthis.net/messages/789048

    Partners in crime ? The impacts of Europe’s outsourced migration controls on peace, stability and rights :
    https://seenthis.net/messages/794636
    #paix #stabilité #droits #Libye #Niger #Turquie

    Proceedings of the conference “Externalisation of borders : detention practices and denial of the right to asylum”
    https://seenthis.net/messages/880193

    Brochure sur l’externalisation des frontières (passamontagna)
    https://seenthis.net/messages/952016

  • L’Italie fermera ses #aéroports aux migrants

    Le ministre italien de l’Intérieur s’est opposé, dimanche, à tout renvoi de migrants de l’Allemagne vers son pays, sans accord préalable.

    L’Italie va fermer ses aéroports aux avions de ligne non autorisés transportant des migrants en provenance d’Allemagne, a annoncé dimanche le ministre italien de l’Intérieur Matteo Salvini. Une décision qui accentue les tensions entre Rome et Berlin.

    L’Allemagne et l’Italie travaillent à un #accord aux termes duquel des migrants résidant en Allemagne pourraient être renvoyés en Italie, pays où ils ont déposé une demande d’asile. L’accord n’a pas été signé pour le moment.

    Le quotidien La Repubblica rapportait samedi que l’office allemand pour les réfugiés avait adressé « des dizaines de lettres » à des migrants les informant d’un possible transfert vers l’Italie via des #vols_charters. Le premier vol est prévu mardi prochain.

    « Pas d’aéroports disponibles »

    « Si des gens pensent, à Berlin ou à Bruxelles, qu’ils vont pouvoir balancer des dizaines de migrants en Italie par des vols charter non autorisés, ils doivent savoir qu’il n’y a pas et n’y aura pas d’aéroports disponibles », a dit M. Salvini dans un communiqué. « Nous fermerons les aéroports comme nous avons fermé les #ports », a-t-il dit.

    Le ministre allemand de l’Intérieur Horst Seehofer affirmait en septembre qu’un accord avait été trouvé avec l’Italie et qu’il devait être signé prochainement. Matteo Salvini avait démenti le lendemain, exigeant de nouvelles concessions de la part de l’Allemagne. Le ministre italien avait alors expliqué qu’il avait reçu des assurances de la part de l’Allemagne que pour chaque migrant renvoyé en Italie les autorités allemandes accepteraient un demandeur d’asile en Italie. Matteo Salvini exigeait deux autres concessions - une révision du traité de Dublin sur la gestion des demandes d’asile dans le pays d’arrivée et la fin de la mission navale européenne Sophia qui porte secours aux migrants en Méditerranée.

    Sortir de l’impasse

    Horst Seehofer a appelé la chancelière allemande Angela Merkel et le président du Conseil italien Giuseppe Conte à intervenir pour sortir de l’impasse. « L’accord a été négocié et suit les mêmes principes que celui avec la Grèce »« , a dit M. Seehofer au Welt am Sonntag. »Nous renvoyons des réfugiés en Italie mais nous acceptons un même nombre de personnes sauvées en mer« .

     »Mais Salvini dit maintenant : je ne signerai que si l’Allemagne soutient la position de l’Italie sur le droit d’asile dans l’Union européenne". Rome demande une réforme du traité de Dublin afin que soit organisée une répartition des nouveaux arrivants dans l’ensemble de l’UE et non plus l’obligation de rester dans le pays où ils sont arrivés en Europe.

    https://www.tdg.ch/monde/L-Italie-fermera-ses-aeroports-aux-migrants/story/27268662

    Commentaire sur twitter :

    Charter deportation from Germany to Italy planned for Tuesday, but Salvini now saying that Italy is going to “close the airports” to “non-authorised charters”

    https://twitter.com/twentyone_miles/status/1049015499219263489

    Et comme dit Philippe sur twitter, l’Italie devient une #île :


    #péninsule

    #Italie #Salvini #fermeture #fermeture_des_aéroports #Dublin #renvois_Dublin #asile #migrations #réfugiés #Allemagne

    cc @isskein @reka

    • Quelques questions, car ce n’est pas du tout clair pour moi les termes de ce fantomatique accord :

      On peut lire :

      « Le ministre italien avait alors expliqué qu’il avait reçu des assurances de la part de l’Allemagne que pour chaque migrant renvoyé en Italie les autorités allemandes accepteraient un demandeur d’asile en Italie. »

      « L’accord a été négocié et suit les mêmes principes que celui avec la Grèce »« , a dit M. Seehofer au Welt am Sonntag. »Nous renvoyons des réfugiés en Italie mais nous acceptons un même nombre de personnes sauvées en mer« .

      --> Mais qui sont ces « migrants renvoyés en Italie », si ce n’est des dublinés ? Et qui sont ces « réfugiés renvoyés en Italie » ? Si c’est des réfugiés, donc des personnes avec un statut reconnu, ils ne peuvent pas être renvoyés en Italie, j’imagine...
      --> Et les « personnes sauvées en mer » ? Il s’agit d’un nombre de personne déterminé, qui n’ont pas déjà été catégorisés en « migrants » ou « demandeurs d’asile » ?

      Et puis :

      « L’Allemagne et l’Italie travaillent à un #accord aux termes duquel des migrants résidant en Allemagne pourraient être renvoyés en Italie, pays où ils ont déposé une demande d’asile. L’accord n’a pas été signé pour le moment. »

      --> ce n’est pas déjà Dublin, ça ? C’est quoi si ce n’est pas Dublin ?

      #accord_UE-Turquie (bis)

      ping @i_s_

    • v. aussi le fil de discussion sur twitter de Matteo Villa :

      Sui voli #charter dalla Germania all’Italia non bisogna fare confusione, né cedere alla disinformazione.
      (1) Si tratta di “dublinati”, persone che hanno fatto primo ingresso in ?? dall’Italia, non migranti fermati alla frontiera tedesca e rispediti in Italia in modi spicci. Finché non cambiamo Dublino, gli accordi sono questi.
      2) Non è certo qualcosa di eccezionale. Tra 2014 e 2017, la Germania ha fatto più di 50.000 richieste di trasferimento verso l’Italia applicando le regole Dublino.
      (3) Non è neanche mistero che il sistema Dublino non funzioni. Sulle oltre 50.000 richieste da parte tedesca dal 2014, l’Italia ha effettuato solo circa 12.000 trasferimenti. Meno di 1 su 4 alla fine torna in ??.
      (4) una volta effettuato il trasferimento verso l’Italia, il richiedente asilo non è detenuto. Può quindi tentare di spostarsi di nuovo verso il Paese che lo ha riportato indietro.
      (5) Utilizzare voli charter rispetto a voli di linea è uno strappo diplomatico? Dipende. Tecnicamente, senza il consenso dell’Italia l’aereo non potrebbe neppure partire.
      (6) Vogliamo fare tutto questo casino per 40/100 persone? Davvero?

      https://twitter.com/emmevilla/status/1048951274677460993

    • Migranti, la Germania riporta 40 profughi a Roma con volo charter

      L’arrivo del primo #charter dalla Germania, con a bordo 40 migranti cosiddetti «secondari» respinti dal governo tedesco, è previsto all’aeroporto di Fiumicino giovedì prossimo, l’11 ottobre. Nonostante le smentite ufficiali del Viminale, un’intesa è stata dunque raggiunta. Adesso che la notizia è pubblica, però, bisognerà vedere cosa succederà nelle prossime ore. «Non farò favori elettorali alla Merkel», aveva detto il mese scorso Matteo Salvini all’ultimo vertice europeo sull’immigrazione.

      Così, anche se formalmente il ministero dell’Interno non può opporsi, potrebbe essere la polizia di frontiera italiana, per motivi legati al piano di volo, a non autorizzare l’atterraggio o lo sbarco dei passeggeri. È la prima volta, infatti, che la Germania si serve di un charter per riportare in Italia i «dublinanti», cioè quei migranti che sbarcano e chiedono asilo da noi, ma poi se ne vanno da uomini liberi nel resto d’Europa. In base al Trattato di Dublino, però, quando vengono rintracciati possono essere rimandati indietro, perché le norme dell’accordo prevedono appunto che sia il Paese di primo approdo a valutarne la domanda d’asilo e quindi a farsi carico dello straniero fino all’esito della procedura.

      Finora, però, il rientro dei «dublinanti» in Italia si svolgeva con viaggi di singoli migranti su aerei di linea. Dalla Francia, per esempio, ne arrivano così una ventina ogni mese. E dalla Germania, fino a oggi, una media di 25: tutti selezionati dopo una lunga istruttoria, quindi accompagnati a bordo dalla polizia tedesca fino all’atterraggio in Italia, qui infine presi in consegna dalle nostre forze dell’ordine e portati in un centro d’accoglienza.

      Ma il governo tedesco ora ha deciso di accelerare le operazioni: l’Ufficio federale per l’immigrazione e i rifugiati ha già inviato decine di lettere ai migranti arrivati in Germania passando per l’Italia, avvisandoli che saranno riportati presto nel primo Paese d’ingresso in Europa.

      Un giro di vite deciso a prescindere dal patto sui migranti fra Italia e Germania da tempo in discussione e che il nostro ministro dell’Interno, Matteo Salvini, continua ad escludere di aver mai firmato. Da Berlino, però, lo danno già per stipulato e a condizioni precise: la Germania può rimandare in Italia i migranti che attraversano il confine, garantendo in cambio la sua disponibilità a rivedere i termini dei ricollocamenti. Nei giorni scorsi, però, lo stesso Salvini era stato chiaro, parlando di «accordo a saldo zero»: in cambio cioè del ritorno in Italia dei «dublinanti» il nostro Paese invierà a Berlino un analogo numero di profughi da accogliere. «Firmerò l’accordo quando sarà chiaro che non ci sarà un solo immigrato in più a nostro carico», aveva detto. E dal Viminale, infatti, continuano a dire che la firma del ministro non c’è.

      Ma ora l’intesa apparentemente trovata sul charter in arrivo l’11 ottobre infittisce il giallo. E l’opposizione attacca: «Biglietti già fatti — ha twittato il deputato del Pd Filippo Sensi — nei prossimi giorni la Germania riporterà in Italia molti profughi, quanti? Matteo Salvini aveva tuonato che l’accordo con il suo amico Seehofer non c’era. Chi mente?». E Alessia Morani, Pd, commenta su Fb: «L’amico tedesco di Salvini, il sovranista Seehofer, vuole rimandare in Italia i profughi coi voli charter. Queste sono le conseguenze dell’accordo di giugno del premier Conte e della politica isolazionista di Salvini: si apparenta con chi alza i muri contro di noi, invece che fare accordi per la redistribuzione dei richiedenti asilo in Europa. La ricetta sovranista sta complicando la gestione dei migranti. Stanno creando il caos e questa incapacità la pagheranno gli italiani».

      https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_ottobre_06/primo-volo-charter-profughi-dublino-merkel-salvini-6c4cd2a8-c9a4-11e8-

      Quelques explications de plus dans cet article :

      È la prima volta, infatti, che la Germania si serve di un charter per riportare in Italia i «dublinanti» (...) Finora, però, il rientro dei «dublinanti» in Italia si svolgeva con viaggi di singoli migranti su aerei di linea.

      –-> donc, ce qui est nouveau c’est le fait que l’Allemagne renvoie les « dublinés » via charter, alors qu’avant ces renvois étaient effectués sur des vols de ligne.

      Le fameux accord, qui ressemble à celui entre la Turquie et l’UE, devrait prévoir ceci :

      la Germania può rimandare in Italia i migranti che attraversano il confine, garantendo in cambio la sua disponibilità a rivedere i termini dei ricollocamenti.

      –-> l’Allemagne peut renvoyer en Italie les migrants qui traversent la frontière, en garantissant, en échange, sa disponibilité à revoir les termes des #relocalisation

      Salvini sur ce point :

      Salvini era stato chiaro, parlando di «accordo a saldo zero»: in cambio cioè del ritorno in Italia dei «dublinanti» il nostro Paese invierà a Berlino un analogo numero di profughi da accogliere

      –-> Salvini demande un « accord avec un solde zéro » : en échange du retour des dublinés en Italie, l’Italie enverra à Berlin un nombre analogue de réfugiés à accueillir.

      Le journal rapporte les mots de Salvini qui dit ne pas avoir signé d’accord avec l’Allemagne :

      dal Viminale, infatti, continuano a dire che la firma del ministro non c’è.

      ... mais vu qu’il y a un charter qui devrait arriver à Rome le 11 octobre... et donc on se demande si cet accord a été signé...
      Du coup, c’est la polémique : qui ment ? Seehofer ou Salvini ?

      –------------------

      Nouveau terme, @sinehebdo :

      40 migranti cosiddetti «secondari»

      –-> « #migrants_secondaires », ça doit faire référence aux #mouvements_secondaires... que l’UE cherche par tout les moyens de combattre, mais qui, en réalité, avec ses politiques, les créent... les associations et quelques chercheurs/ses utilisent plutôt le terme #Migrerrants (#migrerrance)
      #terminologie #vocabulaire #mots

    • Berlin dément avoir le projet de renvoyer des migrants en Italie

      Les autorités allemandes ont démenti dimanche avoir le projet de renvoyer en Italie des migrants résidant en Allemagne comme le rapportait un quotidien italien, information qui avait provoqué un regain de tension entre Berlin et Rome.

      Le quotidien La Repubblica rapportait samedi que l’office allemand pour les réfugiés avait adressé « des dizaines de lettres » à des migrants les informant d’un possible transfert vers l’Italie via des vols charters. Le premier vol est prévu mardi prochain.

      Cette information a provoqué une vive réaction de la part du ministre italien de l’Intérieur Matteo Salvini qui a menacé de fermer tous les aéroports de son pays aux avions de ligne non autorisés transportant des migrants en provenance d’Allemagne.

      « Aucun vol de transfert n’est prévu vers l’Italie dans les prochains jours », a déclaré un porte-parole du ministère allemand de l’Intérieur dans un courrier électronique.

      L’Allemagne et l’Italie travaillent à un accord aux termes duquel des migrants résidant en Allemagne pourraient être renvoyés en Italie, pays où ils ont déposé une demande d’asile. L’accord n’a pas été signé pour le moment.

      « Si des gens pensent, à Berlin ou à Bruxelles, qu’ils vont pouvoir balancer des dizaines de migrants en Italie par des vols charters non autorisés, ils doivent savoir qu’il n’y a pas et n’y aura pas d’aéroports disponibles », a dit Salvini dans un communiqué.

      « Nous fermerons les aéroports comme nous avons fermé les ports », a-t-il dit.

      Le ministre allemand de l’Intérieur Horst Seehofer affirmait en septembre qu’un accord avait été trouvé avec l’Italie et qu’il devait être signé prochainement. Salvini avait démenti le lendemain, exigeant de nouvelles concessions de la part de l’Allemagne.

      Le ministre italien avait alors expliqué qu’il avait reçu des assurances de la part de l’Allemagne que pour chaque migrant renvoyé en Italie les autorités allemandes accepteraient un demandeur d’asile en Italie.

      Matteo Salvini exigeait deux autres concessions - une révision du traité de Dublin sur la gestion des demandes d’asile dans le pays d’arrivée et la fin de la mission navale européenne #Sophia qui porte secours aux migrants en Méditerranée.

      Seehofer a appelé la chancelière allemande Angela Merkel et le président du Conseil italien Giuseppe Conte à intervenir pour sortir de l’#impasse.

      « L’accord a été négocié et suit les mêmes principes que celui avec la Grèce », a dit Seehofer au Welt am Sonntag. « Nous renvoyons des réfugiés en Italie mais nous acceptons un même nombre de personnes sauvées en mer ».

      « Mais Salvini dit maintenant : je ne signerai que si l’Allemagne soutient la position de l’Italie sur le droit d’asile dans l’Union européenne », poursuit Seehofer.

      Rome demande une réforme du traité de Dublin afin que soit organisée une répartition des nouveaux arrivants dans l’ensemble de l’UE et non plus l’obligation de rester dans le pays où ils sont arrivés en Europe

      https://www.mediapart.fr/journal/international/071018/berlin-dement-avoir-le-projet-de-renvoyer-des-migrants-en-italie
      #opération_Sophia

  • 08/07: 19 travellers at Turkish-Greek landborder, pushed-back to Turkey

    Watch The Med Alarm Phone Investigations – 8th of July 2018

    Case name: 2018_07_08-AEG406
    Situation: 19 travellers at Turkish-Greek landborder, pushed-back to Turkey
    Status of WTM Investigation: Concluded

    Place of Incident: Aegean Sea

    Summary of the Case:

    On Sunday, 8th of July, at 11:14pm CEST, we were alerted to a group of travellers stuck near #Tichero, Greece, close to the Turkish landborder. The group consisted of 19 people, among them a 1-year-old child, a pregnant lady and a man that had a broken leg. At 12:11pm we managed to establish contact to the travellers. They were afraid of being pushed-back to Turkey by the police and asked for medical aid and the possibility to seek asylum in Greece. We asked them for a list of their names and birth dates in order to alert UNHCR. At 1:02am we received the list. We couldn’t get back in contact until 1:47am. The group decided not to move further and to wait until the morning for the UNHCR office to open so they could call there.
    At 8:30am we called UNHCR and asked for assistance. At 8:45am we also called the local police station but the operator refused to speak to us in English. We told the group to call 112 themselves for assistance. Until 9:30am we couldn’t reach any local police station. At 9:50am we sent an email to the local authorities and UNHCR to inform them about the people. Afterwards we continuously tried again to get in touch with the authorities and the group, but couldn’t establish a connection any more. At 2pm we reached the police in Alexandropolis. They informed us that they were searching since one hour but hadn’t found the travellers. During the afternoon, we couldn’t get any news and didn’t reach the travellers anymore. At 6:53pm the police informed us that they had not found the group yet. The next day at 11:02am we were informed by a contact person that the group had been found and that they had been allegedly violently pushed-back to Turkey. At 12:45am we managed to reach the group itself. They told us that the police had found them at 5:00pm the day before and put them in „a prison“. At 10:00pm the police had told the group that they were being moved to a camp to apply for international protection. However, the police instead brought them back to the river and handed them to officers discribed as „military“, who forced them onto a boat and across Evros border river back to Turkey. The police officers before had confiscated personal belongings of the refugees, including mobile phones, money, passports and the food for the baby.

    http://watchthemed.net/reports/view/943

    #Evros #Grèce #frontières #Turquie #push-back #refoulement #asile #migrations #réfugiés

    • WSJ: Turks fleeing Erdogan fuel new influx of refugees to Greece

      Thousands of Turks flee Turkey due to a massive witch-hunt launched by the Justice and Development Party (AK Party) government against the Kurds and the Gülen Group in the wake of a failed coup attempt on July 15, 2016.
      Around 14,000 people crossed the Evros frontier from January through September of this year, more than double the number for the whole of last year, according to the Greek police. Around half of them were Turkish citizens, according to estimates from Frontex, the European Union’s border agency. Many are judges, military personnel, civil servants or business people who have fallen under Turkish authorities’ suspicion, had their passports canceled and chosen an illegal route out.
      Nearly 4,000 Turks have applied for asylum in Greece so far this year. But most Turkish arrivals don’t register their presence in Greece, planning instead to head deeper into Europe and further from Turkey.

      About 30 Turks have been arriving on a daily basis since the failed coup, according to Kathimerini, there were zero arrivals from Turkey in 2015. However, thousands of Turkish citizens have started claiming asylum in Greece since “Erdogan stepped up his crackdown against his opponents since the failed coup attempt.”

      The Wall Street Journal interviewed some of the purge-victim families in Greece:

      “In the dead of night, Yunuz Cagar and his wife Cansu gave their baby some herbal tea to help her sleep, donned backpacks and followed smugglers on a muddy path along the Evros river, evading fences and border guards until they reached Greece.

      Mr. Cagar, a 29-year-old court clerk, was living a quiet life with his family in a provincial town near Istanbul until Turkey’s crackdown after a failed military coup in 2016 turned their world upside down. Judges, colleagues and friends were arrested. He lost his job and had to move the family into his parents’ attic. Mr. Cagar was arrested and spent four months in prison. His crime, he says, was downloading a messaging app, an act he says the state treated as evidence of supporting terrorism.
      The flow of asylum seekers crossing the Greek-Turkish border along the Evros river is rising for the first time since the peak of Europe’s migration crisis in 2015. This time, though, the increase is mainly due to Turks fleeing President Recep Tayyip Erdogan and his dragnet against real or imagined followers of the U.S.-based cleric Fethullah Gulen. Turkey accuses Mr. Gulen, an ex-ally turned enemy of Mr. Erdogan, of orchestrating the coup attempt.

      “We didn’t say goodbye to anyone before leaving,” said Mr. Cagar, who is now in Athens trying to find some way to get to Germany. His wife and child already made it there with the help of smugglers who have demanded a hefty price. “We began our journey with €13,000 ($14,700) and I have €1,500 left,” he said.

      Ahmed, a 30-year-old former F-16 pilot in the Turkish air force, spends his days talking to smugglers and trying to find a way out. “My dream is Canada, but the reality is Omonoia,” he said, referring to the gritty square in downtown Athens where migrants and smugglers mingle.

      A few months after the coup attempt, Ahmed said, he was dismissed, accused of Gulenist links, arrested and beaten, after another officer denounced him. He said he has no connections with Mr. Gulen’s network. He was released pending trial, but decided to flee when a prison term appeared unavoidable.

      Yilmaz Bilir, his wife Ozlem and their four children were on vacation when the coup attempt happened. Mr. Bilir, who worked at the information-technology department of Turkey’s foreign ministry, found out months later that he was suspected of Gulenist links, which he denies. The family went into hiding, staying with relatives and friends. Mr. Bilir was arrested when he briefly visited his own home and neighbors called the police. When he was released pending trial, the family decided to leave Turkey.

      Mr. Bilir made it to Germany using a forged passport and has applied for asylum there. His wife and children have applied to join him.

      Mrs. Bilir, stuck for now in Athens, remembers how happy the family was when they crossed the river Evros one summer night. “It was an endless walk, but we were happy, because we were away together,” she said. “I was so stressed in Turkey that I couldn’t sleep well for months, but that first night in detention in Greece, I finally slept.”

      After the coup, Meral Budak was suspended from her job as a teacher. Her husband was a journalist at Zaman, a major Turkish newspaper linked to Mr. Gulen’s movement. He had a valid U.S. visa and was able to travel to Canada, where he now works as an Uber driver. His 18-year-old son joined him a few months later.

      Mrs. Budak and the couple’s 15-year-old son Ali remained in Turkey and soon had their passports revoked. They went into hiding for a year. “The most traumatic memory was when I burned hundreds of books,” she said. “Even my children’s school books could be considered evidence, since the publishing companies were funded by Gulen.”
      On Jan. 1 of this year, Mrs. Budak and Ali undertook the long walk across the Evros and into Greece, where they now wait to join the rest of the family in Canada.

      “When I was walking through Greek villages, I realized my life was never going to be the same,” Mrs. Budak said. “I was walking into the unknown.”
      Read the full report on: https://www.wsj.com/articles/turks-fleeing-erdogan-fuel-new-influx-of-refugees-to-greece-1543672801

      https://turkeypurge.com/wsj-turks-fleeing-erdogan-fuel-new-influx-of-refugees-to-greece
      #réfugiés_turcs

    • Fourth migrant found dead near border, Greek ’pushback’ suspected

      Bodies of migrants keep piling up on Turkey’s border with Greece, while Greece denies it is involved in illegal “pushback” practices. Villagers in Adasarhanlı, where the body of another migrant was found earlier this week, alerted authorities after they discovered a body in a rice field, a short distance from the Turkish-Greek border, late Wednesday. The man is believed to be an illegal migrant forced to walk back to Turkey in freezing temperatures by Greek police as part of their controversial pushback practice.

      An initial investigation shows the man froze to death three days ago, and there were lesions on his body stemming from prolonged exposure to water.

      İbrahim Dalkıran, the leader of the village, said they have seen a large number of migrants recently in the area, and many took shelter, in wet clothes or half naked, in Adasarhanlı. “This is a humanitarian situation. Greece sends back migrants almost every three or four days. Some arrive injured, and we call a doctor. It is sad to see them in such a state,” Dalkıran told reporters.

      Olga Gerovasili, Greece’s minister for citizen protection whose ministry oversees border security, has denied previous allegations of pushback and told Anadolu Agency (AA) that Greece is not involved in such incidents. Yet, figures provided to AA by Turkish security sources show many illegal migrants were forced to go back to Turkey by Greek officials, with some 2,490 migrants being pushed back in November alone. The agency reports that some 300 of them were subjected to mistreatment by Greek security forces, ranging from beatings to being forced to go back half naked to the Turkish side of the border.

      Three bodies, believed to be Afghan or Pakistani migrants, were found in three villages in Edirne, the Turkish province that borders Greece. More than 70,000 illegal migrants were intercepted in Edirne between January and November, a high number compared to the 47,731 stopped last year as they tried to cross into Greece despite an increase in pushback reports.

      Under international laws and conventions, Greece is obliged to register any illegal migrants entering its territory; yet, this is not the case for some migrants. Security sources say that accounts of migrants interviewed by Turkish migration authority staff and social workers show that they are forced to return to Turkey, where they arrived from their homelands with the hope of reaching Europe.

      Pırıl Erçoban, a coordinator for the Association for Solidarity with Refugees (Mülteci-Der), says pushback constitutes a serious crime. She said it was “sad and unacceptable” that three migrants died, the number of deaths illustrates a serious problem. “It sheds light on the fact that pushback is being applied. It is still a crime to send those people back, even if they can make it back to Turkey alive,” Erçoban told AA. She says pushback was also taking place on migrant sea journeys, but has stopped, although the practice has continued on land. “Both Greece and Bulgaria are involved in this practice. Our figures show some 11,000 [illegal migrants] entered Turkey from Greece and Bulgaria, though not all of them were forced; we believe a substantial portion of returns are the result of pushback,” she said, adding returns were mostly via Greece. Erçoban said taking legal action to help migrants forced to return was difficult, as they could not reach the victims. “There should be administrative and criminal sanctions, and the culprits should be found. Turkey should take steps against pushback if [Greece] adopted it as a state policy. We hear that they are being beaten with iron bars and sent back without their clothes. This is a crime,” she added.

      Every year, hundreds of thousands of migrants flee civil conflict or economic hardship in their home countries in hope of reaching Europe. Edirne is a primary migration route. Turkish Directorate General of Migration Management data reveals that most of the migrants come from Pakistan, Syria, Iraq and Afghanistan. The numbers increase in late summer and autumn before dropping in the winter months.

      Temperatures hover near minus zero degrees Celsius in Edirne and other provinces at the border, which also saw heavy rainfall last week. Migrants usually take boats on the Meriç River, while some try to swim across to the other side. Early yesterday, police stopped 17 Pakistani migrants who were walking on train tracks near the border.

      https://www.dailysabah.com/investigations/2018/12/07/fourth-migrant-found-dead-near-border-greek-pushback-suspected/amp?__twitter_impression=true
      #mourir_aux_frontières #décès #morts

    • Greece accused of migrant ’pushbacks’ at Turkey border

      Hundreds of migrants including children and families have been illegally returned from Greece to Turkey despite Greek authorities being repeatedly warned about the practice, three non-governmental organizations said Wednesday.

      Migrants being forced back over the border, in violation of international law, has become the “new normality” at the border crossing with Turkey in Greece’s northeast Evros region, the three Greek organizations said.

      The testimonies of 39 people who attempted to cross the border to Europe, collected in detention centers near the border since the spring, were published in a report by the Greek Council for Refugees, ARSIS and HumanRights360.

      In their testimonies, the migrants describe being intercepted and detained by people wearing police or military uniforms, sometimes with a hood covering their face, who then forced them onto a boat to cross the Evros River back to Turkey.

      Some migrants described being physically abused or robbed by the individuals, who mostly spoke Greek.

      The report “constitutes evidence of the practice of pushbacks being used extensively and not decreasing, regardless of the silence and denial by the responsible public bodies and authorities,” the NGOs said.

      The “particularly wide-spread practice” leaves the “state exposed and posing a threat for the rule of law in the country,” they added.

      The Greek office of the U.N. refugee agency also said it had recorded a “significant number of testimonies on informal forced returns” through the Evros border.

      “On many occasions, we have addressed those concerns to the Greek authorities requesting the investigation of incidents,” the UNHCR office said.

      “The state’s response so far to these practices has not produced the results required for an effective access to asylum.”

      Greek authorities have denied involvement in the migrant returns and have announced investigations into potential militia action, without result so far.

      The flow of migrants across the Greek-Turkish land border has almost tripled this year, according to Greece’s migration ministry, with 14,000 people intercepted so far compared to 5,400 in 2017.


      http://www.dailystar.com.lb/News/Middle-East/2018/Dec-12/471620-greece-accused-of-migrant-pushbacks-at-turkey-border.ashx

    • Greece: Violent Pushbacks at Turkey Border

      Greek law enforcement officers at the land border with Turkey in the northeastern Evros region routinely summarily return asylum seekers and migrants, Human Rights Watch said today. The officers in some cases use violence and often confiscate and destroy the migrants’ belongings.

      “People who have not committed a crime are detained, beaten, and thrown out of Greece without any consideration for their rights or safety,” said Todor Gardos, Europe researcher at Human Rights Watch. “The Greek authorities should immediately investigate the repeated allegations of illegal pushbacks.”

      Human Rights Watch interviewed 26 asylum seekers and other migrants in Greece in May, and in October and November in Turkey. They are from Afghanistan, Iraq, Morocco, Pakistan, Syria, Tunisia, and Yemen, and include families traveling with children. They described 24 incidents of pushbacks across the Evros River from Greece to Turkey.

      Most incidents took place between April and November. All of those interviewed reported hostile or violent behavior by Greek police and unidentified forces wearing uniforms and masks without recognizable insignia. Twelve said police or these unidentified forces accompanying the police stripped them of their possessions, including their money and personal identification, which were often destroyed. Seven said police or unidentified forces took their clothes or shoes and forced them back to Turkey in their underwear, sometimes at night in freezing temperatures.

      Abuse included beatings with hands and batons, kicking, and, in one case, the use of what appeared to be a stun gun. In another case, a Moroccan man said a masked man dragged him by his hair, forced him to kneel on the ground, held a knife to his throat, and subjected him to a mock execution. Others pushed back include a pregnant 19-year-old woman from Afrin, Syria, and a woman from Afghanistan who said Greek authorities took away her two young children’s shoes.

      Increasing numbers of migrants, including asylum seekers, have attempted to cross the Evros River, which forms a natural border between Greece and Turkey, since April. By the end of September, the International Organization for Migration (IOM) had registered 13,784 arrivals by land, a nearly fourfold increase over the same period last year.

      In early June, Turkey unilaterally suspended all returns under a bilateral readmission agreement, stopping coordinated returns over the land border. In a July letter to Human Rights Watch, Hellenic Police Director Georgios Kossioris acknowledged an “acute problem” related to new arrivals and migrants arrested in the region, causing the overcrowding in some facilities, and inhumane conditions in police stations and registration and identification centers Human Rights Watch had documented.

      Accounts gathered by Human Rights Watch are consistent with the findings of other nongovernmental groups, intergovernmental agencies, and media reports. UNHCR, the United Nations Refugee Agency, has raised similar concerns. In a June report, the Council of Europe’s (CoE) Committee for the Prevention of Torture said it has received “several consistent and credible allegations of pushbacks by boat from Greece to Turkey at the Evros River border by masked Greek police and border guards or (para-)military commandos.” In November, the CoE human rights commissioner called on Greece to investigate allegations, in light of information pointing to “an established practice.”

      Human Rights Watch wrote to the head of border protection of the Hellenic Police on December 6, 2018, informing them of its findings. In his reply, Police Director Kossioris categorically denied that Hellenic Police carry out forced summary returns. He said all procedures for the detention and identification of migrants entering Greece were carried out in line with relevant legislation, and that they “thoroughly investigate” any incidents of misconduct or violation of migrants’ and asylum seekers’ rights. Greek authorities have consistently denied pushback practices, including a high-ranking Greek police official in a June meeting with Human Rights Watch. For a decade, Human Rights Watch has documented systematic pushbacks by Greek law enforcement officials at its land border with Turkey.

      Greek authorities should promptly investigate in a transparent, thorough, and impartial manner repeated allegations that Greek police and border guards are involved in collective and extrajudicial expulsions at the Evros region. Authorities should investigate allegations of violence and excessive use of force. Any officer engaged in such illegal acts, as well as their commanding officers, should be subject to disciplinary sanction and, as appropriate, criminal prosecution. Anyone seeking international protection should have the opportunity to apply for asylum, and returns should follow a procedure that provides access to effective remedies and safeguards against refoulement – return to a country where they are likely to face persecution, and ill-treatment.

      The European Commission, which provides financial support to the Greek government for migration control, including in the Evros region, should urge Greece to end all summary returns of asylum seekers to Turkey, press the authorities to investigate allegations of violence, and open legal proceedings against Greece for violating European Union laws.

      “Despite government denials, it appears that Greece is intentionally, and with complete impunity, closing the door on many people who seek to reach the European Union through the Evros border,” Gardos said. “Greece should cease forced summary returns immediately and treat everyone with dignity and respect for their basic rights.”

      For detailed accounts from asylum seekers and migrants, please see below. Please note that all names have been changed.

      Human Rights Watch interviewed 26 people from Afghanistan, Iraq, Morocco, Pakistan, Syria, Tunisia, and Yemen, including seven women, two of whom were pregnant at the time they were summarily returned to Turkey across the Evros River. In seven cases, families were pushed back, including children.

      In Greece, Human Rights Watch interviewed people who managed to re-enter Greek territory following a pushback, in the Fylakio pre-removal detention center and in the Fylakio reception and identification center, as well as in the Diavata camp for asylum seekers in Thessaloniki. In Turkey, those interviewed were in the Edirne removal center and in urban locations in Istanbul.

      All names of interviewees have been changed to protect their privacy and security. Interviews were carried out privately and confidentially, in the interviewees’ first language, or a language they spoke fluently, through interpreters. Interviewees shared their accounts voluntarily, and without remuneration, and have consented to Human Rights Watch collecting and publishing their accounts.

      Pushbacks in Evros

      The 24 incidents described demonstrate a pattern that points to an established and well-coordinated practice of pushbacks. Most of the incidents share three key features: initial capture by local police patrols, detention in police stations or informal locations close to the border with Turkey, and handover from identifiable law enforcement bodies to unidentifiable paramilitaries who would carry out the pushback to Turkey across the Evros River, at times violently. In nine cases, migrants said uniformed police physically mistreated them before or during the pushback.

      The accounts suggest close and consistent coordination between police with unidentified, often masked, men who may or may not be law enforcement officers. In a May interview with Human Rights Watch, Second Lieutenant Sofia Lazopoulou at the border police station of Neo Cheimonio said that police officers wearing dark blue uniforms were in charge of services at the police station and that those who wear military camouflage uniforms were patrolling officers, in charge of prevention and deterrence of irregular migrants crossing into Greece.

      Interviewees said that people who looked like police officers or soldiers, as well as some of the unidentified masked men, carried equipment such as handguns, handcuffs, radios, spray cans, and batons, while others carried tactical gear such as armored gloves, binoculars, and knives and military grade weapons, such as rifles.

      The repeated nature of the pushbacks and the fact that those officers who conduct them were clearly on official duty, indicates that commanding officers knew, or ought to have known, what was happening.

      Ferhat G., a Syrian Kurdish man in his forties, said two police officers detained him, his wife, and three children, ages 12, 15, and 19, at an abandoned train station on September 19. They were held in a large caged area in the backyard of a police station with dozens of other people for five hours. Ferhat could not say where the train station or police station were:

      We were all put in a van, 60 to 70 people. Commandos all in black, wearing face masks, drove us back to the river. We were very afraid… I saw other people there, mainly youths with just shorts, no other clothes. Our blood froze out of fear. When they opened the van, we started going out. “Stand in one line, one-by-one,” they said and hit someone. Ten by 10, they put us in a small boat, driven by a Greek soldier. I cried because of the humiliation.

      The modus operandi was largely replicated, with some variations, in the other cases Human Rights Watch documented.

      Capture

      Twenty-one of those interviewed said local police patrols detained them in towns and villages near the border or in open farmland. Two said that the police took them off a bus or a train shortly after its departure. Three said they could not identify the men who detained them and took them directly back to the border. People said they were then transported in police cars, pick-up trucks, white vans without windows or signs, or larger trucks painted in green or camouflage that appeared to be military trucks.

      Karim L., 25, from Morocco, said that police officers removed him from a train to Alexandropouli on November 8. Shortly after its scheduled departure from Orestiada, at 12:37 p.m., police officers began asking passengers who looked foreign to show their passports and took Karim and five or six others off the train. The police took him to a nearby police station and kept him there for two nights. Then four men wearing police uniforms and black masks took him to the border in a van. He said they subjected him to physical violence and a mock execution, then pushed him back to Turkey. He was not photographed, fingerprinted, or given any paper to read or sign, or otherwise informed of the reasons for his arrest. He said that other people, including families with children, were also detained in the station’s three cells.

      Mahsa N., an Afghan woman, said uniformed police officers removed her, her husband, their three children, ages 5, 9, and 11, and two unrelated Afghan men from a bus 15 minutes after it left Alexandropouli in mid-September, during their third attempt to enter Greece. They were pushed back to Turkey the same day, with the police who had detained them taking them all the way to the Evros River, where others were already being held so they could be returned on a boat.

      Dila E., a 25-year-old Syrian woman, described her experience shortly after crossing the Evros River in late April. She said she was with seven other people, including four children, when masked men she could not identify pushed them back to Turkey as they were walking in a small town near the border:

      They came with a car and took us. They put us in a white van. You couldn’t see anything from the inside. They took us directly to the river and made us cross the river with a rubber boat. They took everyone’s mobile phones, set of clothes, and even the money from some.

      Malik N., a 26-year-old Moroccan man, said uniformed police stopped him along with three other men on November 13 near a gas station in Didymoteicho, a town two kilometers from the border. He said that one of the policemen made a phone call, and a white van arrived 15 minutes later. Two men he could not identify took him and two of his group to a location that he described as barracks: “They put us in the car, which was very well made, dark inside, and without seats. There were no signs on it. … There was a terrible smell [in the barracks], and officials had their masks on… There were 30 people there.”

      Masked men took him to the border the next evening:

      After the masked people came, they started to shout at us, and hit us one by one with batons at the door. There were around eight people outside the barracks, each with a thick plastic baton. They would hit you as you walked to the car. They would shout “Fuck Islam.” They put 30 of us in the van. [There were] no chairs. I felt like I was suffocating, there was no air. When we arrived at the river, they ordered people to strip to shorts only. They took my phones, my money, €1,500, and my glasses, and broke them.

      Sardar T., 18, from Afghanistan, said that uniformed police caught him and the group of people he was traveling with at the Didymoteicho bus station on April 23. He said the police came with a white van but later brought a big car, similar to a military truck with green camouflage. Human Rights Watch researchers saw a vehicle matching Sardar’s description parked in the yard of the border police station of Neo Cheimonio, as well as numerous white vans, without police signs. Sardar said that the officers who pushed them back to Turkey were wearing police uniforms and that masks concealed their faces except for their eyes.

      Detention

      Thirteen of those interviewed reported that they were detained in formal and informal locations close to the border, for periods ranging from a few hours to five days. Five said they were taken to a police station, while eight described buildings on the outskirts of nearby villages and towns, or on farmland that they said were used as drop-off points for detained migrants. None of the interviewees, even those held at police stations, were duly identified and registered, and their detention appears to have been arbitrary and incommunicado.

      A few dozen to one hundred people were detained at a time, without food, water, and sanitation, and then taken to the Evros River and returned to Turkey. Interviewees described the rooms in the unidentified buildings as “prison-like” and “like a storage room,” with a few mattresses and a single, filthy toilet. They said women and families with children were either held together with unrelated men, or sometimes in adjacent rooms.

      Mahsa, the Afghan woman who was summarily returned to Turkey three times, said she and her family were kept for five days, along with unrelated men who were also detained, in a dark room with no beds or heat before the second pushback, in late August. They were not given any food. Their belongings, including winter coats for her young children, and a cherished backpack and doll, were never returned. Up to 10 guards, wearing belts with what appeared to be handguns, batons, and pepper spray, would check on people and lock the door but not provide any information. She saw guards beating men staying in the same room: “They had a blue uniform with writing on it in Greek on the back, with big letters. They called us dirt.”

      Azadeh B., a 22-year-old Afghan woman traveling with her husband and two children, ages 2 and 4, said they were pushed back twice from Greece – and had spent five days in detention before being returned the second time, in early October. She said they were taken to a room in a structure located in the middle of farmland:

      We could not see or hear anything. We were not asked to sign anything or told anything. The guards closed the door and locked it. When families asked for water, they filled dirty bottles and threw them inside the room through the door. They took everything from us, even the Quran. We asked them to give back our kids’ shoes, but they didn’t. They do this because they don’t want us to come back. If it’s something of value, they keep it, something they don’t like, they put it in the bin.

      She said only the children were given some biscuits while detained in a room that was about 40 square meters and shared by about 80 people whom she believed were also all migrants.

      Hassan I., a Tunisian man in his thirties, said that before being violently pushed back along with four friends in early August, they spent a day in detention. He said the location resembled a military base because they saw military vehicles, including trucks and tanks, parked near the room in which they were held. It was a 15-minute drive from the town of Orestiada, where they had been stopped and picked up in the morning by two police officers in blue uniforms in a civilian car.

      The policemen drove them to the location, where guards violently pushed them against a wall, searched them, and hit them. “First, they asked for phones, then for money,” Hassan said. They were shouting ‘malaka’ [a Greek insult meaning ‘asshole’]. I was shocked. I felt humiliated. When we tried to ask for anything, like our sim cards, memory cards, they hit us immediately.” Hassan and his friends were put in a room that looked like a storage room. In an adjacent room, they could hear the voices of families with children. Hassan estimated that by 9 p.m., when they were taken to the border in trucks, about 80 men were in his room of about 24 square meters, in which there were only a few chairs, a toilet, and a water tap.

      Zara Z., 19 and four-months pregnant, from Afrin, Syria, said that in mid-May, men wearing camouflage uniforms stopped her and her husband and detained them overnight in a room without bedding or furniture, together with other migrant families, and without any food or water. The next day they were transferred in a van to the Evros River, put on a boat, and pushed back to Turkey.

      Pushbacks across the Evros River

      All those interviewed said they were transported to the border with Turkey in groups of 60 to 80, in military trucks or unmarked vans. In all but three cases, the agents wore face masks, black pants, or camouflage, making it impossible to recognize or identify them. In the three other cases, interviewees said police in regular blue and camouflage uniforms transported them to the river. Ten out of 26 interviewees said they were physically abused or witnessed others being ill-treated during the pushback operation.

      Karim, a 25-year-old Moroccan man, said Greek police handed him over to masked men wearing police uniforms after they caught him in Greece on November 10 and that he was violently pushed back to Turkey. After ordering him to take off his clothes and shoes, two of the masked officers kicked him to the ground and hit him with a baton, then one of them subjected him to a mock execution. They dragged him by his hair and forced him to kneel on the ground, while the masked officer held a knife to his throat and said in broken English, “Whoever returns to Greece, they will die.” Karim said he could not sleep at night and was experiencing recurrent nightmares.

      Hassan, the Tunisian who was pushed back with his four friends on August 10 or 11, said that masked men wearing black clothes ill-treated them after taking them to the border in a truck. One of the men used a stun gun on Hassan’s lower back, causing burns that were still visible over two months later. He provided video footage of the group’s injuries, which he said was recorded the day after the incident and was first posted on social media on August 12, showing several bruises he said resulted from blows to their upper and lower backs and limbs. “Next time I will see you,” one of the masked men told him in English, “I will kill you.” At the time of the interview, Hassan had been sleeping in parks in Istanbul, after all his belongings were confiscated in Greece.

      Amir B., a Tunisian man in his twenties, was pushed back to Turkey at the end of September after entering Greece and hiding for six days. He said he was returned from near Alexandropouli to the border in one of two military trucks, which together took around 80 people to the border, including about 30 women and a few children. Amir said masked men pushed people around as they got off the trucks, and then pushed them toward the river, ordering them to remain silent. The agents then split the group into smaller groups of 10 and ordered them to take off their shoes. Women had to give up their coats, while some men had to strip to underwear. Amir’s jeans, where he also kept his money, were set on fire. When a black pick-up truck arrived with a small boat, the guards checked the other side of the river with binoculars, and then used the small boat to take the groups of 10 in turn across the water.

      https://www.hrw.org/news/2018/12/18/greece-violent-pushbacks-turkey-border

      #vidéo:
      Greek Authorities Beat, Push Back Migrants into Turkey
      https://www.youtube.com/watch?v=X2olpuc_tqA

    • El oscuro secreto de la frontera oriental de Europa

      Grecia deporta ilegalmente a los refugiados que llegan a su territorio, en algunos casos incluso secuestrándolos lejos de la frontera, según denuncian ONG y Acnur.

      Firas debería estar en Grecia. Es más, oficialmente, según los registros del Gobierno heleno y del Alto Comisionado de Naciones Unidas para los Refugiados (ACNUR), reside en Grecia. Pero no. Este sirio, de 17 años, malvive amedrentado, sin dinero y sin papeles en un pequeño apartamento de Estambul que comparte con otros refugiados, después de haber sido deportado ilegalmente por la policía griega a Turquía en tres ocasiones. Una práctica prohibida por las leyes internacionales, pero que, según las organizaciones de derechos humanos, se está convirtiendo en “sistemática” a medida que la ruta migratoria de entrada a la Unión Europea se desvía hacia la frontera del río Evros. Acnur ha recabado unos 300 casos de devoluciones en caliente de personas que intentan llegar a la UE desde Turquía solo en 2018.

      “En los últimos años hemos recabado un número significante de casos de pushback [término en inglés para referirse a esta práctica ilegal]”, explica Margaritis Petritzikis, representante de Acnur en el campo de detención de Fylakio, en Grecia, junto al Evros. “Los testimonios describen a quienes practican las detenciones vistiendo uniformes de diferentes colores, muchas veces sin distintivos, y con la cara cubierta, por lo que no sabemos a qué cuerpo pertenecen. La jurisdicción del control fronterizo es de la policía griega, pero el área que rodea el río es zona militarizada”, añade Petritzikis.

      Los detenidos aseguran que, una vez detenidos y antes de ser devueltos en barcas al otro lado de la frontera, son llevados a almacenes, instalaciones militares o comisarías de policía, transportados con furgonetas sin identificar, supuestamente de las fuerzas de seguridad, según los testimonios recogidos en informes de diversas ONG, entre ellas Human Rights Watch y el Greek Council for Refugees (GCR).

      El Evros, también llamado Maritsa, hace de barrera natural a lo largo de 194 de los 206 kilómetros de frontera terrestre entre Turquía y Grecia; el resto lo cubre una valla levantada en 2012. Para aquellos migrantes y refugiados que, desde suelo turco, sueñan con alcanzar territorio europeo, son apenas 100 o 200 metros que cubrir en un bote hinchable, un trayecto mucho más corto que el que separa la costa turca de las islas griegas del mar Egeo. Además, aquí no está vigente el acuerdo firmado entre la UE y Turquía en 2016, que permite la devolución de aquellos migrantes llegados de manera irregular por vía marítima. En la zona del Evros regía otro acuerdo bilateral de devolución firmado entre Turquía y Grecia, aunque Ankara lo canceló el pasado año. Por ello, en los últimos años, se ha incrementado el número de llegadas a través de esta ruta (en 2018 fueron 18.014, un 35% del total de refugiados y migrantes que arribaron a Grecia, según los datos de Acnur). La mayor parte de los que llegan son sirios, afganos y turcos.

      Sus aguas aparentemente tranquilas son un espejismo engañoso. Es un río caudaloso, de habituales inundaciones y fuertes corrientes: durante el pasado año, medio centenar de personas murieron en esta ruta, la mayoría ahogadas o por hipotermia. “El río es pequeño, pero peligroso. Sobre todo porque los botes son para cinco personas y cruzamos 30 a la vez”, explica un joven bangladesí detenido en el campo de Fylakio.

      Un residente de Edirne, en la orilla turca del río, explica que las tarifas que exigen los traficantes por pasar al otro lado van de 1.000 a 5.000 euros. Aquellos que pagan más “reciben un servicio vip”, y en la orilla griega les esperan otros traficantes que los llevan en coche hasta Salónica o Atenas: “A estos no los suele detener nunca la policía”. A los que no disponen de ese dinero, después de superar el peligro de las aguas les aguarda una nueva barrera.
      Práctica ilegal

      Dos y media de la madrugada. Se escuchan pasos entre la maleza, en la zona boscosa que rodea el Evros. Hay cuchicheos. Los pasos se detienen al escuchar el vehículo en el que viaja este periodista. Poco después, se alejan.

      Anteriormente, en cuanto veían a cualquier persona en la orilla griega, los refugiados se identificaban como tales y pedían que se avisase a la policía. Sabían que habían llegado a territorio seguro. Ya no. Entre los refugiados es sabido que, si son apresados en esta zona, corren el riesgo de ser devueltos al otro lado. Las devoluciones en caliente están prohibidas por la ley: la normativa exige que sean primero identificados y, si es el caso, se les permita presentar una petición de asilo. Firas (que no es su nombre real) cuenta que pasó por ello dos veces durante el año pasado. En la primera ocasión, durante el verano, explica que fue detenido nada más cruzar el río, llevado a una comisaría y devuelto a Turquía al cabo de unas seis horas. “En la comisaría nos pegaron a todos los hombres, nos quitaron nuestras pertenencias y destrozaron los móviles”, asegura.

      La segunda fue aún peor: una vez capturados, Firas explica que los agentes de policía llamaron a otros agentes con uniforme militar y la cara cubierta y les propinaron una paliza. Esta vez les quitaron hasta la ropa y los devolvieron a Turquía en calzoncillos. Su historia es similar a las decenas de testimonios recabados por diferentes ONG, que consideran que puede haber un patrón de actuación de las fuerzas de seguridad helenas.

      En algunos casos no se trata ni siquiera de devoluciones «en caliente», es decir, al ser detenidos en el borde mismo de la frontera, sino desde bastante más adentro en el territorio griego y pasado bastante tiempo desde que los refugiados entraron al país. A. A., un sirio que residía en Alemania de manera legal, llegó en agosto de 2017 a la ciudad griega de Alejandrópolis para encontrarse con su mujer, que había cruzado recientemente la frontera. Pero, según manifestó al GCR, fue detenido por agentes de la policía que, haciendo caso omiso a sus documentos, lo encapucharon y lo enviaron a Turquía en un bote junto a otros refugiados.

      Similar es el caso de Firas. La tercera vez que intentó cruzar a Grecia, a mediados de noviembre, explica que lo logró. Y fue enviado al centro de detención de Fylakio. A inicios de enero, salió de él con los documentos que lo acreditaban como solicitante de asilo. Tomó un autobús hacia Salónica, pero cuenta que, cuando llevaba 15 minutos de viaje, la policía le ordenó bajar junto a otros cinco sirios. “Tenía los papeles de la policía griega y de Acnur, pero los destrozaron delante de mí”, relata. “Nos llevaron a un calabozo y agentes con pasamontañas nos desnudaron y nos pegaron. No nos dieron agua ni comida. El segundo día, vinieron otros agentes y nos pegaron con tubos de cañería. Luego nos llevaron al río junto a varias familias con niños y nos devolvieron a Turquía”.

      La respuesta del Gobierno griego es siempre la misma: “No existen estas prácticas”. Así lo han dicho públicamente los ministerios de Orden Público y Migraciones ante las quejas formales de ACNUR y el Consejo de Europa. La comandancia regional en Tracia de la policía griega, preguntada por la situación, redirigió a este periodista al comisario de Orestíada, Pascalis Siritudis, quien respondió al teléfono —un día después de haberse negado a recibirlo— con gran enfado: "La policía griega respeta siempre la ley y las normas internacionales. No olvide que esta es la frontera de la Unión Europea, no solo de Grecia”. Desde el Ministerio de Orden Público, la contestación fue similar: «La policía griega cumple con los derechos humanos».

      Hay varias investigaciones en marcha. Una, sobre la devolución de varios turcos en mayo de 2017, ha alcanzado el Tribunal Supremo de Grecia. También el Defensor del Pueblo y la Fiscalía de Orestíada han iniciado un proceso judicial tras la denuncia de un ciudadano sudanés deportado ilegalmente a Turquía. Pero, hasta ahora, nadie ha sido condenado. Dimitris Koros, abogado del GCR, admite que es difícil armar estos casos: “La mayoría de los refugiados devueltos no tienen tiempo ni medios para iniciar un proceso judicial y, además, es casi imposible identificar a quienes participan en las devoluciones ya que van con la cara cubierta y sin identificaciones, y se suelen producir de noche”.

      Entretanto Firas continúa en Estambul, temeroso de que un día lo detengan las autoridades turcas y lo deporten a la misma Siria de la que escapó huyendo de la guerra. Y se sigue preguntando por qué lo echaron de Grecia si tenía derecho a quedarse. “Me sorprendió mucho el nivel de brutalidad que emplearon conmigo. Siempre habíamos escuchado que la Unión Europea era un lugar donde no había violencia y se respetaban los derechos humanos”, se queja.

      https://elpais.com/internacional/2019/03/03/actualidad/1551607634_105978.html

    • Turkish computer science student missing in Evros following failed attempt to escape to Greece

      21-year-old university student #Mahir_Mete_Kul has been missing since the boat he used to cross Evros river between Greece and Turkey capsized on March 24.

      A computer science student at Istanbul’s Beykent University, Kul spent 10 months in prison on charges of membership to the leftist group, Liseli Dev-Genc, and was released 5 months ago with judicial control, media reported. As the court in charge put an overseas travel ban on his passport, Kul embarked on the risky journey to escape Turkey the same way thousands of others have tried over the past two years: crossing the Evros river along Turkey-Greece border in a bid to seek asylum abroad.

      “My son was a pretty young university student. They sent him up to prison. Following his release, they prevented him from going back to the school. As he had a travel ban on his passport, he chose this way [to escape],” Mahir’s mother Araz Kul spoke to Gazete Karinca. Five months ago, the mother left Turkey to Greece due to political reasons too, media said.

      Thousands of people have fled Turkey due to a massive witch-hunt launched by the Justice and Development Party (AK Party) government against all kinds of opposition.

      More than 510,000 people have been detained and some 100,000 including academics, judges, doctors, teachers, lawyers, students, policemen and many from different backgrounds have been put in pre-trial detention since last summer.

      Many tried to escape Turkey via illegal ways as the government cancelled their passports like thousands of others.


      https://turkeypurge.com/turkish-computer-science-student-missing-in-evros-following-failed-atte
      #mourir_aux_frontières #morts #décès #mourir_dans_l'Evros

      L’appel de la mère :
      https://twitter.com/TurkeyPurge/status/1110989355445678080
      https://twitter.com/TurkeyPurge/status/1110990512381530113

      #réfugiés_turcs

    • À la frontière gréco-turque. Empêcher les migrants d’entrer en Europe, sauver ceux qui y parviennent

      Je copie-colle ici la partie dédiée à la région de l’Evros :

      L’Evros, région délaissée par les garde-frontières

      La gare de Marasia semble aussi abandonnée que le village éponyme. Derrière un panneau jaune et rouge signalant le passage de trains à vapeurs, un cours d’eau ruisselle dans le calme. L’Evros, large d’une dizaine de mètres à peine à cet endroit, est la plus longue rivière des Balkans, prenant sa source en Bulgarie pour se jeter dans la mer Égée, près d’Alexandroupoli. Depuis l’accord entre l’Union européenne et la Turquie et la fermeture de la route des Balkans, la pression migratoire sur la Grèce, qui se concentrait ces dernières années sur les îles en mer Égée, se déporte vers l’Evros, frontière naturelle entre la Grèce et la Turquie. “Aujourd’hui, le problème n’est plus à la barrière mais dans la rivière”, atteste Paschalis Siritoudis, le directeur de la police du département d’Orestiada.

      Un effet de vases communicants

      Cette affluence ne l’inquiète pas plus que ça. “De plus en plus de migrants arrivent ces dernières années mais c’est un vieux problème auquel la région est confrontée depuis une vingtaine d’années. Avant la construction de la barrière avec la Turquie (celle-ci longe la frontière sur 12 kilomètres dans une zone militarisée, NdlR), 30 000 migrants passaient chaque année. En 2012, nous avons lancé une opération de surveillance à la frontière, du personnel a été recruté. Les années suivantes, ce nombre est tombé entre 1 000 et 3 000 personnes. En 2018, environ 7 000 ont franchi la frontière. Ces chiffres, même s’ils sont moindres, montrent qu’il y a toujours un problème migratoire ici. Mais le flux est sous contrôle, il n’y a aucune comparaison possible avec la situation avant 2012”, martèle le colonel, d’une voix tonitruante.

      Les chiffres du Haut-Commissariat des Nations unies (UNHCR) vont bien au-delà de ceux du directorat de police : en 2018, 18 014 personnes sont entrées en Grèce via l’Evros. Presque trois fois plus de personnes (dont une majorité de ressortissants turcs) que l’année précédente.

      Dès qu’une porte se ferme dans la région d’Evros, une fenêtre s’ouvre ailleurs. Et vice-versa. Quand, en juillet 2012, l’opération Aspida (“bouclier” en grec) est lancée, le nombre d’entrées à la frontière gréco-turque chute de manière vertigineuse. La première semaine du mois d’août, 2 000 migrants y sont appréhendés. Quelques mois plus tard, en octobre, moins de 10 personnes sont arrêtées par semaine.

      Les autorités compétentes et Frontex se félicitent du succès de cette opération. Les réjouissances sont cependant de courte durée : face au renforcement des contrôles à la frontière terrestre, les départs en mer se multiplient. “Immédiatement après le déploiement de l’opération Aspida, le nombre de détections de traversées illégales a augmenté, à la fois à la frontière maritime entre la Grèce et la Turquie et à la frontière terrestre avec la Bulgarie”, reconnaît Frontex dans son rapport annuel 2012, d’où sont issus les chiffres précités.

      Sur les 206 km de frontière fluviale entre la Grèce et la Turquie, seuls 12,5 kms sont terrestres et forment ce qu’on appelle le triangle de Karaağaç. C’est sur ce territoire qu’est érigée la barrière. (en rouge sur la carte)

      “Les barrières et les murs sont des solutions court-termistes à des mesures qui ne règlent pas le problème. L’Union européenne ne finane et ne financera pas cette barrière. Ça ne sert à rien.”
      Cecilia Malmström, ex-Commissaire européenne aux Affaires intérieures, février 2011.

      “Le problème n’est plus à la barrière mais dans la rivière” Paschalis Siritoudis, directeur de la police du département d’Orestiada

      Sept ans plus tard, l’opération Aspida est toujours en cours et semble faire la fierté de Paschalis Siritoudis. “Elle est connue dans toute la Grèce, dans toute l’Europe même ! Elle est effectuée avec le support de Frontex”, se félicite-t-il.

      Les officiers de Frontex déployés près d’Orestiada en 2010 (surtout pour identifier les migrants) pour prêter main forte aux Grecs sont partis. Aujourd’hui, l’agence européenne n’est que peu impliquée dans la région : quelques agents travaillent aux check-points et patrouillent avec des policiers et des militaires le long de la barrière de barbelés. “Nous avons parlé avec les autorités grecques pour augmenter notre présence mais la décision leur revient. Nous sommes prêts à intervenir s’ils en ressentent le besoin”, explique Eva Moncure, porte-parole de l’agence.

      À entendre Paschalis Siritoudis, ce n’est pas le cas. “Les officiers grecs qui effectuent l’enregistrement des migrants irréguliers, prennent leurs empreintes digitales et font le débriefing sont plus expérimentés que quiconque en Europe. Ils ont eu affaire à des dizaines de milliers de migrants et leur expertise est reconnue par tous”, s’exclame-t-il, assis derrière son bureau dans le commissariat d’Orestiada.

      De son côté, Frontex fait grand cas de ses compétences. “L’agence mutualise les ressources et fait appel aux États membres pour lui fournir du personnel. Il y a donc un turn-over important dans toutes les missions. Au fil des ans, nous avons toutefois développé une expertise, notamment au niveau de l’examen des documents. Avec quel genre de papiers voyagent les migrants ? Sont-ils faux ? Sont-ils vrais ? Où ont-ils été fabriqués ?”, explique Eva Moncure.

      Soumise à la bonne volonté des États membres, Frontex insiste pour pouvoir déployer ses guest officers. Ne serait-ce que pour partager les informations recueillies aux frontières avec une floppée d’institutions. Du point de vue de l’agence, plus celles-ci circulent, mieux les frontières sont protégées. Ainsi, depuis 2016, date du dernier élargissement du mandat de l’agence, Frontex est habilitée à mener des interviews sur le trafic d’êtres humains et à partager les informations récoltées avec Europol. “Nous n’enquêtons pas. Nous ne faisons que récolter des informations et les transmettons à qui de droit. Comme nous sommes en première ligne, nous pouvons obtenir ces informations plus aisément”, indique Eva Moncure. “Quand on parle de Frontex, tout le monde parle toujours des migrants mais personne ne parle des trafiquants d’êtres humains. Pour résumer, notre boulot est de surveiller les frontières, de venir en aide aux migrants s’ils sont en danger et de les renvoyer dans leur pays s’ils n’ont pas le droit d’asile en Europe. Un autre volet important, c’est de recueillir des informations sur les passeurs, les routes qu’ils utilisent, les connexions qu’ils ont, etc. Il ne faut pas oublier que les personnes qui font monter les migrants dans des bateaux ou qui leur font traverser une rivière ne sont pas des enfants de chœur. Le trafic d’êtres humains rapporte énormément d’argent, bien plus que le trafic de drogues. Le problème, c’est que pour l’instant, la justice arrête les petites mains pendant que les chefs des réseaux se la coulent douce à Dubaï en comptant leurs billets”, poursuit-elle.

      Pour rappel, les officiers ont un pouvoir exécutif lorsqu’ils sont impliqués dans l’enregistrement des migrants : prise d’empreintes digitales, screening (pour établir nationalité des migrants) et vérification des documents d’identité. En outre, ils ne peuvent délivrer de décisions relatives à l’asile puisqu’il s’agit d’un pouvoir régalien.

      Renvoyés en Turquie sur des bateaux

      Dans la région d’Evros, contrairement aux îles grecques, les agents de Frontex ne sont pas en contact avec les migrants et donc pas habilités à collecter des informations sur le trafic d’êtres humains. Laissé entre les mains des autorités grecques, l’enregistrement (et partant, le screening et l’interview) des migrants qui parviennent à entrer dans l’espace Schengen n’y semble pas garanti.

      À ce sujet, deux rapports, publiés en décembre 2018 - l’un par Humans Rights Watch et l’autre par le Greek Council for Refugees (GCR), Human Rights 360 et l’Association for the Social Support of Youth - sont glaçants. Confiscation de biens (“ils jettent nos téléphones dans la rivière”, “ils ont confisqué le lait artificiel pour notre bébé”, “il a déchiré mon certificat de naissance devant moi”) et de vêtements, privation de nourriture et parfois d’eau, fouilles corporelles, violences physiques et verbales… Comble du comble : les migrants seraient reconduits de l’autre côté de la rivière Evros dans des embarcations pneumatiques.

      Ces documents font état d’une pratique courante près de la rivière : le push-back, c’est-à-dire le refoulement des personnes qui franchissent la frontière. Ces expulsions collectives (et illégales) obéissent à un modus operandi bien rôdé, à lire les nombreux témoignages récoltés par ces ONG. “La plupart des incidents partagent trois caractéristiques principales : arrestation par une patrouille de police locale, détention dans des commissariats ou des emplacements informels (entrepôts, gares abandonnées, etc.) proches de la frontière avec la Turquie et remise des migrants par les forces de l’ordre à du personnel non-identifié (dont le visage serait le plus souvent caché par une cagoule, NdlR) qui procède au push-back via la rivière Evros, parfois de manière violente”, décrit Human Rights Watch. Certaines personnes interrogées ont subi plusieurs push-backs avant d’être finalement enregistrées selon la procédure légale.

      Les migrants ne sont pas photographiés, leurs empreintes digitales ne sont pas prises et les raisons de leur arrestation ne leur sont pas expliquées. Sans enregistrement, leur présence dans l’espace Schengen n’est pas attestée et il est donc impossible d’introduire une demande d’asile. Il est en revanche possible d’assurer qu’ils n’ont jamais un pied sur le sol européen.

      Ces allégations sont remontées jusqu’au Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe et au Comité européen pour la prévention de la torture qui les ont jugées crédibles. Après une visite en Grèce en avril 2018, le Commissaire a par ailleurs souligné l’absence d’enquêtes sur ce genre de pratiques de la part des autorités grecques.

      Des bateaux et des chaussures d’enfants

      À Marasia, derrière le panneau jaune et rouge signalant le passage de trains à vapeur, un chemin de terre longe une forêt, qui borde l’Evros. Avec l’arrivée du printemps, des fleurs jaunes tapissent ses berges.

      Il ne faut pas marcher bien loin pour découvrir les traces d’un spectacle qui suscite malaise et interrogations. À cent mètres de la gare, une paire de rames a été abandonnée.

      Un peu plus loin, au bord de l’eau, un bateau gris et bleu est recouvert de feuilles mortes. L’inscription “Excursion 5” est écrite dessus en lettres capitales. Cinquante mètres après, un autre bateau jaune et vert se confond avec la couleur des fleurs.

      De retour sur le chemin de terre, des taches de couleur attirent le regard. Ce sont des chaussures. En daim, celles d’un adulte, à côté d’un soutien-gorge et d’un jeans délavé. À côté, deux paires de basket appartiennent à des enfants. Les plus petites, bleues, sont une pointure 26. Leur ancien propriétaire doit avoir entre trois et cinq ans. Que lui est-il arrivé ? A-t-il été reconduit en Turquie ? Ses compagnons de route ont-ils été interrogés sur le trafic d’êtres humains dont ils ont été victimes ?

      Confronté aux accusations de push-backs menés dans la région, le chef de la police élude d’abord la question et jure que les migrants interceptés sont pris en charge. Avant de finir par admettre que “nous avons reçu des informations sur les push-backs de la part des ONG”.

      Pas suffisamment pour enquêter, comme recommandé par le Commissaire européen aux droits de l’homme et le Comité européen pour la prévention de la torture.

      https://dossiers.lalibre.be/greco-turque/login.php

    • Οργανωμένο σχέδιο ανομίας στον Έβρο καταγγέλλει η « Καμπάνια για το Άσυλο »

      Την κατεπείγουσα διερεύνηση των συνεχιζόμενων καταγγελιών για τις άτυπες επιχειρήσεις επαναπροώθησης προσφύγων στον Έβρο και τον έλεγχο των εμπλεκομένων ζητούν από τους υπουργούς Προστασίας του Πολίτη, Όλγα Γεροβασίλη, Μεταναστευτικής Πολιτικής, Δημήτρη Βίτσα, και Δικαιοσύνης, Μιχάλη Καλογήρου, δέκα οργανώσεις που συμμετέχουν στην « Καμπάνια για το Άσυλο ».

      Σημειώνουν ότι οι υπουργοί είναι υπόλογοι για κάθε καθυστέρηση, η οποία εντείνει την πεποίθηση ότι τα σύνορα στον Έβρο αποτελούν ένα πεδίο εκτός δικαίου και εκτός νόμου και έναν τόπο μαρτυρίου για τους πρόσφυγες.

      Υπογραμμίζουν ότι ο συστηματικός τρόπος και οι ομοιότητες της κακομεταχείρισης παραπέμπουν σε οργανωμένο σχέδιο αποτροπής, στο πλαίσιο του οποίου αναπτύσσονται γενικευμένες πρακτικές, οι οποίες έγιναν πιο εκτεταμένες, συστηματικές και σκληρές μετά την υπογραφή της ευρωτουρκικής συμφωνίας το Μάρτιο του 2016. Και αναφέρουν ότι οι πρακτικές αυτές εμπίπτουν στην αρμοδιότητα της ποινικής δικαιοσύνης και στοιχειοθετούν κατά περίπτωση κακουργήματα (βασανισμός, ληστεία, έκθεση ζωής σε κίνδυνο...).

      Οι οργανώσεις (ΑΡΣΙΣ, Δίκτυο Κοινωνικής Υποστήριξης Προσφύγων και Μεταναστών, ΕΠΣΕ, Ελληνικό Φόρουμ Προσφύγων, Κίνηση για τα Ανθρώπινα Δικαιώματα – Αλληλεγγύη στους Πρόσφυγες Σάμος, Κόσμος χωρίς Πολέμους και Βία, ΛΑΘΡΑ, PRAKSIS, Πρωτοβουλία για τα Δικαιώματα των Κρατουμένων, Υποστήριξη Προσφύγων στο Αιγαίο) κάνουν λόγο για επιδεικτική βαρβαρότητα ένστολων ή μη στην περιοχή και παράνομες ενέργειες οι οποίες αποτελούν αντικείμενο συγκεκριμένων οδηγιών και εντολών. Σημειώνουν ότι το οργανωμένο σχέδιο περιλαμβάνει επίσης τη συγκάλυψη και νομιμοποίηση των εγκληματικών μεθόδων που χρησιμοποιούνται.

      Ολόκληρη η ανακοίνωση της « Καμπάνιας για το Άσυλο » έχει ως εξής :

      Απαξίωση της ανθρώπινης ζωής και της νομιμότητας οι επαναπροωθήσεις στον Έβρο

      Αθήνα, 2 Μαΐου 2019

      Τα σύνορα της χώρας στον Έβρο τείνουν να καταστούν ένας εκτός δικαίου και εκτός νόμου τόπος μαρτυρίου για τους πρόσφυγες που επιχειρούν απελπισμένα να περάσουν στο ευρωπαϊκό έδαφος, στιγματίζοντας τη χώρα μας και τους υπευθύνους για τη διαχείρισή τους.

      Ενώ παρακολουθούμε τους αυξανόμενους πνιγμούς στα σύνορα, οι καταγγελίες προσφύγων για βάρβαρες πρακτικές επαναπροώθησης συνεχίζονται. Εκτός από τον αποτροπιασμό που προκαλούν, δείχνουν επίσης ότι η άσκηση βίας και οι συστηματικές παραβιάσεις δεν αποτελούν μεμονωμένες ατομικές επιλογές, αλλά γενικευμένες πρακτικές που αναπτύσσονται στα πλαίσια ενός σχεδίου αποτροπής και προσπάθειας ενίσχυσης του « μηνύματος » αποθάρρυνσης, που « πρέπει να σταλεί » για την ανάσχεση των προσφυγικών ρευμάτων.

      Όσα εκτενώς καταγράφονται στην κοινή έκθεση του Ελληνικού Συμβούλιου για τους Πρόσφυγες, της ΑΡΣΙΣ και της HumanRights360, που δημοσιεύτηκε πρόσφατα (1), δεν αφήνουν αμφιβολία για την αλήθεια των καταγγελλόμενων. Ο συστηματικός τρόπος και οι ομοιότητες της κακομεταχείρισης παραπέμπουν σε ένα οργανωμένο σχέδιο, η εφαρμογή του οποίου επιτρέπει -αν δεν προτρέπει- παράνομες συμπεριφορές. Οι περίπολοι ενόπλων με ή χωρίς αστυνομικές και στρατιωτικές στολές, μάσκες ή κουκούλες, που μιλούν εκτός από τα ελληνικά και άλλη ευρωπαϊκή γλώσσα (συχνά αναφερόμενη η γερμανική), που δρουν με επιδεικτική βαρβαρότητα ακόμα και μπροστά σε μικρά παιδιά και οικογένειες, βία και κακοποιήσεις, αφαίρεση προσωπικών ειδών και χρημάτων, ρούχων κατά περίπτωση και συχνά υποδημάτων, αφαίρεση ή καταστροφή κινητών τηλεφώνων (για να μην καταγράφεται η παράνομη δράση), μεταφορά σε εγκαταλειμμένες αποθήκες που χρησιμεύουν ως άτυπα κρατητήρια χωρίς τροφή και νερό και χρήση φουσκωτών για την επαναπροώθηση στην Τουρκία, παραπέμπουν σε εκτέλεση συγκεκριμένων οδηγιών και εντολών, που εφαρμόζονται επιλεκτικά σε εφαρμογή προαποφασισμένου σχεδίου, που περιλαμβάνει και τη συγκάλυψη -και κατά συνέπεια νομιμοποίηση- των εγκληματικών μεθόδων που χρησιμοποιούνται κατ’ αυτές.

      Η Καμπάνια για την Πρόσβαση στο Άσυλο καταγγέλλει για ακόμα μια φορά την εφαρμογή των πρακτικών άτυπης επαναπροώθησης που έχουν επεκταθεί και καταστεί σκληρότερες και συστηματικότερες μετά την Κοινή Δήλωση αρχηγών κρατών και κυβερνήσεων ΕΕ-Τουρκίας της 18ης Μαρτίου 2016 και επισημαίνει ότι δεν αποτελούν μόνο σοβαρή παραβίαση των διεθνών υποχρεώσεων της χώρας, αλλά εμπίπτουν στην αρμοδιότητα της ποινικής δικαιοσύνης και στοιχειοθετούν κατά περίπτωση κακουργήματα (βασανισμοί, ληστείες, έκθεση σε κίνδυνο ζωής κ.ά.)

      Ζητάμε να δοθούν απαντήσεις από τις αρχές :

      Ποια σώματα ενεργούν στα σύνορα για την αποτροπή παράτυπων εισόδων.
      Υπάρχει πλαίσιο συγκεκριμένων εντολών για την περίπτωση εντοπισμού, σύλληψης και μεταχείρισης των παράτυπα εισερχόμενων και έλεγχος για τον τρόπο εφαρμογής του από τις περιπόλους ;
      Υπάρχει υποχρέωση καταγραφής των περιπόλων που ενεργούν κατά μήκος του Έβρου και υποχρεωτική αναφορά σχετικά με την πορεία που ακολουθούν καθώς και τις ενέργειες τους ;
      Ελέγχεται από την εκάστοτε προϊσταμένη αρχή η νομιμότητα των ενεργειών αυτών των περιπόλων και η τήρηση των υποχρεώσεων που επιβάλει το διεθνές δίκαιο για την προστασία των προσφύγων ;

      Η Καμπάνια για την Πρόσβαση στο Άσυλο επισημαίνει ότι τα αρμόδια και εμπλεκόμενα Υπουργεία (Προστασίας του Πολίτη, Άμυνας και Μεταναστευτικής Πολιτικής) αλλά και ο Υπουργός Δικαιοσύνης οφείλουν να προβούν με διαδικασίες κατεπείγοντος στη διερεύνηση των καταγγελιών και τον έλεγχο των εμπλεκόμενων σε επιχειρήσεις αποτροπής και είναι υπόλογοι για κάθε καθυστέρηση, καθώς οι συνεχιζόμενες παραβιάσεις, όσο εκφεύγουν από κάθε μορφής έλεγχο, λογοδοσία και τιμωρία, επιβεβαιώνουν την πεποίθηση ότι ο Έβρος είναι ένα εκτεταμένο πεδίο εκτός δικαίου και εκτός νόμου όπου οι πρόσφυγες είτε σπρώχνονται στο θάνατο είτε στα χέρια εγκληματικών οργανώσεων, όπου μπορεί να αναπτύσσεται ανεμπόδιστα το οργανωμένο έγκλημα και όπου η ανθρώπινη ζωή είναι εξαιρετικά φτηνή ακόμη και γι’ αυτούς που είναι υπεύθυνοι να την προστατεύουν.

      https://www.efsyn.gr/node/193572

      Reçu via la mailing-list Migreurop avec ce commentaire :

      10 ONG et associations solidaires somment les Ministres de l’ordre public, de la Politique Migratoire et de la Justice d’ouvrir en toute urgence une enquête concernant les dénonciations répétées d’opérations illégales de refoulement de réfugiés à Evros (frontière fluviale gréco-turque au Nord de la Grèce) ; elles réclament aussi que tous les agents de l’état impliqués dans des telles actions fassent l’objet d’un contrôle.

      Les dix ONG qui font partie de celles ayant lancé la Campagne pour l’accès à l’asile (http://asylum-campaign.blogspot.com) font remarquer que les ministres seront tenus pour responsable de tout empêchement ou retard dans l’enquête, qui renforcerait la conviction que la frontière d’Evros est une zone de non-droit et un haut-lieu de torture pour les réfugiés (tortures, mauvais traitements, vols avec violence, mise en danger de la vie d’autrui).

      Elles soulignent que le mode opératoire quasi-identique de plusieurs opérations de refoulement et les ressemblances dans les mauvais traitements subis par les réfugiés renvoient à un plan organisé et concerté de dissuasion, dans le cadre duquel se déploient de pratiques généralisées qui sont devenus plus fréquentes, plus systématiques et encore plus dures après l’accord UE-Turquie en mars 2016.

      Les organisations Arsis , Réseau de soutien social de réfugiés et de migrants (Diktyo) Observatoire grec pour les accords d’Helsinki (Greek Helsinki Monitor ), Forum grec des réfugiés (Greek Forum of Refugees), Mouvement pour les Droits de l’Homme-Solidarité avec les Réfugiés Samos, Monde sans guerres et violence , « LATHRA » -Comité de Solidarité avec les Réfugiés de Chios, PRAKSIS , Initiative pour les droits de détenus ,

      Soutien aux Réfugiés en Egée (Refugees Support Aegean) parlent de brutalité ostentatoire de la part des policiers et de groupes paramilitaires et d’actions illégales qui ne pourraient être que le fruit de consignes précises et d’ ordres venant d’en haut. Pour les ONG, le recouvrement et la légalisation implicite de méthodes criminelles employées est partie intégrante du plan organisé de push-back.

    • “We were beaten and pushed back by masked men at Turkish-Greek border” – Turkish journalist and asylum seeker

      A group of Turkish political asylum seekers claims that, following their attempt to cross the Turkish border via Evros River in the northeast of Greece on Friday evening, they were pushed back after being beaten by masked men with batons.

      Tugba Ozkan, a journalist in the group, told IPA News on the phone that the group of 15 people fleeing persecution in Turkey crossed the Turkish-Greek border on Friday at 9 pm near Soufli, a town at Evros Regional Unit.

      When they stepped on Greek soil, however, she said a group of masked men beat them and pushed them back across the river to Turkish land, where a post-coup crackdown has persecuted tens of thousands of Turkish nationals since the abortive coup in 2016.

      A family of four from the group, including two children, disappeared after the alleged push-back. Turkish soldiers reportedly arrested the four Turkish nationals, Alpay Akinci (42), Meral Akinci (40), Okan Selim Akinci (11), and Ayse Hilal Akinci (8).

      Trying to hide from Turkish security officers, 11 people, including Ozkan, were attempting to cross the border for the second time.

      “Masked men beat us with batons. We are in a very dire situation. We are afraid to be pushed back again. We need help,” a desperate Ozkan said in dismay.

      The group of asylum seekers managed to cross the Evros safely in their second attempt, she said, and the group was attempting to hide when two Greek police cars found them.

      Greek Police detained the group at around 2 pm on Saturday near the border and took them into custody, according to the Greek Council for Refugees (GCR), a non-governmental organization defending human rights and fighting against illegal push-backs in the region.

      The group applied for asylum in Greece and are expected to be released in a few days after the official registration is done, according to GCR lawyers.
      Push-back: Infamous buzzword of immigration debate glossary

      The practice that notoriously became known as “push-back,” can be defined as ‘the use of force to stop asylum seekers at borders and to return them to the country from which they came.’

      According to official numbers of the United Nations, thousands of asylum seekers and refugees from various nations cross the Turkish-Greek border illegally every year in an attempt to reach Europe to take refuge.

      Many reported push-back incidents have occurred in recent years, but no accurate figures have been revealed yet.

      One of those incidents was the case of Murat Capan, a Turkish journalist who worked for the critical Nokta magazine. According to the narrative of Hellenic League for Human Rights, Capan and a Turkish family with three children crossed the Evros river in May 2017, escaping persecution.

      The Greek police took them into custody where they asked to apply for asylum. Subsequently, they were taken to a UN facility in a van.

      According to the information put forth by Hellenic League, the van met with a car along the road and five masked men dressed in camouflage bound the hands of the Turkish nationals. Two of the masked men then escorted them back to the Turkish side of the border where they were handed over to Turkish soldiers.

      Turkish authorities had already sentenced Capan in absentia to twenty-two and a half years in prison. Following the push-back incident, the security forces sent Capan to prison to serve his term.

      Another incident included 6 Turkish asylum seekers and took place in September 2018. Two Turkish families entered Greece via Evros and as reported by a Turkish journalist in exile, Cevheri Guven, their presence in Greece can be backed by solid evidence.

      One family had their two kids with them and took their photo on a roadside cafe in Alexandroupolis.

      Guven shares the location and picture of the coffee where the photo above had been taken to display that the families were indeed in Greece.

      The families were escorted back to Turkey after appealing for asylum by the Greek police and thrown into the water by the Turkish side, according to Guven. Turkish gendarmerie caught them after hours of walking along the road and 3 adults out of 4 in the group faced arrest.

      The cases of Capan and the Yildiz family crystalize the consequences of the push-back practice, which is a widespread method apparently enforced by Greek security forces working alongside Greece’s border with Turkey, according to the work of several NGOs.

      Greek NGOs, including GCR, HumanRights360, and ARSIS, released a report on the push-back practice in December 2018.

      The report, dubbed “The new normality: Continuous push-backs of third-country nationals on the Evros river,” includes testimonies of 39 people who tried to cross the Evros river to enter Greece, but who were pushed back to Turkey, often violently.

      The report of the NGOs concludes that “the practice of push-backs constitutes a particularly wide-spread practice, often employing violence in the process.”

      GCR, HumanRights360, and ARSIS have urged authorities to take action against the practice, which they label as “a threat to the rule of law” in Greece.

      According to a 2012 ruling of the European Court of Human Rights, push-back policy breaches international law, including the Geneva Convention and the Universal Declaration of Human Rights.

      International laws are clear on peoples’ rights to seek protection from persecution in other countries, and the latter is obliged to process these requests in order to avoid the risk of endangering people who have a legitimate claim to protection.

      https://ipa.news/2019/04/28/we-were-beaten-and-pushed-back-by-masked-men-at-turkish-greek-border-turkish-j

    • Three Kurdish children drown as more refugees try to make their way into Greece

      THREE KURDISH have perished while trying to cross from Turkey into Greece when the boat they were in capsized.

      The children were from the Iraqi Kurdistan capital of Erbil and drowned in Maritsa River.

      “In the early hours of today, around 3 am, a boat carrying thirteen immigrants who wanted to cross from Turkey to Greece through the Evros River overturned and two children drowned. One child died due to the cold weather,” said Ari Jalal, a representative of Federation of Iraqi Refugees in Kurdistan, in an interview with Kurdish Rudaw.

      Jalal further said the body of one child is yet to be found. “The search continues. We are in contact with the consulates of Iraq, Turkey and Greece after the tragic boat incident. The other immigrants were rescued by Greek police,” Jalal said.

      Turkey is used as a key and main route by thousands of refugees who want to cross into Europe through Greece, especially since 2011, when the Syrian civil war began.

      According to Greece police, the number of migrants registered and arrested after crossing the border was 3,543 by last October, an 82% increase over the same month in the preceding year.


      https://ipa.news/2019/02/04/three-kurdish-children-drown-as-more-refugees-try-to-make-their-way-into-greec
      #décès #morts

    • The new normality: Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river

      The Greek Council for Refugees, ARSIS-Association for the Social Support of Youth and HumanRights360 publish this report containing 39 testimonies of people who attempted to enter Greece from the Evros border with Turkey, in order to draw the attention of the responsible authorities and public bodies to the frequent practice of push-backs that take place in violation of national, EU law and international law.

      The frequency and repeated nature of the testimonies that come to our attention by people in detention centres, under protective custody, and in reception and identification centres, constitutes evidence of the practice of pushbacks being used extensively and not decreasing, regardless of the silence and denial by the responsible public bodies and authorities, and despite reports and complaints denouncements that have come to light in the recent past.
      The testimonies that follow substantiate a continuous and uninterrupted use of the illegal practice of push-backs. They also reveal an even more alarming array of practices and patterns calling for further investigation; it is particularly alarming that the persons involved in implementing the practice of push-backs speak Greek, as well as other languages, while reportedly wearing either police or military clothing. In short, we observe that the practice of push-backs constitutes a particularly wide-spread practice, often employing violence in the process, leaving the State exposed and posing a threat for the rule of law in the country.
      Τhe organizations signing this report urge the competent authorities to investigate the incidents described, and to refrain from engaging in any similar action that violates Greek, EU law, and International law.

      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e

      Pour télécharger le #rapport:


      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/download/492_22e904e22458d13aa76e3dce82d4dd23

    • Απάντηση Γεροβασίλη για τις επαναπροωθήσεις

      Επιστολή στον επικεφαλής της Υπατης Αρμοστείας στην Ελλάδα, Φιλίπ Λεκλέρκ, έστειλε η Όλγα Γεροβασίλη απαντώντας στη δική του στην όποια, όπως αναφέρει υπουργός Προστασίας του Πολίτη, « παρατίθενται περιγραφές και μαρτυρίες μεταναστών για περιστατικά και πρακτικές προσώπων, που φέρονται να ανήκουν σε Σώματα Ασφαλείας, στην περιοχή του Έβρου.

       »Συγκεκριμένα, οι αναφορές αφορούν σε άτυπες αναγκαστικές επιστροφές στην Τουρκία, χωρίς την τήρηση των νόμιμων διαδικασιών, σε περιστατικά βίας και σοβαρών παραβιάσεων των ανθρωπίνων δικαιωμάτων, καθώς και σε περιστατικά σύμφωνα με τα οποία δεν επετράπη η πρόσβαση προσφύγων και μεταναστών στο μηχανισμό του ασύλου.

      Η κ. Γεροβασίλη υποστηρίζει πως « οι καταγγελλόμενες συμπεριφορές και πρακτικές ουδόλως υφίστανται ως επιχειρησιακή δραστηριότητα και πρακτική του προσωπικού των Υπηρεσιών Συνοριακής Φύλαξης, το οποίο κυρίως εμπλέκεται σε δράσεις για την αντιμετώπιση του φαινομένου της παράνομης μετανάστευσης στα ελληνοτουρκικά σύνορα. Από την διερεύνηση των μέχρι σήμερα καταγγελλομένων περιστατικών και από τις εσωτερικές έρευνες που έχουν πραγματοποιηθεί από τις αρμόδιες Υπηρεσίες, προκύπτει το συμπέρασμα ότι αυτά δεν δύνανται να επιβεβαιωθούν ».

      Ισχυρίζεται δε ότι « η εμπειρία, ο επαγγελματισμός και το ήθος του αστυνομικού προσωπικού των Υπηρεσιών Συνοριακής Φύλαξης, δεν αφήνουν ουδεμία αμφιβολία ότι το έργο της διαχείρισης συνόρων επιτελείται με υψηλό αίσθημα ευθύνης και ανθρωπισμού. Προς επίρρωση αυτού, σημειώνεται ότι, στον ποταμό Έβρο έχουν λάβει χώρα, πολλές φορές υπό άκρως αντίξοες συνθήκες, επιχειρήσεις διάσωσης μεταναστών που κινδύνευαν από πνιγμό, από το αστυνομικό προσωπικό, το οποίο και με κίνδυνο της ζωής του επιδιώκει την προστασία της ζωής των μεταναστών όταν εγκλωβίζονται σε επικίνδυνα σημεία του ποταμού Έβρου, αποσπώντας θετικά σχόλια από την κοινή γνώμη.

      Επίσης, η υπουργός σημειώνει πως « οι Έλληνες αστυνομικοί που πραγματοποιούν εθνικές επιχειρησιακές δράσεις επιτήρησης συνόρων στην περιοχή του Έβρου, τα τελευταία έτη, υποστηρίζονται από Φιλοξενούμενους Αξιωματούχους διαφόρων ειδικοτήτων, στο πλαίσιο Κοινών Επιχειρήσεων του Frontex που υλοποιούνται στην περιοχή. Ο εν λόγω Ευρωπαϊκός Οργανισμός ενισχύει την επίγνωση της κατάστασης και την επιχειρησιακή ανταπόκριση στα ελληνοτουρκικά χερσαία σύνορα. Σε αυτό το πλαίσιο, ουδέποτε έγινε αναφορά από ξένους Φιλοξενούμενους Αξιωματούχους του Frontex, περιστατικού παράτυπης επαναπροώθησης ή παραβίασης δικαιώματος μεταναστών, με εμπλοκή ελλήνων αστυνομικών ».

      Στην επιστολή επισημαίνεται πως « τόσο σε κεντρικό όσο και σε περιφερειακό επίπεδο, το αστυνομικό προσωπικό λαμβάνει ειδικότερες οδηγίες και διαταγές, ενώ παρακολουθεί και εκπαιδευτικά προγράμματα, σχετικά με την προστασία των θεμελιωδών δικαιωμάτων των μεταναστών, με ιδιαίτερη έμφαση στις ευάλωτες ομάδες. Οι οδηγίες εστιάζουν στην προστασία της ανθρώπινης ζωής και αξιοπρέπειας, την αποφυγή των διακρίσεων, την νόμιμη χρήση βίας και την αρχή της μη-επαναπροώθησης. Σε αυτό το πλαίσιο, το αστυνομικό προσωπικό εποπτεύεται και αξιολογείται σε μόνιμη βάση, από την ιεραρχία του σώματος.

      Τέλος, η κ. Γεροβασίλη υπενθυμίζει ότι « η Ελλάδα έχει διαχειρισθεί αποτελεσματικά, από το 2015 μέχρι και σήμερα, περισσότερους από 1.350.000 πρόσφυγες/μετανάστες, έχοντας ως γνώμονα την προστασία της ανθρώπινης ζωής και αξιοπρέπειας. Ειδικότερα, επισημαίνεται πώς, κατά το πρώτο 4μηνο του 2019 στην περιοχή δικαιοδοσίας των Δ.Α. Ορεστιάδας και Αλεξανδρούπολης έχουν πραγματοποιηθεί 3.130 συλλήψεις υπηκόων τρίτων χωρών, γεγονός που έρχεται σε αντίθεση με τις καταγγελίες περί επαναπροωθήσεων. Επιπλέον και κατά το συγκεκριμένο χρονικό διάστημα που αναφέρεται στις καταγγελίες (25-29.04.2019), πραγματοποιήθηκαν στην συγκεκριμένη περιοχή 101 συλλήψεις υπηκόων τρίτων χωρών ».

      https://www.efsyn.gr/node/193868

      Traduction de Vicky Skoumbi via la mailing-list Migreurop :

      La ministre grecque de Protection du Citoyen (euphémisme pour l’Ordre Public) Olga Gerovassili a démenti les accusations de refoulements illégaux à Evros –frontière nord-est de la Grèce avec la Turquie. En réponse à la lettre que lui avait adressée Philippe Leclerc, représentant de l’UNHCR en Grèce, où celui-ci évoque des témoignages des migrants concernant des mauvais traitements et des refoulements effectués par des forces de sécurité de la région d’Evros, la ministre a tout nié en bloc.

      Philippe Leclerc faisait état des témoignages qui dénoncent d’une part des renvois forcés vers la Turquie, sans que les procédures légales soient respectées, et d’autre part des violences et des violations graves des droits humains, ainsi que des cas où on a interdit aux réfugiés et aux migrants l’accès au mécanisme de l’asile.

      Mme Gerovassili soutient que « les comportements et les pratiques dénoncées ne font nullement partie des modes opératoires et des pratiques du personnel de la Garde-Frontière, qui est surtout impliqué à des actions de contrôle du phénomène d’immigration illégale aux frontières gréco-turques. L’investigation des incidents dénoncés jusqu’à aujourd’hui et les enquêtes internes réalisées par les services compétents ont conduit à la conclusion que ces incidents ne peuvent pas être confirmés ».

      La ministre prétend que « l’expérience, le professionnalisme et l’éthos du personnel policier de la Garde-Frontière, ne laissent aucun doute sur le fait qu’ils opèrent avec un très haut sens de responsabilité et d’humanisme. Pour corroborer ce fait, elle souligne le fait qu’à Evros des opérations de sauvetage ont eu lieu plusieurs fois sous de conditions extrêmement dangereuses : les policiers opèrent au péril de leur propre vie pour la protection de la vie des migrants, lorsque ceux-ci sont bloqués à des endroits dangereux du fleuve Evros.

      La ministre ajoute que les officiers de Frontex qui sont impliqués dans des opérations conjointes avec les policiers grecs n’ont jamais dénoncé des cas de refoulement illégal ou de violation de droit de migrants de la part des agents grecs.

      Dans la lettre que la ministre a adressée à Philippe Leclerc, il est dit que le personnel policier agit sous des consignes et ordres spécifiques, tandis qu’il est souvent amené à suivre des programmes de formation spécifiques à la protection des droits fondamentaux de migrants. D’après la ministre, les consignes données mettent en avant la nécessité de protéger la vie et la dignité humaine, d’éviter toute discrimination, de s’en tenir à l’usage légal de la violence et au principe du non-refoulement. « Dans ce cadre, les agents de police sont contrôlés et évalués en continu, par leurs supérieurs hiérarchiques », dit la ministre.

      Enfin Mme Gerovassili met en avant le fait que 3.130 arrestations de ressortissants de pays tiers ont été effectuées pendant les quatre premiers mois de 2019 dans les régions d’Orestiada et d’Alexandroupolis- proches d’Evros- ce qui, d’après la ministre, contredit les accusations de refoulements illégaux. « Qui plus est, pendant la période précise où les faits dénoncés auraient pu avoir lieu (25-29.04.2019), 101 arrestations de ressortissants de pays tiers ont eu lieu dans cette région ».

      Avec ce commentaire :

      N’en déplaise à la ministre, les faits sont têtus et aucun démenti ne saurait entamer la crédibilité de rapports des ONG et des témoignages comme ceux par ex. rapportés par le Conseil Grec pour les Réfugiés

      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1067-gcr-and-cear-publish-a-joint-video-documenting-the-harsh-reality-of-pushbac

    • Εvros Pushbacks

      The Greek Council for Refugees and CEAR (C​omisión Española de Ayuda al Refugiado), with the support of the Municipality of Madrid, publish together a video on pushbacks in Evros, today, March 20, three years since the implementation of the EU-Turkey Joint Statement, of which the consequences are obvious in Greece’s northern border, as well as on the Eastern Aegean islands. The shattering testimonies of people who attempted to enter Greece from the Turkish border and were violently pushed back to Turkey, without ever being given the opportunity to apply for asylum, reveal the systematic nature of the pushbacks practice, in direct violation of Greek, EU and international law.

      https://www.youtube.com/watch?v=LAyuOlohOss


      #routes_migratoires #accord_UE-Turquie #parcours_migratoires #Pavlos_Pavlidis #identification #corps

      Le #cimetière :


      ... qui ne semble plus être le même que celui qu’on avait visité en 2012 :

    • Ces migrants mystérieusement refoulés de Grèce en Turquie

      C’est un sujet qui, régulièrement, vient mettre en porte-à-faux les autorités grecques : l’accueil des migrants qui traversent le fleuve Evros. Frontière entre la Turquie et la Grèce, ce fleuve sert de point d’entrée en Europe pour les migrants venus d’Asie, d’Afrique ou tout simplement de Turquie.

      Et si la traversée du fleuve n’est pas insurmontable, en revanche, les conditions d’accueil sont sujettes à critique par les ONG et même par les migrants.

      L’équipe d’euronews à Athènes en a rencontrés. Ils racontent comment les policiers grecs ont pour habitude de les refouler, sans ménagement.

      Mikail est turc, demandeur d’asile en Grèce. Il explique qu’il a traversé le fleuve avec un groupe de 11 personnes. Lorsqu’ils sont arrivés sur le sol grec, des policiers les ont arrêtés. « Les types portaient des tenues militaires, raconte-t-il. Et ils avaient des matraques. On aurait dit qu’ils partaient en guerre. Nous, on a essayé de comprendre pourquoi ils se comportaient ainsi. Ils nous ont simplement dit : "On va vous renvoyer chez vous". »

      « Mes enfants étaient à côté de moi, ajoute Gulay, réfugiée turque_. Ils m’ont dit : "Maman, y vont nous tuer ?" Je leur ai dit : "Non, ils ne vont pas nous tuer. Ils veulent juste nous renvoyer en Turquie"._ »

      Le groupe de ces 11 migrants parviendra malgré tout à rester en Grèce. D’autres n’ont pas eu cette chance.

      Le 4 mai, trois personnes, deux hommes et une jeune femme, ont traversé le fleuve. Craignant d’être refoulés, ils ont prévenu un proche vivant déjà en Grèce ainsi qu’un avocat. Ils ont envoyé une photo prise dans la ville de #Nea_Vyssa.


      https://twitter.com/zubeyirkoculu/status/1124764045024821249?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed&ref_url=https

      Ils ont ensuite été emmenés dans un commissariat de police à Neo Xeimonio. Et là, on a perdu leur trace. On a appris plus tard qu’ils avaient été renvoyés en Turquie, et qu’ils étaient désormais emprisonnés dans la ville turque d’Edirne.

      Ishan, le frère de la jeune femme raconte qu’il est allé au commissariat de police pour savoir ce qui était advenue de sa sœur. « Je leur ai dit : "je sais que ma sœur a été arrêtée et qu’elle était ici". Ils m’ont juste dit : "On n’est au courant de rien". »

      « Nous avons sollicité les autorités grecques pour en savoir davantage sur cette affaire, ajoute Michalis Arampatzoglou, journaliste d’euronews . Le ministère de la Protection civile a dit n’avoir aucune information sur cet incident. Pour autant, des cas comme celui-là, il y en a de plus en plus. Les avocats des victimes comptent engager des poursuites judiciaires, pour que enquêtes soient menées et que la lumière soit faite. »

      https://fr.euronews.com/2019/05/16/ces-migrants-mysterieusement-refoules-de-grece-en-turquie


    • https://twitter.com/zubeyirkoculu/status/1124764045024821249?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed&ref_url=https

      Je copie-colle ici le thread twitter:

      Breaking: 3 Turkish nationals, Kamil Y, Ayse E, Talip N, have crossed the Turkish-Greek border through Evros on May 4 at 5 am, they were taken into custody at #Xeimonio police station. A family member and a lawyer in the region, however, were told by the Police they are absent.
      Ms. Ayse E. sent her location at Xeimonio before they were detained, she also shared a video urging Greek authorities to stop any possible push-back.
      We are Turkish political asylum seekers. We fled persecution back in Turkey and crossed Evros on May 4 at 5 am. We are hiding near Nea Vyssa in fear of push-back. We urge the United Nations and Greek authorities to protect us from being pushed back."

      The latest live location Ms. Ayse shared with me was from #Xeimonia Police station which proves 3 Turkish asylum seekers taken into custody. The Greek police currently inform their lawyer that there are no such persons in the custody which might mean another push-back on the way.

    • ’Masked men beat us with batons’: Greece accused of violent asylum seeker pushbacks

      Scores of Turkish asylum seekers have been pushed back — sometimes violently — from Greece in the last three weeks, lawyers and family members told Euronews.

      Witnesses claim various groups of masked men in military uniform, as well as those in plain clothes collaborating with the police, used physical force against those who resisted.

      There have been 82 people from Turkey, including children, that have sought political asylum in neighbouring Greece and been sent back since April 23.

      Around half have been detained or arrested by Turkish authorities upon their return to their home country on terrorism charges.

      They have been linked to the Gulen Movement, which Ankara blames for the failed 2016 coup, or the Kurdistan Workers’ Party (PKK), who have been involved in an armed struggle with the Turkish state over independence.

      The European Commission has urged Greece to follow up on the allegations that Euronews has detailed in this article.

      ’Violently pushed back’

      “We are Turkish political asylum seekers,” began Ayse Erdogan in a video she sent to a family member.

      “We fled persecution in Turkey and crossed [at] Evros on May 4, at 5 am. We are hiding near Nea Vyssa [on the Greek-Turkey land border] in fear of a push back. We urge the United Nations and Greek authorities to protect us from being pushed back.”

      Ayse, who had crossed the border with friends Kamil and Talip, was picked up by Greek police and taken into custody at a police station in the village of Nea Cheimonio. Hours later, Ayse would be part of a group of migrants that were allegedly violently pushed back to Turkey by Greek police.

      Nea Cheimonio was the last place that Ayse’s family was able to pick up a location signal from her phone.

      The same day, accompanied by a lawyer, Ayse’s twin brother, Ihsan Erdogan, who is a registered asylum seeker in Greece, went to the police station in Nea Cheimonio, based on her last location information. He was told his sister and her friends had never been held there.

      On May 5, Ihsan received a phone call from a family member saying his sister had been imprisoned by a court in the northwestern province of Edirne, over the border in Turkey.

      The relative had spoken to Ayse, who said her Turkish group, along with a number of Syrians, had been handed over to a group of masked men soon after they left the police station in Nea Cheimonio. Greek police, she claimed, seized their belongings including her phone.

      Ihsan rues that his sister was seemingly sent back just before he arrived in Nea Cheimonio. “I urge Greek authorities not to send others like my sister back to prison,” he told Euronews.
      ’Masked men beat us with batons’

      Freshly-graduated as a mathematics teacher, Ayse had spent 28 months in prison over alleged affiliation with the Gulen Movement, an organisation Turkish authorities have outlawed.

      Hundreds of people were arrested in the aftermath of the failed putsch in 2016 and accused of links to US-based Muslim cleric Fethullah Gulen.

      Ayse was not the only political asylum seeker allegedly sent back to Turkey in what appears to be a violation of international asylum law.

      On April 26 this year, at Soufli, a border town near Evros River, a group of 11 people — including three children, a pregnant woman and another one that was disabled — was sent back by masked men after being beaten violently, according to a journalist in the group.

      “Masked men beat us with batons,” said Tugba Ozkan, who is 28 and pregnant. "We are in a very dire situation. We are afraid to be pushed back again. We need help.

      “I had forgotten about my pregnancy,” she added. “I tried to stop Greek police by moving ahead but they pushed me, too. It was unbelievable and unforgettable to see my husband beaten in front of my eyes.”
      No acknowledgement from Athens

      According to the account of the group, the police cooperated with a group of masked men who forced them to return to Turkey. The group managed to cross the border again the next day, only to be detained officially and come face-to-face with a police officer who had pushed them back at Soufli. They were released under the protection of a UNHCR officer on April 30.

      Greek NGOs published reports last year with testimonies from people from various nationalities who were allegedly sent back to Turkey via Evros after being beaten by masked men.

      The UN’s refugee agency (UNHCR) and the Commissioner for Human Rights of the Council of Europe urged Greek authorities to investigate those reports.

      The claims of violent push back operations at Evros river, however, have never ended. None have been officially acknowledged by Athens.

      Greece police declined to comment after requests by Euronews regarding the latest push back allegations.

      A European Commission spokesman, speaking to Euronews, said that they were aware of the recent push back claims.

      “The Commission expects that the Greek authorities will follow up on the specific allegations and will continue to closely monitor the situation,” he said.

      https://www.euronews.com/2019/05/11/masked-men-beat-us-with-batons-greece-accused-of-violent-asylum-seeker-pus

    • Migrants tortured by Greek police, illegally pushed back to Turkey

      Three migrants allegedly tortured by Greek security forces and illegally pushed back to neighboring Turkey were found by Turkish border units and are being provided medical treatment in northwestern Edirne province.

      Iraqi national Ibrahim Khidir (35) and Egyptian nationals Hassan Mahmoud (18) and Ahmed Samir (26) were found in a rural area, half-naked and exhausted with deep marks from plastic bullets and battering on their bodies. They were taken under protection by soldiers, who gave first aid to the migrants before handing them over to the provincial migration management directorate.

      The migrants told reporters that they crossed into Greece with a group of seven other illegal migrants after making arrangements with human smugglers in Istanbul’s Esenyurt district. They were held by the Greek police at the coach station in the border district of Didymoteicho while trying to travel to Thessaloniki. They were then taken to a local police station, where they spent two days along with 35 other illegal migrants and were denied any food.

      The migrants said they were divided into groups of 10 and boarded boats with two Greek police officers accompanying each and six officers watching guard. They were pushed back to Turkey through the Maritsa River (Meriç in Turkish, or Evros in Greek) forming the border with Greece.

      The violence that began at the police station, which included battering with truncheons, shooting with plastic bullets and electroshocks, continued at the riverside and on the boats.

      Khidir told reporters that Greek security forces captured him in Didymoteicho and tortured him with electroshocks, rear-handcuffing and plastic bullets fired at his body. His clothes and money were taken when he was detained.

      Turkish soldiers treated them very well and took care that they received treatment, according Khidir.

      Mahmoud and Samir also said that they were pushed back to Turkey after being stripped of their clothes and beaten up.

      Under international laws and conventions, Greece is obliged to register any illegal migrants entering its territory; yet, this is not the case for thousands of migrants were forcibly returned to Turkey especially since the beginning of refugee influx into Europe in 2015. Security sources say that accounts of migrants interviewed by Turkish migration authority staff and social workers show that they were subjected to torture, theft and other human rights abuses. Several migrants were also found frozen to death after being left in desolate areas.

      Similar incidents have also taken place on the Aegean, in which migrants and Turkish locals accused the Greek coast guard of deflating their boats or re-routing them back to Turkish territorial waters.

      Turkey and the European Union signed a deal in 2016 to curb illegal immigration through the dangerous Aegean Sea route from Turkey to Greece. Under the deal, Greece sends back migrants held in the Aegean islands they crossed to from nearby Turkish shores and in return, EU countries receive a number of Syrian migrants legally. The deal, reinforced with an escalated crackdown on human smugglers and more patrols in the Aegean, significantly decreased the number of illegal crossings.

      Bulgarian border authorities were also accused of abuses targeting migrants and pushing them back to Turkey in several incidents.

      However, some desperate migrants still take the route across the better-policed land border between Turkey, Greece and Bulgaria, especially in winter months when a safe journey through the Aegean is nearly impossible aboard dinghies.

      https://www.dailysabah.com/turkey/2019/05/30/migrants-tortured-by-greek-police-illegally-pushed-back-to-turkey/amp
      #torture

    • Greece continues to push asylum seekers back to Turkey

      Greek border forces along the Evros River pushed 59 migrants back into Turkey on Friday morning, signaling the continuation of a policy that started before the arrival of the new government.

      The pushback was reported by Zübeyir Koçulu, an Athens-based Turkish journalist who tweeted, “It seems nothing has changed on the Evros regarding pushbacks following a recent government change in Greece.”

      A total of 59 asylum seekers, nine of them Turkish and the remainder Afghans, Syrians and Somalis, were illegally sent back to Turkey, according to Koçulu.

      “The Greek police collected the group soon after their arrival and held them in custody at the Tychero police station for four hours,” he said. “After seizing their phones, security officers pushed the 59 people through the river near Soufli by force, perpetrating violence, according to witnesses.”

      He further claimed that Turkish political asylum seekers in the group were detained by Turkish security forces soon after the pushback. Three children in the group were delivered to their relatives.

      The Evros River, which forms most of the land border between the two countries, was one of the main routes used by Turkish asylum seekers fleeing government persecution as well as migrants of other nationalities until a series of violent pushback operations a few months ago stopped the flow.

      “Ironically, Kyriakos Mitsotakis, the new PM of Greece, fled with his parents into exile in Turkey when he was a year old in 1968 during the Greek junta,” Koçulu said. “He knows what it is to be a migrant from his own experience.”

      https://www.turkishminute.com/2019/07/21/greece-continues-to-push-asylum-seekers-back-to-turkey

    • What is happening on the Greece-Turkey border?

      While migrant camps on the Aegean islands have reached breaking point, and with Turkey threatening to ’open the gates’, migrants continue to arrive in Greece in the hundreds every week. Most come by sea, but in recent months, growing numbers have crossed via the land route across the Evros River. Many claim they are subjected to violent and illegal treatment by authorities at the border.
      Since the deaths of 39 Vietnamese migrants smuggled by lorry into the UK, there have been many more reports of migrants stowing away in trucks and vans. The latest group of 41 people hiding in a truck crossing from Turkey into northern Greece were reportedly mostly Afghan men between the ages of 20 and 30. Some reports said they were in danger of suffocation when they were discovered.

      On the Greek-Turkish border, smugglers are regularly caught transporting migrants in minibuses or trucks. There are mixed reports about how many people cross via this border. According to the UN migration agency, IOM, the number has risen steadily in recent months – from 255 arrivals in May to 1,233 in September.

      While the focus remains on the overcrowded migrant camps on the Aegean islands, which have seen a much bigger surge in arrivals during the same period, there has been less attention given to what is happening on the land border.

      ’Brutal treatment’

      There have been reports of violence and illegal activities by some Greek authorities against migrants crossing the Evros river since as early as mid-2017. These have included claims that migrants have been arrested, beaten up, robbed, detained, and forcibly returned or “pushed back” into Turkey.

      Dorothee Vakalis from Naomi, a refugee aid organization in Thessaloniki, says migrants continue to be subjected to “brutal treatment” by authorities at the border. “Everything gets taken away from them, phones, money, sometimes clothing as well. They are sent back to the other side practically naked,” she said on German radio on Tuesday. “We hear from relatives about families with small children, pregnant women being pushed back,” Vakalis said.

      Beaten by masked men

      According to an account of a case in April reported in Euronews, men wearing masks beat several migrants with batons before sending them back. In the group was a 28-year-old pregnant woman, Tugba Ozkan. “I had forgotten about my pregnancy,” Ozkan told Euronews. “I tried to stop Greek police by moving ahead but they pushed me, too. It was unbelievable and unforgettable to see my husband beaten in front of my eyes.”

      InfoMigrants was also in contact last year with a Kurdish couple who said they were locked in a small dark room with many others before being taken by masked commandos back across the border into Turkey.

      It is not clear who is carrying out the push backs, because they often wear masks and cannot be easily identified. The Hellenic League for Human Rights (HLHR) and Human Rights Watch describe them as paramilitaries. Eyewitnesses interviewed by Human Rights Watch said people who “looked like police officers or soldiers, as well as some unidentified masked men, carried handguns, handcuffs, radios, spray cans, and batons,” and others carried gear such as “armored gloves, binoculars and knives and military-grade weapons such as rifles.”

      The HLHR has suggested that the Greek police are either unaware of the existence of these paramilitaries or they turn a blind eye to them. According to Human Rights Watch, accounts suggest "close and consistent coordination “between police and unidentified men.” ..."Commanding officers knew, or ought to have known, what was happening," HRW’s report claims.

      Calls for investigation

      The Greek Refugee Council and other NGOs published a report in 2018 containing testimonies from people who said they had been beaten, sometimes by masked men, and sent back to Turkey. The UNHCR and the European Human Rights Commissioner have called on Greece to investigate the claims. Late last year another report by Human Rights Watch also based on testimonies of migrants, said that violent push backs were continuing.

      Turkey has also urged Greece to stop the practice of push backs. The Turkish foreign ministry recently claimed that a total of 25,404 irregular migrants were pushed back to Turkey in the first month of this year, according to the IPA news service. Turkey says it has evidence that the push backs are occurring and has invited the Greek government to “work on correcting the policy.” Greece has not acknowledged that violent push backs are occurring.

      According to some of the testimonies in the report by the Greek Refugee Council, Turkey is also responsible for carrying out push backs of Syrian and Iraqi single men.

      I believe these illegal push backs are not even known about or discussed in Europe or in Germany.
      _ Dorothee Vakalis, humanitarian worker with ’Naomi’ in Thessaloniki

      The European Commission spokesperson Natasha Bertaud has confirmed that the Commission contacted Greek authorities about reports of alleged push backs earlier this year. “The Commission expects that Greek authorities will follow up on the specific allegations and will continue to monitor the situation closely,” Bertaud said.

      Legal returns and illegal push backs

      The Evros River runs along 194 km of the 206 km of land border between the EU and Turkey. This border is not covered by the so-called EU-Turkey Statement, the agreement signed between Turkey and Europe in 2016 which allows the return to Turkey of Syrian migrants who arrive irregularly in Greece by sea.

      The land border was covered by a separate bilateral migrant readmission deal between Turkey and Greece. Turkey canceled that agreement last June because Greece refused to hand over several Turkish officers who escaped to Greece after Turkey‘s failed military coup in 2016.

      Push backs are prohibited by Greek and EU law, as well as international treaties and agreements, including the Geneva Convention on Refugees, which guarantees the right to seek protection. They go against the principle of non-refoulement, which means the forcible return of a person to a country where they are liable to be subject to persecution.

      https://www.infomigrants.net/en/post/20626/what-is-happening-on-the-greece-turkey-border
      #statistiques #chiffres

    • Griechenland soll 60.000 Migranten illegal abgeschoben haben

      Menschenrechtler und die Türkei beschuldigen Griechenland, Migranten und Flüchtlinge illegal abzuschieben. Türkische Dokumente, die dem SPIEGEL vorliegen, sollen die Anschuldigungen belegen.

      Am 3. November 2019 greift die die türkische Polizei 252 Migranten in der Nähe des Grenzübergangs Kapikule auf. Danach wird sie einen brisanten Aktenvermerk anfertigen: Die Migranten hätten es über die Grenze nach Griechenland geschafft, schreiben die türkischen Beamten später in ihrem Bericht. Aber dann seien sie gegen ihren Willen zurückgebracht worden, ohne Chance auf einen Asylantrag.

      „Push-Backs“ nennen sich diese illegalen Rückführungen von Migranten und Flüchtlingen. Sie sind nach europäischem und internationalem Recht verboten. Dieses schreibt den Staaten vor, potenziellen Asylbewerbern den Zugang zu einem effektiven Asylverfahren zu gewähren.

      Seit Jahren beschuldigen Menschenrechtsorganisationen und Anwälte griechische Behörden, Migranten am Grenzfluss Evros illegal in die Türkei abzuschieben. Der SPIEGEL hat nun türkische Dokumente erhalten, darunter auch die Aufzeichnungen der Polizisten über den Vorfall am 3. November. Diese legen nahe, dass Griechenland im großen Stil illegale Push-Backs an der Grenze zur Türkei durchführt.

      Harte Anschuldigungen gegen Griechenland

      In der Migrationspolitik liegen die Türkei und Griechenland schon lange im Clinch, Anfang November erreichte der Konflikt zwischen den Erzrivalen einen neuen Höhepunkt: Das türkische Außenministerium beschuldigte die griechischen Behörden, Flüchtlinge verhaftet, sie geschlagen, ihre Kleider geraubt, Habseligkeiten beschlagnahmt und sie dann in die Türkei zurückgeschickt zu haben. „Wir haben Fotos und Dokumente“, fügte das Ministerium hinzu.

      Der griechische Premierminister Kyriakos Mitsotakis reagierte knapp. „Diejenigen, die die Flüchtlingskrise ausgenutzt haben, indem sie die Verfolgten als Spielball für ihre eigenen geopolitischen Ziele benutzt haben, sollten vorsichtiger sein, wenn sie sich auf Griechenland beziehen.“

      Mehr als 58.000 Push-Backs in einem Jahr

      Das türkische Material umfasst Fallberichte und Interviewprotokolle. Zudem Fotos, die angeblich Migranten zeigen sollen, die von griechischen Behörden misshandelt wurden. Dazu enthält es bisher unveröffentlichte Daten, die vom türkischen Innenministerium zusammengestellt wurden.

      Diesen Daten zufolge hat Griechenland in den zwölf Monaten vor dem 1. November 2019 insgesamt 58.283 Migranten zurückgeschafft. Die meisten registrierten Fälle betrafen pakistanische Staatsangehörige (16.435), gefolgt von Afghanen, Somaliern, Bangladeschern und Algeriern. Dazu kommen mehr als 4.500 Syrer.

      Dem Dokument nach lag die Zahl der gemeldeten Push-Backs allein im Oktober bei mehr als 6.500. Ein endgültiger Beweis sind die Dokumente nicht, die Anschuldigungen der Migranten lassen sich nicht unabhängig verifizieren. Und Griechenland bestreitet die Vorwürfe. Allerdings stimmen sie mit ähnlichen Berichten von Menschenrechtsorganisationen überein. Die Menge der Zeugenaussagen verschärft die Zweifel an den griechischen Unschuldsbeteuerungen.

      Die am 3. November festgenommenen Asylbewerber wurden nach türkischen Angaben später von der türkischen Polizei befragt und in ein Abschiebezentrum in Edirne gebracht, die Stadt liegt etwa 10 Kilometer von der Grenze entfernt. Alle bis auf die Syrer würden in ihre Herkunftsländer zurückgeschickt, erklärte ein türkischer Beamter. Die Syrer würden an den türkischen Ort zurückgebracht, an dem sie sich zuerst registriert hätten.

      Beraubt, eingesperrt, zurückgebracht: Die Geschichte eines Syrers

      Einer der acht Syrer, die am 3. November von der türkischen Polizei verhaftet worden sind, gibt an, mit seiner Frau vier Jahre zuvor aus Aleppo geflohen zu sein. So geht es aus der Abschrift des Interviews hervor. Zunächst habe der studierte Jurist demnach als Kassierer in Istanbul gearbeitet. Dann habe er „aus wirtschaftlichen Gründen“ beschlossen, nach Griechenland zu gehen.

      Mit einem Schmuggler überquerte der Syrer die Grenze, in der griechischen Stadt Alexandroupolis schließlich stellten er und seine Frau sich der Polizei, um Asyl zu beantragen. Stattdessen seien allerdings ihre Besitztümer beschlagnahmt, sie selbst in eine Zelle gesteckt worden. Laut Interviewabschrift wurden die beiden Syrer zwei Tage später von der griechischen Polizei zusammen mit anderen Migranten zurückgebracht.

      14 Polizisten sollen die Gruppe zum Fluss Evros begleitet haben, auf 150 Kilometern markiert er die natürliche Grenze zwischen den beiden Ländern. Anschließend hätten zwei Polizisten das Paar in einem Boot zurück auf die türkische Seite befördert.

      Griechisch-türkisches Grenzgebiet

      In letzter Zeit würden vermehrt Migranten zurückgebracht, nachdem sie mit Booten den Evros überquert hätten, heißt es in dem Bericht der türkischen Behörden. So gibt der Gouverneur von Edirne in einem Schreiben vom 29. Oktober an das türkische Innenministerium an, dass zwischen Anfang Januar und Ende September insgesamt 91.681 illegale Migranten in seiner Provinz aufgegriffen worden seien.

      Dies sei ein dramatischer Anstieg im Vergleich zu den knapp 30.000 Festgenommenen im Jahr 2016. Laut türkischen Behörden gaben mehr als 55 Prozent der festgenommenen Migranten an, es nach Griechenland geschafft zu haben, aber trotzdem zurückgebracht worden zu sein.

      Die Zahl spiegelt den erhöhten Druck an den Außengrenzen Europas wider. Seit dem Frühsommer steigt die Zahl der Migranten, die auf den griechischen Inseln in der Ägäis ankommen. In den vergangenen Monaten versuchen auch wieder deutlich mehr Migranten, den Evros auf illegalem Weg zu überqueren. Nach den Daten des UNHCR kamen 2018 über den Evros mehr als 18.000 Migranten in die EU - ein Anstieg von 173 Prozent gegenüber 2017.

      Die Überquerung des reißenden Grenzflusses ist gefährlich, immer wieder endet sie tödlich. Die Route hat aber auch Vorteile: Wer es unerkannt über den Fluss schafft, wird nicht wie auf den griechischen Ägäis-Inseln unter unmenschlichen Bedingungen in ein Lager gepfercht. Zudem liegt die Region viel näher an der Balkan-Route, die von Nordgriechenland nach Mittel- und Nordeuropa führt und wieder verstärkt genutzt wird.

      Die griechischen Behörden weisen die türkischen Vorwürfe zurück. Es gebe keine Push-Backs, teilte ein Sprecher des griechischen Ministeriums für Bürgerschutz auf Anfrage mit. Bisher haben griechische Behörden nur wenige der Beschwerden überprüft - und fanden demnach keine Beweise für Fehlverhalten.

      Nicht nur türkische Behörden sprechen allerdings von systematischen illegalen Abschiebungen: Menschenrechtler werfen Griechenland und anderen europäischen Staaten an der Außengrenze schon seit Jahren Push-Backs vor und dokumentieren diese. Auch in der griechischen und internationalen Presse wird immer wieder über einzelne Vorfälle berichtet (lesen Sie hier einen SPIEGEL-Bericht). Der Europarat spricht von „glaubwürdigen Anschuldigungen“, und auch das Flüchtlingshilfswerk der Uno zeigte sich bereits besorgt.

      Die Menschenrechtskommissarin des Europarates, Dunja Mijatovic, erklärte auf SPIEGEL-Anfrage, dass in den letzten Jahren sowohl in der Türkei als auch in Griechenland illegale Abschiebungen dokumentiert worden seien - und mahnte eine menschlichere Migrationspolitik an.

      https://www.spiegel.de/politik/ausland/griechenland-soll-zehntausende-migranten-illegal-in-die-tuerkei-abgeschoben-

      #renvois #expulsions #réfugiés #asile #migrations #Turquie #Grèce #push-back #refoulement #refoulements

    • Greece illegally deported 60,000 migrants to Turkey: report

      Greece illegally deported 60,000 migrants to Turkey, documents released by Turkey reportedly show. The process involves returning asylum seekers without assessing their status.

      Greece illegally deported about 60,000 migrants to Turkey between 2017 and 2018, according to a report on the online news portal of weekly German magazine Spiegel, published on Wednesday evening.

      Turkey is accusing Greece of not properly dealing with the asylum status of migrants. Instead, Turkish Interior Ministry files claim that Greece illegally transported 58,283 people to Turkey in the 12 month period leading up to November 1, 2018.

      Greece is disputing the accusations, with Prime Minister Kyriakos Mitsokasis saying Ankara was playing games: “Those people who have used the refugee crisis to their own ends should be more careful when dealing with Greece.”

      A Greek Foreign Ministry spokesman told German news agency dpa that Athens had denied similar accusations “many times” already.

      This so-called “push back” of asylum seekers is illegal under European and international law. The state is obliged to assess the asylum status of new migrants rather than sending them to another country.

      Where were the migrants from?

      According to the Turkish documents, the largest proportion of migrants sent away from Greece were Pakistani, with large numbers from Somalia, Algeria and Bangladesh. 4,500 were Syrians.

      Turkish officials said they sent back most of the people back to their countries of origin except for the Syrians, who were sent back to the Turkish town where they originally registered as refugees.

      The governor of the Turkish-Greek border region of Edirne reported that over 90,000 migrants were arrested between January and September 2019, a big increase from the 30,000 arrested in the same region in 2016.

      https://www.dw.com/en/greece-illegally-deported-60000-migrants-to-turkey-report/a-51234698?maca=en-Twitter-sharing

    • Thousands of ’illegal’ Syrians and other migrants ejected from Istanbul

      Turkey says it has expelled nearly 50,000 migrants from Istanbul, including more than 6,000 Syrians. The government says the migrants were in the city illegally and will be made to leave Turkey.
      The Istanbul governor’s office said on Friday that 42,888 “illegal” migrants had been arrested and sent to repatriation centers, to be removed later from Turkey. It said 6,416 Syrians had been placed in “temporary refugee centers.”

      A campaign from July through to the end of October was aimed at reducing the number of unregistered refugees in Turkey’s biggest city. The country hosts about 3.6 million Syrians — more than any other country.

      Syrians who are registered in Turkey are given “temporary protection”, as the Turkish government does not offer them formal refugee status. Under the system, the Syrians have to stay in the province to which they were initially assigned, and can only visit other cities with short-term passes.

      In July, officials said that 547,000 Syrians were officially registered in Istanbul, and that no new registrations were being accepted. Interior Minister Suleyman Soylu said at the time that the aim was to expel 80,000 undocumented migrants by the end of the year.

      •••• ➤ Watch: Syrian refugees not ready to go home

      Public sentiment in Turkey towards Syrian refugees has worsened in recent years. The Turkish government wants to settle some of them in an area it now controls in northeast Syria, after it launched an offensive last month against the Kurdish YPG militia.

      Amnesty International and Human Rights Watch last month published reports saying Turkey was forcibly sending Syrian refugees to northern Syria. Turkey’s foreign ministry called the claims in the reports “false and imaginary.”

      https://www.infomigrants.net/en/post/20903/thousands-of-illegal-syrians-and-other-migrants-ejected-from-istanbul

    • Refugees ‘tortured and beaten by Greek soldiers’ before being sent back to Turkey

      Bruised and bandaged, a group of refugees show off the injuries they claim were caused by Greek soldiers. One says he was blindfolded and burnt with a cigarette while another said his foot ended up broken in several places. A third migrant claims the authorities confiscated his money and clothes while others say they have been hit over the head with sticks. Their allegations form part of a growing number of complaints made against Greek soldiers at the border with Turkey. In the past year, hundreds of people claim to have been tortured and abused before being physically pushed back over the border.

      Under international law, Greece is obliged to register any illegal immigrant that enters its territory. But Turkey claims they forcibly reject them and this year alone they allege Greece returned some 25,404 undocumented migrants. That figure has not been independently verified but there are allegations of severe abuse, which includes withholding food and water. Musaddiq Javed from Pakistan was one of 30 men who entered Greece last week on foot. He said the group were arrested as they walked towards #Xanthi but the police handed them over to Greek soldiers who allegedly ripped the Turkish liras they found on them. He recalled: ‘The soldiers brought me in a room and blindfolded me. They then burned my hand with a cigarette and kicked my feet.’

      Muhammad Nainiya from Morocco added: ‘They brought us near a river and put us on a boat and hit our heads with sticks.’ He said they were made to walk back into Turkey and eventually reached a village where local residents gave them clothes. Muhammed added: ‘The doctor told me that I had three broken bones on my foot and that it would need surgery. I had the surgery and stayed in the hospital for a week.’ The men are now staying at a refugee centre in Turkey after receiving medical treatment while the Greek authorities have yet to comment on the claims.

      Greece is struggling with the number of refugees on both the mainland and the islands. It has camps on five Aegean islands (Lesbos, Chios, Samos, Kos and Leros) with an official capacity of 6,178 people. Two days ago it was holding 35,590 men, women and children in unsanitary and dangerous conditions. The Greek government has pledged a crackdown and plans to convert the refugee camps into detention centres. Human rights groups say it would make it easier for Greece to detain asylum seekers for longer and scrap protections for already vulnerable people. Turkey and the EU signed a refugee deal in March 2016 which aimed to discourage irregular migration through the Aegean Sea. People arriving by boat to the Greek islands were to be returned to Turkey in exchange for EU nations to take Syrian refugees from Turkey.

      https://metro.co.uk/2019/11/26/refugees-tortured-beaten-greek-soldiers-sent-back-turkey-11223565/?ito=article.desktop.share.top.twitter

    • Illegal push-backs in Evros. Evidence of human rights abuses at the Greece/Turkey border


      https://static1.squarespace.com/static/597473fe9de4bb2cc35c376a/t/5dcd1da2fefabc596320f228/1573723568483/Illegal+Evros+pushbacks+Report_Mobile+Info+Team_final.pdf
      #Mobile_Info_Team

      Résumé ici:

      Mobile Info Team have published a new report on pushbacks from Greece to Turkey in the Evros region. They have been gathering data since August 2018 and have brought together 27 testimonies from people who have experienced this illegal practice.

      The procedure is similar in all cases. Firstly, arrest and capture by Greek police inside Greek territory, then detention and confiscation of personal property, followed by coordinated handoffs/transfers to authorities and finally, collective expulsion across the Evros River in small boats.

      The violent practices of Greek police are of critical concern. Established legal procedures stipulate that Greek police would meet asylum seekers on Greek land, escort them to police stations, take their personal data and register their requests for asylum. Their reported actions however ranged from complicit handovers to unidentified ‘commando’ groups, to perpetrating acts of violence and theft themselves.

      Many of the testimonies are deeply disturbing, although all pushbacks are illegal regardless of whether an individual or group is subjected to violence. Often people reported the deprivation of food and water, theft of property, detention in dirty and cramped spaces, unprovoked violent beatings and even electric shocks.

      https://medium.com/are-you-syrious/ays-daily-digest-27-11-19-evros-pushbacks-report-human-rights-abuses-at-gree

    • Έξι Μετανάστες Πέθαναν Από το Κρύο στον Έβρο

      Μια νέα θανάσιμη διαδρομή ανησυχεί τις Αρχές, ενώ οι ροές στον Έβρο αυξάνονται.

      Έξι μετανάστες βρέθηκαν νεκροί από το κρύο στον Έβρο, σε διάστημα 48 ωρών. Είναι η πρώτη φορά που καταγράφεται αντίστοιχος αριθμός θανάτων από υποθερμία, σε τόσο μικρό διάστημα. Επιπλέον, τα σημεία όπου εντοπίστηκαν τα τέσσερα από τα έξι θύματα, μαρτυρά ότι οι άνθρωποι που περνούν τον Έβρο και κατευθύνονται προς την ενδοχώρα επιλέγουν μια νέα διαδρομή, που ακολουθεί παράλληλα τα ελληνο-βουλγαρικά σύνορα και αποδεικνύεται θανάσιμη λόγω του άγριου εδάφους και των εξαιρετικά χαμηλών θερμοκρασιών.

      Το VICE πληροφορείται ότι οι έξι νεκροί μετανάστες βρέθηκαν στη διάρκεια του Σαββατοκύριακου, σε διαφορετικά σημεία. Πρόκειται για τέσσερις άντρες και δύο γυναίκες. Δεν υπάρχει κανένα στοιχείο για την ταυτότητά τους, καθώς δεν είχαν έγγραφα. Οι δύο γυναίκες είναι αφρικανικής καταγωγής, ενώ η ηλικία των θυμάτων εκτιμάται μεταξύ 18 και 30 ετών.

      Τα δύο πρώτα θύματα βρέθηκαν κοντά στο ποτάμι, σε χωράφι έξω από το χωριό Γεμιστή. Οι υπόλοιποι τέσσερις άνθρωποι, όμως, εντοπίστηκαν πολύ μακριά από τον Έβρο. Πιο ειδικά, δύο στο 17ο χιλιόμετρο της επαρχιακής οδού Μεγάλου Δέρειου-Σαπών και δύο έξω από το χωριό Κόρυμβος. Οι Αρχές προσπαθούν να διαπιστώσουν αν οι τέσσερις νεκροί στον ορεινό όγκο ήταν στην ίδια ομάδα που είχε περάσει τον Έβρο.

      Οι τελευταίοι θάνατοι, αλλά και μαρτυρίες ανθρώπων που κατάφεραν να φθάσουν στη Θεσσαλονίκη, αποκαλύπτουν ότι υπάρχει μια νέα διαδρομή μεταναστών. Προσπαθώντας να αποφύγουν την Εγνατία Οδό και τους ελέγχους της Αστυνομίας, οι μετανάστες περνούν το ποτάμι και κατευθύνονται στον ορεινό όγκο πίσω από το Σουφλί. Έπειτα, περπατούν κατά μήκος των ελληνο-βουλγαρικών συνόρων, ακολουθώντας χωμάτινους δρόμους και τις οδηγίες διακινητών που λαμβάνουν μέσω στιγμάτων στο GPS. Εκτός από τις οδηγίες, δεν έχει διαπιστωθεί φυσική παρουσία διακινητών κατά μήκος της διαδρομής, αναφέρουν πηγές.

      Οι μετανάστες θέλουν να φθάσουν στην Κομοτηνή και από εκεί να πάρουν το λεωφορείο για τη Θεσσαλονίκη. Το ταξίδι με τα πόδια από τον Έβρο ως την Κομοτηνή, μπορεί να διαρκέσει ως και επτά μέρες, ανάλογα με τις καιρικές συνθήκες. Η απότομη αλλαγή του καιρού και η σφοδρή κακοκαιρία που έπληξε την περιοχή, φαίνεται ότι ευθύνονται για τους μαζικούς θανάτους των τελευταίων ημερών, σε συνδυασμό με το γεγονός ότι στο βουνό δεν υπάρχουν σημάδια για να ακολουθήσουν.

      Όσοι μετανάστες επιλέγουν την παραπάνω διαδρομή, επιθυμούν να συνεχίσουν βόρεια προς την Ευρώπη, χωρίς να καταγραφούν στην Ελλάδα. Υπάρχει κάτι ακόμη. Άνθρωποι που περπάτησαν κατά μήκος των ελληνο-βουλγαρικών συνόρων ανέφεραν ότι έπεσαν θύματα ληστείας από αγνώστους, που φορούσαν ρούχα παραλλαγής, όπως περιέγραψαν. Σε μια περίπτωση, τους άρπαξαν χρήματα και κινητά. Σε μια δεύτερη, γυναίκα από το Ιράν ανέφερε ότι τους άφησαν να συνεχίσουν, επειδή εκείνη τους μίλησε στα τούρκικα, στοιχείο που δείχνει πιθανή εμπλοκή ατόμων από τα μειονοτικά χωριά.

      Όλα αυτά συμβαίνουν, ενώ οι ροές στον Έβρο αυξάνονται και η κυβέρνηση σχεδιάζει να λάβει επιπλέον μέτρα για την ανάσχεσή τους, μεταξύ αυτών την επέκταση του φράχτη που υπάρχει από το 2012 στο μοναδικό χερσαίο τμήμα των συνόρων. Ο φράχτης έχει μήκος 12 χιλιόμετρα και εκ του αποτελέσματος απλώς μετάφερε τα περάσματα προς τα νότια, σε άλλα σημεία του ποταμού. Στον σχεδιασμό της κυβέρνησης περιλαμβάνεται επίσης η δημιουργία μιας δεύτερης ζώνης ελέγχου στην Εγνατία Οδό, καθώς και η ανάπτυξη των ηλεκτρονικών μέσων με τα οποία ελέγχονται τα περάσματα στον Έβρο.

      https://www.vice.com/gr/article/a355mk/e3i-metanastes-pagwsan-kai-pe8anan-apo-to-krio-ston-ebro

      –----------

      Source : un tweet de Bruno Tersago :

      Bodies of 6 #refugees/#migrants found near #Evros river (border #Greece/#Turkey). Aged between 18 and 30. Apparently frozen to death.

      https://twitter.com/BrunoTersago/status/1204405077936627717

      #décès #morts #mourir_de_froid

    • Six migrants retrouvés morts de froid à la frontière gréco-turque

      Six migrants ont été retrouvés morts de froid ces derniers jours dans la région de l’Evros, à la frontière entre la Grèce et la Turquie, a annoncé mardi Pavlos Pavlidis, le médecin légiste de l’hôpital d’Alexandroupoli en charge des autopsies.

      Les six migrants, deux femmes africaines et quatre hommes dont les âges étaient évalués de 18 à 30 ans, sont morts d’hypothermie entre jeudi et dimanche derniers, a précisé à la presse le médecin légiste. Aucun document d’identité n’a été retrouvé sur ces migrants, rendant le processus d’identification complexe. La région frontalière de l’Evros séparant la Grèce de la Turquie est un lieu de passage privilégié par les passeurs depuis la signature de l’accord UE-Turquie en 2016 et le renforcement des patrouilles navales en mer Égée.

      Malgré un mur de 12 km de long à la frontière gréco-turque, les trafiquants ont trouvé des points de passage pour les migrants, situés au sud des barbelés. Le gouvernement grec a annoncé en novembre l’embauche de 400 gardes-frontières dans la région de l’Evros et le renforcement de la surveillance à la frontière avec des radars infrarouges. La traversée de la rivière est particulièrement dangereuse. De nombreux migrants ont été retrouvés noyés ces dernières années. Des réseaux de passeurs entassent également souvent des dizaines de migrants dans des voitures, conduites à grande vitesse pour échapper aux contrôles policiers, entraînant des accidents fréquents.

      Début novembre, quarante-et-un migrants ont été découverts vivants, cachés dans un camion frigorifique intercepté sur une autoroute du nord de la Grèce. Pour la première fois depuis 2016, la Grèce est redevenue cette année la principale porte d’entrée des demandeurs d’asile en Europe. Le flux migratoire via les îles de la mer Egée face à la Turquie reste le plus important avec plus de 55000 arrivées en 2019 selon le HCR, l’Agence des Nations unies pour les réfugiés. Mais les arrivées via la frontière terrestre avec la Turquie sont en augmentation depuis 2018. En 2019, plus de 14000 personnes ont emprunté ce chemin périlleux selon le HCR.

      https://www.lefigaro.fr/flash-actu/six-migrants-retrouves-morts-de-froid-a-la-frontiere-greco-turque-20191210

    • Statement: Four Push-Back Operations at the Greek-Turkish Land Border Witnessed by the Alarm Phone

      The Alarm Phone witnessed four illegal push-back operations at the Greek-Turkish land border over the course of ten days.

      CASE 1: The first case occurred on Saturday the 30th of June 2018. In the early morning, we had been informed about a group of people along the Turkish-Greek land border that was in need of support. Five of them were from Syria, five from Sierra Leone, six men, two women, and two children. We contacted the travellers, received their GPS position, and notified the police to their whereabouts, as the travellers had asked us to do. The police confirmed to us that they would search for them. Hours later, in the early afternoon, one of the members of the group told us that she was on her way back to Istanbul. She informed us about what had happened to them: At around 9am local time, they had been found by Greek officers in blue & black uniforms. Their belongings was taken away, and at least 5 of them were forced back to Turkey. They had not taken any pictures as their phones had been taken away. Our contact person had been able to hide her phone. They were kept in confinement for about one hour and treated badly, “like dogs” she said, before being forced onto a boat that returned them illegally to Turkey.

      CASE 2: On Thursday the 5th of July, the second push-back operation was observed by the Alarm Phone. We had received a distress call from a group of Syrian, Iraqi, Yemeni and Sudanese migrants who had crossed into Greece seeking international protection. The group was found by the Greek police. The police handed the group to Greek officers who did not hesitate to use violence and intimidation. They were beaten, robbed, and forced onto a boat that returned them to Turkish territory.

      CASE 3: In the night of 5th-6th of July 2018, a group of 12 people from Syria and Iraq, including two women, one of whom was elderly, two children (six and eleven years old), and eight men, was reportedly apprehended on Greek soil near Mikrochori in Evros region and pushed back to Turkey. It remains unclear what happened to them upon return to Turkey.

      CASE 4: In the night of 9th-10th of July 2018, 19 people from Syria and Iraq, including a one-year-old child, a pregnant woman and a man with a broken leg, were reportedly pushed-back from Greece to Turkey at the land border in Evros. They arrived on 9th July and had sent a SOS-call to the Alarm Phone. The first GPS coordinates received showed their position near Filakto. The group said they had sick kids with them and they were very hungry. A second set of GPS coordinates sent showed them at a position near Provatonas. Communications with the group broke down in the afternoon and only in the late morning of the next day, the group answered again – now from Turkey. They reported that ‘the police’ had found them around 5pm on the 9th of July. They brought them to a place the migrants described as ‘a prison’. At 10pm, the officers allegedly wearing blue trousers and camouflage sweaters, told the group that they would be moved to a camp so that they could apply for international protection. However, instead, they brought them back to the river. There, according to one testimony, the men of the group were beaten. Their belongings such as phones, money, passports and the food for the infant were taken away. They were then put onto a boat at the river and were threatened not to come back to Greece again.

      Reacting to our questions concerning cases 3 and 4, the Greek police stated that they had not found anyone at the positions we had provided them with.

      The Alarm Phone, when receiving distress calls from groups in the Evros border region who report to have persons among them with special needs, such as pregnant women, people with disabilities, toddlers and infants, elderly or sick, informs the respective authorities (Greek and /or Turkish) upon request of the people in need. In these four cases, GPS positions shared with us showed clearly locations on Greek soil. Despite this fact and despite many requests for assistance made toward the responsible authorities, the people ended up back in Turkey. Instead of getting access to protection in Greece as requested in their calls for help and their claims to asylum, they were returned to a place where they stated they would be in danger.

      The Alarm Phone is very concerned about repeated testimonies of illegal push-backs at the Greek-Turkish land border. We demand respect for the people’s human rights and dignity, as well as for the international law, which is clearly beached in such push-back operations.

      https://alarmphone.org/en/2018/07/06/four-push-back-operations-at-the-greek-turkish-land-border-witnessed-by-

    • The Turkish Woman Who Fled Her Country only To Get Sent Back

      #Ayşe_Erdoğan was persecuted in Turkey as an alleged follower of the Gülen movement. The young teacher fled to Greece to seek refuge. This is how she wound up back in a Turkish prison.

      As Ayşe Erdoğan reached for her mobile phone to film herself, she was already aware of the risk she was facing. She had managed to cross over into Greece from Turkey, meaning she had made it to Europe. But she still wasn’t home free.

      On the morning of May 4, 2019, Erdoğan, a 28-year-old math teacher from Turkey, hid near the Greek village of Nea Vyssa. Accompanied by two Turkish traveling companions, she had succeeded in crossing the Evros, a wild river that forms a natural border between the two countries but whose current is so strong that it often sweeps migrants away to their deaths.

      Erdoğan, who bears no relation to Turkish President Recep Tayyip Erdoğan, had been sentenced to more than six years in prison in Turkey. Authorities there had accused her of belonging to the sect of the Islamist cleric Fethullah Gülen, which Ankara considers a terrorist organization. Erdoğan was allowed to leave prison until the start of her appeal, but only under the condition that she remain in Turkey.

      Shortly after her release, she fled. She traveled to the north to reach Europe, just as thousands of other Turks who are persecuted as Gülen supporters have done.

      Erdoğan wanted to file an application for political asylum. The Turkish national wanted to exercise the right the European Union grants to every individual who reaches European soil — at least in theory.

      “We are Turkish political asylum-seekers,” Erdoğan said in one video she recorded on her phone. “We fled persecution back in Turkey. We are hiding near Nea Vyssa in fear of pushback.” She sent the videos to her brother Ihsan, who was already in Athens. A journalist later posted the video on Twitter, and the Greek daily Kathimerini also reported on her case.

      Using WhatsApp, Erdoğan sent her location to her brother. She also sent emails to Greek human rights lawyers and the head of the UNHCR, the UN refugee agency. “If we push back to Turkey, our life will be in danger,” she wrote.

      That same day, Erdoğan was taken back across the Evros. Turkish border officials apprehended her and the two Turkish nationals traveling with her the next morning at 8:10 a.m. and put them in jail. A court convicted Erdoğan the next day for violating the terms of her parole by leaving the country.

      For the first time, Forensic Architecture, a research agency based at Goldsmiths College at the University of London, has reconstructed the precise events in the hours leading up to Erdoğan’s capture. DER SPIEGEL also interviewed the brother and Ayşe Erdoğan’s lawyers in addition to reviewing Turkish court documents.

      The data and documents lead to just one conclusion: Ayşe Erdoğan had made it to Greece and was in the hands of Greek authorities before she was returned to Turkey. These were presumably Greek border guards or police. Erdoğan herself claims to have been picked up at a Greek police station by masked men.

      Responding to a request for comment from DER SPIEGEL, the Greek police stated that they "always comply with Greek and European law in the performance of their duties.” Officials would not comment on the specific case in question. Back in December, DER SPIEGEL and Forensic Architecture analyzed videos showing how the illegal pushbacks along the Evros apparently take place: Masked men speaking with Greek accents are seen taking people who have fled to Greece across to the Turkish side of the Evros in motorized dinghies. Refugees who claim they were pushed back also say they were abused and that their mobile phones were rendered unusable.

      All available evidence suggests that the Greek authorities are carrying out systematic pushbacks. DER SPIEGEL has previously reported on Turkish documents which suggest that Greece is illegally deporting tens of thousands of migrants and refugees. Following the revelations, the European Commission demanded an investigation into the accusations, though this has yet to happen.

      The only person who has followed up on the pushback allegations is the Greek ombudsman, the agency responsible for independently monitoring the country’s authorities. The agency opened a general investigation into the issue in June 2017. It is now investigating more than half a dozen cases, including the videos published by DER SPIEGEL.

      However, the Greek authorities have expressed little interest in the videos. A police spokesman told DER SPIEGEL in January: “There won’t be any investigation because there are no pushbacks on the Evros.”

      But Ayşe Erdoğan’s case suggests it is very likely that this statement isn’t true. It underscores suspicions that Greek border officials are deporting even Turkish asylum-seekers without granting them any asylum procedures, even though these people are the subject of political persecution in their home country.

      The pushbacks violate international law, European Union law as well as Greek law, since every refugee has the right to fair asylum proceedings. Moreover, those who apply for asylum cannot be sent back to countries where they could be in danger or threatened with persecution. That, however, appears to be exactly what happened to Erdoğan.

      The fact that Erdoğan repeatedly shared her location with her brother on WhatsApp and took a selfie together with the two people accompanying her in the village center of Nea Vyssa has been helpful in the effort to reconstruct events. A government building can be seen in the photo, including its logo. Another lawyer, Nikolaos Ouzounidis, met with the group in Nea Vyssa and also took a photo of them.

      In collaboration with the Greek NGO HumanRights360, Forensic Architecture analyzed the photos, videos, WhatsApp messages, emails, court files and police reports. Among other steps, the agency compared the photos to images from Google Earth. This made it possible to verify that Erdoğan had, in fact, entered Greece before her arrest.

      There is no doubt that Ayşe and the two accompanying her had been in Nea Vyssa that day. “I saw them with my own eyes,” said Ouzounidis.

      Erdoğan contacted the police station in Nea Vyssa, near the Turkish border, to apply for asylum. But Greek police brought them to a police station in Neo Cheimonio, a town 18 kilometers (11 miles) south of Nea Vyssa. This is evidenced in Erdoğan’s WhatsApp locations and her testimony in court, which has been obtained by DER SPIEGEL.

      Ouzounidis tried to speak to Erdoğan at the police station twice — first on his own and later with her brother, Ihsan, who had come from Athens. Both times, police informed the lawyer that no one with that name was being held at the station. Officially, at least, there was never any arrest or charges filed.

      At 6:53 p.m., Erdoğan once again shared her location with her brother on WhatsApp, with the pin pointing to the police station. It would be the last message that Ayşe Erdoğan would send from Greece.

      “I thought Ayşe was safe,” said Ihsan Erdoğan. “But they just brushed us off at the police station.” Ihsan found out the next day from his parents that his sister had been deported to Turkey and arrested there.

      The Turkish court documents provide details about how Erdoğan experienced her pushback. They describe how masked men put them in a car and took them back to the Evros River. "They put us in a car, took us to Meriç river (Eds. note: as the Evros is known in Turkey) again, put us in an inflatable boat, and took us back to the Turkish banks. Thus, we weren’t able to apply for asylum.”

      Turkish police officers apprehended Erdoğan the next morning. A court in the province of Edirne convicted her the following morning on charges of illegally fleeing the country. The court transcript states that, “The accused violated the rules of her parole and left the country via illegal routes but was deported and returned to Turkey.”

      As part of her defense, Erdoğan claimed that she had felt isolated after her release from prison, that she was no longer able to find work and that even her friends weren’t speaking to her anymore. She told the court that she regretted having fled. “I am the victim,” Erdoğan said, according to the court transcript.

      Her brother Ihsan also denied to DER SPIEGEL that he or Ayşe were members of the Gülen sect.

      Turkish President Erdoğan has blamed the Gülen movement for the attempted coup in July 2016. In response, the Turkish state ordered the arrest of tens of thousands of Gülen supporters.

      Gülen, who has lived in exile in the United States since the 1990s, has denied the accusations. In public, he presents himself as a modern reformer of moderate Islam. His followers run schools, universities, media organizations, hospitals and foundations in more than 100 countries.

      But people who have left the community have described it as a secret society. “Infiltrating state agencies, maximizing political influence and gaining control of the state is seen as the goal by all those who have been interviewed,” reads one document from Germany’s Foreign Ministry.

      Tens of thousands of the Islamist movement’s followers have found refuge in European countries in recent years. More than 10,000 Turks have applied for asylum in Greece alone since 2016.

      But it’s not clear how many of those applications have been approved. The Greek authorities don’t want to publish that kind of information out of fear of provoking Turkish President Erdoğan, with whom the Greek government already has a tense relationship.

      However, Greek bureaucratic sources say that most of the Turkish refugees who apply for it are granted asylum in Greece. That had also been Ayşe Erdoğan’s hope. Instead, she now finds herself locked up by the Turkish government in a prison in the Gebze province near Istanbul.

      Greece has already thrown out a lawsuit submitted by her lawyers. Erdoğan’s attorney, Maria Papamina of the Greek Council for Refugees, says that all the prosecutor did was obtain assurances from the Greek police that Ayşe Erdoğan had never been registered there.

      She claims that evidence of the pushback wasn’t even taken into consideration. Papamina says she wants to appeal the case and take it right up to Greece’s highest court if she has to — and even further up to the European Court of Human Rights, if need be.

      But the only likely real chance Ayşe Erdoğan would have of getting released from prison would be through her appeal to Turkey’s highest court, but her chances are slim. There’s much to suggest that Ayşe Erdoğan will spend years in a Turkish prison.

      https://www.spiegel.de/international/europe/the-turkish-woman-who-fled-her-country-only-to-get-sent-back-a-fd2989c7-0439

  • Turkey suspends migrant readmission deal with Greece : Hurriyet

    Turkey has suspended its migrant readmission deal with Greece, Foreign Minister Mevlut Cavusoglu was quoted as saying by the Hurriyet daily, days after Greece released from prison four Turkish soldiers who fled there after the 2016 attempted coup.

    https://www.reuters.com/article/us-turkey-security-greece/turkey-suspends-migrant-readmission-deal-with-greece-hurriyet-idUSKCN1J31OO
    #Turquie #asile #migrations #réfugiés #accord_UE-Turquie #accord_de_réadmission #externalisation #suspension #Grèce
    cc @isskein @i_s_

    • Ankara suspend un accord sur les migrants avec la Grèce

      La Turquie a suspendu son accord passé avec la Grèce pour la réadmission des migrants, en réaction à la remise en liberté par la Grèce de quatre soldats turcs ayant fui leur pays après la tentative de putsch de juillet 2016.

      ISTANBUL (Reuters) - La Turquie a suspendu son accord passé avec la Grèce pour la réadmission des migrants, en réaction à la remise en liberté par la Grèce de quatre soldats turcs ayant fui leur pays après la tentative de putsch de juillet 2016.

      La décision a été annoncée jeudi par le ministre turc des Affaires étrangères Mevlüt Cavusoglu, cité par le quotidien Hurriyet. Le chef de la diplomatie turque a jugé « inacceptable » la libération, lundi, des quatre militaires, dont la demande d’asile en Grèce est toujours à l’étude.

      Un accord similaire passé entre la Turquie et l’Union européenne est toujours en vigueur, a ajouté Cavusoglu.

      Aux termes de l’accord conclu entre Athènes et Ankara, 1.209 étrangers ont été expulsés de Grèce vers la Turquie ces deux dernières années, selon le gouvernement grec.

      Pour Mevlüt Cavusoglu, « le gouvernement grec voulait régler cette question (des soldats turcs) mais il y a eu de fortes pressions occidentales, particulièrement sur les juges ».

      Les soldats se sont enfuis en Grèce à la suite du coup d’Etat manqué de la nuit du 15 au 16 juillet 2016 contre le gouvernement de Recep Tayyip Erdogan.

      Le gouvernement turc les accuse de participation à cette tentative de putsch et a demandé à la Grèce de les lui remettre.

      La justice grecque a rejeté les demandes d’extradition.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/070618/ankara-suspend-un-accord-sur-les-migrants-avec-la-grece

    • Turkey reportedly suspends migrant readmission deal with Greece

      Turkey has suspended its migrant readmission deal with Greece, Foreign Minister Mevlut Cavusoglu was quoted as saying by state-run Anadolu agency, days after Greece released from prison four Turkish soldiers who fled there after a 2016 attempted coup.

      The four soldiers were released on Monday after an order extending their custody expired. A decision on their asylum applications is still pending.

      “We have a bilateral readmission agreement. We have suspended that readmission agreement,” Cavusoglu was quoted as saying, adding that a separate migrant deal between the EU and Turkey would continue.

      Under the bilateral deal signed in 2001, 1,209 foreign nationals have been deported to Turkey from Greece in the last two years, data from the Greek citizens’ protection ministry showed.

      Cavusoglu was quoted as saying he believed the Greek government wanted to resolve the issue about the soldiers but that Greek judges were under pressure from the West.

      “The Greek government wants to resolve this issue. But we also see there is serious pressure on Greece from the West. Especially on Greek judges,” Cavusoglu was quoted as saying.

      The eight soldiers fled to Greece following the July 2016 failed coup in Turkey. Ankara has demanded they be handed over, accusing them of involvement in the abortive coup. Greek courts have rejected the extradition request and the soldiers have denied wrongdoing and say they fear for their lives.

      In May, Greece’s top administrative court rejected an appeal by the Greek government against an administrative decision by an asylum board to grant asylum to one of the Turkish soldiers.

      http://www.ekathimerini.com/229384/article/ekathimerini/news/turkey-reportedly-suspends-migrant-readmission-deal-with-greece

    • La Commission Européenne appelle à la poursuite de l’accord sur les migrants entre la Turquie et la Grèce

      La Turquie a suspendu son accord de réadmission des migrants avec la Grèce après le refus d’Athènes d’extrader des ex-soldats turcs recherché par la Justice.

      La Commission européenne a appelé à la poursuite de l’accord bilatéral de réadmission des migrants entre la Turquie et la Grèce.

      "La position de la commission est qu’elle devrait être mise en œuvre de manière continue afin de respecter tous les critères restants dans le cadre de la feuille de route de libéralisation des visas avec la Turquie", a déclaré, vendredi, Natasha Bertaud, la porte-parole de la Commission.

      Ses remarques sont intervenues après que le ministre turc des Affaires étrangères, Mevlüt Çavuşoğlu a annoncé jeudi qu’Ankara suspendait son accord bilatéral de réadmission des migrants avec la Grèce.

      La suspension a suivi le refus des autorités grecques d’extrader des ex-soldats turcs qui sont accusés par la Justice turque d’avoir pris part au coup d’état manqué de 2016.

      Bertaud a précisé que la décision concernait un accord bilatéral entre la Grèce et la Turquie, et non l’accord UE-Turquie.

      "Nous sommes en contact avec les autorités grecques et turques pour enquêter davantage. Cela concerne un accord bilatéral entre la Grèce et la Turquie ", a-t-elle déclaré.

      Cavusoglu a précisé : « Il y a un accord de migration avec l’UE, c’est en vigueur et il y a un accord bilatéral de réadmission avec la Grèce, nous avons maintenant suspendu cet accord.

      Un protocole de réadmission entre la Grèce et la Turquie a été signé en 2002 pour lutter contre la migration illégale.

      Fin mai, le Conseil d’Etat grec a accordé l’asile à l’ex-soldat turc Suleyman Ozkaynakci, que la Turquie accuse d’être impliqué dans le coup d’Etat de 2016.

      En janvier, la Cour suprême grecque s’est prononcée contre l’extradition des anciens soldats - une décision que la Turquie a qualifiée de « politiquement motivée ».

      Cette dernière a demandé à plusieurs reprises l’extradition des putschistes présumés, notamment lors de la visite officielle du président Recep Tayyip Erdogan en Grèce en décembre dernier.

      www.actualite-news.com/fr/international/europe/5831-la-commission-europeenne-appelle-a-la-poursuite-de-l-accord-sur-les-migrants-entre-la-turquie-et-la-grece

    • Les réfugiés ne doivent pas servir d’instrument de pression politique en Turquie, selon la rapporteure

      « Je suis consternée par l’annonce des autorités turques indiquant que l’accord de réadmission avec la Grèce a été suspendu, à la suite de la libération de soldats turcs demandeurs d’asile en Grèce. Cette décision montre que les accords migratoires font courir aux réfugiés le risque d’être utilisés comme instrument dans les conflits politiques.

      J’appelle toutes les parties à ce conflit à donner la priorité aux intérêts et aux droits des réfugiés », a déclaré Tineke Strik (Pays-Bas, SOC), rapporteure de l’APCE sur les conséquences pour les droits de l’homme de la dimension extérieure de la politique d’asile et de migration de l’Union européenne.

      « Bien que les conséquences de l’accord UE-Turquie pour les réfugiés et les demandeurs d’asile en Grèce et en Turquie soient inquiétantes, la Turquie ne devrait pas utiliser le sort tragique des réfugiés pour faire pression sur les autorités grecques à la suite de l’échec du coup d’État en Turquie. La vie des réfugiés ne doit pas être un objet de négociation politique », a-t-elle souligné.

      « Le gel de la réadmission en Turquie ajoute à leur insécurité et peut prolonger leurs conditions d’accueil dégradantes, ce qui doit être évité. Si cette décision est maintenue, le gouvernement grec devrait accorder aux réfugiés des îles de la mer Égée l’accès à un logement d’accueil adéquat sur le continent, et examiner leurs demandes d’asile sur le fond ».

      En mars 2016, face à l’arrivée d’un nombre sans précédent de réfugiés, à la suite du conflit armé en Syrie, l’Union européenne et la Turquie ont convenu que la Turquie prendrait toutes les mesures nécessaires pour empêcher la migration irrégulière par voie terrestre ou maritime de la Turquie vers l’UE. En vertu de l’accord, les migrants en situation irrégulière qui traversent la Turquie vers les îles grecques seraient renvoyés en Turquie et, pour chaque Syrien renvoyé des îles vers la Turquie, un autre Syrien serait réinstallé dans l’UE.

      En outre, l’UE s’est engagée à consacrer trois milliards d’euros à la gestion des migrations et à l’aide aux réfugiés en Turquie en 2016-2017, et trois autres milliards d’euros en 2018.

      Le rapport de Mme Strik doit être débattu lors de la prochaine session plénière de l’Assemblée (25-29 juin 2018).

      http://assembly.coe.int/nw/xml/News/News-View-FR.asp?newsid=7105&lang=1&cat=134

  • #Expanding_the_fortress

    La politique d’#externalisation_des_frontières de l’UE, ses bénéficiaires et ses conséquences pour les #droits_humains.

    Résumé du rapport

    La situation désespérée des 66 millions de personnes déplacées dans le monde ne semble troubler la conscience européenne que lorsqu’un drame a lieu à ses frontières et se retrouve sous le feu des projecteurs médiatiques. Un seul État européen – l’Allemagne – se place dans les dix premiers pays au monde en termes d’accueil des réfugiés : la grande majorité des personnes contraintes de migrer est accueillie par des États se classant parmi les plus pauvres au monde. Les migrations ne deviennent visibles aux yeux de l’Union européenne (UE) que lorsque les médias s’intéressent aux communautés frontalières de Calais, Lampedusa ou Lesbos et exposent le sort de personnes désespérées, fuyant la violence et qui finissent par mourir, être mises en détention ou se retrouver bloquées.

    Ces tragédies ne sont pas seulement une conséquence malheureuse des conflits et des guerres en cours dans différents endroits du monde. Elles sont aussi le résultat des politiques migratoires européennes mises en œuvre depuis les accords de Schengen de 1985. Ces politiques se sont concentrées sur le renforcement des frontières, le développement de méthodes sophistiquées de surveillance et de traque des personnes, ainsi que l’augmentation des déportations, tout en réduisant les possibilités de résidence légale malgré des besoins accrus. Cette approche a conduit un grand nombre de personnes fuyant la violence et les conflits et incapables d’entrer en Europe de manière légale à emprunter des routes toujours plus dangereuses.

    Ce qui est moins connu, c’est que les tragédies causées par cette politique européenne se jouent également bien au-delà de nos frontières, dans des pays aussi éloignés que le Sénégal ou l’Azerbaïdjan. Il s’agit d’un autre pilier de la gestion européenne des flux migratoires : l’externalisation des frontières. Depuis 1992, et plus encore depuis 2005, l’UE a mis en œuvre des politiques visant à externaliser les frontières du continent et empêcher les populations déplacées de parvenir à ses portes. Cela implique la conclusion d’accords avec les pays voisins de l’UE afin qu’ils reprennent les réfugiés déportés et adoptent, comme l’Europe, des mesures de contrôle des frontières, de surveillance accrue des personnes et de renforcement de leurs frontières. En d’autres termes, ces accords ont fait des pays voisins de l’UE ses nouveaux garde-frontières. Et parce qu’ils sont loin des frontières européennes et de l’attention médiatique, les impacts de ces politiques restent relativement invisibles aux yeux des citoyens européens.

    Ce rapport cherche à mettre en lumière les politiques qui fondent l’externalisation des frontières européennes et les accords conclus, mais aussi les multinationales et sociétés privées qui en bénéficient, et les conséquences pour les personnes déplacées ainsi que pour les pays et les populations qui les accueillent. Il est le troisième de la série Border Wars, qui vise à examiner les politiques frontalières européennes et à montrer comment les industries des secteurs de l’armement et de la sécurité ont contribué à façonner les politiques de sécurisation des frontières de l’Europe, puis en ont tiré les bénéfices en obtenant un nombre croissant de contrats dans le secteur.

    Ce rapport étudie l’augmentation significative du nombre de mesures et d’accords d’externalisation des frontières depuis 2005, le phénomène s’accélérant massivement depuis le sommet Europe-Afrique de La Valette en novembre 2015. Via une série de nouveaux instruments, tels que le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique (EUTF), le Cadre pour les partenariats avec les pays tiers en matière de gestion des migrations et la Facilité en faveur des réfugiés en Turquie, l’UE et les États membres injectent des millions d’euros dans un ensemble de projets visant à prévenir la migration de certaines populations vers le territoire européen.

    Cela implique la collaboration avec des pays tiers en matière d’accueil des personnes déportées, de formation des forces de police et des garde-frontières ou le développement de systèmes biométriques complets, ainsi que des donations d’équipements incluant hélicoptères, bateaux et véhicules, mais aussi des équipements de surveillance et de contrôle. Si de nombreux projets sont coordonnés par la Commission européenne, un certain nombre d’États membres, tels que l’Espagne, l’Italie et l’Allemagne, prennent également des initiatives individuelles plus poussées en finançant et en soutenant les efforts d’externalisation des frontières par le biais d’accords bilatéraux.

    Ce qui rend cette collaboration particulièrement problématique est le fait que de nombreux gouvernements qui en bénéficient sont profondément autoritaires, et que les financements sont souvent destinés aux organes de l’État les plus responsables des actes de répression et de violations des droits humains. L’UE fait valoir, à travers l’ensemble de ses politiques, une rhétorique consensuelle autour de l’importance des droits humains, de la démocratie et de l’état de droit ; il semble cependant qu’aucune limite ne soit posée lorsque l’Europe soutient des régimes dictatoriaux pour que ces derniers s’engagent à empêcher « l’immigration irrégulière » vers le sol européen. Le résultat concret se traduit par des accords et des financements conclus entre l’UE et des régimes aussi tristement célèbres que ceux du Tchad, du Niger, de Biélorussie, de Libye ou du Soudan.

    Les politiques européennes dans ce domaine ont des conséquences considérables pour les personnes déplacées, que le statut « illégal » rend déjà vulnérables et plus susceptibles de subir des violations de droits humains. Nombre d’entre elles finissent exploitées, avec des conditions de travail inacceptables, ou encore sont mises en détention ou directement déportées dans le pays qu’elles ont fui. Les femmes réfugiées sont particulièrement menacées par les violences basées sur le genre, les agressions et l’exploitation sexuelles.

    La violence et la répression que subissent les déplacés favorisent également l’immigration clandestine, reconfigurant les activités des passeurs et renforçant le pouvoir des réseaux criminels. De fait, les personnes déplacées sont souvent forcées de se lancer sur des routes alternatives, plus dangereuses, et de s’en remettre à des trafiquants de moins en moins scrupuleux. En conséquence, le nombre de morts sur les routes migratoires s’élève de jour en jour.

    En outre, le renforcement des organes de sécurité de l’Etat dans l’ensemble des pays du MENA (Moyen Orient Afrique du Nord), du Maghreb, du Sahel et de la Corne de l’Afrique constitue une menace directe contre les droits humains et la responsabilité démocratique dans ces zones, notamment en détournant des ressources essentielles qui pourraient suppress être destinées à des mesures économiques ou sociales. En effet, ce rapport montre que l’obsession européenne à prévenir les flux migratoires réduit non seulement les ressources disponibles, mais dénature également les échanges, l’aide et les relations internationales entre l’Europe et ces régions. Comme l’ont signalé de nombreux experts, ce phénomène crée un terreau favorable à toujours plus d’instabilité et d’insécurité, et a pour conséquence de pousser toujours plus de personnes à prendre la route de l’exil.

    Un secteur économique a cependant grandement tiré parti des programmes d’externalisation des frontières de l’UE. En effet, comme l’ont montré les premiers rapports Border Wars, les secteurs de l’industrie militaire et de sécurité ont été les principaux bénéficiaires des contrats de fourniture d’équipements et de services pour la sécurité frontalière. Les entreprises de ces secteurs travaillent en partenariat avec un certain nombre d’institutions intergouvernementales et (semi) publiques qui ont connu une croissance significative ces dernières années, à mesure qu’étaient mise en oeuvre des dizaines de projets portant sur la sécurité et le contrôle des frontières dans des pays tiers.
    Le rapport révèle que :

    La grande majorité des 35 pays considérés comme prioritaires par l’UE pour l’externalisation de ses frontières sont gouvernés par des régimes autoritaires, connus pour leurs violation des droits humains et avec des indicateurs de développement humain faibles.
    48% d’entre eux (17) ont un gouvernement autoritaire, et seulement quatre d’entre eux sont considérés comme démocratiques (mais toujours imparfaits)
    448% d’entre eux (17) sont listés comme « non-libres », et seulement trois sont listés comme « libres » ; 34% d’entre eux (12) présentent des risques extrêmes en matière de droits humains et les 23 autres présentent des risques élevés.
    51% d’entre eux (18) sont caractérisés par un « faible développement humain », seulement huit ont un haut niveau de développement humain.
    Plus de 70% d’entre eux (25) se situent dans le dernier tiers des pays du monde en termes de bien-être des femmes (inclusion, justice et sécurité)

    Les États européens continuent à vendre des armes à ces pays, et cela en dépit du fait que ces ventes alimentent les conflits, les actes de violence et de répression, et de ce fait contribuent à l’augmentation du nombre de réfugiés. La valeur totale des licences d’exportations d’armes délivrées par les États membres de l’UE à ces 35 pays sur la décennie 2007-2016 dépasse les 122 milliards d’euros. Parmi eux, 20% (7) sont sous le joug d’un embargo sur les ventes d’armes demandé par l’UE et/ou les Nations Unies, mais la plupart reçoivent toujours des armes de certains États membres, ainsi qu’un soutien à leurs forces armées et de sécurité dans le cadre des efforts liés aux politiques migratoires.

    Les dépenses de l’UE en matière de sécurité des frontières dans les pays tiers ont considérablement augmenté. Bien qu’il soit difficile de trouver des chiffres globaux, il existe de plus en plus d’instruments de financement pour les projets liés aux migrations, la sécurité et les migrations provient de plus en plus d’instruments, la sécurité et les migrations irrégulières étant les principales priorités. Ces fonds proviennent aussi de l’aide au développement. Plus de 80% du budget de l’EUTF vient du Fonds européen de développement et d’autres fonds d’aide au développement et d’aide humanitaire.

    L’augmentation des dépenses en matière de sécurité des frontières a bénéficié à un large éventail d’entreprises, en particulier des fabricants d’armes et des sociétés de sécurité biométrique. Le géant de l’armement français Thales, qui est également un exportateur incontournable d’armes dans la région, est par exemple un fournisseur reconnu de matériel militaire et de sécurité pour la sécurisation des frontières et de systèmes et équipements biométriques. D’autres fournisseurs importants de systèmes biométriques incluent Véridos, OT Morpho et Gemalto (qui sera bientôt racheté par Thales). L’Allemagne et l’Italie financent également leurs propres groupes d’armement – Hensoldt, Airbus et Rheinmetall pour l’Allemagne et Leonardo et Intermarine pour l’Italie – afin de soutenir des programmes de sécurisation des frontières dans un certain nombre de pays du MENA, en particulier l’Égypte, la Tunisie et la Libye. En Turquie, d’importants contrats de sécurisation des frontières ont été remportés par les groupes de défense turcs, notamment Aselsan et Otokar, qui utilisent les ressources pour subventionner leurs propres efforts de défense, également à l’origine des attaques controversées de la Turquie contre les communautés kurdes.

    Un certain nombre d’entreprises semi-publiques et d’organisations internationales ont également conclu des contrats de conseil, de formation et de gestion de projets en matière de sécurité des frontières. On y trouve la société para-gouvernementale française Civipol, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et le Centre international pour le développement des politiques migratoires (ICMPD). Les groupes Thales, Airbus et Safran sont présents au capital de Civipol, qui a rédigé en 2003, à titre de consultant pour la Commission Européenne, un document très influent établissant les fondations pour les mesures actuelles d’externalisation des frontières, dont elle bénéficie aujourd’hui.

    Les financements et les dons en matière d’équipements militaires et de sécurité ainsi que la pression accrue sur les pays tiers pour qu’ils renforcent leurs capacités de sécurité aux frontières ont fait croître le marché de la sécurité en Afrique. Le groupe de lobbying Association européenne des industries aérospatiales et défense (ASD) a récemment concentré ses efforts sur l’externalisation des frontières de l’UE. De grands groupes d’armement tels qu’Airbus et Thales lorgnent également sur les marchés africains et du Moyen-Orient, en croissance.

    Les décisions et la mise en œuvre de l’externalisation des frontières au niveau de l’Union européenne ont été caractérisées par une rapidité d’exécution inhabituelle, hors du contrôle démocratique exercé par le Parlement européen. De nombreux accords importants avec des pays tiers, parmi lesquels les pactes « Migration Compact » signés dans le Cadre pour les partenariats et l’Accord UE- Turquie, ont été conclus sans ou à l’écart de tout contrôle parlementaire.

    Le renforcement et la militarisation de la sécurité des frontières ont conduit à une augmentation du nombre de morts parmi les personnes déplacées. En général, les mesures visant à bloquer une route particulière de migration poussent les personnes vers des routes plus dangereuses. En 2017, on a dénombré 1 mort pour 57 migrants traversant la Méditerranée ; en 2015, ce chiffre était de 1 pour 267. Cette statistique reflète le fait qu’en 2017, les personnes déplacées (pourtant moins nombreuses qu’en 2015), principalement originaires d’Afrique de l’Ouest et de pays subsahariens, ont préféré la route plus longue et plus dangereuse de la Méditerranée Centrale plutôt que la route entre la Turquie et la Grèce empruntée en 2015 par des migrants (principalement Syriens). On estime que le nombre de migrants morts dans le désert est au moins le double de ceux qui ont péri en Méditerranée, bien qu’aucun chiffre officiel ne soit conservé ou disponible.

    On assiste à une augmentation des forces militaires et de sécurité européennes dans les pays tiers pour la sécurité aux frontières. L’arrêt des flux migratoires est devenu une priorité des missions de Politique de sécurité et de défense commune (PSDC) au Mali et au Niger, tandis que des États membres tels que la France ou l’Italie ont également décidé de déployer des troupes au Niger ou en Libye.

    Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières et garde-côtes, collabore de plus en plus avec les pays tiers. Elle a entamé des négociations avec des pays voisins de l’UE pour mener des opérations conjointes sur leurs territoires. La coopération en matière de déportation est déjà largement implantée. De 2010 à 2016, Frontex a coordonné 400 vols de retours conjoints avec des pays tiers, dont 153 en 2016. Depuis 2014, certains de ces vols ont été appelés « opérations de retour conjoint », l’avion et les escortes navigantes provenant des pays de destination. Les États membres invitent de plus en plus fréquemment des délégations de pays tiers à identifier les personnes « déportables » sur la base de l’évaluation de nationalité. Dans plusieurs cas, ces identifications ont conduit à l’arrestation et à la torture des personnes déportées.

    Ce rapport examine ces impacts en cherchant à établir comment ces politiques ont été mises en œuvre en Turquie, en Libye, en Égypte, au Soudan, au Niger, en Mauritanie et au Mali. Dans tous ces pays, pour parvenir à la conclusion de ces accords, l’UE a dû fermer les yeux ou limiter ses critiques sur les violations des droits humains.

    En Turquie, l’UE a adopté un modèle proche de celui de l’Australie, externalisant l’ensemble du traitement des personnes déplacées en dehors de ses frontières, et manquant ainsi à des obligations fondamentales établies par le droit international, telles que le principe de non-refoulement, le principe de non-discrimination (l’accord concerne exclusivement les populations syriennes) et le principe d’accès à l’asile.

    En Libye, la guerre civile et l’instabilité du pays n’ont pas empêché l’UE ni certains de ses États membres, comme l’Italie, de verser des fonds destinés aux équipements et aux systèmes de gestion des frontières, à la formation des garde-côtes et au financement des centres de détention – et ce bien qu’il ait été rapporté que des garde-côtes avaient ouvert le feu sur des bateaux de migrants ou que des centres de détentions étaient gérés par des milices comme des camps de prisonniers.

    En Égypte, la coopération frontalière avec le gouvernement allemand s’est intensifiée malgré la croissante consolidation du pouvoir militaire dans le pays. L’Allemagne finance les équipements et la formation régulière de la police aux frontières égyptienne. Les personnes déplacées se trouvent régulièrement piégées dans le pays, dans l’impossibilité de se rendre en Libye du fait de l’insécurité qui y règne, et subissent les tirs des gardes-côtes égyptiens s’ils décident de prendre la route maritime.

    Au Soudan, le soutien à la gestion des frontières fourni par l’UE n’a pas seulement conduit à suppress sortir un régime dictatorial de son isolement sur la scène internationale, mais a également renforcé les Forces de soutien rapide, constituées de combattants de la milice Janjawid, considérée comme responsables de violations de droits humains au Darfour.

    La situation au Niger, un des pays les plus pauvres au monde, montre bien le coût de la politique de contrôle des migrations subi par les économies locales. La répression en cours à Agadez a considérablement affaibli l’économie locale et poussé la migration dans la clandestinité, rendant la route plus dangereuse pour les migrants et renforçant le pouvoir des gangs de passeurs armés. De même au Mali, l’imposition des mesures d’externalisation des frontières par l’UE dans un pays tout juste sorti d’une guerre civile menace de raviver les tensions et de réveiller le conflit.

    L’ensemble des cas étudiés met en lumière une politique de l’UE via-à-vis de ses voisins obsessionnellement focalisée sur les contrôles migratoires, quel que soit le coût pour les pays concernés ou les populations déplacées. C’est une vision étroite et finalement vouée à l’échec de la sécurité, car elle ne s’attaque pas aux causes profondes qui poussent les gens à migrer : les conflits, la violence, le sous-développement économique et l’incapacité des États à gérer correctement ces situations. Au lieu de cela, en renforçant les forces militaires et de sécurité dans la région, ces politiques prennent le risque d’exacerber la répression, de limiter la responsabilité démocratique et d’attiser des conflits qui pousseront plus de personnes à quitter leurs pays. Il est temps de changer de cap. Plutôt que d’externaliser les frontières et les murs, nous devrions externaliser la vraie solidarité et le respect des droits de l’homme.


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    pour télécharger le #rapport :
    https://www.tni.org/files/publication-downloads/expanding_the_fortress_-_1.6_may_11.pdf

    cc @reka @albertocampiphoto @daphne @marty

    • Esternalizzare le frontiere europee significa militarizzare

      Come dimostra il recente rapporto del Transnational Institut, «Espandendo la Fortezza», la crescita della spesa per il controllo delle frontiere esterne avvantaggia produttori di armi e società di sicurezza biometrica. Molte delle loro proposte sono poi apparse nell’Agenda europea sotto forma di decisioni politiche. Sara Prestianni analizza le conseguenze militari dell’esternalizzazione delle frontiere europee.

      http://openmigration.org/analisi/esternalizzare-le-frontiere-europee-significa-militarizzare

    • 3 liens vers des articles/reportages de #Gabriele_Del_Grande, un des premiers journalistes à avoir visité les centres en Libye.

      C’était 2008-2009
      Libia: siamo entrati a #Misratah. Ecco la verità sui 600 detenuti eritrei

      Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di 600 persone, tra cui 58 donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di 20 metri per 20 su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo.

      Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno 6.000 profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione a Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno 320.000 ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo 4,7 milioni di abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre 130.000 persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

      La prima volta che sentii parlare di Misratah fu nella primavera del 2007, durante un incontro a Roma con il direttore dell’Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, Mohamed al Wash. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007, insieme alla associazione eritrea Agenzia Habeshia, riuscimmo a stabilire un contatto telefonico con un gruppo di prigionieri eritrei che erano riusciti a introdurre un telefono cellulare nel campo. Si lamentavano delle condizioni di sovraffollamento, della scarsa igiene dei bagni, e delle precarie condizioni di salute, specie di donne incinte e neonati. E accusavano gli agenti di polizia di avere molestato sessualmente alcune donne durante le prime settimane di detenzione. Amnesty International si espresse più volte per bloccare il loro rimpatrio. E il 18 settembre 2007 la diaspora eritrea organizzò manifestazioni nelle principali capitali europee.

      Il direttore del centro, colonnello ‘Ali Abu ‘Ud, conosce i report internazionali su Misratah, ma respinge le accuse al mittente: “Tutto quello che dicono è falso” dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre 200 detenuti. Abu ‘Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto un dire. Dopo una lunga insistenza, insieme a un collega della radio tedesca, Roman Herzog, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. Ci dividiamo. Intervisto F., 28 anni, da 24 mesi chiuso qua dentro. Mentre lui parla mi accorgo che non lo sto ascoltando, in verità provo a mettermi nei suoi panni. Abbiamo grossomodo la stessa età, ma lui i migliori anni della vita li sta buttando via in un carcere, senza un motivo apparente.

      Dall’altro lato del cortile, Roman è riuscito a parlare per qualche minuto con un rifugiato sottraendosi al controllo degli agenti della sicurezza che vigilano sul nostro lavoro e riprendono con una telecamera le nostre attività. Si chiama S.. Parla liberamente: “Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!” Intanto l’interprete li ha raggiunti e traduce tutto al direttore del campo, che interrompe l’intervista e chiede a S. se per caso non vuole ritornare in Eritrea. Lui risponde di no, intanto Roman lo invita ad allontanarsi a passo svelto e a dire tutto quello che può prima che il direttore li interrompa di nuovo. “Siamo qui da più di due anni, senza nessuna speranza. Siamo tutti eritrei. Io sono venuto in Libia nel 2005. Cerchiamo asilo politico, a causa della situazione nel nostro paese. Ma il mondo non si interessa a noi. Non è facile stare due anni in prigione, senza nessuna comodità. Siamo in prigione, non vediamo mai l’esterno. Tutti noi abbiamo bisogno della libertà, ecco di cosa abbiamo bisogno”.

      La polizia si avvicina nuovamente, Roman chiede a S. di mostrargli la sua stanza. Zigzagando tra la folla nel cortile entrano nel corridoio su cui danno la vista quattro stanze. All’interno, 18 ragazzi siedono su coperte e materassini di gommapiuma stesi sul pavimento. La stanza misura quattro metri per cinque. Al centro, una pentola gorgoglia sopra un fornellino da campeggio. Non ci sono finestre. “Siamo in troppi qui, è sovraffollato – dice S. – non vediamo la luce del sole e non c’è ricambio d’aria. Con il caldo d’estate la gente si ammala. E anche di inverno, fa molto freddo di notte, la gente si ammala”. Siamo a fine novembre, e i ragazzi indossano ciabatte da mare e leggeri pullover. La stanza accanto è più grande, ci sono solo donne e bambini, ma sono almeno il doppio.

      A quel punto gli uomini della sicurezza interrompono l’intervista e portano Roman fuori dal cortile, dove gli presentano un rifugiato scelto dal direttore... “Sono anche io un prigioniero” gli dice. Ma lui preferisce parlare con J.. Ha 34 anni e dice di essere stato in 13 prigioni diverse in Libia: “Alcuni di noi sono qui da quattro anni. Personalmente sono a Misratah da tre anni. Siamo nella peggiore delle situazioni. Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perchè? Visto che nessuno ci informa. Che cosa sta succedendo là fuori? Diteci che cosa sarà di noi! Nemmeno l’Acnur. Non ci dicono mai niente. Non ho più speranza, quando ci vado a parlare nemmeno mi ascoltano. Pesavo 60 kg quando sono entrato, adesso ne peso 48, immagina perchè..”

      Il colonnello Abu ‘Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. “Vuoi ritornare in Eritrea?” chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. “Preferisco morire – gli risponde – tutti preferirebbero morire. “Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno” minaccia il direttore. “Ci vietano di parlare con te” dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia “Dite loro che li rimpatrieremo tutti!”. Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: “Finito!”. Roman cerca di protestare, “abbiamo finito” gli ripette Abu ‘Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. “Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perchè siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?” chiede alla folla. “Nessuno!” gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega “Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito”.

      Saliamo di nuovo nell’ufficio del colonnello, che con toni molto nervosi cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate – come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur), oppure provare a scappare.

      Haron ha 36 anni. A casa ha lasciato una moglie e due bambini. Dall’Eritrea è scappato dopo 12 anni di servizio militare non retribuito. Dopo due anni di detenzione a Misratah, la Svezia ha accettato la sua richiesta di reinsediamento. E’ partito tre giorni dopo la nostra visita, il 27 novembre 2008, con un gruppo di altri 26 rifugiati eritrei del campo di Misratah, tra cui molte donne. I posti lasciati vuoti saranno presto riempiti con i nuovi arrestati. Già la settimana scorsa sono arrivate otto donne. I reinsediamenti sono le uniche carte che l’Acnur riesce a giocare, da un anno a questa parte, in Libia. Le prime 34 donne eritree lasciarono il campo di Misratah nel novembre del 2007 e furono accolte dall’Italia, a Cantalice, un piccolo comune nella campagna di Rieti. Per l’Italia fu il primo reinsediamento ufficiale di rifugiati dai tempi della crisi cilena del 1973. Ma l’operazione venne censurata dagli uffici stampa del Ministero dell’Interno, per non sollevare polemiche tra i leghisti. Insieme alle donne arrivarono 5 uomini e una bambina nata pochi giorni prima.

      Da allora, circa 200 rifugiati sono stati trasferiti da Misratah in vari paesi. Oltre all’Italia (70), anche in Romania (39), Svezia (27), Canada (17), Norvegia (9) e Svizzera (5). A snocciolarmi i dati è Osama Sadiq. E’ il coordinatore dei progetti della International organisation for peace care and relief (Iopcr). Una importante ong libica, che si dichiara non governativa, ma che tanto indipendente non deve essere, visto che ha al suo interno ex funzionari del ministero dell’interno e della sicurezza. E che è talmente influente, che l’Acnur riesce a entrare a Misratah soltanto sotto la sua copertura. Proprio così. In un paese dove transitano ogni anno migliaia di rifugiati eritrei, ma anche sudanesi, somali ed etiopi, l’Acnur conta meno di una ong. Non ha nemmeno un accordo di sede. E non riesce a spendere una parola a livello internazionale per la liberazione dei 600 prigionieri di Misratah. Probabilmente a dettare la linea politica dell’Acnur in Libia sono fragili equilibri diplomatici da non rompere per non rischiare di farsi cacciare da un Paese che non ha nemmeno mai firmato la Convenzione di Ginevra. Eppure la Libia sta conoscendo una importante fase di apertura. E il governo lavora a una nuova legge sull’immigrazione che però – secondo chi ha letto la bozza - non contiene nessun riferimento alla protezione dei rifugiati.

      Per quelli che non rientrano nei progetti di reinsediamento dell’Acnur, non rimane che l’ennesima fuga. Koubros è uno di loro. Lo incontriamo sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. E’ scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Dove è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare 300 dollari dagli amici eritrei in città. Siede vicino a Tadrous. Anche lui eritreo, anche lui disertore in fuga dal suo paese. E’ uscito due settimane fa dal carcere di Surman. Era stato condannato a cinque mesi di galera dopo essere stato trovato in mare con altri 90 passeggeri, a Zuwarah. In carcere si è preso la scabbia. Gli chiediamo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. Dice che è pericoloso. Gli eritrei vivono nascosti. La nostra presenza potrebbe allertare la polizia e provocare una retata. Y. però la pensa diversamente, vive in una zona diversa. Lo seguiamo.

      Scendiamo in una traversa sterrata di Shar‘a Ahad ‘Ashara, l’undicesima strada, a Gurgi. Qui vivono molti immigrati africani. L’appartamento è di proprietà di una famiglia chadiana, che ha affittato a sette eritrei le due piccole stanze sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. E’ un posto sicuro, dicono, perchè l’ingresso della casa passa dall’appartamento della famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar‘a ‘Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima si correvano a nascondere. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera.

      Continuiamo a parlare delle loro esperienze nelle carceri libiche. Ognuno di loro è stato arrestato almeno una volta. E tutti sono usciti grazie alla corruzione. Basta pagare la polizia, da 200 a 500 dollari, per scappare o per non essere arrestati. I soldi arrivano con Western Union, grazie a una rete di solidarietà tra gli eritrei della diaspora, in Europa e in America.

      Anche Robel è stato a Misratah. C’ha passato un anno. Ci mostra il certificato di richiedente asilo rilasciato dall’Acnur. Scade l’11 maggio 2009. Ma con quello non si sente al sicuro. “Un mio amico è stato arrestato lo stesso, glielo hanno strappato sotto gli occhi”. Durante la detenzione, ha scritto un appello alla comunità internazionale, con un gruppo di sei studenti eritrei.

      Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. E’ la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa con Tadrous. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. “L’importante è arrivare nelle acque internazionali”, dice Y.. Gli intermediari eritrei (dallala) che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le email dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Prima della mia partenza per la Libia, un amico etiope mi aveva dato il numero di telefono di un suo compagno di viaggio, ancora a Tripoli, un certo Gibril. Ho provato a chiamarlo per tutto il tempo, ma il numero era spento. Nell’orecchio mi risuona ancora l’incomprensibile messaggio vocale in arabo. Speriamo che sia arrivato in Italia, o piuttosto a Misratah. E non in fondo al mare.


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/libia-siamo-entrati-misratah-ecco-la.html

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      Frontiera Sahara. I campi di detenzione nel deserto libico
      SEBHA - “Con noi c’era un bambino di quattro anni con la madre, durante tutto il viaggio mi sono domandato: come si può mandare una madre con un bambino di quattro anni insieme ad altre cento persone stipate come animali in un camion come quelli per la frutta, dove non c’è aria e dove stavamo stretti stretti, senza spazio per muoversi, per 21 ore di viaggio, dove le persone urinavano e defecavano davanti a tutti perché non c’era altra possibilità? Abbiamo viaggiato dalle 16:00 alle 13:00 del giorno dopo. Durante il giorno ogni volta che l’autista faceva una sosta per mangiare noi rimanevamo chiusi dentro il rimorchio sotto il sole. Mancava l’aria e tutti si alzavano in preda al panico perché non si respirava e volevamo scendere. Guardare il bambino ci faceva coraggio. Quando il camion si fermava lo prendevamo e lo mettevamo vicino al finestrino. Si chiamava Adam. Il camion si è fermato almeno tre volte nel deserto per far mangiare gli autisti e per la preghiera... Verso l’una siamo arrivati a Kufrah… Quando sono sceso ho rubato il burro con il pane che tenevano appeso fuori dal container. Non avevamo mangiato per tutto il viaggio, eravamo 110 persone, compreso Adam di quattro anni e sua madre”. [1]

      Menghistu non è l’unico a essere stato chiuso dentro un container e deportato. In Libia è la prassi. I container servono a smistare nei vari campi di detenzione i migranti arrestati sulle rotte per Lampedusa. Ne esistono di tre tipi. Il più piccolo è un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio. Quando un rifugiato eritreo, nella primavera del 2006, me ne parlò per la prima volta, stentai a crederlo. L’immagine di centinaia di uomini, donne e bambini rinchiusi dentro una scatola di ferro per essere concentrati in dei campi di detenzione e da lì deportati, mi rievocava i fantasmi della seconda guerra mondiale. Mi sembrava troppo. Ma la figura del container ritornava, come un marchio di autenticità, in tutte le storie di rifugiati transitati dalla Libia che avevo intervistato dopo di lui. Finché quei camion ho avuto modo di vederli con i miei occhi.

      A Sebha ce n’è uno per ogni tipo. Siamo alle porte del grande deserto libico, nella capitale della storica regione del Fezzan. Da qui, fino al secolo scorso passavano le carovane che attraversavano il Sahara. Oggi alle carovane si sono sostituiti gli immigrati. Il colonnello Zarruq è il direttore del nuovo centro di detenzione della città. È stato inaugurato lo scorso 20 agosto. I tre capannoni si intravedono oltre il muro di cinta. Ognuno ha quattro camerate, in tutto il centro possono essere detenute fino a 1.000 persone. Nel parcheggio sterrato, è parcheggiato un camion con uno dei container utilizzati per lo smistamento degli immigrati detenuti. Con una pacca sulle spalle, il direttore mi invita a salire sulla motrice. Un Iveco Trakker 420, a sei ruote. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato ieri sera da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Entriamo nel container, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra in questa scatola di ferro. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra, sotto le panche di ferro. Su una c’è scritto Gambia.

      L’acqua è il bagaglio essenziale per i migranti che attraversano il deserto. Ognuno prima di partire si porta dietro una o due taniche. Le riveste di juta per proteggerle dal sole e ci scrive su il proprio nome per riconoscerle una volta appese ai lati dei camion. Nelle traversate del Sahara la vita è appesa a un filo. Se il motore va in panne, se il camion si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono a decine ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Sulla stampa internazionale abbiamo censito almeno 1.621 vittime in tutto il Sahara. Ma stando alle testimonianze dei sopravvissuti, ogni viaggio conta i suoi morti. E ogni viaggio conta i suoi attacchi da parte di bande armate in Niger e Algeria.

      Tra i cento migranti arrivati a Sebha nel container di ieri c’è anche una famiglia di Sikasso, in Mali. Padre, madre e bambino. Arrestati tre giorni prima, a Ghat, alla frontiera con l’Algeria. Li incontriamo nell’ufficio del direttore. Il piccolino ha otto anni, faceva la terza elementare. Il padre lo stringe affettuosamente tra le forti braccia, mentre racconta in arabo, al nostro interprete, che lui in Europa non ci voleva andare. Che era venuto a Sebha perché aveva già lavorato qui nel 2002, con una compagnia tedesca. Hanno con sé i passaporti, ma senza il visto libico. Nel campo sono chiusi in celle separate. Il bimbo sta con la madre. I loro nomi compaiono sulle liste dei prossimi aerei pronti a partire. Nei primi undici mesi dell’anno, soltanto da Sebha, hanno deportato più di 9.000 persone, soprattutto nigeriani, maliani, nigerini, ghanesi, senegalesi e burkinabé. Solo a novembre i rimpatri sono stati 1.120. Zarruq mi mostra l’elenco dei voli: 467 nigeriani deportati il 2 settembre, 420 maliani a metà novembre. Le ambasciate mandano qui i loro funzionari per identificare i propri cittadini, e poi si provvede al rimpatrio. Kabbiun e Ajouas hanno già incontrato l’ambasciata nigeriana. I piedi di Kabbiun sono scalzi. Lo hanno arrestato a Ghat, le scarpe le ha lasciate in mezzo al deserto. Ajouas invece viveva a Tripoli da sei anni. Nessuno di loro ha visto un giudice o un avvocato. Avviene tutto senza convalida e senza nessuna possibilità di presentare ricorso e tantomeno di chiedere asilo politico.

      È il caso di Patrick. Viene dalla Repubblica democratica del Congo, recentemente tornata alle cronache per la crisi nella regione del Kivu. È stato arrestato un mese fa a Tripoli, mentre cercava lavoro alla giornata sotto i cavalcavia di Suq Thalatha. Possiamo parlare liberamente in francese, perché l’interprete non lo conosce. Mi porge un foglio spiegazzato dalla tasca. È il suo certificato di richiedente asilo politico. Rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) a Tripoli, il nove ottobre 2007. Qua dentro è carta straccia. Come gli altri detenuti, Patrick non ha diritto di telefonare a nessuno, nemmeno all’Acnur. Se non trova prima i soldi per corrompere qualche poliziotto, anche lui, prima o poi, sarà deportato. E come lui i suoi compagni di cella. Sono camerate di otto metri per otto. I detenuti sono buttati per terra su stuoini e cartoni. La luce entra dalle vetrate in cima alle alte pareti. Ogni camerata è riempita con 60-70 persone. Stanno chiusi tutto il giorno, escono solo per i pasti, in un locale adibito a mensa, accanto a un piccolo chiosco dove i detenuti possono comprare bibite, dolci o medicine, sempre all’interno del muro di cinta.

      Le compagnie aeree che si occupano delle deportazioni sono libiche: Ifriqiya e Buraq Air. I soldi pure, garantisce il direttore. Ma è difficile credergli. Dopotutto il rapporto della Commissione europea del dicembre 2004 parlava già allora di 47 voli di rimpatrio finanziati dall’Italia. Zarruq scuote il capo. Dice che da Roma hanno avuto soltanto due fuoristrada per il pattugliamento, con il progetto Across Sahara. E il nuovo centro di detenzione? Ha finanziato tutto la Libia, insiste. Ammette però che l’Italia si era impegnata a costruire un nuovo centro, e che la a sha‘abiyah, la municipalità, aveva anche predisposto un terreno. Ma poi non se ne è fatto niente. Intanto però il vecchio campo è stato restaurato e ampliato, grazie anche ai lavori forzati degli immigrati detenuti. Questo Zarruq non me lo può dire, ma sono voci che corrono tra i rimpatriati, dall’altro lato della frontiera, a Agadez, in Niger. Ad ogni modo, insiste, oggi tutti i rimpatri avvengono in aereo, anche quelli verso il Niger: Sono passati i tempi dei cosiddetti “rimpatri volontari”, quando, nel 2004, oltre 18.000 nigerini e non solo vennero caricati sui camion e abbandonati alla frontiera in pieno deserto, con le decine di vittime che ne seguirono a causa degli incidenti.

      Ma Zarruq non ha intenzione di parlare di questo. E nemmeno il luogo tenente Ghrera. È lui il responsabile delle pattuglie nel Sahara. L’Italia e l’Europa si sono impegnate a finanziare alla Libia un sistema di controllo elettronico delle frontiere terrestri, firmato FinMeccanica. Lui alla sola idea sorride. Lavora nel deserto da 35 anni. Conosce bene il terreno. Per darci un’idea ci accompagna a Zellaf, 20 km a sud di Sebha. Ancora non siamo nel grande Sahara. Eppure davanti a noi non si vede che sabbia. I due fuoristrada, dopo una corsa a cento km all’ora sulle dune, fermano i motori. Ghrera e l’altro autista, ‘Ali, si lavano le mani nella sabbia. E si inginocchiano verso est. Dopo la preghiera, si riavvicinano. Controllare le rotte nel Sahara è impossibile, dice. Sono 5.000 km di deserto. Un’area troppo vasta e un terreno troppo accidentato Gli 89 autisti – quasi tutti libici – arrestati nei primi undici mesi del 2008 sono un’inezia rispetto alle migliaia di persone che attraversano il Sahara ogni anno. Alle missioni di pattugliamento partecipano gruppi di 10 fuoristrada. Stanno fuori per cinque giorni, ci spiega. Poi sorride. Ha trovato una bottiglia vuota di Gin, per terra. L’alcol in Libia è illegale. E infatti sulla bottiglia c’è scritto fabriqué au Niger, prodotto in Niger. Ghrera lancia la bottiglia nella sabbia, poco lontano. Non dice niente. I traffici non riguardano solo gli immigrati. Ci sono l’alcol, le sigarette, la droga, le armi. Prima di riaccendere il motore ribadisce il concetto: anche con il doppio delle pattuglie, il deserto rimane una porta aperta.

      Il centro di detenzione di Sebha non è l’unico campo di detenzione al sud. Ce ne sono almeno altri cinque. Quelli di Shati, Qatrun, Ghat e Brak, nel sud ovest del paese, fanno capo a Sebha, nel senso che gli immigrati arrestati in queste località vengono poi smistati a Sebha dentro i container. L’altro campo si trova 800 km a sud est, a Kufrah, e lì vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan. È il carcere che gode della peggiore fama, tra gli stessi libici.

      Mohamed Tarnish è il presidente dell’Organizzazione per i diritti umani, una ong libica finanziata dalla Fondazione di Saif al Islam Gheddafi, il primogenito del colonnello. Ci incontriamo al Caffè Sarayah, a due passi dalla Piazza Verde, a Tripoli. La sua organizzazione, sotto la guida del suo predecessore, Jum‘a Atigha, ha ottenuto il rilascio di circa 1.000 prigionieri politici e si è battuta per il miglioramento delle condizioni delle carceri libiche. Da un paio d’anni hanno accesso anche ai centri di detenzione degli immigrati. Ne hanno visitati sette. Ha la bocca cucita, davanti a noi c’è un funzionario dell’agenzia per la stampa estera del governo libico. Ma riesce comunque a farci capire che il centro di Kufrah è il peggiore. Le condizioni del vecchio fabbricato, il sovraffollamento, la scadenza del cibo e l’assenza di assistenza sanitaria.

      Per capire il significato delle allusioni di Tarnish, rileggo le interviste fatte ai rifugiati eritrei ed etiopi nel 2007.“Dormivamo in 78 in una cella di sei metri per otto” - “Dormivamo per terra, la testa accanto ai piedi dei vicini” - “Ci tenevano alla fame. Un piatto di riso lo potevamo dividere anche in otto persone” - “Di notte mi portavano in cortile. Mi chiedevano di fare le flessioni. Quando non ce la facevo più mi riempivano di calci e maledivano me e la mia religione cristiana” – “Usavamo un solo bagno in 60, nella cella c’era un odore perenne di scarico. Era impossibile lavarsi” - “C’erano pidocchi e pulci dappertutto, nel materasso, nei vestiti, nei capelli” - “I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti”. È il ritratto di un girone infernale. Ma anche di un luogo di affari. Sì perché da un paio d’anni la polizia è solita vendere i detenuti agli stessi intermediari che poi li porteranno sul Mediterraneo. Il prezzo di un uomo si aggira sui 30 dinari, circa 18 euro.

      Non sono stato autorizzato a visitare il centro di Kufrah e non ho potuto verificare di persona. Tuttavia il fatto che le versioni dei tanti rifugiati con cui ho parlato coincidano nel disegnare un luogo di abusi, violenze e torture, mi fa pensare che sia tutto vero. Nel 2004 la Commissione europea riferiva che l’Italia stava finanziando il centro di detenzione di Kufrah. Nel 2007 il governo Prodi smentiva la notizia, dicendo che si trattava di un centro di assistenza sanitaria. Poco importa. Dal 2003, Italia e Unione Europea finanziano operazioni di contrasto dell’immigrazione in Libia. La domanda è la seguente: perché fingono tutti di non sapere?

      Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, informava il Copaco: “I clandestini [in Libia, ndr.] vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”. Ma i funzionari della polizia italiana sapevano già tutto. Già perché dal 2004 alcuni agenti fanno attività di formazione in Libia. E alcuni funzionari del ministero dell’Interno, hanno visitato in più occasioni i centri di detenzione libici, Kufrah compreso, limitandosi a non rilasciare dichiarazioni. E l’ipocrita Unione Europea? Il rapporto della Commissione europea del 2004, definisce le condizioni dei campi di detenzione libici “difficili” ma in fin dei conti “accettabili alla luce del contesto generale”. Tre anni dopo, nel maggio 2007, una delegazione di Frontex visitò il sud della Libia, compreso il carcere di Kufrah, per gettare le basi di una futura cooperazione. Indovinate cosa scrisse? “Abbiamo apprezzato tanto la diversità quanto la vastità del deserto”. Sulle condizioni del centro di detenzione però preferì sorvolare. Una dimenticanza?

      [1] Testimonianza raccolta dalla scuola di italiano Asinitas, Roma, 2007


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/frontiera-sahara-i-campi-di-detenzione.html

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      Guantanamo Libia. Il nuovo gendarme delle frontiere italiane

      La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e dall’Unione europea.

      I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: “Aiutateci!”. Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C’è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l’Italia siglò con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare questi centri.

      “La gente soffre! Il cibo è pessimo, l’acqua è sporca. Ci sono donne malate e altre incinte”. Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l’arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora, lui nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti dai nuovi gendarmi della frontiera italiana.

      All’Europa invece aveva pensato Y.. C’aveva pensato e come. Disertore dell’esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due mesi fa per Lampedusa. Ma è stato fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d’arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa cenno di sì col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde “Everything is good”. Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono concentrati i prigionieri di nazionalità eritrea.

      Nella provincia esistono altri tre centri di detenzione per stranieri, a Khums, Garabulli e Bin Ulid. Ma sono strutture più piccole e i detenuti vengono poi tradotti nel campo di Zlitan, che può rinchiudere fino a 325 persone, in attesa del loro rimpatrio. Ma quanti sono i centri di detenzione in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, ne abbiamo contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums… dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah… Prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata sostituita dal Twaisha, un’altra prigione vicino all’aeroporto.

      Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro e ha pensato all’Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora l’hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti alla chiesa di San Francesco, a Tripoli. Come ogni venerdì, una cinquantina di migranti africani aspetta l’apertura dello sportello sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se gli fu dato un avvocato d’ufficio. Sorride scuotendo la testa. La risposta è negativa.

      Niente di strano, sostiene l’avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell’ordine degli avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza nessuna base legale dunque, ma solo sull’onda dell’emergenza. Anche in Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un mandato d’arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.

      “I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del Mediterraneo. L’Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno vuole parlare dei loro diritti”. Anche Jumaa Atigha è un avvocato di Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto penale dell’Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal 1999 ha presieduto l’Organizzazione per i diritti umani della Fondazione guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla liberazione di 1.000 prigionieri politici. Ci descrive un paese in rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c’è nessuna legge sull’asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta occupando di scrivere un nuova legge sull’immigrazione.

      Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal 1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia libica. “Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia”.

      Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia all’Università El Fatah di Tripoli. “Non è un problema di razzismo. I libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia”. Attir sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel 1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione - sostiene -, e sono educati al concetto di punizione.

      Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina, ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale. Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia, migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani. E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione, di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell’Hiv.

      Il professor Attir, nel 2007, ha organizzato tre seminari sul tema dell’immigrazione nei paesi arabi. In Libia è uno dei massimi esperti. Ed è pronto a smentire la cifre che circolano in Europa. “Due milioni di immigrati in Libia pronti a partire per l’Italia? Non è vero”. In realtà non esistono statistiche di nessun tipo. Ma solo stime. Che però – secondo Attir – non sono attendibili. Basta dare un occhio in giro. La popolazione libica è di cinque milioni e mezzo di persone. Gli stranieri non possono ragionevolmente essere più di un milione, compresi gli immigrati arabi egiziani, tunisini, algerini e marocchini. La maggior parte di loro non ha mai pensato all’Europa. E la Libia ha bisogno di loro, perché è un paese sottopopolato e perché i libici non vogliono più fare lavori pesanti e mal retribuiti. Attir è consapevole delle pressioni che l’Europa sta facendo sulla Libia perché sigilli le sue frontiere. Ma sa che “non c’è modo per farlo”.

      La Libia ha circa 1.800 km di costa, in buona parte disabitati. Il colonnello Khaled Musa, capo delle pattuglie anti immigrazione a Zuwarah, non sa che farsene delle sei motovedette promesse dall’Italia. Potrebbero servire a pattugliare meglio il tratto di mare tra la frontiera tunisina, Ras Jdayr, e Sabratah, ammette. Ma sono solo 100 km. Il 6% della costa libica. E le partenze si sono già spostate sul litorale a est di Tripoli, tra Khums e Zlitan, a più di 200 km da Zuwarah. Il dipartimento anti immigrazione di Zuwarah è nato nel 2005. Il numero di migranti arrestati è sceso da 5.963 nel 2005 a soli 1.132 nel 2007. Per il capo del dipartimento investigazioni, Sala el Ahrali, i dati indicano il successo delle misure repressive. Molti degli organizzatori dei viaggi sono stati arrestati, questo sarebbe il motivo per cui le partenze si sono ridotte. E la costa è più controllata. Ogni dieci chilometri è installata una tenda, in mezzo alla spiaggia. Serve da appoggio ai fuoristrada della polizia, che da due anni pattugliano la litoranea, appoggiati da quattro motovedette della marina. Il tratto di costa attualmente pattugliato è di una cinquantina di chilometri. Parte da Farwah, a una decina di chilometri dalla frontiera tunisina, e finisce 15 km a est di Zuwarah, a Mellitah, nei pressi dell’imponente impianto di trattamento del gas di proprietà dell’Eni e della libica National Oil Company.

      E proprio da Mellitah parte il #Greenstream, il gasdotto sottomarino più lungo del Mediterraneo. Collega la Libia a Gela, in Sicilia. Ironia della sorte, corre lungo la stessa rotta che porta i migranti a Lampedusa. Come dire che mentre sulla superficie del mare l’Europa dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri umani, otto miliardi di metri cubi di gas ogni anno scorrono silenziosi nei 520 km di condotta posata sui fondali di quello stesso mare, in mezzo alle ossa delle migliaia di uomini e donne morti nella traversata del Canale di Sicilia. Un’immagine che sintetizza perfettamente le relazioni degli ultimi cinque anni tra Roma e Tripoli, condotte all’insegna dello slogan “più petrolio e meno immigrati”.

      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/guantanamo-libia-il-nuovo-gendarme.html
      #gazoduc

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      Liens qu’il a mis aujourd’hui sur FB pour accompagner ce message:

      Non conosco nessuno dell’equipaggio di #Lifeline, la nave della ONG accusata dal ministro Salvini di aver agito fuorilegge soccorrendo 239 passeggeri in difficoltà in acque libiche. Purtroppo però conosco bene le carceri libiche. Fui il primo giornalista italiano a visitarle nel 2008 insieme al collega e amico Roman Herzog. Abusi, pestaggi, violenze sulle donne erano la norma già allora. Gli unici che si salvavano erano quelli che riuscivano a farsi mandare abbastanza soldi dai familiari in Europa con cui corrompevano facilmente le guardie colluse con le mafie del contrabbando per farsi rilasciare e tentare di nuovo la traversata. Gli altri, dopo mesi di prigione in condizioni inumane venivano rimpatriati sui voli dell’OIM oppure, molto più spesso, stipati come vuoti a rendere dentro i container dei camion che prendevano la via del deserto, per decine di ore, mentre sotto il sole le lamiere di ferro diventavano un forno, per essere infine abbandonati alla frontiera sud con il Niger e il Sudan, in una terra di nessuno. E quanti ne sono morti anche lì, in mezzo al Sahara. Con molti giornalisti e documentaristi abbiamo denunciato questa situazione fin dal 2007. Da quando Prodi e Amato negoziarono gli accordi di respingimento con Gheddafi a quando Berlusconi e Maroni li misero in pratica nel 2009. Da allora sembra non essere cambiato molto. E allora, pur non conoscendoli, mi azzardo a pensare che l’equipaggio della #Lifeline abbia disobbedito all’ordine di consegnare i passeggeri alla guardia costiera libica temendo per il destino di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini, immaginando il triste destino che li attendeva nelle prigioni oltremare.

      Dopodiché se il comportamento della #Lifeline costituisca un reato lo deciderà un giudice anche alla luce di queste considerazioni. Perché quello che il ministro Salvini si dimentica di ricordare è che la Libia non è Malta, non è la Spagna, non è la Francia. La Libia di oggi non è un paese sicuro.

      Ciononostante, attenzione, gli sbarchi devono cessare. Ma come si fa?

      Si aprono vie legali. Perché, ministro, da contribuenti italiani non vogliamo finanziare altre prigioni in Libia. Vogliamo finanziare asili nido, scuole, parchi, ospedali. Non vogliamo continuare a finanziare le milizie colluse con le stesse mafie del contrabbando che dite di voler combattere.

      Per sconfiggere quelle mafie, azzerare gli sbarchi e porre fine alle tragedie delle traversate c’è un unico modo: legalizzare l’emigrazione Africa-Europa. Perché fin quando quell’emigrazione sarà illegale, ci sarà qualche mafia pronta a lucrarci. Oggi i libici, domani gli egiziani o i tunisini. Il mare è grande e incontrollabile.

      La soluzione sarebbe così semplice che è incredibile credere che i vostri consiglieri non ve l’abbiano prospettata. Andate in Europa e chiedete a gran voce che le ambasciate UE in Africa riaprano i canali legali dei visti che hanno progressivamente chiuso in questi ultimi vent’anni, spingendo centinaia di migliaia di giovani nelle mani del contrabbando libico a cui abbiamo concesso il monopolio della mobilità sud-nord in questo mare.

      Calcolate quante persone ogni anno attraversano il mare per rimanere bloccati in Italia, senza documenti e senza lavoro. Calcolate quanti sono e rilasciate lo stesso numero di visti per ricerca di lavoro. Affinché quelle stesse persone possano comodamente imbarcarsi in aereo, con in tasca un passaporto e un visto europeo liberi di circolare in tutta Europa, ricongiungersi con i propri familiari e cercare lavoro là dove il lavoro c’è, in quel centro e nord Europa che in questi anni ha importato milioni di lavoratori dall’est mentre noi a sud predicavamo il blocco navale e continuavamo a contare i morti.

      In caso contrario, signor ministro, siate più chiari. Dite semplicemente che di negri in Europa non volete vederne. Né per le vie legali né per quelle illegali.

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2121309374549318&id=100000108285082

    • La zona SAR libica non esiste. Il grande inganno nel rimbalzo dei soccorsi

      "Una zona SAR libica ad oggi non esiste”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di immigrazione, membro del direttivo di Osservatorio Solidarietà. “E non esiste in quanto il governo di Tripoli non ha soddisfatto i requisiti imposti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) per il riconoscimento delle zone SAR”, aggiunge l’avvocato.

      I requisiti consistono nell’accordo tra lo Stato che si pone come responsabile delle operazioni di salvataggio in una propria area di mare l’Organizzazione marittima internazionale (IMO). A quel punto i dati della zona SAR devono essere inseriti in un database ufficiale e pubblico, il GISIS. A marzo, in seguito al caso Open Arms, Famiglia Cristiana aveva fatto una verifica con l’IMO e la risposta ricevuta era stata: “La Libia non ha inviato le sue informazioni”.

      “Quasi tutte le operazioni di soccorso in acque internazionali nelle ultime settimane sono state coordinate dal Comando della Guardia costiera italiana proprio perché la Libia non esiste come paese unitario e non ha un Comando centrale unificato”, aggiunge Vassallo Paleologo.

      “Ma tutto è cambiato dal caso Aquarius”. Infatti da alcuni giorni anche sul sito dell’IMO compare il riferimento alla zona SAR libica “ma continua a non esistere uno stato unitario e anche le guardie costiere delle diverse città rispondono a milizie diverse“, avverte l’avvocato. “Alla fine il risultato è che il trasferimento di competenze ai libici e l’allontanamento delle Ong produce un ritardo nei soccorsi, un amento delle vittime e delle persone riportate nei centri di detenzione in Libia dove continuano gli abusi”.

      Esiste invece una zona SAR maltese. Ma Malta ha dichiarato unilateralmente la sua zona di ricerca e soccorso, un’area molto ampia che però non è riconosciuta dalle autorità marittime internazionali poiché il Governo de la Valletta non ha mai sottoscritto alcune modifiche della convenzione di Amburgo del 1979 e della convenzione #Solas introdotte nel 2004. Queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati coordinati dall’Italia. Quindi, in base al diritto internazionale e alla prassi i soccorsi coordinati dall’Italia hanno sempre indicato un porto di sbarco italiano.

      http://osservatoriosolidarieta.org/la-zona-sar-libica-non-esiste-il-grande-inganno-nel-rimbalz
      #Malte #SAR

    • Conséquences pour les droits de l’homme de la « dimension extérieure » de la politique d’asile et de migration de l’Union européenne : loin des yeux, loin des droits ?

      Les objectifs de la délégation des procédures de migration aux pays en dehors des frontières de l’Union européenne sont, entre autres, d’alléger la pression migratoire des États membres aux frontières de l’UE et de réduire le besoin des migrants d’entreprendre des voyages terrestres et maritimes potentiellement mortels. La réinstallation dans toute l’Europe devrait ensuite faciliter un afflux plus régulier sur le continent. Cependant, le transfert des responsabilités et l’engagement de pays tiers dans le renforcement de contrôles aux frontières de l’UE comportent de sérieux risques pour les droits de l’homme. Il augmente le risque que les migrants soient « bloqués » dans les pays de transit par la réadmission et le recours accru à des mesures punitives et restrictives telles que le refoulement, la rétention arbitraire et les mauvais traitements. C’est également un moyen pour de nombreux États membres de l’Union européenne de prendre leurs distances par rapport à la question de l’assistance et de l’intégration des réfugiés, qui est source de divisions politiques.

      Ce #rapport exhorte les États membres à œuvrer ensemble pour que le recours accru à des politiques de dissuasion ne porte pas atteinte au devoir des États européens de respecter et de défendre les droits de l’homme à l’échelle mondiale et à s’abstenir d’externaliser le contrôle des migrations vers les pays où la législation, les politiques et les pratiques ne respectent pas les normes de la Convention européenne des droits de l’homme et de la Convention des Nations Unies relative au statut des réfugiés.

      http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-fr.asp?fileid=24808&lang=fr

    • Sahel, la France en guerre ?

      Au Mali, alors que la campagne pour les élections présidentielles du 29 juillet bat son plein, l’insécurité liée au terrorisme grandit. La France a-t-elle encore un rôle a jouer ? Elle a depuis 2013 une forte présence militaire entre le Sahel et le Sahara, mais quelle place tient-elle dans la guerre contre le terrorisme ?

      Sahel, la France en guerre ? Par David Dominé-Cohn ntoine de Saint-Exupéry dans Terre des hommes (1939) dresse le portrait des officiers français des compagnies méharistes au Sahara. Développées à partir de 1897 par le commandant Laperrine, ces unités d’infanterie, relevant pour partie de la Légion étrangère, apparentées aussi aux spahis, ont effectué un travail de police et de contrôle des populations des oasis. Chez l’écrivain, le capitaine Bonnafous exerce son autorité, fascinante pour l’observateur occidental, dans un mélange d’héroïsme, d’humanité et d’extrême violence : « À cause de Bonnafous chaque pas vers le sud devient un pas riche de gloire »… et d’insurrections des populations locales.

      Les grandes formes historiques semblent se reproduire dans le désert. Depuis 2013, la France entretient une présence militaire entre le Sahel et le Sahara : 4500 hommes au printemps 2018. Avec 500 opérations en trois ans et demi, l’objectif affiché est d’abord de maintenir la pression sur les groupes terroristes et d’apporter un soutien à la population locale. Les attaques terroristes sur place sont l’occasion de s’interroger sur l’espace du Sahara et du Sahel comme étant redevenu un espace majeur d’action militaire de la France. Témoignant dans le livre de David Revault d’Allones, Les guerres du président (2015), Sacha Mandel, plume de Jean-Yves Le Drian, revendique le terme de guerre pour ce qui a causé, pour la France 22 morts et des dizaines de blessés et des centaines morts et de blessés pour les adversaires. Or peut-on faire la guerre au terrorisme ?

      Faire la « guerre au #Mali » puis faire la guerre au #terrorisme

      L’intervention française au Mali avec l’opération Serval commence le 11 janvier 2013 pour soutenir l’État malien dans la reprise des villes du pays contrôlées par une alliance entre le MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad) touareg, qui réclame le développement et l’indépendance du Nord du pays, l’Azawad, et des mouvements islamistes comme Ansar Dine et le MUJAO (Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest) et d’autres issus de la guerre civile algérienne des années 1990 comme AQMI. Les opérations militaires françaises, appuyées par les forces des États voisins, visent d’abord à sécuriser Bamako, comme l’affirme le président Hollande le 15 janvier aux Émirats Arabes Unis. La boucle du fleuve Niger est reprise entre le 22 et le 28 janvier, la ville de Gao le 25. Le 27 janvier par une opération aéroportée de la Légion, Tombouctou est contrôlée, puis Kidal le 30. En février et mars les forces avancent vers le nord, vers Tesslit et Tigharghâr, pendant que Gao connaît un regain de violence et d’actes terroristes kamikazes comme dans la nuit du 9 au 10 février. Un effort important est fait pour séparer les mouvements de l’Azawad des islamistes. Ainsi, le général tchadien Mahamat Idriss Déby Itno déclare le 11 janvier à RFI que ses troupes, qui occupent la ville, entretiennent de bonnes relations avec le MNLA. Le 2 février, dans un discours à Bamako, François Hollande considère l’action française comme inachevée et se donne comme objectif l’éradication du terrorisme. Les opérations antiterroristes scandent toute la seconde moitié de l’année 2013 et le début de 2014. Le 1er août 2014, l’opération Serval et l’opération Épervier au Tchad sont regroupées dans l’opération Barkhane qui porte sur l’ensemble de la bande sahélo-saharienne. Michel Galy (La guerre au Mali. Comprendre la crise au Sahel et au Sahara. Enjeux et zones d’ombre, 2013) rappelle que l’intervention française s’inscrit à la fois dans une forme de tradition française et dans un contexte général de transformation de la région. Au-delà de la remise en cause du mode de gouvernement du président Amadou Toumani Touré, les différents mouvements indépendantistes ou djihadistes s’inscrivent dans des enjeux régionaux où pèsent certains voisins du Maghreb, les puissances d’Afrique de l’Ouest et de toutes les grandes puissances mondiales occidentales ou orientales. Elles sont attentives au développement des mouvements terroristes se revendiquant de l’islam mais aussi à une région de plus en plus stratégique, jeune, au sous-sol très riche et qui sera un foyer de peuplement du XXI siècle.

      De la ligne de front à une ligne de postes

      Barkhane est devenue une opération de surveillance anti-terroriste d’un territoire immense à partir de postes avancés en liaison avec les forces locales. Le 18 avril 2018, Michel Cambon, président de la commission sénatoriale des affaires étrangères, de la défense et des forces armées souligne que dans ce cadre, la stratégie française est celle de « coups de poing » menées par des forces spéciales basées à Ouagadougou grâce au dispositif Sabre. Celui-ci est ancien, plus ancien que Barkhane et Serval. Dans le livre blanc de défense et de sécurité nationale en 2008, la désignation de l’arc de crises, allant de l’Océan atlantique à l’Océan indien entraîne la mise en place d’un plan Sahel qui comporte un large volet anti-terroriste. Comme le souligne Jean- Christophe Notin (La guerre de la France au Mali, 2014), la composante essentielle de ce volet est le prépositionnement d’unités dites Sabre de forces spéciales. Elles ont joué un rôle au début de Serval dans la protection des sites nucléaires du Niger et ont participé aux opérations Serval et Barkhane. Le soutien à la lutte anti-terroriste est un moyen majeur d’influence des grandes puissances en Afrique. Les États-Unis sont ainsi très présents depuis 2007 via leur commandement pour l’Afrique (Africom) ; la qualification de terroriste permet à chacun de se trouver un ennemi commun. Le passage d’une logique d’action militaire de reprise d’un territoire à une action de surveillance, de police et de contre-terrorisme se traduit par de nouveaux besoins en matériel, comme le souligne le sénateur Cambon : « les hélicoptères lourds, les véhicules de type quad/pickup pour la mobilité, les ISMI catcher pour l’écoute des GSM, la biométrie, la capacité « drones » ». Il conclue son rapport par « un message assez clair et assez pessimiste » : une opération militaire ne réglera pas un problème politique.

      Le terrorisme persiste largement dans la région. Le Groupement de Soutien à l’Islam et aux Musulmans, qui fédère plusieurs groupes djihadistes, dont Ansar Dine, des katibats d’al-Qaïda au Maghreb islamique et d’al-Mourabitoune, lance régulièrement des attaques contre les forces dans la région. Le 2 mars 2018, deux attaques à Ouagadougou au Burkina Faso ont fait 8 morts et une soixantaine de blessés. Le 14 avril, le GSIM a lancé une attaque « complexe » avec une quinzaine d’attaquants à Tombouctou contre la force Barkhane et la Mission des Nations unies au Mali. Le groupe a revendiqué son action comme une réponse à des raids aériens. Le 5 juillet, Emmanuel Macron évoque un redéploiement du dispositif français. Le bureau pour l’Afrique de l’Ouest et le Sahel de l’ONU soulignait dans un rapport du 29 juin la montée en capacité des mouvements terroristes autant que le possible resserrement des liens entre les différents mouvements djihadistes violents avec une extension de leurs zones d’activité. La réduction des adversaires à des mouvements avant tout terroristes mais mobiles et circulant dans un large territoire a conduit à un renouvellement des logiques d’action : le droit de poursuite au-delà de la frontière est nécessaire. Créé en février 2014, le G5 regroupe le Mali, le Niger, le Burkina Faso et le Tchad. Il vise le développement régional et la lutte contre le terrorisme. Cependant l’objectif d’une force commune actée en novembre 2015 peine à se réaliser et il a fallu attendre juin 2017 pour que l’ONU salue sa mise en place. Les financements sont aujourd’hui très insuffisants par rapport aux immenses besoins nés des contraintes du territoire. La France occupe donc de fait un rôle central dans la réalisation d’opérations de contreterrorisme par sa capacité très supérieure dans les domaines du renseignement, de la mobilité et de la frappe. Dans un milieu désertique, un espace que l’on traverse, l’action militaire est une action de contrôle de flux qui entraîne soit l’enlisement, soit des reconfigurations politiques, militaires et institutionnelles profondes. La criminalisation des personnes circulant dans de tels espaces est une stratégie classique de contrôle. Pour Hélène Claudot-Hawad (Galy, La guerre au Mali, 2013), la question Touareg a été construite tout au long de la colonisation : à partir des années 1910, l’administration française déploie un projet de tribalisation dans le but de contrôler des groupes et des circulations dans la bande sahélo-saharienne. La question des Touaregs est restée problématique pour les pouvoirs issus de la décolonisation. A l’aube de la décennie 2000 les tensions sont fortes d’autant plus que les organisations régionales de contrebande rejoignent une partie des mouvements islamistes.

      L’envers de la lutte contre les pirates du désert

      Le G5 Sahel se veut l’instrument d’une action régionale centrée sur la lutte anti-terroriste. Le terroriste y est celui qui circule impunément et qui devient ce que Daniel Heller-Roazen a vu dans la figure ancienne du pirate : l’ennemi de tous (L’ennemi de tous. Le pirate contre les nations, 2010, édition originale anglaise 2009). Le pirate brouille la limite entre criminalité et politique : « la piraterie entraine une transformation du concept de guerre. » C’est dans cette perspective qu’on peut lire le rapport du Haut Commissariat des Nations Unies pour les Droits de l’Homme qui dénombre au Mali 1200 violations entre janvier 2016 et juin 2017 faisant 2700 victimes dont 441 morts. Si plus de 70% des violations sont le fait d’acteurs non étatiques on peut, par exemple, s’interroger sur le statut des 150 arrestations administratives faites par les forces de Barkhane. Les « neutralisations » des terroristes, leur mort pendant des combats ou suite à des frappes aériennes, posent également question. Le respect des Droits de l’Homme est en jeu, mais aussi le cadre juridique dans lequel interviennent les troupes françaises. En arrière plan, le rapport de l’ONU pointe que 20% des violations sont le fait des forces de sécurité maliennes. A l’horizon de ce rapport qui suit plusieurs autres avant lui, par exemple celui en mai 2017 de la FIDH « Mali : Terrorisme et impunité font chanceler un accord de paix fragile » souligne les impasses d’une approche centrée sur l’anti-terrorisme et qui ne vise pas un processus politique global dans la région. De ce fait, interroger l’action française au Sahel c’est aussi nous interroger sur le rapport au territoire des autres, particulièrement des pays en développement, le rapport aux flux dans un contexte d’urgence migratoire. Cela questionne les actions militaires futures. Ces engagements sont usants pour les hommes et les matériels et constituent un poids considérable sur notre appareil militaire. Les opérations de lutte contre le terrorisme sont légitimes dans la mesure où la terreur et les actes criminels ne sauraient être tolérés. Il faut mesurer le dilemme moral qui pèse sur tout gouvernant à la tête d’une puissance militaire capable d’une opération pour faire cesser ce qui constitue à un moment donné un scandale moral. Mais il faut admettre que ce qui constitue un scandale moral aujourd’hui s’inscrit dans des problématiques plus vastes et plus anciennes. Oublier que le terrorisme et les terroristes sont les manifestations de problèmes plus larges qu’eux-mêmes, c’est accepter de croire qu’il est possible aujourd’hui, en démocratie de faire la guerre à un mode d’action et à des idées et de gagner. L’aveuglement de certaines grandes puissances face à ces enjeux tient souvent du refoulement de problèmes qui leurs sont propres. Dans un coin du parc Montsouris à Paris, un obélisque commémore le colonel Flatters et ses compagnons tués par des Touaregs en 1881 à Bir el-Garama en tentant de rejoindre le Soudan français par le Sahara. Son expédition était l’aboutissement d’un projet porté depuis 1879 par la commission supérieure du Transsaharien visant à la création d’un chemin de fer allant de l’Algérie à Dakar via le Mali dans une double perspective de contrôle des circulations sahélo-sahariennes et donc des populations y vivant mais aussi des ressources présentes dans la région et pouvant présenter un intérêt colonial. L’échec de la mission Flatters n’a pas limité ces entreprises puisque le contrôle de ces espaces de désert a été un axe politique majeur des autorités coloniales de l’Algérie comme de l’Afrique occidentale française.

      https://aoc.media/analyse/2018/07/11/sahel-france-guerre

      signalé par @isskein via la mailing-list Migreurop

    • États africains, portiers de l’Europe

      À coups de milliards versés par l’Union européenne, les États africains deviennent les nouveaux gardes-frontières du Vieux Continent. Cette vaste enquête menée dans douze pays explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      L’Espagne a été la première à franchir le pas : face à l’afflux de migrants sur les côtes des #Canaries, le pays a décidé de subventionner plusieurs pays d’#Afrique_de_l’Ouest afin qu’ils se chargent d’arrêter à leurs frontières les candidats à l’exil. L’#Union_européenne a emboîté le pas à l’Espagne, en conditionnant l’#aide_au_développement à destination d’une vingtaine de pays africains à un renforcement de ces contrôles. Policiers et militaires européens sont parallèlement envoyés sur place pour aider à briser les routes migratoires. L’UE n’hésite d’ailleurs pas à faire de dictatures comme l’#Érythrée et le #Soudan ses « partenaires » dans la chasse aux migrants. Les véritables gagnants de ces interventions à grande échelle sont les entreprises d’armement et de sécurité européennes, dans lesquelles sont réinvesties les subventions versées. Au fil d’une vaste enquête dans douze pays, Jan M. Schäfer explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      https://www.arte.tv/fr/videos/078195-000-A/etats-africains-portiers-de-l-europe
      #film #documentaire
      #business #armes #armement

      Le documentaire n’est plus disponible sur arte, mais peut être visionné sur Youtube, voici quelques liens actuellement valides :
      https://www.youtube.com/watch?v=IUSIi-qP2pY


      https://www.youtube.com/watch?v=o0nf5c4FOPo

      https://www.youtube.com/watch?v=Hu7VvY5fs7Y

    • La relation dangereuse entre migration, développement et #sécurité pour externaliser les frontières en Afrique

      L’ARCI, dans le cadre du projet de monitorat de l’externalisation des politiques européennes et italiennes sur les migrations – parallèlement à son travail de communication constant sur l’évolution des accords multilatéraux et bilatéraux avec les pays d’origine et de transit, a produit ce document d’analyse pour alerter la société civile et les gouvernements sur les dérives possibles de ces stratégies qui conduisent à des violations systématiques des droits fondamentaux et des Conventions internationales


      https://www.arci.it/documento/la-relation-dangereuse-entre-migration-developpement-et-securite-pour-externali
      #rapport #Soudan #Niger #Tunisie

      In English :
      https://www.arci.it/documento/the-dangerous-link-between-migration-development-and-security-for-the-externali

    • Giochi pericolosi: delocalizzare in Africa le frontiere Ue

      Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

      Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

      La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

      Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

      L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

      Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

      Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

      Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

      Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

      Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

      Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

      L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

      In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

      Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.

      https://left.it/2018/08/07/giochi-pericolosi-delocalizzare-in-africa-le-frontiere-ue

    • Europe Is Making Its Migration Problem Worse. The Dangers of Aiding Autocrats

      Three years after the apex of the European refugee crisis, the European Union’s immigration and refugee policy is still in utter disarray. In July, Greek officials warned that they were unable to cope with the tens of thousands of migrants held on islands in the Aegean Sea. Italy’s new right-wing government has taken to turning rescue ships with hundreds of refugees away from its ports, leaving them adrift in the Mediterranean in search of a friendly harbor. Spain offered to take in one of the ships stuck in limbo, but soon thereafter turned away a second one.

      Behind the scenes, however, European leaders have been working in concert to prevent a new upsurge in arrivals, especially from sub-Saharan Africa. Their strategy: helping would-be migrants before they ever set out for Europe by pumping money and technical aid into the states along Africa’s main migrant corridors. The idea, as an agreement hashed out at a summit in Brussels this June put it, is to generate “substantial socio-economic transformation” so people no longer want to leave for a better life. Yet the EU’s plans ignore the fact that economic development in low-income countries does not reduce migration; it encourages it. Faced with this reality, the EU will increasingly have to rely on payoffs to smugglers, autocratic regimes, and militias to curb the flow of migrants—worsening the instability that has pushed many to leave in the first place.

      https://www.foreignaffairs.com/articles/africa/2018-09-05/europe-making-its-migration-problem-worse?cid=soc-tw-rdr

    • À QUI VA LA FORTUNE DÉPENSÉE POUR LUTTER CONTRE L’IMMIGRATION ?

      La politique migratoire européenne, de plus en plus restrictive, est une aubaine pour de nombreuses sociétés privées. En effet, les Etats européens sous-traitent des pans entiers de la gestion des migrations : surveillance des frontières, construction, entretien, surveillance et gestion de murs et de centres de rétention, délivrance des visas, livraison de repas, etc. Tous les éléments de cette politique coûteuse, inefficace et criminelle, profitent à de grandes entreprises, comme #Bouygues ou #Sodexo, pour ne citer que deux exemples français.

      Les migrations font partie de l’histoire de l’humanité mais les frontières n’ont jamais été aussi fermées qu’aujourd’hui. Les conventions issues des politiques migratoires actuelles ont divisé les migrants en différentes catégories (politiques, économiques, climatiques...) en fonction de la supposée légitimité ou non d’avoir accès au droit d’asile ou à séjourner sur un territoire étranger. « Le migrant économique », qui se déplace pour fuir la misère engendrée par les politiques liées au remboursement de la dette, est la catégorie qui bénéficie du moins de droits et son accès aux territoires extérieurs varie en fonction des besoins de main-d’œuvre ou des politiques de fermetures aux frontières.

      Ainsi, parmi les millions de personnes qui fuient leurs conditions de vie indécentes, celles qui migrent pour des raisons économiques seraient des migrants illégitimes ? Tout comme celles à qui on n’accorde pas le statut de réfugié politique mettant leur vie en péril ? Confrontés à une crise migratoire ou une crise de l’accueil ? Ces flux migratoires liés aux situations économiques sont en grande partie le résultat des politiques d’austérité et d’endettement insoutenables imposés par les Institutions financières internationales et les pays industrialisés du Nord aux pays appauvris du Sud, et par les pays du centre – dont ceux de l’Europe – aux pays de la périphérie. Ces politiques ont eu comme effet d’amplifier le phénomène de la pauvreté, de généraliser la précarité et, par conséquent, des situations d’exils. Les situations qui encouragent l’exode de populations pauvres sont la conséquence d’enjeux géostratégiques liés aux ressources et donc aux richesses, ou sont provoqués par l’hémorragie de capitaux pour honorer le service d’une dette bien souvent entachée d’illégitimité.

      Malmenés par la guerre ou la misère, les candidats à l’exil se retrouvent sur des routes rendues de plus en plus périlleuses par les politiques de gestion de l’immigration irrégulière. En plus d’être extrêmement coûteuses pour les populations qui en supportent les coûts, ces politiques criminalisent les migrants et les forcent à emprunter des voies de plus en plus dangereuses, comme les traversées en mer sur de frêles embarcations et à devoir s’adresser à la mafia des passeurs. Elles sont criminelles, coûteuses et inefficaces. Les murs n’ont jamais résolu de conflits et ne bénéficient qu’aux firmes qui les conçoivent, les construisent et les contrôlent.

      Loin d’adopter une politique d’accueil aux réfugiés conformément au droit international tel que stipulé par la Convention de Genève, les États adoptent des politiques sécuritaires qui bafouent le droit fondamental de liberté de circulation inscrit dans l’article 13 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme |1|. Alors que de nouveaux traités de libre-commerce ne cessent de prôner la libre-circulation des marchandises et des capitaux, les candidats à l’exil font face à des « agences de sécurité » lourdement armées et équipées par les grands industriels qui enfreignent le droit de circulation des laissés-pour-compte. Le fond de la Méditerranée est transformé en véritable fosse commune |2|, les frontières se referment et des murs sont érigés un peu partout sur la planète. Une fois passée la frontière, s’ils ne sont pas déportés vers leur pays d’origine, les migrants s’entassent dans des camps inhumains ou sont enfermés dans des centres de détention |3| qui leur sont dédiés, tels les 260 que l’on compte au sein de l’UE en 2015 |4|. Seule une faible proportion d’entre eux, suivant un fastidieux parcours bureaucratique, parvient à obtenir un droit à l’asile distribué avec parcimonie.

      A quel point les politiques migratoires européennes sont-elles dictées par l’activité de lobbying des entreprises privées de l’armement et de la sécurité ? Avec ces politiques sécuritaires, les migrants sont considérés non plus comme des personnes mais comme des numéros remplissant des quotas arbitraires pour honorer des courbes statistiques irrationnelles satisfaisant bien plus les cours de la Bourse que le bien-être collectif et les valeurs de partage et de solidarité.

      Qu’importent les conditions de travail des employés et les conditions d’accueil des migrants au mépris de leurs droits et de la dignité humaine, de plus en plus d’entreprises privées nationales ou multinationales profitent d’un business en pleine expansion aux dépens de la justice sociale et des budgets de nos États.

      Frontex, une agence européenne coûteuse, puissante, opaque et sans contrôle démocratique

      L’Europe a créé l’espace Schengen en 1985, elle l’a communautarisé en 1997 avec le traité d’Amsterdam. L’objectif annoncé était de créer un espace de « liberté, de sécurité et de justice » au sein de l’Union européenne (UE). Dans les faits, la liberté de circulation au sein de l’Europe a avancé à deux vitesses en fonction des pays et a principalement concerné les marchandises. Au fur-et-à-mesure, l’UE s’est coordonnée pour contrôler ses frontières extérieures en tentant d’appliquer une politique commune et un « soutien » aux pays ayant une frontière extérieure propice à l’entrée de migrants comme la Grèce, l’Espagne ou encore l’Italie. Depuis 2005, L’UE s’est dotée d’un arsenal militaire, l’agence Frontex, pour la gestion de la coopération aux frontières extérieures des États membres de l’Union européenne. Cette agence est la plus financée des agences de l’UE à l’heure où des efforts budgétaires sont imposés dans tous les secteurs.

      Cette agence possède des avions, des hélicoptères, des navires, des unités de radars, des détecteurs de vision nocturne mobiles, des outils aériens, des détecteurs de battement cardiaque... Frontex organise des vols de déportations, des opérations conjointes aux frontières terrestres, maritimes et aériennes |5|, la formation des gardes-frontières, le partage d’informations et de systèmes d’informations notamment via son système EUROSUR, qui a pour objectif la mise en commun de tous les systèmes de surveillance et de détections des pays membres de l’UE, etc. Son budget annuel n’a cessé d’augmenter jusqu’à ce jour : de 19 millions d’euros en 2006, il est passé à 238,7 millions en 2016 ! Les moyens militaires qui lui sont dévolus et son autonomie par rapport aux États membres ne cessent de croître.

      Depuis fin 2015, la tendance vers une ingérence de la Commission européenne dans les États membres s’accentue : La Commission européenne élargit le mandat de Frontex, elle devient « le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes ». Cette nouvelle agence peut dorénavant agir dans le processus d’acquisition d’équipement des États membres. Elle a notamment la possibilité d’intervention directe dans un État membre sans son consentement par simple décision de la Commission européenne. Elle a par exemple la possibilité de faire des « opérations de retour conjoint » de sa propre initiative |6|, l’objectif étant de sous-traiter à l’agence le renvoi forcé des personnes indésirables, à moindre coût mais au détriment du respect des droits humains.

      Migreurop et Statewatch, deux ONG qui défendent les droits des migrants, ont dénoncé une zone de flou entourant l’agence Frontex qui ne permet pas de faire respecter les droits humains fondamentaux : une responsabilité diluée entre l’agence et les États, une violation du droit d’asile et un risque de traitement inhumains et dégradants. La priorité du sauvetage en mer, normalement reconnue à Frontex, passe en second plan face au contrôle militarisé. En novembre 2014, l’Italie illustre dramatiquement cette situation en mettant fin à Mare Nostrum, opération de sauvetage de la marine italienne qui a sauvé des dizaines de milliers de vies en mer. L’opération Triton mise en place par Frontex l’a remplacée avec un budget trois fois moindre, une portée géographique plus limitée et surtout avec un changement de perspective orienté sur le renforcement des frontières plutôt que les missions de recherche et sauvetage en mer |7|.

      Plus Frontex est subventionnée, plus elle délègue à des entreprises privées. Via l’argent public qu’elle perçoit, l’agence s’adresse à des entreprises privées pour la surveillance aériennes mais aussi pour la technologie de pointe (drones, appareils de visions nocturnes…). De nombreuses multinationales se retrouvent à assumer les « services » qui étaient auparavant assumés par les États et pour des questions de rentabilité propre au secteur privé, les coûts augmentent. Le contrôle aux frontières est devenu un business florissant.

      Le complexe militaro-industriel de l’immigration irrégulière un business florissant qui grève les caisses des États

      La dangerosité accrue des parcours profite aux passeurs et aux réseaux criminels auxquels les migrants sont obligés de faire appel, alors que ces mêmes politiques de gestion des flux migratoires disent les combattre. Mais, d’autres secteurs d’activité moins médiatisés tirent un avantage financier bien plus important de l’immigration irrégulière, tellement important qu’on peut se demander s’ils ne font pas tout pour l’encourager ! Pour les gestionnaires des centres de détentions pour migrants ; les sociétés qui y assurent la livraison des repas, la sécurité ou le nettoyage ; les entreprises qui fournissent gardes et escortes de celles et ceux que l’on expulse ; les fabricants d’armes et l’industrie aéronautique ; la technologie de pointe pour la surveillance des frontières ou les sous-traitants pour la délivrance des visas, la crise des migrants constitue une véritable aubaine, voire un filon en or.

      Cette proportion non négligeable de services autrefois du ressort exclusif de l’État est maintenant gérée par de grands groupes privés qui – pour des raisons d’image notamment – s’abritent derrière une kyrielle de sous-traitants. Cette privatisation rampante grève encore plus les caisses des pouvoirs publics, favorise l’opacité et dilue les responsabilités en cas d’incident au cours des interventions, mettant les États à l’abri de violations de la loi, pourtant fréquentes |8|.

      Instrumentalisation de l’aide publique au développement

      L’Union européenne utilise les financements de l’#Aide_publique_au_développement (#APD) pour contrôler les flux migratoires, comme avec le #Centre_d’Information_et_de_Gestion_des_Migrations (#CIGEM) inauguré en octobre 2008 à Bamako au Mali par exemple4. Ainsi, le 10e #Fonds_européen_de_développement (#FED) finance, en #Mauritanie, la formation de la police aux frontières. Pour atteindre les objectifs qu’ils se sont eux mêmes fixés (allouer 0,7 % du revenu national brut à l’APD), certains États membres de l’UE comptabilisent dans l’APD des dépenses qui n’en sont clairement pas. Malgré les réticences des États membres à harmoniser leurs politiques migratoires internes, ils arrivent à se coordonner pour leur gestion extérieure.

      « Crise migratoire » ou « crise de l’accueil » ? L’Europe externalise ses frontières

      À la croisée des chemins entre l’Europe et l’Asie, la Turquie et la Grèce sont des pays de transit pour de nombreux migrants et réfugiés faisant face aux conflits chroniques et à l’instabilité politique et économique du Moyen-Orient. Après avoir ouvert ses frontières en 2015, dans un contexte de crise, l’UE se rétracte, dépourvue d’une réflexion à long terme sur sa politique d’accueil.

      Ainsi, sans grande opposition du gouvernement Tsipras, l’UE signe avec le gouvernement turc un accord visant à contrôler et filtrer l’immigration. L’accord qui entre en vigueur le 20 mars 2016, prévoit de renvoyer en Turquie tout nouveau migrant, réfugiés syriens compris, arrivé en Grèce. Et pour chaque Syrien renvoyé, l’UE réinstallera en Europe, un autre Syrien séjournant en territoire turc. On pourrait croire à un vulgaire arrangement comptable, il n’en est rien. Le rapport est clairement déséquilibré. L’UE a spécifié un quota maximum de 72 000 syriens réinstallés alors que plus d’1 millions ont été refoulés du territoire européen. Par ces échanges déshumanisés, l’UE se donne la liberté de choisir ses immigrés en fonction de ses intérêts économiques. En échange, l’UE promet 6 milliards d’euros à la Turquie, dit vouloir relancer les négociations d’adhésion du pays à l’Union et accélère le processus de libéralisation des visas pour les citoyens turcs. De plus, Ankara s’engage à enrayer le flux migratoire vers l’Europe. En conséquence de quoi, l’argent donné sert bien plus à ériger des murs qu’à accueillir. Déjà, béton, barbelés et militaires s’installent à la frontière turco-syrienne pour consolider l’Europe forteresse.

      D’autres accords ont déjà été conclus en ce sens mais aucun n’avait atteint de tels montants, ni ne comportait de tels enjeux. Le fait qu’il soit conclu directement par l’UE marque également le début d’une nouvelle ère. L’institution eurocrate négocie maintenant au nom et en amont de ses États membres, se substituant aux politiques nationales en termes d’affaires étrangères.Avec cet accord, l’UE se targue de respecter le droit international. Mais autant la Déclaration universelle des droits de l’homme que la Convention de Genève sur les réfugiées stipulent qu’une expulsion ne peut se faire que vers un pays considéré comme sûr. Or, on ne peut décemment pas, à la signature de l’accord, considérer la Turquie comme une terre sûre et accueillante pour les migrants. Le président Erdoğan a en effet entamé une purge sans précédent et se révèle encore plus répressif envers ses opposants politiques, depuis qu’il sait l’Europe dépendante et conciliante. Et il ne suffit pas de fustiger le gouvernement turc. Au cœur même de l’Europe, les murs s’érigent et les politiques autoritaires et xénophobes refont surface.
      Privatisation de la « gestion » des migrations

      Une telle gestion de l’immigration grève les recettes des États pour, in fine, bénéficier aux sociétés privées et leurs actionnaires aux dépens de la satisfaction des services publics essentiels aux populations concernées. Le lobbying de ces sociétés s’inscrit dans une surenchère militariste qui profite aux grandes entreprises du secteur. Au lieu d’investir dans des infrastructures d’accueil dignes et dans la gestion des conflits dont les pays industrialisés sont en grande partie responsables, l’orientation politique de nos dirigeants va dans le sens d’un accroissement des budgets liés à la sécurité et aux polices aux frontières.

      Les flux migratoires constituent non seulement une source de revenus pour les passeurs, mais également, dans des proportions bien plus importantes, un juteux business pour les grandes entreprises, qui rappelons-le, s’arrangent pour payer le moins d’impôt sur leurs bénéfices et accroître les dividendes de leurs actionnaires. Le marché de la sécurisation des frontières, estimé à quelques 15 milliards d’euros en 2015, est en pleine croissance et devrait augmenter à plus de 29 milliards d’euros par an en 2022 |9|.

      Dans un contexte de crise migratoire aiguë, de contrôles exacerbés, de détentions et déportations en forte augmentation, une multitude de sociétés privées se sont trouvé un juteux créneau pour amasser des profits.

      Concrètement, de plus en plus de sociétés privées bénéficient de la sous-traitance de la délivrance des visas (un marché entre autres dominé par les entreprises #VFS et #TLS_Contact), et facturent aux administrations publiques la saisie des données personnelles, la prise des empreintes digitales, des photos numérisées... Comme on pouvait s’y attendre, le recours au privé a fait monter les prix des visas et le coût supplémentaire est supporté par les requérants. Mais les demandes introduites pour obtenir visas ou permis de séjour ne sont pas à la portée de tout le monde et beaucoup se retrouvent apatrides ou sans-papiers, indésirables au regard de la loi.

      La gestion des centres de détention pour migrants où sont placés les sans-papiers en attente d’expulsion est, elle aussi, sous-traitée à des entreprises privées. Ce transfert vers la sphère privée renforce le monopole des trois ou quatre multinationales qui, à l’échelle mondiale, se partagent le marché de la détention. Ainsi, près de la moitié des 11 centres de détention pour migrants du Royaume-Uni sont gérés par des groupes privés. Ces entreprises ont tout intérêt à augmenter la durée d’incarcération et font du lobbying en ce sens, non sans résultats. Ainsi, les sociétés de sécurité privées prospèrent à mesure que le nombre de migrants augmente |10|. En outre, l’hébergement d’urgence est devenu un secteur lucratif pour les sociétés privées qui perçoivent des fonds de certains États comme l’Italie, aux dépens d’associations humanitaires qui traditionnellement prennent en charge les réfugiés.

      En Belgique, entre 2008 et 2012, le budget consacré aux rapatriements forcés - frais de renvois, sans même compter les séjours en centre fermé des quelque 8 000 détenus chaque année - est passé de 5,8 millions d’euros à 8,07 millions d’euros |11|.

      La société française Sodexo a vu les détentions de migrants comme une opportunité d’extension de ses activités dans les prisons. L’empire du béton et des médias français Bouygues est chargé de la construction des centres de détention pour migrants dans le cadre de contrats de #partenariats_publics-privés (#PPP) |12| et l’entreprise de nettoyage #Onet y propose ses services. Au Royaume-Uni, des multinationales de la sécurité telles #G4S (anciennement Group 4 Securitor) |13|, Serco ou #Geo, ont pris leur essor grâce au boom des privatisations. Aux États-Unis, #CCA et GEO sont les principales entreprises qui conçoivent, construisent, financent et exploitent les centres de détention et #Sodexho_Marriott est le premier fournisseur de services alimentaire de ces établissements.

      Certaines sociétés en profitent même pour faire travailler leurs détenus en attente de leur expulsion. Ainsi, au centre de Yarl’s Wood géré par l’entreprise #Serco au Royaume-Uni, le service à la cantine ou le nettoyage des locaux est effectué par des femmes détenues contre une rémunération 23 fois moindre que le salaire pratiqué à l’extérieur pour ce type de tâche (50 pence de l’heure en 2011, soit 58 centimes d’euros). Le groupe GEO, qui en 2003 a obtenu la gestion du camp de Guantanamo « offre » à ses occupants aux centres de Harmondsworth près de l’aéroport d’Heathrow et de Dungavel en Écosse, des « opportunités de travail rémunéré » pour des services allant de la peinture au nettoyage |14|. Ces entreprises ne lésinent pas sur l’opportunité d’exploiter une main d’œuvre très bon marché et sans droits.

      L’immigration rapporte plus qu’elle ne coûte

      Les quelques migrants qui finalement parviennent à destination se mettent alors à la recherche d’un emploi et le pays d’accueil profite d’une main-d’œuvre bon marché dont il s’épargne les frais de formation payée par le pays d’origine |15|. Une telle main-d’œuvre, flexible et exploitable à merci, comble un besoin dont les économies des pays industrialisés ne peuvent se passer si facilement.

      Loin de constituer une menace et contrairement à une idée fausse, les migrations ont généralement un impact positif sur les économies des pays d’accueil. Sur un plan purement économique, d’après l’OCDE, un immigré rapporte en moyenne 3 500 euros de rentrées fiscales annuelles au pays qui l’accueille |16|. Les sans-papiers qui travaillent ont des fiches de paies, souvent au nom de tierce personne et cotisent à une couverture sociale dont ils ne peuvent bénéficier.

      En définitive, s’installe le doute quant aux résultats attendus d’une telle stratégie de gestion des flux de déplacements humains. La politique anti-migratoire mise en œuvre tue, l’Europe compte les morts mais continue à dresser ses barricades. Pourtant les migrations ne sont pas un problème, un fléau en tant que tel contre lequel il faut lutter. Les migrations sont la conséquence des conflits, des persécutions, des catastrophes environnementales, des injustices sociales et économiques dans le monde. Et c’est à ces causes-là qu’il faut s’attaquer, si l’on veut mener une politique migratoire réellement juste et humaine.

      https://www.lautrequotidien.fr/articles/lesprofiteurs
      #privatisation #Frontex

    • Border-induced displacement: The ethical and legal implications of distance-creation through externalization

      Introduction: The role of #distance

      The externalization of European border control can be defined as the range of processes whereby European actors and Member States complement policies to control migration across their territorial boundaries with initiatives that realize such control extra-territorially and through other countries and organs rather than their own. The phenomenon has multiple dimensions. The spatial dimension captures the remoteness of the geographical distance that is interposed between the locus of power and the locus of surveillance. But there is also a relational dimension, regarding the multiplicity of actors engaged in the venture through bilateral and multilateral interactions, usually through coercive dynamics of conditional reward, incentive, or penalization. And there are functional and instrumental dimensions too, concerning the cost-effectiveness of distance-creation (in both ethical and legal grounds) vis-à-vis the (unwanted) migrant, who, removed from sight, is no longer considered of concern to the supervising State,[1] and the range of externalizing policy devices at the service of externalising agents in terms of purpose, format, delivery, and ultimate control.[2] European borders thus (re-)emerge as ubiquitous, multi-modal and translational systems of coercion – as an interconnected network of ‘little Guantánamos’.[3] This, in turn, creates a distance, both physically and ethically, that is utilized to shift away concomitant responsibilities.[4]
      Distance, as the next sections will demonstrate, plays a crucial role as a mechanism not only of dispersion of legal duties, blurring the lines of causation and making attribution of wrongful conduct a difficult task, but also as an artefact of oppression and displacement in itself. It does not prevent (unwanted) migration but rather makes it unviable through legally sanctioned, safe channels, diverting it through ever more perilous routes. The immediate effect of this distance that externalization engenders is at least threefold. First, it leads to the disempowerment of migrants, who are left with no options for safe and legal escape, being instead coerced into dangerous courses operated by smugglers. Second, it legitimizes the actors enforcing externalized control on behalf, and for the benefit, of the European Union and its Member States. Repressive forces in third countries gain standing as valid interlocutors for cooperation, as a result; their democratic and human rights credentials becoming secondary, if at all relevant, as the Libyan case illustrates below. Third, legal alternatives, like the relaxation of controls or the creation of safe and regular pathways, are rejected; perceived as an illogical concession to the failure of the externalization project.
      The final outcome, and what constitutes the focus of this contribution, is the ‘border-induced displacement’ effect,[5] resulting from the combination of the processes of extraterritorialisation and externalization taken together. Border-induced displacement is not equivalent to the original reasons forcing people into exile, but rather functions as a second-order type of (re-)displacement, produced precisely via (the violence implicated in) border control. This then leads to forms of ‘engineered regionalism’, that is, politics re-producing displacement in certain areas closest to the origin of flows.[6] ‘Safe third country’ rules and practices are the main vehicle of this development, discernible also within the EU, where the Dublin System has ‘rulified’ an asymmetric allocation of responsibility for asylum claims to peripheral countries situated at the external common frontiers of the Union, like Spain, Italy and Greece.[7] In the case of externalization, border-induced displacement is then imposed upon already-displaced persons by non-European actors implementing the EU’s pre-emptive control agenda, reinforcing prevailing patterns of exploitation and existing hierarchies of exclusion and subordination.
      The ethical and legal consequences of ‘distance-creation’ are what we turn to analyse in the remainder of this article. Section 2 pays attention to the assumptions and ethical and political-economic dimensions behind this strategy, discussing exit control, coercion, and the democratic legitimization of unelected actors enforcing the EU border within third countries. Section 3 investigates the legal impact of externalization and extraterritorialization, centring on the apparent accountability gaps that it generates, contesting the legality of responsibility dispersion mechanisms. The overall conclusion we reach is that the ‘rulification’ of externalization at EU level does not render it ethically and legally tenable under international law. The ‘lawification’ at EU level of practices inconsistent with human rights is insufficient to render them compatible with international legal standards.
      2. Ethical distance-creation: Examining attempts to justify externalization and border-induced displacement

      Although immigration ethics has thrived as a discipline since its late arrival in the 1980s, debates on border control between cosmopolitanism and liberal nationalism have often remained at an ideational level and generally based on liberal democratic foundations,[8] thus overlooking the composite ways through which border control is realized and experienced on the ground. This includes practices of externalization and extra-territorialization. Often, the assumptions guiding ethical debates on border control have reproduced a territorially trapped gaze, circumscribed by methodological nationalism,[9] which, through a set of idealized premises, reduces the complex and transnational dynamics of displacement and border control to a phenomenon of mis-placement between territorially bordered societies.[10] Such reduction is marred by what can be called reactive and regionalist postulations. These view border control, first, as a manifestation of State agency, and, second, as only a response to migration flows. Third, they naturalize the containment of displacement within certain regions, perceiving the phenomenon as geographically and morally distant from Europe.
      But immigration ethics is far from alone in reproducing methodological nationalism and reactive and regionalist conjectures, as these mirror prevailing paradigms about the relationship between displacement and borders.[11] However, it is instructive, nonetheless, to examine European externalization by applying existing ethical debates about the democratic legitimacy, coercion, and rights of border control to the issue of externalization.[12]
      2.1. The democratic legitimacy question

      One fundamental debate has concerned the democratic legitimacy of border control as such. Assuming that freedom and democracy are instrumentally valuable for securing individual autonomy, a principled concern is that the coercive aspects of border control amount to violations of autonomy when they happen without the consent of those exposed to them. In order for border control to be legitimate from a liberal democratic perspective, it would have to be justifiable to non-members – however the demos may initially be defined – through a deliberative process.[13] Yet, proponents of border control might argue that access to asylum procedures can resolve this concern, if asylum applications are seen as granting such deliberative voice to them. Although this debate has only concerned an undifferentiated notion of border control, we can extend it to the politics of externalization, if we imagine proponents to argue that, if externalized control is able to respect individual autonomy, it might also be deemed democratically legitimate.[14] The strength of such an argument will then depend on the meaning and function of externalization.
      European externalization processes occur when European Member States, through bi-, multi- or supranational venues, complement policies of controlling cross-border migration into their territories with pre-emptive initiatives realizing such control extra-territorially and/or through sub-contracting to actors and agencies other than their own.[15] Externalization has been discussed in terms of policy transfer, issue-linkages, and ripple effects,[16] but, crucially, its dynamics apply also to intra-European relations. For many years, the Dublin system has served to transfer the border control burdens of North-Western Member States to South-Eastern ones, causing heated discussions about lacking solidarity,[17] similar to those between European and non-European countries.[18]
      Justifications offered for externalization oscillate between grammars of securitized control and humanitarian care.[19] For instance, the June 2018 proposal by the EU ministers about ‘controlled centres’ and ‘regional disembarkation platforms’, whereto ‘boat migrants’ can be deported, is framed as an innovative idea allowing Member States both to ‘stem illegal migration’ and simultaneously save vulnerable migrants by breaking the ‘business model’ of smugglers and traffickers purportedly in accordance with human rights and the rule of law.[20]
      Yet, the 2018 externalization proposal is not as innovative as it may seem. Between the 1980s and mid-2000s, five very similar – and similarly controversial – externalization proposals were put forth by the British, Danish, Dutch, and German governments and by the European Commission. And they all revolved around externalized centres in Eastern Europe and North Africa whereto EU Member States would send asylum seekers or interdicted ‘boat migrants’. The terminologies varied from ‘regional protection areas’ by the British, ‘processing centres’ by the Danes, ‘reception centres’ by the Dutch, ‘EU reception centres’ by the German, and ‘Regional Protection Programmes’ (RPPs) by the European Commission.[21] All but the RPP proposal focused on administrative deportation from European territory, so that, as put by the Blair government, ‘refoulement should be possible and the notion of an asylum seeker in[land] should die’.[22] By 2005, the German proposal had dropped any talk of extraterritorial asylum processing and moved on to identifying Libya as a promising collaborator for pre-emptive containment.[23] In light of the concurrent dysfunctional intra-European dynamics of the Dublin system, the proposals between 1986 and 2018 illustrate how the externalization logic has long been invoked as a magic remedy to the Dublin ills, always couched in crisis-laden and emergency-driven rhetoric, while also holding out vague promises of protection.
      Externalization can be criticized for co-opting protection in favour of methods of ‘consensual containment’ that re-produce displacement in regions neighbouring the EU.[24] For instance, especially since 2017, Italy and the EU have pursued a policy of transferring search and rescue to the so-called Libyan Coast Guard (LYCG), thereby effectively turning missions into operations of exit control. It is due to their material contribution and close involvement in the internal command-and-control structure of the Libyan forces that the LYCG performed 19,452 pull-backs in 2017.[25] Political discourses on externalization can, however, be seen as arguing that this kind of regionalist engineering creates ‘protection elsewhere’ based on three claims, popular in ethical discussions on border control within liberal national regimes. In the following, we analyse them through standing ethical debates about coercion and prevention, peoples’ rights to enter and exit territories, and democratic legitimacy.
      2.2. Coercion: From ‘protection elsewhere’ to ‘protection nowhere’

      First comes the claim that border control, and thus also its externalized manifestations, is not illegitimately coercive, because it is only preventive. Here, coercion has been referred to as when individuals are forced to do a specific thing, while prevention is taken to mean when they are forced not to do a specific thing.[26] Second comes the aforementioned argument that border control can be legitimate when agreed upon democratically.[27] Third follows the statement of an entry/exit-asymmetry signifying that people’s rights against one State not to prevent them from exiting its territory is held to be morally paramount, but that it does not entail an equally forceful obligation on any other State to let them enter their territory.[28]
      Combining these claims, we then arrive at a ‘protection elsewhere’ argument maintaining that externalization is legitimate, since agreed to by all governments involved, and because it preserves displaced persons’ rights through extraterritorial asylum processing. Even if the policy may block their movement, this argument goes, it only prevents them from entering European territory, while still allowing them to find protection elsewhere, after having exited their own country. The zero-sum game effect that the generalisation of this policy would generate goes unaverted – if all countries did the same there would be ‘protection nowhere’.[29]
      But this argument is categorically flawed. Its definitions of coercion and prevention are problematic and rest upon a disconnect between abstract assumptions about border control guiding liberal nationalistic immigration ethics and the actual reality of displacement and European border surveillance, discounting its concrete effects on the ground. EU externalization practices yield extremely coercive checks amounting to violent regimes of exit control, also contravening the legally-sanctioned right – assumed in debates on immigration ethics – to leave one’s own country.[30] That is, even if one, for the sake of argument, assumes the right to exit to hold more value than that of entry – since at international law one is universally applicable while the other is only opposable to one’s own country[31] – actual externalization practices still violate not just the latter, but also the former.[32] The containment of migrants in Libyan detention structures, for instance, reveals an abusive regime that bars access to asylum. Amnesty International has counted twenty reports from reliable monitors, including UN and EU sources, attesting to this reality.[33] The abject brutality facing displaced persons, contained and circulated through externalization, can only be labelled non-coercive prevention from a Eurocentric, and extremely abstract vantage point. In truth, they cause suffering on such a scale that they may amount to atrocity crimes, according to the ICC Prosecutor,[34] and, as the UN High Commissioner for Human Rights has put it, they constitute ‘an outrage to the conscience of humanity’ – at least as far as the situation in Libya is concerned.[35] Collaborative border infrastructures are endowed with the power to coerce at a distance, with externalization leading to practices of ‘remote control’ that extraterritorially negate access to the European asylum systems to those (theoretically) entitled to international protection,[36] literally ‘trapping’ migrants in a constant ‘cycle of abuse’.[37]
      Nevertheless, even if the ethical ‘protection elsewhere’ argument must be rejected as an invalid justification for current European externalization policies the reasons for it are instructive. Seeing how externalization produces highly coercive collaborative regimes of exit control makes clear the problematic ramifications of the reactive and regionalist assumptions on which it rests. Conventional views on international relations and forced migration see the displacement to which borders respond as induced by conflicts or developmental or environmental factors.[38] Yet, while attention to the causes of displacement is important, this model embraces borders as only reactive to – rather than also constitutive of – displacement. But this is wrong. A range of border practices and infrastructures, performed at or beyond the physical frontiers of the EU, such as interdiction, detention, and deportation, do not just react to, but also in themselves cause displacement, by diverting flows towards increasingly dangerous routes and by multiplying death ratios at sea and at border zones.[39] This ‘border-induced displacement’, therefore, challenges the regionalist and reactive premise that the production of forced migration is primarily a problem created outside European territory and agency and contests the structural incorporation of (foreseeably lethal) coercion as a legitimate mechanism of border control.
      EU-Libyan relations, since the 2000s, illustrate how externalization has built the infrastructures enabling this kind of coercive re-displacement. This problematizes prevailing assumptions still dominating immigration ethics and politics, namely that the agency of border control consists of States’ discretion over movement across their territorial borders. Externalization underscores the need to consider more composite notions of agency – and thus responsibility – decoupled from national territories, and spanning several governments, organisations as well as non-state actors.
      The decades-long European-Libyan collaboration on border control is a case in point. After the European Commission decided to lift its arms embargo against Libya in 2004, two ‘technical missions’ followed. The first, in 2004, was meant to ‘identify concrete measures for possible balanced EU-Libyan cooperation particularly on illegal immigration’ and the second, in 2007, to develop ‘an operational and technical partnership’ for extraterritorial border control.[40] The case of Libya is but one example of how European externalization policies have facilitated the transformation of European border control into a flourishing market of violent deterrence and containment,[41] with little to do with a rights-based protection paradigm, and also how third countries’ control apparatuses have become a lucrative export venture for the arms-, security-, and IT-industries of the EU Member States.[42]
      2.3. Trading in rights for border control

      Companies like Spanish Indra, British BAE Systems, Italian Leonardo, French Thales and Ocea, Dutch Damen, German Rheinmetall and Airbus all compete for contracts to expand the capacity for surveillance and control of not just Libya, but also other Eastern European, North African and Middle Eastern countries collaborating on EU externalization. In 2012, an industrial consulting actor valued the global border industry at €25.8 billion, projecting an increase to €56 billion by 2022.[43] And European sales of patrol boats, jeeps, planes, drones, satellites, helicopters, radar systems and whole surveillance mechanisms for border control purposes were part of the EU export licenses worth €82 billion to the Middle East and North Africa between 2005–2014.[44] This political economy of externalization also applies to the industries of EU partner countries. For instance, in 2016, the EU channelled more than €83 million to contracts with Turkish Aselsan and Otokar to provide heavily armoured vehicles placed, respectively, at the Greek-Turkish border and the newly constructed 911 kilometre border-wall between Turkey and Syria.[45]
      The dynamics reshaping third-country border infrastructures elucidate how borders can function as engines of, rather than just responses to, displacement. This means that arguments for externalization appealing to democratic legitimacy face more problems than merely the barring of access to asylum procedures: First, because when EU Member States use their political-economic leverage to make externalization deals with non-EU countries, they are effectively asking them to replace their own public interest with the EU preference of avoiding asylum seeker flows towards the Member States. Second, because several examples, like the EU collaboration with Libyan actors, including militias and former traffickers, as further discussed in the next section, illustrate how the EU’s externalization partners very often lack democratic legitimacy.[46] EU border externalization entrenches forms of undemocratic governance in third countries, empowering undemocratic actors, transforming their relative weight within domestic structures, and weakening democratic channels of scrutiny, accountability, and power control. Externalization thereby risks creating a vicious cycle, where the influx of arms and funds to those actors willing to enact the European containment agenda grants them political validity, which is then used to undermine not only migrant rights, but also to repress domestic opposition and dissidence and thus destabilize internal democratisation processes. The short-term European goal of preventing asylum seeker flows thereby risks compromising the stated long-term goal of tackling the root causes of displacement,[47] which is sacrificed in the altar of externalised ‘integrated border management’.[48]
      3. Legal distance-creation: The juridical implications of externalization and border-induced displacement

      Externalization has not only been encapsulated in political and policy arguments and practices, but has also been embedded in law through the ‘protection elsewhere’ model. The ‘protection elsewhere’ model ultimately rests on the assumption that refugees and migrants are best served ‘at home’, whether it be in their countries of origin or in the neighbouring region (but away from the EU at any rate). ‘Onward movements’ defy this logic and are thus seriously penalized. Responsibility for reception and asylum has accordingly been delegated (or redirected) to countries proximate to the source of flows, via targeted rules on ‘safe third countries’ and readmission agreements that legalise the practice. But, as stated above, this (re-)allocation of protection duties to peripheral States is also part and parcel of the Common European Asylum System within the EU. The Dublin Regulation enshrines and ‘rulifies’ this vision for the Member States, allowing non-external border countries to deflect responsibility in a legal manner.
      Against this background, EU countries feel legitimized to claim their own irresponsibility vis-à-vis non-Member States,[49] projecting the model onto their external relations and imposing compliance with EU control rules as a matter of course. Fatalities at sea and elsewhere are then presented as the result of disorder and illegality; something avoidable if only (EU) rules were observed and effectively enforced by non-EU partners. The structural conditions imposed by the externalization apparatus, and the injustice that ensues, are usually disregarded or downplayed as unintended collateral damage. The fact that illegality is the only way out of a situation of want or persecution, and that smuggling is the only remaining vehicle to reach safety, is routinely silenced. It is the smugglers who profit of the precarious situation of ‘boat migrants’ – the argument goes. So, the eradication of smuggling and a return to (EU) law and order is portrayed as the solution. The option to relax border control rules and adapt them to the imperatives of human dignity, decriminalising the irregular movement of forced migrants, is not even contemplated. That would be perceived as an illogical concession; a descent into chaos and the negation of the rule of (EU) law. This EU-centric conception of the law is what sustains the externalization edifice and nurtures the collaboration with third countries.
      At the legal-strategic level, externalization politics are accompanied by at least two degrees of ‘irresponsibilitization’, enshrined in, and sanctioned by, EU law: responsibility diffusion and responsibility denial. ‘Diffusion’ refers to the relational dimension of externalization, to situations of multi-actor alliance where the causation chain and attribution operation become unclear, with different agents and organs of different States contributing to a particular (unlawful) result. By contrast, ‘denial’ captures scenarios of outright disclaiming of responsibility, where this is said to belong to a different actor altogether, according to the (usually EU-based) rules in place (or their self-serving interpretation).
      3.1. Responsibility diffusion

      The creation of physical distance, via exit control, disembarkation platforms, holding sites, or reception camps abroad, contributes to ‘irresponsibilitization’ through diffusion. None of the proposals put forth so far clarifies exactly who should be considered responsible for those intercepted in, and repatriated to, Libya or any alternative location hosting the centres. The overall supposition appears to be that EU Member States would ultimately escape the task.[50] But there is some residual notion that European countries could not completely ‘circumvent’ their obligations[51] – albeit without elaboration, even the Legal Service of the European Parliament concedes that migrants sent to disembarkation platforms located outside the territory of the Member States ‘should benefit from the guarantees provided for in the 1951 Geneva Convention […] and in the European Convention of Human Rights’, including the principle of non-refoulement.[52]
      Actually, under international law, ‘no State can avoid responsibility by outsourcing or contracting out its obligations’.[53] Cooperation with third countries does not exonerate EU Member States from their non-refoulement and related duties – both under general customary law and as per the relevant international Conventions.[54] According to the Strasbourg Court, ‘[w]here States establish […] international agreements to pursue cooperation in certain fields of activity’, whatever their legal nature, validity, and intent,[55] ‘there may be implications for the protection of fundamental rights’. With this in mind, it would be ‘incompatible with the purpose and object of the [European Convention of Human Rights][56] if Contracting States were thereby absolved from their responsibility under the Convention in relation to the field of activity covered by such [agreements]’.[57] As a result, ‘[i]n so far as any liability under the Convention is or may be incurred, it is liability incurred by the Contracting State […]’.[58] Despite its cooperation with Libya or any other third country, the independent responsibility of each EU Member State participating in the scheme of externalized migration controls subsists, ‘where the person[s] in question […] risk suffering a flagrant denial of the guarantees and rights secured to [them] under the Convention’.[59]
      Nor would Member States be able to evade responsibility by transferring functions to the UNHCR or the IOM – whatever their support and potential separate liability.[60] ‘Absolving Contracting States completely from their Convention responsibility in the areas covered by such a transfer would [again] be incompatible with the purpose and object of the Convention’, as Strasbourg clarifies. The final effect would be for ‘the guarantees of the Convention [to] be limited or excluded at will thereby depriving it of its peremptory character and undermining the practical and effective nature of its safeguards’,[61] negating the basic premise of the pacta sunt servanda principle.[62] And the same is true in regard to other instruments of international human rights law.
      Even though several actors combine to produce re-displacement, individual responsibility for its effects cannot be deflected. The principle is well established in international law. Article 47 of the ILC Articles on Responsibility of States for International Wrongful Acts (ARSIWA) contemplates precisely the scenario where several States participate in the same internationally wrongful act, stipulating that in such cases ‘the responsibility of each State may be invoked in relation to that act’.[63] Each State retains responsibility and, according to the ILC Commentary, ‘is separately responsible for the conduct attributable to it’. The fact that one or more additional States also contribute to the same act in no way reduces the responsibility of each single country.[64] So, any orders or transfers performed, or orchestrated by, EU Member States will engage their responsibility for any resulting breaches of their international commitments.
      Neither the ‘disembarkation platforms’ proposal, nor any other of the similar initiatives emerged since the 1980s explored above specifies where exactly those repatriated or ‘pulled back’, whether to Libya or other third countries, would be accommodated.[65] It is conceivable that proponents envisage offshore reception centres to be closed, since the ultimate aim is to contain and deter irregular movement.[66] This then entails large-scale, and potentially long-term, detention, in breach of Article 5 ECHR guarantees,[67] which have been recognised to apply extraterritorially, extending to cases of deprivation of liberty abroad.[68] Yet, the border-induced displacement effects of externalization practices, like involuntary retention in international waters, forcible transfer to warships, coercive escorting or imposing of a certain course, constitute restrictions of physical freedom and need to accommodate the legal safeguards of the Convention.[69]
      It is not known whether the ‘disembarkation platforms’ proposal foresees transfers to the country concerned to be automatic. Should that be the case, EU Member States risk incurring direct and indirect violations of the prohibition of collective expulsion and the (non-derogable/non-limitable) protection against refoulement. Regarding the latter, the Strasbourg Court attaches paramount importance to country information contained in reports from independent sources,[70] so that when reliable accounts of the circumstances prevailing in the receiving State make it ‘sufficiently real and probable’ that the general situation entails a ‘real risk’ of ill treatment in the sense of Article 3 ECHR, a refoulement presumption is activated and removal cannot be performed.[71] What is more, on account of the absolute character of Article 3, Contracting Parties must undertake the relevant investigation proprio motu and abstain from actions/omissions that put individuals at risk. As the Court asserted in Hirsi, ‘it [is] for the national authorities, faced with a situation in which human rights [are] systematically violated […] to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return’.[72] So, the Member States concerned are to comply with their non-refoulement obligations proactively, regardless of whether the persons in question seek protection or specifically alert of the dangers faced upon return. The fact that potential applicants fail to request asylum or to formally oppose their removal does not absolve Contracting Parties of their Convention duties,[73] and especially their positive due diligence obligations.
      This includes the requirement to provide access to adequate procedures.[74] Member States must offer a real opportunity for individuals to submit and defend their claims,[75] including an ‘effective remedy’.[76] This requires that the remedy in question be able to ‘prevent the execution of measures that are contrary to the Convention and whose effects are potentially irreversible’. Therefore, ‘it is inconsistent with Article 13 [ECHR] for such measures to be executed before the national authorities [of the Member State concerned] have examined whether they are compatible with the Convention’.[77] In these cases, appeals must have ‘automatic suspensive effect’.[78] And screening on board interdicting vessels or somewhere else offshore cannot satisfy these requirements.[79] Procedural responsibilities, just like substantive guarantees, cannot be deflected, postponed, or negated. The ultimate guarantors of ECHR safeguards are the Contracting Parties, which must ‘secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in [the] Convention’.[80]
      Due diligence commands the dual duty to refrain from any conduct that may result in arbitrary violations as well as the obligation to enact laws and policies that effectively protect individuals against abuse. Following the Human Rights Committee’s recent General Comment on the Right to Life, by analogy, State Parties are required to ‘organise all State organs and governance structures through which public authority is exercised in a manner consistent with the need to respect and ensure [human rights]’. This includes a duty of ‘continuous supervision’ in order to ‘prevent, investigate, punish and remedy’ any harm.[81] As a result, actions such as the ‘sale […] of […] weapons’, and presumably other similar law enforcement and border control equipment, must be preceded by a conscientious examination of its foreseeable impact on human rights.[82] As members of the international community and as subjects of customary law, States must take into account
      ‘their responsibility […] to protect lives and to oppose widespread or systematic attacks on [human rights]’[83] – like those sustained by migrants in Libya.[84] And, in particular, States have an obligation under general international law ‘not to aid or assist activities undertaken by other States and non-State actors that violate [human rights]’.[85]

      All these reasons should lead to the rejection of ‘disembarkation platforms’ and similar initiatives as ‘externalization fantasyland’.[86] EU Member States should not invest in a formula that promotes cooperation with human rights perpetrators and impedes the fulfilment of their pre-contracted obligations – such a course would hardly qualify as a good faith implementation of their binding commitments.[87] Instead, domestic systems of territorial protection should be reinforced, including the necessary intra-EU solidarity and responsibility-sharing mechanisms to make them effective.[88] Physical distance-creation, through off-shoring and outsourcing, does not translate into an erasure or diminution of legal duties. EU rules on ‘safe third countries’ and readmission cannot (unilaterally) undo international standards.[89]
      3.2. Responsibility denial

      Besides tools of responsibility deflection, mechanisms of outright denial of obligations are equally challenging. Usually, the capacitation of third countries’ control infrastructures, mimicking the Schengen ‘integrated border management’ system,[90] is framed as unproblematic. The transfer of funds, know-how, and equipment, as in the cases referred to in the previous section, are considered to emanate from a spirit of solidarity with non-EU partners and to be fully in line with the relevant criteria. The ethical distance between the EU or Member State gifting assets, ceding resources, or providing training and any potential human rights violations that may ensue is taken to preclude liability. There is no intent – no dolus specialis – intervening in the operation. Thus, the denial of responsibility on the European side for the atrocities in Libya, the abuses in Turkey, or the fatalities at sea associated with border-induced displacement, commonly recurs.[91]
      Yet, international law paints a more complex picture.[92] If one considers that it is ‘thanks’[93] to Italy, for instance, that the LYCG continues to exist in any functional form in the post-Kaddafi period,[94] an outright denial of responsibility becomes difficult.[95]
      Especially since the signature of the Memorandum of Understanding between Italy and the Libyan Government of National Accord in February 2017,[96] the delivery of training, equipment, and assets (including the four main patrol vessels employed by the LYCG) has intensified. Italy has created a dedicated ‘Africa Fund’, € 2.5 million of which has been allocated to the maintenance of LYCG boats and the training of their crews.[97] The EU, too, has committed € 46 million to prop up Libyan interdiction capacity.[98] It has been calculated that the total combined investment by Italy and the EU will be € 285 million by 2023,[99] with the EU alone providing € 282 million – most of which via programmes administered, coordinated, or supervised by Italy.[100] In addition, an extension of the Mare Sicuro Operation, named NAURAS,[101] was approved by the Italian Parliament in August 2017, consisting of four ships, four helicopters, and 600 servicemen, of which 70 per cent are deployed at sea, with the other 30 per cent stationed in Tripoli harbour. Their key mission, as declared by the Italian Navy itself, is to ‘establish [the] operational condition[s] for LN/LNCG [i.e. Libyan Navy and LYCG] assets and develop C2 [ie command-and-control] capabilities’. Meanwhile, an ‘ITN [ie Italian Navy] naval asset in Tripoli Harbour [is] acting as LNCC [ie Libyan Navy Communication Centre] and logistic assistance/support hub’, thus assuming the function of a floating maritime rescue coordination centre.[102]
      The nature of the LYCG as a proxy for Italian interdiction has furthermore been confirmed by the judge of Catania adjudicating on the related case concerning the rescue ship Open Arms of the NGO Proactiva. In his decision, the judge takes as proven the crucial role played by Italy in leading LYCG operations. The judge goes so far as to affirm that the interventions of Libyan patrol vessels happen ‘under the aegis of the Italian Navy’ and that the coordination of rescue missions is ‘essentially entrusted to the Italian Navy, with its own naval assets and with those provided to the Libyans’.[103] This corroborates the ‘high degree of integration’ between the two,[104] and the ‘effective control’ exercised by Italy over LYCG operations, making ensuing violations attributable to it.[105]
      The subsequent abuse of those pulled back to Tripoli happens despite Italy’s knowledge of the desperate situation facing migrants in Libya, including widespread and systematic torture, rape, inhuman and degrading treatment, and enslavement. The Deputy Minister for Foreign Affairs himself admitted that ‘taking [migrants] back to Libya, at this moment, means taking them back to hell’.[106] Nonetheless, the interdiction by proxy policy of Italy continues.[107] Amnesty International estimates that there are over 10,000 persons currently held in official detention centres in Libya – all of which funded through EU/Italian money. And, virtually all of them have been brought there as a result of their interdiction at sea by the EU/Italian-equipped and -trained LYCG.[108] Consequently, the combination of control exercised – though ‘contactless’[109] – and the knowledge of the circumstances migrants face should be understood to render Italy answerable for the resulting human rights violations, even if the LYCG is used as a surrogate.
      As per Article 8 ARSIWA, ‘[t]he conduct of a person or group of persons [such as the LYCG] shall be considered an act of a State [i.e. Italy in this case]’, when the group in question ‘is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct’. Taking the Italian Navy and the Judge of Catania’s assertions at face value, the LYCG are to be considered ‘auxiliaries’ of the Italian border machinery deployed extraterritorially, ‘instructed to carry out particular [interdiction] missions abroad’. The Italian Navy conducts the specific operations through its NAURAS effectives exercising coordination as well as command-and-control functions, meaning that the (wrongful) conduct of the LYCG shall be considered ‘an integral part of the operations’ aimed at impeding departures across the Central Mediterranean and thus be attributed to Italy.[110] It is the Italian authorities that locate targets, relay maritime coordinates, and equip and mandate the LYCG to proceed to the interdiction of migrant boats.[111] It is Italy that ‘directs’ the operations in a way that ‘does not encompass mere incitement or suggestion but rather connotes actual direction of an operative kind’.[112] Italian intervention is a sine qua non for the ‘pull-backs’ at sea to materialise, which could not be carried out autonomously by the LYCG.[113] Italy exercises ‘such a degree of control […] as to justify treating the [LYCG] as acting on its behalf’.[114]
      Italy’s involvement in Libyan search and rescue (or rather, interdiction) operations, in different ways and throughout time, rather than just an instance of complicity,[115] engaging indirect responsibility, can thus be characterised as a breach entailing direct responsibility, consisting of a ‘composite act’. Article 15 ARSIWA establishes that an international obligation (of non-refoulement, for instance, and of non-arbitrary interference with the right to leave) may indeed be violated via ‘a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful’. The financing or training of the LYCG alone may be harmless and perfectly licit, but, when taken together and alongside the infiltration of the command-and-control chain of the LYCG by the Italian Navy, the whole, in light of the final outcome of pull-backs, becomes an illicit under international law.
      Italian jurisdiction may indeed be engaged not only in relation to action occurring within its territory and in other areas subject to its ‘effective control’, but, as the Human Rights Committee has stated, also regarding conduct ‘having a direct and reasonably foreseeable impact on the right[s] […] of individuals [abroad]’.[116] The obligation to respect and protect human rights extends beyond territorial domain to all persons subject to its jurisdiction, that is, to ‘all persons over whose enjoyment of the right[s] [concerned] it exercises power’, including ‘persons located outside any territory effectively controlled by the State, whose [rights are] nonetheless impacted by its military and other activities’ – the transfer of money, equipment and enforcement capacity thus acquiring a significance of its own as a possible trigger of independent responsibility for wrongful conduct.[117] Not only the aiding and abetting of human rights violations is of relevance, whatever the form the assistance provided to the LYCG may take (whether commercial, financial, political, or logistical), but also actions (or omissions) that impede the effective enjoyment of human rights – counting the right to leave any country, to seek protection from harm, and to non-refoulement – matter too, from a legal perspective.[118] Following the Legal Service of the European Parliament in the context of its viability analysis of ‘disembarkation platforms’, engagement in any formal or informal arrangement with third countries – including Libya – to finance or contribute to the functioning of externalized structures of migration control ‘have to respect the prescriptions of the relevant provisions of international law’[119] – presumably including those under the ECHR, the ICCPR and general customary norms.[120] Failure to do so flouts the obligations concerned. Direct perpetration of an international wrong is not a pre-requisite for legal responsibility. Indirect contraventions – including via proxy – incur liability as well.[121]
      Distance-creation, through the ‘rulification’ of ‘irresponsibility’ in legal texts or self-seeking effectuations, does not do away with international obligations, nor does it legitimize the suffering it provokes. The EU and its Member States must come to recognise the predictable effect and implications of their externalization agenda. And, alongside the UN Special Rapporteur on Torture, acknowledge that, as currently designed, their ‘migration policies can amount to ill-treatment’.[122] Actually, ‘[t]he primary cause for the massive abuse suffered by migrants […] is neither migration itself, nor organised crime […] but the growing tendency of States to base their official migration policies and practices on deterrence, criminalisation and discrimination’.[123] It is this distinct strategy that causes border-induced displacement, breaches human rights obligations and triggers international legal responsibility.[124]
      4. Conclusion: ‘Rulification’ as the co-option of protection

      ‘Rulification’ does not represent a paradigm shift in European politics, but rather an up-scaling of the logic observable also in proposals pursued from the 1980s and onwards and which have led to the integration of the concepts of ‘first country of arrival’, ‘safe third country’ and maritime interdiction within the legal architecture of the common borders and asylum acquis, the primary purpose of which has been the avoidance of asylum seekers on EU territory. It is the abuse and exploitation entrenched within externalization strategies that engenders border-induced displacement in Europe’s border-region. With EU Member States viewing the opening up of legal escape routes as an irrational concession, the side-effects of externalization are exacerbated as the systemic logic of asymmetric, diffused, and denied responsibility for displaced persons is reproduced further and further away from Europe, and closer and closer to the repressive regimes people attempt to escape from.
      The reactionary and regionalist assumptions underpinning externalization arguments and practices tell a securitized tale of displacements constantly generated and managed far removed from European territory and agency. However, distance-creation strategies, whether ethical, spatial, or legal, belong to the category of ‘policies based on deterrence, militarization and extraterritoriality’, denounced by UN Special Rapporteurs and others, ‘which implicitly or explicitly tolerate [and perpetuate] the risk of migrant deaths as part of an effective control of entry’.[125] As the previous sections demonstrate, the structural nature of externalization problematizes traditional assumptions and debates in immigration ethics and politics. It traps migrants in a ‘vicious circle’ of more control, more danger, and more displacement, where they must rely on facilitators to escape life-threatening perils.[126]
      But smuggling and trafficking is the consequence, rather than the cause, of suffering. Suffering is embedded in the externalization system by design through the vehicle of ‘rulification’, which serves to launder the pernicious (and perfectly foreseeable) impact of extra-territorialised/externalised coercion into ‘law-ified’ (and purportedly unintended) side effects. At the same time, the European transfer of equipment and capacity for control outwards also risks undermining processes of accountability and democratic legitimacy in regions bordering Europe. And the ‘rulification’ of border-induced displacement does not make these implications any more palatable. In the words of UN Special Rapporteur Agnès Callamard, it is simply ‘not acceptable’ to deter entry by endangering life.[127] The fallacy of coercion-based protection needs to give way to an ethically grounded and legally sustainable rights-honouring paradigm. This is not to contest the legal existence of borders or their enforcement, but to challenge the legitimacy of mechanisms through which they are presently enacted in a manner incompatible with the most basic requirements of international law.

      http://www.qil-qdi.org/border-induced-displacement-the-ethical-and-legal-implications-of-distance-
      #responsabilité #déni_de_responsabilité #protection

  • Facilité de l’UE en faveur des réfugiés en Turquie : la Commission propose de mobiliser des fonds supplémentaires pour les réfugiés syriens

    Fidèle à son engagement de soutenir les #réfugiés_syriens en #Turquie, la Commission européenne mobilise aujourd’hui des fonds supplémentaires pour la facilité en faveur des réfugiés en Turquie, qui a permis à ce jour à 500 000 enfants d’avoir accès à l’éducation et à 1,2 million de réfugiés de bénéficier de transferts mensuels en espèces.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-1723_fr.htm

    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accord_UE-Turquie

    Accordo UE-Turchia. Via libera ad altri 3 miliardi per il contenimento dei migranti

    Dopo due anni dalla firma dell’accordo UE-Turchia (marzo 2016) e il riconoscimento di 3 miliardi, arriva dalla Commissione Europea il via libera per ulteriori 3 miliardi da versare allo stato turco per «l’essenziale ed efficace ruolo di sostegno ai profughi più vulnerabili» e per la «riduzione della pressione migratoria» sul vecchio continente.

    http://viedifuga.org/accordo-ue-turchia-via-libera-ad-altri-3-miliardi-contenimento-dei-migran

    cc @isskein @i_s_