• Comment des migrants sont abandonnés en plein désert en #Afrique

    Une enquête de plusieurs mois menée par « Le Monde », le média à but non lucratif « Lighthouse Reports » et sept médias internationaux montre comment des dizaines de milliers de migrants en route vers l’Europe sont arrêtés et abandonnés en plein désert au Maroc, Tunisie et Mauritanie.

    https://www.dailymotion.com/video/x8yrqiy

    #vidéo #migrations #désert #abandon #Mauritanie #Maroc #Tunisie #réfugiés #externalisation #frontières #rafles #racisme_anti-Noirs #Fès #déportations #Rabat #forces_auxiliaires #refoulements #arrestations_arbitraires #enlèvements #centres_de_détention #Ksar #détention_administrative #Espagne #bus #Algérie #marche #torture #Gogui #Mali #accords #financements #expulsions_collectives #Nouakchott #forces_de_l'ordre #Sfax #Italie #équipement #aide_financière #UE #EU #Union_européenne #forces_de_sécurité #gardes-côtes #gardes-côtes_tunisiens #droits_humains #droits_fondamentaux

    ping @_kg_

  • Carte à la une. Déconstruire un récit impérial : le mythe Sykes-Picot — Géoconfluences
    https://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/a-la-une/carte-a-la-une/sykes-picot

    Très bon article

    La carte dite de Sykes-Picot (1916) est souvent présentée comme l’illustration la plus flagrante de l’impérialisme européen au Moyen-Orient et de la manière dont les frontières y ont été tracées arbitrairement. En replaçant cette carte dans son contexte historique, l’historiographie récente nuance cette idée. Exagérer son importance revient à occulter la longue histoire des frontières et tend à faire oublier que ce mythe est lui-même en partie hérité des discours impériaux.


    #cartographie #colonisation #géopolitique

  • ACCORDO ITALIA – ALBANIA : FRA STRATIFICAZIONE COLONIALE E DEVOZIONE

    In questa puntata di Harraga abbiamo parlato di esternalizzazione della detenzione amministrativa in Albania. Sebbene sembra che la scadenza del 20 Maggio, per l’apertura di un Hotspot a #Shengin e di un #CPRI a #Ghader, stia saltando per via del passo rallentato al quale proseguono i lavori, sarà comunque in tempi molto prossimi che vedremo sorgere le ennesime strutture di reclusione per persone senza documenti europei. La gestione e la giurisdizione alla quale faranno riferimento sarà totalmente made in Italy, di fatti i bandi e gli appalti sia edili che per il dislocamento delle guardie sono stati emessi a Roma. La struttura di Ghader sarà un CPRI ossia un centro di detenzione amministrativa per richiedenti asilo provenienti da paesi cosiddetti sicuri trovati dalla marina militare italiana in acque internazionali.

    Con una compagna abbiamo tentato di fare un inquadramento di questi nuovi investimenti per delle prigioni fuori dal territorio italiano affrontato la profonda stratificazione storica e politica del rapporto tra Italia e Albania interpretabile nei termini della colonia.

    https://radioblackout.org/podcast/accordo-italia-albania-fra-stratificazione-coloniale-e-devozione

    #Albanie #colonialisme #Italie #histoire_coloniale #occupation #occupation_militaire #fascisme #expansionnisme #pétrole #résistance #dépendance #protectorat_italien #blanchité #néocolonialisme #migrations #accords #exploitation #néo-libéralisme #néo-colonialisme #call_center #soft_power #religion #télévision #OTAN #violence #migrants_albanais #invisibilisation

    #podcast #audio

    • AGGIORNAMENTI DALL’ALBANIA E L’ESTERNALIZZAZIONE DELLA DETENZIONE AMMINISTRATIVA

      A inizio Giugno 2024 Giorgia Meloni si è recata in Albania dove è stata accolta – scalzando le voci di protesta locali – tra fanfare (neo)coloniali tese a ribadire come il famoso accordo Rama-Meloni – su frontiere e #CPRI – altro non sia che la punta di diamante della linea europea di delocalizzazione della detenzione e della tortura “amministrativa”; nonché la riconferma del florido stato di salute del concetto di Colonia.

      Mentre alle porte dell’Europa si dà un genocidio algoritmico mandato in mondovisione e volto al sadico perfezionamento del colonialismo di insediamento israeliano, in Albania si ritualizza simbolicamente l’utilizzo di un linguaggio coloniale che riconfermi le priorità europee in termini di brutale annientamento dell’eccedenza umana del capitalismo.

      Dire che nei CPR si tortura e che da essi si viene deportati non basta.

      I CPR sono strutture fondamentali nel garantire il perpetuarsi di un ordine coloniale alimentato – oggi, anche – da una soffocante retorica bellica sul nemico interno. Fare attenzione all’ordine di senso attraverso cui la brutalità di frontiere e detenzione si esplica sul piano geopolitico – e non solo – vuol dire però ricordarci anche come l’oppressione lungo la linea del colore incorpori un’implicita gerarchia della bianchezza dentro la quale Storia, Colonia e brutalità del capitalismo neo-liberale sono ingredienti fondamentali.

      Di tutto questo e altro abbiamo parlato in una interessante diretta con una compagna da Milano ai microfoni di Harraga.

      https://radioblackout.org/podcast/aggiornamenti-dallalbania-e-lesternalizzazione-della-detenzione-ammin

    • Proteste contro la visita della Presidente Meloni al porto di Shëngjin in Albania

      Il mito della “storica amicizia” italo-albanese altro non è che neocolonialismo

      I lavori al porto di Shëngjin sono terminati e i centri previsti dall’accordo Rama-Meloni saranno operativi dal 1° agosto 2024. La conferma è arrivata da Giorgia Meloni, che il 5 giugno 2024 si è recata sul posto per ispezionare l’hotspot appena finito.

      Nella struttura a Shëngjin, circondata da un muro alto circa 7 metri, le persone intercettate in mare verranno sbarcate e trattenute massimo 24h per lo screening sanitario, l’identificazione, il fotosegnalamento e la formalizzazione delle domande di protezione internazionale.

      A Gjadër, invece, potranno rimanere anche un mese in attesa di una decisione sulla loro domanda di asilo, che verrà sottoposta a procedura di frontiera, o eventualmente del loro rimpatrio. Questo grande CPR includerà anche un’area dedicata alla detenzione dei migranti che commettono reati all’interno del centro. La legge vigente dentro ai centri sarà italiana, così come il personale dell’ente gestore, Medihospes, e gli agenti di polizia. Il governo albanese collaborerà con le proprie forze di polizia per la sicurezza e la sorveglianza esterna delle strutture.

      A Shëngjin, insieme al primo ministro albanese Edi Rama, la Meloni ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha espresso solidarietà al suo “storico amico”, a suo dire ingiustamente criticato dai media italiani per aver accettato di firmare un accordo con l’Italia per l’accoglienza dei migranti, e al popolo albanese, per essere stato dipinto come un narcostato.

      Durante la conferenza stampa, Meloni e Rama hanno voluto sottolineare ancora una volta il solido rapporto di amicizia tra i due paesi.

      «Volevo dire che le nostre nazioni sono due nazioni amiche, sono nazioni che storicamente hanno collaborato insieme e vorrei ringraziare ancora una volta il primo ministro Rama e tutto il popolo albanese per aver offerto aiuto all’Italia in modo che potessimo realizzare questo accordo e vorrei che questo fosse un esempio per tutta l’Unione Europea», ha detto la presidente del Consiglio.

      Il primo ministro Rama ha aperto la conferenza dicendo: «Parlo italiano perché comunque qui siamo in territorio italiano». Ha poi dichiarato di essere orgoglioso che l’Albania possa essere di servizio all’Italia, definendo una benedizione la possibilità di essere utili al governo italiano.

      L’amicizia italo-albanese è un tropo, una formula per cambiare nome alle cose, velandone il contenuto reale: un’amicizia che è più una comunione di interessi, una relazione d’affari e che soprattutto vale solo ai vertici. Gli albanesi in Italia subiscono spesso discriminazioni, criminalizzazione e violenza di frontiera.

      Lo scorso 30 maggio, un attivista albanese in visita a Roma per parlare di ecologia e turistificazione in Albania e precisamente di questa retorica di fratellanza in relazione alla costruzione dei CPR in territorio albanese, veniva trattenuto 9 ore in una cella di isolamento a Fiumicino dopo essersi opposto al ritorno forzoso in Albania. Era infatti in possesso di tutti i requisiti di accesso al territorio italiano e dopo 9 ore di ingiustificata e discriminatoria detenzione veniva rilasciato senza scuse né spiegazioni.

      Le dichiarazioni rilasciate al porto di Shëngjin riecheggiano un periodo familiare, che gli albanesi hanno tenuto a ricordare. Mentre Rama e Meloni si scambiavano frasi amichevoli, da un edificio di fronte al porto, alcuni attivisti hanno srotolato uno striscione con scritto “7 Aprile 1939 – L’Albania è italiana- 5 Novembre 2023” e hanno diffuso la registrazione audio dell’annuncio dell’invasione dell’Albania ad opera dell’Italia fascista del 7 Aprile 1939.

      Il parallelismo é chiaro quanto la critica diretta ai due leader e al loro accordo: un’esternalizzazione dei confini italiani che viola il principio di sovranità albanese e che é l’ennesima espressione di una logica neocoloniale.

      Recentemente Fabrizio Bucci, ambasciatore italiano a Tirana, ha affermato: «L’Albania è davvero una ‘regione italiana’ dove tutti amano il nostro Paese e parlano la nostra lingua». Dichiarazioni di questo tipo riecheggiano sorprendentemente quelle degli agenti imperialisti italiani durante l’occupazione fascista e confermano il forte radicamento di questa mentalità coloniale.

      Gli attivisti albanesi a Shëngjin hanno ricordato il 7 aprile 1939, giorno in cui le truppe italiane sbarcarono sulle coste albanesi per occuparla senza alcuna formale dichiarazione di guerra. Quel giorno, i bombardieri italiani sorvolarono i cieli albanesi spargendo volantini con messaggi in albanese che recitavano: “Le truppe italiane, che sono state vostre amiche per secoli, vi hanno spesso dimostrato questa amicizia“.

      L’occupazione italiana in Albania ha lasciato profonde cicatrici nel tessuto albanese, costando migliaia di vite e aprendo la strada a regimi autoritari. L’Albania oggi presenta sintomi ben visibili di post-colonialità che sono una diretta conseguenza dell’imperialismo italiano. Basta camminare per le strade di Tirana per capire quanto sia forte e oppressiva la presenza italiana sul territorio. L’Italia è infatti il principale paese straniero per numero di imprese attive sul territorio.

      Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha impresso un’importante accelerata alla delocalizzazione delle sue imprese. Questo processo ha avuto conseguenze neocoloniali non solo sul piano economico, ma anche sfruttando la manodopera sottopagata dei cittadini albanesi. Migliaia di giovani albanesi continuano a lavorare da anni in condizioni svantaggiose nei call center italiani. Secondo i dati ufficiali di Info Mercati Esteri, nel 2021, si contavano circa 2675 aziende con capitale italiano in Albania e circa 20.000 italiani che transitavano nel paese, numeri che oggi sono ancora più alti.

      Questo rappresenta un chiaro esempio di come l’Italia sfrutti la forza lavoro in Albania, beneficiando di minori tasse, maggiori profitti e bypassando le normative europee che sarebbero invece vincolanti in Italia.

      Inoltre, per affrontare la crisi economica causata dalla pandemia, il governo albanese ha introdotto nel 2021 una serie di incentivi fiscali per sostenere le imprese. Questi incentivi includono l’azzeramento delle tasse sull’utile di impresa per le aziende con un fatturato fino a 14 milioni di Lek (circa 130 mila euro) e l’azzeramento dell’IVA per le aziende con un fatturato fino a 10 milioni di Lek (circa 80 mila euro).

      Tali politiche fiscali hanno ulteriormente attratto le aziende italiane, consolidando la loro presenza in Albania.

      L’accordo Rama-Meloni, firmato il 5 novembre 2023, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sin da subito attivisti sia in Albania che nella diaspora si sono mobilitati, con collettivi come Zanë Kolektiv (Italia), MiQ (Grecia), e Shota (Albania e Kosovo) che hanno co-scritto una dichiarazione contro la costruzione di centri di detenzione amministrativa in Albania, denunciando le tattiche neocoloniali italiane e la natura disumanizzante dei centri di detenzione amministrativa.

      La protesta del 5 giugno a Shëngjin ha visto l’arresto temporaneo dei due attivisti che tenevano lo striscione, accusati di aver incitato a partecipare a una manifestazione non autorizzata.

      Questi eventi sottolineano la determinazione degli albanesi a non rimanere più in silenzio di fronte alle politiche neocoloniali italiane. L’accordo Italia-Albania è un altro esempio di come governi extra-UE dalla scarsa legittimazione popolare si rafforzano tramite la complicità dei paesi UE a scapito dei diritti delle popolazioni locali e migranti. La pratica di delocalizzare le imprese italiane in Albania per sfruttare la manodopera locale, insieme alla costruzione di centri di detenzione e hotspot in territorio albanese per estendere la giurisdizione e gli interessi italiani, sono chiari esempi di un neocolonialismo che perpetua disuguaglianze economiche e mina la sovranità dell’Albania, nonché il grado delle libertà politiche e sociali nel paese.

      La nostra resistenza collettiva rappresenta un rifiuto chiaro e deciso di rivivere il passato coloniale sotto nuove forme.

      https://www.meltingpot.org/2024/06/proteste-contro-la-visita-della-presidente-meloni-al-porto-di-shengjin-i

  • Nicolas Schmit veut revoir certains accords migratoires

    Les accords de plusieurs millions d’euros que l’UE a signés avec les pays voisins pour réduire l’immigration irrégulière doivent être « révisés », estime Nicolas Schmit, tête de liste des socialistes européens pour les élections de juin.

    « Je suis assez réticent à l’égard de ces accords qui doivent encore faire la preuve de leur efficacité. Nous dépensons actuellement d’énormes sommes d’argent, en donnant cet argent à différents régimes ou gouvernements, comme le gouvernement tunisien. Nous savons que les autorités tunisiennes traitent très mal les réfugiés », explique Nicolas Schmit à Euronews lors d’une interview exclusive filmée mardi matin.

    « Nous avons toujours des problèmes en Libye, où il y a deux gouvernements. Nous avons des questions pour l’Egypte. Je suis donc assez réticent à ce genre d’accords », poursuit-il.

    « Je pense que nous devons les revoir et voir ce qui peut être fait, comment nous pouvons le faire différemment parce que nous ne savons pas exactement comment l’argent est utilisé ».

    Nicolas Schmit, l’actuel commissaire européen en charge de l’Emploi et des Droits sociaux, rompt ouvertement avec la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen, qui, au cours de l’année écoulée, a encouragé la politique de signature d’accords avec les pays voisins, tels que la Tunisie, la Mauritanie et l’Égypte, dans le but de stimuler leurs économies fragiles et de réduire le nombre de départs d’immigrants clandestins.

    Cette stratégie, qui prévoit des millions de fonds européens et des projets d’investissement, bénéficie d’un large soutien des dirigeants de l’UE dont l’Italienne Giorgia Meloni, le Grec Kyriakos Mitsotakis, le Belge Alexander De Croo et l’Espagnol Pedro Sánchez, qui ont tous, à un moment donné, rejoint Ursula von der Leyen lors de ses voyages officiels.

    Mais ces accords ont été fortement critiqués par les ONG humanitaires et les spécialistes des migrations, qui affirment qu’ils sont mal conçus, qu’ils manquent de transparence et qu’ils reposent sur un vote de confiance de la part de gouvernements autocratiques. Les nombreux rapports faisant état de violations des droits de l’homme en Tunisie et en Égypte ont jeté une ombre sur ces textes.

    Le dernier chapitre en date de cette politique concerne le Liban, où la présidente de la Commission a annoncé la semaine dernière un programme d’aide d’un milliard d’euros destiné à soulager les difficultés financières du pays frappé par la crise et à empêcher une vague de réfugiés de se diriger vers Chypre. L’enveloppe, entièrement constituée de subventions, sera progressivement mise en place jusqu’en 2027.

    « Personne ne sait exactement comment l’argent annoncé sera dépensé au Liban, étant donné la situation du gouvernement libanais, qui est, d’une certaine manière, un gouvernement très faible », analyse Nicolas Schmit.

    Au cours de son entretien avec Euronews, Le Luxembourgeois de 70 ans a fustigé le « modèle rwandais » que le Royaume-Uni a mis en place pour transporter les migrants par avion vers le pays africain et traiter leurs demandes d’asile sur place. Si les demandes sont approuvées, les réfugiés se verront accorder l’asile au Rwanda, et non sur le sol britannique.

    Dans son manifeste, le Parti populaire européen (PPE) présente une ébauche de projet similaire au « modèle rwandais » visant à externaliser partiellement le traitement des demandes. Ursula von der Leyen, tête de liste du PPE, nie la comparaison et insiste sur le fait que tout projet serait compatible avec le droit international.

    « Je suis absolument contre ce que nous appelons le modèle rwandais, qui va à l’encontre des droits fondamentaux sur lesquels l’Europe s’est construite », insiste Nicolas Schmit. « Déléguer le traitement des réfugiés au Rwanda ou à d’autres pays est une question de non-respect de la dignité humaine ».
    Pas question de travailler avec CRE

    Nicolas Schmit et Ursula von der Leyen se trouvent dans une position particulière car tous deux travaillent au sein de la Commission mais ils font campagne respectivement pour le PSE et le PPE.

    La présidente de l’institution demeure la favorite selon les sondages. Son parti devrait rester la première force politique au Parlement à l’issue des élections de juin.

    Toutefois, ces dernières semaines, Ursula von der Leyen a fait sursauter l’opinion publique en raison de ses ouvertures vers le groupe des Conservateurs et réformistes européens (CRE), qui regroupe notamment Fratelli d’Italia (Italie), Droit et Justice (Pologne), Vox (Espagne), l’Alliance néo-flamande N-VA (Belgique), le Parti démocratique civique (République tchèque) et les Démocrates de Suède (Suède).

    Le CRE devrait progresser de manière significative après le mois de juin, et pourrait devenir le troisième groupe le plus important, ce qui donnerait à cette formation eurosceptique et anti-Pacte vert un plus grand poids dans la prise de décision.

    Pour être reconduite par les dirigeants, Ursula von der Leyen devra être confirmée par une majorité au Parlement. Les socialistes ont prévenu que si la responsable allemande cherchait à obtenir des voix au sein de CRE, elle perdrait leur soutien.

    « Il n’y a aucun moyen - je suis très clair là-dessus - il n’y a aucun moyen d’avoir un arrangement, un accord ou quoi que ce soit avec l’extrême droite », assure Nicolas Schmit à Euronews.

    Il accuse le PPE de faire une « distinction très spéciale » entre l’extrême droite « décente » et l’extrême droite « paria » et a mis en garde contre les conséquences imprévisibles de cette ligne de plus en plus floue, affirmant que le CRE défendait une conception « fondamentalement différente » de l’Europe.

    « Lorsque je regarde l’extrême droite dite décente, qui sont ces gens ? Ce sont des Vox. Ce sont des admirateurs de Franco. Des admirateurs de Mussolini. C’est le parti PiS (Droit et Justice) qui était sur le point d’abolir l’État de droit en Pologne et qui a été sanctionné par la Commission. Où est donc l’extrême droite décente ? Il n’y en a pas », explique-t-il.

    « C’est pourquoi il n’est pas possible d’avoir un arrangement qui se contente d’acheter des votes parce que l’extrême droite est intelligente. Ils ne donneront pas leurs voix pour rien. Ils demanderont des concessions sur la manière dont la politique européenne sera définie », assure Nicolas Schmit.

    Cette interview fait partie d’une série en cours avec toutes les têtes de liste pour les élections européennes. L’interview complète de Nicolas Schmit sera diffusée sur Euronews le week-end du 17 mai.

    https://fr.euronews.com/my-europe/2024/05/07/les-accords-de-lue-sur-limmigration-avec-legypte-et-la-tunisie-doivent-

    #UE #Tunisia #Egypt #Nicolas_Schmit #Ursula_von_der_Leyen

    ping @cdb_77

  • Migration : les États membres s’efforcent de transférer les procédures d’immigration à des États non membres de l’UE

    Un groupe d’États membres de l’UE, emmené par la #République_tchèque et le #Danemark, prépare une #lettre à la #Commission_européenne demandant que les migrants qui tentent d’atteindre l’UE soient transférés vers des États tiers sélectionnés avant d’atteindre les #côtes de l’Union — une procédure qui, selon les experts, risque d’être difficile à appliquer dans le cadre de la législation européenne actuelle sur l’immigration.

    Selon la lettre obtenue par les journaux tchèques, les signataires appellent à la conclusion d’#accords avec des pays tiers vers lesquels les États membres de l’UE pourraient envoyer les migrants interceptés en mer. L’ensemble de l’UE pourrait alors adopter un modèle similaire à celui conclu en novembre 2023 entre l’#Italie et l’#Albanie.

    « Là, une solution permanente pourrait être trouvée pour eux », peut-on lire dans la lettre, comme le rapporte le journal Hospodářské noviny.

    Selon ce plan, les migrants qui se dirigent vers l’Europe sans les documents nécessaires n’atteindraient même pas les côtes de l’UE, peut-on également lire dans la lettre.

    Le plan prévoit également le transfert des personnes qui se trouvent déjà dans un pays de l’UE, mais qui n’y ont pas obtenu l’asile, suggérant que ces migrants pourraient être emmenés dans un pays tiers, où ils resteraient jusqu’à ce qu’ils puissent être expulsés.

    Cette lettre a été rédigée à l’initiative du Danemark et de la République tchèque, et soutenue par plusieurs États membres. Une telle approche est soutenue par la majorité des Vingt-Sept, dont les #Pays-Bas, les États baltes et l’Italie, a appris Euractiv.

    L’Italie a été le premier État membre à signer un accord bilatéral avec un pays tiers — l’Albanie — sur l’externalisation des procédures de migration.

    « L’#externalisation et la #relocalisation des demandes d’asile ont une triple fonction : lutter plus efficacement contre les organisations criminelles dédiées au #trafic_d’êtres humains, comme outil de #dissuasion contre les départs illégaux, et comme moyen de soulager la pression migratoire sur les pays de première entrée, comme l’Italie, la Grèce, l’Espagne, Chypre ou Malte », a déclaré à Euractiv Italie le sous-secrétaire d’État au ministère italien de l’Intérieur, le député de la Lega Nicola Molteni (Identité et Démocratie).

    La #Hongrie est également favorable à une externalisation, mais n’a pas encore signé la lettre. Comme l’a confié un diplomate à Euractiv République tchèque, Budapest est « toxique » et pourrait nuire à la pertinence de la lettre.

    Le débat sur l’externalisation a battu son plein peu après l’approbation par le Parlement européen du nouveau pacte européen sur la migration et l’asile, et les États membres devraient formellement approuver le paquet législatif le 14 mai.

    L’externalisation des procédures d’immigration sera également abordée lors de la conférence internationale sur l’immigration qui se tiendra à Copenhague lundi (6 mai).

    « La conférence sera une bonne occasion de présenter les propositions du groupe de travail dirigé par le Danemark, avec la représentation de la majorité des États membres de l’UE, pour compléter le pacte sur la migration et l’asile après les élections européennes avec de nouvelles mesures, en particulier dans la dimension de la migration extérieure [y compris l’externalisation], basée sur un nouveau type de partenariat aussi complet », a déclaré Hana Malá, porte-parole du ministère tchèque de l’Intérieur, à Euractiv République tchèque.

    Les partenariats avec les États membres ne faisant pas partie de l’UE sont également soutenus par la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen.

    « Parallèlement à la mise en œuvre du Pacte sur les migrations, nous poursuivrons nos partenariats avec les pays d’origine et de transit afin de nous attaquer ensemble aux causes profondes des migrations », a-t-elle déclaré.

    Cependant, certains émettent des doutes quant à l’externalisation. C’est notamment le cas des libéraux français.

    Pour le député français Sacha Houlié, qui fait partie de l’aile gauche du parti majoritaire du président Emmanuel Macron, Renaissance (Renew Europe), l’externalisation des processus migratoires est aux antipodes du pacte sur la migration et l’asile adopté par le Parlement européen.

    « Envoyer des personnes dans des pays qui n’ont rien à voir avec leur pays d’origine, comme l’Albanie ou le Rwanda, pose un problème moral et éthique », a fustigé M. Houlié.

    L’externalisation de la gestion des migrations a également été qualifiée d’« inacceptable » par l’eurodéputé italien Brando Benifei, chef de la délégation du Parti démocrate (Partido Democratico, Socialistes et Démocrates européens) au sein de l’hémicycle européen.
    Critiques des ONG

    Les organisations de défense des droits de l’Homme se montrent particulièrement critiques concernant l’externalisation des procédures d’immigration, y compris l’accord italo-albanais.

    « Il est grand temps que les institutions européennes reconnaissent que l’accord entre l’Italie et l’Albanie créerait un système illégal et nuisible, auquel il faut mettre fin. Au lieu d’accroître la souffrance des individus, les autorités devraient garantir l’accès à une procédure d’asile efficace, à un accueil adéquat et à des itinéraires sûrs et réguliers », a souligné l’organisation Amnesty International en février.

    Selon l’expert en migration Vít Novotný, la proposition d’externaliser le traitement des demandes d’asile risque d’être difficile à mettre en œuvre, car les règles européennes, même dans le cadre du nouveau pacte migratoire, sont basées sur des procédures d’asile se déroulant uniquement sur le territoire de l’Union.

    « Le changement est concevable, la porte est là, mais le chemin juridique est long », a déclaré M. Novotný du Centre Wilfried Martens pour les études européennes à Euractiv République tchèque, soulignant que cette situation est encore spéculative.

    Il a expliqué que les propositions sur le retour des demandeurs déboutés pourraient être beaucoup plus faciles à obtenir un consensus et que l’initiative pourrait aider à résoudre le problème de longue date des déportations.

    Toutefois, il est essentiel de trouver des pays partenaires adéquats — un problème qui, selon M. Novotný, persiste.

    « La question est de savoir dans quelle mesure l’UE a essayé de trouver de tels pays. Il est possible qu’elle n’ait pas suffisamment essayé », a-t-il affirmé.

    « Maintenant que même l’Allemagne parle de solutions similaires, ce qui était impensable il y a seulement un an ou deux, il y a peut-être plus de chances de trouver un ou plusieurs pays de ce type. Mais pour l’instant, je ne fais que spéculer », a-t-il ajouté.

    M. Novotný a également rappelé les efforts de l’UE en 2018, lorsque le président du Conseil européen de l’époque, Donald Tusk, a déclaré que l’UE avait essayé de se mettre d’accord avec l’Égypte pour reprendre les personnes secourues en mer.

    « Et [le président Abdel Fattah] al-Sisi avait répondu très fermement à l’époque qu’il n’y avait pas moyen. Maintenant, cela se fait de manière un peu plus diplomatique, ce qui est probablement une meilleure façon de réussir », a conclu l’expert.

    https://www.euractiv.fr/section/all/news/migration-les-etats-membres-sefforcent-de-transferer-les-procedures-dimmigr

    #UE #Union_européenne #EU #asile #migrations #réfugiés #Europe #externalisation #pays_tiers

    • A Copenhague, une #conférence sur les #partenariats pour l’immigration

      Les représentants de plusieurs gouvernements européens se sont retrouvés, lundi, au Danemark, pour discuter des partenariats avec des pays tiers, dans le but de réduire l’immigration en Europe.

      La première ministre danoise, Mette Frederiksen (à gauche), avec la commissaire européenne chargée des affaires intérieures et des migrations, Ylva Johansson, lors d’une conférence internationale sur les migrations, à Copenhague, le 6 mai 2024. MADS CLAUS RASMUSSEN / AFP

      En janvier 2023, le gouvernement danois annonçait renoncer, temporairement, à sous-traiter le droit d’asile au Rwanda. A l’époque, le ministre de l’immigration et de l’intégration, Kaare Dybvad, faisait valoir que son pays souhaitait avancer avec ses partenaires européens, reconnaissant qu’une solution danoise ne réglerait pas le problème auquel faisait face l’Union européenne. « Nous nous sommes aussi rendu compte qu’après nous avoir envoyés balader, de plus en plus de pays semblaient intéressés par ce que nous avions à proposer », explique-t-on aujourd’hui au ministère.

      Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Pacte européen sur la migration et l’asile : « Le régime d’asile actuel est inhumain par nature ; il doit être réformé en profondeur »

      Lundi 6 mai, Copenhague accueillait une conférence internationale sur l’immigration. Plus de 250 responsables politiques et représentants d’organisations internationales, dont le Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés, l’Organisation internationale pour les migrations ou Europol, y ont évoqué différents types de « solutions durables », sous forme de « partenariats » avec des pays tiers, destinés à endiguer les arrivées et à accélérer les retours.

      Le ministre de l’intérieur italien, Matteo Piantedosi, ses homologues autrichien et tchèque, Gerhard Karner et Vit Rakusan, de même que le ministre de l’immigration néerlandais, Eric van der Burg, ont fait le déplacement. La Belgique, l’Allemagne et la Suède étaient, quant à elles, représentées par leurs secrétaires d’Etat à l’intérieur et à l’immigration.

      « Une base solide »

      Venue accueillir les délégués, la première ministre sociale-démocrate danoise, Mette Frederiksen, a constaté que « le système actuel de l’immigration et de l’asile s’était de facto effondré », rappelant que le nombre d’arrivées en Europe « était comparable à 2015 ». « Le pacte européen sur la migration et l’asile est une base solide sur laquelle nous pouvons nous appuyer. Mais nous avons également besoin de partenariats plus larges et plus égaux, et d’un engagement en faveur d’une solution durable à long terme », a-t-elle déclaré, en ouverture de la conférence.

      Au cours de la journée, il a notamment été question de la loi, adoptée le 23 avril, par le Parlement britannique, qui va permettre au Royaume-Uni d’expulser des demandeurs d’asile vers le Rwanda. Un modèle très controversé, imaginé par le Danemark, qui avait été le premier pays à légiférer, dès 2021, avant de signer un accord de coopération bilatérale avec Kigali en septembre 2022, puis de suspendre son projet d’y délocaliser la prise en charge des demandeurs d’asile et des réfugiés.

      Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak

      Copenhague, cependant, n’y a pas renoncé, selon M. Dybvad, qui estime qu’« une coopération européenne commune avec un ou plusieurs pays tiers en dehors de l’Europe devrait réduire l’incitation à y venir ». D’après le gouvernement danois, un tel système serait « plus humain et plus juste », car il réduirait le pouvoir des trafiquants et permettrait d’accorder l’asile à ceux « qui en ont vraiment besoin ».

      « Partenariats stratégiques »

      L’accord migratoire, signé entre l’Italie et l’Albanie, en janvier, a également été évoqué ainsi que les « partenariats stratégiques », passés par l’Union européenne, avec la Turquie, la Tunisie, le Maroc, l’Egypte et la Mauritanie. « Il n’est pas possible de penser que nous pouvons gérer l’immigration seuls au sein de l’UE », a observé Ylva Johansson, la commissaire européenne aux affaires intérieures, vantant le partenariat avec la Tunisie, qui a permis de « réduire d’environ 80 % les départs depuis que l’accord a été signé », en juillet 2023.

      Pour autant, pas question de sous-traiter l’asile à un pays tiers : « Ce n’est pas possible dans le cadre du pacte sur la migration » et « cela ne semble pas être un gros succès au Royaume-Uni », a-t-elle asséné. Le ministre autrichien de l’intérieur, M. Karner, n’est pas de cet avis : « Nous n’avons pas besoin d’une, mais de plusieurs solutions », martèle-t-il, affirmant qu’une des priorités, pour la prochaine Commission européenne, devra être de « modifier le cadre réglementaire », notamment « le critère de connexion », qui interdit aux pays européens d’envoyer un demandeur d’asile dans un pays où il n’a aucune connexion.

      Conseiller du ministre des affaires étrangères mauritanien, Abdoul Echraf Ouedraogo plaide, lui, pour « une réponse holistique ». La seule solution durable est de « s’attaquer aux facteurs structurels à l’origine de l’immigration, notamment aux inégalités de développement », dit-il, rappelant, par ailleurs, que les pays européens manquent de main-d’œuvre et auraient tout intérêt à faciliter les voies légales d’immigration vers l’UE.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2024/05/07/a-copenhague-une-conference-sur-les-partenariats-pour-l-immigration_6232022_

  • Plaidoirie magistrale de Monique Chemillier-Gendreau à la CIJ – Aurdip

    "La plaidoirie magistrale de la Professeure Monique Chemillier-Gendreau au nom de l’Organisation de la coopération islamique devant la Cour Internationale de Justice concernant les « Conséquences juridiques découlant des politiques et pratiques d’Israël dans le Territoire palestinien occupé, y compris Jérusalem-Est »"

    https://aurdip.org/plaidoirie-magistrale-de-monique-chemillier-gendreau-a-la-cij

    #palestine #cij

  • Travailleurs saisonniers du #Maghreb : la #FNSEA lance son propre business

    Grâce à des #accords passés en #Tunisie et au #Maroc, le syndicat agricole a décidé de fournir des « saisonniers hors Union européenne » aux agriculteurs. Elle fait des prix de gros et recommande d’éviter de parler de « migrants ».

    Le syndicat de l’#agrobusiness ne laisse décidément rien au hasard. Après avoir mis des pions dans la banque, l’assurance, les oléoprotéagineux ou le biodiesel, la FNSEA vient de lancer un service destiné à fournir des saisonniers aux agriculteurs français. #Jérôme_Volle, vice-président du syndicat agricole, a organisé, mercredi, au Salon de l’agriculture, une réunion de présentation du dispositif, fermée au public et aux journalistes.

    Pour l’instant, la chambre d’agriculture Provence-Alpes-Côte d’Azur (Paca) a été la seule à promouvoir ce « nouvel outil » destiné « à faire face à la pénurie de main-d’œuvre ». Le nom du service, « Mes #saisonniers_agricoles », a été déposé, le 9 janvier, à l’Institut national de la propriété industrielle (Inpi).

    Ce « #service_de_recrutement » de la FNSEA repose sur « un #partenariat avec les ministères et les partenaires emploi de la Tunisie et du Maroc » et ne proposera que des saisonniers recrutés hors Union européenne. Ce #service n’est pas sans but lucratif. Selon des documents obtenus par Mediapart, le syndicat s’apprête à facturer aux agriculteurs « 600 euros hors taxe » par saisonnier en cas de commande « de 1 à 3 saisonniers », mais il fait un prix « à partir du 4e saisonnier » : « 510 euros hors taxe le saisonnier ».

    Cette note interne précise qu’un montant de 330 euros est affecté à la « prestation fixe » du syndicat (« rétribution FNSEA »), pour la « recherche / formalité » et le fonctionnement de la « #cellule_recrutement ». Et qu’une rétribution de 270 euros, « ajustable », pourra être perçue par la fédération départementale du syndicat.

    Ces montants sont calculés « pour la première année », car la FNSEA propose aussi son « offre renouvellement », pour un ou plusieurs saisonniers « déjà venu(s) sur l’exploitation », soit « 120 euros hors taxe par saisonnier, puis au 4e 20 euros par saisonnier ». Le syndicat entend donc prélever sa dîme aussi pour les saisonniers déjà connus de l’employeur.

    « Le réseau FNSEA est le premier à mettre en place un schéma organisé et vertueux incluant la phase amont de #recrutement dans les pays hors UE », vante un autre document, qui précise les « éléments de langage » destinés à promouvoir le service « auprès des employeurs agricoles ». « La construction d’un cadre administratif conventionné a été réalisée en concertation avec les ministères de l’intérieur, du travail, des affaires étrangères, les agences pour l’emploi », indique ce document, qui signale que « les premiers pays engagés dans la démarche sont la Tunisie et le Maroc », mais que « d’autres suivront ».

    Dans le lot des récentes #concessions_gouvernementales à la FNSEA figure d’ailleurs la possible inscription de plusieurs #métiers_agricoles dans la liste des #métiers_en_tension – agriculteurs, éleveurs, maraîchers, horticulteurs, viticulteurs et arboriculteurs salariés. Cette mesure qui pourrait être prise par arrêté, le 2 mars, après consultation des partenaires sociaux, doit permettre d’accélérer les procédures de recrutement hors UE. Et devrait donc faciliter le fonctionnement de la cellule ad hoc du syndicat.

    Dans sa note de cadrage, la FNSEA avertit son réseau d’un « point de vigilance » sur le #vocabulaire à employer s’agissant des saisonniers et recommande d’éviter d’employer les termes « #migrant » ou « #primo-migrant » dans leur description du service.

    Le fonctionnement de la « cellule recrutement » des saisonniers n’est pas détaillé par la FNSEA. « Les candidats sont retenus selon les critères mis en place par un #comité_de_sélection composé d’exploitants qui examinent la pertinence des candidatures », précise seulement le syndicat.

    « L’exploitant retrouve le pouvoir de déterminer les compétences souhaitées pour les saisonniers qu’il recrute, il redevient donc maître de ses choix en matières RH. La FD [la fédération départementale – ndlr] l’accompagne et vérifie avec lui la cohérence de ses besoins avec les productions pratiquées (nombre de saisonniers, périodes, tâches). »

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    Le précédent de Wizifarm

    « Nos saisonniers agricoles » n’est pas la première tentative de la FNSEA sur le marché du travail des saisonniers. En 2019, sa fédération départementale de la Marne et deux entreprises contrôlées par le syndicat avaient créé une #start-up, #Wizifarm, pour offrir aux agriculteurs une #plateforme de recrutement de saisonniers en ligne « en s’inspirant du modèle des sites de rencontre ». Lors du premier confinement, cette plateforme est mise à profit par la FNSEA et Pôle emploi pour tenter de fournir de la #main-d’œuvre à l’agriculture dans le cadre de l’opération « desbraspourtonassiette.wizi.farm ».

    La structure a été initialement capitalisée à hauteur de 800 000 euros par « l’apport en nature de logiciels » achetés par la FDSEA à la société #TER’informatique – présidée par le secrétaire général adjoint de la FDSEA, #Mickaël_Jacquemin –, et par l’apport de 100 000 euros de la société d’expertise comptable de la fédération, #AS_Entreprises – présidée par le président de la FDSEA #Hervé_Lapie.

    Cinq fédérations départementales du syndicat et la chambre d’agriculture de la Marne ont rejoint la start-up en 2021. Mais, fragile financièrement, Wizifarm s’essouffle. La société vote sa dissolution anticipée et sa mise en liquidation judiciaire fin 2022. Wizifarm laisse un passif de 1,3 million d’euros. Contactés, Hervé Lapie et Mickaël Jacquemin ont refusé de répondre aux questions de Mediapart.

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    On ne sait pas précisément comment la cellule de la FNSEA fonctionnera avec ses « fédés » départementales mais « un process informatique national » doit charpenter l’initiative. Sollicité par Mediapart au Salon de l’agriculture, Jérôme Volle, artisan de ce dispositif, vice-président de la FNSEA et président de sa commission emploi, n’a pas souhaité répondre à nos questions.

    En 2022, il soulignait que « les filières viticoles et arboricoles », « très gourmandes en main-d’œuvre », étaient « les plus mobilisées dans la recherche de candidats », suivies par la filière maraîchage.

    Aucune des différentes notes de cadrage obtenues par Mediapart n’évoque la #rémunération des saisonniers ou leurs #conditions_de_travail ou d’hébergement, pourtant récemment au cœur de l’actualité. En septembre dernier, après la mort de quatre personnes lors des vendanges en Champagne, la Confédération paysanne avait demandé un « plan de vigilance et d’amélioration des conditions de travail et de rémunération » pour les saisonniers, ainsi que « le contrôle des sociétés de prestation de services internationales ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/290224/travailleurs-saisonniers-du-maghreb-la-fnsea-lance-son-propre-business
    #travail_saisonnier #saisonniers #agriculture #France #accords_bilatéraux #migrations #business

  • What do Germany’s migration partnerships entail ?

    Migration partnerships cannot halt large movements of refugees, but they can help countries manage migration better. Germany has signed a number of partnerships into effect in recent years.

    The German government seems to be working tirelessly when it comes to migration. In January, during her visit Rabat, Morocco’s capital, German Economic Cooperation and Development Minister Svenja Schulze announced a new migration partnership with Morocco.

    Just days later, on February 6, she inaugurated a migrant resource center in Nyanya near Abuja, Nigeria’s capital, alongside Nigerian Minister of State for Labor and Employment Nkeiruka Onyejeocha.

    In May last year, German Chancellor Olaf Scholz announced a migration partnership with Kenya in an attempt to attract skilled workers from the East African nation.

    Apart from Morocco, Nigeria and Kenya, the German government has also signed migration partnerships or is in negotiations to do so with Colombia, India, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Georgia and Moldova.

    At the European Union (EU) level, such agreements have been in place for over 15 years. According to the EU-funded Migration Partnership Facility, there are around 50 such partnerships.

    ’Part of overall concept’

    What is the difference between these partnerships, repatriation cooperation agreements or previous migration agreements?

    For Joachim Stamp, Germany’s Special Commissioner for Migration Agreements, “migration partnerships are a component of an overall concept.” According to the Interior Ministry, to which Stamp’s post is assigned, this includes “a paradigm shift to reduce irregular migration and strengthen legal migration.”

    He explained that in contrast to general migration agreements, migration partnerships are more about trust-based exchange and cooperation in labor, training and attracting skilled workers. The idea is not only to fight irregular migration but to replace it with regular migration.

    Migration expert Steffen Angenendt from the Berlin-based German Institute for International and Security Affairs considers migration partnerships to be “extremely important” and “indispensable” but points out that they are not “a panacea for large migration movements.”
    Partner countries’ interests ignored

    “Previous agreements have generally been ineffective or have not achieved the effect they were supposed to,” Angenendt told DW. “This is because all the EU migration and mobility partnerships concluded since 2007 have been primarily aimed at reducing irregular immigration.”

    He added that the problem was that the interests of partner countries had consistently been neglected.

    These interests include the expansion of regular immigration opportunities to work, study or train in EU countries, he explained. Angenendt said that as long as these considerations were not considered, countries’ political will to fulfill treaty obligations would remain low.

    Such obligations include the rapid issuing of documents to nationals living in countries where they do not have the right to stay so they can be moved to their country of origin. They also include the stricter monitoring of those wanting to leave a country.
    Most asylum seekers in Germany fleeing from war

    On closer inspection, this means that migration partnerships are only partially suitable for reducing migration movements. Most people entering Germany as refugees are from countries where there are massive human rights violations and war.

    “We cannot develop migration partnerships with countries such as Syria and Afghanistan,” said Stamp in a statement. Instead, he stated that the German government was trying to support “neighboring countries that take in refugees from these countries.”

    According to the Federal Office for Migration and Refugees, most asylum seekers in recent years have originated from Syria and Afghanistan. In the past three years, the number of asylum seekers from Turkey has also increased, accounting for 19% of the total.

    Countries with which Germany has migration partnerships, such as Georgia, tend to be at the bottom of the statistics.

    “I am very pleased that we have succeeded in reaching an agreement with Georgia and [will do so] in the coming weeks, with Moldova,” said Stamp in an interview with the German television news channel Welt TV in early February.

    He added that the migration partnership with Morocco announced at the end of January was already being implemented. “After many years in which things didn’t go so well, we now have a trusting relationship,” he said.

    Controversial deal between Italy and Albania

    For its part, Italy has reached a controversial agreement with Albania, which has EU candidate status, to reduce migration. This is sometimes called a migration partnership but does not seem to fit the description.

    According to the agreement, Albania will establish two centers this year that will detain asylum seekers while their applications are being processed. The international advocacy organization Human Rights Watch says the deal breaches international law.

    Compared to Italian Prime Minister Georgia Meloni, German development minister Schulze appears to have struck a different tone regarding migration. But she still wants to see more migrants without the right to stay deported from Germany.

    “Migration is a fact of life,” she said at the inauguration of the migrant resource center in Nigeria at the beginning of February. “We have to deal with it in a way that benefits everyone: migrants, countries of origin and the communities that receive migrants.”

    https://www.infomigrants.net/en/post/55097/what-do-germanys-migration-partnerships-entail

    #accords #Allemagne #accords_bilatéraux #asile #migrations #réfugiés #Maroc #Nyanya #Nigeria #Kenya #Colombie #Inde #Géorgie #Moldavie #Ouzbékistan #Kirghizistan #Migration_Partnership_Facility #accords_migratoires #partenariats #partenariats_migratoires

  • Externalisation des politiques migratoires : le rôle de la #France

    A la veille d’un nouveau projet de loi sur la migration et l’asile, le CCFD-Terre Solidaire publie une analyse sur l’externalisation des politiques migratoires européennes à des #pays_tiers. La note éclaire le rôle joué par la France dans cette approche.

    Appelée externalisation, cette stratégie est présentée par les institutions européennes comme un moyen de mieux contrôler ses propres #frontières tout en délégant cette compétence à des pays tiers. Cela revient à limiter les déplacements de population dans et depuis ces pays mais également à faciliter les expulsions vers ces territoires, une dynamique renforcée depuis 2015.

    L’externalisation des politiques migratoires est largement critiquée par la société civile mais également par des agences onusiennes. Elles y voient en effet un moyen pour l’UE :

    – de se déresponsabiliser des conséquences de ses politiques migratoires sur les droits et la dignité des personnes exilées
    – d’esquiver ses obligations internationales en matière de protection.

    La France, principale artisane de l’externalisation

    La France demeure l’Etat européen qui a signé le plus d’#accords de #coopération_migratoire avec des pays tiers.

    La France a également largement participé à la mise en œuvre de financements européens dédiés à ces politiques, via ses opérateurs. Dans la nouvelle programmation budgétaire européenne relative aux projets de #développement, elle se positionne déjà sur plusieurs initiatives régionales focalisées sur les routes migratoires vers l’Europe.

    Enfin, la France a adapté son architecture institutionnelle pour répondre aux enjeux liés à la « dimension externe des migrations », avec un rôle toujours plus prépondérant du ministère de l’Intérieur sur le ministère des Affaires étrangères.

    Une absence de contrôle démocratique

    L’externalisation des politiques migratoires est liée à un certain nombre de risques importants : violations des droits humains, dilution des responsabilités en matière de protection internationale, instrumentalisation de l’#aide_publique_au_développement, etc.

    Pourtant, elle bénéficie d’une grande #opacité sur son déploiement, qui permet à la Commission européenne et aux Etats membres de l’UE d’agir sans un cadre de redevabilité clair quant à leurs actions.

    https://ccfd-terresolidaire.org/rapport-dans-langle-mort-quel-role-de-la-france-dans-lexternali
    #externalisation #migrations #asile #réfugiés
    #rapport #CCFD #aide_au_développement #responsabilité
    ping @karine4

  • L’#écriture_inclusive par-delà le #point_médian

    La #langue_inclusive est l’objet de vives polémiques, mais aussi de travaux scientifiques qui montrent que son usage s’avère efficace pour réduire certains #stéréotypes induits par l’usage systématique du #masculin_neutre.

    Où sont les femmes dans une langue où le #genre_masculin peut désigner à la fois le #masculin et le #neutre_générique_universel ? En effet, si vous lisez ici : « Les chercheurs s’intéressent aux discriminations de genre », comprenez-vous « chercheurs » en tant que « les hommes qui contribuent à la recherche » ou comme « les personnes qui contribuent à la recherche » ? Impossible de trancher.

    Sharon Peperkamp, chercheuse au sein du Laboratoire de sciences cognitives et psycholinguistique1 explique : « Il existe une #asymétrie_linguistique en #français où le genre masculin est ambigu et peut être interprété de deux manières, soit comme générique – incluant des personnes de tous genres, soit comme spécifique, incluant uniquement des hommes. Or, on sait depuis longtemps que ce phénomène peut induire un #biais_masculin qui peut avoir a des conséquences sur les #représentations. » Partant de ce postulat que les usages langagiers participent aux #représentations_sociales, les psycholinguistes ont voulu vérifier dans quelle mesure une modification contrôlée de ces usages, notamment par le recours à des tournures dites « inclusives », pouvait affecter certains #stéréotypes_de_genre.

    L’#inclusivité, la #langue_française connaît déjà !

    Un large mouvement a été engagé il y a déjà plusieurs décennies pour reféminiser les usages de langue et la rendre plus égalitaire, à travers l’usage de ce qu’on qualifie aujourd’hui d’ « écriture inclusive ». Mais cette dernière fait #polémique. Des #controverses qui se sont invitées jusqu’au Sénat : le mercredi 25 octobre 2023, la Commission de la culture, de l’éducation, de la communication et du sport a adopté la proposition de loi visant à interdire l’usage de l’écriture inclusive (https://www.senat.fr/dossier-legislatif/ppl21-404.html). Les parlementaires ont en effet estimé « que l’impossibilité de transcrire à l’oral les textes recourant à ce type de graphie gêne la lecture comme la prononciation, et par conséquent les apprentissages ». Jugeant, en outre, que « l’écriture inclusive constitue, plus généralement, une #menace pour la langue française ». Cependant, si tous les regards sont tournés vers l’#écrit et plus précisément vers le point médian, cet aspect-là ne constitue qu’une infirme partie des nombreuses #stratégies_linguistiques proposées pour rendre la langue moins sexiste, tant à l’oral qu’à l’écrit.

    Dans son guide (https://www.haut-conseil-egalite.gouv.fr/IMG/pdf/guide_egacom_sans_stereotypes-2022-versionpublique-min-2.p) « Pour une communication publique sans stéréotype de sexe », publié en 2022, le Haut conseil à l’égalité entre les femmes et les hommes (HCE) définit ainsi le #langage_égalitaire (ou non sexiste, ou inclusif) comme « l’ensemble des attentions discursives, c’est-à-dire lexicales, syntaxiques et graphiques qui permettent d’assurer une #égalité de représentation des individus ». Il signale que « cet ensemble est trop souvent réduit à l’expression “écriture inclusive”, qui s’est imposée dans le débat public mais qui ne devrait concerner que les éléments relevant de l’écriture (notamment les abréviations) ». Nous adopterons donc ici l’expression « langage inclusif » ou « langue inclusive » pour désigner les usages oraux et écrits qui permettent d’exploiter les ressources linguistiques à notre disposition pour noter les différents genres.

    « Ce n’est pas la langue française qui est sexiste, ce sont ses locuteurs et locutrices. Qui ne sont pas responsables de ce qu’on leur a mis dans la tête, mais de ce qu’elles et ils en font », affirme Éliane Viennot, professeure émérite de littérature. Ce que nous faisons aujourd’hui, c’est que l’on reféminise la langue. On ne la féminise pas, on la reféminise parce qu’elle a été masculinisée. En fait, il s’agit de la faire fonctionner comme elle sait faire. Tous les noms féminins de métiers, de fonctions sont là depuis toujours – sauf évidemment s’ils correspondent à des activités nouvelles. »

    Et de poursuivre : « Les #accords_égalitaires sont là. Depuis le latin, nous savons faire des #accords_de_proximité ou des #accords_de_majorité. Nous savons utiliser d’autres termes pour parler de l’humanité que le mot “homme”. Nous savons faire des #doublets – il y en a plein les textes anciens, notamment les textes réglementaires. C’est une question de #justesse, ce n’est pas une question de #féminisme. Nos ancêtres n’étaient pas plus féministes que nous ; simplement, ils utilisaient leur langue comme elle s’est faite, comme elle est conçue pour le faire ».

    Le langage inclusif en pratique

    De fait, le français met à notre disposition différentes #stratégies permettant une meilleure représentation des femmes et des minorités de genre dans ses usages. Il est possible de distinguer deux types de stratégies.

    D’une part, les stratégies dites « neutralisantes ». « Il s’agit, non pas d’utiliser du neutre tel qu’il est présent dans la langue aujourd’hui – puisque ce neutre est pensé comme masculin, mais de retrouver du #neutre, de retrouver du commun », expose Eliane Viennot. Cela passe notamment par le recours à des #termes_épicènes, c’est-à-dire des termes qui ne varient pas en fonction du genre comme « scientifique », « architecte », « artiste »… ou encore le pronom « #iel » qui est employé pour définir une personne quel que soit son genre (« les architectes ont reçu des appels à projet auxquels #iels peuvent répondre »).

    Cela passe aussi par l’usage de #mots_génériques tels que « personnes » ou « individus ». Également par des formules englobantes avec des #singuliers_collectifs : « l’équipe » (plutôt que « les salariés »), « l’orchestre » (plutôt que « les musiciens »), « la population étudiante » (plutôt que « les étudiants »), « bonjour tout le monde » (plutôt que « bonjour à tous »). Ou encore par des tournures en apostrophe (« Vous qui lisez cet article » au lieu de « Chers lecteurs ») et autres reformulations, avec, par exemple, le recours à des formulations passives : « L’accès à la bibliothèque est libre » plutôt que « Les utilisateurs ont librement accès à la bibliothèque »).

    D’autre part, les stratégies dites « féminisantes », qui reposent notamment sur la #féminisation des noms de métiers, de fonctions et de qualités : « professeur » = « professeure » ; « Madame le directeur » = « Madame la directrice » ; « L’écrivain Virginie Despentes » = « L’écrivaine Virginie Despentes ». Autre exemple, la #double_flexion, également appelée « #doublet », qui consiste à décliner à la fois au féminin et au masculin les mots : « les lecteurs de cet article » = « les lecteurs et les lectrices de cet article » ; « les auditeurs peuvent nous écrire à cette adresse » = « les auditeurs et les auditrices peuvent nous écrire à écrire à cette adresse ».

    Ces #stratégies_féminisantes englobent aussi les points médians (préférés aux barres obliques et aux parenthèses), qui sont des abréviations de la double flexion : « les lecteur·ices de cet article » ; « Les auditeur·ices », etc. À l’oral, à l’instar des abréviations comme « Dr » ou « Mme » que tout le monde lit « docteur » et « madame », ces termes se prononcent simplement « les lecteurs et les lectrices » ou les « auditeurs et les auditrices » (plus rarement « les lecteurices » ; « les auditeurices »).

    On y trouve également des modalités d’#accords_grammaticaux qui permettent de bannir la règle selon laquelle « #le_masculin_l’emporte_sur_le_féminin ». Les accords de proximité, ou #accords_de_voisinage, qui consistent en l’accord de l’adjectif, du déterminant et/ou du participe passé en genre avec le nom qui se situe au plus proche et qu’il qualifie. Par exemple : « Les auditeurs et les auditrices sont priées d’écrire à cette adresse » ; « Les policiers et les policières sont prêtes à intervenir ». Et les accords de majorité, qui consistent à accorder l’adjectif, le déterminant et/ou le participe passé avec le terme qui exprime le plus grand nombre, par exemple : « Les éditrices et l’écrivain se sont mises d’accord sur le titre du livre ».

    Si le recours à ces différentes stratégies constitue un marqueur social et culturel pour le ou la locutrice, il est loin de ne relever que de la simple posture et produit des effets concrets qui font l’objet de nombreux travaux de recherche.

    Pour le cerveau, le masculin n’est pas neutre

    Des psycholinguistes se sont ainsi penchés sur les différences entre usage du masculin générique, des formules neutralisantes et des formulations féminisantes comme l’usage d’un pronom ou d’un article féminin et la double flexion pour dire les noms de métiers et de fonctions.

    C’est notamment le cas de Sharon Peperkamp2 : « Nous avons fait lire à nos sujets un court texte portant sur un rassemblement professionnel et leur avons demandé d’estimer le pourcentage d’hommes et de femmes présents à ce rassemblement. Lorsqu’il s’agissait d’une profession non stéréotypée – c’est-à-dire exercée de manière égale par des hommes et des femmes – et lorsque nous avions recours au masculin dit “générique”, les sujets sous-estimaient la proportion de femmes dans le rassemblement. En revanche, lorsque nous utilisions une double flexion, les sujets estimaient un ratio correspondant au ratio effectif dans la société. »

    La chercheuse poursuit : « Lorsqu’il s’agissait d’une profession stéréotypiquement masculine, et que la double flexion était utilisée, la proportion de femmes par rapport à la réalité était en revanche surestimée. » Pour cette psycholinguiste, ces résultats confirment que « il est faux de dire que le langage inclusif ne sert à rien. Il permet au contraire de donner un vrai boost à la visibilité des femmes et permet d’attirer davantage d’entre elles dans des filières supposées masculines. » Elle rappelle, en outre, que des études ont montré que les femmes sont davantage susceptibles de postuler à des #annonces_d’emploi dans lesquelles l’écriture inclusive est utilisée.

    De son côté, Heather Burnett, chercheuse CNRS au Laboratoire de linguistique formelle3, a travaillé sur les différences de représentation engendrées par l’usage d’un article au masculin dit « générique » et d’un article au féminin sur les noms de métier épicènes4 : « L’usage du masculin générique, supposé neutre, engendre un biais masculin. Alors, le masculin est interprété comme référant aux hommes. » Par exemple, « le journaliste » est compris comme un homme exerçant la profession de journaliste.

    C’est aussi ce qu’ont mis en évidence, dans une étude parue en septembre 20235, les psycholinguistes Elsa Spinelli, Jean-Pierre Chevrot et Léo Varnet6. Ce dernier expose : « Nous avons utilisé un protocole expérimental permettant de détecter des différences fines concernant le temps de réponse du cerveau pour traiter le genre des mots. Lorsqu’un nom épicène non stéréotypé est utilisé avec un article également épicène (par exemple “l’otage”ou “l’adulte”), les participants ont largement tendance à l’interpréter comme masculin. Autrement dit, notre cerveau n’interprète pas le masculin comme neutre ». Suivant le même protocole, l’équipe s’est ensuite penchée sur l’usage du point médian. Pour Léo Varnet, les conclusions sont très claires : « L’usage du point médian permet de supprimer le biais de représentation vers le masculin. »

    On constate par ailleurs que l’écriture inclusive peut parfois rallonger le temps de #lecture. Ce qui est normal pour Heather Burnett : « Les mots les plus courts et les plus fréquents sont simplement lus plus rapidement ». De son côté, Léo Varlet souligne que si le point médian ralentit un peu la lecture au début d’un article, les sujets s’adaptent et retrouvent rapidement leur rythme de lecture habituel.

    Ces travaux, les tout premiers s’appuyant sur des expériences contrôlées de psycholinguistique et menés avec des sujets francophones, n’épuisent certainement pas le débat scientifique sur les effets cognitifs du langage inclusif. Mais ils indiquent clairement que le recours à certaines tournures inclusives – en particulier dans des stratégies dites « féminisantes » (re)mobilisant des ressources présentes depuis longtemps dans la langue française –, a bien l’effet pour lequel il est préconisé : réduire les stéréotypes de genre et augmenter la visibilité des femmes.♦

    https://lejournal.cnrs.fr/articles/lecriture-inclusive-par-dela-le-point-median

    • Le CNRS ne doit pas être une plateforme militante !
      (mis ici pour archivage...)

      TRIBUNE. Un collectif de 70 personnalités du monde académique appelle la direction du CNRS de corriger les « dérives militantes » de son équipe chargée de la communication.

      Chercheurs et enseignants-chercheurs, nous sommes très attachés au Centre national de la recherche scientifique (CNRS) et à la haute qualité des recherches qui y sont globalement menées en sciences humaines comme en sciences dures. Nous regrettons, du reste, le dénigrement trop fréquent dont cette institution fait l’objet de la part de personnes qui ne la connaissent pas.

      C’est la raison pour laquelle nous nous inquiétons que sa réputation soit ternie par le comportement militant de certains de ses représentants et sa communication. L’article publié dans le Journal du CNRS sous le titre « L’écriture inclusive par-delà le point médian » en est le dernier témoignage. Écrit par une journaliste qui a recueilli l’avis d’enseignants-chercheurs et de chercheurs favorables à l’usage de l’écriture et de la « langue » dites « inclusives », il y est donc entièrement favorable alors que cette forme est fortement controversée, y compris par des linguistes du CNRS.
      Hors cadre scientifique

      Certes, que trouver à redire à ce qu’un journaliste exprime un point de vue ? Rien, à condition du moins que celui-ci soit présenté comme tel et non comme un fait objectif. Mais dans le cas présent, cet article se trouve publié sur l’une des vitrines du CNRS, lui conférant un statut particulier : celui d’un fait scientifique avéré et estampillé par l’institution.

      D’ordinaire, Le Journal du CNRS fait part de découvertes scientifiques solidement étayées, que ce soit en sciences dures ou en sciences humaines. Mais c’est loin d’être le cas ici : l’écriture dite inclusive est un phénomène créé de toutes pièces par des militants, souvent liés au monde universitaire. Y a-t-il un sens à recueillir le point de vue exclusif des tenants de cette innovation militante pour présenter sur un site scientifique une conclusion qui lui est favorable ? La circularité de la démarche fait sortir du cadre scientifique qu’on est en droit d’attendre sur une vitrine de l’institution.

      Enfin, outre qu’il est partisan, l’article est malhonnête dans son propos comme dans ses illustrations. Ainsi, à aucun moment ne sont mentionnés les arguments émanant de chercheurs reconnus contre les prémisses qui ont conduit à l’élaboration de ce langage. L’article présente comme seuls opposants des politiciens et des syndicats de droite.
      Des débats politiques, pas scientifiques

      La communication du CNRS n’en est pas à son coup d’essai en la matière. Faut-il rappeler les déclarations de certaines des plus hautes instances affirmant en 2021 que l’islamo-gauchisme n’existe pas (seraient-elles aujourd’hui aussi péremptoires ?) ou cautionnant l’usage du concept d’« islamophobie » ? Vu l’absence de tout consensus scientifique sur ces deux sujets, ils relèvent d’un débat politique que l’administration du CNRS n’a pas vocation à trancher.

      Le CNRS est un haut lieu de la recherche publique : son journal et son site ne peuvent devenir l’instrument d’une faction militante, sous peine de se discréditer et, avec lui, les chercheurs qui ont à cœur de remplir leur mission scientifique. En conséquence, nous demandons à sa direction de prendre toutes les mesures nécessaires pour corriger ces dérives en exerçant un droit de regard sans complaisance sur le fonctionnement de sa communication. Il y va de la réputation de l’institution.

      *Cette tribune, signée par un collectif de 70 personnalités du monde académique, est portée par : Michel Botbol (professeur de psychiatrie, université de Bretagne occidentale) ; Bernard Devauchelle (professeur de chirurgie, université de Picardie Jules Verne) ; Dany-Robert Dufour (professeur de philosophie, université Paris-8) ; Nathalie Heinich (sociologue, DRCE CNRS, Paris) ; Catherine Kintzler (professeur de philosophie, université de Lille) ; Israël Nisand (professeur de médecine, université de Strasbourg) ; Pascal Perrineau (politologue, professeur des universités à Sciences Po) ; Denis Peschanski (historien, directeur de recherche au CNRS, Paris) ; François Rastier (directeur de recherche en linguistique, CNRS, Paris) ; Philippe Raynaud (professeur de science politique, université Panthéon-Assas) ; Pierre Schapira (professeur de mathématiques, Sorbonne université) ; Didier Sicard (professeur de médecine, université Paris-Cité) ; Perrine Simon-Nahum (directrice de recherche en philosophie, CNRS) ; Jean Szlamowicz (professeur en linguistique, université de Dijon) et Pierre-André Taguieff (philosophe et politiste, directeur de recherche au CNRS).

      Autres signataires :

      Joubine Aghili, maître de conférences en mathématiques, université de Strasbourg

      Michel Albouy, professeur de sciences de gestion, université de Grenoble

      Martine Benoît, professeur d’histoire des idées, université de Lille

      Sami Biasoni, docteur en philosophie

      Thierry Blin, maître de conférences (HDR) en sociologie, université de Montpellier-3

      Claude Cazalé Bérard, professeur de littérature italienne, université Paris-Nanterre

      Guylain Chevrier, formateur et chargé d’enseignement à l’université

      Jean-Louis Chiss, professeur en sciences du langage, université Sorbonne nouvelle

      Chantal Delsol, philosophe, membre de l’Académie des sciences morales et politiques

      Gilles Denis, maître de conférences HDR HC en histoire des sciences du vivant, université de Lille

      Albert Doja, professeur d’anthropologie, université de Lille

      Jean Dhombres, EHESS, histoire des sciences

      Laurent Fedi, MCF hors classe, faculté de philosophie de Strasbourg

      Jean Ferrette, docteur en sociologie

      Michel Fichant, professeur de philosophie, faculté des lettres, Sorbonne université

      Renée Fregosi, philosophe et politologue, professeur de l’enseignement supérieur

      Luc Fraisse, professeur de littérature française à l’université de Strasbourg, membre de l’Institut universitaire de France

      Marc Fryd, linguistique anglaise, maître de conférences HDR, université de Poitiers

      Jean Giot, linguiste, professeur de l’université, université de Namur, Belgique

      Geneviève Gobillot, professeur d’arabe et d’islamologie, université de Lyon-3

      Christian Godin, professeur de philosophie, université d’Auvergne

      Yana Grinshpun, maître de conférences en linguistique française, université Sorbonne nouvelle, Paris

      Claude Habib, professeur de littérature, université Sorbonne nouvelle, Paris

      Hubert Heckmann, maître de conférences en littérature et langue françaises

      Emmanuelle Hénin, professeur de littérature comparée à Sorbonne université

      Patrick Henriet, directeur d’études à l’École pratique des hautes études, Paris

      Mustapha Krazem, professeur des universités en sciences du langage, université de Lorraine-Metz

      Philippe de Lara, maître de conférences en philosophie et sciences politiques, université Paris-2

      Marie Leca-Tsiomis, professeur de philosophie, université Paris-Nanterre

      Dominique Legallois, professeur de linguistique française Sorbonne nouvelle

      Michel Messu, professeur des universités en sociologie

      Martin Motte, directeur d’études à l’École pratique des hautes études, Paris

      Robert Naeije, professeur de médecine, université libre de Bruxelles

      Franck Neveu, professeur des universités de linguistique française, Sorbonne université

      Françoise Nore, linguiste

      Laetitia Petit, maître de conférences, Aix-Marseille université

      Brigitte Poitrenaud-Lamesi, professeur d’italien, université de Caen

      Denis Poizat, professeur en sciences de l’éducation, université Lyon-2

      Florent Poupart, professeur de psychologie clinique et psychopathologie, université Toulouse-2

      André Quaderi, professeur de psychologie, université Côte d’Azur

      Gérard Rabinovitch, chercheur CNRS en sociologie, Paris

      François Richard, professeur de psychopathologie, université Paris-Cité

      Jacques Robert, professeur de médecine, université de Bordeaux

      François Roudaut, professeur de langue et littérature françaises (UMR IRCL, Montpellier)

      Claudio Rubiliani, maître de conférences en biologie, université Aix-Marseille et CNRS UA Paris-6.

      Xavier-Laurent Salvador, maître de conférences en langue et littérature médiévales, président du LAÏC

      Jean-Paul Sermain, professeur de littérature française, université de la Sorbonne nouvelle

      Daniel Sibony, philosophe, mathématicien, professeur des universités

      Éric Suire, professeur d’histoire moderne, Université Bordeaux-Montaigne

      Pierre-Henri Tavoillot, maître de conférences en philosophie, Sorbonne université

      Michel Tibayrenc, professeur de génétique, directeur de recherche IRD, Paris

      Vincent Tournier, maître de conférences à l’IEP de Grenoble, chercheur à Pacte-CNRS

      Dominique Triaire, professeur des universités de littérature française

      François Vazeille, directeur de recherche au Cern, physicien des particules

      Nicolas Weill-Parot, directeur d’études à l’École pratique des hautes études, Paris

      Yves Charles Zarka, professeur à l’université Paris-Cité, et ex-directeur de recherche au CNRS

      https://www.lepoint.fr/debats/le-cnrs-ne-doit-pas-etre-une-plateforme-militante-19-02-2024-2552835_2.php

    • La réponse du CAALAP (à la tribune publiée par les « 70 personnalités du monde académique »)

      La fausse neutralité des polémiques conservatrices contre la liberté académique

      Depuis quelques jours, la question de l’écriture inclusive fait à nouveau l’objet d’une levée de boucliers d’enseignant·es et de chercheur·euses qui s’accommodent agréablement des inégalités entre hommes et femmes, sous couvert de neutralité. Contre la police de la science, défendons la liberté académique !

      Depuis quelques jours, la question de l’écriture inclusive fait à nouveau l’objet d’une levée de boucliers d’enseignant.e.s et de chercheur.euse.s qui s’accommodent agréablement des inégalités entre hommes et femmes, sous couvert de neutralité. Ce ne sont rien moins que la section 17 du CNU (Conseil National des Universités), dédiée au suivi des carrières en philosophie, et le CNRS, qui font l’objet de l’opprobre et de la suspicion, sommés de s’amender pour sauver leurs réputations respectives.

      Dans une récente motion, la première propose de mettre en visibilité les violences sexuelles et sexistes, et de reconnaître l’engagement des chercheur.euse.s qui luttent contre ces violences :

      « Au moment de l’examen de l’évolution de la carrière, la section 17 du CNU s’engage à prendre en considération les responsabilités liées à l’instruction et aux suivis des violences sexistes et sexuelles, nous invitons les candidat·e·s aux promotions, congés et primes à l’indiquer expressément dans leur dossier. »

      Sur son blog, la philosophe Catherine Kintzler s’inquiète de la « prise en compte [des politiques d’égalité de genre] de manière aussi insistante dans le processus de recrutement ». Or la motion du CNU traite de « l’évolution de la carrière ». Car les recrutements ne sont pas du ressort du CNU : Catherine Kintzler l’aurait-elle oublié ?

      A cette inquiétude s’ajoute encore la crainte qu’une reconnaissance de ces éléments ne crée un biais fâcheux dans le monde de la recherche, favorisant certains terrains plutôt que d’autres, certain.e.s collègues plutôt que d’autres, alors que les carrières ne devraient tenir compte ni de de l’utilité sociale des travaux académiques, ni de l’implication du scientifique dans la cité. Mme Kintzler ne semble pas craindre pour autant que la non-reconnaissance et l’absence de prise en compte de ces éléments ne favorisent leur neutralisation, créant un biais en faveur des recherches qui occultent et invisibilisent ces violences.

      Se situant dans la ligne de celles et ceux qui présupposent que les chercheur.euse.s, quand ils et elles produisent des contenus, se situent sub specie aeternitatis, adoptant un point de vue de Sirius, elle réitère le fantasme d’une universalité émergeant « de nulle part », comme si cette dernière n’était pas le fruit de la discussion démocratique, du dissensus et de la mise en œuvre de formes de rationalité qui fabriquent de l’universel. Elle s’appuie également sur le mythe de la neutralité du scientifique, dont l’intégrité serait mise en péril par son existence en tant que citoyen.ne, ses activités associatives, son idéologie.

      Ainsi, vouloir inclure la part de l’humanité discriminée en raison de son appartenance de genre, poser cette question de l’égalité à même l’usage du langage, c’est faire preuve d’« idéologie ». Consacrer du temps à la lutte contre les violences sexuelles et sexistes, y compris dans son travail de recherche, y compris au sein de sa propre institution, c’est faire preuve d’« idéologie ». A l’inverse, invisibiliser ces violences, ce serait cela, la neutralité. Tenir les contenus académiques à l’abri du monde réel, se défendre d’aborder des enjeux politiques ou sociaux, c’est-à-dire s’en tenir au statu quo politique, s’accommoder des inégalités et cautionner des dispositifs d’oppression et de domination, bref, être un militant conservateur, être un militant réactionnaire, c’est cela, la neutralité. Comme si l’idéologie n’était pas le vecteur de toute pensée quelle qu’elle soit, et comme si la pensée se fabriquait hors des cadres théoriques et des contextes sociaux qui permettent son émergence.

      Dans le même temps, une tribune, réunissant les 70 signatures de chercheur.euse.s conservateur.rice.s, et parmi elles, de militant.e.s d’une laïcité identitaire, écrit son indignation face à la publication sur le Journal du CNRS, d’un article journalistique évoquant la sensibilité de nombreux.euse.s chercheur.euse.s à l’usage de l’écriture inclusive. Les auteur.rice.s de la tribune déplorent que seuls les arguments favorables à ce mode d’écriture soient présentés dans l’article, sans qu’y figurent les arguments de fond critiques de l’écriture inclusive – tout en admettant que le papier en question est un article journalistique et non pas académique ou scientifique.

      Mais tout à coup, on saute du coq à l’âne, et les auteur.rice.s de cette tribune ne résistent pas à passer de l’écriture inclusive à l’autre cheval de bataille que constitue pour eux l’ « islamo-gauchisme », appellation incontrôlable, créée en 2002 par Pierre-André Taguieff (signataire de cette tribune) pour stigmatiser les défenseurs des Palestiniens, puis revendiquée comme insulte par les militants d’extrême-droite et reprise en chœur par les dignitaires de la mouvance réactionnaire actuelle. Militant pour la reconnaissance d’une réalité du « phénomène islamogauchiste » – et niant symétriquement toute réalité au phénomène rationnellement étayé de l’islamophobie – ce groupuscule de chercheur.euse.s affirme sans ambiguïté son positionnement politique identitaire et réactionnaire. A rebours des méthodes les plus fondamentales des sciences sociales, il s’appuie sur le déni de la parole des premier.ère.s concerné.e.s par les discriminations, qui sont, elles et eux, véritablement « hors cadre scientifique », tenu.e.s en lisière, hors champ du monde académique, alors même que l’une des missions officielles des enseignant.e.s-chercheur.euse.s est de contribuer au dialogue entre sciences et société.

      Le sempiternel argument mobilisé par les auteur.rice.s considère que la défense progressiste de l’égalité et la lutte contre les discriminations relèvent du militantisme, alors que la défense conservatrice du statu quo inégalitaire consiste en une neutralité politique qui serait compatible avec la rigueur scientifique. Ainsi, toutes les positions autres que la position politique conservatrice et/ou réactionnaire des auteur.rice.s de la tribune se retrouvent disqualifiées et suspectes d’un mélange des genres entre savoirs et « idéologies », « hors cadre scientifique ».

      Nous, membres de la CAALAP, protestons contre ces tentatives de censure politique au nom de la neutralité, qu’il s’agisse de l’écriture inclusive ou des travaux documentant les discriminations, notamment racistes et islamophobes. Nous condamnons fermement les entraves à la liberté académique, d’autant plus choquantes quand elles émanent de chercheur·es, à la retraite ou non, qui prétendent faire la police de la science par voie de presse.

      https://blogs.mediapart.fr/caalap/blog/210224/la-fausse-neutralite-des-polemiques-conservatrices-contre-la-liberte

  • Pour l’#agriculture_palestinienne, ce qui se passe depuis le 7 octobre est « un #désastre »

    À #Gaza sous les bombes comme en #Cisjordanie occupée, l’#eau est devenue un enjeu crucial, et le conflit met en évidence une #injustice majeure dans l’accès à cette ressource vitale. Entretien avec l’hydrologue Julie Trottier, chercheuse au CNRS.

    Des cultures gâchées, une population gazaouie sans eau potable… Et en toile de fond de la guerre à Gaza, une extrême dépendance des territoires palestiniens à l’eau fournie par #Israël. L’inégal accès à la ressource hydrique au Proche-Orient est aussi une histoire d’emprise sur les #ressources_naturelles.

    Entretien avec l’hydrologue Julie Trottier, chercheuse au CNRS, qui a fait sa thèse sur les enjeux politiques de l’eau dans les territoires palestiniens et a contribué à l’initiative de Genève, plan de paix alternatif pour le conflit israélo-palestinien signé en 2003, pour laquelle elle avait fait, avec son collègue David Brooks, une proposition de gestion de l’eau entre Israéliens et Palestiniens.

    Mediapart : L’#accès_à_l’eau est-il un enjeu dans le conflit qui oppose Israël au Hamas depuis le 7 octobre ?

    Julie Trottier : Oui, l’accès à l’eau est complètement entravé à Gaza aujourd’hui. En Cisjordanie, la problématique est différente, mais le secteur agricole y est important et se trouve mal en point.

    Il faut savoir que l’eau utilisée en Israël vient principalement du #dessalement d’eau de mer. C’est la société israélienne #Mekorot qui l’achemine, et elle alimente en principe la bande de Gaza en #eau_potable à travers trois points d’accès. Mais depuis le 7 octobre, deux d’entre eux ont été fermés, il n’y a plus qu’un point de livraison, au sud de la frontière est, à #Bani_Suhaila.

    Cependant, 90 % de l’eau consommée à Gaza était prélevée dans des #puits. Il y a des milliers de puits à Gaza, c’est une #eau_souterraine saumâtre et polluée, car elle est contaminée côté est par les composés chimiques issus des produits utilisés en agriculture, et infiltrée côté ouest par l’eau de mer.

    Comme l’#électricité a été coupée, cette eau ne peut plus être pompée ni désalinisée. En coupant l’électricité, Israël a supprimé l’accès à l’eau à une population civile. C’est d’une #violence extrême. On empêche 2,3 millions de personnes de boire et de cuisiner normalement, et de se laver.

    Les #stations_d’épuration ne fonctionnent plus non plus, et les #eaux_usées non traitées se répandent ; le risque d’épidémie est considérable.

    On parle moins de l’accès aux ressources vitales en Cisjordanie… Pourtant la situation s’aggrave également dans ces territoires.

    En effet. Le conflit a éclaté peu avant la saison de cueillette des #olives en Cisjordanie. Pour des raisons de sécurité, craignant de supposés mouvements de terroristes, de nombreux colons ont empêché des agriculteurs palestiniens d’aller récolter leurs fruits.

    La majorité des villages palestiniens se trouvent non loin d’une colonie. En raison des blocages sur les routes, les temps de trajet sont devenus extrêmement longs. Mais si l’on ne circule plus c’est aussi parce que la #peur domine. Des colons sont équipés de fusils automatiques, des témoignages ont fait état de menaces et de destruction d’arbres, de pillages de récoltes.

    Résultat : aujourd’hui, de nombreux agriculteurs palestiniens n’ont plus accès à leurs terres. Pour eux, c’est un désastre. Quand on ne peut pas aller sur sa terre, on ne peut plus récolter, on ne peut pas non plus faire fonctionner son système d’#irrigation.

    L’accès à l’eau n’est malheureusement pas un problème nouveau pour la Palestine.

    C’est vrai. En Cisjordanie, où l’eau utilisée en agriculture vient principalement des sources et des puits, des #colonies ont confisqué de nombreux accès depuis des années. Pour comprendre, il faut revenir un peu en arrière...

    Avant la création d’Israël, sur ces terres, l’accès à chaque source, à chaque puits, reposait sur des règles héritées de l’histoire locale et du droit musulman. Il y avait des « #tours_d’eau » : on distribuait l’abondance en temps d’abondance, la pénurie en temps de pénurie, chaque famille avait un moment dans la journée pendant lequel elle pouvait se servir. Il y avait certes des inégalités, la famille descendant de celui qui avait aménagé le premier conduit d’eau avait en général plus de droits, mais ce système avait localement sa légitimité.

    À l’issue de la guerre de 1948-1949, plus de 700 000 Palestiniens ont été expulsés de leurs terres. Celles et ceux qui sont arrivés à ce qui correspond aujourd’hui à la Cisjordanie n’avaient plus que le « #droit_de_la_soif » : ils pouvaient se servir en cruches d’eau, mais pas pour irriguer les champs. Les #droits_d’irrigation appartenaient aux familles palestiniennes qui étaient déjà là, et ce fut accepté comme tel. Plus tard, les autorités jordaniennes ont progressivement enregistré les différents droits d’accès à l’eau. Mais ce ne sera fait que pour la partie nord de la Cisjordanie.

    À l’intérieur du nouvel État d’#Israël, en revanche, la population palestinienne partie, c’est l’État qui s’est mis à gérer l’ensemble de l’eau sur le territoire. Dans les années 1950 et 1960, il aménage la dérivation du #lac_de_Tibériade, ce qui contribuera à l’#assèchement de la #mer_Morte.

    En 1967, après la guerre des Six Jours, l’État hébreu impose que tout nouveau forage de puits en Cisjordanie soit soumis à un permis accordé par l’administration israélienne. Les permis seront dès lors attribués au compte-gouttes.

    Après la première Intifida, en 1987, les difficultés augmentent. Comme cela devient de plus en plus difficile pour la population palestinienne d’aller travailler en Israël, de nombreux travailleurs reviennent vers l’activité agricole, et les quotas associés aux puits ne correspondent plus à la demande.

    Par la suite, les #accords_d’Oslo, en 1995, découpent la Cisjordanie, qui est un massif montagneux, en trois zones de ruissellement selon un partage quantitatif correspondant aux quantités prélevées en 1992 – lesquelles n’ont plus rien à voir avec aujourd’hui. La répartition est faite comme si l’eau ne coulait pas, comme si cette ressource était un simple gâteau à découper. 80 % des eaux souterraines sont alors attribuées aux Israéliens, et seulement 20 % aux Palestiniens.

    L’accaparement des ressources s’est donc exacerbé à la faveur de la #colonisation. Au-delà de l’injustice causée aux populations paysannes, l’impact du changement climatique au Proche-Orient ne devrait-il pas imposer de fonctionner autrement, d’aller vers un meilleur partage de l’eau ?

    Si, tout à fait. Avec le #changement_climatique, on va droit dans le mur dans cette région du monde où la pluviométrie va probablement continuer à baisser dans les prochaines années.

    C’est d’ailleurs pour cette raison qu’Israël a lancé le dessalement de l’eau de mer. Six stations de dessalement ont été construites. C’est le choix du #techno-solutionnisme, une perspective coûteuse en énergie. L’État hébreu a même créé une surcapacité de dessalement pour accompagner une politique démographique nataliste. Et pour rentabiliser, il cherche à vendre cette eau aux Palestiniens. De fait, l’Autorité palestinienne achète chaque année 59 % de l’eau distribuée par Mekorot. Elle a refusé toutefois une proposition d’exploitation d’une de ces usines de dessalement.

    Il faut le souligner : il y a dans les territoires palestiniens une #dépendance complète à l’égard d’Israël pour la ressource en eau.

    Quant à l’irrigation au goutte à goutte, telle qu’elle est pratiquée dans l’agriculture palestinienne, ce n’est pas non plus une solution d’avenir. Cela achemine toute l’eau vers les plantes cultivées, et transforme de ce fait le reste du sol en désert, alors qu’il faudrait un maximum de biodiversité sous nos pieds pour mieux entretenir la terre. Le secteur agricole est extrêmement consommateur d’eau : 70 à 80 % des #ressources_hydriques palestiniennes sont utilisées pour l’agriculture.

    Tout cela ne date pas du 7 octobre. Mais les événements font qu’on va vers le contraire de ce que l’on devrait faire pour préserver les écosystèmes et l’accès aux ressources. L’offensive à Gaza, outre qu’elle empêche l’accès aux #terres_agricoles le long du mur, va laisser des traces de #pollution très graves dans le sol… En plus de la tragédie humaine, il y a là une #catastrophe_environnementale.

    Cependant, c’est précisément la question de l’eau qui pourrait avoir un effet boomerang sur le pouvoir israélien et pousser à une sortie du conflit. Le reversement actuel des eaux usées, non traitées, dans la mer, va avoir un impact direct sur les plages israéliennes, car le courant marin va vers le nord. Cela ne pourra pas durer bien longtemps.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/040124/pour-l-agriculture-palestinienne-ce-qui-se-passe-depuis-le-7-octobre-est-u

    #agriculture #Palestine

    • Cependant, c’est précisément la question de l’eau qui pourrait avoir un effet boomerang sur le pouvoir israélien et pousser à une sortie du conflit. Le reversement actuel des eaux usées, non traitées, dans la mer, va avoir un impact direct sur les plages israéliennes, car le courant marin va vers le nord. Cela ne pourra pas durer bien longtemps.

  • L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

    –-

    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

    • En ce lundi, l’#armée_israélienne affirme avoir frappé, via les airs et au sol, plus de 600 cibles dans #Gaza ces vingt-quatre dernières heures. Dans le détail : « des dépôts d’armes, positions de lancement de missiles antichar, caches du #Hamas » et « des dizaines » de chefs du mouvement islamiste tués. Des chars israéliens sont postés à la lisière de #Gaza_City et le principal axe routier nord-sud est coupé. C’est vendredi en fin de journée que l’État hébreu a lancé son opération d’envergure, annoncée depuis près de deux semaines déjà. Mêlant #incursions_terrestres localisées – surtout dans le nord de l’enclave palestinienne – et #bombardements intensifiés. Samedi, le Premier ministre israélien Benyamin Netanyahou a prévenu : la #guerre sera « longue et difficile ».

      Vendredi, 17 h 30. La #bande_de_Gaza plonge dans le noir. Plus d’électricité, plus de réseau téléphonique, ni de connexion internet. Le #black-out total. Trente-six heures de cauchemar absolu débutent pour les Gazaouis. Coupés du monde, soumis au feu. L’armée israélienne pilonne le territoire : plus de 450 bombardements frappent, aveugles. La population meurt à huis clos, impuissante. Après avoir quitté Gaza City au début de la riposte israélienne (lire l’épisode 1, « D’Israël à Gaza, la mort aux trousses »), Abou Mounir vit désormais dans le centre de la bande de Gaza, avec ses six enfants. Ce vendredi, il est resté cloîtré chez lui. Lorsqu’il retrouve du réseau, le lendemain matin, il est horrifié par ce qu’il découvre. « Mon quartier a été visé par des tirs d’artillerie. L’école à côté de chez moi, où sont réfugiées des familles, a été touchée. Devant ma porte, j’ai vu tous ces blessés agonisants, sans que personne ne puisse les aider. C’est de la pure #folie. Ils nous assiègent et nous massacrent. Cette façon de faire la guerre… On se croirait au Moyen-Âge », souffle le père de famille, qui dénonce « une campagne de #vengeance_aveugle ». L’homme de 49 ans implore Israël et la communauté internationale d’agir urgemment. « La seule et unique solution possible pour nous tous, c’est la #solution_politique. On l’a répété un million de fois : seule une solution politique juste nous apportera la paix. »

      Toujours à Gaza City avec sa famille, la professeure de français Assya décrit ce jour et demi d’#angoisse : « On se répétait : “Mais que se passe-t-il, que va-t-il nous arriver ?” On entendait les bombardements, boum, boum, boum… Ça n’arrêtait pas ! Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire. Et elle se calmait… Chaque matin, c’est un miracle qu’on soit encore là… » Chaque jour aussi, Assya demande si nous, journalistes, en savons plus sur un cessez-le-feu.

      Plus de 8 000 Gazaouis ont péri, mais leurs suppliques résonnent dans le vide jusqu’à présent. Elles sont pourtant de plus en plus pressantes, face à la #situation_humanitaire qui se dégrade dramatiquement. Ce samedi, des entrepôts des Nations unies ont été pillés. « C’est le signe inquiétant que l’ordre civil est en train de s’effondrer après trois semaines de guerre et de #siège de Gaza. Les gens sont effrayés, frustrés et désespérés », a averti Thomas White, directeur des opérations de l’UNRWA, l’agence onusienne pour les réfugiés palestiniens. Assya confirme : l’un de ses cousins est revenu avec des sacs de sucre, de farine, des pois chiches et de l’huile. Quand elle lui a demandé d’où ça venait, il lui a raconté, le chaos à Deir Al-Balah, dans le sud de l’enclave. « Les gens ont cassé les portes des réserves de l’UNRWA, ils sont entrés et ont pris la farine pour se faire du pain eux-mêmes, car ils n’ont plus rien. La population est tellement en #colère qu’ils ont tout pris. » Depuis le 21 octobre, seuls 117 camions d’#aide_humanitaire (lire l’épisode 2, « “C’est pas la faim qui nous tuera mais un bombardement” ») ont pu entrer dans la bande de Gaza dont 33 ce dimanche), via le point de passage de Rafah au sud, à la frontière égyptienne. L’ONU en réclame 100 par jour, pour couvrir les besoins essentiels des Gazaouis. Le procureur de la Cour pénale internationale Karim Khan a averti : « Empêcher l’acheminement de l’aide peut constituer un #crime. […] Israël doit s’assurer sans délai que les #civils reçoivent de la #nourriture, des #médicaments. »

      Les corps des 1 400 victimes des attaques du 7 octobre sont dans une #morgue de fortune. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’#horreur à l’état pur

      En écho à cette situation de plus en plus dramatique, Israël a intensifié sa guerre de la #communication. Pas question pour l’État hébreu de laisser le Hamas ni les Palestiniens gagner la bataille de l’émotion au sein des opinions. Depuis une dizaine de jours, les autorités israéliennes estiment que les médias internationaux ont le regard trop tourné vers les Gazaouis, et plus assez sur le drame du 7 octobre. Alors Israël fait ce qu’il maîtrise parfaitement : il remet en marche sa machine de la « #hasbara ». Littéralement en hébreu, « l’explication », euphémisme pour qualifier ce qui relève d’une véritable politique de #propagande. Mais cela n’a rien d’un gros mot pour les Israéliens, bien au contraire. Entre 1974 et 1975, il y a même eu un éphémère ministère de la Hasbara. Avant cela, et depuis, cette tâche de communication et de promotion autour des actions de l’État hébreu, est déléguée au ministère des Affaires étrangères et à l’armée.

      Un enjeu d’autant plus important face à cette guerre d’une ampleur inédite. C’est pourquoi, chaque jour de cette troisième semaine du conflit, l’armée israélienne a organisé des événements à destination de la #presse étrangère. Visites organisées des kibboutzim où les #massacres de civils ont été perpétrés : dimanche dans celui de Beeri, mercredi et vendredi à Kfar Aza, jeudi dans celui de Holit. Autre lieu ouvert pour les journalistes internationaux : la base de Shura, à Ramla, dans la banlieue de Tel Aviv. Elle a été transformée en morgue de fortune et accueille les 1 400 victimes des attaques du 7 octobre, afin de procéder aux identifications. Dans des tentes blanches, des dizaines de conteneurs. À l’intérieur, les corps. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’horreur à l’état pur.

      Mais l’apogée de cette semaine de communication israélienne, c’est la convocation générale de la presse étrangère, lundi dernier, afin de visionner les images brutes des massacres. Quarante-trois minutes et quarante-quatre secondes d’une compilation d’images des GoPro embarquées des combattants du Hamas, des caméras de vidéosurveillance des kibboutzim, mais aussi des photos prises par les victimes avec leurs téléphones, ou par les secouristes. Le tout mis bout à bout, sans montage. Des images d’une violence inouïe. Une projection vidéo suivie d’une conférence de presse tenue par le porte-parole de l’armée israélienne, le général Daniel Hagari. Il le dit sans détour : l’objectif est de remettre en tête l’ignominie de ce qui s’est passé le 7 octobre dernier. Mais également de dire aux journalistes de mieux faire leur travail.

      Il les tance, vertement : « Vous ! Parfois, je prends trente minutes pour regarder les infos. Et j’ai été choqué de voir que certains médias essayent de COMPARER ce qu’Israël fait et ce que ces vils terroristes ont fait. Je ne peux pas comprendre qu’on essaye même de faire cette #comparaison, entre ce que nous venons de vous montrer et ce que l’armée fait. Et je veux dire à certains #médias qu’ils sont irresponsables ! C’est pour ça qu’on vous montre ces vidéos, pour qu’aucun d’entre vous ne puisse se dire que ce qu’ils font et ce que nous faisons est comparable. Vous voyez comment ils se sont comportés ! » Puis il enfonce le clou : « Nous, on combat surtout à Gaza, on bombarde, on demande aux civils d’évacuer… On ne cherche pas des enfants pour les tuer, ni des personnes âgées, des survivants de l’holocauste, pour les kidnapper, on ne cherche pas des familles pour demander à un enfant de toquer chez ses voisins pour les faire sortir et ensuite tuer sa famille et ses voisins devant lui. Ce n’est pas la même guerre, nous n’avons pas les mêmes objectifs. »

      Ce vendredi, pour finir de prouver le cynisme du Hamas, l’armée israélienne présente des « révélations » : le mouvement islamiste abriterait, selon elle, son QG sous l’hôpital Al-Shifa de Gaza City. À l’appui, une série de tweets montrant une vidéo de reconstitution en 3D des dédales et bureaux qui seraient sous l’établissement. Absolument faux, a immédiatement rétorqué le Hamas, qui accuse Israël de diffuser « ces mensonges » comme « prélude à la perpétration d’un nouveau massacre contre le peuple [palestinien] ».

      Au milieu de ce conflit armé et médiatique, le Président français a fait mardi dernier une visite en Israël et dans les territoires palestiniens. Commençant par un passage à Jérusalem, #Emmanuel_Macron a réaffirmé « le droit d’Israël à se défendre », appelant à une coalition pour lutter contre le Hamas dans « la même logique » que celle choisie pour lutter contre le groupe État islamique. Il s’est ensuite rendu à Ramallah, en Cisjordanie occupée, au siège de l’Autorité palestinienne. « Rien ne saurait justifier les souffrances » des civils de Gaza, a déclaré Emmanuel #Macron. Qui a lancé un appel « à la reprise d’un processus politique » pour mettre fin à la guerre entre Israël et le Hamas. Tenant un discours d’équilibriste, rappelant que paix et sécurité vont de pair, le Président a exigé la mise en œuvre de la solution à deux États, comme seul moyen de parvenir à une paix durable. Une visite largement commentée en France, mais qui a bien peu intéressé les Palestiniens.

      Car si les projecteurs sont braqués sur Israël et Gaza depuis le début de la guerre, les Palestiniens de #Cisjordanie occupée vivent également un drame. En à peine trois semaines, plus de 120 d’entre eux ont été tués, selon le ministère de la Santé de l’Autorité palestinienne. Soit par des colons juifs, soit lors d’affrontements avec les forces d’occupation israéliennes. Bien sûr, la montée de la #violence dans ce territoire avait commencé bien avant la guerre. Mais les arrestations contre les membres du Hamas, les raids réguliers menés par l’armée et les attaques de colons prennent désormais une autre ampleur. Ce lundi matin encore, l’armée israélienne a mené un raid sur le camp de Jénine, au nord de la Cisjordanie, faisant quatre morts. Selon l’agence de presse palestinienne Wafa, plus de 100 véhicules militaires et deux bulldozers sont entrés dans le camp. Déjà, mercredi dernier, deux missiles tirés depuis les airs en direction d’un groupe de personnes avait fait trois morts à #Jénine.

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière les murs qui encerclent les Territoires. À Gaza, mais aussi en Cisjordanie

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière le mur qui encercle les territoires palestiniens. Du sud, à Hébron, au nord, à Naplouse, en passant par Jénine et Ramallah, les #manifestations ont émaillé ces trois dernières semaines, s’intensifiant au fil du temps. À chaque fois, les Palestiniens y réclament la fin de l’#occupation, la mise en œuvre d’une solution politique pour un #accord_de_paix et surtout l’arrêt immédiat des bombardements à Gaza. Ce vendredi, quelques milliers de personnes s’étaient rassemblés à Ramallah. Drapeaux palestiniens à la main, « Que Dieu protège Gaza » pour slogan, et la rage au ventre. Yara était l’une d’entre eux. « Depuis le début de la guerre, le #traitement_médiatique en Europe et aux États-Unis est révoltant ! L’indignation sélective et le deux poids deux mesures sont inacceptables », s’énerve la femme de 38 ans. Son message est sans ambiguïté : « Il faut mettre un terme à cette agression israélienne soutenue par l’Occident. » Un sentiment d’injustice largement partagé par la population palestinienne, et qui nourrit sa colère.

      Manal Shqair est une ancienne militante de l’organisation palestinienne Stop The Wall. Ce qui se passe n’a rien de surprenant pour elle. La jeune femme, qui vit à Ramallah, analyse la situation. Pour elle, le soulèvement des Palestiniens de Cisjordanie n’est pas près de s’arrêter. « Aujourd’hui, la majorité des Palestiniens soutient le Hamas. Les opérations militaires du 7 octobre ont eu lieu dans une période très difficile traversée par les Palestiniens, particulièrement depuis un an et demi. La colonisation rampante, la violence des colons, les tentatives de prendre le contrôle de la mosquée Al-Aqsa à Jérusalem et enfin le siège continu de la bande de Gaza par Israël ont plongé les Palestiniens dans le #désespoir, douchant toute perspective d’un avenir meilleur. » La militante ajoute : « Et ce sentiment s’est renforcé avec les #accords_de_normalisation entre Israël et plusieurs pays arabes [les #accords_d’Abraham avec les Émirats arabes unis, Bahreïn, le Maroc et le Soudan, ndlr]. Et aussi le sentiment que l’#Autorité_palestinienne fait partie de tout le système de #colonialisme et d’occupation qui nous asservit. Alors cette opération militaire [du 7 octobre] a redonné espoir aux Palestiniens. Désormais, ils considèrent le Hamas comme un mouvement anticolonial, qui leur a prouvé que l’image d’un Israël invincible est une illusion. Ce changement aura un impact à long terme et constitue un mouvement de fond pour mobiliser davantage de Palestiniens à rejoindre la #lutte_anticoloniale. »

      #7_octobre_2023 #à_lire

    • Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire.

      C’est exactement ce qu’on faisait ma femme et moi à notre fils de 4 ans en 2006 au Liban.

  • Oslo 30. L’illusione della pace

    Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca, a Washington, viene scattata una storica fotografia: i due nemici, #Ytzhak_Rabin, primo ministro israeliano, e #Yasser_Arafat, leader dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, si stringono la mano, dopo aver firmato i cosiddetti Accordi di Oslo. Trent’anni dopo, che cosa resta del processo di pace che avrebbe dovuto cambiare il Medio Oriente e non solo? Come sarebbe dovuta andare e soprattutto come è andata a finire, invece, tra Israele e Palestina?

    https://altreconomia.it/oslo30
    #accord_d'Oslo #illusion #paix #Palestine #Israël #podcast #audio #Rabin #Arafat #accords_d'Oslo

  • Comment Benyamin Nétanyahou est devenu le leader autoproclamé du « monde civilisé »

    .... Nétanyahou propose « une alliance antiterroriste de toutes les démocraties occidentales ». De telles thèses sont reprises par Ronald Reagan et son administration, de 1981 à 1989, au nom d’une « nouvelle guerre froide » contre « l’empire du mal » de l’URSS, auquel serait affiliée, dans une telle vision binaire, l’Organisation de libération de la Palestine (OLP) de Yasser Arafat.

    .... Quatre ans plus tard [en 1993, 11 ans après l’invasion israélienne du Liban et l’évacuation de l’OLP], Arafat signe avec Yitzhak Rabin, le premier ministre israélien, les accords de paix d’Oslo, que Nétanyahou, devenu le chef de l’opposition, condamne comme une intolérable concession à la « terreur ». Peu importe que l’URSS ait disparu, il stigmatise l’OLP comme la tête d’une hydre terroriste, à combattre sans relâche. Nétanyahou s’affiche dans des meetings où sont scandés les slogans « Rabin, chien d’Arafat », voire « mort à Rabin ».

    Lorsque Rabin est assassiné, en 1995, certes par un terroriste, mais juif et Israélien, Nétanyahou croit sa carrière politique compromise. Mais il se remet vite à marteler le mantra de la « terreur », forcément arabe et anti-occidentale, parvenant à être élu de justesse en 1996 à la tête du gouvernement. Il s’attache, durant ses trois premières années au pouvoir, à méthodiquement vider de leur substance les #accords_d’Oslo.

    Redevenu simple député, il voit la rhétorique de l’Institut Jonathan triompher avec les attentats du 11 septembre #2001 et la « guerre globale contre la terreur » de George W. Bush. Nétanyahou se mobilise à Washington en 2002 pour assimiler l’OLP à Al-Qaida, tout en contribuant à la campagne de désinformation sur les armes de destruction massive en Irak. Jacques Chirac dénonce alors l’aveuglement d’une offensive de renversement de Saddam Hussein qui ne préparerait pas « le jour d’après ». La France évite ainsi que la désastreuse invasion de l’Irak ne débouche sur une confrontation mondialisée entre l’islam et l’Occident [hum, ndc]. Quant à Nétanyahou, il préfère, en 2006, célébrer, à l’hôtel King David de Jérusalem, le soixantième anniversaire de l’attentat de l’Irgoun, qui y fit 91 morts, dont 41 Arabes, 28 Britanniques et 17 Juifs. La plaque apposée à cette occasion est sans doute la seule au monde à honorer les auteurs d’un attentat plutôt que leurs victimes.

    https://www.lemonde.fr/un-si-proche-orient/article/2023/10/29/comment-benyamin-netanyahou-est-devenu-le-leader-du-monde-civilise_6197141_6

    https://archive.ph/Pi2Mj

    Bon, c’est Jean-Pierre Filiu hein.

    #Israël #Benyamin_Nétanyahou #biographie #Irgoun #Likoud

    • il dit lui même « synthèse » et « truc que je ne connais pas », et il le prouve, par exemple en laissant entendre que le sionisme est un mouvement fondamentaliste religieux, alors que c’était en bonne partie un mouvement de juifs sécularisés et laïcs, qui a émergé non seulement en raison des persécutions en Europe mais danse le cadre du développement des nationalismes européens du XIXeme, repris ensuite encore ailleurs et par d’autres.
      idem, si on n’évoque pas la spécificité de l’antisémitisme (il n’y qu’aux juifs que sont attribué des pouvoirs occultes, ce qui permet le « socialisme des imbéciles » et le complotisme antisémite) ou celles du racisme anti-arabe (à la fois « judéo- chrétien », depuis les monothéisme antérieurs à l’islam, et colonial, effectivement). si on veut faire des machins à l’oral plutôt que de tabler sur la lecture d’ouvrages approfondis et contradictoires, ça me semble plus intéressant de livrer des témoignages, des récits, ou des confrontations entre énonciateurs qui travaillent pour de bon sur ces questions que de prétendre tout embrasser sous l’angle d’une grille de lecture préétablie (décoloniale or whatever).

    • oui, @rastapopoulos, il tâche d’être précautionneux sur l’antisémitisme et il dit vrai dans le passage que tu cites (guerre de religion). mais il loupe ce point historiquement décisif de la (re)confessionalisation progressive des deux mouvements nationalistes, sioniste et palestinien. des deux cotés, la religion n’était en rien essentiele, bien que de part et d’autre cela ai aussi joué initialement un rôle, minoritaire (cf. l’histoire du sionisme et celle de l’OLP). voilà qui est altéré par ce qu’il dit du sionisme originel (où il se plante), dont les coordonnées se définissaient dans un espace résolument mécréant, dans un rapport conflictuel avec le Bund, avec le socialisme révolutionnaire européen.
      pour ce que je comprends d’Israël, on peut dire grossièrement que le religieux se divise en deux, un fondamentalisme messianique et guerrier qui caractérise nombre de colons (dans l’acception israélienne du terme) et l’État israélien, et de l’autre une religiosité qui refuse la sécularisation dans l’État guerrier (exemptions du service militaire pour des orthodoxes d’une part, qui fait scandale, dissidence pacifiste au nom de la Thora d’autre part).

      j’avais vu ce bobino avant qu’il soit cité par Mona et repris par toi et ne l’avait pas aimé. la vulgarisation historique est un exercice à haut risque (simplifications impossibles, déperditions, erreurs), le gars d’Histoires crépues en est d’ailleurs conscient.
      un récit au présent qui sait tirer des fils historiques et politiques nécessaires à ce qu’il énonce (comme l’a si bien réussi Mona avec son dernier papier) ne se donne pas pour objectif une synthèse historique. celle-ci émerge par surcroit depuis le présent (une critique, une représentation du présent).

      edit @sandburg, les persécutions des juifs et l’éclosion des nationalismes en Europe sont déterminantes dans cette « histoire du XXeme ». le sionisme nait, lui aussi, au XIXeme...

      #histoire #politique #présent

  • #Etienne_Balibar : #Palestine à la #mort

    L’instinct de mort ravage la terre de Palestine et #massacre ses habitants. Nous sommes dans un cercle d’#impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La #catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    Les commandos du #Hamas, enfermés avec deux millions de réfugiés dans ce qu’on a pu appeler une « prison à ciel ouvert », se sont enterrés et longuement préparés, recevant le soutien d’autres puissances régionales et bénéficiant d’une certaine complaisance de la part d’Israël, qui voyait en eux son « ennemi préféré ».

    Ils ont réussi une sortie offensive qui a surpris Tsahal occupée à prêter main forte aux colons juifs de Cisjordanie, ce qui, de façon compréhensible, a engendré l’enthousiasme de la jeunesse palestinienne et de l’opinion dans le monde arabe.

    À ceci près qu’elle s’est accompagnée de #crimes particulièrement odieux contre la population israélienne : assassinats d’adultes et d’enfants, tortures, viols, enlèvements. De tels crimes ne sont jamais excusables par la #légitimité de la cause dont ils se réclament.

    Malgré le flou de l’expression, ils justifient qu’on parle de #terrorisme, non seulement à propos des actions, mais à propos de l’organisation de #résistance_armée qui les planifie. Il y a plus : il est difficile de croire que l’objectif (en tout cas le risque assumé) n’était pas de provoquer une #riposte d’une violence telle que la #guerre entrerait dans une phase nouvelle, proprement « exterministe », oblitérant à jamais les possibilités de #cohabitation des deux peuples. Et c’est ce qui est en train de se passer.

    Mais cela se passe parce que l’État d’Israël, officiellement redéfini en 2018 comme « État-nation du peuple juif », n’a jamais eu d’autre projet politique que l’#anéantissement ou l’#asservissement du peuple palestinien par différents moyens : #déportation, #expropriation, #persécution, #assassinats, #incarcérations. #Terrorisme_d'Etat.

    Il n’y a qu’à regarder la carte des implantations successives depuis 1967 pour que le processus devienne absolument clair. Après l’assassinat de Rabin, les gouvernements qui avaient signé les #accords_d’Oslo n’en ont pas conclu qu’il fallait faire vivre la solution « à deux États », ils ont préféré domestiquer l’#Autorité_Palestinienne et quadriller la #Cisjordanie de #checkpoints. Et depuis qu’une #droite_raciste a pris les commandes, c’est purement et simplement de #nettoyage_ethnique qu’il s’agit.

    Avec la « #vengeance » contre le Hamas et les Gazaouis, qui commence maintenant par des massacres, un #blocus_alimentaire et sanitaire, et des #déplacements_de_population qu’on ne peut qualifier autrement que de génocidaires, c’est l’irréparable qui se commet. Les citoyens israéliens qui dénonçaient l’instrumentalisation de la Shoah et se battaient contre l’#apartheid ne sont presque plus audibles. La fureur colonialiste et nationaliste étouffe tout.

    Il n’y a en vérité qu’une issue possible : c’est l’intervention de ladite communauté internationale et des autorités dont elle est théoriquement dotée, exigeant un #cessez-le-feu immédiat, la libération des #otages, le jugement des #crimes_de_guerre commis de part et d’autre, et la mise en œuvre des innombrables résolutions de l’ONU qui sont restées lettre morte.

    Mais cela n’a aucune chance de se produire : ces institutions sont neutralisées par les grandes ou moyennes puissances impérialistes, et le conflit judéo-arabe est redevenu un enjeu des manœuvres auxquelles elles se livrent pour dessiner les sphères d’influence et les réseaux d’alliances, dans un contexte de guerres froides et chaudes. Les stratégies « géopolitiques » et leurs projections régionales oblitèrent toute légalité internationale effective.

    Nous sommes dans un cercle d’impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    https://blogs.mediapart.fr/etienne-balibar/blog/211023/palestine-la-mort

    #7_octobre_2023 #génocide #colonialisme #nationalisme

  • Lettre ouverte au président de la République française - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1354010/lettre-ouverte-au-president-de-la-republique-francaise.html

    Lettre ouverte au président de la République française
    OLJ / Par Dominique EDDÉ, le 20 octobre 2023 à 10h30

    Monsieur le Président,

    C’est d’un lieu ruiné, abusé, manipulé de toutes parts, que je vous adresse cette lettre. Il se pourrait qu’à l’heure actuelle, notre expérience de l’impuissance et de la défaite ne soit pas inutile à ceux qui, comme vous, affrontent des équations explosives et les limites de leur toute puissance.

    Je vous écris parce que la France est membre du Conseil de sécurité de l’ONU et que la sécurité du monde est en danger. Je vous écris au nom de la paix.

    L’horreur qu’endurent en ce moment les Gazaouis, avec l’aval d’une grande partie du monde, est une abomination. Elle résume la défaite sans nom de notre histoire moderne. La vôtre et la nôtre. Le Liban, l’Irak, la Syrie sont sous terre. La Palestine est déchirée, trouée, déchiquetée selon un plan parfaitement clair : son annexion. Il suffit pour s’en convaincre de regarder les cartes.

    Le massacre par le Hamas de centaines de civils israéliens, le 7 octobre dernier, n’est pas un acte de guerre. C’est une ignominie. Il n’est pas de mots pour en dire l’étendue. Si les arabes ou les musulmans tardent, pour nombre d’entre eux, à en dénoncer la barbarie, c’est que leur histoire récente est jonchée de carnages, toutes confessions confondues, et que leur trop plein d’humiliation et d’impotence a fini par épuiser leur réserve d’indignation ; par les enfermer dans le ressentiment. Leur mémoire est hantée par les massacres, longtemps ignorés, commis par des Israéliens sur des civils palestiniens pour s’emparer de leurs terres. Je pense à Deir Yassin en 1948, à Kfar Qassem en 1956. Ils ont par ailleurs la conviction – je la partage – que l’implantation d’Israël dans la région et la brutalité des moyens employés pour assurer sa domination et sa sécurité ont très largement contribué au démembrement, à l’effondrement général. Le colonialisme, la politique de répression violente et le régime d’apartheid de ce pays sont des faits indéniables. S’entêter dans le déni, c’est entretenir le feu dans les cerveaux des uns et le leurre dans les cerveaux des autres. Nous savons tous par ailleurs que l’islamisme incendiaire s’est largement nourri de cette plaie ouverte qui ne s’appelle pas pour rien « la Terre sainte ». Je vous rappelle au passage que le Hezbollah est né au Liban au lendemain de l’occupation israélienne, en 1982, et que les désastreuses guerres du Golfe ont donné un coup d’accélérateur fatal au fanatisme religieux dans la région.

    Qu’une bonne partie des Israéliens reste traumatisée par l’abomination de la Shoah et qu’il faille en tenir compte, cela va de soi. Que vous soyez occupé à prévenir les actes antisémites en France, cela aussi est une évidence. Mais que vous en arriviez au point de ne plus rien entendre de ce qui se vit ailleurs et autrement, de nier une souffrance au prétexte d’en soigner une autre, cela ne contribue pas à pacifier. Cela revient à censurer, diviser, boucher l’horizon. Combien de temps encore allez-vous, ainsi que les autorités allemandes, continuer à puiser dans la peur du peuple juif un remède à votre culpabilité ? Elle n’est plus tolérable cette logique qui consiste à s’acquitter d’un passé odieux en en faisant porter le poids à ceux qui n’y sont pour rien. Écoutez plutôt les dissidents israéliens qui, eux, entretiennent l’honneur. Ils sont nombreux à vous alerter, depuis Israël et les États-Unis.

    Commencez, vous les Européens, par exiger l’arrêt immédiat des bombardements de Gaza. Vous n’affaiblirez pas le Hamas ni ne protégerez les Israéliens en laissant la guerre se poursuivre. Usez de votre voix non pas seulement pour un aménagement de corridors humanitaires dans le sillage de la politique américaine, mais pour un appel à la paix ! La souffrance endurée, une décennie après l’autre, par les Palestiniens n’est plus soutenable. Cessez d’accorder votre blanc-seing à la politique israélienne qui emmène tout le monde dans le mur, ses citoyens inclus. La reconnaissance, par les États-Unis, en 2018, de Jérusalem capitale d’Israël ne vous a pas fait broncher. Ce n’était pas qu’une insulte à l’histoire, c’était une bombe. Votre mission était de défendre le bon sens que prônait Germaine Tillion « Une Jérusalem internationale, ouverte aux trois monothéismes. » Vous avez avalisé, cette même année, l’adoption par la Knesset de la loi fondamentale définissant Israël comme « l’État-Nation du peuple juif ». Avez-vous songé un instant, en vous taisant, aux vingt et un pour cent d’Israéliens non juifs ? L’année suivante, vous avez pour votre part, Monsieur le Président, annoncé que « l’antisionisme est une des formes modernes de l’antisémitisme. » La boucle était bouclée. D’une formule, vous avez mis une croix sur toutes les nuances. Vous avez feint d’ignorer que, d’Isaac Breuer à Martin Buber, un grand nombre de penseurs juifs étaient antisionistes. Vous avez nié tous ceux d’entre nous qui se battent pour faire reculer l’antisémitisme sans laisser tomber les Palestiniens. Vous passez outre le long chemin que nous avons fait, du côté dit « antisioniste », pour changer de vocabulaire, pour reconnaître Israël, pour vouloir un avenir qui reprenne en compte les belles heures d’un passé partagé. Les flots de haine qui circulent sur les réseaux sociaux, à l’égard des uns comme des autres, n’exigent-ils pas du responsable que vous êtes un surcroît de vigilance dans l’emploi des mots, la construction des phrases ? À propos de paix, Monsieur le Président, l’absence de ce mot dans votre bouche, au lendemain du 7 octobre, nous a sidérés. Que cherchons-nous d’autre qu’elle au moment où la planète flirte avec le vide ?

    Les accords d’Abraham ont porté le mépris, l’arrogance capitaliste et la mauvaise foi politique à leur comble. Est-il acceptable de réduire la culture arabe et islamique à des contrats juteux assortis – avec le concours passif de la France – d’accords de paix gérés comme des affaires immobilières ? Le projet sioniste est dans une impasse. Aider les Israéliens à en sortir demande un immense effort d’imagination et d’empathie qui est le contraire de la complaisance aveuglée. Assurer la sécurité du peuple israélien c’est l’aider à penser l’avenir, à l’anticiper, et non pas le fixer une fois pour toutes à l’endroit de votre bonne conscience, l’œil collé au rétroviseur. Ici, au Liban, nous avons échoué à faire en sorte que vivre et vivre ensemble ne soient qu’une et même chose. Par notre faute ? En partie, oui. Mais pas seulement. Loin de là. Ce projet était l’inverse du projet israélien qui n’a cessé de manœuvrer pour le rendre impossible, pour prouver la faillite de la coexistence, pour encourager la fragmentation communautaire, les ghettos. À présent que toute cette partie du monde est au fond du trou, n’est-il pas temps de décider de tout faire autrement ? Seule une réinvention radicale de son histoire peut rétablir de l’horizon.

    En attendant, la situation dégénère de jour en jour : il n’y a plus de place pour les postures indignées et les déclarations humanitaires. Nous voulons des actes. Revenez aux règles élémentaires du droit international. Demandez l’application, pour commencer, des résolutions de l’ONU. La mise en demeure des islamistes passe par celle des autorités israéliennes. Cessez de soutenir le nationalisme religieux d’un côté et de le fustiger de l’autre. Combattez les deux. Rompez cette atmosphère malsaine qui donne aux Français de religion musulmane le sentiment d’être en trop s’ils ne sont pas muets.

    Écoutez Nelson Mandela, admiré de tous à bon compte : « Nous savons parfaitement que notre liberté est incomplète sans celle des Palestiniens, » disait-il sans détour. Il savait, lui, qu’on ne fabrique que de la haine sur les bases de l’humiliation. On traitait d’animaux les noirs d’Afrique du Sud. Les juifs aussi étaient traités d’animaux par les nazis. Est-il pensable que personne, parmi vous, n’ait publiquement dénoncé l’emploi de ce mot par un ministre israélien au sujet du peuple palestinien ? N’est-il pas temps d’aider les mémoires à communiquer, de les entendre, de chercher à comprendre là où ça coince, là où ça fait mal, plutôt que de céder aux affects primaires et de renforcer les verrous ? Et si la douleur immense qu’éprouve chaque habitant de cette région pouvait être le déclic d’un début de volonté commune de tout faire autrement ? Et si l’on comprenait soudain, à force d’épuisement, qu’il suffit d’un rien pour faire la paix, tout comme il suffit d’un rien pour déclencher la guerre ? Ce « rien » nécessaire à la paix, êtes-vous sûrs d’en avoir fait le tour ? Je connais beaucoup d’Israéliens qui rêvent, comme moi, d’un mouvement de reconnaissance, d’un retour à la raison, d’une vie commune. Nous ne sommes qu’une minorité ? Quelle était la proportion des résistants français lors de l’occupation ? N’enterrez pas ce mouvement. Encouragez-le. Ne cédez pas à la fusion morbide de la phobie et de la peur. Ce n’est plus seulement de la liberté de tous qu’il s’agit désormais. C’est d’un minimum d’équilibre et de clarté politique en dehors desquels c’est la sécurité mondiale qui risque d’être dynamitée.

    Par Dominique EDDÉ. Écrivaine.

  • Sortir de l’enfer - La méridienne
    https://www.la-meridienne.info/spip.php?article22

    « Pourquoi une bombe lâchée sur un immeuble de Gaza, ça ne te fait rien ?, demandait l’autre jour une amie arabe à un Français de son entourage bouleversé, à juste titre, par l’attaque du Hamas, mais totalement indifférent au reste. Tu crois que c’est plus doux ? » C’est une vraie question.

    « D’une manière globale, je trouve que l’international est de moins en moins présent dans les discours de gauche. Chez les jeunes générations, l’internationalisme n’est pas toujours une évidence comme il l’était pour des générations plus anciennes », disait récemment la députée de La France insoumise Clémentine Autain à Mediapart, à propos d’une autre cause : la cause arménienne. C’est une explication possible. Mais on voit aussi (et ici je demande pardon à mes lecteur-ices concerné-es pour la brutalité du constat, même si je me doute que je ne leur apprends rien) les effets de longues années de déshumanisation et de diabolisation des musulman-es. Lentement mais sûrement, l’islamophobie et ses innombrables relais ont fait leur office, ils ont émoussé les sensibilités.

  • La siccità e le politiche israeliane assetano i contadini palestinesi

    La crisi idrica ha stravolto l’economia del villaggio di #Furush_Beit_Dajan, in Cisgiordania: la tradizionale coltivazione di limoni ha lasciato spazio a serre di pomodori. E lo sfruttamento intensivo rischia di impoverire ulteriormente la terra

    Il telefono squilla incessantemente nello studio di Azem Hajj Mohammed. Il sindaco di Furush Beit Dajan, un villaggio agricolo nel Nord della Cisgiordania, ha lavorato tutta la notte per cercare di identificare due uomini del vicino villaggio di Jiftlik che, sfruttando l’oscurità, si sarebbero allacciati illegalmente alla rete di distribuzione idrica. Secondo la regolamentazione di epoca ottomana, gli abitanti di Furush Beit Dajan hanno diritto al 10% dell’acqua estratta dal pozzo artesiano situato a Nord del villaggio, mentre il 90% spetta a Jiftlik. Ma quando la pressione dell’acqua è bassa, alcuni residenti che ritengono di non riceverne abbastanza si allacciano illegalmente ai tubi, generando tensioni in questa comunità dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito per nove abitanti su dieci.

    “Devo individuare rapidamente i responsabili e trovare una mediazione prima che il furto sfoci in un conflitto tra famiglie e che intervenga l’esercito israeliano -spiega il sindaco in un momento di pausa tra due chiamate-. Nessuno vuole autodenunciarsi. Dovrò visionare i filmati delle telecamere di sorveglianza, trovarli e andare a parlarci”, dice a un suo collaboratore. Il viso è segnato dalle occhiaie, dalla fatica e dallo stress accumulati per amministrare un villaggio la cui esistenza affoga in un paradosso: nonostante sorga su una ricca falda, l’acqua è centellinata goccia per goccia. Le restrittive politiche israeliane in materia, aggravate dalla siccità nella Valle del Giordano, hanno causato una profonda crisi idrica che ha stravolto l’economia del luogo, portando i contadini a optare per l’agricoltura intensiva.

    Se Azem Hajj Mohammed è così preoccupato è perché l’accesso all’acqua garantisce la pace sociale a Furush Beit Dajan. Il villaggio si era costruito una reputazione e una posizione sul mercato agricolo palestinese grazie alle floride distese di alberi di limone, piante molto esigenti in termini di fabbisogni idrici. “Il profumo avvolgeva il villaggio come una nuvola. L’acqua sgorgava liberamente, alimentava i campi e un mulino. I torrenti erano così tumultuosi che i bambini rischiavano di annegare”, ricorda l’agricoltore ‘Abd al-Hamid Abu Firas. Aveva diciannove anni quando nel 1967 gli israeliani consolidarono il loro controllo sul territorio e le risorse idriche in Cisgiordania dopo la Guerra dei sei giorni. Da allora, l’acqua ha iniziato a ridursi.

    Nel 1993 gli Accordi di Oslo hanno di fatto conferito a Israele la gestione di questa risorsa, che oggi controlla l’80% delle riserve idriche della Cisgiordania. Le Nazioni Unite stimano che gli israeliani, compresi i coloni, abbiano accesso in media a 247 litri d’acqua al giorno, mentre i palestinesi che vivono all’interno dell’Area C, sotto controllo militare, si devono accontentare di venti litri. Solo un quinto del minimo raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità.

    Il progressivo esaurimento delle falde e le crescenti esigenze idriche delle vicine colonie israeliane di Hamra e Mekhora hanno spinto gli agricoltori a una scelta radicale: abbandonare le varietà di limoni autoctone per sostituirle gradualmente con le coltivazioni verticali e pomodori in serra, che presentano un rapporto tra produttività e fabbisogno idrico più alto. Secondo l’istituto olandese di Delft, specializzato su questi temi, per produrre una tonnellata di pomodori sono necessari mediamente 214 metri cubi d’acqua. La stessa quantità di limoni ne richiederebbe tre volte di più. L’acqua, tuttavia, ci sarebbe. La vicina colonia di Hamra -illegale secondo il diritto internazionale e costruita nel 1971 su terreni confiscati ai palestinesi- possiede una coltivazione di palme da dattero di 40 ettari: per produrre una tonnellata di questi frutti servono 2.300 metri cubi d’acqua, quasi dieci volte la quantità necessaria per la stessa quantità di pomodori.

    Le distese di campi di limoni hanno lasciato il posto a quelle che Rasmi Abu Jeish chiama le “case di plastica”. Il paesaggio è radicalmente mutato: il bianco delle serre ha sostituito il verde delle piante. Dei suoi 450 alberi di limone, il contadino ne ha lasciati in piedi soltanto 30 per onorare la tradizione familiare. Il resto dei suoi 40 dunum di terre (unità di misura di origine ottomana corrispondente a circa mille metri quadrati) sono occupate da serre.

    La diminuzione dell’acqua per l’irrigazione ha generato un cambiamento nei metodi di produzione, portando gli agricoltori ad aumentare le quantità di pomodori prodotte per assicurarsi entrate sufficienti. “Le monocolture rendono i contadini più vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi, più inclini a usare pesticidi e fertilizzanti per assicurarsi entrate stabili. Sul lungo termine questo circolo vizioso rende il terreno infertile e inutilizzabile per l’agricoltura”, avverte Muqbel Abu-Jaish, del Palestinian agricultural relief committees, che accompagna gli agricoltori del villaggio nella gestione delle risorse idriche.

    Senza l’ombra degli alberi di agrumi, anche le temperature registrate all’interno del villaggio sono aumentate, rendendo la vita ancora più difficile d’estate, quando nella Valle del Giordano si superano i 40 gradi. La mancanza di accesso all’acqua e la politica espansionistica dei coloni israeliani, aggravate dalla crisi climatica, hanno portato così l’agricoltura a contribuire soltanto al 2,6% del Prodotto interno lordo della Cisgiordania.

    Il cambiamento di produzione è stato affrontato con più elasticità dalla nuova generazione di agricoltori, non senza difficoltà. “Nonostante questa situazione abbiamo deciso di continuare. Il lavoro è diminuito molto ma qui non abbiamo altre possibilità. È come se senza l’acqua fosse sparita anche la vita. Dobbiamo adattarci”, racconta Saeed Abu Jaish, 25 anni, la cui famiglia ha ridotto i terreni coltivati da 15 a due dunum convertendoli interamente alla coltivazione di pomodori in serra. Oggi il villaggio fornisce circa l’80% dei bisogni del mercato palestinese di questo prodotto.

    Le difficoltà sono accentuate dall’impossibilità di costruire infrastrutture, anche leggere, per la raccolta e lo stoccaggio di acqua piovana. Tutto il villaggio si trova in Area C, sotto controllo amministrativo e militare israeliano, dove ogni attività agricola e di costruzione è formalmente vietata. Quando, nel 2021, il sindaco di Furush Beit Dajan ha fatto installare un serbatoio d’acqua per uso agricolo l’esercito israeliano si è mobilitato per smantellarlo nel volgere di poche ore. Come era accaduto ad altri 270 impianti idrici negli ultimi cinque anni.

    Il sindaco non può nemmeno avviare lavori di ammodernamento della rete idrica, risalente al mandato britannico terminato nel 1948. Dei nove pozzi da cui dipendeva il villaggio, la metà si sono prosciugati, mentre il flusso d’acqua di quelli restanti è diminuito inesorabilmente, passando da duemila metri cubi all’ora prima del 1967, a soli 30 metri cubi oggi, secondo il sindaco Azem Hajj Mohammed.

    Le restrizioni sull’erogazione dell’acqua in Cisgiordania hanno anche un’altra conseguenza, cruciale sul lungo periodo, in questo territorio conteso. Una legge risalente all’epoca ottomana e incorporata dal sistema legislativo israeliano permette infatti allo Stato ebraico di dichiarare “terra di Stato” tutti i campi palestinesi lasciati incolti per almeno tre anni. La carenza d’acqua, i costi, e la disperazione spingono così i contadini palestinesi ad abbandonare il loro terreni che, senza la possibilità di essere irrigati, non producono reddito e pesano sulle finanze familiari. “Non vedo possibilità di miglioramento nell’attuale status quo, con gli Accordi di Oslo che conferiscono il controllo dell’acqua ad Israele. Il numero di coloni aumenta costantemente mentre l’acqua diminuisce. Senza un cambiamento, la situazione non può che peggiorare”, analizza Issam Khatib, professore di Studi idrici e ambientali dell’Università di Birzeit.

    Adir Abu Anish ha 63 anni e coltiva ormai soltanto un sesto dei 50 dunum che possiede. Oltre alle serre di pomodoro, si è concesso di piantare delle viti che afferma essere destinate a seccarsi in un paio d’anni. Il torrente da cui si approvvigionava è contaminato dalle acque reflue provenienti dalla vicina città di Nablus, un caso di inquinamento che il sindaco ha portato in tribunale. All’ombra del suo vigneto, Abu Anish sospira: “Di solito i genitori lasciano in eredità ai loro figli possedimenti e ricchezze. Noi lasciamo campi secchi”.

    https://altreconomia.it/la-siccita-e-le-politiche-israeliane-assetano-i-contadini-palestinesi

    #sécheresse #crise_hydrique #Palestine #Israël #Cisjordanie #agriculture #serres #citrons #tomates #agriculture_intensive #eau #Jiftlik #accès_à_l'eau #réserves_hydriques #Hamra #Mekhora #irrigation #températures #colonies_israéliennes #paysage #puits #terres_d'Etat #Accords_d'Oslo #Nablus

  • Accords en toile d’araignée sur les migrations
    https://visionscarto.net/migrations-accords-en-toile-d-araignee

    Titre : Accords en toile d’araignée sur les migrations — 2010 Mots-clés : #frontières #UE #Europe #asile #politique_de_voisinage #marges #France #migrations #politique_migratoire #accord_de_réadmission Auteur : Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz Date : Juin 2010 Accords en toile d’araignée sur les migrations Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz, juin 2010. #Collection_cartographique

  • Immigration : après la #Tunisie, l’Union européenne viserait des #partenariats_migratoires avec l’#Egypte et le #Maroc

    L’#Union_européenne souhaite négocier avec l’Égypte et le Maroc des partenariats similaires à celui qu’elle vient de conclure avec la Tunisie, portant sur la lutte contre l’immigration irrégulière.

    L’UE et la Tunisie ont signé ce dimanche 16 juillet à Tunis un protocole d’accord pour un « #partenariat_stratégique », qui concerne aussi le développement économique du pays et les énergies renouvelables.

    Sur le volet migratoire, il prévoit une aide européenne de 105 millions d’euros destinée à empêcher les départs de bateaux de migrants vers l’UE depuis les côtes tunisiennes et lutter contre les passeurs.

    Mais aussi à faciliter les retours dans ce pays de Tunisiens qui sont en situation irrégulière dans l’UE, ainsi que les retours depuis la Tunisie vers leurs pays d’origine de migrants d’Afrique subsaharienne.

    La présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen a dit souhaiter que ce partenariat soit un #modèle pour de futurs #accords avec les pays de la région.

    L’Égypte et le Maroc sont deux pays qui pourraient être concernés, a indiqué un haut responsable européen s’exprimant sous couvert de l’anonymat, soulignant les bénéfices de ce type de partenariat pour les deux rives de la Méditerranée.

    Mais cet accord avec Tunis a aussi suscité des critiques en raison du traitement des migrants d’Afrique sub-saharienne dans ce pays du Maghreb. Des centaines de migrants ont été arrêtés en Tunisie puis « déportés » par la police, selon les ONG, vers des zones inhospitalières aux frontières avec Algérie et Libye.

    https://information.tv5monde.com/afrique/immigration-apres-la-tunisie-lunion-europeenne-viserait-des-pa

    #externalisation #migrations #asile #réfugiés #frontières #partenariat #modèle_tunisien

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    ajouté à la métaliste sur le #memorandum_of_understanding avec la Tunisie :
    https://seenthis.net/messages/1020591

    ping @_kg_

  • Reportage tra i “nuovi” respinti dalla Croazia verso i campi della Bosnia ed Erzegovina

    Da fine marzo la polizia croata ha attivato una “inedita” pratica di rintraccio, detenzione ed espulsione collettiva delle persone in movimento verso la Bosnia, trasportandole in bus alla frontiera o ai centri di detenzione. Il tutto con una parvenza di formalità. Le Ong ne denunciano la palese illegittimità. E la complicità europea

    Con l’inizio del Ramadan, Riaz (nome di fantasia) ha interrotto i tentativi di attraversare il confine verso la Croazia. Si trova nel campo di Lipa, centro di transito ma soprattutto di detenzione nel Nord-Ovest della Bosnia ed Erzegovina, nel Cantone di Una-sana. Si è svegliato tardi, fa freddo e ha una sciarpa nuova con i colori della vecchia bandiera afghana. “Qui hanno riportato tante persone dalla Croazia. Stanno arrivando autobus pieni”, dice.

    Da marzo, infatti, le autorità del cantone bosniaco confermano che i campi di Borici e Lipa stanno ricevendo persone espulse collettivamente dalla Croazia sulla base di accordi bilaterali stipulati proprio con la Bosnia. Rintracciate sul territorio croato, le persone in movimento vengono detenute per poi essere trasportate in autobus al confine e consegnate alla polizia bosniaca (l’ha denunciato il Border violence monitoring network, ripreso in Italia dalla rete RiVolti ai Balcani).

    “Abbiamo parlato con una famiglia curda riammessa nel campo per famiglie di Borici, a Bihać: fermati vicino Slavonski Brod, in Croazia, sono stati portati in un seminterrato e poi dopo qualche giorno in un magazzino dove hanno ricevuto un foglio di espulsione di un anno dall’area economica europea, con la minaccia di 18 mesi di detenzione”, racconta Marta Aranguren, dell’organizzazione No Name Kitchen. Anche Ines dell’associazione locale Kompas 071 descrive dinamiche simili: “Diversi testimoni riferiscono di aver dormito a terra su cartoni per giorni, senza cibo e poca acqua, alcuni minacciati con cani in caso di lamentele”. Esprime la sua preoccupazione: “Improvvisamente è apparso un foglio che legalizza ogni sopruso: uno per far pagare il trasporto della riammissione o le notti in detenzione e uno che giustifica la confisca di telefoni o oggetti personali”.

    Si tratta di riammissioni dalla parvenza solo formale che a differenza dei respingimenti praticati per anni (e ancora oggi) cercano di presentarsi con una base legale. Milena Zajović Milka, attivista dell’organizzazione Are you syrious? e del Border violence monitoring network spiega che “l’ordine di espulsione dall’area economica fa riferimento alla legge sugli stranieri della Croazia, mentre la riammissione si basa su un accordo bilaterale tra due Paesi, che non può prevalere sulla Convenzione di Ginevra e su altre dichiarazioni internazionali”.

    Le criticità sono diverse. Non sempre è stata fornita una copia dei documenti di riammissione nella lingua delle persone espulse, né sarebbero stati presenti traduttori. In più non è chiaro come venga dimostrato che le persone riammesse siano entrate dalla Bosnia ed Erzegovina. “Dalle testimonianze sembra che non abbiano avuto opportunità di chiedere asilo, né di poter far ricorso alla decisione di riammissione, come previsto invece dalla stessa Legge sugli stranieri croata”, spiega Silvia Maraone operatrice di Ipsia Acli, organizzazione che opera dentro il campo di Lipa.

    “In sintesi sono tre le fasi che hanno portato alla nuova pratica delle riammissioni collettive a cui stiamo assistendo da fine marzo”, riprende Zajović Milka. “Dopo anni di respingimenti illegali, a fine del 2021 numerose prove hanno costretto la Croazia a cambiare per la prima volta il suo modus operandi. Poi, l’anno scorso, è stato introdotto un foglio di espulsione di sette giorni, un primo tentativo di regolarizzare l’allontanamento delle persone dal Paese”.

    Non solo la Croazia ma anche la Commissione europea, che ha finanziato e finanzia il Paese per la gestione delle frontiere europee (così come la Bosnia ed Erzegovina, si veda anche il caso di Lipa), si sono trovate nell’imbarazzante situazione di dover rispondere delle illegalità commesse alle frontiere. “Con questo foglio è diventato più facile passare attraverso la Croazia -prosegue Zajović Milka-. Nel frattempo, dall’inizio di quest’anno, centinaia di persone vengono rimpatriate in Croazia per via del regolamento di Dublino, che prevede il ritorno nel primo Paese di ingresso nell’Unione europea”. La Croazia, entrata questo gennaio nell’area Schengen, deve gestire le persone in arrivo nell’Ue, provando a evitare (o a tentare di celare) le violenze per cui è stata sanzionata. D’altra parte, la Bosnia, recentemente promossa a candidata nell’Ue, è disponibile ad accogliere le persone riammesse, non senza tensioni interne.

    Nonostante negli scorsi anni diversi tribunali, in Italia, Austria e Slovenia, si siano pronunciati contro le riammissioni basate su accordi bilaterali, la Commissione europea incoraggia questa pratica. Il Patto sulla migrazione e asilo proposto nel settembre 2020 pone l’enfasi sugli accordi bilaterali tra Paesi per implementare le procedure di ritorno e riammissione in Paesi terzi o di origine. “Stiamo vedendo un rafforzamento di Frontex, la creazione di nuovi centri di detenzione alle frontiere esterne europee e a maggiori finanziamenti per nuovi database volti a facilitare le deportazioni da Bosnia e Serbia, incoraggiate a firmare accordi di ritorno con i Paesi di origine”, riflette Zajović Milka. Il campo di Lipa, finanziato dall’Unione europea, ne è la prova, come aveva pronosticato anche la rete RiVolti ai Balcani.

    Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, inoltre, nel periodo tra il 6 e il 19 marzo 2023 solo 132 persone sono state registrate a Lipa, su un totale di 1.512 posti.

    Riaz cammina tra i container vuoti con il telefono in mano mentre sistema la sua felpa verde militare. Gli piace perché gli ricorda la sua uniforme da poliziotto che indossava prima del ritorno al potere dei Talebani. Abbandonato da tutti gli eserciti internazionali, non ha avuto altra scelta se non intraprendere il viaggio in forma forzatamente irregolare dall’Afghanistan fino alla Bosnia ed Erzegovina.

    “La maggior parte delle persone deportate se ne va subito. Alcuni sono deportati con gli autobus, altri lasciati nella foresta”, spiega. Usa erroneamente il termine “deportazione” per descrivere pratiche diverse che ai suoi occhi hanno lo stesso effetto. Le recenti riammissioni non hanno infatti fermato i respingimenti illegali. Mentre viaggia verso il confine sloveno Suleyman (nome di fantasia), ragazzo afghano, racconta al telefono l’esperienza di qualche giorno prima. “Sono stato sette giorni in detenzione senza cibo e da bere solo acqua sporca. Ci hanno preso i telefoni, i soldi; hanno bruciato i vestiti e gli zaini”. Lasciato in un bosco sul confine bosniaco è tornato a piedi a Lipa, per ripartire tre giorni dopo verso la Croazia. Il racconto si interrompe, chiude la chiamata. “Ci ha fermato la polizia, non so che cosa ci succederà”, scrive in un messaggio.

    “Tutto sembra lasciato al caso -osserva Zajović Milka-: alcune persone saranno riammesse in Bosnia, altre respinte illegalmente, altre potranno chiedere asilo e altre otterranno il documento di espulsione di sette giorni. Secondo Ines di Kompas 071 l’effetto è chiaro: “La Bosnia è una sorta di purgatorio per le persone in transito, continuamente respinte. È un gioco che va avanti da anni ma ora stanno cercando di rendere questa pratica legale”.

    https://altreconomia.it/reportage-tra-i-nuovi-respinti-dalla-croazia-verso-i-campi-della-bosnia

    #Croatie #refoulements #push-backs #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Balkans #route_des_Balkans #Lipa #réadmissions #accords_de_réadmission

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    ajouté à la liste métaliste sur les accords de réadmission en Europe :
    https://seenthis.net/messages/736091

  • Liban, 1975-1985 : 10 ans de guerre civile

    (#archiveLO, 13 avril 1985)

    – 1975 : les pauvres prennent les armes
    – Mars 1976 : la Syrie écrase les camps palestiniens
    – 1977-1978 : la Syrie cherche à neutraliser l’extrême-droite qu’elle avait contribué à mettre en selle
    – 1982 : Israël envahit le Sud-Liban
    – Une guerre sociale devenue une guerre entre clans confessionnels

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    Lire aussi : Liban : une création du colonialisme français dans un Moyen-Orient divisé par l’impérialisme
    https://www.lutte-ouvriere.org/documents/archives/cercle-leon-trotsky/article/liban-une-creation-du-colonialisme-6377

    – La Syrie et le Liban à l’époque ottomane
    – La décadence de l’Empire ottoman
    – De la tutelle ottomane au colonialisme anglo-français
    – La naissance du mouvement ouvrier et les révoltes contre le colonialisme
    – La Deuxième Guerre mondiale et l’#indépendance
    – Le #Moyen-Orient balkanisé
    – Années soixante-dix : la montée des tensions sociales et politiques
    – Avril 1975 : le déclenchement de la guerre civile
    – Assad sauve la droite libanaise
    – Les #accords_de_Taëf et l’après-guerre civile
    – L’assassinat de #Rafic_Hariri et le « Front du Bristol »
    – Les élections de juin 2005
    – L’intervention impérialiste ramène la société en arrière
    – Pour une véritable révolution sociale

    #Liban #Israël #OLP #Arafat #Syrie #guerre_civile #impérialisme

  • L’explosion sociale de mai-juin 1968
    https://lutte-ouvriere.org/publications/brochures/lexplosion-sociale-de-mai-juin-1968-107027.html

    #archiveLO | 13 avril 2018

    Sommaire :

    Les prémices de Mai 1968  : la France des années soixante
    ➖ L’intensification de l’exploitation
    ➖ La montée du chômage et des attaques contre les travailleurs
    ➖ La politique des bureaucraties syndicales et de la gauche
    ➖ Des grèves emblématiques
    ➖ «  Les temps changent  »  : la politisation de la jeunesse

    De Nanterre au Quartier latin  : la jeunesse produit l’étincelle et ouvre la voie
    ➖ Le monde étudiant en 1968
    ➖ Les débuts du mouvement dans la jeunesse
    ➖ L’attitude du Parti communiste
    ➖ L’occupation de #la_Sorbonne et la «  nuit des barricades  »

    La grève ouvrière et les occupations d’usine
    ➖ La journée du 13 mai
    ➖ Les premières occupations
    ➖ Le virage de la CGT et du PC
    ➖ L’extension maximale de la grève
    ➖ L’encadrement des grévistes et les limites du mouvement
    ➖ Le pouvoir reprend la main
    ➖ Les #accords_de_Grenelle
    ➖ Les tentatives de Mendès France et de Mitterrand
    ➖ En avant vers les élections...
    ➖ La reprise imposée par les appareils syndicaux

    Paul Palacio (ouvrier à Renault Billancourt en 1968)

    Jean-Louis Gaillard (ouvrier chez Roussel-Uclaf à Romainville en 1968)

    Georges Kvartskhava (ouvrier à l’usine Peugeot Sochaux de Montbéliard en 1968)

    Que reste-t-il de Mai 1968  ?
    ➖ Des transformations sociétales...
    ➖ ... inachevées et déjà remises en cause
    ➖ Un renouveau politique  ?
    ➖ Le renforcement des bureaucraties syndicales...
    ➖ ... et des illusions dans la gauche
    ➖ Du côté de l’extrême gauche
    ➖ La faillite du #maoïsme et du gauchisme
    ➖ Reconstruire un parti communiste révolutionnaire

    #mai_68 #PCF #CGT #stalinisme #grève_générale #extrême_gauche #répression #de_Gaulle #classe_ouvrière #lutte_de_classe