• Accords en toile d’araignée sur les migrations
    https://visionscarto.net/migrations-accords-en-toile-d-araignee

    Titre : Accords en toile d’araignée sur les migrations — 2010 Mots-clés : #frontières #UE #Europe #asile #politique_de_voisinage #marges #France #migrations #politique_migratoire #accord_de_réadmission Auteur : Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz Date : Juin 2010 Accords en toile d’araignée sur les migrations Olivier Clochard et Philippe Rekacewicz, juin 2010. #Collection_cartographique

  • Reportage tra i “nuovi” respinti dalla Croazia verso i campi della Bosnia ed Erzegovina

    Da fine marzo la polizia croata ha attivato una “inedita” pratica di rintraccio, detenzione ed espulsione collettiva delle persone in movimento verso la Bosnia, trasportandole in bus alla frontiera o ai centri di detenzione. Il tutto con una parvenza di formalità. Le Ong ne denunciano la palese illegittimità. E la complicità europea

    Con l’inizio del Ramadan, Riaz (nome di fantasia) ha interrotto i tentativi di attraversare il confine verso la Croazia. Si trova nel campo di Lipa, centro di transito ma soprattutto di detenzione nel Nord-Ovest della Bosnia ed Erzegovina, nel Cantone di Una-sana. Si è svegliato tardi, fa freddo e ha una sciarpa nuova con i colori della vecchia bandiera afghana. “Qui hanno riportato tante persone dalla Croazia. Stanno arrivando autobus pieni”, dice.

    Da marzo, infatti, le autorità del cantone bosniaco confermano che i campi di Borici e Lipa stanno ricevendo persone espulse collettivamente dalla Croazia sulla base di accordi bilaterali stipulati proprio con la Bosnia. Rintracciate sul territorio croato, le persone in movimento vengono detenute per poi essere trasportate in autobus al confine e consegnate alla polizia bosniaca (l’ha denunciato il Border violence monitoring network, ripreso in Italia dalla rete RiVolti ai Balcani).

    “Abbiamo parlato con una famiglia curda riammessa nel campo per famiglie di Borici, a Bihać: fermati vicino Slavonski Brod, in Croazia, sono stati portati in un seminterrato e poi dopo qualche giorno in un magazzino dove hanno ricevuto un foglio di espulsione di un anno dall’area economica europea, con la minaccia di 18 mesi di detenzione”, racconta Marta Aranguren, dell’organizzazione No Name Kitchen. Anche Ines dell’associazione locale Kompas 071 descrive dinamiche simili: “Diversi testimoni riferiscono di aver dormito a terra su cartoni per giorni, senza cibo e poca acqua, alcuni minacciati con cani in caso di lamentele”. Esprime la sua preoccupazione: “Improvvisamente è apparso un foglio che legalizza ogni sopruso: uno per far pagare il trasporto della riammissione o le notti in detenzione e uno che giustifica la confisca di telefoni o oggetti personali”.

    Si tratta di riammissioni dalla parvenza solo formale che a differenza dei respingimenti praticati per anni (e ancora oggi) cercano di presentarsi con una base legale. Milena Zajović Milka, attivista dell’organizzazione Are you syrious? e del Border violence monitoring network spiega che “l’ordine di espulsione dall’area economica fa riferimento alla legge sugli stranieri della Croazia, mentre la riammissione si basa su un accordo bilaterale tra due Paesi, che non può prevalere sulla Convenzione di Ginevra e su altre dichiarazioni internazionali”.

    Le criticità sono diverse. Non sempre è stata fornita una copia dei documenti di riammissione nella lingua delle persone espulse, né sarebbero stati presenti traduttori. In più non è chiaro come venga dimostrato che le persone riammesse siano entrate dalla Bosnia ed Erzegovina. “Dalle testimonianze sembra che non abbiano avuto opportunità di chiedere asilo, né di poter far ricorso alla decisione di riammissione, come previsto invece dalla stessa Legge sugli stranieri croata”, spiega Silvia Maraone operatrice di Ipsia Acli, organizzazione che opera dentro il campo di Lipa.

    “In sintesi sono tre le fasi che hanno portato alla nuova pratica delle riammissioni collettive a cui stiamo assistendo da fine marzo”, riprende Zajović Milka. “Dopo anni di respingimenti illegali, a fine del 2021 numerose prove hanno costretto la Croazia a cambiare per la prima volta il suo modus operandi. Poi, l’anno scorso, è stato introdotto un foglio di espulsione di sette giorni, un primo tentativo di regolarizzare l’allontanamento delle persone dal Paese”.

    Non solo la Croazia ma anche la Commissione europea, che ha finanziato e finanzia il Paese per la gestione delle frontiere europee (così come la Bosnia ed Erzegovina, si veda anche il caso di Lipa), si sono trovate nell’imbarazzante situazione di dover rispondere delle illegalità commesse alle frontiere. “Con questo foglio è diventato più facile passare attraverso la Croazia -prosegue Zajović Milka-. Nel frattempo, dall’inizio di quest’anno, centinaia di persone vengono rimpatriate in Croazia per via del regolamento di Dublino, che prevede il ritorno nel primo Paese di ingresso nell’Unione europea”. La Croazia, entrata questo gennaio nell’area Schengen, deve gestire le persone in arrivo nell’Ue, provando a evitare (o a tentare di celare) le violenze per cui è stata sanzionata. D’altra parte, la Bosnia, recentemente promossa a candidata nell’Ue, è disponibile ad accogliere le persone riammesse, non senza tensioni interne.

    Nonostante negli scorsi anni diversi tribunali, in Italia, Austria e Slovenia, si siano pronunciati contro le riammissioni basate su accordi bilaterali, la Commissione europea incoraggia questa pratica. Il Patto sulla migrazione e asilo proposto nel settembre 2020 pone l’enfasi sugli accordi bilaterali tra Paesi per implementare le procedure di ritorno e riammissione in Paesi terzi o di origine. “Stiamo vedendo un rafforzamento di Frontex, la creazione di nuovi centri di detenzione alle frontiere esterne europee e a maggiori finanziamenti per nuovi database volti a facilitare le deportazioni da Bosnia e Serbia, incoraggiate a firmare accordi di ritorno con i Paesi di origine”, riflette Zajović Milka. Il campo di Lipa, finanziato dall’Unione europea, ne è la prova, come aveva pronosticato anche la rete RiVolti ai Balcani.

    Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, inoltre, nel periodo tra il 6 e il 19 marzo 2023 solo 132 persone sono state registrate a Lipa, su un totale di 1.512 posti.

    Riaz cammina tra i container vuoti con il telefono in mano mentre sistema la sua felpa verde militare. Gli piace perché gli ricorda la sua uniforme da poliziotto che indossava prima del ritorno al potere dei Talebani. Abbandonato da tutti gli eserciti internazionali, non ha avuto altra scelta se non intraprendere il viaggio in forma forzatamente irregolare dall’Afghanistan fino alla Bosnia ed Erzegovina.

    “La maggior parte delle persone deportate se ne va subito. Alcuni sono deportati con gli autobus, altri lasciati nella foresta”, spiega. Usa erroneamente il termine “deportazione” per descrivere pratiche diverse che ai suoi occhi hanno lo stesso effetto. Le recenti riammissioni non hanno infatti fermato i respingimenti illegali. Mentre viaggia verso il confine sloveno Suleyman (nome di fantasia), ragazzo afghano, racconta al telefono l’esperienza di qualche giorno prima. “Sono stato sette giorni in detenzione senza cibo e da bere solo acqua sporca. Ci hanno preso i telefoni, i soldi; hanno bruciato i vestiti e gli zaini”. Lasciato in un bosco sul confine bosniaco è tornato a piedi a Lipa, per ripartire tre giorni dopo verso la Croazia. Il racconto si interrompe, chiude la chiamata. “Ci ha fermato la polizia, non so che cosa ci succederà”, scrive in un messaggio.

    “Tutto sembra lasciato al caso -osserva Zajović Milka-: alcune persone saranno riammesse in Bosnia, altre respinte illegalmente, altre potranno chiedere asilo e altre otterranno il documento di espulsione di sette giorni. Secondo Ines di Kompas 071 l’effetto è chiaro: “La Bosnia è una sorta di purgatorio per le persone in transito, continuamente respinte. È un gioco che va avanti da anni ma ora stanno cercando di rendere questa pratica legale”.

    https://altreconomia.it/reportage-tra-i-nuovi-respinti-dalla-croazia-verso-i-campi-della-bosnia

    #Croatie #refoulements #push-backs #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Balkans #route_des_Balkans #Lipa #réadmissions #accords_de_réadmission

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    ajouté à la liste métaliste sur les accords de réadmission en Europe :
    https://seenthis.net/messages/736091

  • « France, pays des droits de l’homme ». Ce qu’en disent les conventions et accords

    Certaines voix déplorent régulièrement que la souveraineté de la France en matière de gouvernance des migrations est contrainte par un sérail de conventions internationales. C’est oublier que la France, loin d’être le seul pays des droits de l’homme, conclut aussi des accords de réadmission pour le renvoi des personnes étrangères dans leur pays d’origine.


    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2022/03/05/defacto-032-04
    #accords_de_réadmission #réadmission #France #cartographie #visualisation #liste #retours #renvois #migrations #asile #réfugiés #déboutés

    par @fbahoken et al.

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  • Status agreement with Senegal : #Frontex might operate in Africa for the first time

    The border agency in Warsaw could deploy drones, vessels and personnel. It would be the first mission in a country that does not directly border the EU. Mauretania might be next.

    As a „priority third state“ in West Africa, Senegal has long been a partner for migration-related security cooperation with the EU. The government in Dakar is one of the addressees of the „#North_Africa_Operational_Partnership“; it also receives technical equipment and advice for border police upgrading from EU development aid funds. Now Brussels is pushing for a Frontex mission in Senegal. To this end, Commission President Ursula von der Leyen travelled personally to the capital Dakar last week. She was accompanied by the Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, who said that a contract with Senegal might be finalised until summer. For the matter, Johansson met with Senegal’s armed-forces minister and foreign minister.

    For operations outside the EU, Frontex needs a so-called status agreement with the country concerned. It regulates, for example, the use of coercive police measures, the deployment of weapons or immunity from criminal and civil prosecution. The Commission will be entrusted with the negotiations for such an agreement with Senegal after the Council has given the mandate. The basis would be a „model status agreement“ drafted by the Commission on the basis of Frontex missions in the Western Balkans. Frontex launched its first mission in a third country in 2019 in Albania, followed by Montenegro in 2020 and Serbia in 2021.

    New EU Steering Group on migration issues

    The deployment to Senegal would be the first time the Border Agency would be stationed outside Europe with operational competences. Johansson also offered „#surveillance equipment such as #drones and vessels“. This would take the already established cooperation to a new level.

    Frontex is already active in the country, but without uniformed and armed police personnel. Of the only four liaison officers Frontex has seconded to third countries, one is based at the premises of the EU delegation in #Dakar. His tasks include communicating with the authorities responsible for border management and assisting with deportations from EU member states. Since 2019, Senegal has been a member of Frontex’s so-called AFIC network. In this „Risk Analysis Cell“, the agency joins forces with African police forces and secret services for exchanges on imminent migration movements. For this purpose, Frontex has negotiated a working agreement with the Senegalese police and the Ministry of Foreign Affairs.

    The new talks with Senegal are coordinated in the recently created „Operational Coordination Mechanism for the External Dimension of Migration“ (MOCADEM). It is an initiative of EU member states to better manage their politics in countries of particular interest. These include Niger or Iraq, whose government recently organised return flights for its own nationals from Minsk after Belarus‘ „instrumentalisation of refugees“ at the EU’s insistence. If the countries continue to help with EU migration control, they will receive concessions for visa issuance or for labour migration.

    Senegal also demands something in return for allowing a Frontex mission. The government wants financial support for the weakened economy after the COVID pandemic. Possibilities for legal migration to the EU were also on the agenda at the meetings with the Commission. Negotiations are also likely to take place on a deportation agreement; the Senegalese authorities are to „take back“ not only their own nationals but also those of other countries if they can prove that they have travelled through the country to the EU and have received an exit order there.

    Deployment in territorial waters

    Senegal is surrounded by more than 2,600 kilometres of external border; like the neighbouring countries of Mali, Gambia, Guinea and Guinea-Bissau, the government has joined the Economic Community of West African States (ECOWAS). Similar to the Schengen area, the agreement also regulates the free movement of people and goods in a total of 15 countries. Only at the border with Mauritania, which left ECOWAS in 2001, are border security measures being stepped up.

    It is therefore possible that a Frontex operation in Senegal will not focus on securing the land borders as in the Western Balkans, but on monitoring the maritime border. After the „Canary Islands crisis“ in 2006 with an increase in the number of refugee crossings, Frontex coordinated the Joint Operation „Hera“ off the islands in the Atlantic; it was the first border surveillance mission after Frontex was founded. Departures towards the Canary Islands are mostly from the coast north of Senegal’s capital Dakar, and many of the people in the boats come from neighbouring countries.

    The host country of „Hera“ has always been Spain, which itself has bilateral migration control agreements with Senegal. Authorities there participate in the communication network „Seahorse Atlantic“, with which the Spanish gendarmerie wants to improve surveillance in the Atlantic. Within the framework of „Seahorse“, the Guardia Civil is also allowed to conduct joint patrols in the territorial waters of Senegal, Mauritania and Cape Verde. The units in „Hera“ were also the only Frontex mission allowed to navigate the countries‘ twelve-mile zone with their vessels. Within the framework of „Hera“, however, it was not possible for Frontex ships to dock on the coasts of Senegal or to disembark intercepted refugees there.

    Spain wants to lead Frontex mission

    Two years ago, the government in Madrid terminated the joint maritime mission in the Atlantic. According to the daily newspaper „El Pais“, relations between Spain and Frontex were at a low point after the border agency demanded more control over the resources deployed in „Hera“. Spain was also said to be unhappy with Frontex’s role in the Canary Islands. The agency had seconded two dozen officers to the Canary Islands to fingerprint and check identity documents after a sharp increase in crossings from Senegal and Mauritania in 2020. According to the International Organization for Migration, at least 1,200 people died or went missing when the crossing in 2021. The news agency AFP quotes the Spanish NGO Caminando Fronteras which puts this number at over 4,400 people. Also the Commissioner Johansson said that 1,200 were likely underestimated.

    The new situation on the Canary Islands is said to have prompted Frontex and the government in Madrid to advocate the envisaged launch of the joint operation in Senegal. With a status agreement, Frontex would be able to hand over refugees taken on board to Senegalese authorities or bring them back to the country itself by ship. The Guardia Civil wants to take over the leadership of such an operation, writes El Pais with reference to Spanish government circles. The government in Dakar is also said to have already informed the EU of its readiness for such an effort.

    The idea for an operational Frontex deployment in Senegal is at least three years old. Every year, Frontex Director Fabrice Leggeri assesses in a report on the implementation of the EU’s External Maritime Borders Regulation whether refugees rescued in its missions could disembark in the respective eligible third countries. In the annual report for 2018, Leggeri attested to the government in Senegal’s compliance with basic fundamental and human rights. While Frontex did not even consider disembarking refugees in Libya, Tunisia or Morocco, the director believes this would be possible with Senegal – as well as Turkey.

    Currently, the EU and its agencies have no concrete plans to conclude status agreements with other African countries, but Mauritania is also under discussion. Frontex is furthermore planning working (not status) arrangements with other governments in North and East Africa. Libya is of particular interest; after such a contract, Frontex could also complete Libya’s long-planned connection to the surveillance network EUROSUR. With a working agreement, the border agency would be able to regularly pass on information from its aerial reconnaissance in the Mediterranean to the Libyan coast guard, even outside of measures to counter distress situations at sea.

    https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t

    #Sénégal #asile #migrations #réfugiés #externalisation #frontières #contrôles_frontaliers #Afrique #Mauritanie #Afrique_de_l'Ouest #renvois #expulsions #AFIC #Risk_Analysis_Cell #services_secrets #police #coopération #accord #MOCADEM #Operational_Coordination_Mechanism_for_the_External_Dimension_of_Migration #accords_de_réadmission #accord_de_réadmission #frontières_maritimes #Atlantique #Seahorse_Atlantic #Hera

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    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des contrôles frontaliers :
    https://seenthis.net/messages/731749
    et plus précisément ici :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765327

    ping @isskein @reka @karine4

    • L’Union européenne veut déployer Frontex au large des côtes sénégalaises

      À l’occasion de la visite au Sénégal de cinq commissaires européennes, l’UE propose au gouvernement le déploiement de Frontex, l’agence européenne de garde-côtes et de gardes-frontières. La Commission européenne envisagerait un déploiement d’ici à l’été en cas d’accord avec les autorités sénégalaises.

      C’est pour l’instant une proposition faite par Ylva Johansson. La commissaire chargée des Affaires intérieures a évoqué la question avec les ministres des Affaires étrangères, des forces armées et de l’Intérieur ce vendredi à Dakar.

      Pour l’Union européenne, l’intérêt immédiat est de contrôler le trafic d’êtres humains avec les embarcations qui partent des côtes sénégalaises vers l’archipel espagnol des Canaries. Mais le principe serait aussi de surveiller les mouvements migratoires vers l’Europe via la Mauritanie ou bien la route plus longue via l’Algérie et la Libye.

      L’idée est une collaboration opérationnelle des garde-côtes et gardes-frontières de l’agence Frontex avec la gendarmerie nationale sénégalaise et sous sa direction. L’UE envisage le déploiement de navires, de personnel et de matériel. La commissaire européenne aux Affaires intérieures a évoqué par exemple des drones.

      L’agence Frontex de surveillance des frontières extérieures de l’Union est en train de monter en puissance : son effectif devrait s’élever à 10 000 gardes-côtes et gardes-frontières dans quatre ans, soit dix fois plus qu’en 2018. Elle n’a jamais été déployée hors d’Europe et cette proposition faite au Sénégal illustre à l’avance la priorité que va mettre l’Europe sur les questions migratoires lors du sommet avec l’Union africaine dans une semaine.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220211-l-union-europ%C3%A9enne-veut-d%C3%A9ployer-frontex-au-large-des-c%C3%B4

    • EU seeks to deploy border agency to Senegal

      European Commissioner Ylva Johansson on Friday offered to deploy the EU’s border agency to Senegal to help combat migrant smuggling, following a surge in perilous crossings to Spain’s Canary Islands.

      At a news conference in the Senegalese capital Dakar, Johansson said the arrangement would mark the first time that the EU border agency Frontex would operate outside Europe.

      Should the Senegalese government agree, the commissioner added, the EU could send surveillance equipment such as drones and vessels, as well as Frontex personnel.

      Deployed alongside local forces, the agents would “work together to fight the smugglers,” she said.

      “This is my offer and I hope that Senegal’s government is interested in this unique opportunity,” said Johansson, the EU’s home affairs commissioner.

      The announcement comes amid a sharp jump in attempts to reach the Canary Islands — a gateway to the EU — as authorities have clamped down on crossings to Europe from Libya.

      The Spanish archipelago lies just over 100 kilometres (60 miles) from the coast of Africa at its closest point.

      But the conditions in the open Atlantic are often dangerous, and would-be migrants often brave the trip in rickety wooden canoes known as pirogues.

      About 1,200 people died or went missing attempting the crossing in 2021, according to the UN’s International Organization for Migration (IOM).

      Spanish NGO Caminando Fronteras last month put the figure at over 4,400 people.

      Johansson also said on Friday that the 1,200-person figure was likely an underestimate.

      She added that she had discussed her Frontex proposal with Senegal’s armed-forces minister and foreign minister, and was due to continue talks with the interior minister on Friday.

      An agreement that would see Frontex agents deployed in Senegal could be finalised by the summer, she said.

      EU Competition Commissioner Margrethe Vestager, who was also at the news conference, said a Frontex mission in Senegal could also help tackle illegal fishing.

      Several top European Commission officials, including President Ursula von der Leyen, arrived in Senegal this week to prepare for a summit between the EU and the African Union on February 17-18.

      https://www.france24.com/en/live-news/20220211-eu-seeks-to-deploy-border-agency-to-senegal

    • EU: Tracking the Pact: Plan for Frontex to deploy “vessels, surveillance equipment, and carry out operational tasks” in Senegal and Mauritania

      The EU’s border agency is also due to open a “risk analysis cell” in Nouakchott, Mauritania, in autumn this year, according to documents obtained by Statewatch and published here. The two “action files” put heavy emphasis on the “prevention of irregular departures” towards the Canary Islands and increased cooperation on border management and anti-smuggling activities. Earlier this month, the Council authorised the opening of negotiations on status agreements that would allow Frontex to operate in both countries.

      Senegal: Fiche Action - Sénégal - Renforcement de la coopération avec l’agence Frontex (WK 7990/2022 INIT, LIMITE, 7 June 2022, pdf)

      Action 1: Jointly pursue contacts with the Senegalese authorities - and in particular the Ministry of the Interior, as well as other relevant authorities - at political and diplomatic level to achieve progress on the commitments made during the visit of President von der Leyen and Commissioners on 9-11 February 2022, in particular with regard to the fight against irregular immigration, and Frontex cooperation, as part of a comprehensive EU-Senegal partnership on migration and mobility. Take stock of Senegal’s political context (i.a. Casamance) and suggestions in order to agree on next steps and a calendar.

      Action 2: Taking up the elements of the previous negotiations with the relevant Senegalese authorities, and in the framework of the new working arrangement model, propose a working arrangement with Frontex in the short term, depending on the will and the interest of the Senegalese authorities to conclude such an arrangement.

      Action 3: Depending on the response from the Senegalese authorities, initiate steps towards the negotiation and, in the medium term, the conclusion of a status agreement allowing direct operational support from Frontex to Senegal, particularly in terms of prevention of crime and irregular migration, including in the fight against migrant smuggling and trafficking in human beings.

      Action 4 Give substance to the messages expressed by the Senegalese authorities in the framework of policy exchanges and work on joint programming (Joint Strategy Paper - JSP). Identify support and cooperation measures of major interest to the Senegalese authorities (e.g. explore with Senegal the interest in concluding a Talent Partnership with voluntary Member States, if progress is made in other aspects of migration cooperation; propose an anti-smuggling operational partnership and explore possibilities to strengthen cooperation and exchange of information with Europol). Make use of the Team Europe Initiative (TEI) on the Western Mediterranean and Atlantic route to frame cooperation projects on migration issues. Promote cooperation with Frontex on border management also in the broader framework of cooperation and exchanges with the Senegalese authorities.

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      Mauretania: Fiche Action - Mauritanie - Renforcement de la coopération avec l’agence Frontex (WK 7989/2022 INIT, LIMITE, 7 June 2022, pdf):

      Action 1: On the basis of the exchanges initiated and the cooperation undertaken with the Mauritanian authorities, identify the main priorities of the migration relationship. Determine the support and cooperation measures of major interest (e.g. support for the implementation of the National Migration Management Strategy, continuation of maritime strategy actions, protection of refugees and asylum seekers, support for reintegration, fight against smuggling networks, deployment of an additional surveillance and intervention unit of the “GAR-SI” type, creation of jobs for young people, involvement of the diaspora in the development of the country, etc.). Use the Team Europe Initiative (TEI) on the Western Mediterranean and Atlantic route to coordinate cooperation projects on migration issues, including on root causes.

      Action 2: Propose to the Mauritanian authorities the holding of an informal migration dialogue between the EU and Mauritania, focusing notably on the fight against migrant smuggling and border management, in order to best determine their needs in this area and identify the possibilities for Frontex support.

      Action 3: On the basis of the exchanges that took place between Frontex and the Mauritanian authorities in the first semester of 2022, finalise the exchanges on a working arrangement with Frontex, depending on their interest to conclude it.

      Action 4: Depending on the interest shown by the Mauritanian authorities, initiate diplomatic steps to propose the negotiation and conclusion of a status agreement allowing direct operational support from Frontex at Mauritania’s borders, in particular in the area of prevention of irregular departures, but also in the fight against migrant smuggling and other areas of interest to Mauritania, in the framework of the Frontex mandate.

      https://www.statewatch.org/news/2022/july/eu-tracking-the-pact-plan-for-frontex-to-deploy-vessels-surveillance-equ
      #Mauritanie #surveillance

  • Francia devolvió a España casi 16.000 migrantes en solo cinco meses

    Los números se han disparado coincidiendo con una mayor presión migratoria desde Canarias y con el blindaje que los franceses mantienen en los pasos compartidos.

    Los controles que ha impuesto Francia en sus puestos fronterizos con España como respuesta a la amenaza terrorista y a la covid están teniendo consecuencias en materia migratoria. Entre noviembre y marzo, las autoridades galas devolvieron a España 15.757 inmigrantes en situación irregular, más de 3.000 al mes, según datos de la policía francesa de fronteras divulgados por el diario francés Le Figaro (https://www.lefigaro.fr/actualite-france/clandestins-les-frontieres-ont-ete-verrouillees-avec-l-italie-et-l-espagne-) y confirmados a El PAÍS. Los números se han disparado respecto al mismo periodo del año anterior coincidiendo con una mayor presión migratoria desde Canarias, pero también con el blindaje que los franceses mantienen unilateralmente en los pasos compartidos.

    La inmensa mayoría de los inmigrantes, 12.288 personas, fueron devueltos cuando intentaban entrar en territorio francés. La cifra triplica la registrada entre noviembre de 2019 y marzo de 2020. Las restantes 3.469 personas fueron interceptadas en departamentos vecinos, en particular de los Pirineos Orientales, que hacen frontera con Cataluña. En este caso se trata de un aumento del 25%. En esos controles las autoridades francesas han detenido a 108 personas por facilitar el cruce de los migrantes por la frontera. “Pueden ser camioneros o compatriotas, no son necesariamente parte de una organización estructurada”, declaró a Le Figaro el portavoz adjunto de la policía francesa, Christian Lajarrige.

    España y Francia forman parte del espacio Schengen y, en teoría, no hay frontera entre los dos países. Pero, desde los ataques terroristas de 2015, París ha establecido controles fronterizos amparándose en un artículo del tratado europeo que le permite realizarlos por razones de “seguridad nacional”. El pasado mes de noviembre, tras los últimos atentados en Francia, su presidente, Emmanuel Macron, dobló el número de efectivos en las fronteras (https://elpais.com/internacional/2020-11-05/macron-refuerza-los-controles-en-la-frontera-con-espana-e-italia-ante-el-ter) y desplegó 4.800 policías, gendarmes y militares para establecer controles 24 horas al día. Macron, que teme el ascenso de la extrema derecha de Marine Le Pen en las elecciones presidenciales del año que viene, cerró además 19 puestos fronterizos con España.

    El refuerzo de los controles también ha repercutido en la frontera alpina entre Francia e Italia. Entre noviembre y marzo, Francia impidió la entrada a 23.537 personas, el doble que en el mismo periodo un año antes, según las cifras citadas. A ellos se añaden, 2.502 migrantes detenidos en territorio francés, un aumento del 39%.

    Para expulsar a los inmigrantes que entran irregularmente a su territorio, Francia y España se valen de un acuerdo bilateral de 2002 (https://elpais.com/politica/2018/11/02/actualidad/1541179682_837419.html) que les permite la devolución en las cuatro horas siguientes al paso de la frontera. El acuerdo contempla una serie de garantías, como que los inmigrantes sean entregados a la policía española o que se formalice por escrito su devolución. Los datos de la policía francesa no especifican cuántos inmigrantes han sido devueltos sobre la base de este acuerdo bilateral, pero fuentes policiales y los propios inmigrantes han señalado que la mayor parte se realiza sin que medie un solo trámite.

    Las abultadas cifras no significan, en cualquier caso, que todas las personas devueltas se queden en España. Los gendarmes controlan con celo puentes, estaciones, autobuses, coches y trenes, pero la mayoría de los migrantes lo vuelve a intentar tres, cuatro y hasta cinco veces hasta que finalmente consiguen cruzar. Entre marzo y abril EL PAÍS ha estado en contacto con 14 migrantes, la mayoría malienses, que tenían como objetivo llegar a París y a otras ciudades francesas. Todos, antes o después y tras varios intentos, lo lograron.

    Buena parte de los migrantes que estos meses se han dirigido a la frontera francesa proceden de Canarias. Tras meses bloqueados en las islas han conseguido llegar a la Península por sus propios medios o, en el caso de los más vulnerables, ha sido la Secretaría de Estado de Migraciones la que los ha derivado a centros de acogida en otras provincias. No se conoce cuántos de ellos deciden quedarse en España, pero siempre hay un porcentaje importante que se marcha a Francia y a otros países europeos para encontrarse con parientes y amigos.

    Estos flujos migratorios, los llamados movimientos secundarios, son una obsesión para París y Berlín que presionan a Madrid para que evite que los migrantes se muevan por el continente. Francia, de hecho, ya ha puesto sobre la mesa una reforma del tratado Schengen para revisar las normas que rigen el espacio de libre circulación en Europa y reforzar el control de fronteras interiores.

    https://elpais.com/espana/2021-04-24/francia-devolvio-a-espana-casi-16000-migrantes-en-solo-cinco-meses.html?ssm=

    #France #Espagne #renvois #expulsions #frontières #asile #migrations #réfugiés #chiffres #statistiques
    #accord_bilatéral #accord_de_réadmission #accords_de_réadmission

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    voir la liste des accords de réadmissions signés par des pays européens et utilisés pour renvoyer (directement sans leur donner la possibilité de déposer une demande d’asile) des personnes à la recherche d’un refuge :
    https://seenthis.net/messages/736091

  • Le #Kosovo va-t-il rejoindre les normes européennes ?

    3 avril - 18h30 : #Frontex a récemment conduit une #évaluation des systèmes #IT au Kosovo, pour préparer la mise en place d’un système compatible avec #Eurodac dans le cadre du projet « #Regional_Support_to _Protection-Sensitive_Migration_Management in the WB and Turkey ». En effet, le Kosovo a déjà des systèmes de collectes de #données efficaces mais qui ont été mis en place par les Américains et qui ne respectent pas les normes européennes. Par ailleurs, Le Bureau européen d’appui en matière d’asile (#EASO) a préparé un plan pour la mise en place d’un #système_d’asile au Kosovo aligné sur les #normes_européennes.

    Enfin, du fait de son statut particulier, le Kosovo n’a que peu d’#accords_de_réadmission pour expulser les ressortissant.e.s de pays tiers sur son territoire. L’idée de l’UE serait de mutualiser les retours à l’échelle des Balkans pour contourner cette difficulté.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/refugies-balkans-les-dernieres-infos

    #asile #migrations #réfugiés #frontières #Balkans #route_des_Balkans #réadmission #retours #renvois

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    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
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    Et plus précisément :
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  • European Commission Publishes Findings of the First Annual Assessment of Third Countries’ Cooperation on Readmission

    Following changes to the #Visa_Code in 2019, the Commission (https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/pdf/10022021_communication_on_enhancing_cooperation_on_return_and_readmission_) assessed the level of readmission cooperation with third countries and submitted a report to the Council. While the report itself is not public, a Communication published this week summarises the main findings of this assessment and sets out next steps regarding the EU’s own return policy and in relation to third countries.

    The Commission has completed its first factual assessment on readmission cooperation, an obligation that stems from the recently introduced Article 25a of the Visa Code. It is based on quantitative and qualitative data provided by Member States and Schengen Associated Countries and data collected by Eurostat and the European Border and Coast Guard Agency (Frontex) on return and irregular arrivals. The third countries covered by the assessment are not listed but based on the information regarding the selection criteria, it is likely to include around 50 countries.

    While the actual report which the Commission prepared for the consideration of the Council is not publicly available, a Communication published alongside it summarises the challenges of return procedures within the EU and highlights the gap between the number of return orders issues and readmission requests to third countries.

    The different obstacles that Member States face in returning people range from the level of cooperation of third country governments in the identification and issuance of travel documents to the refusal of some countries to accept non-voluntary returnees. Those obstacles are experienced differently, depending on which type of cooperation framework is used. Cooperation on readmission is improved through the deployment of electronic platforms for processing readmission applications (Readmission Case Management Systems – RCMS) and European Return or Migration Liaison Officers who are based in third countries.

    The Communication points out that for almost one third of the countries covered by the assessment, cooperation works well with most Member States, for almost another one third the level of cooperation is average and for more than one third the level of cooperation needs to be improved from the perspective of Member States.

    To address this, the Council will discuss more restrictive or more favourable visa measures for third countries as foreseen under the Visa Code. The Communication also makes reference to the usage of EU funding to support the objective of increasing returns, such as the Asylum Migration and Integration Fund (AMIF), the Border Management and Visa Instrument (BMVI), the Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument (NDICI), and the Instrument for Pre-accession Assistance (IPA III) as well as changes introduced in the proposal for the recast Return Directive. It recalls that work on readmission will be part of the partnerships the EU is pursuing and the new proposals as set out in the Pact on Migration and Asylum. In relation to this, the model of return sponsorship and the upcoming appointment of the Return Coordinator is mentioned.

    For Further Information:

    – ECRE, Return Policy: Desperately seeking evidence and balance, July 2019: https://www.ecre.org/wp-content/uploads/2019/07/Policy-Note-19.pdf
    - ECRE Comments on Recast Return Directive , November 2018: https://www.ecre.org/wp-content/uploads/2018/11/ECRE-Comments-Commission-Proposal-Return-Directive.pdf
    - ECRE, Return: No Safety in Numbers, November 2017: https://www.ecre.org/wp-content/uploads/2017/11/Policy-Note-09.pdf

    https://www.ecre.org/european-commission-publishes-findings-of-the-first-annual-assessment-of-third

    –-> Dans le bulletin hebdomadaire d’ECRE, il est fait état d’un rapport élaboré par la Commission sur une évaluation factuelle en matière de réadmission. Ecre dit à ce propos que « Les pays tiers couverts par l’évaluation ne sont pas énumérés mais, sur la base des informations relatives aux critères de sélection, il est probable qu’elle inclue une cinquantaine de pays. »
    Ce rapport n’est pas public.

    #externalisation #réadmission #accords_de_réadmission #UE #EU #Union_européenne #asile #migrations #réfugiés #pays_tiers #code_des_visas

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    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
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  • Rapporti di monitoraggio

    Sin dal 2016 il progetto ha pubblicato report di approfondimento giuridico sulle situazioni di violazione riscontrate presso le diverse frontiere oggetto delle attività di monitoraggio. Ciascun report affronta questioni ed aspetti contingenti e particolarmente interessanti al fine di sviluppare azioni di contenzioso strategico.

    Elenco dei rapporti pubblicati in ordine cronologico:

    “Le riammissioni di cittadini stranieri a Ventimiglia (giugno 2015): profili di illegittimità“

    Il report è stato redatto nel giugno del 2015 è costituisce una prima analisi delle principali criticità riscontrabili alla frontiera italo-francese verosimilmente sulla base dell’Accordo bilaterale fra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica francese sulla cooperazione transfrontaliera in materia di polizia e dogana (Accordo di Chambery)
    #Vintimille #Ventimiglia #frontière_sud-alpine #Alpes #Menton #accord_bilatéral #Accord_de_Chambéry #réadmissions

    Ajouté à la #métaliste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...
    https://seenthis.net/messages/736091
    Et plus précisément ici:
    https://seenthis.net/messages/736091#message887941

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    “Le riammissioni di cittadini stranieri alla frontiera di Chiasso: profili di illegittimità”

    Il report è stato redatto nell’estate del 2016 per evidenziare la situazione critica che si era venuta a creare in seguito al massiccio afflusso di cittadini stranieri in Italia attraverso la rotta balcanica scatenata dalla crisi siriana. La frontiera italo-svizzera è stata particolarmente interessata da numerosi tentativi di attraversamento del confine nei pressi di Como e il presente documento fornisce una analisi giuridica delle criticità riscontrate.

    Ajouté à la #métaliste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...
    https://seenthis.net/messages/736091
    Et plus précisément ici:
    https://seenthis.net/messages/736091#message887940

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    “Lungo la rotta del Brennero”

    Il report, redatto con la collaborazione della associazione Antenne Migranti e il contributo della fondazione Alex Langer nel 2017, analizza le dinamiche della frontiera altoatesina e sviluppa una parte di approfondimento sulle violazioni relative al diritto all’accoglienza per richiedenti asilo e minori, alle violazioni all’accesso alla procedura di asilo e ad una analisi delle modalità di attuazione delle riammissioni alla frontiera.

    #Brenner #Autriche

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    “Attività di monitoraggio ai confini interni italiani – Periodo giugno 2018 – giugno 2019”

    Report analitico che riporta i dati raccolti e le prassi di interesse alle frontiere italo-francesi, italo-svizzere, italo-austriache e italo slovene. Contiene inoltre un approfondimento sui trasferimenti di cittadini di paesi terzi dalle zone di frontiera indicate all’#hotspot di #Taranto e centri di accoglienza del sud Italia.

    #Italie_du_Sud

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    “Report interno sopralluogo Bosnia 27-31 ottobre 2019”

    Report descrittivo a seguito del sopralluogo effettuato da soci coinvolti nel progetto Medea dal 27 al 31 ottobre sulla condizione delle persone in transito in Bosnia. Il rapporto si concentra sulla descrizione delle strutture di accoglienza presenti nel paese, sull’accesso alla procedura di protezione internazionale e sulle strategie di intervento future.

    #Bosnie #Bosnie-Herzégovine

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    “Report attività frontiere interne terrestri, porti adriatici e Bosnia”

    Rapporto di analisi dettagliata sulle progettualità sviluppate nel corso del periodo luglio 2019 – luglio 2020 sulle diverse frontiere coinvolte (in particolare la frontiera italo-francese, italo-slovena, la frontiera adriatica e le frontiere coinvolte nella rotta balcanica). Le novità progettuali più interessanti riguardano proprio l’espansione delle progettualità rivolte ai paesi della rotta balcanica e alla Grecia coinvolta nelle riammissioni dall’Italia. Nel periodo ad oggetto del rapporto il lavoro ha avuto un focus principale legato ad iniziative di monitoraggio, costituzione della rete ed azioni di advocacy.

    #Slovénie #mer_Adriatique #Adriatique

    https://medea.asgi.it/rapporti

    #rapport #monitoring #medea #ASGI
    #asile #migrations #réfugiés #frontières
    #frontières_internes #frontières_intérieures #Balkans #route_des_balkans

    ping @isskein @karine4

  • Back to Mauritania: Frontex repatriates migrants arriving on Canary Islands

    On Monday, a Frontex operated repatriation flight took off from Spain’s Canary Islands for Mauritania. 51 African migrants were on board. This is the third such flight this year, says the Spanish Ombudsman. The repatriations are a result of a 2003 agreement signed between Spain and Mauritania.

    As the Spanish civil guard was still looking for three boats reported missing off the Canary Islands, other reports were coming through of a Frontex repatriation flight. The flight took off on Monday according to the news agency AFP and the Spanish Ombudsman. It was carrying 51 people aboard.

    “This is the third such flight this year,” the Spanish Ombudsman told Al Jazeera English. The flights are the result of a 2003 agreement signed between Spain and Mauritania. The agreement is part of the EU policy to tighten its borders.

    Officers working with the Spanish Ombudsman (Defensor del Pueblo) and the National Mechanism for the Prevention of Torture (MNP) have inspected each Frontex flight this year and produced reports about them. According to the reports, seen by InfoMigrants, one flight took off from Gran Canaria’s airport on January 20, another on January 27 and the third on February 17, both from Tenerife North airport. All had a destination of Noadhibou in Mauritania.

    February 17 flight

    On February 17, of the 51 people on board, not one held Mauritanian nationality. 36 were from Mali, 13 from Senegal, one person from Gabon and one from Ivory Coast. MNP personnel said they carried out three interviews during the flight but the results of those interviews have not been made public. In response to a question from InfoMigrants, regarding the 51 people’s arrival date on the Canary Islands, and whether or not they had been given the opportunity to reply for asylum, we were told that this was the only information publically available.

    Although there weren’t many details regarding the flight on February 17, for the flight on January 27, MNP officers noted several irregularities. Having pointed them out, they say they received “no response” from the deportation authorities. On this flight, they found that some of the officers conducting the flight failed to wear the requisite identification numbers on their vests.

    Irregularities

    Secondly, they pointed out that medical personnel who accompany the flights did not have the full clinical histories of the persons on board. Thirdly, they found that each of the 42 people on board the January 27 flight had an identical “fit to travel” document which had been filled out by doctors in the internment centers (CIE) prior to deportation and seemed to suggest that they had no medical problem which could impede their flight.

    In this case, states the MNP report, the 42 people on board arrived on the Canary Islands on December 23, 2019. One of those aboard had Mauritanian nationality, 38 people came from Mali and three from Senegal. The report notes that four of the people intended for repatriation to Mali came from regions deemed unsafe by the United Nations Refugee Agency (UNHCR), because of their security and humanitarian situation.

    Of these four, the report notes, two of them had applied for asylum inside the internment center for foreigners (CIE). Those two didn’t fly with the others and stayed with the group at the CIE which had applied for asylum. The report also says that all those deported were notified of the deportation the same day and no interpreter was identified.

    January 20 flight

    On January 20, 46 people were deported from Gran Canaria to Mauritania. On that flight, seven people held Mauritanian citizenship, 34 were from Mali, 4 were from Senegal and one came from Ivory Coast.

    On this flight the two officers from MNP noted inaccuracies in the documentation relative to the repatriation. Again, they noted that some of the repatriation officers from Frontex did not wear vests with visible identification numbers. In this case, they also noted “a strong police presence” which accompanied, in convoy, the group of those being deported, parking near the ladder into the plane with “obvious intimidating effect.”
    A police van standing in front of the Foreigner Internment Centre CIE in Madrid Spain Photo EPAPACO CAMPOS

    Several returnees also claimed to be minors and said that they had not been tested to ascertain their ages. There were also no interpreters present who could speak all the dialects of those being deported. Some of the deportees claimed that they had not been informed of the possibility of applying for asylum and they hadn’t been told in advance that the deportation was to take place.

    EU migration policy

    All of these flights took place in the framework of a 2003 agreement signed between Spain and Mauritania. According to an Amnesty International report from 2008, the EU’s policy on migration flows hinges around two main axes: “the clauses of readmission and the joint operations of the Frontex Agency.” These so-called “readmission agreements and readmission clauses” are inserted into co-operation and association agreements or development aid deals that various EU countries have made with various countries around its borders, which are designated ’safe’ countries. Amnesty calls this one of the EU’s “preferred weapons against illegal migration.”

    It essentially allows EU countries like Spain to send back nationals to Mauritania as well as “nationals of a third country who have entered the territory of one of the two parties irregularly.” The agreements, states Amnesty are “not illegal in themselves.” Amnesty questions however whether such agreements are “fully compliant with the human rights obligations with the states party to the agreement.”

    The rights that migrants should enjoy within these agreements are the “right to liberty and freedom from arbitrary detention; protection against torture or other ill-treatment; their rights to access a fair and satisfactory asylum procedure and protection from return to a country or territory where he or she would be at risk of serious human rights violations.”

    Frontex operations in West Africa

    According to Amnesty, Frontex’s operations added another layer to these agreements when it was set up in 2004. In 2006, Frontex put in place an operation to control irregular migration from West Africa to the Canary Islands. This includes supporting Spain with experts to interview migrants arriving on the Canary Islands in order to establish their country of origin, and to which country they can be sent back; as well as conducting joint sea patrols “close to the West African coast in order to stop unseaworthy boats from continuing their dangerous journey.” Germany, France, Italy, Luxembourg and Portugal have participated in these operations alongside Spain in the past.

    In 2015, the Spanish newspaper El País looked into the arrivals of migrants from Mauritania to the Canary Islands. It said that in 2008 the Spanish police “sent a team of five police officers to train their Mauritanian counterparts. A further 25 civil guards then joined them, working with six more local officers.” They have been operating as a single unit ever since, writes El País.

    Back in 2015, the unit had a civil guard helicopter for patrolling the Mauritanian coastline, alongside two 30-meter patrol boats and two 15-meter vessels. As well as patrols the team gathers intelligence. Mauritania has introduced harsher prison sentences for anyone caught human trafficking.

    El País notes that in return for this close collaboration, between 2007 and 2011, “Spain invested around €150 million in Mauritania.”

    ‘Hard to reconcile with a respect for fundamental rights’

    In 2011, the European Greens and the Migreurop group carried out a detailed report asking whether Frontex was providing guarantees for human rights. In it they noted that sending officers to gather intelligence and effectively try and prevent people from leaving a departure country to reach Europe “was hard to reconcile with a respect for […] fundamental rights.” The report continued: “Intervening upstream to stop the departure of an individual in order to prevent illegal immigration constitutes a violation of the right of every person to leave any country.” They note that this right is “enshrined in various binding international texts.”

    Additionally, “intervening to interrupt the journey of a migrant entitled to claim international protection is also a breach of the right to asylum and the principle of non-refoulement.”

    They described agreements like that between Spain and Mauritania as “part of a move to outsource migration controls, something that is often incompatible with respect for migrants’ rights.” Specifically, they wrote, “the bilateral agreements between Italy and Libya and between Spain and Mauritania have been and continue to be the framework for regular and unpunished violations of migrants’ fundamental rights.”
    Around 42 migrants are rescued off the south coast of Gran Canaria Canary Islands Spain 8 February 2016 Photo EPASpanish Maritime Rescue Service

    A report published on the French academic portal HAL in October 2019 also confirmed the earlier reports assessment that Mauritania was playing a key role in EU migration policy. The report written by Philippe Poutignat and Jocelyne Streiff-Fénart described Mauritania as “a testing ground for European policies of migration.” It also found that “successive Mauritanian governments since […] 2005 […] have tended to found their quest for international recognition on the willingness of Mauritania to respond to EU injunctions on the control of migration flows.”

    InfoMigrants requested information from Frontex regarding flights from Spain to Mauritania. A Frontex spokesperson said that Frontex provides some funding for these flights but they rely on the national authorities to conduct the flight itself. In 2019, they operated six flights from the Canary Islands to Mauritania, repatriating a total of 146 people.

    https://www.infomigrants.net/en/post/22908/back-to-mauritania-frontex-repatriates-migrants-arriving-on-canary-isl

    –- > publié en février 2020, je mets ici pour archivage

    #Mauritanie #Canaries #Frontex #renvois #vols #vols_frontex #asile #migrations #réfugiés #déboutés #réfugiés_mauritaniens #îles_Canaries #Espagne #accord #accord_de_réadmission #accords_de_réadmission

    • Los vuelos de deportación para migrantes: entre la opacidad, los malos tratos y el abandono

      El mecanismo para la prevención de la tortura ha documentado varias irregularidades en las repatriaciones de migrantes. Los colectivos denuncian opacidad y abandono de los migrantes en países de los que ni siquiera proceden, dejándoles desamparados y sin ningún tipo de ayuda.

      Una identificación de la Policía por perfil étnico es la primera parada en el largo recorrido que un migrante sufre hasta que es devuelto a su país de origen. A partir de ahí, comienza un periplo de duración indeterminada que terminará con la expulsión de España del migrante, que quizá ni siquiera será retornado a su territorio original debido a acuerdos bilaterales entre diversos Estados africanos. Hace unos días se llevó a cabo el primer vuelo de repatriación de migrantes, con destino Mauritania, tras la reapertura de los centros de internamiento para extranjeros (CIE) después de su cierre durante los peores momentos de la pandemia. Pero, ¿cómo es ese trayecto? ¿Encierran a todos ellos en los CIE hasta que son deportados? ¿Qué pasa una vez que llegan a sus países?

      Adrián Vives es el portavoz de CIEs No Valencia, y así explica el inicio de la travesía que un migrante experimenta hasta que es repatriado: «Cuando les para la Policía y ven que no pueden identificarse, les trasladan a comisaría y allí, en extranjería, les incoan un procedimiento sancionador administrativo por estancia irregular, y se propone la expulsión. Esa persona se va a la calle pero el proceso continúa, hasta que la Subdelegación del Gobierno del territorio resuelva la expulsión del territorio nacional». No será hasta una segunda parada, también por perfil étnico, según remarca Vives, cuando la Policía pida el internamiento del migrante, sobre el que ya consta una orden de expulsión, en un CIE.

      Pero en estos centros también hay personas que no están en situación irregular, sino que han entrado a España por un puesto fronterizo no habilitado. Es lo que sucede con las pateras. «En ese caso, se les hace una orden de devolución, que es igual que la de expulsión pero con la diferencia de que no tiene aparejada una prohibición de entrada a España posterior. La devolución también se da cuando un migrante, que ha sido expulsado de España y tiene prohibida la entrada, consigue entrar de nuevo en territorio nacional», explica el activista. Es en ese momento en el que, poco a poco, los CIE se van llenando de migrantes que no han cometido ningún delito pero a los que se les priva de libertad.

      Macrodevoluciones, vuelos comerciales y Frontex

      «A veces nos hemos encontrado que el Gobierno fletaba un avión de devolución a Senegal, por ejemplo, con 100 plazas, pero en toda la península tan solo tenían retenidos a 70 de ellos, así que buscarán otras 30 personas con supuestos rasgos senegaleses para llenar el vuelo. Por eso, desde la cuenta Stop Deportación de Twitter damos avisos para que los migrantes tengan más cuidado del habitual, porque las redadas se dan a lo largo y ancho de España», continúa explicando Vives. Estos casos suelen ser frecuentes en los macrovuelos o barcos, todos ellos pagados con dinero público a empresas privadas por contratos con el Ministerio del Interior, que se dirigen hacia el África subsahariana ya que el mayor número de internos en los CIE proceden de Marruecos y Argelia.


      https://twitter.com/Stopdeportacion/status/1324311996469301248

      Frontex, la Agencia Europea de la Guardia de Fronteras y Costas, también dispone de vuelos para las devoluciones. «En ellos suelen intervenir varios países, y hacen escala. Por ejemplo, uno que parte de Francia, para en España, y de España va al país de destino. En estos casos, trabajan conjuntamente la Agencia Europea y las policías de los diferentes países», desarrolla el valenciano. Él mismo afirma que la regulación recoge que por cada persona deportada tienen que acompañarle dos agentes de Policía, así que en el vuelo hay más policías que migrantes.

      Muchos de ellos también son devueltos en vuelos comerciales. De hecho, la protesta contra las deportaciones de extranjeros que intentan llevar a cabo desde la cuenta de Twitter mencionada está orientada a estos vuelos, «para que el resto de pasajeros sepa lo que está sucediendo y vea la barbaridad que es», en términos del portavoz, quien agrega que «si los CIE son una cosa opaca, las deportaciones son otro nivel». En lo que concierne a Argelia y Marruecos, las devoluciones se suelen llevar a cabo mediante barcos y en las mismas condiciones que en los vuelos.

      Irene Carrión, miembro de la Plataforma estatal por el cierre de los CIE y el fin de las deportaciones, indica que tienen varias formas de conocer si próximamente se realizará una devolución. «Si a una persona que conoces y que ya pesa sobre ella una orden de expulsión y le llaman de comisaría para firmar algo, sabemos que lo más probable es que será mentira y solo quieren que vaya para que la detengan, y que en esas 72 horas como máximo que puede estar en los calabozos sea deportada. Por eso es tan importante el trabajo en red que tenemos a nivel estatal, porque lo que sucede en un sitio puede también suceder en otro», comenta al respecto.
      Desamparo en el país de destino

      Más allá de que ciertos periodistas avisan al colectivo de los vuelos de repatriación, los activistas de la Plataforma están pendientes de las actuaciones por parte de Grande-Marlaska, ministro de Interior. «Hay veces que no sabemos la fecha pero sí que van a suceder. Hace unas semanas el ministro hizo una visita a Mauritania y en la agenda estaba la cooperación, y al final ha salido un vuelo con ese destino, así que cuando pasan estas cosas nos empezamos a preocupar y estar más atentas», agrega la activista. Ella misma remarca que no solo se deportan migrantes a países de África, sino que también se han dado casos de vuelos con destino Rumanía y América Latina, fundamentalmente Colombia y Ecuador, y Centroamérica.

      Para los migrantes expulsados, el no llegar a su país de origen es otro de los grandes problemas a los que se tienen que enfrentar. Carrión lo ejemplifica: «España tiene un acuerdo bilateral con Mauritania para estas deportaciones en el que el país africano acepta cualquier persona que, en teoría, haya pasado por su territorio durante su periplo migratorio, por lo que se dan situaciones en las que un extranjero es devuelto a un país que no conoce ni tiene ningún tipo de red creada». Vives añade que «cuando llegan, la Policía española se los entrega a las autoridades de ese país, como un traspaso».

      Una de las denuncias principales de estos colectivos es lo que está sucediendo con las personas de Mali que son devueltas a Mauritania. «Como España, al ratificar la Convención Europea de Ginebra, no puede devolver a los malienses a su país al ser una zona en conflicto, lo que hace es dárselos a Mauritania sin importarles si, a su vez, Mauritania les dejará tirados en Mali, que es lo que están haciendo», aclara Vives. Algo parecido sucede con Marruecos, quien también recibe migrantes que no son de origen marroquí: «Aquí lo que hacen es llevarlos a la frontera del desierto y los abandonan», aclara Carrión.

      La política de externalización de fronteras permite que países como Mauritania, Marruecos y Senegal hayan establecido un acuerdo mediante el que aceptan migrantes que no son nacionales propios pero que sí han transitado por esas regiones en el trayecto migratorio. Carrión puntualiza que «a veces no existen pruebas fehacientes de que haya sido así, pero el Gobierno español se aprovecha de ello. Son acuerdos bilaterales ligados al acceso de ayudas al desarrollo para los países receptores, por eso aceptan estos convenios que no les interesan».

      Sobre el trato que reciben los afectados a la llegada del país, la integrante de la Plataforma explica que, al fin y al cabo, ellos no han cometido ningún delito, pero «en Argelia sí que pasan dos o tres días en comisaría y por eso ellos siempre tienen mucho más miedo a la devolución que otros extranjeros». Por otra parte, si tienen la fortuna de no ser castigados a su vuelta, se les presenta un nuevo problema: han podido ser retornados a una ciudad desconocida, lejana de su región de origen, sin dinero y sin pertenencias. «Te detienen por la calle en España y en menos de tres días estás metido en un vuelo sin saber a qué zona del país de destino te van a llevar y sin haber podido coger ninguna de tus pertenencias. Imagínate cómo se siente esa persona», se explaya Carrión.
      Salvaguarda de sus derechos

      Pero, ¿quién vigila que se respeten los derechos humanos de los migrantes? De esto se encarga el mecanismo para la prevención de la tortura adscrito al Defensor del Pueblo, quienes a veces de manera sorpresiva o avisando acompañan a los migrantes en los traslados. Sus resoluciones no dejan lugar a dudas: «Siempre detectan irregularidades, como que no están cumplimentados los partes médicos necesarios para emprender el viaje, que no se les ha explicado toda la información necesaria en un idioma que los afectados entiendan o que se les ha hecho esperar en una sala durante horas. Eso es lo poco que podemos saber», determina el activista de CIEs No Valencia.

      «Se trata de recomendaciones. El Defensor del Pueblo insiste mucho en la sujeción mecánica, las esposas que les ponen a los migrantes, pues ha habido casos de que se han visto esposados con las manos atrás durante largos recorridos, sobre todo cuando los trasladan en un furgón policial desde el CIE en el que se encuentran a la ciudad de la que partirá el vuelo o el barco de deportación», agrega Carrión. Por otra parte, también se han dado situaciones en las que al migrante no le han permitido ir al servicio durante todo ese trayecto, que suele ser de horas. La integrante de la Plataforma apunta algunas pautas establecidas en un protocolo para evitar el maltrato más allá del físico, como que al afectado le tengan que avisar con unas horas pautadas antes del vuelo para que puedan enviar su ropa o avisar a algún contacto que tengan en la región a la que llegarán. «Los casos más extremos son las muertes, que también las hemos documentado, como la asfixia que se produjo por una venda con el que una persona estaba amordazada», incide Vives.

      Sobre el presente más inmediato de las devoluciones de migrantes en situación irregular, la pandemia no permite conocer muchas certezas. «El Gobierno español ha priorizado estas deportaciones, pese a que existen muchos cierres de fronteras internacionales, porque considera que son una solución a lo que piensa que es un problema. Que encierren a los argelinos sin saber si los podrán deportar es, cuanto menos, deprimente», concluye la propia Carrión.

      https://www.publico.es/politica/vuelos-deportacion-migrantes-opacidad-malos-tratos-abandono.html

  • La Tunisie, terre d’accueil… des politiques européennes

    Pays en paix, doté d’institutions démocratiques, soi-disant accueillant pour les migrant·es d’Afrique subsaharienne, la Tunisie apparaît comme le candidat idéal pour la sous-traitance des politiques migratoires de l’UE. Et, de fait, les institutions européennes ne ménagent pas leurs efforts pour obtenir un accord de réadmission avec les autorités de Tunis pour faire de ce pays le réceptacle de tous les indésirables d’Afrique du Nord et subsaharienne renvoyés d’Europe, jusqu’à imaginer y installer le plus grand hotspot d’Afrique.

    https://www.cairn.info/revue-plein-droit-2020-2-page-27.htm

    #Tunisie #migrations #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accords_de_réadmission #hotspot

    ping @_kg_ @karine4

  • Neuer Ausschaffungsdeal der Schweiz mit Bangladesch

    Le Bangladesh est le 62e pays avec lequel les autorités suisses ont conclu un accord de déportation. Selon l’accord, les dirigeants du Bangladesh s’engagent à aider la Suisse en matière de contrôle d’identité et à reprendre les personnes expulsées de force contre leur gré. Dans son communiqué de presse sur l’accord, le Secrétariat d’Etat aux migrations salue également sa brutalité remarquable en matière de refoulements : „Avec un taux de renvoi de près de 60 %, la Suisse est l’un des pays d’Europe les plus efficaces en matière d’exécution des renvois. De plus, le nombre de cas en suspens a été ramené de 7293 unités à l’automne 2013 à 3949 à la fin de l’année 2018.“

    https://migrant-solidarity-network.ch/fr/2019/04/18/neuer-ausschaffungsdeal-der-schweiz-mit-bangladesch
    l’ #efficacité prime, au pays de Heidi, évidemment
    #Bangladesh #accord_de_réadmission #asile #migrations #réfugiés #renvois #Suisse

    • La Suisse et le Bangladesh formalisent leur collaboration dans le domaine du retour

      La Suisse et le Bangladesh ont posé les bases juridiques de leur collaboration dans le domaine du retour des personnes qui se trouvent en situation irrégulière sur le territoire helvétique. À ce jour, la Suisse a ainsi conclu des accords en matière de retour avec 62 pays.

      Notamment lors de la crise migratoire de 2015-2016, de nombreux migrants ont quitté le Bangladesh pour gagner illégalement l’Europe en passant par la Méditerranée centrale. Le renvoi de requérants d’asile déboutés a été pour tous les pays européens source de difficultés dans la collaboration avec le Bangladesh.

      Au terme de rencontres bilatérales, la Suisse est parvenue à donner une base juridique à sa collaboration opérationnelle avec le Bangladesh dans le domaine du retour. Le Bangladesh s’est en effet engagé à épauler la Suisse dans les procédures d’identification des migrants et à reprendre ses ressortissants tenus de quitter la Suisse. Cette collaboration opérationnelle repose sur une convention que le Bangladesh a conclue avec l’Union européenne en 2017. Par ailleurs, des experts des autorités compétentes se rencontreront régulièrement afin de garantir une application correcte de l’accord conclu.
      Autres améliorations dans le domaine du retour

      Avec un taux de renvoi de près de 60 %, la Suisse est l’un des pays d’Europe les plus efficaces en matière d’exécution des renvois. De plus, le nombre de cas en suspens a été ramené de 7293 unités à l’automne 2013 à 3949 à la fin de l’année 2018. Au total, la Suisse a conclu des #accords_de_réadmission, des accords migratoires ou des partenariats migratoires avec 62 pays.

      https://www.admin.ch/gov/fr/accueil/documentation/communiques.msg-id-74615.html
      #expulsions
      ping @i_s_

  • La #Suisse renvoie à nouveau des réfugiés vers des #zones_de_guerre

    La Suisse a repris en mars dernier les renvois de réfugiés politiques vers des zones de guerre, indique dimanche le SonntagsBlick. Le journal se réfère à un document interne du Secrétariat d’Etat aux migrations.

    « Après une suspension de presque deux ans, le premier #rapatriement sous #escorte_policière a eu lieu en mars 2019 », est-il écrit dans le document publié par l’hebdomadaire alémanique.

    En novembre dernier, le Secrétariat d’Etat aux migrations (#SEM) a également expulsé un demandeur d’asile en #Somalie - une première depuis des années. Le SEM indique dans le même document que la Suisse figure parmi les pays européens les plus efficaces en matière d’exécution des expulsions : elle atteint une moyenne de 56% des requérants d’asile déboutés renvoyés dans leur pays d’origine, alors que ce taux est de 36% au sein de l’Union européenne.
    Retour des Erythréens encore « inacceptable »

    L’opération de contrôle des Erythréens admis provisoirement - lancée par la conseillère fédérale Simonetta Sommaruga lorsqu’elle était encore en charge de la Justice - n’a pratiquement rien changé à leur situation, écrit par ailleurs la SonntagsZeitung : sur les 2400 dossiers examinés par le SEM, seuls quatorze ont abouti à un retrait du droit de rester. « Il y a plusieurs facteurs qui rendent un ordre de retour inacceptable », déclare un porte-parole du SEM dans le journal. Parmi eux, l’#intégration avancée des réfugiés en Suisse garantit le droit de rester, explique-t-il.

    Réfugiés « voyageurs » renvoyés

    La NZZ am Sonntag relate pour sa part que le SEM a retiré l’asile politique l’année dernière à 40 réfugiés reconnus, parce qu’ils avaient voyagé dans leur pays d’origine. La plupart d’entre eux venaient du #Vietnam. Il y a également eu quelques cas avec l’Erythrée et l’Irak. Les autorités suisses avaient été mises au courant de ces voyages par les #compagnies_aériennes, qui ont l’obligation de fournir des données sur leurs passagers.

    https://www.rts.ch/info/suisse/10381705-la-suisse-renvoie-a-nouveau-des-refugies-vers-des-zones-de-guerre.html
    #efficacité #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #guerres #machine_à_expulsions #statistiques #chiffres #UE #EU #Europe #Erythrée #réfugiés_érythréens #voyage_au_pays #machine_à_expulser

    • La Suisse bat des #records en matière de renvois

      La Suisse transfère nettement plus de personnes vers d’autres Etats-Dublin que ce qu’elle n’en reçoit. Parfois aussi vers des Etats dont la situation de sécurité est précaire, comme l’#Afghanistan et la #Somalie.

      La Suisse a renvoyé près de 57% des demandeurs d’asile. Dans l’Union européenne, cette valeur s’élève à 37%. Aucun autre pays n’a signé autant d’accord de réadmission que la Suisse, soit 66, a rappelé à Keystone-ATS Daniel Bach, porte-parole du SEM, revenant sur une information du SonntagsBlick. De plus, elle met en oeuvre de manière conséquente l’accord de Dublin, comme le montre un document de l’office, daté du 11 avril.

      Cet accord fonctionne très bien pour la Suisse, peut-on y lire. Elle transfère sensiblement plus de personnes vers d’autres Etats-Dublin que ce qu’elle n’en reçoit. Les renvois vers des Etats dont la situation de sécurité est précaire, comme l’Afghanistan et la Somalie, sont rares, précise le document. L’hebdomadaire alémanique en conclut que la Suisse renvoie « à nouveau vers des régions de guerre ». Ce que contredit le SEM.

      La Suisse s’efforce d’exécuter, individuellement, des renvois légaux vers ces pays, précise le document du SEM. Et de lister un vol extraordinaire vers l’Irak en 2017, un renvoi sous escorte policière vers la Somalie en 2018 et vers l’Afghanistan en mars 2019.

      L’Afghanistan n’est pas considéré entièrement comme zone de guerre. Certaines régions, comme la capitale Kaboul, sont considérées comme raisonnables pour un renvoi, d’autres non. Cette évaluation n’a pas changé, selon le porte-parole. La même chose vaut pour la Somalie. Le SEM enquête sur les dangers de persécution au cas par cas.

      La Suisse suit une double stratégie en matière de renvoi. Elle participe à la politique européenne et aux mesures et instruments communs d’une part. D’autre part, elle mise sur la collaboration bilatérale avec les différents pays de provenance, par exemple en concluant des accords de migration.

      https://www.letemps.ch/suisse/suisse-bat-records-matiere-renvois
      #renvois_Dublin #Dublin #accords_de_réadmission

    • Schweiz schafft wieder in Kriegsgebiete aus

      Reisen nach Somalia und Afghanistan sind lebensgefährlich. Doch die Schweiz schafft in diese Länder aus. Sie ist darin Europameister.

      Der Trip nach Afghanistan war ein totaler Flop. Die ­Behörden am Hauptstadt-Flughafen von Kabul hatten sich quergestellt und die Schweizer Polizisten gezwungen, den Asylbewerber, den die Ordnungshüter eigentlich in seine Heimat zurückschaffen wollten, wieder mitzunehmen. Nach dieser gescheiterten Ausschaffung im September 2017 versuchte die Schweiz nie wieder, einen abgewiesenen Asylbewerber gegen seinen Willen nach Afghanistan abzuschieben.

      Erst vor wenigen Wochen änderte sich das: «Nach fast zweijähriger Blockade konnte im März 2019 erstmals wieder eine polizeilich begleitete Rückführung durchgeführt werden», so das Staatssekretariat für Migration (SEM) in einem internen Papier, das SonntagsBlick vorliegt.

      Ausschaffungen sind lebensgefährlich

      Die Entwicklung war ganz nach dem Geschmack der neuen Chefin: «Dank intensiver Verhandlungen» sei die «zwangsweise Rückkehr nach Afghanistan» wieder möglich, lobte Karin Keller-Sutter jüngst bei einer Rede anlässlich ihrer ersten 
100 Tage als Bundesrätin.

      Afghanistan, das sich im Krieg mit Taliban und Islamischem Staat (IS) befindet, gilt als Herkunftsland mit prekärster Sicherheitslage. Ausschaffungen dorthin sind höchst umstritten – anders gesagt: lebensgefährlich.

      Auch der Hinweis des Aussendepartements lässt keinen Zweifel: «Von Reisen nach Afghanistan und von Aufenthalten jeder Art wird abgeraten.» Diese Woche entschied der Basler Grosse Rat aus humanitären Gründen, dass ein junger Afghane nicht nach Österreich abgeschoben werden darf – weil er von dort in seine umkämpfte Heimat weitergereicht worden wäre.
      Erste Rückführung nach Somalia

      Noch einen Erfolg vermeldet das SEM: Auch nach Somalia war im November wieder die polizeiliche Rückführung eines Asylbewerbers gelungen – zum ersten Mal seit Jahren.

      Somalia fällt in die gleiche Kategorie wie Afghanistan, in die Kategorie Lebensgefahr. «Solange sich die Lage vor Ort nicht nachhaltig verbessert, sollte die Schweiz vollständig auf Rückführungen nach Afghanistan und Somalia verzichten», warnt Peter Meier von der Schweizerischen Flüchtlingshilfe.

      Das SEM hält dagegen: Wer rückgeführt werde, sei weder persönlich verfolgt, noch bestünden völkerrechtliche, humanitäre oder technische Hindernisse. Ob es sich bei den Abgeschobenen um sogenannte Gefährder handelt – also um potenzielle Terroristen und ­Intensivstraftäter – oder lediglich um harmlose Flüchtlinge, lässt das SEM offen.
      56 Prozent werden zurückgeschafft

      Was die beiden Einzelfälle andeuten, gilt gemäss aktuellster Asylstatistiken generell: Wir sind Abschiebe-Europameister! «Die Schweiz zählt auf europäischer Ebene zu den effizientesten Ländern beim Wegweisungsvollzug», rühmt sich das SEM im besagten internen Papier. In Zahlen: 56 Prozent der abgewiesenen Asylbewerber werden in ihr Herkunftsland zurückgeschafft. Der EU-Durchschnitt liegt bei 36 Prozent.

      Die Schweiz beteiligt sich nämlich nicht nur an der europäischen Rückkehrpolitik, sondern hat auch direkte Abkommen mit 64 Staaten getroffen; dieses Jahr kamen Äthiopien und Bangladesch hinzu: «Dem SEM ist kein Staat bekannt, der mehr Abkommen abgeschlossen hätte.»

      Zwar ist die Schweiz stolz auf ihre humanitäre Tradition, aber nicht minder stolz, wenn sie in Sachen Ausschaffung kreative Lösungen findet. Zum Beispiel: Weil Marokko keine Sonderflüge mit gefesselten Landsleuten akzeptiert, verfrachtet die Schweiz abgewiesene Marokkaner aufs Schiff – «als fast einziger Staat Europas», wie das SEM betont. Oder diese Lösung: Während die grosse EU mit Nigeria seit Jahren erfolglos an einem Abkommen herumdoktert, hat die kleine Schweiz seit 2011 ihre Schäfchen im Trockenen. Das SEM nennt seinen Deal mit Nigeria «ein Musterbeispiel» für die nationale Migrationspolitik.
      Weniger als 4000 Ausreisepflichtige

      Entsprechend gering sind die Pendenzen im Vollzug. Zwar führen ­Algerien, Äthiopien und Eritrea die Liste der Staaten an, bei denen Abschiebungen weiterhin auf Blockaden stossen. Aber weniger als 4000 Personen fielen Ende 2018 in die Kategorie abgewiesener Asylbewerber, die sich weigern auszureisen oder deren Heimatland sich bei Ausschaffungen querstellt. 2012 waren es beinahe doppelt so viele. Nun sind es so wenige wie seit zehn Jahren nicht mehr.

      Zum Vergleich: Deutschland meldete im gleichen Zeitraum mehr als 200’000 ausreisepflichtige Personen. Diese Woche beschloss die Bundesregierung weitere Gesetze für eine schnellere Abschiebung.

      Hinter dem Bild einer effizienten Schweizer Abschiebungsmaschinerie verbirgt sich ein unmenschliches Geschäft: Es geht um zerstörte Leben, verlorene Hoffnung, um Ängste, Verzweiflung und Not. Rückführungen sind keine Flugreisen, sondern eine schmutzige Angelegenheit – Spucke, Blut und Tränen inklusive. Bei Sonderflügen wird unter Anwendung von Gewalt gefesselt, es kommt zu Verletzungen bei Asylbewerbern wie Polizisten. Selten hört man davon.
      Gezielte Abschreckung

      Die Schweiz verfolge eine Vollzugspraxis, die auf Abschreckung ziele und nicht vor Zwangsausschaffungen in Länder mit prekärer Sicherheits- und Menschenrechtslage haltmache, kritisiert Peter Meier von der Flüchtlingshilfe: «Das Justizdepartement gibt dabei dem ­innenpolitischen Druck nach.»

      Gemeint ist die SVP, die seit Jahren vom Asylchaos spricht. Das Dublin-System, das regeln soll, welcher Staat für die Prüfung eines Asylgesuchs zuständig ist, funktioniere nicht, so einer der Vorwürfe. «Selbst jene, die bereits in einem anderen Land registriert wurden, können oft nicht zurückgeschickt werden», heisst es im Positionspapier der SVP zur Asylpolitik.

      Das SEM sieht auch das anders: «Für kaum ein europäisches Land funktioniert Dublin so gut wie für die Schweiz», heisst es in dem internen Papier. Man überstelle deutlich mehr Personen an Dublin-Staaten, als man selbst von dort aufnehme. Die neusten Zahlen bestätigen das: 1760 Asylbewerber wurden im letzten Jahr in andere Dublin-Staaten überstellt. Nur 885 Menschen nahm die Schweiz von ihnen auf.

      «Ausnahmen gibt es selbst bei 
besonders verletzlichen Personen kaum», kritisiert die Flüchtlings­hilfe; die Dublin-Praxis sei äusserst restriktiv.

      Das Schweizer Abschiebewesen hat offenbar viele Seiten, vor allem aber ist es gnadenlos effizient.

      https://www.blick.ch/news/politik/erste-abschiebungen-seit-jahren-nach-afghanistan-und-somalia-schweiz-schafft-w

  • L’agenda européen en matière de migration : l’UE doit poursuivre les progrès accomplis au cours des quatre dernières années

    Dans la perspective du Conseil européen de mars, la Commission dresse aujourd’hui le bilan des progrès accomplis au cours des quatre dernières années et décrit les mesures qui sont encore nécessaires pour relever les défis actuels et futurs en matière de migration.

    Face à la crise des réfugiés la plus grave qu’ait connu le monde depuis la Seconde Guerre mondiale, l’UE est parvenue à susciter un changement radical en matière de gestion des migrations et de protection des frontières. L’UE a offert une protection et un soutien à des millions de personnes, a sauvé des vies, a démantelé des réseaux de passeurs et a permis de réduire le nombre d’arrivées irrégulières en Europe à son niveau le plus bas enregistré en cinq ans. Néanmoins, des efforts supplémentaires sont nécessaires pour assurer la pérennité de la politique migratoire de l’UE, compte tenu d’un contexte géopolitique en constante évolution et de l’augmentation régulière de la pression migratoire à l’échelle mondiale (voir fiche d’information).

    Frans Timmermans, premier vice-président, a déclaré : « Au cours des quatre dernières années, l’UE a accompli des progrès considérables et obtenu des résultats tangibles dans l’action menée pour relever le défi de la migration. Dans des circonstances très difficiles, nous avons agi ensemble. L’Europe n’est plus en proie à la crise migratoire que nous avons traversée en 2015, mais des problèmes structurels subsistent. Les États membres ont le devoir de protéger les personnes qu’ils abritent et de veiller à leur bien-être. Continuer à coopérer solidairement dans le cadre d’une approche globale et d’un partage équitable des responsabilités est la seule voie à suivre si l’UE veut être à la hauteur du défi de la migration. »

    Federica Mogherini, haute représentante et vice-présidente, a affirmé : « Notre collaboration avec l’Union africaine et les Nations unies porte ses fruits. Nous portons assistance à des milliers de personnes en détresse, nous en aidons beaucoup à retourner chez elles en toute sécurité pour y démarrer une activité, nous sauvons des vies, nous luttons contre les trafiquants. Les flux ont diminué, mais ceux qui risquent leur vie sont encore trop nombreux et chaque vie perdue est une victime de trop. C’est pourquoi nous continuerons à coopérer avec nos partenaires internationaux et avec les pays concernés pour fournir une protection aux personnes qui en ont le plus besoin, remédier aux causes profondes de la migration, démanteler les réseaux de trafiquants, mettre en place des voies d’accès à une migration sûre, ordonnée et légale. La migration constitue un défi mondial que l’on peut relever, ainsi que nous avons choisi de le faire en tant qu’Union, avec des efforts communs et des partenariats solides. »

    Dimitris Avramopoulos, commissaire pour la migration, les affaires intérieures et la citoyenneté, a déclaré : « Les résultats de notre approche européenne commune en matière de migration parlent d’eux-mêmes : les arrivées irrégulières sont désormais moins nombreuses qu’avant la crise, le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes a porté la protection commune des frontières de l’UE à un niveau inédit et, en collaboration avec nos partenaires, nous travaillons à garantir des voies d’entrée légales tout en multipliant les retours. À l’avenir, il est essentiel de poursuivre notre approche commune, mais aussi de mener à bien la réforme en cours du régime d’asile de l’UE. En outre, il convient, à titre prioritaire, de mettre en place des accords temporaires en matière de débarquement. »

    Depuis trois ans, les chiffres des arrivées n’ont cessé de diminuer et les niveaux actuels ne représentent que 10 % du niveau record atteint en 2015. En 2018, environ 150 000 franchissements irréguliers des frontières extérieures de l’UE ont été détectés. Toutefois, le fait que le nombre d’arrivées irrégulières ait diminué ne constitue nullement une garantie pour l’avenir, eu égard à la poursuite probable de la pression migratoire. Il est donc indispensable d’adopter une approche globale de la gestion des migrations et de la protection des frontières.

    Des #mesures immédiates s’imposent

    Les problèmes les plus urgents nécessitant des efforts supplémentaires sont les suivants :

    Route de la #Méditerranée_occidentale : l’aide au #Maroc doit encore être intensifiée, compte tenu de l’augmentation importante des arrivées par la route de la Méditerranée occidentale. Elle doit comprendre la poursuite de la mise en œuvre du programme de 140 millions d’euros visant à soutenir la gestion des frontières ainsi que la reprise des négociations avec le Maroc sur la réadmission et l’assouplissement du régime de délivrance des visas.
    #accords_de_réadmission #visas

    Route de la #Méditerranée_centrale : améliorer les conditions d’accueil déplorables en #Libye : les efforts déployés par l’intermédiaire du groupe de travail trilatéral UA-UE-NU doivent se poursuivre pour contribuer à libérer les migrants se trouvant en #rétention, faciliter le #retour_volontaire (37 000 retours jusqu’à présent) et évacuer les personnes les plus vulnérables (près de 2 500 personnes évacuées).
    #vulnérabilité #évacuation

    Route de la #Méditerranée_orientale : gestion des migrations en #Grèce : alors que la déclaration UE-Turquie a continué à contribuer à la diminution considérable des arrivées sur les #îles grecques, des problèmes majeurs sont toujours en suspens en Grèce en ce qui concerne les retours, le traitement des demandes d’asile et la mise à disposition d’un hébergement adéquat. Afin d’améliorer la gestion des migrations, la Grèce devrait rapidement mettre en place une stratégie nationale efficace comprenant une organisation opérationnelle des tâches.
    #accord_ue-turquie

    Accords temporaires en matière de #débarquement : sur la base de l’expérience acquise au moyen de solutions ad hoc au cours de l’été 2018 et en janvier 2019, des accords temporaires peuvent constituer une approche européenne plus systématique et mieux coordonnée en matière de débarquement­. De tels accords mettraient en pratique la #solidarité et la #responsabilité au niveau de l’UE, en attendant l’achèvement de la réforme du #règlement_de_Dublin.
    #Dublin

    En matière de migration, il est indispensable d’adopter une approche globale, qui comprenne des actions menées avec des partenaires à l’extérieur de l’UE, aux frontières extérieures, et à l’intérieur de l’UE. Il ne suffit pas de se concentrer uniquement sur les problèmes les plus urgents. La situation exige une action constante et déterminée en ce qui concerne l’ensemble des éléments de l’approche globale, pour chacun des quatre piliers de l’agenda européen en matière de migration :

    1. Lutte contre les causes de la migration irrégulière : au cours des quatre dernières années, la migration s’est peu à peu fermement intégrée à tous les domaines des relations extérieures de l’UE :

    Grâce au #fonds_fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique, plus de 5,3 millions de personnes vulnérables bénéficient actuellement d’une aide de première nécessité et plus de 60 000 personnes ont reçu une aide à la réintégration après leur retour dans leur pays d’origine.
    #fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique

    La lutte contre les réseaux de passeurs et de trafiquants a encore été renforcée. En 2018, le centre européen chargé de lutter contre le trafic de migrants, établi au sein d’#Europol, a joué un rôle majeur dans plus d’une centaine de cas de trafic prioritaires et des équipes communes d’enquête participent activement à la lutte contre ce trafic dans des pays comme le #Niger.
    Afin d’intensifier les retours et la réadmission, l’UE continue d’œuvrer à la conclusion d’accords et d’arrangements en matière de réadmission avec les pays partenaires, 23 accords et arrangements ayant été conclus jusqu’à présent. Les États membres doivent maintenant tirer pleinement parti des accords existants.
    En outre, le Parlement européen et le Conseil devraient adopter rapidement la proposition de la Commission en matière de retour, qui vise à limiter les abus et la fuite des personnes faisant l’objet d’un retour au sein de l’Union.

    2. Gestion renforcée des frontières : créée en 2016, l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes est aujourd’hui au cœur des efforts déployés par l’UE pour aider les États membres à protéger les frontières extérieures. En septembre 2018, la Commission a proposé de renforcer encore le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes et de doter l’Agence d’un corps permanent de 10 000 garde-frontières, afin que les États membres puissent à tout moment bénéficier pleinement du soutien opérationnel de l’UE. La Commission invite le Parlement européen et les États membres à adopter la réforme avant les élections au Parlement européen. Afin d’éviter les lacunes, les États membres doivent également veiller à un déploiement suffisant d’experts et d’équipements auprès de l’Agence.

    3. Protection et asile : l’UE continuera à apporter son soutien aux réfugiés et aux personnes déplacées dans des pays tiers, y compris au Moyen-Orient et en Afrique, ainsi qu’à offrir un refuge aux personnes ayant besoin d’une protection internationale. Plus de 50 000 personnes réinstallées l’ont été dans le cadre de programmes de l’UE depuis 2015. L’un des principaux enseignements de la crise migratoire est la nécessité de réviser les règles de l’UE en matière d’asile et de mettre en place un régime équitable et adapté à l’objectif poursuivi, qui permette de gérer toute augmentation future de la pression migratoire. La Commission a présenté toutes les propositions nécessaires et soutient fermement une approche progressive pour faire avancer chaque proposition. Les propositions qui sont sur le point d’aboutir devraient être adoptées avant les élections au Parlement européen. La Commission continuera de travailler avec le Parlement européen et le Conseil pour progresser vers l’étape finale.

    4. Migration légale et intégration : les voies de migration légale ont un effet dissuasif sur les départs irréguliers et sont un élément important pour qu’une migration ordonnée et fondée sur les besoins devienne la principale voie d’entrée dans l’UE. La Commission présentera sous peu une évaluation complète du cadre de l’UE en matière de migration légale. Parallèlement, les États membres devraient développer le recours à des projets pilotes en matière de migration légale sur une base volontaire. L’intégration réussie des personnes ayant un droit de séjour est essentielle au bon fonctionnement de la migration et plus de 140 millions d’euros ont été investis dans des mesures d’intégration au titre du budget de l’UE au cours de la période 2015-2017.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-19-1496_fr.htm
    –-> Quoi dire plus si ce n’est que... c’est #déprimant.
    #Business_as_usual #rien_ne_change
    #hypocrisie
    #langue_de_bois
    #à_vomir
    ....

    #UE #EU #politique_migratoire #asile #migrations #réfugiés #frontières

  • Report to the EU Parliament on #Frontex cooperation with third countries in 2017

    A recent report by Frontex, the EU’s border agency, highlights the ongoing expansion of its activities with non-EU states.

    The report covers the agency’s cooperation with non-EU states ("third countries") in 2017, although it was only published this month.

    See: Report to the European Parliament on Frontex cooperation with third countries in 2017: http://www.statewatch.org/news/2019/feb/frontex-report-ep-third-countries-coop-2017.pdf (pdf)

    It notes the adoption by Frontex of an #International_Cooperation_Strategy 2018-2020, “an integral part of our multi-annual programme” which:

    “guides the Agency’s interactions with third countries and international organisations… The Strategy identified the following priority regions with which Frontex strives for closer cooperation: the Western Balkans, Turkey, North and West Africa, Sub-Saharan countries and the Horn of Africa.”

    The Strategy can be found in Annex XIII to the 2018-20 Programming Document: http://www.statewatch.org/news/2019/feb/frontex-programming-document-2018-20.pdf (pdf).

    The 2017 report on cooperation with third countries further notes that Frontex is in dialogue with Senegal, #Niger and Guinea with the aim of signing Working Agreements at some point in the future.

    The agency deployed three Frontex #Liaison_Officers in 2017 - to Niger, Serbia and Turkey - while there was also a #European_Return_Liaison_Officer deployed to #Ghana in 2018.

    The report boasts of assisting the Commission in implementing informal agreements on return (as opposed to democratically-approved readmission agreements):

    "For instance, we contributed to the development of the Standard Operating Procedures with #Bangladesh and the “Good Practices for the Implementation of Return-Related Activities with the Republic of Guinea”, all forming important elements of the EU return policy that was being developed and consolidated throughout 2017."

    At the same time:

    “The implementation of 341 Frontex coordinated and co-financed return operations by charter flights and returning 14 189 third-country nationals meant an increase in the number of return operations by 47% and increase of third-country nationals returned by 33% compared to 2016.”

    Those return operations included Frontex’s:

    “first joint return operation to #Afghanistan. The operation was organised by Hungary, with Belgium and Slovenia as participating Member States, and returned a total of 22 third country nationals to Afghanistan. In order to make this operation a success, the participating Member States and Frontex needed a coordinated support of the European Commission as well as the EU Delegation and the European Return Liaison Officers Network in Afghanistan.”

    http://www.statewatch.org/news/2019/feb/frontex-report-third-countries.htm
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers
    #Balkans #Turquie #Afrique_de_l'Ouest #Afrique_du_Nord #Afrique_sub-saharienne #Corne_de_l'Afrique #Guinée #Sénégal #Serbie #officiers_de_liaison #renvois #expulsions #accords_de_réadmission #machine_à_expulsion #Hongrie #Belgique #Slovénie #réfugiés_afghans

    • EP civil liberties committee against proposal to give Frontex powers to assist non-EU states with deportations

      The European Parliament’s civil liberties committee (LIBE) has agreed its position for negotiations with the Council on the new Frontex Regulation, and amongst other things it hopes to deny the border agency the possibility of assisting non-EU states with deportations.

      The position agreed by the LIBE committee removes Article 54(2) of the Commission’s proposal, which says:

      “The Agency may also launch return interventions in third countries, based on the directions set out in the multiannual strategic policy cycle, where such third country requires additional technical and operational assistance with regard to its return activities. Such intervention may consist of the deployment of return teams for the purpose of providing technical and operational assistance to return activities of the third country.”

      The report was adopted by the committee with 35 votes in favour, nine against and eight abstentions.

      When the Council reaches its position on the proposal, the two institutions will enter into secret ’trilogue’ negotiations, along with the Commission.

      Although the proposal to reinforce Frontex was only published last September, the intention is to agree a text before the European Parliament elections in May.

      The explanatory statement in the LIBE committee’s report (see below) says:

      “The Rapporteur proposes a number of amendments that should enable the Agency to better achieve its enhanced objectives. It is crucial that the Agency has the necessary border guards and equipment at its disposal whenever this is needed and especially that it is able to deploy them within a short timeframe when necessary.”

      European Parliament: Stronger European Border and Coast Guard to secure EU’s borders: http://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20190211IPR25771/stronger-european-border-and-coast-guard-to-secure-eu-s-borders (Press release, link):

      “- A new standing corps of 10 000 operational staff to be gradually rolled out
      - More efficient return procedures of irregular migrants
      - Strengthened cooperation with non-EU countries

      New measures to strengthen the European Border and Coast Guard to better address migratory and security challenges were backed by the Civil Liberties Committee.”

      See: REPORT on the proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council on the European Border and Coast Guard and repealing Council Joint Action n°98/700/JHA, Regulation (EU) n° 1052/2013 of the European Parliament and of the Council and Regulation (EU) n° 2016/1624 of the European Parliament and of the Council: http://www.statewatch.org/news/2019/feb/ep-libe-report-frontex.pdf (pdf)

      The Commission’s proposal and its annexes can be found here: http://www.statewatch.org/news/2018/sep/eu-soteu-jha-proposals.htm

      http://www.statewatch.org/news/2019/feb/ep-new-frontex-libe.htm

  • OSAR | Éthiopie : est-il vraiment urgent de renvoyer les requérant d’asile déboutés ?
    https://asile.ch/2019/01/17/osar-ethiopie-est-il-vraiment-urgent-de-renvoyer-les-requerant-dasile-deboutes

    L’accord prévu entre la Suisse et l’Éthiopie portant sur la réadmission des demandeurs d’asile éthiopiens déboutés prévoit une étroite collaboration avec les services secrets éthiopiens. Ces derniers seraient chargés de l’identification des demandeurs d’asile concernés. L’article paru dans Planète Exil en novembre 2018 en problématise la pertinence tout autant que la procédure. Dans un communiqué […]

  • 21.11.2018 – UE - Tunisie - Conseil d’association - Priorités stratégiques

    Décision n° 1/2018 du Conseil d’association UE-Tunisie du 9 novembre 2018 adoptant les priorités stratégiques UE-Tunisie pour la période 2018-2020

    (...)

    Consolider le partenariat privilégié UE-Tunisie : priorités stratégiques pour la période 2018-2020

    (...)

    2.3. Rapprochement entre les peuples, mobilité et migration

    Le rapprochement entre les sociétés tunisiennes et européennes constitue un pilier essentiel du partenariat privilégié, à travers le renforcement des échanges entre peuples, sociétés et cultures. Cette dimension mobilité revêt une importance particulière dans la mise en œuvre du partenariat pour la Jeunesse. La mise en œuvre effective de l’association de la Tunisie à Horizon 2020 et sa participation à Europe Créative et Erasmus+ seront les pierres angulaires de ces efforts.

    La gestion concertée de la migration est une priorité politique, tant pour la Tunisie que pour l’Union européenne. Les deux parties s’engagent à intensifier le dialogue et la coopération, notamment par la mise en œuvre du partenariat pour la mobilité, le renforcement de la lutte contre les causes profondes de la migration irrégulière, ainsi qu’une disponibilité européenne pour soutenir la mise en place d’un système d’asile tunisien. Cette coopération, qui reflétera aussi la dimension régionale de ces problématiques, inclura :

    -- la mise en œuvre de la stratégie nationale tunisienne en matière de migration, couvrant également l’asile et la protection internationale, y inclus la mise en œuvre d’un cadre législatif approprié,

    -- la conclusion des négociations d’accords de réadmission et de facilitation des visas,

    -- la bonne gouvernance de la migration légale, par une meilleure coordination avec les États membres de l’Union européenne dans le respect de leurs compétences, y compris à travers la mise en place de schémas pilotes de mobilité et une meilleure intégration des migrants dans les pays hôtes,

    --

    le soutien à la mobilisation des Tunisiens de l’étranger pour les investissements dans les secteurs innovants en Tunisie,

    -- le soutien à la prévention de la migration irrégulière, en particulier par une meilleure prise en compte des questions migratoires dans les stratégies de développement ; ceci passe également par une gestion des frontières renforcée et par des campagnes de sensibilisation sur les risques de la migration irrégulière,

    -- le soutien aux activités de prévention, et de lutte contre le trafic des migrants et la traite des êtres humains, y compris à travers la détection et la poursuite des réseaux criminels, et

    -- la consolidation de la coopération en matière de retour et réadmission, y compris à travers le soutien à la réinsertion durables des Tunisiens de retour.

    –-> https://eur-lex.europa.eu/legal-content/FR/TXT/?uri=uriserv:OJ.L_.2018.293.01.0039.01.FRA&toc=OJ:L:2018:293:TOC

    http://www.europeanmigrationlaw.eu/fr/articles/actualites/ue-tunisie-conseil-d-association-priorites-strategiques.html
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Tunisie #EU #UE #Europe

    Commentaire de Claudia Charles sur la mailing-list Migreurop :

    En complément du message envoyé par Alizée, voici un article sur la décision n° 1/2018 du conseil d’association (en vertu de l’#accord_d'association UE - Tunisie) "adoptant les priorités stratégiques UE - Tunisie pour la période 2018 - 2020

    Le point sur « rapprochement entre les peuples, mobilité et migration » se résume (rien de nouveau) à l’adoption, par la Tunisie, d’une réglementation en matière de migration et d’asile, des mesurettes concernant la mobilité (ce qui était déjà dit à multiples occasions et enceintes (processus de Rabat, Sommet de Malte, FFU, partenariat pour la mobilité), et les #accords_de_réadmission / facilitation de #visa.

    L’#OIM aura sa part du gâteau : « la consolidation de la coopération en matière de retour et #réadmission, y compris à travers le soutien à la #réinsertion durables des Tunisiens de retour. »

    #IOM #retours #renvois #expulsions

    ping @_kg_

    • L’émigration irrégulière : Conception de l’opération et parade

      L’émigration vers l’Europe n’est pas un phénomène nouveau en Tunisie car elle date depuis 1970. Par contre, l’émigration irrégulière (la #Harga) entre les côtes tunisiennes et italiennes a commencé en 1990 lorsque l’#Italie a ratifié les accords #Schengen imposant ainsi des #visas d’entrée pour les ressortissants tunisiens.

      Une étude élaborée par le Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES) montre qu’avant la révolution de 2011, 30% des Tunisiens de moins de 35 ans exprimaient le désir de migrer vers l’Europe. En raison de la #crise_économique qui ne cesse de frapper le pays durant la période de transition démocratique, ce chiffre a grimpé à 54% en 2017.

      La recrudescence de l’#émigration clandestine à partir de 2015 s’est traduite par des chiffres très alarmants. En effet, 119.369 migrants sont arrivés en Italie en 2017 alors que le nombre de victimes en 2016 est de 5000 selon un rapport publié par les Nations Unies.

      Face à cette situation préoccupante, l’Europe cherche à coordonner avec les #pays_de_transit en vue de trouver une solution à ce quelle considère une menace asymétrique qui pèse sur la sécurité de l’Occident.

      Aujourd’hui, les causes de l’émigration irrégulière sont connues et toute solution au problème doit passer par une combinaison de mesures politiques, économiques, sociales et sécuritaires.
      Sachant que les mesures politiques et socio-économiques ont fait l’objet de plusieurs études, le présent article est consacré à l’explication du volet opérationnel de l’émigration irrégulière. Une explication sans laquelle toute mesure sécuritaire reste incomplète et non concluante.

      Ainsi, après une présentation succincte de l’importance géographique de la Tunisie qui fait du pays un tremplin pour l’Europe, je prendrai en détails la conception de l’opération d’émigration clandestine avant de proposer les actions à entreprendre pour interdire ou contrer cette opération.

      1. Importance géographique de la Tunisie

      Selon une carte tracée par l’Union Européenne, les flux de l’émigration clandestine à destination de l’Europe suivent trois routes en mer méditerranéenne : La route occidentale qui passe par Gibraltar, la route centrale qui passe par la Tunisie et la Libye (carte nr1) et la route orientale qui passe par la Turquie et la mer Egée.

      Sur cette route centrale, la Tunisie occupe une place privilégiée. En effet, située sur le canal de Sicile qui constitue un pont entre l’Afrique et l’Europe et marquée par des conditions météorologiques clémentes sur la quasi-totalité de l’année, elle offre plusieurs possibilités pour rallier l’Italie (carte nr2) :

      Au nord, on trouve deux routes : La Galite-La Sardaigne (130 km) et Bizerte-Mazzara (175km).
      le nord-est présente trois options : Kélébia-Pantelleria (70km), Al Hawaria-Mazzara (160km) et Béni Khiar-Lampedusa (195km).
      au sud, trois autres itinéraires vers Lampedusa : à partir de Chebba (135km), de Kerkennah (140km) et de Zarzis (250km).

      En outre, la Tunisie est devenue le seul pays de transit après la fermeture des routes partant de la Libye. En effet, le flux d’émigrés à partir de ce pays a significativement tari suite à la signature d’un mémorandum d’entente le 2 février 2017 entre Rome et Tripoli (appuyé par les dirigeants européens dans la déclaration de Malte). Aux termes de cet accord, l’Italie doit coopérer avec les forces armées et les garde-frontières libyennes afin de juguler l’afflux de migrants illégaux. Un dispositif a été alors mis en place et 20.000 émigrants ont été interceptés en 2017 et reconduits en Libye, dans des centres de détention. Ainsi, le flux venant essentiellement des pays du Sahel africain a basculé sur le territoire tunisien.
      2. Déroulement d’une opération d’émigration clandestine

      De prime abord, il est à signaler que Les voyages clandestins sont organisés par des réseaux criminels. Le trafic est devenu transnational et apporte beaucoup d’argent. Une étude publiée par le journal d’actualités américain « The Christian Science Monitor » souligne « l’apparition de groupes mafieux d’envergure internationale italiens, albanais, libyens et autres » qui se livrent à ce trafic et gagnent 400 milliards de dollars à travers leurs actions qui englobent toute la région. Selon la même étude, Le candidat à l’émigration clandestine à partir de la Tunisie doit dépenser entre 3000 et 8000 dinars.
      L’organisation d’une opération d’émigration irrégulière passe par trois phases :
      2.1. La phase de recrutement

      Il s’agit de se servir d’agents et intermédiaires pour chercher et d’identifier les postulants à l’émigration sur le territoire national. Les quartiers pauvres et les zones grises du pays sont visés en priorité. Le contact se fait soit directement de bouche à l’oreille dans les cafés et les lieux publics soit par internet et notamment à travers les réseaux sociaux. Ceux qui viennent des pays étrangers sont recrutés et regroupés dans les pays limitrophes avant de les transférer par des passeurs en Tunisie.
      2.2. La phase de préparation logistique

      Tout d’abord, il faut trouver des caches (locaux) où regrouper les postulants au voyage et stocker des vivres pour subvenir à leur besoin durant la période d’attente. Ensuite, on prévoit le moyen de transport. Il est généralement un moyen vétuste acheté à moindre coût pour effectuer un aller sans retour (canot pneumatique, embarcation ou un vieux chalutier). Ce moyen est dépourvu de tout équipement de sécurité, de navigation et de communication. Enfin, le chef de réseau doit coordonner avec ses agents locaux et ses pairs à l’étranger pour fixer les moyens et les procédures nécessaires pour passer et/ou diriger les émigrés sur le lieu du regroupement. Cette phase englobe aussi une collecte de renseignement sur les dispositifs de sécurité déployés sur le théâtre de l’opération.
      2.3. Phase de préparation du transit

      C’est la phase la plus importante car elle fait appel à une bonne expérience pour choisir l’itinéraire, la période propice au voyage et le passeur (patron) qui sera chargé de la traversée.

      2.3.1. Choix de l’itinéraire : Le choix de la route doit prendre en compte la caractéristique physique du milieu marin, la sûreté du transit et le temps mis pour la traversée :

      La route La Galite-La Sardaigne est relativement longue (130km). Elle traverse une zone connue par la faible densité du trafic maritime et le mauvais temps. Elle est donc favorable à la détection radar (difficulté de dissimulation) et défavorable à la navigation des petites embarcations.
      Les deux routes à destination de Mazzara à partir de Bizerte (175km) et de Hawaria (160km) sont similaires. Elles sont longues et traversent une zone de séparation de trafic par laquelle passe plusieurs centaines de navires par jour. La zone est caractérisée par des courants giratoires relativement forts. Elle est donc favorable à la dissimulation mais défavorable à la navigation des petites embarcations.
      La route Kélébia-Pantellaria est la plus courte (70km). Cependant, elle est risquée en raison des patrouilles, de la couverture radar et du dispositif de sécurité mis en place par les autorités italiennes.
      La route Béni Khiar-Lampedusa (195km) est longue et traverse une zone peu fréquentée sur une grande partie de l’année. Elle est donc très défavorable à l’emploi des embarcations pneumatiques qui sont handicapées par le manque d’autonomie et le mode de propulsion.
      Les deux routes à destination de Lampedusa à parir de Chebba (135km) et de Kerkenah (140km) sont très similaires. Elles ont la même distance et traversent la zone de pêche réservée délimitée par l’isobathe de 50m (la zone verte sur la carte nr3). C’est une zone de haut fond qui s’étend jusqu’aux approches de Lampedusa. Cette zone est très hospitalière pour les petits navires. Elle est fréquentée par plusieurs milliers de chalutiers et embarcations. L’environnement est donc très favorable à la navigation et la dissimulation.

      La route Zarzis-Lampedusa est la plus longue (250km). L’emploi de petites embarcations sur cette route est très risqué à moins qu’elles soient utilisées comme relais pour rallier une plate-forme plus grande stationnée au large (navire ou chalutier).

      2.3.2. Le critère de compétence : Les iles Kerkennah se distinguent par le nombre de compétences (des anciens pêcheurs) qui coopèrent avec les réseaux criminels. Ces pêcheurs reconvertis en passeurs sont chargés de la traversée. Cette reconversion s’explique par une pollution maritime qui a mis ces gens de mer au chômage. En effet, les déchets chimiques provenant des industriels dont notamment Thyna Petroleum Services (TPS) et Petrofac ont dégradé l’environnement marin détruisant ainsi la faune marine (poissons, poulpes et éponges). victime de cette pollution et de la pêche illicite, la mer n’est plus généreuse comme au bon vieux temps. D’après The Christian Science Monitor, “les pêcheurs gagnaient jusqu’à 40$ - 100$ par jour (entre 100 et 250 dinars tunisiens). Maintenant, ils ont du mal à gagner 4 à 7$ (entre 10 et 17 dinars) par jour”. Ils ce sont alors livrés aux contrebondiers et leurs embarcations sont vendues aux réseaux criminels à un coût qui fait trois fois le prix réel.

      C’est cette qualité de pêcheur qui explique l’enrôlement des Kerkéniens dans les réseaux de trafic de migrants. Les statistiques du ministère de l’intérieur montrent que la majorité des patrons d’embarcations arrêtés lors des opérations avortées sont originaires de l’archipel.

      2.3.3. Le choix de la période et lieu d’embarquement :

      C’est le critère le plus important pour décider de l’exécution de l’opération. Tout s’explique par la force et la direction du vent. Une étude élaborée par l’Institut Tunisien des Etudes Stratégiques ( ITES) montre des chiffres très significatifs tirés à partir des opérations avortées en 2017 :

      le gouvernorat de Sfax est classé premier sur la liste avec 62 opérations suivi par Nabeul (34 opérations), Bizerte (24 opérations) et Zarzis (11 opérations). En outre, les statistiques montrent que 60% de ces opérations sont effectuées pendant les mois de septembre et d’octobre, 14% pendant juin et juillet. Le reste (26%) est réparti sur toute l’année. Ceci s’explique par la force et la direction (moyenne sur toute l’année) du vent dans ces régions (voir tableau).
      En effet, dans la région de Sfax, le vent atteint sa force la plus faible durant septembre et octobre (inférieur à 10 km/h). Il souffle du secteur Est engendrant de petites vagues qui ne gênent pas le mouvement des embarcations qui naviguent bout au vent (face au vent). Les accidents qui surviennent durant cette période sont causés essentiellement par un manque de stabilité en raison d’un excès de chargement. Ces caractéristiques du vent qui s’ajoutent aux caractéristiques physiques de l’environnement et aux compétences des pêcheurs font de Kerkénah le port préféré pour l’embarquement.
      Le fait que Nabeul et Bizerte occupent respectivement la deuxième et la troisième place s’explique par le vent du secteur Ouest qui souffle sur ces régions et qui pousse les embarcations (vent arrière) sur les côtes de Pantellaria et Mazzara. Les itinéraires partant de la Galite vers la Sardaigne et de Béni Khiar vers Lampeduza, qui sont déjà discriminés par le facteur physique, sont écartés en raison du vent très défavorable (vent de travers).
      La place occupée par Zarzis (4ème place) s’explique uniquement par sa proximité des frontières libyennes et par le vent modéré qui domine la région.

      3. Comment lutter contre le fléau ?

      Tout d’abord, il faut signaler que nos voisins européens déploient leur force (Opération Sofia) sur nos frontières et cherchent à s’ingérer dans nos affaires intérieures sous prétexte de lutter contre l’immigration clandestine. Plusieurs déclarations de responsables européens rentrent dans ce sens :

      Le 15 février 2011, le ministre de l’intérieur italien Roberto Maroni propose de déployer des policiers italiens en Tunisie. Le 9 avril de la même année, il parle de « débarquement » de 22.000 Tunisiens sur les côtes italiennes.
      Le 26 mai 2011, le député maire de Nice, Christian Estrosi, déclare “On constate aussi qu’une partie d’entre eux (les imigrés) – et cela est plus grave – appartiennent aux 10 000 délinquants condamnés et évadés des prisons.”
      Le 3 juin 2018, le nouveau ministre italien de l’Intérieur Matteo Salvini déclare « Il y a de plus en plus de migrants clandestins qui arrivent de Tunisie ici. Ce ne sont pas des réfugiés de guerre mais bien souvent des délinquants et ex-détenus. »
      Dans son projet de rapport 2018/2044(INI), la commission spéciale sur le terrorisme demande au parlement européen « que le mandat de l’opération #EUNAVFOR_MED Sophia soit étendu et que sa portée territoriale soit élargie afin de mieux répondre à l’évolution des schémas migratoires tels que les débarquements fantômes en provenance de la Tunisie, et que la lutte contre le terrorisme soit spécifiquement couverte par son mandat ». Elle propose aussi de « saisir Conseil de sécurité de l’ONU en vue d’adopter une résolution permettant à Sophia d’accéder aux eaux territoriales des États côtiers afin d’effectuer des contrôles sur les navires suspects ».
      Ensuite, il faut appliquer les textes juridiques propres à la matière :
      le Protocole contre le trafic illicite de migrants par terre, air et mer, additionnel à la Convention des Nations unies contre la criminalité transnationale organisée en 2000.
      notre réglementation intérieure en matière de lutte contre l’émigration clandestine et notamment la loi du 3 février 2004 relative à la traite des personnes et au trafic des migrants.
      Les accords bilatéraux (avec la France et l’Italie) concernant les migrants.

      Sur le plan opérationnel, la lutte doit se baser sur deux volets ; le renseignement et l’intervention. Le renseignement est la seule solution pour compenser le manque de moyens matériels dont souffrent nos unités.

      Aujourd’hui, l’intervention est handicapée par le manque d’unités navales et la diversité des intervenants en mer qui appartiennent aux différents ministères (marine nationale, garde maritime nationale et douane). Pour assurer notre souveraineté sur les espaces maritimes qui nous reviennent de droit et remplir nos missions en mer (dont la lutte contre l’émigration clandestine), il faut agir en deux directions :

      Adopter le concept de la sauvegarde maritime pour assurer la synergie des efforts entre tous les intervenants en mer,
      Déployer nos unités en fonction des impératifs du moment. A titre d’exemple, basculer des unités sur le port de Sfax, durant les mois de septembre et d’octobre pour couper la route à l’émigration clandestine entre Kerkennah et Lampedusa.

      Ainsi, ce sont quelques idées proposées aux décideurs pour les éclairer sur le coté opérationnel de l’émigration irrégulière. La guerre contre ce fléau ne peut être gagnée qu’avec la combinaison de mesures d’ordre économique et social.

      http://www.leaders.com.tn/article/25601-l-immigration-irreguliere-conception-de-l-operation-et-parade
      #émigration_irrégulière #migrations #asile #réfugiés #Tunisie #statistiques #chiffres #histoire #opération_sophia #externalisation
      ping @_kg_

  • Liste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...

    Mini liste sur la question des accords de réadmission signés entre différents pays européens afin de pouvoir expulser les migrants...

    #accord_de_réadmission #accord_bilatéral #frontières #expulsions #renvois #refoulement #migrations #asile #réfugiés #réadmission #frontière_sud-alpine #push-backs #refoulements #accords_bilatéraux #réadmission #Alpes #montagne
    ping @isskein

    • Entre la #France et l’#Italie :
      https://seenthis.net/messages/730361

      Il s’agit de l’#accord_de_Chambéry. Décret n° 2000-923 du 18 septembre 2000 portant publication de l’accord entre le Gouvernement de la République française et le Gouvernement de la République italienne relatif à la #coopération_transfrontalière en matière policière et douanière, signé à Chambéry le 3 octobre #1997
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000000766303

      voir aussi le rapport ASGI :
      https://medea.asgi.it/wp-content/uploads/2020/12/all-4-scheda-DM-5-agosto_def.pdf
      signalé ici :
      https://seenthis.net/messages/892443

    • Entre l’#Espagne et la #France:
      –-> #accord_de_Malaga signé le 26 novembre 2002 entre la France et l’Espagne.

      https://seenthis.net/messages/901308

      –---

      Un accord signé entre la France et l’Espagne prévoit de renvoyer tout migrant se trouvant sur le territoire français depuis moins de quatre heures.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/13368/france-19-migrants-interpelles-dans-un-bus-en-provenance-de-bayonne-et

      –---

      Concernant l’accord entre l’Espagne et la France, voici un complément, reçu via la mailing-list Migreurop:

      C’est un accord de réadmission bilatéral signé entre la France et l’Espagne (comme tas d’autres) qui prévoit la réadmission des nationaux ou de ressortissants de pays tiers ayant transité par le territoire de l’un de ces pays.

      L’article 7 de cet accord prévoit :
      Les autorités responsables des contrôles aux frontières des deux Parties contractantes réadmettent immédiatement sur leur territoire les étrangers, ressortissants d’Etats tiers, qui sont présentés par les autorités des frontières de l’autre Partie, dans les quatre heures suivant le passage illégal de la frontière commune.

      Il a été signé le 26 novembre 2002, et concernant la France, publié par le décret n° 2004-226 du 9 mars 2004.

      Vous trouverez sur le site de Migreurop, d’autres accords signés par la France (et aussi par d’autres pays de l’UE),

      http://www.migreurop.org/article1931.html

      –---

      Francia devolvió a España casi 16.000 migrantes en solo cinco meses (2021)

      Para expulsar a los inmigrantes que entran irregularmente a su territorio, Francia y España se valen de un acuerdo bilateral de 2002 (https://elpais.com/politica/2018/11/02/actualidad/1541179682_837419.html) que les permite la devolución en las cuatro horas siguientes al paso de la frontera. El acuerdo contempla una serie de garantías, como que los inmigrantes sean entregados a la policía española o que se formalice por escrito su devolución. Los datos de la policía francesa no especifican cuántos inmigrantes han sido devueltos sobre la base de este acuerdo bilateral, pero fuentes policiales y los propios inmigrantes han señalado que la mayor parte se realiza sin que medie un solo trámite.

      https://seenthis.net/messages/912645

    • Press Release: Court find Slovenian state guilty of chain pushback to Bosnia-Herzegovina

      Civil initiative Info Kolpa, a key member of the Border Violence Monitoring Network, are sharing here the landmark judgement issued on 16th July 2020 by the Slovenian Administrative Court. The findings prove that the national police force carried out an illegal collective expulsion of a member of a persecuted English-speaking minority from Cameroon who wanted to apply for asylum in Slovenia.

      The court heard the experience of the applicant, J.D., who was held in a Slovenian police station for two days and denied access to asylum, despite making three verbal requests. After this procedural gatekeeping, the applicant was readmitted to Croatia – under an agreement described by the Slovenian Ombudswoman as “against the European legal order”. From Croatia, J.D. was chain refouled to Bosnia-Herzegovina, a pattern analysed in a feature length report by InfoKolpa published in May 2019.

      The Administrative Court found that the Republic of Slovenia violated the applicant’s right to asylum (Article 18 of the EU Charter of Fundamental Rights), the prohibition of collective expulsions (Article 19 § 1) and the principle of non-refoulement (Article 19 § 2):

      “that no one shall be removed, expelled or extradited to a State in which he or she is in serious danger of being subjected to the death penalty, torture or other inhuman or degrading treatment or punishment”.

      The court ruled that the police had not informed J.D. of his asylum rights, as mandated to do so, in clear breach of domestic and EU law. The pushback also breached the prohibition of collective expulsion because the applicant was not issued a removal order, nor given translation and legal aid prior to his readmission to Croatia. In regards to the chain refoulement, the judgement found “sufficiently reliable reports on possible risks from the point of view of Article 3 of the ECHR” in both Croatia where the applicant was initially removed, and also in Bosnia-Herzegovina where he was subsequently pushed back. This is inline with evidence provided by BVMN in 2019 showing that 80% of recorded pushback cases from Croatia breached law on torture or inhumane and degrading treatment.

      In a groundbreaking step, once the judgment becomes final, it will oblige the Republic of Slovenia to allow the applicant to enter the country and file an application for international protection without delay, as well as provide €5,000 in compensation. Commenting on the outcome, the applicant stated:

      “I know and believe that the judgement will help those that come after me. It may not have a direct solution for me, but I know that we are creating awareness and you give more trust to the law of the country.” — J. D., Bosnia, 17th July 2020

      While the Ministry of Internal Affairs have stated they will appeal the judgement, the lawyer representing J.D. stated the case is a landmark because it not only proves the human rights violations suffered by the applicant, but establishes that chain pushbacks to Bosnia-Herzegovina are “systematic and routine”.

      https://www.borderviolence.eu/press-release-court-find-slovenian-state-guilty-of-chain-pushback-to-

      #Slovénie #Bosnie

    • Court confirms systematic human rights violations by Austrian police

      Regional Administrative Court of Styria confirmed the practice of chain puchbacks and found the Austrian police guilty of violating the right to human dignity and the right of documentation

      On 28th of September 2020 eight people were pushed back after being chased and humiliated by Austrian police. Their repeated verbal demand for asylum had been ignored, and no interpreter was involved, as our friends from the initiative „Push Back Alarm Austria“ documented, as we reported earlier on, and later pressed charges in the one case of Ayoub N.

      Now, the court confirmed the methodical practice of chain pushbacks and for the first time the existence of a chain pushback route from Austria or Italy crossing Slovenia and Croatia to Bosnia, including the collaboration of the police in different countries.

      The actions of the police officers who intervened were purposefully aimed at the rejection of the complainant and there is no room for any other interpretation

      In synopsis of the entire official act, the court concludes that there was an obvious bias of the officers against the complainant, since the physical search was disproportionate, no food was provided, and the involvement of an interpreter was omitted despite obvious language difficulties and the use of the word “asylum”, the verdict states (asyl.at/de/info/presseaussendungen/push-back-routevonoesterreichbisbosnien/?s=pushbacks).

      The joint press release of Push-Alarm Austria & Asylkoordination notes that, despite a court finding that his rights were disregarded, due to a legal loophole, the complainant Ayoub N. will not be allowed to enter the country. “I was confident that we would win the case. After returning to Bosnia, I felt like shattered glass. At the moment, I am trying to sort out my life and move forward,” he said.

      “We are talking about systematic human rights violations, inhumane treatment and ignoring the principles of the rule of law by police in Austria. It is completely unimaginable that this is happening without the knowledge and against the expressed will of the Minister of the Interior and his officials. If someone questions the Geneva Refugee Convention, one of the greatest lessons of the Shoah, and at the same time does not take consistent action against systematic human rights violations by the police, the only thing left to do is to resign!”

      Lawyer Clemens Lahner sees the finding as a clear warning to the Ministry of the Interior to put an end to the systematic disregard for the rule of law as soon as possible: “Not everyone who applies for asylum in Austria automatically will receive a substantive asylum procedure or be granted protection. But these questions are to be examined and decided by the competent authorities or courts,” the lawyer clarifies. “If the police presume to decide who will get an asylum procedure at all, this is clearly illegal. The Ministry of the Interior has now been put on written notice, in the name of the Republic.”

      Klaudia Wieser of Push-Back Alarm Austria said. “This case shows the necessity of our initiative to prevent systematic breaches of the law at Austrian borders. Austrian push-backs frequently constitute the first step of chain push-backs beyond the EU’s external borders. Sebastian Kurz is the spiritus rector of systematic human rights violations along the push-back route to Bosnia.”

      The finding from Graz also puts the Slovenian government which has just taken over the EU Presidency under considerable pressure. For the first time, it is possible to prove in a court case what human rights organisations such as ours and particularly everyone within the Border Violence Monitoring Network have been documenting since 2016: a continuous pushback route via Austria or Italy via Slovenia and Croatia to Bosnia.

      “If someone questions the Geneva Refugee Convention, one of the greatest lessons of the Shoah, and at the same time does not take consistent action against systematic human rights violations by the police, the only thing left to do is to resign!” — University Professor Dr. Benedek of the Institute of International Law and International Relations from the University of Graz said.

      However, as in other such cases in countries along the so called Balkan Route, no higher responsibility has so far been established by a court or other instance deemed valid by the states, so we expect to see more tacit acceptance of the anti-people and anti-human rights commands by those on the top.

      https://medium.com/are-you-syrious/ays-daily-digest-5-7-21-court-confirmed-the-systemic-chain-pushbacks-b8e0749

      #Autriche

  • #métaliste (qui va être un grand chantier, car il y a plein d’information sur seenthis, qu’il faudrait réorganiser) sur :
    #externalisation #contrôles_frontaliers #frontières #migrations #réfugiés

    Des liens vers des articles généraux sur l’externalisation des frontières de la part de l’ #UE (#EU) :
    https://seenthis.net/messages/569305
    https://seenthis.net/messages/390549
    https://seenthis.net/messages/320101

    Ici une tentative (très mal réussie, car évidement, la divergence entre pratiques et les discours à un moment donné, ça se voit !) de l’UE de faire une brochure pour déconstruire les mythes autour de la migration...
    La question de l’externalisation y est abordée dans différentes parties de la brochure :
    https://seenthis.net/messages/765967

    Petit chapitre/encadré sur l’externalisation des frontières dans l’ouvrage "(Dé)passer la frontière" :
    https://seenthis.net/messages/769367

    Les origines de l’externalisation des contrôles frontaliers (maritimes) : accord #USA-#Haïti de #1981 :
    https://seenthis.net/messages/768694

    L’externalisation des politiques européennes en matière de migration
    https://seenthis.net/messages/787450

    "#Sous-traitance" de la #politique_migratoire en Afrique : l’Europe a-t-elle les mains propres ?
    https://seenthis.net/messages/789048

    Partners in crime ? The impacts of Europe’s outsourced migration controls on peace, stability and rights :
    https://seenthis.net/messages/794636
    #paix #stabilité #droits #Libye #Niger #Turquie

    Proceedings of the conference “Externalisation of borders : detention practices and denial of the right to asylum”
    https://seenthis.net/messages/880193

    Brochure sur l’externalisation des frontières (passamontagna)
    https://seenthis.net/messages/952016

  • Budget de l’Union : La Commission propose une importante augmentation des financements visant à renforcer la gestion des migrations et des frontières

    Pour le prochain #budget à long terme de l’UE se rapportant à la période 2021-2027, la Commission propose de quasiment tripler les financements destinés à la gestion des #migrations et des #frontières, qui atteindraient 34,9 milliards d’euros contre 13 milliards d’euros au cours de la période précédente.

    La proposition de la Commission est une réponse aux défis accrus qui se posent en matière de migration et de #sécurité, avec des instruments de financement plus flexibles pour faire face aux événements imprévus, la #protection_des_frontières étant au cœur du nouveau budget. Un nouveau fonds séparé pour la gestion intégrée des frontières sera créé et l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes sera renforcée par un nouveau corps permanent de quelque 10 000 #gardes-frontières. Ce nouveau fonds aidera aussi les États membres à effectuer les contrôles douaniers en finançant des équipements de contrôle douanier.

    M. Frans Timmermans, premier vice-président, a fait la déclaration suivante : « Sur la base de l’expérience passée et sachant que la migration restera un défi à l’avenir, nous proposons une augmentation des financements sans précédent. Le renforcement de nos frontières communes, notamment avec l’#Agence_européenne_de_garde-frontières_et_de_garde-côtes, continuera de figurer parmi les grandes #priorités. Une #flexibilité accrue de nos instruments de financement signifie que nous sommes prêts à fournir un soutien rapide aux États membres ; au moment et à l’endroit où ils en ont besoin - en particulier en cas de #crise. »

    M. Dimitris Avramopoulos, commissaire pour la migration, les affaires intérieures et la citoyenneté, a déclaré quant à lui : « Une meilleure gestion de nos frontières extérieures et des flux migratoires restera une priorité clé pour l’Union européenne, les États membres et nos citoyens dans les années à venir. Des défis plus grands exigent de faire appel à des ressources plus importantes - c’est pourquoi nous proposons de quasiment tripler le budget dans ce domaine. Le renforcement des financements jouera un rôle essentiel en nous permettant de mettre en œuvre nos priorités politiques : davantage sécuriser nos #frontières_extérieures, continuer à accorder une protection à ceux qui en ont besoin, mieux soutenir la #migration_légale et les efforts d’#intégration, lutter contre la migration irrégulière, et assurer le retour effectif et rapide de ceux qui ne bénéficient pas du droit de séjour. »

    M. Pierre Moscovici, commissaire pour les affaires économiques et financières, la fiscalité et les douanes, s’est exprimé en ces termes : « Les 115 000 fonctionnaires des douanes de l’UE sont en première ligne pour protéger les citoyens européens contre les produits contrefaits ou dangereux et les autres formes de commerce illicite. Afin de les soutenir dans cette mission capitale, nous proposons aujourd’hui un nouveau fonds doté de 1,3 milliard d’euros, afin que les pays de l’UE puissent acquérir les équipements douaniers les plus avancés. L’#union_douanière de l’UE fêtera son 50e anniversaire le mois prochain : nous devons veiller à ce qu’elle continue à prendre de l’ampleur. »

    Durant la crise des réfugiés de 2015 et de 2016, l’appui financier et technique que l’Union européenne a fourni aux États membres a été déterminant dans le soutien apporté à ceux d’entre eux qui se trouvaient sous pression, dans le développement des capacités de recherche et de sauvetage, dans l’intensification des retours et dans l’amélioration de la gestion des frontières extérieures. Tirant les enseignements du passé, la Commission propose de quasiment tripler les financements destinés aux domaines essentiels que représentent la gestion des migrations et celle des frontières.

    1. #Sécurisation des frontières extérieures de l’UE

    La protection effective des frontières extérieures de l’UE est essentielle pour gérer les flux migratoires et garantir la sécurité intérieure. Des frontières extérieures solides sont aussi ce qui permet à l’UE de maintenir un espace Schengen sans contrôles aux frontières intérieures. La Commission propose d’allouer 21,3 milliards d’euros à la gestion globale des frontières et de créer un nouveau #Fonds_pour_la_gestion_intégrée_des_frontières (#FGIF) doté d’une enveloppe supérieure à 9,3 milliards d’euros.

    Les principaux éléments du nouveau Fonds sont les suivants :

    – Une palette adéquate de priorités :

    Renforcement des frontières extérieures de l’Europe : Le nouveau #Fonds s’inscrira dans le prolongement du travail réalisé ces dernières années et s’appuiera sur lui pour mieux protéger les frontières de l’UE, avec la mise en place du corps européen de garde-frontières et de garde-côtes, des vérifications systématiques aux frontières, de nouveaux systèmes informatiques à grande échelle et interopérables, y compris le futur système d’entrée/sortie. Le financement sera mis à disposition dans des domaines tels que la lutte contre le #trafic_de_migrants et la #traite des êtres humains, les opérations visant à intercepter et stopper les personnes représentant une #menace, l’appui aux opérations de recherche et de sauvetage en mer, les équipements et la formation des gardes-frontières, ainsi que l’appui opérationnel rapide aux États membres sous pression.
    Une politique des #visas plus solide et plus efficace : Le Fonds garantira également l’évolution continue et la modernisation de la politique des visas de l’UE, tout en renforçant la sécurité et en atténuant les risques liés à la migration irrégulière.

    – Soutien aux États membres : Le nouveau Fonds consacrera un financement à long terme de 4,8 milliards d’euros aux mesures prises par les États membres en matière de gestion des frontières et à la politique des visas. Le financement correspondra exactement aux besoins des États membres et un examen à mi-parcours tiendra compte de pressions nouvelles ou supplémentaires. Chaque État membre recevra un montant forfaitaire de 5 millions d’euros, le reste étant distribué selon la charge de travail, la pression et le niveau de menace aux frontières extérieures terrestres (30 %), aux frontières extérieures maritimes (35 %), dans les aéroports (20 %) et dans les bureaux consulaires (15 %).

    – Une réponse souple et rapide : Un montant de 3,2 milliards d’euros sera consacré à des actions d’appui ciblé aux États membres, aux projets de dimension européenne, et permettra de faire face aux besoins urgents. Le nouveau Fonds a été conçu pour garantir une souplesse suffisante permettant de fournir aux États membres une aide d’urgence en cas de besoin et de faire face aux priorités nouvelles et critiques à mesure qu’elles surviennent.

    – Des équipements de contrôle douanier plus performants aux frontières extérieures : Le nouvel instrument comportera une enveloppe de 1,3 milliard d’euros pour aider les États membres à acquérir, entretenir et remplacer des équipements douaniers modernes, tels que de nouveaux #scanners, des systèmes de reconnaissance automatique des plaques minéralogiques, des équipes de #chiens_renifleurs et des #laboratoires_mobiles d’analyse d’échantillons.

    – Renforcement des organismes chargés de la gestion des frontières : En plus de ce Fonds, une enveloppe supérieure à 12 milliards d’euros devant être présentée séparément sera consacrée à la poursuite du renforcement de l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes et de l’agence #eu-LISA.

    2. Migrations : soutenir une politique solide, réaliste et équitable

    La Commission propose de renforcer le financement destiné à la gestion des migrations à raison de 51 % et de le porter ainsi à 10,4 milliards d’euros au titre du Fonds « Asile et migration » renouvelé (#FAM). Le Fonds soutiendra les efforts déployés par les États membres dans trois domaines clés : l’asile, la migration légale et l’intégration, la lutte contre la migration irrégulière et le retour. Les principaux éléments du nouveau Fonds sont les suivants :

    – Une palette adéquate de priorités : Le nouveau Fonds continuera de fournir un appui vital aux systèmes d’asile nationaux et mettra un accent renouvelé sur la mise à disposition des aides de l’UE en faveur des questions les plus urgentes, telles que :

    Un #régime_d'asile_européen plus solide et plus efficace : Le Fonds contribuera à renforcer et à développer tous les aspects du #régime_d'asile_européen_commun, y compris sa dimension extérieure :
    Un soutien accru à la migration légale et à l’intégration : Le Fonds consacrera des ressources additionnelles au soutien de l’intégration précoce des ressortissants de pays tiers séjournant légalement dans l’UE sur le court terme, lesquelles seront complétées par un financement au titre du #Fonds_de_cohésion_pour_l'intégration_socio-économique à plus long terme.
    Des retours plus rapides et plus fréquents : Le Fonds soutiendra une approche plus coordonnée pour lutter contre la migration irrégulière, améliorer l’efficacité des retours et intensifier davantage la coopération avec les pays tiers en matière de réadmission.

    – Soutien aux États membres : Le Fonds consacrera un financement à long terme de 6,3 milliards d’euros à des actions de soutien aux États membres dans la gestion de la migration, en concordance avec leurs besoins. Un examen à mi-parcours tiendra compte de pressions nouvelles ou supplémentaires. Chaque État membre recevra un montant forfaitaire de 5 millions d’euros, le reste étant distribué sur la base d’une évaluation des pressions s’exerçant sur lui et en tenant compte des proportions prévues en matière d’asile (30 %), de migration légale et d’intégration (30 %) et de retour (40 %).

    – Une meilleure préparation : Une enveloppe de 4,2 milliards d’euros sera réservée aux projets présentant une véritable valeur ajoutée européenne, telle que la #réinstallation, ou pour répondre à des besoins impérieux et pour faire parvenir des financements d’urgence aux États membres au moment et à l’endroit où ils en ont besoin.

    Une plus grande coordination entre les instruments de financement de l’UE : Le Fonds « Asile et migration » sera complété par les fonds additionnels affectés au titre des instruments de politique extérieure de l’UE pour accélérer la coopération en matière de migration avec les pays partenaires, notamment dans le cadre des efforts visant à lutter contre la migration irrégulière, à améliorer les perspectives dans les pays d’origine, à renforcer la coopération en matière de retour, de réadmission, et de migration légale ;

    – Renforcement des organismes de l’UE : En plus de ce fonds, une enveloppe de près de 900 millions d’euros devant être présentée séparément sera consacrée au renforcement de la nouvelle #Agence_de_l'Union_européenne_pour_l'asile.

    Prochaines étapes

    Il est essentiel de parvenir à un accord rapide sur le budget global à long terme de l’UE et sur ses propositions sectorielles de manière à garantir que les fonds de l’UE commencent à produire leurs effets le plus tôt possible sur le terrain.

    Des retards pourraient compromettre la capacité de l’Union européenne à réagir aux crises si elles venaient à éclater, et pourraient priver les projets de ressources essentielles - telles que les programmes européens d’aide au retour volontaire et de réadmission, et la poursuite du financement de l’UE en faveur de la réinstallation.

    Un accord sur le prochain budget à long terme en 2019 permettrait d’assurer une transition sans heurts entre l’actuel budget à long terme (2014-2020) et le nouveau, ce qui garantirait la prévisibilité et la continuité du financement, pour le bénéfice de tous.

    Historique du dossier

    Depuis le début du mandat de la Commission Juncker, la gestion des frontières et celle des migrations constituent une priorité politique - depuis les orientations politiques présentées en juillet 2014 par le président Juncker jusqu’à son dernier discours sur l’état de l’Union prononcé le 13 septembre 2017.

    Cependant, l’Europe a été surprise par l’ampleur et l’urgence de la crise des réfugiés de 2015-2016. Pour éviter une crise humanitaire et permettre une réponse commune à ce défi sans précédent, ainsi qu’aux nouvelles menaces pesant sur la sécurité, l’UE a fait usage de toute la souplesse possible dans le budget existant afin de mobiliser des fonds supplémentaires. En plus des dotations initiales pour la période 2014-2020 s’élevant à 6,9 milliards d’euros pour l’#AMIF et le #FSI (frontières et police), un montant supplémentaire de 3,9 milliards d’euros a été mobilisé pour atteindre 10,8 milliards d’euros en faveur de la migration, de la gestion des frontières et de la sécurité intérieure - et cela ne comprend même pas le financement important mobilisé pour faire face à la crise des réfugiés à l’extérieur de l’UE.

    Tirant les enseignements du passé, la Commission propose à présent de doubler le financement dans tous les domaines, avec 10,4 milliards d’euros pour la migration, 9,3 milliards d’euros pour la gestion des frontières, 2,5 milliards d’euros pour la sécurité intérieure et 1,2 milliard d’euros pour le déclassement sécurisé des installations nucléaires dans certains États membres - soit plus de 23 milliards d’euros au total.

    En outre, le soutien aux organismes de l’UE dans le domaine de la sécurité, de la gestion des frontières et des migrations sera revu à la hausse, passant de 4,2 milliards à 14 milliards d’euros.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-4106_fr.htm
    #EU #UE #migrations #asile #réfugiés #renvois #expulsions #interopérabilité #Fonds_Asile_et_migration #machine_à_expulser #accords_de_réadmission #coopération_internationale #aide_au_développement

    –-----------------

    Comme dit Sara Prestianni, voici la réponse à la tragédie de l’Aquarius...
    –-> « la #protection_des_frontières étant au cœur du nouveau budget »
     :-(

    Création d’ « un nouveau fonds séparé pour la gestion intégrée des frontières sera créé et l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes sera renforcée par un nouveau corps permanent de quelque 10 000 #gardes-frontières. Ce nouveau fonds aidera aussi les États membres à effectuer les contrôles douaniers en finançant des équipements de contrôle douanier »
    #Frontex n’est plus suffisant... un nouveau fonds est nécessaire... yuppi !
    #contrôles_frontaliers #complexe_militaro-industriel

    • Voici une contre-proposition, de #Gabriele_Del_Grande:

      Lettera al Ministro dell’Interno Matteo Salvini

      Confesso che su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando. Sogno anch’io un Mediterraneo a sbarchi zero. Il problema però è capire come ci si arriva. E su questo, avendo alle spalle dieci anni di inchieste sul tema, mi permetto di dare un consiglio al ministro perché mi pare che stia ripetendo gli stessi errori dei suoi predecessori.

      Blocco navale, respingimenti in mare, centri di detenzione in Libia. La ricetta è la stessa da almeno quindici anni. Pisanu, Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti. Ci hanno provato tutti. E ogni volta è stato un fallimento: miliardi di euro persi e migliaia di morti in mare.

      Questa volta non sarà diverso. Per il semplice fatto che alla base di tutto ci sono due leggi di mercato che invece continuano ad essere ignorate. La prima è che la domanda genera l’offerta. La seconda è che il proibizionismo sostiene le mafie.

      In altre parole, finché qualcuno sarà disposto a pagare per viaggiare dall’Africa all’Europa, qualcuno gli offrirà la possibilità di farlo. E se non saranno le compagnie aeree a farlo, lo farà il contrabbando.

      Viviamo in un mondo globalizzato, dove i lavoratori si spostano da un paese all’altro in cerca di un salario migliore. L’Europa, che da decenni importa manodopera a basso costo in grande quantità, in questi anni ha firmato accordi di libera circolazione con decine di paesi extraeuropei. Che poi sono i paesi da dove provengono la maggior parte dei nostri lavoratori emigrati: Romania, Albania, Ucraina, Polonia, i Balcani, tutto il Sud America. La stessa Europa però, continua a proibire ai lavoratori africani la possibilità di emigrare legalmente sul suo territorio. In altre parole, le ambasciate europee in Africa hanno smesso di rilasciare visti o hanno reso quasi impossibile ottenerne uno.

      Siamo arrivati al punto che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.

      Eppure non è sempre stato così. Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è molto semplice: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento.

      Allora, se davvero Salvini vuole porre fine, come dice, al business delle mafie libiche del contrabbando, riformi i regolamenti dei visti anziché percorrere la strada del suo predecessore. Non invii i nostri servizi segreti in Libia con le valigette di contante per pagare le mafie del contrabbando affinché cambino mestiere e ci facciano da cane da guardia. Non costruisca altre prigioni oltremare con i soldi dei contribuenti italiani. Perché sono i nostri soldi e non vogliamo darli né alle mafie né alle polizie di paesi come la Libia o la Turchia.

      Noi quelle tasse le abbiamo pagate per veder finanziato il welfare! Per aprire gli asili nido che non ci sono. Per costruire le case popolari che non ci sono. Per finanziare la scuola e la sanità che stanno smantellando. Per creare lavoro. E allora sì smetteremo di farci la guerra fra poveri. E allora sì avremo un obiettivo comune per il quale lottare. Perché anche quella è una balla. Che non ci sono soldi per i servizi. I soldi ci sono, ma come vengono spesi? Quanti miliardi abbiamo pagato sottobanco alle milizie libiche colluse con le mafie del contrabbando negli anni passati? Quanti asili nido ci potevamo aprire con quegli stessi denari?

      Salvini non perda tempo. Faccia sbarcare i seicento naufraghi della Acquarius e anziché prendersela con le ONG, chiami la Farnesina e riscrivano insieme i regolamenti per il rilascio dei visti nei paesi africani. Introduca il visto per ricerca di lavoro, il meccanismo dello sponsor, il ricongiungimento familiare. E con l’occasione vada a negoziare in Europa affinché siano visti validi per circolare in tutta la zona UE e cercarsi un lavoro in tutta la UE anziché pesare su un sistema d’accoglienza che fa acqua da tutte le parti.

      Perché io continuo a non capire come mai un ventenne di Lagos o Bamako, debba spendere cinquemila euro per passare il deserto e il mare, essere arrestato in Libia, torturato, venduto, vedere morire i compagni di viaggio e arrivare in Italia magari dopo un anno, traumatizzato e senza più un soldo, quando con un visto sul passaporto avrebbe potuto comprarsi un biglietto aereo da cinquecento euro e spendere il resto dei propri soldi per affittarsi una stanza e cercarsi un lavoro. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di lavoratori immigrati in Italia, che guardate bene non sono passati per gli sbarchi e tantomeno per l’accoglienza. Sono arrivati dalla Romania, dall’Albania, dalla Cina, dal Marocco e si sono rimboccati le maniche. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di italiani, me compreso, emigrati all’estero in questi decenni. Esattamente come vorrebbero fare i centomila parcheggiati nel limbo dell’accoglienza.

      Centomila persone costrette ad anni di attesa per avere un permesso di soggiorno che già sappiamo non arriverà in almeno un caso su due. Perché almeno in un caso su due abbiamo davanti dei lavoratori e non dei profughi di guerra. Per loro non è previsto l’asilo politico. Ma non è previsto nemmeno il rimpatrio, perché sono troppo numerosi e perché non c’è la collaborazione dei loro paesi di origine. Significa che di qui a un anno almeno cinquantamila persone andranno ad allungare le file dei senza documenti e del mercato nero del lavoro.

      Salvini dia a tutti loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari e un titolo di viaggio con cui possano uscire dal limbo dell’accoglienza e andare a firmare un contratto di lavoro, che sia in Italia o in Germania. E dare così un senso ai progetti che hanno seguito finora. Perché l’integrazione la fa il lavoro. E se il lavoro è in Germania, in Danimarca o in Norvegia, non ha senso costringere le persone dentro una mappa per motivi burocratici. Altro che riforma Dublino, noi dobbiamo chiedere la libera circolazione dentro l’Europa dei lavoratori immigrati. Perché non possiamo permetterci di avere cittadini di serie a e di serie b. E guardate che lo dobbiamo soprattutto a noi stessi.

      Perché chiunque di noi abbia dei bambini, sa che cresceranno in una società cosmopolita. Già adesso i loro migliori amici all’asilo sono arabi, cinesi, africani. Sdoganare un discorso razzista è una bomba a orologeria per la società del domani. Perché forse non ce ne siamo accorti, ma siamo già un noi. Il noi e loro è un discorso antiquato. Un discorso che forse suona ancora logico alle orecchie di qualche vecchio nazionalista. Ma che i miei figli non capirebbero mai. Perché io non riuscirei mai a spiegare ai miei bambini che ci sono dei bimbi come loro ripescati in mare dalla nave di una ONG e da due giorni sono bloccati al largo perché nessuno li vuole sbarcare a terra.

      Chissà, forse dovremmo ripartire da lì. Da quel noi e da quelle battaglie comuni. Dopotutto, siamo o non siamo una generazione a cui il mercato ha rubato il futuro e la dignità? Siamo o non siamo una generazione che ha ripreso a emigrare? E allora basta con le guerre tra poveri. Basta con le politiche forti coi deboli e deboli coi forti.

      Legalizzate l’emigrazione Africa –Europa, rilasciate visti validi per la ricerca di lavoro in tutta l’Europa, togliete alle mafie libiche il monopolio della mobilità sud-nord e facciamo tornare il Mediterraneo ad essere un mare di pace anziché una fossa comune. O forse trentamila morti non sono abbastanza?

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2105161009497488&id=100000108285082

    • Questions et réponses : les futurs financements de l’UE en faveur de la gestion des frontières et des migrations

      Quel sera le montant des financements disponibles pour la gestion des frontières et des migrations ?

      34,9 milliards d’euros.

      Tirant les enseignements du passé, et sachant que la question des migrations et de la gestion des frontières demeurera un défi à l’avenir, la Commission propose d’augmenter fortement les financements en la matière au titre du prochain budget de l’UE pour la période 2021-2027.

      Un montant de financements sans précédent sera alloué par l’intermédiaire de deux Fonds principaux :

      le nouveau Fonds « Asile et migration » (qui continuera de s’appeler FAMI sous sa dénomination abrégée) sera modifié et renforcé ;
      l’instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas du Fonds pour la sécurité intérieure sera intégré à un nouveau Fonds, le Fonds pour la gestion intégrée des frontières (FGIF), qui comprendra aussi un autre instrument, également nouveau, l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier.

      Au total, ce sont 34,9 milliards d’euros qui seront mis à disposition sur la prochaine période de 7 ans, contre 13 milliards d’euros environ pour la période budgétaire en cours :

      il est proposé d’augmenter de 51 % le budget alloué à la politique migratoire, qui passerait ainsi de 6,9 milliards d’euros actuellement à 10,4 milliards d’euros ;
      dans le cadre du nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières (FGIF), il est proposé de multiplier par quatre les financements alloués à la gestion des frontières, qui passeraient de 2,7 milliards d’euros actuellement (pour la période 2014-2020) à un montant qui pourrait atteindre 9,3 milliards d’euros (+ 241%).

      En outre, la Commission a proposé d’octroyer plus de 12 milliards d’euros à l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes et à l’agence eu-LISA et près de 900 millions d’euros à l’Agence de l’Union européenne pour l’asile (actuellement le Bureau européen d’appui en matière d’asile, EASO). Cette proposition sera présentée ultérieurement.

      1. Fonds pour la gestion intégrée des frontières (FGIF)

      Pourquoi créer un nouveau Fonds distinct pour la gestion des frontières ?

      Dans le cadre de l’actuel budget de l’UE, la gestion des frontières relève du Fonds pour la sécurité intérieure (FSI), qui est scindé en FSI-Frontières et FSI-Police.

      Si un Fonds dédié à la gestion des frontières est créé en vertu du prochain cadre financier pluriannuel, c’est parce qu’aussi bien la gestion des frontières que la sécurité intérieure sont devenues des priorités de plus en plus pressantes, qui méritent chacune que des instruments financiers dédiés et plus ciblés leur soient consacrés.

      Pour pouvoir gérer les flux migratoires et garantir la sécurité intérieure, il est crucial de protéger efficacement les frontières extérieures de l’UE. Des frontières extérieures fortes sont aussi ce qui permet à l’UE de conserver un espace Schengen sans contrôles aux frontières intérieures.

      Le nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières comprend l’instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas et inclura également un nouvel instrument : l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier, en reconnaissance du rôle joué par les autorités douanières dans la défense de toutes les frontières de l’UE (frontières maritimes, aériennes et terrestres et transits postaux), ainsi que dans la facilitation des échanges et la protection des personnes contre les marchandises dangereuses et les contrefaçons.

      Quelles sont les priorités du nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières ?

      Au cours des dernières années, un certain nombre de mesures ont été prises afin de répondre aux priorités du moment, mais aussi de poser tous les fondements importants nécessaires pour garantir la solidité des frontières.

      Le nouveau Fonds confortera ces efforts et apportera un soutien renforcé à la sécurisation de nos frontières extérieures, en s’attachant prioritairement :

      à soutenir davantage les États membres dans leurs efforts de sécurisation des frontières extérieures de l’UE ;
      à favoriser une plus grande uniformité des contrôles douaniers ;
      à garantir que les systèmes informatiques à grande échelle utilisés pour gérer les frontières sont solides et fonctionnent sans problème les uns avec les autres, ainsi qu’avec les systèmes nationaux ;
      à garantir l’adaptabilité de la politique commune des visas de l’UE à l’évolution des problèmes de sécurité et des défis liés à la migration, ainsi qu’aux nouvelles possibilités offertes par le progrès technologique.

      Comment les financements seront-ils répartis ?

      La dotation totale de 9,3 milliards d’euros au Fonds pour la gestion intégrée des frontières se répartit comme suit :

      4,8 milliards d’euros iront à des financements à long terme destinés à soutenir les mesures de gestion des frontières et la politique des visas des États membres, dont un financement initial aux États membres de 4 milliards d’euros (soit 50 %) et un ajustement de 0,8 milliard d’euros (soit 10 %) à mi-parcours pour tenir compte des pressions nouvelles ou supplémentaires ;
      3,2 milliards d’euros (soit 40 %), distribués sur l’ensemble de la période de financement, iront à un « mécanisme thématique », destiné à apporter un soutien ciblé aux États membres, à financer des projets à valeur ajoutée européenne et à répondre en outre aux urgences ;
      1,3 milliard d’euros ira à l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier.

      Les financements alloués aux États membres reflèteront précisément les besoins de chacun. Au début de la période de programmation, chaque État membre recevra une somme forfaitaire de 5 millions d’euros, tandis que le solde sera distribué en fonction de la charge de travail, de la pression et du niveau de menace aux frontières extérieures terrestres (30 %) et maritimes (35 %), dans les aéroports (20 %) et dans les bureaux consulaires (15 %).

      En outre, sur les 4,8 milliards d’euros alloués aux États membres, 157,2 millions d’euros seront réservés au régime de transit spécial appliqué par la Lituanie.

      Comment les dotations nationales au titre de l’instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas seront-elles calculées ? Pourquoi n’est-il pas possible de fournir dès à présent la ventilation par État membre ?

      Chaque État membre recevra une somme forfaitaire de 5 millions d’euros au début de la période de financement. Au-delà, leurs dotations respectives seront calculées sur la base d’une évaluation des besoins les plus pressants. Cette évaluation sera de nouveau réalisée à mi-parcours.

      Pour chaque État membre, cette évaluation tiendra compte :

      de la longueur de tout tronçon des frontières extérieures terrestres et maritimes que gère cet État membre et de la charge de travail liée (sur la base du nombre de franchissements et du nombre de refus d’entrée), ainsi que du niveau de menace (sur la base d’une évaluation de la vulnérabilité réalisée par l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes) ;
      de la charge de travail (sur la base du nombre de franchissements et du nombre de refus d’entrée) dans les aéroports de cet État membre ;
      du nombre de bureaux consulaires que compte cet État membre et de la charge de travail liée (sur la base du nombre de demandes de visa).

      Les calculs se fonderont sur des données statistiques collectées par Eurostat, l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes et les États membres sur les trois années (36 mois) ayant précédé l’entrée en application du nouveau budget.

      De plus, outre leurs dotations et en application des calculs susmentionnés, les États membres recevront, tout au long de la période de programmation, des financements ciblés en faveur de priorités thématiques ou en réponse à des besoins pressants. Ces financements proviendront du « mécanisme thématique ».

      Étant donné que le prochain budget à long terme doit couvrir une période s’ouvrant en 2021, il n’est pas possible de prédire dès à présent ce que montreront les données futures. Une ventilation basée sur les données d’aujourd’hui donnerait une image biaisée, ne correspondant pas à ce que seront les dotations effectives.

      Ce budget revu à la hausse servira-t-il aussi à renforcer les agences de l’UE chargées de la gestion des frontières ?

      Oui. Outre les 9,3 milliards d’euros alloués au Fonds pour la gestion intégrée des frontières, et au titre d’une proposition qui sera présentée séparément, plus de 12 milliards d’euros serviront à renforcer encore l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes, y compris par le financement d’un corps permanent de quelque 10 000 garde-frontières, ainsi qu’à financer l’agence eu-LISA (l’Agence européenne pour la gestion opérationnelle des systèmes d’information à grande échelle au sein de l’espace de liberté, de sécurité et de justice).

      La Commission va-t-elle désormais financer aussi la construction de clôtures ?

      Non. Le travail de la Commission vise à garantir un contrôle adéquat des frontières, non à les fermer. La Commission n’a jamais financé de clôtures et n’entend pas le faire non plus dans le cadre du nouveau budget de l’UE.

      Le Fonds soutiendra-t-il la réalisation de vérifications systématiques obligatoires aux frontières extérieures ?

      Oui.

      Depuis le 7 avril 2017, outre les vérifications systématiques qui étaient déjà réalisées sur tous les ressortissants de pays tiers entrant dans l’espace Schengen, les États membres sont tenus de procéder à des vérifications systématiques, dans les bases de données pertinentes, sur les citoyens de l’UE qui franchissent les frontières extérieures de l’UE.

      Le nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières (via son instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas) apportera un soutien supplémentaire aux États membres, pour les aider à s’acquitter de ces responsabilités.

      Il s’agira d’un soutien aux infrastructures, aux équipements (tels que des scanners de documents) et aux systèmes informatiques utilisés pour contrôler les frontières, mais aussi d’un soutien à la formation des garde-frontières et à des actions visant à améliorer la coopération interservices. Les États membres pourront également couvrir les frais de personnel et de fonctionnement liés aux vérifications systématiques obligatoires aux frontières extérieures.

      Comment le nouvel instrument relatif aux visas soutiendra-t-il l’élaboration de la politique commune des visas ?

      Le nouveau Fonds aidera à moderniser la politique commune des visas de l’UE. Les financements seront essentiels, notamment parce qu’ils permettront d’améliorer l’efficacité du traitement des demandes de visa, par exemple en termes de détection et d’évaluation des risques de sécurité et de migration irrégulière, et de faciliter les procédures de visa pour les voyageurs de bonne foi.

      En 2018, la Commission a présenté une proposition de modification ciblée du code des visas et une proposition de révision du cadre juridique sous-tendant le système d’information sur les visas (VIS). Il faudra soutenir financièrement la mise en œuvre de certaines des mesures proposées, telles que la modernisation du VIS aux fins de son utilisation combinée avec d’autres systèmes d’information de l’Union et d’une coopération améliorée entre les autorités des États membres dans le cadre du traitement des demandes de visa.

      Le Fonds servira en outre à évaluer plus avant la possibilité de numériser le traitement des demandes de visa. Sur le moyen à long terme, il sera essentiel à la mise en place de procédures électroniques de visa rapides, sûres et conviviales, pour le plus grand avantage tant des demandeurs de visa que des consulats.

      Pourquoi accorder une telle importance aux contrôles douaniers ?

      L’union douanière est unique au monde. Elle constitue un fondement de l’Union européenne et elle est essentielle au bon fonctionnement du marché unique. Une fois les formalités douanières accomplies dans un État membre, les marchandises peuvent circuler librement sur le territoire de l’Union, puisque tous les États membres sont censés appliquer les mêmes règles en matière de recettes et de protection aux frontières extérieures. Les administrations douanières de l’UE doivent coopérer étroitement pour faciliter les échanges et protéger la santé et la sécurité de tous les citoyens de l’UE. L’UE est l’un des plus grands blocs commerciaux du monde : en 2015, elle a pesé pour près de 15 % (représentant 3 500 milliards d’euros) dans les échanges mondiaux de marchandises.

      Pour gérer ce volume d’échanges internationaux, il faut traiter chaque année, de manière rapide et efficace, des millions de déclarations en douane. Mais les douanes jouent également un rôle protecteur. Elles participent activement à la lutte contre le terrorisme, en procédant à des vérifications pour détecter le trafic d’armes et le commerce illégal d’œuvres d’art et de biens culturels, et elles protègent les consommateurs contre les marchandises qui présentent un risque pour leur santé et leur sécurité. Ainsi, 454,2 tonnes de stupéfiants, 35 millions de marchandises de contrefaçon et 3,2 milliards de cigarettes ont été saisis dans l’Union en 2014. La réalisation de contrôles appropriés passe par l’échange rapide d’informations de haute qualité et à jour et par une bonne coordination entre les administrations douanières de nos États membres.

      Que prévoit le nouvel « instrument relatif aux équipements de contrôle douanier » ?

      Le nouvel instrument relatif aux équipements de contrôle douanier vise à aider les États membres à effectuer les contrôles douaniers en finançant les équipements nécessaires. Si ce nouvel instrument, doté d’une enveloppe de 1,3 milliard d’euros, est créé, c’est afin de permettre l’acquisition, la maintenance et le remplacement d’équipements douaniers innovants, dès lors que ni le Programme « Douane » ni d’autres instruments financiers existants ne sont disponibles à cette fin.

      Cet instrument financera les équipements douaniers pour les quatre types de frontières (terrestres, maritimes, aériennes et postales), un groupe de travail composé d’États membres volontaires étant chargé de superviser et d’évaluer les besoins en équipement pour chaque type de frontière. Les fonds seront mis à la disposition de tous les États membres. Des travaux ont déjà été menés par l’équipe d’experts douaniers de la frontière terrestre est et sud-est de l’Union (CELBET), qui réunit les onze États membres chargés des frontières terrestres de l’Union. L’équipe CELBET poursuivra ses activités. S’agissant des autres types de frontières, les travaux peuvent désormais commencer afin que les besoins des États membres puissent être évalués, et des fonds alloués, dès l’entrée en vigueur, en 2021, de l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier.

      Quel type d’équipement est-il possible d’acquérir au moyen du nouvel instrument ?

      L’instrument a pour objectif de financer des équipements qui ne sont pas intrusifs, mais qui permettent la réalisation de contrôles douaniers efficaces et efficients. Parmi les équipements que les États membres pourraient acquérir ou moderniser ou dont ils pourraient solliciter la maintenance, citons les scanners, les systèmes de détection automatisée des plaques d’immatriculation, les équipes de chiens renifleurs et les laboratoires mobiles d’analyse d’échantillons. Les besoins en équipement seront définis dans le cadre du Programme « Douane » qui s’applique parallèlement au nouvel instrument relatif aux équipements de contrôle douanier annoncé aujourd’hui. Les équipements de contrôle douanier mis à disposition au titre de ce Fonds pourront également être utilisés pour d’autres contrôles de conformité, réalisés, par exemple, en application de dispositions en matière de visas ou de prescriptions de police, le cas échéant, ce qui permettra d’en maximiser l’impact.

      L’instrument établit des priorités en matière de financement des équipements selon certains critères d’éligibilité. Les équipements pourront être achetés au titre de la nouvelle réglementation uniquement s’ils se rapportent à au moins un des six objectifs suivants : inspections non intrusives ; détection d’objets cachés sur des êtres humains ; détection des rayonnements et identification de nucléides ; analyse d’échantillons en laboratoire ; échantillonnage et analyse sur le terrain des échantillons ; et fouille à l’aide de dispositifs portables, Cette liste pourra être réexaminée en tant que de besoin. L’instrument soutiendra également l’acquisition ou la modernisation d’équipements de contrôle douanier pour l’expérimentation de nouveaux dispositifs ou de nouvelles conditions sur le terrain avant que les États membres n’entament des achats à grande échelle d’équipements neufs.

      2. Fonds « Asile et migration » (FAMI)

      Quelles sont les priorités du Fonds « Asile et migration » ?

      Au cours des vingt dernières années, l’Union européenne a mis en place des normes communes en matière d’asile qui comptent parmi les plus élevées au monde. S’agissant des migrations, la politique européenne a progressé à pas de géant ces trois dernières années, sous l’effet de l’agenda européen en matière de migration proposé par la Commission Juncker en mai 2015. Une ligne de conduite plus homogène se dégage peu à peu pour faire face au phénomène.

      Outre qu’il soutiendra les efforts déployés actuellement, le nouveau Fonds accroîtra encore le soutien octroyé à la gestion des migrations, en s’attachant prioritairement :

      à offrir davantage de soutien aux États membres soumis aux pressions migratoires les plus fortes ;
      à soutenir davantage la migration légale et l’intégration rapide des ressortissants de pays tiers en séjour régulier ;
      à lutter contre l’immigration irrégulière, en accroissant le nombre de retours effectifs des personnes qui n’ont pas le droit de séjourner dans l’UE et en renforçant la coopération en matière de réadmission avec les pays tiers ;
      à équiper l’Union de moyens plus rapides et plus souples pour faire face aux crises.

      Comment les fonds prévus au titre du FAMI seront-ils répartis entre les États membres ?

      La Commission a proposé de consacrer 10,4 milliards d’euros au nouveau Fonds « Asile et migration » (FAMI).

      Un montant de 4,2 milliards d’euros (40 %) de cette enveloppe sera distribué tout au long de la période de financement pour apporter un appui ciblé aux États membres, qui concernera des projets ayant une véritable valeur ajoutée européenne comme la réinstallation ou servira à répondre à des besoins urgents et à orienter les financements d’urgence vers les États membres au moment et à l’endroit où ils en ont besoin.

      Le Fonds consacrera 6,3 milliards d’euros (60 %) à des financements de long terme destinés à soutenir les États membres en matière de gestion des migrations.

      Dans ce cadre sont prévus une dotation initiale accordée aux États membres (50 % de l’intégralité du Fonds, soit 5,2 milliards d’euros) et un ajustement à mi-parcours pour tenir compte de pressions nouvelles ou supplémentaires (10 %, soit 1,1 milliard d’euros).

      Chaque État membre recevra une somme forfaitaire de 5 millions d’euros, tandis que le solde sera réparti en fonction de la pression migratoire et des besoins des États membres dans les domaines de l’asile (30 %), de l’intégration et de la migration régulière (30 %) et de la lutte contre l’immigration illégale et du retour (40 %).

      Comment les dotations nationales seront-elles calculées ? Pourquoi n’est-il pas possible de fournir dès à présent la ventilation par État membre ?

      Les financements alloués aux États membres reflèteront précisément les besoins de chacun. Au début de la période de programmation, chaque État membre recevra un montant forfaitaire de 5 millions d’euros. Au-delà, leurs dotations respectives seront calculées sur la base d’une évaluation des besoins les plus pressants. Le solde sera réparti en fonction de la pression migratoire et des besoins des États membres en matière d’asile. Pour chaque État membre, cette évaluation tiendra compte :

      pour l’asile (pondération de 30 %) : du nombre de bénéficiaires reconnus d’une protection internationale (30 %), de demandeurs d’asile (60 %) et de personnes réinstallées (10 %) ;
      pour la migration légale et l’intégration (pondération de 30 %) : du nombre de ressortissants de pays tiers en séjour régulier (40 %) et du nombre de ressortissants de pays tiers qui ont obtenu un premier permis de séjour (les travailleurs saisonniers, les étudiants et les chercheurs ne relèvent pas de cette catégorie) ;
      pour le retour (pondération de 40 %) : du nombre de ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier qui ont fait l’objet d’une décision de retour (50 %) et du nombre de retours effectivement réalisés (50 %).

      Les calculs seront basés sur des données statistiques recueillies par Eurostat au cours des trois années civiles précédant l’entrée en application du nouveau budget.

      Étant donné que le prochain budget à long terme doit couvrir une période s’ouvrant en 2021, il n’est possible de prédire dès à présent ce que montreront des données futures. Une ventilation basée sur les données d’aujourd’hui donnerait une image biaisée, ne correspondant pas à ce que seront les dotations effectives.

      Quelles sont les mesures qui ont été prises au titre des Fonds actuels pour soutenir les États membres au cours de la crise migratoire ?

      Dans l’ensemble, l’actuel Fonds « Asile, migration et intégration » (FAMII) a soutenu efficacement et avec succès la réponse commune apportée par l’Union à l’aggravation des problèmes de migration et de sécurité, tout en envoyant également un message de solidarité aux États membres situés en première ligne. Par ailleurs, face à la crise migratoire, aux difficultés accrues sur le plan de la sécurité et à un environnement politique en perpétuelle évolution, la Commission a dû recourir à une multitude de modalités financières ad hoc pour appuyer une réponse commune et adéquate de l’UE, et ce d’autant plus que les mécanismes et réserves de flexibilité ont été créés à une époque où les flux migratoires étaient stables.

      Les augmentations budgétaires réalisées jusqu’au milieu de la période de financement actuelle 2014-2020 ont clairement prouvé que les moyens budgétaires avaient atteint leurs limites. La dotation du Fonds « Asile, migration et intégration » a plus que doublé (+ 123 %), les financements destinés aux organismes décentralisés pratiquement doublé (+ 86 %), et l’aide d’urgence augmenté de près de 500 %. Outre des instruments de financement de l’Union, dont certains devaient être modifiés pour être utilisés à l’intérieur de l’Union (notamment l’instrument d’aide d’urgence), l’Union a dû mettre en place des solutions de financement innovantes comme les Fonds fiduciaires pour mobiliser des financements au-delà des limites du cadre financier.

      L’expérience acquise avec l’actuel cadre financier fait apparaître un besoin évident de montants de financement considérablement accrus et d’une plus grande souplesse, de manière à garantir une gestion budgétaire saine et prévisible.

      Qu’en est-il de l’intégration qui figurant dans le Fonds précédent ?

      La Commission propose de donner un nouvel élan au soutien aux politiques d’intégration au titre du prochain budget à long terme en associant la force de frappe de plusieurs instruments de financement.

      Au titre du Fonds « Asile et migration », le soutien à l’intégration se concentrera sur les mesures d’intégration rapide et aura pour objectif d’apporter une aide lors des premières étapes clés de l’intégration comme les cours de langue, tout en soutenant également le renforcement des capacités des autorités chargées de la politique d’intégration, les guichets uniques d’information pour les migrants en séjour régulier récemment arrivés et les échanges entre les migrants en séjour régulier récemment arrivés et les membres de la communauté d’accueil.

      L’intégration à plus long terme bénéficiera d’un soutien au titre des Fonds de cohésion de l’UE, en particulier le futur Fonds social européen + et le futur Fonds européen de développement régional. Ces mesures d’intégration à long terme incluront des mesures d’appui structurel comme la formation professionnelle, l’éducation et le logement.

      Y aura-t-il des financements à la réinstallation ?

      Oui. La Commission propose que les États membres reçoivent 10 000 euros par personne réinstallée, comme dans le cadre des actuels programmes de réinstallation de l’UE.

      Comment les politiques de retour seront-elles soutenues ?

      Des retours effectifs sont une composante essentielle d’une politique migratoire de l’UE qui soit équitable et humaine, mais aussi – et c’est tout aussi important – viable. Le Fonds aidera à combattre la migration irrégulière, en garantissant la pérennité du retour et la réadmission effective dans les pays tiers. Comme pour toutes les politiques de l’UE, cela se fera dans le plein respect des droits fondamentaux et de la dignité des personnes faisant l’objet d’une mesure de retour.

      Seront soutenus : la mise en œuvre des retours ; le renforcement des infrastructures de retour et des capacités de rétention ; le développement de la coopération avec les pays d’origine, afin de faciliter la conclusion d’accords de réadmission, assortis de modalités pratiques, et leur mise en œuvre ; et la réintégration. Le Fonds soutiendra également les mesures visant d’abord à prévenir la migration irrégulière (campagnes d’information, collecte de données, suivi des flux et des routes migratoires, etc.).

      Quel est le lien avec la gestion des flux migratoires externes ?

      Les dimensions interne et externe à l’UE de la gestion des migrations sont étroitement liées. Le Fonds « Asile et migration » sera à même de soutenir la dimension externe des politiques internes de l’Union.

      Ce soutien sera largement complété par les fonds alloués, au titre de la politique extérieure de l’Union, à la lutte contre la dimension extérieure de la migration irrégulière, et notamment aux efforts déployés pour remédier à ses causes profondes, améliorer les perspectives d’avenir qu’offrent les pays d’origine et développer la coopération en matière de retour, de réadmission et de migration légale (voir les propositions sectorielles distinctes qui seront présentées dans les jours à venir).

      Les autorités locales et les organisations de la société civile pourront-elles également bénéficier de financements du Fonds ?

      La Commission considère que les administrations locales et régionales et la société civile jouent un rôle fondamental, notamment en matière d’intégration, et devraient en conséquence recevoir autant de soutien que possible.

      C’est pourquoi, alors que les fonds allaient jusqu’à présent aux autorités nationales en couverture de 75 % des coûts d’une mesure (taux de cofinancement), à l’avenir, lorsque des régions, des municipalités ou des organisations de la société civile mettront en œuvre semblables mesures, le budget de l’UE couvrira 90 % des coûts.

      Pourquoi des financements au nouveau système de Dublin sont-ils prévus au titre du FAMI, alors qu’il n’y a pas encore eu d’accord à ce sujet ?

      La proposition relative au FAMI prévoit d’ores et déjà un soutien au transfert des demandeurs d’asile en application du règlement de Dublin tel qu’il est proposé de le réformer. Les financements couvriraient les mesures de premier accueil et d’assistance de base, l’aide à l’intégration si le demandeur reçoit un statut de protection et l’aide aux personnes qui devraient faire l’objet d’une mesure de retour au cas où elles n’obtiendraient pas de protection ou de droit de séjour.

      La proposition reflète le règlement de Dublin en l’état actuel des négociations, mais elle sera adaptée en fonction du résultat final de ces négociations.

      Comment le suivi des fonds alloués à la gestion des frontières et des migrations sera-t-il assuré ?

      La Commission suivra la mise en œuvre des actions en gestion directe et indirecte. Pour les fonds dont la gestion est partagée entre l’UE et les États membres, la responsabilité première d’assurer le suivi des projets financés par l’UE incombera à ces derniers. Les autorités administrant les fonds de l’UE dans les États membres doivent mettre en place des systèmes de gestion et de contrôle satisfaisant aux exigences de l’UE, y compris en matière de suivi. Le suivi des actions faisant l’objet d’une gestion partagée sera assuré par chaque État membre, dans le cadre d’un système de gestion et de contrôle conforme au droit de l’UE (règlement portant dispositions communes). Une priorité nouvelle sera accordée à la réalisation d’évaluations régulières selon des indicateurs de performance (les États membres devront communiquer des données pour chaque programme, jusqu’à six fois par an).

      Les États membres devront également communiquer un rapport annuel de performance, fournissant des informations sur l’état de mise en œuvre du programme et indiquant si les valeurs intermédiaires et les valeurs cibles ont été atteintes. Une réunion de réexamen sera organisée tous les deux ans entre la Commission et chaque État membre pour apprécier la performance de chaque programme. À la fin de la période, chaque État membre présentera un rapport de performance final.

      http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-18-4127_fr.htm

    • LE VERE RAGIONI DELL’IMMIGRAZIONE AFRICANA : IL FURTO DELLA TERRA

      L’Unione europea ha appena deciso di triplicare i fondi per la gestione dei migranti: la somma messa a bilancio passerà dagli attuali 13 miliardi di euro (anni 2014-2021) ai futuri 35 miliardi di euro (anni 2021-2027).
      Prima di compiere l’analisi dei costi preventivati, dove i soldi vanno, per fare cosa, dobbiamo sapere cosa noi prendiamo dall’Africa, e cosa restituiamo all’Africa. Se noi aiutiamo loro oppure se loro, magari, danno una mano a noi.
      Conviene ripetere e magari ripubblicare. Quindi partire dalle basi, dai luoghi in cui i migranti partono.

      https://raiawadunia.com/le-vere-ragioni-dellimmigrazione-africana-il-furto-della-terra
      #land_grabbing #accaparement_de_terres

    • UE- #JAI : course effrénée au renforcement de Frontex au détriment des #droits_fondamentaux Featured

      Le 12 octobre, les #Conseil_Justice_et_Affaires_Intérieurs discutera de la nouvelle proposition de #réforme de Frontex, l’#agence_européenne_des_garde-côtes_et_garde-frontières, deux ans après la dernière révision du mandat en 2016. Peu importe les critiques relatives aux violations des droits inhérentes à ses activités : l’agence est en passe d’acquérir des #compétences_exécutives ainsi qu’un rôle accru pour expulser depuis les Etats membres et depuis les Etats non européens.

      Le collectif Frontexit réitère ses très fortes préoccupations quant à cette énième réforme et appelle le Etats membres et les parlementaires européens à refuser cette course législative symbole d’une obsession du contrôle des frontières au détriment des droits des personnes migrantes.

      La Commission européenne propose de porter le #personnel de Frontex à 10’000 hommes d’ici 2020 et son #budget à 1,3 milliards pour la période 2019/2020, soit une augmentation de plus de 6000% du budget prévisionnel en à peine 12 ans. L’agence jouera un rôle central et inédit dans la préparation des décisions de retour depuis les Etats-membres et dans la conduite des #expulsions entre/depuis des pays « tiers » sans prérogatives claires.

      Face au doublement du nombre de personnes expulsées depuis l’UE entre 2015 et 2017, au vu des mécanismes de contrôle politiques faibles, voire inexistants (aucune activité hors UE sous contrôle du Parlement européen) et des réponses aux violations des droits ineffectives et inefficaces, cette réforme mettra davantage en danger les personnes migrantes et affaiblira leurs maigres droits.

      L’UE poursuit une course effrénée au renforcement de Frontex alors qu’aucune étude d’impact de ses activités actuelles sur les droits fondamentaux n’a été réalisée. Il est urgent que les parlementaires européens exercent un droit de contrôle sur les activités de Frontex y compris hors de l’UE (déploiement croissant de l’agence en Afrique par exemple), de l’arsenal à sa disposition (#EUROSUR compris) et de leurs conséquences.

      Aucune justification tangible n’existe pour cette énième révision du mandat, si ce n’est – aux dires de l’UE – l’urgence de la situation. Pourtant, cette urgence n’existe pas (le nombre d’arrivées a été divisé par cinq depuis 2015 selon l’OIM), pas plus que la soi-disant « crise migratoire ». L’effondrement du nombre des arrivées est directement imputable à l’augmentation des dispositifs sécuritaires aux frontières et à la coopération sans limite avec des pays où les violations des droits sont légion.

      Frontex, prompte à qualifier de « passeurs » des pêcheurs tunisiens qui sauvent des vies, prompte à collaborer voire dispenser des formations à des Etats où les violations des droits sont documentées, est à l’image d’une Europe qui s’enfonce dans une logique toujours plus sécuritaire au détriment des droits des personnes exilées, mais également de leurs soutiens.

      Cette #fermeture_des_frontières est également une menace pour le respect des droits des personnes qui se voient obligées d’exercer leur droit à quitter tout pays par des voies toujours plus dangereuses.

      http://www.frontexit.org/fr/actus/item/904-ue-jai-course-effrenee-au-renforcement-de-frontex-au-detriment-des-dr
      #droits_humains

    • NGOs, EU and international agencies sound the alarm over Frontex’s respect for fundamental rights

      The Frontex Consultative Forum on Fundamental Rights has expressed “serious concerns about the effectiveness of Frontex’s serious incident reporting mechanism,” saying that it should be revised and that the border agency must “take additional measures to set up an effective system to monitor respect for fundamental rights in the context of its activities.”

      The inadequacy of the serious incident reporting (SIR) mechanism is raised in the latest annual report of the Consultative Forum (http://www.statewatch.org/news/2019/mar/eu-frontex-consultative-forum-annual-report-2018.pdf), which is made up of nine civil society organisations, two EU agencies and four UN agencies and other intergovernmental bodies. It was established in October 2012 to provide independent advice to the agency on fundamental rights.

      Its report notes that during 2018, Frontex “only received 3 serious incident reports for alleged violations of fundamental rights and 10 complaints,” described by as an “almost negligible number” given that the agency has some 1,500 officers deployed at the external borders of the EU.

      Fundamental rights violations

      The Consultative Forum highlights “fundamental rights violations in areas where the Agency is operational, including the Hungarian-Serbian and the Greek-Turkish land borders.”

      For example, interviews by Human Rights Watch with asylum seekers in Greece and Turkey found that:

      “Greek law enforcement officers at the land border with Turkey in the northeastern Evros region routinely summarily return asylum seekers and migrants… The officers in some cases use violence and often confiscate and destroy the migrants’ belongings.” (https://www.hrw.org/news/2018/12/18/greece-violent-pushbacks-turkey-border)

      This is simply the latest in a long line of reports and investigations documenting mistreatment and abuse at the Greek-Turkish border, where The Christian Science Monitor also heard allegations that Frontex was directly involved in pushback operations (https://www.csmonitor.com/World/Europe/2018/1221/Are-Greek-and-EU-officials-illegally-deporting-migrants-to-Turkey).

      The Consultative Forum’s report also points to numerous instances of collective expulsion from Croatia to Serbia and Bosnia Herzegovina; ill-treatment at the Bulgarian-Turkish border; and what the Hungarian Helsinki Committee refers to as “systemic violations of asylum-seekers’ human rights in Hungary.” (https://www.osce.org/odihr/396917?download=true)

      Repeat: suspend activities at Hungary-Serbia border

      In its report, the Consultative Forum repeats a recommendation it has made previously: until fundamental rights can be guaranteed, the Executive Director should use the powers available under the 2016 Frontex Regulation to “suspend operational activities” at the Hungarian-Serbian border.

      The agency offers little obvious information about its activities at that border on its website (https://frontex.europa.eu/along-eu-borders/main-operations/operations-in-the-western-balkans), merely stating that it “deploys specialised officers and border surveillance vehicles and other equipment” in both Hungary and Croatia, where its officers “assist the national authorities in the detection of forged documents, stolen cars, illegal drugs and weapons.”

      The December 2018 report by the Hungarian Helsinki Committee cited above doesn’t mention Frontex, but details serious malpractice by the Hungarian state: immediate pushbacks that negate the right to seek asylum; a lack of procedural safeguards for those that do manage to claim asylum; and a lack of state support to integrate and assist those that receive protection.

      Lack of staff “seriously undermining” fundamental rights obligations

      The Consultative Forum’s report also repeats a longstanding complaint that the inadequate provision of staff to the agency’s Fundamental Rights Officer is “seriously undermining the fulfilment” of their mandate “and, more generally Frontex’s capacity to fulfil its fundamental rights obligations”.

      According to the report, while there were 58 posts for administrators foreseen in the agency’s recruitment plan for 2018, not a single one was allocated to the Fundamental Rights Officer.

      Furthermore, “during the year, only three Senior Assistants… joined the Fundamental Rights Office,” and its work “continues to be compromised in areas such as monitoring of operations, handling of complaints, provision of advice on training, risk analysis, third country cooperation and return activities” - in short, those areas of the agency’s work raising the most high-profile fundamental rights concerns.

      Independence of Fundamental Rights Office at risk

      The report also warns that the independence of the Fundamental Rights Office is at risk.

      The problem centres on the appointment of an Advisor in the Executive Director’s Cabinet as interim replacement for the Fundamental Rights Officer, who in the second half of 2018 “took an extended period of sick leave”.

      The Consultative Forum has “noted that the appointment of a member of the Executive Director’s cabinet as Fundamental Rights Officer ad interim raises issues under the EBCG [Frontex] Regulation.”

      In particular, the “previous and future reporting expectations on the incumbent in relation to the Executive Director” make it:

      “difficult… to ensure that the Fundamental Rights Officer ad interim and the Fundamental Rights Officer’s team maintain their independence in the performance of their duties and avoid potential conflicts of interest.”

      A long list of issues

      The report also examines a number of other issues concerning fundamental rights and the agency’s work, including the ongoing amendments to its governing legislation; the treatment of stateless persons in Frontex operations; “gender mainstreaming at Frontex”; and the need for a revision of the Fundamental Rights Strategy, amongst other things.

      Full report: Frontex Consultative Forum on Fundamental Rights: Sixth annual report (http://www.statewatch.org/news/2019/mar/eu-frontex-consultative-forum-annual-report-2018.pdf)

      Further reading

      Frontex condemned by its own fundamental rights body for failing to live up to obligations (Statewatch News Online, 21 May 2018: http://www.statewatch.org/news/2018/may/eu-frontex-fr-rep.htm)

      http://www.statewatch.org/news/2019/mar/fx-consultative-forum-rep.htm

  • #Expanding_the_fortress

    La politique d’#externalisation_des_frontières de l’UE, ses bénéficiaires et ses conséquences pour les #droits_humains.

    Résumé du rapport

    La situation désespérée des 66 millions de personnes déplacées dans le monde ne semble troubler la conscience européenne que lorsqu’un drame a lieu à ses frontières et se retrouve sous le feu des projecteurs médiatiques. Un seul État européen – l’Allemagne – se place dans les dix premiers pays au monde en termes d’accueil des réfugiés : la grande majorité des personnes contraintes de migrer est accueillie par des États se classant parmi les plus pauvres au monde. Les migrations ne deviennent visibles aux yeux de l’Union européenne (UE) que lorsque les médias s’intéressent aux communautés frontalières de Calais, Lampedusa ou Lesbos et exposent le sort de personnes désespérées, fuyant la violence et qui finissent par mourir, être mises en détention ou se retrouver bloquées.

    Ces tragédies ne sont pas seulement une conséquence malheureuse des conflits et des guerres en cours dans différents endroits du monde. Elles sont aussi le résultat des politiques migratoires européennes mises en œuvre depuis les accords de Schengen de 1985. Ces politiques se sont concentrées sur le renforcement des frontières, le développement de méthodes sophistiquées de surveillance et de traque des personnes, ainsi que l’augmentation des déportations, tout en réduisant les possibilités de résidence légale malgré des besoins accrus. Cette approche a conduit un grand nombre de personnes fuyant la violence et les conflits et incapables d’entrer en Europe de manière légale à emprunter des routes toujours plus dangereuses.

    Ce qui est moins connu, c’est que les tragédies causées par cette politique européenne se jouent également bien au-delà de nos frontières, dans des pays aussi éloignés que le Sénégal ou l’Azerbaïdjan. Il s’agit d’un autre pilier de la gestion européenne des flux migratoires : l’externalisation des frontières. Depuis 1992, et plus encore depuis 2005, l’UE a mis en œuvre des politiques visant à externaliser les frontières du continent et empêcher les populations déplacées de parvenir à ses portes. Cela implique la conclusion d’accords avec les pays voisins de l’UE afin qu’ils reprennent les réfugiés déportés et adoptent, comme l’Europe, des mesures de contrôle des frontières, de surveillance accrue des personnes et de renforcement de leurs frontières. En d’autres termes, ces accords ont fait des pays voisins de l’UE ses nouveaux garde-frontières. Et parce qu’ils sont loin des frontières européennes et de l’attention médiatique, les impacts de ces politiques restent relativement invisibles aux yeux des citoyens européens.

    Ce rapport cherche à mettre en lumière les politiques qui fondent l’externalisation des frontières européennes et les accords conclus, mais aussi les multinationales et sociétés privées qui en bénéficient, et les conséquences pour les personnes déplacées ainsi que pour les pays et les populations qui les accueillent. Il est le troisième de la série Border Wars, qui vise à examiner les politiques frontalières européennes et à montrer comment les industries des secteurs de l’armement et de la sécurité ont contribué à façonner les politiques de sécurisation des frontières de l’Europe, puis en ont tiré les bénéfices en obtenant un nombre croissant de contrats dans le secteur.

    Ce rapport étudie l’augmentation significative du nombre de mesures et d’accords d’externalisation des frontières depuis 2005, le phénomène s’accélérant massivement depuis le sommet Europe-Afrique de La Valette en novembre 2015. Via une série de nouveaux instruments, tels que le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique (EUTF), le Cadre pour les partenariats avec les pays tiers en matière de gestion des migrations et la Facilité en faveur des réfugiés en Turquie, l’UE et les États membres injectent des millions d’euros dans un ensemble de projets visant à prévenir la migration de certaines populations vers le territoire européen.

    Cela implique la collaboration avec des pays tiers en matière d’accueil des personnes déportées, de formation des forces de police et des garde-frontières ou le développement de systèmes biométriques complets, ainsi que des donations d’équipements incluant hélicoptères, bateaux et véhicules, mais aussi des équipements de surveillance et de contrôle. Si de nombreux projets sont coordonnés par la Commission européenne, un certain nombre d’États membres, tels que l’Espagne, l’Italie et l’Allemagne, prennent également des initiatives individuelles plus poussées en finançant et en soutenant les efforts d’externalisation des frontières par le biais d’accords bilatéraux.

    Ce qui rend cette collaboration particulièrement problématique est le fait que de nombreux gouvernements qui en bénéficient sont profondément autoritaires, et que les financements sont souvent destinés aux organes de l’État les plus responsables des actes de répression et de violations des droits humains. L’UE fait valoir, à travers l’ensemble de ses politiques, une rhétorique consensuelle autour de l’importance des droits humains, de la démocratie et de l’état de droit ; il semble cependant qu’aucune limite ne soit posée lorsque l’Europe soutient des régimes dictatoriaux pour que ces derniers s’engagent à empêcher « l’immigration irrégulière » vers le sol européen. Le résultat concret se traduit par des accords et des financements conclus entre l’UE et des régimes aussi tristement célèbres que ceux du Tchad, du Niger, de Biélorussie, de Libye ou du Soudan.

    Les politiques européennes dans ce domaine ont des conséquences considérables pour les personnes déplacées, que le statut « illégal » rend déjà vulnérables et plus susceptibles de subir des violations de droits humains. Nombre d’entre elles finissent exploitées, avec des conditions de travail inacceptables, ou encore sont mises en détention ou directement déportées dans le pays qu’elles ont fui. Les femmes réfugiées sont particulièrement menacées par les violences basées sur le genre, les agressions et l’exploitation sexuelles.

    La violence et la répression que subissent les déplacés favorisent également l’immigration clandestine, reconfigurant les activités des passeurs et renforçant le pouvoir des réseaux criminels. De fait, les personnes déplacées sont souvent forcées de se lancer sur des routes alternatives, plus dangereuses, et de s’en remettre à des trafiquants de moins en moins scrupuleux. En conséquence, le nombre de morts sur les routes migratoires s’élève de jour en jour.

    En outre, le renforcement des organes de sécurité de l’Etat dans l’ensemble des pays du MENA (Moyen Orient Afrique du Nord), du Maghreb, du Sahel et de la Corne de l’Afrique constitue une menace directe contre les droits humains et la responsabilité démocratique dans ces zones, notamment en détournant des ressources essentielles qui pourraient suppress être destinées à des mesures économiques ou sociales. En effet, ce rapport montre que l’obsession européenne à prévenir les flux migratoires réduit non seulement les ressources disponibles, mais dénature également les échanges, l’aide et les relations internationales entre l’Europe et ces régions. Comme l’ont signalé de nombreux experts, ce phénomène crée un terreau favorable à toujours plus d’instabilité et d’insécurité, et a pour conséquence de pousser toujours plus de personnes à prendre la route de l’exil.

    Un secteur économique a cependant grandement tiré parti des programmes d’externalisation des frontières de l’UE. En effet, comme l’ont montré les premiers rapports Border Wars, les secteurs de l’industrie militaire et de sécurité ont été les principaux bénéficiaires des contrats de fourniture d’équipements et de services pour la sécurité frontalière. Les entreprises de ces secteurs travaillent en partenariat avec un certain nombre d’institutions intergouvernementales et (semi) publiques qui ont connu une croissance significative ces dernières années, à mesure qu’étaient mise en oeuvre des dizaines de projets portant sur la sécurité et le contrôle des frontières dans des pays tiers.
    Le rapport révèle que :

    La grande majorité des 35 pays considérés comme prioritaires par l’UE pour l’externalisation de ses frontières sont gouvernés par des régimes autoritaires, connus pour leurs violation des droits humains et avec des indicateurs de développement humain faibles.
    48% d’entre eux (17) ont un gouvernement autoritaire, et seulement quatre d’entre eux sont considérés comme démocratiques (mais toujours imparfaits)
    448% d’entre eux (17) sont listés comme « non-libres », et seulement trois sont listés comme « libres » ; 34% d’entre eux (12) présentent des risques extrêmes en matière de droits humains et les 23 autres présentent des risques élevés.
    51% d’entre eux (18) sont caractérisés par un « faible développement humain », seulement huit ont un haut niveau de développement humain.
    Plus de 70% d’entre eux (25) se situent dans le dernier tiers des pays du monde en termes de bien-être des femmes (inclusion, justice et sécurité)

    Les États européens continuent à vendre des armes à ces pays, et cela en dépit du fait que ces ventes alimentent les conflits, les actes de violence et de répression, et de ce fait contribuent à l’augmentation du nombre de réfugiés. La valeur totale des licences d’exportations d’armes délivrées par les États membres de l’UE à ces 35 pays sur la décennie 2007-2016 dépasse les 122 milliards d’euros. Parmi eux, 20% (7) sont sous le joug d’un embargo sur les ventes d’armes demandé par l’UE et/ou les Nations Unies, mais la plupart reçoivent toujours des armes de certains États membres, ainsi qu’un soutien à leurs forces armées et de sécurité dans le cadre des efforts liés aux politiques migratoires.

    Les dépenses de l’UE en matière de sécurité des frontières dans les pays tiers ont considérablement augmenté. Bien qu’il soit difficile de trouver des chiffres globaux, il existe de plus en plus d’instruments de financement pour les projets liés aux migrations, la sécurité et les migrations provient de plus en plus d’instruments, la sécurité et les migrations irrégulières étant les principales priorités. Ces fonds proviennent aussi de l’aide au développement. Plus de 80% du budget de l’EUTF vient du Fonds européen de développement et d’autres fonds d’aide au développement et d’aide humanitaire.

    L’augmentation des dépenses en matière de sécurité des frontières a bénéficié à un large éventail d’entreprises, en particulier des fabricants d’armes et des sociétés de sécurité biométrique. Le géant de l’armement français Thales, qui est également un exportateur incontournable d’armes dans la région, est par exemple un fournisseur reconnu de matériel militaire et de sécurité pour la sécurisation des frontières et de systèmes et équipements biométriques. D’autres fournisseurs importants de systèmes biométriques incluent Véridos, OT Morpho et Gemalto (qui sera bientôt racheté par Thales). L’Allemagne et l’Italie financent également leurs propres groupes d’armement – Hensoldt, Airbus et Rheinmetall pour l’Allemagne et Leonardo et Intermarine pour l’Italie – afin de soutenir des programmes de sécurisation des frontières dans un certain nombre de pays du MENA, en particulier l’Égypte, la Tunisie et la Libye. En Turquie, d’importants contrats de sécurisation des frontières ont été remportés par les groupes de défense turcs, notamment Aselsan et Otokar, qui utilisent les ressources pour subventionner leurs propres efforts de défense, également à l’origine des attaques controversées de la Turquie contre les communautés kurdes.

    Un certain nombre d’entreprises semi-publiques et d’organisations internationales ont également conclu des contrats de conseil, de formation et de gestion de projets en matière de sécurité des frontières. On y trouve la société para-gouvernementale française Civipol, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et le Centre international pour le développement des politiques migratoires (ICMPD). Les groupes Thales, Airbus et Safran sont présents au capital de Civipol, qui a rédigé en 2003, à titre de consultant pour la Commission Européenne, un document très influent établissant les fondations pour les mesures actuelles d’externalisation des frontières, dont elle bénéficie aujourd’hui.

    Les financements et les dons en matière d’équipements militaires et de sécurité ainsi que la pression accrue sur les pays tiers pour qu’ils renforcent leurs capacités de sécurité aux frontières ont fait croître le marché de la sécurité en Afrique. Le groupe de lobbying Association européenne des industries aérospatiales et défense (ASD) a récemment concentré ses efforts sur l’externalisation des frontières de l’UE. De grands groupes d’armement tels qu’Airbus et Thales lorgnent également sur les marchés africains et du Moyen-Orient, en croissance.

    Les décisions et la mise en œuvre de l’externalisation des frontières au niveau de l’Union européenne ont été caractérisées par une rapidité d’exécution inhabituelle, hors du contrôle démocratique exercé par le Parlement européen. De nombreux accords importants avec des pays tiers, parmi lesquels les pactes « Migration Compact » signés dans le Cadre pour les partenariats et l’Accord UE- Turquie, ont été conclus sans ou à l’écart de tout contrôle parlementaire.

    Le renforcement et la militarisation de la sécurité des frontières ont conduit à une augmentation du nombre de morts parmi les personnes déplacées. En général, les mesures visant à bloquer une route particulière de migration poussent les personnes vers des routes plus dangereuses. En 2017, on a dénombré 1 mort pour 57 migrants traversant la Méditerranée ; en 2015, ce chiffre était de 1 pour 267. Cette statistique reflète le fait qu’en 2017, les personnes déplacées (pourtant moins nombreuses qu’en 2015), principalement originaires d’Afrique de l’Ouest et de pays subsahariens, ont préféré la route plus longue et plus dangereuse de la Méditerranée Centrale plutôt que la route entre la Turquie et la Grèce empruntée en 2015 par des migrants (principalement Syriens). On estime que le nombre de migrants morts dans le désert est au moins le double de ceux qui ont péri en Méditerranée, bien qu’aucun chiffre officiel ne soit conservé ou disponible.

    On assiste à une augmentation des forces militaires et de sécurité européennes dans les pays tiers pour la sécurité aux frontières. L’arrêt des flux migratoires est devenu une priorité des missions de Politique de sécurité et de défense commune (PSDC) au Mali et au Niger, tandis que des États membres tels que la France ou l’Italie ont également décidé de déployer des troupes au Niger ou en Libye.

    Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières et garde-côtes, collabore de plus en plus avec les pays tiers. Elle a entamé des négociations avec des pays voisins de l’UE pour mener des opérations conjointes sur leurs territoires. La coopération en matière de déportation est déjà largement implantée. De 2010 à 2016, Frontex a coordonné 400 vols de retours conjoints avec des pays tiers, dont 153 en 2016. Depuis 2014, certains de ces vols ont été appelés « opérations de retour conjoint », l’avion et les escortes navigantes provenant des pays de destination. Les États membres invitent de plus en plus fréquemment des délégations de pays tiers à identifier les personnes « déportables » sur la base de l’évaluation de nationalité. Dans plusieurs cas, ces identifications ont conduit à l’arrestation et à la torture des personnes déportées.

    Ce rapport examine ces impacts en cherchant à établir comment ces politiques ont été mises en œuvre en Turquie, en Libye, en Égypte, au Soudan, au Niger, en Mauritanie et au Mali. Dans tous ces pays, pour parvenir à la conclusion de ces accords, l’UE a dû fermer les yeux ou limiter ses critiques sur les violations des droits humains.

    En Turquie, l’UE a adopté un modèle proche de celui de l’Australie, externalisant l’ensemble du traitement des personnes déplacées en dehors de ses frontières, et manquant ainsi à des obligations fondamentales établies par le droit international, telles que le principe de non-refoulement, le principe de non-discrimination (l’accord concerne exclusivement les populations syriennes) et le principe d’accès à l’asile.

    En Libye, la guerre civile et l’instabilité du pays n’ont pas empêché l’UE ni certains de ses États membres, comme l’Italie, de verser des fonds destinés aux équipements et aux systèmes de gestion des frontières, à la formation des garde-côtes et au financement des centres de détention – et ce bien qu’il ait été rapporté que des garde-côtes avaient ouvert le feu sur des bateaux de migrants ou que des centres de détentions étaient gérés par des milices comme des camps de prisonniers.

    En Égypte, la coopération frontalière avec le gouvernement allemand s’est intensifiée malgré la croissante consolidation du pouvoir militaire dans le pays. L’Allemagne finance les équipements et la formation régulière de la police aux frontières égyptienne. Les personnes déplacées se trouvent régulièrement piégées dans le pays, dans l’impossibilité de se rendre en Libye du fait de l’insécurité qui y règne, et subissent les tirs des gardes-côtes égyptiens s’ils décident de prendre la route maritime.

    Au Soudan, le soutien à la gestion des frontières fourni par l’UE n’a pas seulement conduit à suppress sortir un régime dictatorial de son isolement sur la scène internationale, mais a également renforcé les Forces de soutien rapide, constituées de combattants de la milice Janjawid, considérée comme responsables de violations de droits humains au Darfour.

    La situation au Niger, un des pays les plus pauvres au monde, montre bien le coût de la politique de contrôle des migrations subi par les économies locales. La répression en cours à Agadez a considérablement affaibli l’économie locale et poussé la migration dans la clandestinité, rendant la route plus dangereuse pour les migrants et renforçant le pouvoir des gangs de passeurs armés. De même au Mali, l’imposition des mesures d’externalisation des frontières par l’UE dans un pays tout juste sorti d’une guerre civile menace de raviver les tensions et de réveiller le conflit.

    L’ensemble des cas étudiés met en lumière une politique de l’UE via-à-vis de ses voisins obsessionnellement focalisée sur les contrôles migratoires, quel que soit le coût pour les pays concernés ou les populations déplacées. C’est une vision étroite et finalement vouée à l’échec de la sécurité, car elle ne s’attaque pas aux causes profondes qui poussent les gens à migrer : les conflits, la violence, le sous-développement économique et l’incapacité des États à gérer correctement ces situations. Au lieu de cela, en renforçant les forces militaires et de sécurité dans la région, ces politiques prennent le risque d’exacerber la répression, de limiter la responsabilité démocratique et d’attiser des conflits qui pousseront plus de personnes à quitter leurs pays. Il est temps de changer de cap. Plutôt que d’externaliser les frontières et les murs, nous devrions externaliser la vraie solidarité et le respect des droits de l’homme.


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    pour télécharger le #rapport :
    https://www.tni.org/files/publication-downloads/expanding_the_fortress_-_1.6_may_11.pdf

    cc @reka @albertocampiphoto @daphne @marty

    • Esternalizzare le frontiere europee significa militarizzare

      Come dimostra il recente rapporto del Transnational Institut, «Espandendo la Fortezza», la crescita della spesa per il controllo delle frontiere esterne avvantaggia produttori di armi e società di sicurezza biometrica. Molte delle loro proposte sono poi apparse nell’Agenda europea sotto forma di decisioni politiche. Sara Prestianni analizza le conseguenze militari dell’esternalizzazione delle frontiere europee.

      http://openmigration.org/analisi/esternalizzare-le-frontiere-europee-significa-militarizzare

    • 3 liens vers des articles/reportages de #Gabriele_Del_Grande, un des premiers journalistes à avoir visité les centres en Libye.

      C’était 2008-2009
      Libia: siamo entrati a #Misratah. Ecco la verità sui 600 detenuti eritrei

      Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di 600 persone, tra cui 58 donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di 20 metri per 20 su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo.

      Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno 6.000 profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione a Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno 320.000 ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo 4,7 milioni di abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre 130.000 persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

      La prima volta che sentii parlare di Misratah fu nella primavera del 2007, durante un incontro a Roma con il direttore dell’Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, Mohamed al Wash. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007, insieme alla associazione eritrea Agenzia Habeshia, riuscimmo a stabilire un contatto telefonico con un gruppo di prigionieri eritrei che erano riusciti a introdurre un telefono cellulare nel campo. Si lamentavano delle condizioni di sovraffollamento, della scarsa igiene dei bagni, e delle precarie condizioni di salute, specie di donne incinte e neonati. E accusavano gli agenti di polizia di avere molestato sessualmente alcune donne durante le prime settimane di detenzione. Amnesty International si espresse più volte per bloccare il loro rimpatrio. E il 18 settembre 2007 la diaspora eritrea organizzò manifestazioni nelle principali capitali europee.

      Il direttore del centro, colonnello ‘Ali Abu ‘Ud, conosce i report internazionali su Misratah, ma respinge le accuse al mittente: “Tutto quello che dicono è falso” dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre 200 detenuti. Abu ‘Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto un dire. Dopo una lunga insistenza, insieme a un collega della radio tedesca, Roman Herzog, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. Ci dividiamo. Intervisto F., 28 anni, da 24 mesi chiuso qua dentro. Mentre lui parla mi accorgo che non lo sto ascoltando, in verità provo a mettermi nei suoi panni. Abbiamo grossomodo la stessa età, ma lui i migliori anni della vita li sta buttando via in un carcere, senza un motivo apparente.

      Dall’altro lato del cortile, Roman è riuscito a parlare per qualche minuto con un rifugiato sottraendosi al controllo degli agenti della sicurezza che vigilano sul nostro lavoro e riprendono con una telecamera le nostre attività. Si chiama S.. Parla liberamente: “Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!” Intanto l’interprete li ha raggiunti e traduce tutto al direttore del campo, che interrompe l’intervista e chiede a S. se per caso non vuole ritornare in Eritrea. Lui risponde di no, intanto Roman lo invita ad allontanarsi a passo svelto e a dire tutto quello che può prima che il direttore li interrompa di nuovo. “Siamo qui da più di due anni, senza nessuna speranza. Siamo tutti eritrei. Io sono venuto in Libia nel 2005. Cerchiamo asilo politico, a causa della situazione nel nostro paese. Ma il mondo non si interessa a noi. Non è facile stare due anni in prigione, senza nessuna comodità. Siamo in prigione, non vediamo mai l’esterno. Tutti noi abbiamo bisogno della libertà, ecco di cosa abbiamo bisogno”.

      La polizia si avvicina nuovamente, Roman chiede a S. di mostrargli la sua stanza. Zigzagando tra la folla nel cortile entrano nel corridoio su cui danno la vista quattro stanze. All’interno, 18 ragazzi siedono su coperte e materassini di gommapiuma stesi sul pavimento. La stanza misura quattro metri per cinque. Al centro, una pentola gorgoglia sopra un fornellino da campeggio. Non ci sono finestre. “Siamo in troppi qui, è sovraffollato – dice S. – non vediamo la luce del sole e non c’è ricambio d’aria. Con il caldo d’estate la gente si ammala. E anche di inverno, fa molto freddo di notte, la gente si ammala”. Siamo a fine novembre, e i ragazzi indossano ciabatte da mare e leggeri pullover. La stanza accanto è più grande, ci sono solo donne e bambini, ma sono almeno il doppio.

      A quel punto gli uomini della sicurezza interrompono l’intervista e portano Roman fuori dal cortile, dove gli presentano un rifugiato scelto dal direttore... “Sono anche io un prigioniero” gli dice. Ma lui preferisce parlare con J.. Ha 34 anni e dice di essere stato in 13 prigioni diverse in Libia: “Alcuni di noi sono qui da quattro anni. Personalmente sono a Misratah da tre anni. Siamo nella peggiore delle situazioni. Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perchè? Visto che nessuno ci informa. Che cosa sta succedendo là fuori? Diteci che cosa sarà di noi! Nemmeno l’Acnur. Non ci dicono mai niente. Non ho più speranza, quando ci vado a parlare nemmeno mi ascoltano. Pesavo 60 kg quando sono entrato, adesso ne peso 48, immagina perchè..”

      Il colonnello Abu ‘Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. “Vuoi ritornare in Eritrea?” chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. “Preferisco morire – gli risponde – tutti preferirebbero morire. “Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno” minaccia il direttore. “Ci vietano di parlare con te” dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia “Dite loro che li rimpatrieremo tutti!”. Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: “Finito!”. Roman cerca di protestare, “abbiamo finito” gli ripette Abu ‘Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. “Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perchè siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?” chiede alla folla. “Nessuno!” gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega “Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito”.

      Saliamo di nuovo nell’ufficio del colonnello, che con toni molto nervosi cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate – come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur), oppure provare a scappare.

      Haron ha 36 anni. A casa ha lasciato una moglie e due bambini. Dall’Eritrea è scappato dopo 12 anni di servizio militare non retribuito. Dopo due anni di detenzione a Misratah, la Svezia ha accettato la sua richiesta di reinsediamento. E’ partito tre giorni dopo la nostra visita, il 27 novembre 2008, con un gruppo di altri 26 rifugiati eritrei del campo di Misratah, tra cui molte donne. I posti lasciati vuoti saranno presto riempiti con i nuovi arrestati. Già la settimana scorsa sono arrivate otto donne. I reinsediamenti sono le uniche carte che l’Acnur riesce a giocare, da un anno a questa parte, in Libia. Le prime 34 donne eritree lasciarono il campo di Misratah nel novembre del 2007 e furono accolte dall’Italia, a Cantalice, un piccolo comune nella campagna di Rieti. Per l’Italia fu il primo reinsediamento ufficiale di rifugiati dai tempi della crisi cilena del 1973. Ma l’operazione venne censurata dagli uffici stampa del Ministero dell’Interno, per non sollevare polemiche tra i leghisti. Insieme alle donne arrivarono 5 uomini e una bambina nata pochi giorni prima.

      Da allora, circa 200 rifugiati sono stati trasferiti da Misratah in vari paesi. Oltre all’Italia (70), anche in Romania (39), Svezia (27), Canada (17), Norvegia (9) e Svizzera (5). A snocciolarmi i dati è Osama Sadiq. E’ il coordinatore dei progetti della International organisation for peace care and relief (Iopcr). Una importante ong libica, che si dichiara non governativa, ma che tanto indipendente non deve essere, visto che ha al suo interno ex funzionari del ministero dell’interno e della sicurezza. E che è talmente influente, che l’Acnur riesce a entrare a Misratah soltanto sotto la sua copertura. Proprio così. In un paese dove transitano ogni anno migliaia di rifugiati eritrei, ma anche sudanesi, somali ed etiopi, l’Acnur conta meno di una ong. Non ha nemmeno un accordo di sede. E non riesce a spendere una parola a livello internazionale per la liberazione dei 600 prigionieri di Misratah. Probabilmente a dettare la linea politica dell’Acnur in Libia sono fragili equilibri diplomatici da non rompere per non rischiare di farsi cacciare da un Paese che non ha nemmeno mai firmato la Convenzione di Ginevra. Eppure la Libia sta conoscendo una importante fase di apertura. E il governo lavora a una nuova legge sull’immigrazione che però – secondo chi ha letto la bozza - non contiene nessun riferimento alla protezione dei rifugiati.

      Per quelli che non rientrano nei progetti di reinsediamento dell’Acnur, non rimane che l’ennesima fuga. Koubros è uno di loro. Lo incontriamo sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. E’ scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Dove è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare 300 dollari dagli amici eritrei in città. Siede vicino a Tadrous. Anche lui eritreo, anche lui disertore in fuga dal suo paese. E’ uscito due settimane fa dal carcere di Surman. Era stato condannato a cinque mesi di galera dopo essere stato trovato in mare con altri 90 passeggeri, a Zuwarah. In carcere si è preso la scabbia. Gli chiediamo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. Dice che è pericoloso. Gli eritrei vivono nascosti. La nostra presenza potrebbe allertare la polizia e provocare una retata. Y. però la pensa diversamente, vive in una zona diversa. Lo seguiamo.

      Scendiamo in una traversa sterrata di Shar‘a Ahad ‘Ashara, l’undicesima strada, a Gurgi. Qui vivono molti immigrati africani. L’appartamento è di proprietà di una famiglia chadiana, che ha affittato a sette eritrei le due piccole stanze sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. E’ un posto sicuro, dicono, perchè l’ingresso della casa passa dall’appartamento della famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar‘a ‘Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima si correvano a nascondere. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera.

      Continuiamo a parlare delle loro esperienze nelle carceri libiche. Ognuno di loro è stato arrestato almeno una volta. E tutti sono usciti grazie alla corruzione. Basta pagare la polizia, da 200 a 500 dollari, per scappare o per non essere arrestati. I soldi arrivano con Western Union, grazie a una rete di solidarietà tra gli eritrei della diaspora, in Europa e in America.

      Anche Robel è stato a Misratah. C’ha passato un anno. Ci mostra il certificato di richiedente asilo rilasciato dall’Acnur. Scade l’11 maggio 2009. Ma con quello non si sente al sicuro. “Un mio amico è stato arrestato lo stesso, glielo hanno strappato sotto gli occhi”. Durante la detenzione, ha scritto un appello alla comunità internazionale, con un gruppo di sei studenti eritrei.

      Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. E’ la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa con Tadrous. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. “L’importante è arrivare nelle acque internazionali”, dice Y.. Gli intermediari eritrei (dallala) che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le email dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Prima della mia partenza per la Libia, un amico etiope mi aveva dato il numero di telefono di un suo compagno di viaggio, ancora a Tripoli, un certo Gibril. Ho provato a chiamarlo per tutto il tempo, ma il numero era spento. Nell’orecchio mi risuona ancora l’incomprensibile messaggio vocale in arabo. Speriamo che sia arrivato in Italia, o piuttosto a Misratah. E non in fondo al mare.


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/libia-siamo-entrati-misratah-ecco-la.html

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      Frontiera Sahara. I campi di detenzione nel deserto libico
      SEBHA - “Con noi c’era un bambino di quattro anni con la madre, durante tutto il viaggio mi sono domandato: come si può mandare una madre con un bambino di quattro anni insieme ad altre cento persone stipate come animali in un camion come quelli per la frutta, dove non c’è aria e dove stavamo stretti stretti, senza spazio per muoversi, per 21 ore di viaggio, dove le persone urinavano e defecavano davanti a tutti perché non c’era altra possibilità? Abbiamo viaggiato dalle 16:00 alle 13:00 del giorno dopo. Durante il giorno ogni volta che l’autista faceva una sosta per mangiare noi rimanevamo chiusi dentro il rimorchio sotto il sole. Mancava l’aria e tutti si alzavano in preda al panico perché non si respirava e volevamo scendere. Guardare il bambino ci faceva coraggio. Quando il camion si fermava lo prendevamo e lo mettevamo vicino al finestrino. Si chiamava Adam. Il camion si è fermato almeno tre volte nel deserto per far mangiare gli autisti e per la preghiera... Verso l’una siamo arrivati a Kufrah… Quando sono sceso ho rubato il burro con il pane che tenevano appeso fuori dal container. Non avevamo mangiato per tutto il viaggio, eravamo 110 persone, compreso Adam di quattro anni e sua madre”. [1]

      Menghistu non è l’unico a essere stato chiuso dentro un container e deportato. In Libia è la prassi. I container servono a smistare nei vari campi di detenzione i migranti arrestati sulle rotte per Lampedusa. Ne esistono di tre tipi. Il più piccolo è un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio. Quando un rifugiato eritreo, nella primavera del 2006, me ne parlò per la prima volta, stentai a crederlo. L’immagine di centinaia di uomini, donne e bambini rinchiusi dentro una scatola di ferro per essere concentrati in dei campi di detenzione e da lì deportati, mi rievocava i fantasmi della seconda guerra mondiale. Mi sembrava troppo. Ma la figura del container ritornava, come un marchio di autenticità, in tutte le storie di rifugiati transitati dalla Libia che avevo intervistato dopo di lui. Finché quei camion ho avuto modo di vederli con i miei occhi.

      A Sebha ce n’è uno per ogni tipo. Siamo alle porte del grande deserto libico, nella capitale della storica regione del Fezzan. Da qui, fino al secolo scorso passavano le carovane che attraversavano il Sahara. Oggi alle carovane si sono sostituiti gli immigrati. Il colonnello Zarruq è il direttore del nuovo centro di detenzione della città. È stato inaugurato lo scorso 20 agosto. I tre capannoni si intravedono oltre il muro di cinta. Ognuno ha quattro camerate, in tutto il centro possono essere detenute fino a 1.000 persone. Nel parcheggio sterrato, è parcheggiato un camion con uno dei container utilizzati per lo smistamento degli immigrati detenuti. Con una pacca sulle spalle, il direttore mi invita a salire sulla motrice. Un Iveco Trakker 420, a sei ruote. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato ieri sera da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Entriamo nel container, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra in questa scatola di ferro. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra, sotto le panche di ferro. Su una c’è scritto Gambia.

      L’acqua è il bagaglio essenziale per i migranti che attraversano il deserto. Ognuno prima di partire si porta dietro una o due taniche. Le riveste di juta per proteggerle dal sole e ci scrive su il proprio nome per riconoscerle una volta appese ai lati dei camion. Nelle traversate del Sahara la vita è appesa a un filo. Se il motore va in panne, se il camion si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono a decine ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Sulla stampa internazionale abbiamo censito almeno 1.621 vittime in tutto il Sahara. Ma stando alle testimonianze dei sopravvissuti, ogni viaggio conta i suoi morti. E ogni viaggio conta i suoi attacchi da parte di bande armate in Niger e Algeria.

      Tra i cento migranti arrivati a Sebha nel container di ieri c’è anche una famiglia di Sikasso, in Mali. Padre, madre e bambino. Arrestati tre giorni prima, a Ghat, alla frontiera con l’Algeria. Li incontriamo nell’ufficio del direttore. Il piccolino ha otto anni, faceva la terza elementare. Il padre lo stringe affettuosamente tra le forti braccia, mentre racconta in arabo, al nostro interprete, che lui in Europa non ci voleva andare. Che era venuto a Sebha perché aveva già lavorato qui nel 2002, con una compagnia tedesca. Hanno con sé i passaporti, ma senza il visto libico. Nel campo sono chiusi in celle separate. Il bimbo sta con la madre. I loro nomi compaiono sulle liste dei prossimi aerei pronti a partire. Nei primi undici mesi dell’anno, soltanto da Sebha, hanno deportato più di 9.000 persone, soprattutto nigeriani, maliani, nigerini, ghanesi, senegalesi e burkinabé. Solo a novembre i rimpatri sono stati 1.120. Zarruq mi mostra l’elenco dei voli: 467 nigeriani deportati il 2 settembre, 420 maliani a metà novembre. Le ambasciate mandano qui i loro funzionari per identificare i propri cittadini, e poi si provvede al rimpatrio. Kabbiun e Ajouas hanno già incontrato l’ambasciata nigeriana. I piedi di Kabbiun sono scalzi. Lo hanno arrestato a Ghat, le scarpe le ha lasciate in mezzo al deserto. Ajouas invece viveva a Tripoli da sei anni. Nessuno di loro ha visto un giudice o un avvocato. Avviene tutto senza convalida e senza nessuna possibilità di presentare ricorso e tantomeno di chiedere asilo politico.

      È il caso di Patrick. Viene dalla Repubblica democratica del Congo, recentemente tornata alle cronache per la crisi nella regione del Kivu. È stato arrestato un mese fa a Tripoli, mentre cercava lavoro alla giornata sotto i cavalcavia di Suq Thalatha. Possiamo parlare liberamente in francese, perché l’interprete non lo conosce. Mi porge un foglio spiegazzato dalla tasca. È il suo certificato di richiedente asilo politico. Rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) a Tripoli, il nove ottobre 2007. Qua dentro è carta straccia. Come gli altri detenuti, Patrick non ha diritto di telefonare a nessuno, nemmeno all’Acnur. Se non trova prima i soldi per corrompere qualche poliziotto, anche lui, prima o poi, sarà deportato. E come lui i suoi compagni di cella. Sono camerate di otto metri per otto. I detenuti sono buttati per terra su stuoini e cartoni. La luce entra dalle vetrate in cima alle alte pareti. Ogni camerata è riempita con 60-70 persone. Stanno chiusi tutto il giorno, escono solo per i pasti, in un locale adibito a mensa, accanto a un piccolo chiosco dove i detenuti possono comprare bibite, dolci o medicine, sempre all’interno del muro di cinta.

      Le compagnie aeree che si occupano delle deportazioni sono libiche: Ifriqiya e Buraq Air. I soldi pure, garantisce il direttore. Ma è difficile credergli. Dopotutto il rapporto della Commissione europea del dicembre 2004 parlava già allora di 47 voli di rimpatrio finanziati dall’Italia. Zarruq scuote il capo. Dice che da Roma hanno avuto soltanto due fuoristrada per il pattugliamento, con il progetto Across Sahara. E il nuovo centro di detenzione? Ha finanziato tutto la Libia, insiste. Ammette però che l’Italia si era impegnata a costruire un nuovo centro, e che la a sha‘abiyah, la municipalità, aveva anche predisposto un terreno. Ma poi non se ne è fatto niente. Intanto però il vecchio campo è stato restaurato e ampliato, grazie anche ai lavori forzati degli immigrati detenuti. Questo Zarruq non me lo può dire, ma sono voci che corrono tra i rimpatriati, dall’altro lato della frontiera, a Agadez, in Niger. Ad ogni modo, insiste, oggi tutti i rimpatri avvengono in aereo, anche quelli verso il Niger: Sono passati i tempi dei cosiddetti “rimpatri volontari”, quando, nel 2004, oltre 18.000 nigerini e non solo vennero caricati sui camion e abbandonati alla frontiera in pieno deserto, con le decine di vittime che ne seguirono a causa degli incidenti.

      Ma Zarruq non ha intenzione di parlare di questo. E nemmeno il luogo tenente Ghrera. È lui il responsabile delle pattuglie nel Sahara. L’Italia e l’Europa si sono impegnate a finanziare alla Libia un sistema di controllo elettronico delle frontiere terrestri, firmato FinMeccanica. Lui alla sola idea sorride. Lavora nel deserto da 35 anni. Conosce bene il terreno. Per darci un’idea ci accompagna a Zellaf, 20 km a sud di Sebha. Ancora non siamo nel grande Sahara. Eppure davanti a noi non si vede che sabbia. I due fuoristrada, dopo una corsa a cento km all’ora sulle dune, fermano i motori. Ghrera e l’altro autista, ‘Ali, si lavano le mani nella sabbia. E si inginocchiano verso est. Dopo la preghiera, si riavvicinano. Controllare le rotte nel Sahara è impossibile, dice. Sono 5.000 km di deserto. Un’area troppo vasta e un terreno troppo accidentato Gli 89 autisti – quasi tutti libici – arrestati nei primi undici mesi del 2008 sono un’inezia rispetto alle migliaia di persone che attraversano il Sahara ogni anno. Alle missioni di pattugliamento partecipano gruppi di 10 fuoristrada. Stanno fuori per cinque giorni, ci spiega. Poi sorride. Ha trovato una bottiglia vuota di Gin, per terra. L’alcol in Libia è illegale. E infatti sulla bottiglia c’è scritto fabriqué au Niger, prodotto in Niger. Ghrera lancia la bottiglia nella sabbia, poco lontano. Non dice niente. I traffici non riguardano solo gli immigrati. Ci sono l’alcol, le sigarette, la droga, le armi. Prima di riaccendere il motore ribadisce il concetto: anche con il doppio delle pattuglie, il deserto rimane una porta aperta.

      Il centro di detenzione di Sebha non è l’unico campo di detenzione al sud. Ce ne sono almeno altri cinque. Quelli di Shati, Qatrun, Ghat e Brak, nel sud ovest del paese, fanno capo a Sebha, nel senso che gli immigrati arrestati in queste località vengono poi smistati a Sebha dentro i container. L’altro campo si trova 800 km a sud est, a Kufrah, e lì vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan. È il carcere che gode della peggiore fama, tra gli stessi libici.

      Mohamed Tarnish è il presidente dell’Organizzazione per i diritti umani, una ong libica finanziata dalla Fondazione di Saif al Islam Gheddafi, il primogenito del colonnello. Ci incontriamo al Caffè Sarayah, a due passi dalla Piazza Verde, a Tripoli. La sua organizzazione, sotto la guida del suo predecessore, Jum‘a Atigha, ha ottenuto il rilascio di circa 1.000 prigionieri politici e si è battuta per il miglioramento delle condizioni delle carceri libiche. Da un paio d’anni hanno accesso anche ai centri di detenzione degli immigrati. Ne hanno visitati sette. Ha la bocca cucita, davanti a noi c’è un funzionario dell’agenzia per la stampa estera del governo libico. Ma riesce comunque a farci capire che il centro di Kufrah è il peggiore. Le condizioni del vecchio fabbricato, il sovraffollamento, la scadenza del cibo e l’assenza di assistenza sanitaria.

      Per capire il significato delle allusioni di Tarnish, rileggo le interviste fatte ai rifugiati eritrei ed etiopi nel 2007.“Dormivamo in 78 in una cella di sei metri per otto” - “Dormivamo per terra, la testa accanto ai piedi dei vicini” - “Ci tenevano alla fame. Un piatto di riso lo potevamo dividere anche in otto persone” - “Di notte mi portavano in cortile. Mi chiedevano di fare le flessioni. Quando non ce la facevo più mi riempivano di calci e maledivano me e la mia religione cristiana” – “Usavamo un solo bagno in 60, nella cella c’era un odore perenne di scarico. Era impossibile lavarsi” - “C’erano pidocchi e pulci dappertutto, nel materasso, nei vestiti, nei capelli” - “I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti”. È il ritratto di un girone infernale. Ma anche di un luogo di affari. Sì perché da un paio d’anni la polizia è solita vendere i detenuti agli stessi intermediari che poi li porteranno sul Mediterraneo. Il prezzo di un uomo si aggira sui 30 dinari, circa 18 euro.

      Non sono stato autorizzato a visitare il centro di Kufrah e non ho potuto verificare di persona. Tuttavia il fatto che le versioni dei tanti rifugiati con cui ho parlato coincidano nel disegnare un luogo di abusi, violenze e torture, mi fa pensare che sia tutto vero. Nel 2004 la Commissione europea riferiva che l’Italia stava finanziando il centro di detenzione di Kufrah. Nel 2007 il governo Prodi smentiva la notizia, dicendo che si trattava di un centro di assistenza sanitaria. Poco importa. Dal 2003, Italia e Unione Europea finanziano operazioni di contrasto dell’immigrazione in Libia. La domanda è la seguente: perché fingono tutti di non sapere?

      Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, informava il Copaco: “I clandestini [in Libia, ndr.] vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”. Ma i funzionari della polizia italiana sapevano già tutto. Già perché dal 2004 alcuni agenti fanno attività di formazione in Libia. E alcuni funzionari del ministero dell’Interno, hanno visitato in più occasioni i centri di detenzione libici, Kufrah compreso, limitandosi a non rilasciare dichiarazioni. E l’ipocrita Unione Europea? Il rapporto della Commissione europea del 2004, definisce le condizioni dei campi di detenzione libici “difficili” ma in fin dei conti “accettabili alla luce del contesto generale”. Tre anni dopo, nel maggio 2007, una delegazione di Frontex visitò il sud della Libia, compreso il carcere di Kufrah, per gettare le basi di una futura cooperazione. Indovinate cosa scrisse? “Abbiamo apprezzato tanto la diversità quanto la vastità del deserto”. Sulle condizioni del centro di detenzione però preferì sorvolare. Una dimenticanza?

      [1] Testimonianza raccolta dalla scuola di italiano Asinitas, Roma, 2007


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/frontiera-sahara-i-campi-di-detenzione.html

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      Guantanamo Libia. Il nuovo gendarme delle frontiere italiane

      La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e dall’Unione europea.

      I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: “Aiutateci!”. Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C’è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l’Italia siglò con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare questi centri.

      “La gente soffre! Il cibo è pessimo, l’acqua è sporca. Ci sono donne malate e altre incinte”. Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l’arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora, lui nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti dai nuovi gendarmi della frontiera italiana.

      All’Europa invece aveva pensato Y.. C’aveva pensato e come. Disertore dell’esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due mesi fa per Lampedusa. Ma è stato fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d’arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa cenno di sì col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde “Everything is good”. Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono concentrati i prigionieri di nazionalità eritrea.

      Nella provincia esistono altri tre centri di detenzione per stranieri, a Khums, Garabulli e Bin Ulid. Ma sono strutture più piccole e i detenuti vengono poi tradotti nel campo di Zlitan, che può rinchiudere fino a 325 persone, in attesa del loro rimpatrio. Ma quanti sono i centri di detenzione in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, ne abbiamo contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums… dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah… Prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata sostituita dal Twaisha, un’altra prigione vicino all’aeroporto.

      Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro e ha pensato all’Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora l’hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti alla chiesa di San Francesco, a Tripoli. Come ogni venerdì, una cinquantina di migranti africani aspetta l’apertura dello sportello sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se gli fu dato un avvocato d’ufficio. Sorride scuotendo la testa. La risposta è negativa.

      Niente di strano, sostiene l’avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell’ordine degli avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza nessuna base legale dunque, ma solo sull’onda dell’emergenza. Anche in Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un mandato d’arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.

      “I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del Mediterraneo. L’Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno vuole parlare dei loro diritti”. Anche Jumaa Atigha è un avvocato di Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto penale dell’Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal 1999 ha presieduto l’Organizzazione per i diritti umani della Fondazione guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla liberazione di 1.000 prigionieri politici. Ci descrive un paese in rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c’è nessuna legge sull’asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta occupando di scrivere un nuova legge sull’immigrazione.

      Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal 1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia libica. “Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia”.

      Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia all’Università El Fatah di Tripoli. “Non è un problema di razzismo. I libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia”. Attir sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel 1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione - sostiene -, e sono educati al concetto di punizione.

      Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina, ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale. Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia, migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani. E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione, di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell’Hiv.

      Il professor Attir, nel 2007, ha organizzato tre seminari sul tema dell’immigrazione nei paesi arabi. In Libia è uno dei massimi esperti. Ed è pronto a smentire la cifre che circolano in Europa. “Due milioni di immigrati in Libia pronti a partire per l’Italia? Non è vero”. In realtà non esistono statistiche di nessun tipo. Ma solo stime. Che però – secondo Attir – non sono attendibili. Basta dare un occhio in giro. La popolazione libica è di cinque milioni e mezzo di persone. Gli stranieri non possono ragionevolmente essere più di un milione, compresi gli immigrati arabi egiziani, tunisini, algerini e marocchini. La maggior parte di loro non ha mai pensato all’Europa. E la Libia ha bisogno di loro, perché è un paese sottopopolato e perché i libici non vogliono più fare lavori pesanti e mal retribuiti. Attir è consapevole delle pressioni che l’Europa sta facendo sulla Libia perché sigilli le sue frontiere. Ma sa che “non c’è modo per farlo”.

      La Libia ha circa 1.800 km di costa, in buona parte disabitati. Il colonnello Khaled Musa, capo delle pattuglie anti immigrazione a Zuwarah, non sa che farsene delle sei motovedette promesse dall’Italia. Potrebbero servire a pattugliare meglio il tratto di mare tra la frontiera tunisina, Ras Jdayr, e Sabratah, ammette. Ma sono solo 100 km. Il 6% della costa libica. E le partenze si sono già spostate sul litorale a est di Tripoli, tra Khums e Zlitan, a più di 200 km da Zuwarah. Il dipartimento anti immigrazione di Zuwarah è nato nel 2005. Il numero di migranti arrestati è sceso da 5.963 nel 2005 a soli 1.132 nel 2007. Per il capo del dipartimento investigazioni, Sala el Ahrali, i dati indicano il successo delle misure repressive. Molti degli organizzatori dei viaggi sono stati arrestati, questo sarebbe il motivo per cui le partenze si sono ridotte. E la costa è più controllata. Ogni dieci chilometri è installata una tenda, in mezzo alla spiaggia. Serve da appoggio ai fuoristrada della polizia, che da due anni pattugliano la litoranea, appoggiati da quattro motovedette della marina. Il tratto di costa attualmente pattugliato è di una cinquantina di chilometri. Parte da Farwah, a una decina di chilometri dalla frontiera tunisina, e finisce 15 km a est di Zuwarah, a Mellitah, nei pressi dell’imponente impianto di trattamento del gas di proprietà dell’Eni e della libica National Oil Company.

      E proprio da Mellitah parte il #Greenstream, il gasdotto sottomarino più lungo del Mediterraneo. Collega la Libia a Gela, in Sicilia. Ironia della sorte, corre lungo la stessa rotta che porta i migranti a Lampedusa. Come dire che mentre sulla superficie del mare l’Europa dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri umani, otto miliardi di metri cubi di gas ogni anno scorrono silenziosi nei 520 km di condotta posata sui fondali di quello stesso mare, in mezzo alle ossa delle migliaia di uomini e donne morti nella traversata del Canale di Sicilia. Un’immagine che sintetizza perfettamente le relazioni degli ultimi cinque anni tra Roma e Tripoli, condotte all’insegna dello slogan “più petrolio e meno immigrati”.

      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/guantanamo-libia-il-nuovo-gendarme.html
      #gazoduc

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      Liens qu’il a mis aujourd’hui sur FB pour accompagner ce message:

      Non conosco nessuno dell’equipaggio di #Lifeline, la nave della ONG accusata dal ministro Salvini di aver agito fuorilegge soccorrendo 239 passeggeri in difficoltà in acque libiche. Purtroppo però conosco bene le carceri libiche. Fui il primo giornalista italiano a visitarle nel 2008 insieme al collega e amico Roman Herzog. Abusi, pestaggi, violenze sulle donne erano la norma già allora. Gli unici che si salvavano erano quelli che riuscivano a farsi mandare abbastanza soldi dai familiari in Europa con cui corrompevano facilmente le guardie colluse con le mafie del contrabbando per farsi rilasciare e tentare di nuovo la traversata. Gli altri, dopo mesi di prigione in condizioni inumane venivano rimpatriati sui voli dell’OIM oppure, molto più spesso, stipati come vuoti a rendere dentro i container dei camion che prendevano la via del deserto, per decine di ore, mentre sotto il sole le lamiere di ferro diventavano un forno, per essere infine abbandonati alla frontiera sud con il Niger e il Sudan, in una terra di nessuno. E quanti ne sono morti anche lì, in mezzo al Sahara. Con molti giornalisti e documentaristi abbiamo denunciato questa situazione fin dal 2007. Da quando Prodi e Amato negoziarono gli accordi di respingimento con Gheddafi a quando Berlusconi e Maroni li misero in pratica nel 2009. Da allora sembra non essere cambiato molto. E allora, pur non conoscendoli, mi azzardo a pensare che l’equipaggio della #Lifeline abbia disobbedito all’ordine di consegnare i passeggeri alla guardia costiera libica temendo per il destino di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini, immaginando il triste destino che li attendeva nelle prigioni oltremare.

      Dopodiché se il comportamento della #Lifeline costituisca un reato lo deciderà un giudice anche alla luce di queste considerazioni. Perché quello che il ministro Salvini si dimentica di ricordare è che la Libia non è Malta, non è la Spagna, non è la Francia. La Libia di oggi non è un paese sicuro.

      Ciononostante, attenzione, gli sbarchi devono cessare. Ma come si fa?

      Si aprono vie legali. Perché, ministro, da contribuenti italiani non vogliamo finanziare altre prigioni in Libia. Vogliamo finanziare asili nido, scuole, parchi, ospedali. Non vogliamo continuare a finanziare le milizie colluse con le stesse mafie del contrabbando che dite di voler combattere.

      Per sconfiggere quelle mafie, azzerare gli sbarchi e porre fine alle tragedie delle traversate c’è un unico modo: legalizzare l’emigrazione Africa-Europa. Perché fin quando quell’emigrazione sarà illegale, ci sarà qualche mafia pronta a lucrarci. Oggi i libici, domani gli egiziani o i tunisini. Il mare è grande e incontrollabile.

      La soluzione sarebbe così semplice che è incredibile credere che i vostri consiglieri non ve l’abbiano prospettata. Andate in Europa e chiedete a gran voce che le ambasciate UE in Africa riaprano i canali legali dei visti che hanno progressivamente chiuso in questi ultimi vent’anni, spingendo centinaia di migliaia di giovani nelle mani del contrabbando libico a cui abbiamo concesso il monopolio della mobilità sud-nord in questo mare.

      Calcolate quante persone ogni anno attraversano il mare per rimanere bloccati in Italia, senza documenti e senza lavoro. Calcolate quanti sono e rilasciate lo stesso numero di visti per ricerca di lavoro. Affinché quelle stesse persone possano comodamente imbarcarsi in aereo, con in tasca un passaporto e un visto europeo liberi di circolare in tutta Europa, ricongiungersi con i propri familiari e cercare lavoro là dove il lavoro c’è, in quel centro e nord Europa che in questi anni ha importato milioni di lavoratori dall’est mentre noi a sud predicavamo il blocco navale e continuavamo a contare i morti.

      In caso contrario, signor ministro, siate più chiari. Dite semplicemente che di negri in Europa non volete vederne. Né per le vie legali né per quelle illegali.

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2121309374549318&id=100000108285082

    • La zona SAR libica non esiste. Il grande inganno nel rimbalzo dei soccorsi

      "Una zona SAR libica ad oggi non esiste”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di immigrazione, membro del direttivo di Osservatorio Solidarietà. “E non esiste in quanto il governo di Tripoli non ha soddisfatto i requisiti imposti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) per il riconoscimento delle zone SAR”, aggiunge l’avvocato.

      I requisiti consistono nell’accordo tra lo Stato che si pone come responsabile delle operazioni di salvataggio in una propria area di mare l’Organizzazione marittima internazionale (IMO). A quel punto i dati della zona SAR devono essere inseriti in un database ufficiale e pubblico, il GISIS. A marzo, in seguito al caso Open Arms, Famiglia Cristiana aveva fatto una verifica con l’IMO e la risposta ricevuta era stata: “La Libia non ha inviato le sue informazioni”.

      “Quasi tutte le operazioni di soccorso in acque internazionali nelle ultime settimane sono state coordinate dal Comando della Guardia costiera italiana proprio perché la Libia non esiste come paese unitario e non ha un Comando centrale unificato”, aggiunge Vassallo Paleologo.

      “Ma tutto è cambiato dal caso Aquarius”. Infatti da alcuni giorni anche sul sito dell’IMO compare il riferimento alla zona SAR libica “ma continua a non esistere uno stato unitario e anche le guardie costiere delle diverse città rispondono a milizie diverse“, avverte l’avvocato. “Alla fine il risultato è che il trasferimento di competenze ai libici e l’allontanamento delle Ong produce un ritardo nei soccorsi, un amento delle vittime e delle persone riportate nei centri di detenzione in Libia dove continuano gli abusi”.

      Esiste invece una zona SAR maltese. Ma Malta ha dichiarato unilateralmente la sua zona di ricerca e soccorso, un’area molto ampia che però non è riconosciuta dalle autorità marittime internazionali poiché il Governo de la Valletta non ha mai sottoscritto alcune modifiche della convenzione di Amburgo del 1979 e della convenzione #Solas introdotte nel 2004. Queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati coordinati dall’Italia. Quindi, in base al diritto internazionale e alla prassi i soccorsi coordinati dall’Italia hanno sempre indicato un porto di sbarco italiano.

      http://osservatoriosolidarieta.org/la-zona-sar-libica-non-esiste-il-grande-inganno-nel-rimbalz
      #Malte #SAR

    • Conséquences pour les droits de l’homme de la « dimension extérieure » de la politique d’asile et de migration de l’Union européenne : loin des yeux, loin des droits ?

      Les objectifs de la délégation des procédures de migration aux pays en dehors des frontières de l’Union européenne sont, entre autres, d’alléger la pression migratoire des États membres aux frontières de l’UE et de réduire le besoin des migrants d’entreprendre des voyages terrestres et maritimes potentiellement mortels. La réinstallation dans toute l’Europe devrait ensuite faciliter un afflux plus régulier sur le continent. Cependant, le transfert des responsabilités et l’engagement de pays tiers dans le renforcement de contrôles aux frontières de l’UE comportent de sérieux risques pour les droits de l’homme. Il augmente le risque que les migrants soient « bloqués » dans les pays de transit par la réadmission et le recours accru à des mesures punitives et restrictives telles que le refoulement, la rétention arbitraire et les mauvais traitements. C’est également un moyen pour de nombreux États membres de l’Union européenne de prendre leurs distances par rapport à la question de l’assistance et de l’intégration des réfugiés, qui est source de divisions politiques.

      Ce #rapport exhorte les États membres à œuvrer ensemble pour que le recours accru à des politiques de dissuasion ne porte pas atteinte au devoir des États européens de respecter et de défendre les droits de l’homme à l’échelle mondiale et à s’abstenir d’externaliser le contrôle des migrations vers les pays où la législation, les politiques et les pratiques ne respectent pas les normes de la Convention européenne des droits de l’homme et de la Convention des Nations Unies relative au statut des réfugiés.

      http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-fr.asp?fileid=24808&lang=fr

    • Sahel, la France en guerre ?

      Au Mali, alors que la campagne pour les élections présidentielles du 29 juillet bat son plein, l’insécurité liée au terrorisme grandit. La France a-t-elle encore un rôle a jouer ? Elle a depuis 2013 une forte présence militaire entre le Sahel et le Sahara, mais quelle place tient-elle dans la guerre contre le terrorisme ?

      Sahel, la France en guerre ? Par David Dominé-Cohn ntoine de Saint-Exupéry dans Terre des hommes (1939) dresse le portrait des officiers français des compagnies méharistes au Sahara. Développées à partir de 1897 par le commandant Laperrine, ces unités d’infanterie, relevant pour partie de la Légion étrangère, apparentées aussi aux spahis, ont effectué un travail de police et de contrôle des populations des oasis. Chez l’écrivain, le capitaine Bonnafous exerce son autorité, fascinante pour l’observateur occidental, dans un mélange d’héroïsme, d’humanité et d’extrême violence : « À cause de Bonnafous chaque pas vers le sud devient un pas riche de gloire »… et d’insurrections des populations locales.

      Les grandes formes historiques semblent se reproduire dans le désert. Depuis 2013, la France entretient une présence militaire entre le Sahel et le Sahara : 4500 hommes au printemps 2018. Avec 500 opérations en trois ans et demi, l’objectif affiché est d’abord de maintenir la pression sur les groupes terroristes et d’apporter un soutien à la population locale. Les attaques terroristes sur place sont l’occasion de s’interroger sur l’espace du Sahara et du Sahel comme étant redevenu un espace majeur d’action militaire de la France. Témoignant dans le livre de David Revault d’Allones, Les guerres du président (2015), Sacha Mandel, plume de Jean-Yves Le Drian, revendique le terme de guerre pour ce qui a causé, pour la France 22 morts et des dizaines de blessés et des centaines morts et de blessés pour les adversaires. Or peut-on faire la guerre au terrorisme ?

      Faire la « guerre au #Mali » puis faire la guerre au #terrorisme

      L’intervention française au Mali avec l’opération Serval commence le 11 janvier 2013 pour soutenir l’État malien dans la reprise des villes du pays contrôlées par une alliance entre le MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad) touareg, qui réclame le développement et l’indépendance du Nord du pays, l’Azawad, et des mouvements islamistes comme Ansar Dine et le MUJAO (Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest) et d’autres issus de la guerre civile algérienne des années 1990 comme AQMI. Les opérations militaires françaises, appuyées par les forces des États voisins, visent d’abord à sécuriser Bamako, comme l’affirme le président Hollande le 15 janvier aux Émirats Arabes Unis. La boucle du fleuve Niger est reprise entre le 22 et le 28 janvier, la ville de Gao le 25. Le 27 janvier par une opération aéroportée de la Légion, Tombouctou est contrôlée, puis Kidal le 30. En février et mars les forces avancent vers le nord, vers Tesslit et Tigharghâr, pendant que Gao connaît un regain de violence et d’actes terroristes kamikazes comme dans la nuit du 9 au 10 février. Un effort important est fait pour séparer les mouvements de l’Azawad des islamistes. Ainsi, le général tchadien Mahamat Idriss Déby Itno déclare le 11 janvier à RFI que ses troupes, qui occupent la ville, entretiennent de bonnes relations avec le MNLA. Le 2 février, dans un discours à Bamako, François Hollande considère l’action française comme inachevée et se donne comme objectif l’éradication du terrorisme. Les opérations antiterroristes scandent toute la seconde moitié de l’année 2013 et le début de 2014. Le 1er août 2014, l’opération Serval et l’opération Épervier au Tchad sont regroupées dans l’opération Barkhane qui porte sur l’ensemble de la bande sahélo-saharienne. Michel Galy (La guerre au Mali. Comprendre la crise au Sahel et au Sahara. Enjeux et zones d’ombre, 2013) rappelle que l’intervention française s’inscrit à la fois dans une forme de tradition française et dans un contexte général de transformation de la région. Au-delà de la remise en cause du mode de gouvernement du président Amadou Toumani Touré, les différents mouvements indépendantistes ou djihadistes s’inscrivent dans des enjeux régionaux où pèsent certains voisins du Maghreb, les puissances d’Afrique de l’Ouest et de toutes les grandes puissances mondiales occidentales ou orientales. Elles sont attentives au développement des mouvements terroristes se revendiquant de l’islam mais aussi à une région de plus en plus stratégique, jeune, au sous-sol très riche et qui sera un foyer de peuplement du XXI siècle.

      De la ligne de front à une ligne de postes

      Barkhane est devenue une opération de surveillance anti-terroriste d’un territoire immense à partir de postes avancés en liaison avec les forces locales. Le 18 avril 2018, Michel Cambon, président de la commission sénatoriale des affaires étrangères, de la défense et des forces armées souligne que dans ce cadre, la stratégie française est celle de « coups de poing » menées par des forces spéciales basées à Ouagadougou grâce au dispositif Sabre. Celui-ci est ancien, plus ancien que Barkhane et Serval. Dans le livre blanc de défense et de sécurité nationale en 2008, la désignation de l’arc de crises, allant de l’Océan atlantique à l’Océan indien entraîne la mise en place d’un plan Sahel qui comporte un large volet anti-terroriste. Comme le souligne Jean- Christophe Notin (La guerre de la France au Mali, 2014), la composante essentielle de ce volet est le prépositionnement d’unités dites Sabre de forces spéciales. Elles ont joué un rôle au début de Serval dans la protection des sites nucléaires du Niger et ont participé aux opérations Serval et Barkhane. Le soutien à la lutte anti-terroriste est un moyen majeur d’influence des grandes puissances en Afrique. Les États-Unis sont ainsi très présents depuis 2007 via leur commandement pour l’Afrique (Africom) ; la qualification de terroriste permet à chacun de se trouver un ennemi commun. Le passage d’une logique d’action militaire de reprise d’un territoire à une action de surveillance, de police et de contre-terrorisme se traduit par de nouveaux besoins en matériel, comme le souligne le sénateur Cambon : « les hélicoptères lourds, les véhicules de type quad/pickup pour la mobilité, les ISMI catcher pour l’écoute des GSM, la biométrie, la capacité « drones » ». Il conclue son rapport par « un message assez clair et assez pessimiste » : une opération militaire ne réglera pas un problème politique.

      Le terrorisme persiste largement dans la région. Le Groupement de Soutien à l’Islam et aux Musulmans, qui fédère plusieurs groupes djihadistes, dont Ansar Dine, des katibats d’al-Qaïda au Maghreb islamique et d’al-Mourabitoune, lance régulièrement des attaques contre les forces dans la région. Le 2 mars 2018, deux attaques à Ouagadougou au Burkina Faso ont fait 8 morts et une soixantaine de blessés. Le 14 avril, le GSIM a lancé une attaque « complexe » avec une quinzaine d’attaquants à Tombouctou contre la force Barkhane et la Mission des Nations unies au Mali. Le groupe a revendiqué son action comme une réponse à des raids aériens. Le 5 juillet, Emmanuel Macron évoque un redéploiement du dispositif français. Le bureau pour l’Afrique de l’Ouest et le Sahel de l’ONU soulignait dans un rapport du 29 juin la montée en capacité des mouvements terroristes autant que le possible resserrement des liens entre les différents mouvements djihadistes violents avec une extension de leurs zones d’activité. La réduction des adversaires à des mouvements avant tout terroristes mais mobiles et circulant dans un large territoire a conduit à un renouvellement des logiques d’action : le droit de poursuite au-delà de la frontière est nécessaire. Créé en février 2014, le G5 regroupe le Mali, le Niger, le Burkina Faso et le Tchad. Il vise le développement régional et la lutte contre le terrorisme. Cependant l’objectif d’une force commune actée en novembre 2015 peine à se réaliser et il a fallu attendre juin 2017 pour que l’ONU salue sa mise en place. Les financements sont aujourd’hui très insuffisants par rapport aux immenses besoins nés des contraintes du territoire. La France occupe donc de fait un rôle central dans la réalisation d’opérations de contreterrorisme par sa capacité très supérieure dans les domaines du renseignement, de la mobilité et de la frappe. Dans un milieu désertique, un espace que l’on traverse, l’action militaire est une action de contrôle de flux qui entraîne soit l’enlisement, soit des reconfigurations politiques, militaires et institutionnelles profondes. La criminalisation des personnes circulant dans de tels espaces est une stratégie classique de contrôle. Pour Hélène Claudot-Hawad (Galy, La guerre au Mali, 2013), la question Touareg a été construite tout au long de la colonisation : à partir des années 1910, l’administration française déploie un projet de tribalisation dans le but de contrôler des groupes et des circulations dans la bande sahélo-saharienne. La question des Touaregs est restée problématique pour les pouvoirs issus de la décolonisation. A l’aube de la décennie 2000 les tensions sont fortes d’autant plus que les organisations régionales de contrebande rejoignent une partie des mouvements islamistes.

      L’envers de la lutte contre les pirates du désert

      Le G5 Sahel se veut l’instrument d’une action régionale centrée sur la lutte anti-terroriste. Le terroriste y est celui qui circule impunément et qui devient ce que Daniel Heller-Roazen a vu dans la figure ancienne du pirate : l’ennemi de tous (L’ennemi de tous. Le pirate contre les nations, 2010, édition originale anglaise 2009). Le pirate brouille la limite entre criminalité et politique : « la piraterie entraine une transformation du concept de guerre. » C’est dans cette perspective qu’on peut lire le rapport du Haut Commissariat des Nations Unies pour les Droits de l’Homme qui dénombre au Mali 1200 violations entre janvier 2016 et juin 2017 faisant 2700 victimes dont 441 morts. Si plus de 70% des violations sont le fait d’acteurs non étatiques on peut, par exemple, s’interroger sur le statut des 150 arrestations administratives faites par les forces de Barkhane. Les « neutralisations » des terroristes, leur mort pendant des combats ou suite à des frappes aériennes, posent également question. Le respect des Droits de l’Homme est en jeu, mais aussi le cadre juridique dans lequel interviennent les troupes françaises. En arrière plan, le rapport de l’ONU pointe que 20% des violations sont le fait des forces de sécurité maliennes. A l’horizon de ce rapport qui suit plusieurs autres avant lui, par exemple celui en mai 2017 de la FIDH « Mali : Terrorisme et impunité font chanceler un accord de paix fragile » souligne les impasses d’une approche centrée sur l’anti-terrorisme et qui ne vise pas un processus politique global dans la région. De ce fait, interroger l’action française au Sahel c’est aussi nous interroger sur le rapport au territoire des autres, particulièrement des pays en développement, le rapport aux flux dans un contexte d’urgence migratoire. Cela questionne les actions militaires futures. Ces engagements sont usants pour les hommes et les matériels et constituent un poids considérable sur notre appareil militaire. Les opérations de lutte contre le terrorisme sont légitimes dans la mesure où la terreur et les actes criminels ne sauraient être tolérés. Il faut mesurer le dilemme moral qui pèse sur tout gouvernant à la tête d’une puissance militaire capable d’une opération pour faire cesser ce qui constitue à un moment donné un scandale moral. Mais il faut admettre que ce qui constitue un scandale moral aujourd’hui s’inscrit dans des problématiques plus vastes et plus anciennes. Oublier que le terrorisme et les terroristes sont les manifestations de problèmes plus larges qu’eux-mêmes, c’est accepter de croire qu’il est possible aujourd’hui, en démocratie de faire la guerre à un mode d’action et à des idées et de gagner. L’aveuglement de certaines grandes puissances face à ces enjeux tient souvent du refoulement de problèmes qui leurs sont propres. Dans un coin du parc Montsouris à Paris, un obélisque commémore le colonel Flatters et ses compagnons tués par des Touaregs en 1881 à Bir el-Garama en tentant de rejoindre le Soudan français par le Sahara. Son expédition était l’aboutissement d’un projet porté depuis 1879 par la commission supérieure du Transsaharien visant à la création d’un chemin de fer allant de l’Algérie à Dakar via le Mali dans une double perspective de contrôle des circulations sahélo-sahariennes et donc des populations y vivant mais aussi des ressources présentes dans la région et pouvant présenter un intérêt colonial. L’échec de la mission Flatters n’a pas limité ces entreprises puisque le contrôle de ces espaces de désert a été un axe politique majeur des autorités coloniales de l’Algérie comme de l’Afrique occidentale française.

      https://aoc.media/analyse/2018/07/11/sahel-france-guerre

      signalé par @isskein via la mailing-list Migreurop

    • États africains, portiers de l’Europe

      À coups de milliards versés par l’Union européenne, les États africains deviennent les nouveaux gardes-frontières du Vieux Continent. Cette vaste enquête menée dans douze pays explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      L’Espagne a été la première à franchir le pas : face à l’afflux de migrants sur les côtes des #Canaries, le pays a décidé de subventionner plusieurs pays d’#Afrique_de_l’Ouest afin qu’ils se chargent d’arrêter à leurs frontières les candidats à l’exil. L’#Union_européenne a emboîté le pas à l’Espagne, en conditionnant l’#aide_au_développement à destination d’une vingtaine de pays africains à un renforcement de ces contrôles. Policiers et militaires européens sont parallèlement envoyés sur place pour aider à briser les routes migratoires. L’UE n’hésite d’ailleurs pas à faire de dictatures comme l’#Érythrée et le #Soudan ses « partenaires » dans la chasse aux migrants. Les véritables gagnants de ces interventions à grande échelle sont les entreprises d’armement et de sécurité européennes, dans lesquelles sont réinvesties les subventions versées. Au fil d’une vaste enquête dans douze pays, Jan M. Schäfer explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      https://www.arte.tv/fr/videos/078195-000-A/etats-africains-portiers-de-l-europe
      #film #documentaire
      #business #armes #armement

      Le documentaire n’est plus disponible sur arte, mais peut être visionné sur Youtube, voici quelques liens actuellement valides :
      https://www.youtube.com/watch?v=IUSIi-qP2pY


      https://www.youtube.com/watch?v=o0nf5c4FOPo

      https://www.youtube.com/watch?v=Hu7VvY5fs7Y

    • La relation dangereuse entre migration, développement et #sécurité pour externaliser les frontières en Afrique

      L’ARCI, dans le cadre du projet de monitorat de l’externalisation des politiques européennes et italiennes sur les migrations – parallèlement à son travail de communication constant sur l’évolution des accords multilatéraux et bilatéraux avec les pays d’origine et de transit, a produit ce document d’analyse pour alerter la société civile et les gouvernements sur les dérives possibles de ces stratégies qui conduisent à des violations systématiques des droits fondamentaux et des Conventions internationales


      https://www.arci.it/documento/la-relation-dangereuse-entre-migration-developpement-et-securite-pour-externali
      #rapport #Soudan #Niger #Tunisie

      In English :
      https://www.arci.it/documento/the-dangerous-link-between-migration-development-and-security-for-the-externali

    • Giochi pericolosi: delocalizzare in Africa le frontiere Ue

      Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

      Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

      La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

      Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

      L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

      Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

      Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

      Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

      Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

      Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

      Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

      L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

      In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

      Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.

      https://left.it/2018/08/07/giochi-pericolosi-delocalizzare-in-africa-le-frontiere-ue

    • Europe Is Making Its Migration Problem Worse. The Dangers of Aiding Autocrats

      Three years after the apex of the European refugee crisis, the European Union’s immigration and refugee policy is still in utter disarray. In July, Greek officials warned that they were unable to cope with the tens of thousands of migrants held on islands in the Aegean Sea. Italy’s new right-wing government has taken to turning rescue ships with hundreds of refugees away from its ports, leaving them adrift in the Mediterranean in search of a friendly harbor. Spain offered to take in one of the ships stuck in limbo, but soon thereafter turned away a second one.

      Behind the scenes, however, European leaders have been working in concert to prevent a new upsurge in arrivals, especially from sub-Saharan Africa. Their strategy: helping would-be migrants before they ever set out for Europe by pumping money and technical aid into the states along Africa’s main migrant corridors. The idea, as an agreement hashed out at a summit in Brussels this June put it, is to generate “substantial socio-economic transformation” so people no longer want to leave for a better life. Yet the EU’s plans ignore the fact that economic development in low-income countries does not reduce migration; it encourages it. Faced with this reality, the EU will increasingly have to rely on payoffs to smugglers, autocratic regimes, and militias to curb the flow of migrants—worsening the instability that has pushed many to leave in the first place.

      https://www.foreignaffairs.com/articles/africa/2018-09-05/europe-making-its-migration-problem-worse?cid=soc-tw-rdr

    • À QUI VA LA FORTUNE DÉPENSÉE POUR LUTTER CONTRE L’IMMIGRATION ?

      La politique migratoire européenne, de plus en plus restrictive, est une aubaine pour de nombreuses sociétés privées. En effet, les Etats européens sous-traitent des pans entiers de la gestion des migrations : surveillance des frontières, construction, entretien, surveillance et gestion de murs et de centres de rétention, délivrance des visas, livraison de repas, etc. Tous les éléments de cette politique coûteuse, inefficace et criminelle, profitent à de grandes entreprises, comme #Bouygues ou #Sodexo, pour ne citer que deux exemples français.

      Les migrations font partie de l’histoire de l’humanité mais les frontières n’ont jamais été aussi fermées qu’aujourd’hui. Les conventions issues des politiques migratoires actuelles ont divisé les migrants en différentes catégories (politiques, économiques, climatiques...) en fonction de la supposée légitimité ou non d’avoir accès au droit d’asile ou à séjourner sur un territoire étranger. « Le migrant économique », qui se déplace pour fuir la misère engendrée par les politiques liées au remboursement de la dette, est la catégorie qui bénéficie du moins de droits et son accès aux territoires extérieurs varie en fonction des besoins de main-d’œuvre ou des politiques de fermetures aux frontières.

      Ainsi, parmi les millions de personnes qui fuient leurs conditions de vie indécentes, celles qui migrent pour des raisons économiques seraient des migrants illégitimes ? Tout comme celles à qui on n’accorde pas le statut de réfugié politique mettant leur vie en péril ? Confrontés à une crise migratoire ou une crise de l’accueil ? Ces flux migratoires liés aux situations économiques sont en grande partie le résultat des politiques d’austérité et d’endettement insoutenables imposés par les Institutions financières internationales et les pays industrialisés du Nord aux pays appauvris du Sud, et par les pays du centre – dont ceux de l’Europe – aux pays de la périphérie. Ces politiques ont eu comme effet d’amplifier le phénomène de la pauvreté, de généraliser la précarité et, par conséquent, des situations d’exils. Les situations qui encouragent l’exode de populations pauvres sont la conséquence d’enjeux géostratégiques liés aux ressources et donc aux richesses, ou sont provoqués par l’hémorragie de capitaux pour honorer le service d’une dette bien souvent entachée d’illégitimité.

      Malmenés par la guerre ou la misère, les candidats à l’exil se retrouvent sur des routes rendues de plus en plus périlleuses par les politiques de gestion de l’immigration irrégulière. En plus d’être extrêmement coûteuses pour les populations qui en supportent les coûts, ces politiques criminalisent les migrants et les forcent à emprunter des voies de plus en plus dangereuses, comme les traversées en mer sur de frêles embarcations et à devoir s’adresser à la mafia des passeurs. Elles sont criminelles, coûteuses et inefficaces. Les murs n’ont jamais résolu de conflits et ne bénéficient qu’aux firmes qui les conçoivent, les construisent et les contrôlent.

      Loin d’adopter une politique d’accueil aux réfugiés conformément au droit international tel que stipulé par la Convention de Genève, les États adoptent des politiques sécuritaires qui bafouent le droit fondamental de liberté de circulation inscrit dans l’article 13 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme |1|. Alors que de nouveaux traités de libre-commerce ne cessent de prôner la libre-circulation des marchandises et des capitaux, les candidats à l’exil font face à des « agences de sécurité » lourdement armées et équipées par les grands industriels qui enfreignent le droit de circulation des laissés-pour-compte. Le fond de la Méditerranée est transformé en véritable fosse commune |2|, les frontières se referment et des murs sont érigés un peu partout sur la planète. Une fois passée la frontière, s’ils ne sont pas déportés vers leur pays d’origine, les migrants s’entassent dans des camps inhumains ou sont enfermés dans des centres de détention |3| qui leur sont dédiés, tels les 260 que l’on compte au sein de l’UE en 2015 |4|. Seule une faible proportion d’entre eux, suivant un fastidieux parcours bureaucratique, parvient à obtenir un droit à l’asile distribué avec parcimonie.

      A quel point les politiques migratoires européennes sont-elles dictées par l’activité de lobbying des entreprises privées de l’armement et de la sécurité ? Avec ces politiques sécuritaires, les migrants sont considérés non plus comme des personnes mais comme des numéros remplissant des quotas arbitraires pour honorer des courbes statistiques irrationnelles satisfaisant bien plus les cours de la Bourse que le bien-être collectif et les valeurs de partage et de solidarité.

      Qu’importent les conditions de travail des employés et les conditions d’accueil des migrants au mépris de leurs droits et de la dignité humaine, de plus en plus d’entreprises privées nationales ou multinationales profitent d’un business en pleine expansion aux dépens de la justice sociale et des budgets de nos États.

      Frontex, une agence européenne coûteuse, puissante, opaque et sans contrôle démocratique

      L’Europe a créé l’espace Schengen en 1985, elle l’a communautarisé en 1997 avec le traité d’Amsterdam. L’objectif annoncé était de créer un espace de « liberté, de sécurité et de justice » au sein de l’Union européenne (UE). Dans les faits, la liberté de circulation au sein de l’Europe a avancé à deux vitesses en fonction des pays et a principalement concerné les marchandises. Au fur-et-à-mesure, l’UE s’est coordonnée pour contrôler ses frontières extérieures en tentant d’appliquer une politique commune et un « soutien » aux pays ayant une frontière extérieure propice à l’entrée de migrants comme la Grèce, l’Espagne ou encore l’Italie. Depuis 2005, L’UE s’est dotée d’un arsenal militaire, l’agence Frontex, pour la gestion de la coopération aux frontières extérieures des États membres de l’Union européenne. Cette agence est la plus financée des agences de l’UE à l’heure où des efforts budgétaires sont imposés dans tous les secteurs.

      Cette agence possède des avions, des hélicoptères, des navires, des unités de radars, des détecteurs de vision nocturne mobiles, des outils aériens, des détecteurs de battement cardiaque... Frontex organise des vols de déportations, des opérations conjointes aux frontières terrestres, maritimes et aériennes |5|, la formation des gardes-frontières, le partage d’informations et de systèmes d’informations notamment via son système EUROSUR, qui a pour objectif la mise en commun de tous les systèmes de surveillance et de détections des pays membres de l’UE, etc. Son budget annuel n’a cessé d’augmenter jusqu’à ce jour : de 19 millions d’euros en 2006, il est passé à 238,7 millions en 2016 ! Les moyens militaires qui lui sont dévolus et son autonomie par rapport aux États membres ne cessent de croître.

      Depuis fin 2015, la tendance vers une ingérence de la Commission européenne dans les États membres s’accentue : La Commission européenne élargit le mandat de Frontex, elle devient « le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes ». Cette nouvelle agence peut dorénavant agir dans le processus d’acquisition d’équipement des États membres. Elle a notamment la possibilité d’intervention directe dans un État membre sans son consentement par simple décision de la Commission européenne. Elle a par exemple la possibilité de faire des « opérations de retour conjoint » de sa propre initiative |6|, l’objectif étant de sous-traiter à l’agence le renvoi forcé des personnes indésirables, à moindre coût mais au détriment du respect des droits humains.

      Migreurop et Statewatch, deux ONG qui défendent les droits des migrants, ont dénoncé une zone de flou entourant l’agence Frontex qui ne permet pas de faire respecter les droits humains fondamentaux : une responsabilité diluée entre l’agence et les États, une violation du droit d’asile et un risque de traitement inhumains et dégradants. La priorité du sauvetage en mer, normalement reconnue à Frontex, passe en second plan face au contrôle militarisé. En novembre 2014, l’Italie illustre dramatiquement cette situation en mettant fin à Mare Nostrum, opération de sauvetage de la marine italienne qui a sauvé des dizaines de milliers de vies en mer. L’opération Triton mise en place par Frontex l’a remplacée avec un budget trois fois moindre, une portée géographique plus limitée et surtout avec un changement de perspective orienté sur le renforcement des frontières plutôt que les missions de recherche et sauvetage en mer |7|.

      Plus Frontex est subventionnée, plus elle délègue à des entreprises privées. Via l’argent public qu’elle perçoit, l’agence s’adresse à des entreprises privées pour la surveillance aériennes mais aussi pour la technologie de pointe (drones, appareils de visions nocturnes…). De nombreuses multinationales se retrouvent à assumer les « services » qui étaient auparavant assumés par les États et pour des questions de rentabilité propre au secteur privé, les coûts augmentent. Le contrôle aux frontières est devenu un business florissant.

      Le complexe militaro-industriel de l’immigration irrégulière un business florissant qui grève les caisses des États

      La dangerosité accrue des parcours profite aux passeurs et aux réseaux criminels auxquels les migrants sont obligés de faire appel, alors que ces mêmes politiques de gestion des flux migratoires disent les combattre. Mais, d’autres secteurs d’activité moins médiatisés tirent un avantage financier bien plus important de l’immigration irrégulière, tellement important qu’on peut se demander s’ils ne font pas tout pour l’encourager ! Pour les gestionnaires des centres de détentions pour migrants ; les sociétés qui y assurent la livraison des repas, la sécurité ou le nettoyage ; les entreprises qui fournissent gardes et escortes de celles et ceux que l’on expulse ; les fabricants d’armes et l’industrie aéronautique ; la technologie de pointe pour la surveillance des frontières ou les sous-traitants pour la délivrance des visas, la crise des migrants constitue une véritable aubaine, voire un filon en or.

      Cette proportion non négligeable de services autrefois du ressort exclusif de l’État est maintenant gérée par de grands groupes privés qui – pour des raisons d’image notamment – s’abritent derrière une kyrielle de sous-traitants. Cette privatisation rampante grève encore plus les caisses des pouvoirs publics, favorise l’opacité et dilue les responsabilités en cas d’incident au cours des interventions, mettant les États à l’abri de violations de la loi, pourtant fréquentes |8|.

      Instrumentalisation de l’aide publique au développement

      L’Union européenne utilise les financements de l’#Aide_publique_au_développement (#APD) pour contrôler les flux migratoires, comme avec le #Centre_d’Information_et_de_Gestion_des_Migrations (#CIGEM) inauguré en octobre 2008 à Bamako au Mali par exemple4. Ainsi, le 10e #Fonds_européen_de_développement (#FED) finance, en #Mauritanie, la formation de la police aux frontières. Pour atteindre les objectifs qu’ils se sont eux mêmes fixés (allouer 0,7 % du revenu national brut à l’APD), certains États membres de l’UE comptabilisent dans l’APD des dépenses qui n’en sont clairement pas. Malgré les réticences des États membres à harmoniser leurs politiques migratoires internes, ils arrivent à se coordonner pour leur gestion extérieure.

      « Crise migratoire » ou « crise de l’accueil » ? L’Europe externalise ses frontières

      À la croisée des chemins entre l’Europe et l’Asie, la Turquie et la Grèce sont des pays de transit pour de nombreux migrants et réfugiés faisant face aux conflits chroniques et à l’instabilité politique et économique du Moyen-Orient. Après avoir ouvert ses frontières en 2015, dans un contexte de crise, l’UE se rétracte, dépourvue d’une réflexion à long terme sur sa politique d’accueil.

      Ainsi, sans grande opposition du gouvernement Tsipras, l’UE signe avec le gouvernement turc un accord visant à contrôler et filtrer l’immigration. L’accord qui entre en vigueur le 20 mars 2016, prévoit de renvoyer en Turquie tout nouveau migrant, réfugiés syriens compris, arrivé en Grèce. Et pour chaque Syrien renvoyé, l’UE réinstallera en Europe, un autre Syrien séjournant en territoire turc. On pourrait croire à un vulgaire arrangement comptable, il n’en est rien. Le rapport est clairement déséquilibré. L’UE a spécifié un quota maximum de 72 000 syriens réinstallés alors que plus d’1 millions ont été refoulés du territoire européen. Par ces échanges déshumanisés, l’UE se donne la liberté de choisir ses immigrés en fonction de ses intérêts économiques. En échange, l’UE promet 6 milliards d’euros à la Turquie, dit vouloir relancer les négociations d’adhésion du pays à l’Union et accélère le processus de libéralisation des visas pour les citoyens turcs. De plus, Ankara s’engage à enrayer le flux migratoire vers l’Europe. En conséquence de quoi, l’argent donné sert bien plus à ériger des murs qu’à accueillir. Déjà, béton, barbelés et militaires s’installent à la frontière turco-syrienne pour consolider l’Europe forteresse.

      D’autres accords ont déjà été conclus en ce sens mais aucun n’avait atteint de tels montants, ni ne comportait de tels enjeux. Le fait qu’il soit conclu directement par l’UE marque également le début d’une nouvelle ère. L’institution eurocrate négocie maintenant au nom et en amont de ses États membres, se substituant aux politiques nationales en termes d’affaires étrangères.Avec cet accord, l’UE se targue de respecter le droit international. Mais autant la Déclaration universelle des droits de l’homme que la Convention de Genève sur les réfugiées stipulent qu’une expulsion ne peut se faire que vers un pays considéré comme sûr. Or, on ne peut décemment pas, à la signature de l’accord, considérer la Turquie comme une terre sûre et accueillante pour les migrants. Le président Erdoğan a en effet entamé une purge sans précédent et se révèle encore plus répressif envers ses opposants politiques, depuis qu’il sait l’Europe dépendante et conciliante. Et il ne suffit pas de fustiger le gouvernement turc. Au cœur même de l’Europe, les murs s’érigent et les politiques autoritaires et xénophobes refont surface.
      Privatisation de la « gestion » des migrations

      Une telle gestion de l’immigration grève les recettes des États pour, in fine, bénéficier aux sociétés privées et leurs actionnaires aux dépens de la satisfaction des services publics essentiels aux populations concernées. Le lobbying de ces sociétés s’inscrit dans une surenchère militariste qui profite aux grandes entreprises du secteur. Au lieu d’investir dans des infrastructures d’accueil dignes et dans la gestion des conflits dont les pays industrialisés sont en grande partie responsables, l’orientation politique de nos dirigeants va dans le sens d’un accroissement des budgets liés à la sécurité et aux polices aux frontières.

      Les flux migratoires constituent non seulement une source de revenus pour les passeurs, mais également, dans des proportions bien plus importantes, un juteux business pour les grandes entreprises, qui rappelons-le, s’arrangent pour payer le moins d’impôt sur leurs bénéfices et accroître les dividendes de leurs actionnaires. Le marché de la sécurisation des frontières, estimé à quelques 15 milliards d’euros en 2015, est en pleine croissance et devrait augmenter à plus de 29 milliards d’euros par an en 2022 |9|.

      Dans un contexte de crise migratoire aiguë, de contrôles exacerbés, de détentions et déportations en forte augmentation, une multitude de sociétés privées se sont trouvé un juteux créneau pour amasser des profits.

      Concrètement, de plus en plus de sociétés privées bénéficient de la sous-traitance de la délivrance des visas (un marché entre autres dominé par les entreprises #VFS et #TLS_Contact), et facturent aux administrations publiques la saisie des données personnelles, la prise des empreintes digitales, des photos numérisées... Comme on pouvait s’y attendre, le recours au privé a fait monter les prix des visas et le coût supplémentaire est supporté par les requérants. Mais les demandes introduites pour obtenir visas ou permis de séjour ne sont pas à la portée de tout le monde et beaucoup se retrouvent apatrides ou sans-papiers, indésirables au regard de la loi.

      La gestion des centres de détention pour migrants où sont placés les sans-papiers en attente d’expulsion est, elle aussi, sous-traitée à des entreprises privées. Ce transfert vers la sphère privée renforce le monopole des trois ou quatre multinationales qui, à l’échelle mondiale, se partagent le marché de la détention. Ainsi, près de la moitié des 11 centres de détention pour migrants du Royaume-Uni sont gérés par des groupes privés. Ces entreprises ont tout intérêt à augmenter la durée d’incarcération et font du lobbying en ce sens, non sans résultats. Ainsi, les sociétés de sécurité privées prospèrent à mesure que le nombre de migrants augmente |10|. En outre, l’hébergement d’urgence est devenu un secteur lucratif pour les sociétés privées qui perçoivent des fonds de certains États comme l’Italie, aux dépens d’associations humanitaires qui traditionnellement prennent en charge les réfugiés.

      En Belgique, entre 2008 et 2012, le budget consacré aux rapatriements forcés - frais de renvois, sans même compter les séjours en centre fermé des quelque 8 000 détenus chaque année - est passé de 5,8 millions d’euros à 8,07 millions d’euros |11|.

      La société française Sodexo a vu les détentions de migrants comme une opportunité d’extension de ses activités dans les prisons. L’empire du béton et des médias français Bouygues est chargé de la construction des centres de détention pour migrants dans le cadre de contrats de #partenariats_publics-privés (#PPP) |12| et l’entreprise de nettoyage #Onet y propose ses services. Au Royaume-Uni, des multinationales de la sécurité telles #G4S (anciennement Group 4 Securitor) |13|, Serco ou #Geo, ont pris leur essor grâce au boom des privatisations. Aux États-Unis, #CCA et GEO sont les principales entreprises qui conçoivent, construisent, financent et exploitent les centres de détention et #Sodexho_Marriott est le premier fournisseur de services alimentaire de ces établissements.

      Certaines sociétés en profitent même pour faire travailler leurs détenus en attente de leur expulsion. Ainsi, au centre de Yarl’s Wood géré par l’entreprise #Serco au Royaume-Uni, le service à la cantine ou le nettoyage des locaux est effectué par des femmes détenues contre une rémunération 23 fois moindre que le salaire pratiqué à l’extérieur pour ce type de tâche (50 pence de l’heure en 2011, soit 58 centimes d’euros). Le groupe GEO, qui en 2003 a obtenu la gestion du camp de Guantanamo « offre » à ses occupants aux centres de Harmondsworth près de l’aéroport d’Heathrow et de Dungavel en Écosse, des « opportunités de travail rémunéré » pour des services allant de la peinture au nettoyage |14|. Ces entreprises ne lésinent pas sur l’opportunité d’exploiter une main d’œuvre très bon marché et sans droits.

      L’immigration rapporte plus qu’elle ne coûte

      Les quelques migrants qui finalement parviennent à destination se mettent alors à la recherche d’un emploi et le pays d’accueil profite d’une main-d’œuvre bon marché dont il s’épargne les frais de formation payée par le pays d’origine |15|. Une telle main-d’œuvre, flexible et exploitable à merci, comble un besoin dont les économies des pays industrialisés ne peuvent se passer si facilement.

      Loin de constituer une menace et contrairement à une idée fausse, les migrations ont généralement un impact positif sur les économies des pays d’accueil. Sur un plan purement économique, d’après l’OCDE, un immigré rapporte en moyenne 3 500 euros de rentrées fiscales annuelles au pays qui l’accueille |16|. Les sans-papiers qui travaillent ont des fiches de paies, souvent au nom de tierce personne et cotisent à une couverture sociale dont ils ne peuvent bénéficier.

      En définitive, s’installe le doute quant aux résultats attendus d’une telle stratégie de gestion des flux de déplacements humains. La politique anti-migratoire mise en œuvre tue, l’Europe compte les morts mais continue à dresser ses barricades. Pourtant les migrations ne sont pas un problème, un fléau en tant que tel contre lequel il faut lutter. Les migrations sont la conséquence des conflits, des persécutions, des catastrophes environnementales, des injustices sociales et économiques dans le monde. Et c’est à ces causes-là qu’il faut s’attaquer, si l’on veut mener une politique migratoire réellement juste et humaine.

      https://www.lautrequotidien.fr/articles/lesprofiteurs
      #privatisation #Frontex

    • Border-induced displacement: The ethical and legal implications of distance-creation through externalization

      Introduction: The role of #distance

      The externalization of European border control can be defined as the range of processes whereby European actors and Member States complement policies to control migration across their territorial boundaries with initiatives that realize such control extra-territorially and through other countries and organs rather than their own. The phenomenon has multiple dimensions. The spatial dimension captures the remoteness of the geographical distance that is interposed between the locus of power and the locus of surveillance. But there is also a relational dimension, regarding the multiplicity of actors engaged in the venture through bilateral and multilateral interactions, usually through coercive dynamics of conditional reward, incentive, or penalization. And there are functional and instrumental dimensions too, concerning the cost-effectiveness of distance-creation (in both ethical and legal grounds) vis-à-vis the (unwanted) migrant, who, removed from sight, is no longer considered of concern to the supervising State,[1] and the range of externalizing policy devices at the service of externalising agents in terms of purpose, format, delivery, and ultimate control.[2] European borders thus (re-)emerge as ubiquitous, multi-modal and translational systems of coercion – as an interconnected network of ‘little Guantánamos’.[3] This, in turn, creates a distance, both physically and ethically, that is utilized to shift away concomitant responsibilities.[4]
      Distance, as the next sections will demonstrate, plays a crucial role as a mechanism not only of dispersion of legal duties, blurring the lines of causation and making attribution of wrongful conduct a difficult task, but also as an artefact of oppression and displacement in itself. It does not prevent (unwanted) migration but rather makes it unviable through legally sanctioned, safe channels, diverting it through ever more perilous routes. The immediate effect of this distance that externalization engenders is at least threefold. First, it leads to the disempowerment of migrants, who are left with no options for safe and legal escape, being instead coerced into dangerous courses operated by smugglers. Second, it legitimizes the actors enforcing externalized control on behalf, and for the benefit, of the European Union and its Member States. Repressive forces in third countries gain standing as valid interlocutors for cooperation, as a result; their democratic and human rights credentials becoming secondary, if at all relevant, as the Libyan case illustrates below. Third, legal alternatives, like the relaxation of controls or the creation of safe and regular pathways, are rejected; perceived as an illogical concession to the failure of the externalization project.
      The final outcome, and what constitutes the focus of this contribution, is the ‘border-induced displacement’ effect,[5] resulting from the combination of the processes of extraterritorialisation and externalization taken together. Border-induced displacement is not equivalent to the original reasons forcing people into exile, but rather functions as a second-order type of (re-)displacement, produced precisely via (the violence implicated in) border control. This then leads to forms of ‘engineered regionalism’, that is, politics re-producing displacement in certain areas closest to the origin of flows.[6] ‘Safe third country’ rules and practices are the main vehicle of this development, discernible also within the EU, where the Dublin System has ‘rulified’ an asymmetric allocation of responsibility for asylum claims to peripheral countries situated at the external common frontiers of the Union, like Spain, Italy and Greece.[7] In the case of externalization, border-induced displacement is then imposed upon already-displaced persons by non-European actors implementing the EU’s pre-emptive control agenda, reinforcing prevailing patterns of exploitation and existing hierarchies of exclusion and subordination.
      The ethical and legal consequences of ‘distance-creation’ are what we turn to analyse in the remainder of this article. Section 2 pays attention to the assumptions and ethical and political-economic dimensions behind this strategy, discussing exit control, coercion, and the democratic legitimization of unelected actors enforcing the EU border within third countries. Section 3 investigates the legal impact of externalization and extraterritorialization, centring on the apparent accountability gaps that it generates, contesting the legality of responsibility dispersion mechanisms. The overall conclusion we reach is that the ‘rulification’ of externalization at EU level does not render it ethically and legally tenable under international law. The ‘lawification’ at EU level of practices inconsistent with human rights is insufficient to render them compatible with international legal standards.
      2. Ethical distance-creation: Examining attempts to justify externalization and border-induced displacement

      Although immigration ethics has thrived as a discipline since its late arrival in the 1980s, debates on border control between cosmopolitanism and liberal nationalism have often remained at an ideational level and generally based on liberal democratic foundations,[8] thus overlooking the composite ways through which border control is realized and experienced on the ground. This includes practices of externalization and extra-territorialization. Often, the assumptions guiding ethical debates on border control have reproduced a territorially trapped gaze, circumscribed by methodological nationalism,[9] which, through a set of idealized premises, reduces the complex and transnational dynamics of displacement and border control to a phenomenon of mis-placement between territorially bordered societies.[10] Such reduction is marred by what can be called reactive and regionalist postulations. These view border control, first, as a manifestation of State agency, and, second, as only a response to migration flows. Third, they naturalize the containment of displacement within certain regions, perceiving the phenomenon as geographically and morally distant from Europe.
      But immigration ethics is far from alone in reproducing methodological nationalism and reactive and regionalist conjectures, as these mirror prevailing paradigms about the relationship between displacement and borders.[11] However, it is instructive, nonetheless, to examine European externalization by applying existing ethical debates about the democratic legitimacy, coercion, and rights of border control to the issue of externalization.[12]
      2.1. The democratic legitimacy question

      One fundamental debate has concerned the democratic legitimacy of border control as such. Assuming that freedom and democracy are instrumentally valuable for securing individual autonomy, a principled concern is that the coercive aspects of border control amount to violations of autonomy when they happen without the consent of those exposed to them. In order for border control to be legitimate from a liberal democratic perspective, it would have to be justifiable to non-members – however the demos may initially be defined – through a deliberative process.[13] Yet, proponents of border control might argue that access to asylum procedures can resolve this concern, if asylum applications are seen as granting such deliberative voice to them. Although this debate has only concerned an undifferentiated notion of border control, we can extend it to the politics of externalization, if we imagine proponents to argue that, if externalized control is able to respect individual autonomy, it might also be deemed democratically legitimate.[14] The strength of such an argument will then depend on the meaning and function of externalization.
      European externalization processes occur when European Member States, through bi-, multi- or supranational venues, complement policies of controlling cross-border migration into their territories with pre-emptive initiatives realizing such control extra-territorially and/or through sub-contracting to actors and agencies other than their own.[15] Externalization has been discussed in terms of policy transfer, issue-linkages, and ripple effects,[16] but, crucially, its dynamics apply also to intra-European relations. For many years, the Dublin system has served to transfer the border control burdens of North-Western Member States to South-Eastern ones, causing heated discussions about lacking solidarity,[17] similar to those between European and non-European countries.[18]
      Justifications offered for externalization oscillate between grammars of securitized control and humanitarian care.[19] For instance, the June 2018 proposal by the EU ministers about ‘controlled centres’ and ‘regional disembarkation platforms’, whereto ‘boat migrants’ can be deported, is framed as an innovative idea allowing Member States both to ‘stem illegal migration’ and simultaneously save vulnerable migrants by breaking the ‘business model’ of smugglers and traffickers purportedly in accordance with human rights and the rule of law.[20]
      Yet, the 2018 externalization proposal is not as innovative as it may seem. Between the 1980s and mid-2000s, five very similar – and similarly controversial – externalization proposals were put forth by the British, Danish, Dutch, and German governments and by the European Commission. And they all revolved around externalized centres in Eastern Europe and North Africa whereto EU Member States would send asylum seekers or interdicted ‘boat migrants’. The terminologies varied from ‘regional protection areas’ by the British, ‘processing centres’ by the Danes, ‘reception centres’ by the Dutch, ‘EU reception centres’ by the German, and ‘Regional Protection Programmes’ (RPPs) by the European Commission.[21] All but the RPP proposal focused on administrative deportation from European territory, so that, as put by the Blair government, ‘refoulement should be possible and the notion of an asylum seeker in[land] should die’.[22] By 2005, the German proposal had dropped any talk of extraterritorial asylum processing and moved on to identifying Libya as a promising collaborator for pre-emptive containment.[23] In light of the concurrent dysfunctional intra-European dynamics of the Dublin system, the proposals between 1986 and 2018 illustrate how the externalization logic has long been invoked as a magic remedy to the Dublin ills, always couched in crisis-laden and emergency-driven rhetoric, while also holding out vague promises of protection.
      Externalization can be criticized for co-opting protection in favour of methods of ‘consensual containment’ that re-produce displacement in regions neighbouring the EU.[24] For instance, especially since 2017, Italy and the EU have pursued a policy of transferring search and rescue to the so-called Libyan Coast Guard (LYCG), thereby effectively turning missions into operations of exit control. It is due to their material contribution and close involvement in the internal command-and-control structure of the Libyan forces that the LYCG performed 19,452 pull-backs in 2017.[25] Political discourses on externalization can, however, be seen as arguing that this kind of regionalist engineering creates ‘protection elsewhere’ based on three claims, popular in ethical discussions on border control within liberal national regimes. In the following, we analyse them through standing ethical debates about coercion and prevention, peoples’ rights to enter and exit territories, and democratic legitimacy.
      2.2. Coercion: From ‘protection elsewhere’ to ‘protection nowhere’

      First comes the claim that border control, and thus also its externalized manifestations, is not illegitimately coercive, because it is only preventive. Here, coercion has been referred to as when individuals are forced to do a specific thing, while prevention is taken to mean when they are forced not to do a specific thing.[26] Second comes the aforementioned argument that border control can be legitimate when agreed upon democratically.[27] Third follows the statement of an entry/exit-asymmetry signifying that people’s rights against one State not to prevent them from exiting its territory is held to be morally paramount, but that it does not entail an equally forceful obligation on any other State to let them enter their territory.[28]
      Combining these claims, we then arrive at a ‘protection elsewhere’ argument maintaining that externalization is legitimate, since agreed to by all governments involved, and because it preserves displaced persons’ rights through extraterritorial asylum processing. Even if the policy may block their movement, this argument goes, it only prevents them from entering European territory, while still allowing them to find protection elsewhere, after having exited their own country. The zero-sum game effect that the generalisation of this policy would generate goes unaverted – if all countries did the same there would be ‘protection nowhere’.[29]
      But this argument is categorically flawed. Its definitions of coercion and prevention are problematic and rest upon a disconnect between abstract assumptions about border control guiding liberal nationalistic immigration ethics and the actual reality of displacement and European border surveillance, discounting its concrete effects on the ground. EU externalization practices yield extremely coercive checks amounting to violent regimes of exit control, also contravening the legally-sanctioned right – assumed in debates on immigration ethics – to leave one’s own country.[30] That is, even if one, for the sake of argument, assumes the right to exit to hold more value than that of entry – since at international law one is universally applicable while the other is only opposable to one’s own country[31] – actual externalization practices still violate not just the latter, but also the former.[32] The containment of migrants in Libyan detention structures, for instance, reveals an abusive regime that bars access to asylum. Amnesty International has counted twenty reports from reliable monitors, including UN and EU sources, attesting to this reality.[33] The abject brutality facing displaced persons, contained and circulated through externalization, can only be labelled non-coercive prevention from a Eurocentric, and extremely abstract vantage point. In truth, they cause suffering on such a scale that they may amount to atrocity crimes, according to the ICC Prosecutor,[34] and, as the UN High Commissioner for Human Rights has put it, they constitute ‘an outrage to the conscience of humanity’ – at least as far as the situation in Libya is concerned.[35] Collaborative border infrastructures are endowed with the power to coerce at a distance, with externalization leading to practices of ‘remote control’ that extraterritorially negate access to the European asylum systems to those (theoretically) entitled to international protection,[36] literally ‘trapping’ migrants in a constant ‘cycle of abuse’.[37]
      Nevertheless, even if the ethical ‘protection elsewhere’ argument must be rejected as an invalid justification for current European externalization policies the reasons for it are instructive. Seeing how externalization produces highly coercive collaborative regimes of exit control makes clear the problematic ramifications of the reactive and regionalist assumptions on which it rests. Conventional views on international relations and forced migration see the displacement to which borders respond as induced by conflicts or developmental or environmental factors.[38] Yet, while attention to the causes of displacement is important, this model embraces borders as only reactive to – rather than also constitutive of – displacement. But this is wrong. A range of border practices and infrastructures, performed at or beyond the physical frontiers of the EU, such as interdiction, detention, and deportation, do not just react to, but also in themselves cause displacement, by diverting flows towards increasingly dangerous routes and by multiplying death ratios at sea and at border zones.[39] This ‘border-induced displacement’, therefore, challenges the regionalist and reactive premise that the production of forced migration is primarily a problem created outside European territory and agency and contests the structural incorporation of (foreseeably lethal) coercion as a legitimate mechanism of border control.
      EU-Libyan relations, since the 2000s, illustrate how externalization has built the infrastructures enabling this kind of coercive re-displacement. This problematizes prevailing assumptions still dominating immigration ethics and politics, namely that the agency of border control consists of States’ discretion over movement across their territorial borders. Externalization underscores the need to consider more composite notions of agency – and thus responsibility – decoupled from national territories, and spanning several governments, organisations as well as non-state actors.
      The decades-long European-Libyan collaboration on border control is a case in point. After the European Commission decided to lift its arms embargo against Libya in 2004, two ‘technical missions’ followed. The first, in 2004, was meant to ‘identify concrete measures for possible balanced EU-Libyan cooperation particularly on illegal immigration’ and the second, in 2007, to develop ‘an operational and technical partnership’ for extraterritorial border control.[40] The case of Libya is but one example of how European externalization policies have facilitated the transformation of European border control into a flourishing market of violent deterrence and containment,[41] with little to do with a rights-based protection paradigm, and also how third countries’ control apparatuses have become a lucrative export venture for the arms-, security-, and IT-industries of the EU Member States.[42]
      2.3. Trading in rights for border control

      Companies like Spanish Indra, British BAE Systems, Italian Leonardo, French Thales and Ocea, Dutch Damen, German Rheinmetall and Airbus all compete for contracts to expand the capacity for surveillance and control of not just Libya, but also other Eastern European, North African and Middle Eastern countries collaborating on EU externalization. In 2012, an industrial consulting actor valued the global border industry at €25.8 billion, projecting an increase to €56 billion by 2022.[43] And European sales of patrol boats, jeeps, planes, drones, satellites, helicopters, radar systems and whole surveillance mechanisms for border control purposes were part of the EU export licenses worth €82 billion to the Middle East and North Africa between 2005–2014.[44] This political economy of externalization also applies to the industries of EU partner countries. For instance, in 2016, the EU channelled more than €83 million to contracts with Turkish Aselsan and Otokar to provide heavily armoured vehicles placed, respectively, at the Greek-Turkish border and the newly constructed 911 kilometre border-wall between Turkey and Syria.[45]
      The dynamics reshaping third-country border infrastructures elucidate how borders can function as engines of, rather than just responses to, displacement. This means that arguments for externalization appealing to democratic legitimacy face more problems than merely the barring of access to asylum procedures: First, because when EU Member States use their political-economic leverage to make externalization deals with non-EU countries, they are effectively asking them to replace their own public interest with the EU preference of avoiding asylum seeker flows towards the Member States. Second, because several examples, like the EU collaboration with Libyan actors, including militias and former traffickers, as further discussed in the next section, illustrate how the EU’s externalization partners very often lack democratic legitimacy.[46] EU border externalization entrenches forms of undemocratic governance in third countries, empowering undemocratic actors, transforming their relative weight within domestic structures, and weakening democratic channels of scrutiny, accountability, and power control. Externalization thereby risks creating a vicious cycle, where the influx of arms and funds to those actors willing to enact the European containment agenda grants them political validity, which is then used to undermine not only migrant rights, but also to repress domestic opposition and dissidence and thus destabilize internal democratisation processes. The short-term European goal of preventing asylum seeker flows thereby risks compromising the stated long-term goal of tackling the root causes of displacement,[47] which is sacrificed in the altar of externalised ‘integrated border management’.[48]
      3. Legal distance-creation: The juridical implications of externalization and border-induced displacement

      Externalization has not only been encapsulated in political and policy arguments and practices, but has also been embedded in law through the ‘protection elsewhere’ model. The ‘protection elsewhere’ model ultimately rests on the assumption that refugees and migrants are best served ‘at home’, whether it be in their countries of origin or in the neighbouring region (but away from the EU at any rate). ‘Onward movements’ defy this logic and are thus seriously penalized. Responsibility for reception and asylum has accordingly been delegated (or redirected) to countries proximate to the source of flows, via targeted rules on ‘safe third countries’ and readmission agreements that legalise the practice. But, as stated above, this (re-)allocation of protection duties to peripheral States is also part and parcel of the Common European Asylum System within the EU. The Dublin Regulation enshrines and ‘rulifies’ this vision for the Member States, allowing non-external border countries to deflect responsibility in a legal manner.
      Against this background, EU countries feel legitimized to claim their own irresponsibility vis-à-vis non-Member States,[49] projecting the model onto their external relations and imposing compliance with EU control rules as a matter of course. Fatalities at sea and elsewhere are then presented as the result of disorder and illegality; something avoidable if only (EU) rules were observed and effectively enforced by non-EU partners. The structural conditions imposed by the externalization apparatus, and the injustice that ensues, are usually disregarded or downplayed as unintended collateral damage. The fact that illegality is the only way out of a situation of want or persecution, and that smuggling is the only remaining vehicle to reach safety, is routinely silenced. It is the smugglers who profit of the precarious situation of ‘boat migrants’ – the argument goes. So, the eradication of smuggling and a return to (EU) law and order is portrayed as the solution. The option to relax border control rules and adapt them to the imperatives of human dignity, decriminalising the irregular movement of forced migrants, is not even contemplated. That would be perceived as an illogical concession; a descent into chaos and the negation of the rule of (EU) law. This EU-centric conception of the law is what sustains the externalization edifice and nurtures the collaboration with third countries.
      At the legal-strategic level, externalization politics are accompanied by at least two degrees of ‘irresponsibilitization’, enshrined in, and sanctioned by, EU law: responsibility diffusion and responsibility denial. ‘Diffusion’ refers to the relational dimension of externalization, to situations of multi-actor alliance where the causation chain and attribution operation become unclear, with different agents and organs of different States contributing to a particular (unlawful) result. By contrast, ‘denial’ captures scenarios of outright disclaiming of responsibility, where this is said to belong to a different actor altogether, according to the (usually EU-based) rules in place (or their self-serving interpretation).
      3.1. Responsibility diffusion

      The creation of physical distance, via exit control, disembarkation platforms, holding sites, or reception camps abroad, contributes to ‘irresponsibilitization’ through diffusion. None of the proposals put forth so far clarifies exactly who should be considered responsible for those intercepted in, and repatriated to, Libya or any alternative location hosting the centres. The overall supposition appears to be that EU Member States would ultimately escape the task.[50] But there is some residual notion that European countries could not completely ‘circumvent’ their obligations[51] – albeit without elaboration, even the Legal Service of the European Parliament concedes that migrants sent to disembarkation platforms located outside the territory of the Member States ‘should benefit from the guarantees provided for in the 1951 Geneva Convention […] and in the European Convention of Human Rights’, including the principle of non-refoulement.[52]
      Actually, under international law, ‘no State can avoid responsibility by outsourcing or contracting out its obligations’.[53] Cooperation with third countries does not exonerate EU Member States from their non-refoulement and related duties – both under general customary law and as per the relevant international Conventions.[54] According to the Strasbourg Court, ‘[w]here States establish […] international agreements to pursue cooperation in certain fields of activity’, whatever their legal nature, validity, and intent,[55] ‘there may be implications for the protection of fundamental rights’. With this in mind, it would be ‘incompatible with the purpose and object of the [European Convention of Human Rights][56] if Contracting States were thereby absolved from their responsibility under the Convention in relation to the field of activity covered by such [agreements]’.[57] As a result, ‘[i]n so far as any liability under the Convention is or may be incurred, it is liability incurred by the Contracting State […]’.[58] Despite its cooperation with Libya or any other third country, the independent responsibility of each EU Member State participating in the scheme of externalized migration controls subsists, ‘where the person[s] in question […] risk suffering a flagrant denial of the guarantees and rights secured to [them] under the Convention’.[59]
      Nor would Member States be able to evade responsibility by transferring functions to the UNHCR or the IOM – whatever their support and potential separate liability.[60] ‘Absolving Contracting States completely from their Convention responsibility in the areas covered by such a transfer would [again] be incompatible with the purpose and object of the Convention’, as Strasbourg clarifies. The final effect would be for ‘the guarantees of the Convention [to] be limited or excluded at will thereby depriving it of its peremptory character and undermining the practical and effective nature of its safeguards’,[61] negating the basic premise of the pacta sunt servanda principle.[62] And the same is true in regard to other instruments of international human rights law.
      Even though several actors combine to produce re-displacement, individual responsibility for its effects cannot be deflected. The principle is well established in international law. Article 47 of the ILC Articles on Responsibility of States for International Wrongful Acts (ARSIWA) contemplates precisely the scenario where several States participate in the same internationally wrongful act, stipulating that in such cases ‘the responsibility of each State may be invoked in relation to that act’.[63] Each State retains responsibility and, according to the ILC Commentary, ‘is separately responsible for the conduct attributable to it’. The fact that one or more additional States also contribute to the same act in no way reduces the responsibility of each single country.[64] So, any orders or transfers performed, or orchestrated by, EU Member States will engage their responsibility for any resulting breaches of their international commitments.
      Neither the ‘disembarkation platforms’ proposal, nor any other of the similar initiatives emerged since the 1980s explored above specifies where exactly those repatriated or ‘pulled back’, whether to Libya or other third countries, would be accommodated.[65] It is conceivable that proponents envisage offshore reception centres to be closed, since the ultimate aim is to contain and deter irregular movement.[66] This then entails large-scale, and potentially long-term, detention, in breach of Article 5 ECHR guarantees,[67] which have been recognised to apply extraterritorially, extending to cases of deprivation of liberty abroad.[68] Yet, the border-induced displacement effects of externalization practices, like involuntary retention in international waters, forcible transfer to warships, coercive escorting or imposing of a certain course, constitute restrictions of physical freedom and need to accommodate the legal safeguards of the Convention.[69]
      It is not known whether the ‘disembarkation platforms’ proposal foresees transfers to the country concerned to be automatic. Should that be the case, EU Member States risk incurring direct and indirect violations of the prohibition of collective expulsion and the (non-derogable/non-limitable) protection against refoulement. Regarding the latter, the Strasbourg Court attaches paramount importance to country information contained in reports from independent sources,[70] so that when reliable accounts of the circumstances prevailing in the receiving State make it ‘sufficiently real and probable’ that the general situation entails a ‘real risk’ of ill treatment in the sense of Article 3 ECHR, a refoulement presumption is activated and removal cannot be performed.[71] What is more, on account of the absolute character of Article 3, Contracting Parties must undertake the relevant investigation proprio motu and abstain from actions/omissions that put individuals at risk. As the Court asserted in Hirsi, ‘it [is] for the national authorities, faced with a situation in which human rights [are] systematically violated […] to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return’.[72] So, the Member States concerned are to comply with their non-refoulement obligations proactively, regardless of whether the persons in question seek protection or specifically alert of the dangers faced upon return. The fact that potential applicants fail to request asylum or to formally oppose their removal does not absolve Contracting Parties of their Convention duties,[73] and especially their positive due diligence obligations.
      This includes the requirement to provide access to adequate procedures.[74] Member States must offer a real opportunity for individuals to submit and defend their claims,[75] including an ‘effective remedy’.[76] This requires that the remedy in question be able to ‘prevent the execution of measures that are contrary to the Convention and whose effects are potentially irreversible’. Therefore, ‘it is inconsistent with Article 13 [ECHR] for such measures to be executed before the national authorities [of the Member State concerned] have examined whether they are compatible with the Convention’.[77] In these cases, appeals must have ‘automatic suspensive effect’.[78] And screening on board interdicting vessels or somewhere else offshore cannot satisfy these requirements.[79] Procedural responsibilities, just like substantive guarantees, cannot be deflected, postponed, or negated. The ultimate guarantors of ECHR safeguards are the Contracting Parties, which must ‘secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in [the] Convention’.[80]
      Due diligence commands the dual duty to refrain from any conduct that may result in arbitrary violations as well as the obligation to enact laws and policies that effectively protect individuals against abuse. Following the Human Rights Committee’s recent General Comment on the Right to Life, by analogy, State Parties are required to ‘organise all State organs and governance structures through which public authority is exercised in a manner consistent with the need to respect and ensure [human rights]’. This includes a duty of ‘continuous supervision’ in order to ‘prevent, investigate, punish and remedy’ any harm.[81] As a result, actions such as the ‘sale […] of […] weapons’, and presumably other similar law enforcement and border control equipment, must be preceded by a conscientious examination of its foreseeable impact on human rights.[82] As members of the international community and as subjects of customary law, States must take into account
      ‘their responsibility […] to protect lives and to oppose widespread or systematic attacks on [human rights]’[83] – like those sustained by migrants in Libya.[84] And, in particular, States have an obligation under general international law ‘not to aid or assist activities undertaken by other States and non-State actors that violate [human rights]’.[85]

      All these reasons should lead to the rejection of ‘disembarkation platforms’ and similar initiatives as ‘externalization fantasyland’.[86] EU Member States should not invest in a formula that promotes cooperation with human rights perpetrators and impedes the fulfilment of their pre-contracted obligations – such a course would hardly qualify as a good faith implementation of their binding commitments.[87] Instead, domestic systems of territorial protection should be reinforced, including the necessary intra-EU solidarity and responsibility-sharing mechanisms to make them effective.[88] Physical distance-creation, through off-shoring and outsourcing, does not translate into an erasure or diminution of legal duties. EU rules on ‘safe third countries’ and readmission cannot (unilaterally) undo international standards.[89]
      3.2. Responsibility denial

      Besides tools of responsibility deflection, mechanisms of outright denial of obligations are equally challenging. Usually, the capacitation of third countries’ control infrastructures, mimicking the Schengen ‘integrated border management’ system,[90] is framed as unproblematic. The transfer of funds, know-how, and equipment, as in the cases referred to in the previous section, are considered to emanate from a spirit of solidarity with non-EU partners and to be fully in line with the relevant criteria. The ethical distance between the EU or Member State gifting assets, ceding resources, or providing training and any potential human rights violations that may ensue is taken to preclude liability. There is no intent – no dolus specialis – intervening in the operation. Thus, the denial of responsibility on the European side for the atrocities in Libya, the abuses in Turkey, or the fatalities at sea associated with border-induced displacement, commonly recurs.[91]
      Yet, international law paints a more complex picture.[92] If one considers that it is ‘thanks’[93] to Italy, for instance, that the LYCG continues to exist in any functional form in the post-Kaddafi period,[94] an outright denial of responsibility becomes difficult.[95]
      Especially since the signature of the Memorandum of Understanding between Italy and the Libyan Government of National Accord in February 2017,[96] the delivery of training, equipment, and assets (including the four main patrol vessels employed by the LYCG) has intensified. Italy has created a dedicated ‘Africa Fund’, € 2.5 million of which has been allocated to the maintenance of LYCG boats and the training of their crews.[97] The EU, too, has committed € 46 million to prop up Libyan interdiction capacity.[98] It has been calculated that the total combined investment by Italy and the EU will be € 285 million by 2023,[99] with the EU alone providing € 282 million – most of which via programmes administered, coordinated, or supervised by Italy.[100] In addition, an extension of the Mare Sicuro Operation, named NAURAS,[101] was approved by the Italian Parliament in August 2017, consisting of four ships, four helicopters, and 600 servicemen, of which 70 per cent are deployed at sea, with the other 30 per cent stationed in Tripoli harbour. Their key mission, as declared by the Italian Navy itself, is to ‘establish [the] operational condition[s] for LN/LNCG [i.e. Libyan Navy and LYCG] assets and develop C2 [ie command-and-control] capabilities’. Meanwhile, an ‘ITN [ie Italian Navy] naval asset in Tripoli Harbour [is] acting as LNCC [ie Libyan Navy Communication Centre] and logistic assistance/support hub’, thus assuming the function of a floating maritime rescue coordination centre.[102]
      The nature of the LYCG as a proxy for Italian interdiction has furthermore been confirmed by the judge of Catania adjudicating on the related case concerning the rescue ship Open Arms of the NGO Proactiva. In his decision, the judge takes as proven the crucial role played by Italy in leading LYCG operations. The judge goes so far as to affirm that the interventions of Libyan patrol vessels happen ‘under the aegis of the Italian Navy’ and that the coordination of rescue missions is ‘essentially entrusted to the Italian Navy, with its own naval assets and with those provided to the Libyans’.[103] This corroborates the ‘high degree of integration’ between the two,[104] and the ‘effective control’ exercised by Italy over LYCG operations, making ensuing violations attributable to it.[105]
      The subsequent abuse of those pulled back to Tripoli happens despite Italy’s knowledge of the desperate situation facing migrants in Libya, including widespread and systematic torture, rape, inhuman and degrading treatment, and enslavement. The Deputy Minister for Foreign Affairs himself admitted that ‘taking [migrants] back to Libya, at this moment, means taking them back to hell’.[106] Nonetheless, the interdiction by proxy policy of Italy continues.[107] Amnesty International estimates that there are over 10,000 persons currently held in official detention centres in Libya – all of which funded through EU/Italian money. And, virtually all of them have been brought there as a result of their interdiction at sea by the EU/Italian-equipped and -trained LYCG.[108] Consequently, the combination of control exercised – though ‘contactless’[109] – and the knowledge of the circumstances migrants face should be understood to render Italy answerable for the resulting human rights violations, even if the LYCG is used as a surrogate.
      As per Article 8 ARSIWA, ‘[t]he conduct of a person or group of persons [such as the LYCG] shall be considered an act of a State [i.e. Italy in this case]’, when the group in question ‘is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct’. Taking the Italian Navy and the Judge of Catania’s assertions at face value, the LYCG are to be considered ‘auxiliaries’ of the Italian border machinery deployed extraterritorially, ‘instructed to carry out particular [interdiction] missions abroad’. The Italian Navy conducts the specific operations through its NAURAS effectives exercising coordination as well as command-and-control functions, meaning that the (wrongful) conduct of the LYCG shall be considered ‘an integral part of the operations’ aimed at impeding departures across the Central Mediterranean and thus be attributed to Italy.[110] It is the Italian authorities that locate targets, relay maritime coordinates, and equip and mandate the LYCG to proceed to the interdiction of migrant boats.[111] It is Italy that ‘directs’ the operations in a way that ‘does not encompass mere incitement or suggestion but rather connotes actual direction of an operative kind’.[112] Italian intervention is a sine qua non for the ‘pull-backs’ at sea to materialise, which could not be carried out autonomously by the LYCG.[113] Italy exercises ‘such a degree of control […] as to justify treating the [LYCG] as acting on its behalf’.[114]
      Italy’s involvement in Libyan search and rescue (or rather, interdiction) operations, in different ways and throughout time, rather than just an instance of complicity,[115] engaging indirect responsibility, can thus be characterised as a breach entailing direct responsibility, consisting of a ‘composite act’. Article 15 ARSIWA establishes that an international obligation (of non-refoulement, for instance, and of non-arbitrary interference with the right to leave) may indeed be violated via ‘a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful’. The financing or training of the LYCG alone may be harmless and perfectly licit, but, when taken together and alongside the infiltration of the command-and-control chain of the LYCG by the Italian Navy, the whole, in light of the final outcome of pull-backs, becomes an illicit under international law.
      Italian jurisdiction may indeed be engaged not only in relation to action occurring within its territory and in other areas subject to its ‘effective control’, but, as the Human Rights Committee has stated, also regarding conduct ‘having a direct and reasonably foreseeable impact on the right[s] […] of individuals [abroad]’.[116] The obligation to respect and protect human rights extends beyond territorial domain to all persons subject to its jurisdiction, that is, to ‘all persons over whose enjoyment of the right[s] [concerned] it exercises power’, including ‘persons located outside any territory effectively controlled by the State, whose [rights are] nonetheless impacted by its military and other activities’ – the transfer of money, equipment and enforcement capacity thus acquiring a significance of its own as a possible trigger of independent responsibility for wrongful conduct.[117] Not only the aiding and abetting of human rights violations is of relevance, whatever the form the assistance provided to the LYCG may take (whether commercial, financial, political, or logistical), but also actions (or omissions) that impede the effective enjoyment of human rights – counting the right to leave any country, to seek protection from harm, and to non-refoulement – matter too, from a legal perspective.[118] Following the Legal Service of the European Parliament in the context of its viability analysis of ‘disembarkation platforms’, engagement in any formal or informal arrangement with third countries – including Libya – to finance or contribute to the functioning of externalized structures of migration control ‘have to respect the prescriptions of the relevant provisions of international law’[119] – presumably including those under the ECHR, the ICCPR and general customary norms.[120] Failure to do so flouts the obligations concerned. Direct perpetration of an international wrong is not a pre-requisite for legal responsibility. Indirect contraventions – including via proxy – incur liability as well.[121]
      Distance-creation, through the ‘rulification’ of ‘irresponsibility’ in legal texts or self-seeking effectuations, does not do away with international obligations, nor does it legitimize the suffering it provokes. The EU and its Member States must come to recognise the predictable effect and implications of their externalization agenda. And, alongside the UN Special Rapporteur on Torture, acknowledge that, as currently designed, their ‘migration policies can amount to ill-treatment’.[122] Actually, ‘[t]he primary cause for the massive abuse suffered by migrants […] is neither migration itself, nor organised crime […] but the growing tendency of States to base their official migration policies and practices on deterrence, criminalisation and discrimination’.[123] It is this distinct strategy that causes border-induced displacement, breaches human rights obligations and triggers international legal responsibility.[124]
      4. Conclusion: ‘Rulification’ as the co-option of protection

      ‘Rulification’ does not represent a paradigm shift in European politics, but rather an up-scaling of the logic observable also in proposals pursued from the 1980s and onwards and which have led to the integration of the concepts of ‘first country of arrival’, ‘safe third country’ and maritime interdiction within the legal architecture of the common borders and asylum acquis, the primary purpose of which has been the avoidance of asylum seekers on EU territory. It is the abuse and exploitation entrenched within externalization strategies that engenders border-induced displacement in Europe’s border-region. With EU Member States viewing the opening up of legal escape routes as an irrational concession, the side-effects of externalization are exacerbated as the systemic logic of asymmetric, diffused, and denied responsibility for displaced persons is reproduced further and further away from Europe, and closer and closer to the repressive regimes people attempt to escape from.
      The reactionary and regionalist assumptions underpinning externalization arguments and practices tell a securitized tale of displacements constantly generated and managed far removed from European territory and agency. However, distance-creation strategies, whether ethical, spatial, or legal, belong to the category of ‘policies based on deterrence, militarization and extraterritoriality’, denounced by UN Special Rapporteurs and others, ‘which implicitly or explicitly tolerate [and perpetuate] the risk of migrant deaths as part of an effective control of entry’.[125] As the previous sections demonstrate, the structural nature of externalization problematizes traditional assumptions and debates in immigration ethics and politics. It traps migrants in a ‘vicious circle’ of more control, more danger, and more displacement, where they must rely on facilitators to escape life-threatening perils.[126]
      But smuggling and trafficking is the consequence, rather than the cause, of suffering. Suffering is embedded in the externalization system by design through the vehicle of ‘rulification’, which serves to launder the pernicious (and perfectly foreseeable) impact of extra-territorialised/externalised coercion into ‘law-ified’ (and purportedly unintended) side effects. At the same time, the European transfer of equipment and capacity for control outwards also risks undermining processes of accountability and democratic legitimacy in regions bordering Europe. And the ‘rulification’ of border-induced displacement does not make these implications any more palatable. In the words of UN Special Rapporteur Agnès Callamard, it is simply ‘not acceptable’ to deter entry by endangering life.[127] The fallacy of coercion-based protection needs to give way to an ethically grounded and legally sustainable rights-honouring paradigm. This is not to contest the legal existence of borders or their enforcement, but to challenge the legitimacy of mechanisms through which they are presently enacted in a manner incompatible with the most basic requirements of international law.

      http://www.qil-qdi.org/border-induced-displacement-the-ethical-and-legal-implications-of-distance-
      #responsabilité #déni_de_responsabilité #protection

  • Rapport sur l’état des relations #UE - #Algérie dans le cadre de la #PEV rénovée

    Suite aux efforts communs d’harmonisation menés par les Etats membres et l’UE, plus de 507’000 visas de court séjour ont été délivrés à des ressortissants algériens, ce qui place l’Algérie parmi les 7 premiers pays bénéficiaires de tels visas dans le monde. Un renforcement de la coopération entre l’Algérie et les Etats membres en matière de réadmission d es migrants algériens reconnus en situation irrégulière est nécessaire, en témoigne un taux de retour effectif de seulement 17% en 2016 , selon les statistiques européennes (21’925 décisions de retour pour seulement 3745 retours effectifs). Les difficultés principales concernent l’identification des ressortissants en situation irrégulière par les autorités algériennes et la délivrance de laissez-passer consulaires par ces dernières aux personnes concernées, condition préalable à leur réadmission. Pour mémoire, l’Algérie a conclu des accords bilatéraux dans ce domaine avec plusieurs Etats membres de l’UE, et l’UE a un mandat pour la négociation d’un accord de réadmission depuis 2000, mais l’Algérie n’a à ce jour pas confirmés on accord quant au démarrage de négociations en la matière .

    (p.13)

    https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/rapport_sur_l27etat_des_relations_ue-algerie_2018.pdf
    #Europe #EU #accords_de_réadmission #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #déboutés #visas #taux_d'expulsion #Politique_européenne_de_voisinage
    cc @isskein

    • Report on the state of EU-Algeria relations: implementing a partnership rich in challenges and opportunities

      Between March 2017 and April 2018, the EU and Algeria demonstrated their desire to deepen their political dialogue and cooperation in all partnership areas.

      That is the conclusion of the progress report on the state of EU-Algeria relations published today by the European Commission services and the European External Action Service with a view to the 11th EU-Algeria Association Council in Brussels on 14 May 2018.

      The dialogue has been stepped up through many high-level visits and has been deepened, in particular in the sectors of security, the fight against terrorism, and energy. Tangible progress has also been made in numerous areas ranging from justice, agriculture and fisheries to research and civil protection, in a bilateral or regional framework.

      High Representative/Vice-President Federica Mogherini said: ‘Since the March 2017 Association Council, our relations have been stepped up on both bilateral and regional questions. Our partnership is progressing and consolidating. Based on the constitutional review of 2016, the reform of the political governance system in Algeria remains at the heart of our partnership and has the support of the EU for its implementation, in particular in the fields of justice and participatory democracy. We are also building a relationship of trust with regard to security, aimed at regional stability and the fight against terrorism, to the benefit of our citizens.’

      Johannes Hahn, Commissioner for European Neighbourhood Policy and Enlargement Negotiations, added: ‘The EU is ready to continue support for reforms, in particular those aimed at diversifying the Algerian economy. We are confident that EU support will help to improve the business climate and develop entrepreneurship. It is in Algeria’s interest and in the EU’s interest too. We hope that this cooperation, which is aimed at strengthening the Algerian economy, will help us to overcome our trade differences and will pave the way to more European investment that will create jobs in the country.’

      The report identifies the progress made by Algeria and the European Union in the areas of mutual interest identified by their Partnership Priorities since they were adopted in March 2017: i) governance and fundamental rights; ii) socio-economic development and trade; iii) energy, environment and climate change; iv) strategic and security dialogue; and v) the human dimension, migration and mobility.

      By means of this report, the European Union reiterates its willingness to boost the EU-Algeria partnership still further and support Algeria in these numerous areas.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-3564_en.htm

  • La politique de l’UE en matière de visas : la Commission présente des propositions pour la rendre plus solide, plus efficace et plus sûre

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-1745_fr.htm
    #UE #EU #Union_européenne #visas

    Evidemment, cela a un lien avec les #accords_de_réadmission :

    La politique de visas en tant qu’outil d’amélioration de la coopération en matière de retour et de réadmission

    Comme demandé par les dirigeants de l’UE en juin 2017, la Commission est également en train d’intensifier les efforts conjoints déployés par l’UE en matière de retour et de réadmission, en faisant un meilleur usage de l’effet de levier exercé par la politique commune de l’UE en matière de visas. La Commission propose d’établir un nouveau mécanisme destiné à déclencher l’application de conditions plus strictes pour le traitement des visas lorsqu’un pays partenaire ne coopère pas suffisamment aux fins de la réadmission des migrants en situation irrégulière, y compris des voyageurs qui sont entrés légalement sur le territoire en ayant obtenu un visa mais qui ont dépassé la durée de validité de celui-ci. Les nouvelles règles prévoiront une évaluation régulière, par la Commission, de la coopération des pays tiers en matière de retour. Si nécessaire, la Commission pourra, en collaboration avec les États membres, décider d’une application plus restrictive de certaines dispositions du code des visas, y compris en ce qui concerne le délai maximal imparti pour le traitement des demandes, la durée de validité des visas délivrés, le montant des droits de visa et l’exemption de ces droits applicable à certains voyageurs, tels que les diplomates.

    #renvois #expulsions

  • #Gérard_Collomb à Tirana pour fermer les portes de l’asile aux Albanais
    https://www.mediapart.fr/journal/international/151217/gerard-collomb-tirana-pour-fermer-les-portes-de-l-asile-aux-albanais

    La visite était annoncée depuis l’été dernier. Gérard Collomb s’est finalement rendu en #Albanie ce jeudi et ce vendredi. Au programme : améliorer la coopération avec les autorités de Tirana pour faciliter le renvoi des déboutés du droit d’asile, mais aussi bloquer les départs de nouveaux demandeurs.

    #International #Migration

  • Dakar, cooperación por expulsiones

    Los acuerdos de repatriación pactados por España con países africanos fueron pioneros hace una década. La UE ha alcanzado pactos similares para frenar la emigración y que los Gobiernos acepten a los deportados

    http://internacional.elpais.com/internacional/2017/05/30/actualidad/1496165625_022467.html?id_externo_rsoc=TW_CC

    #accords #Espagne #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Sénégal #accords_de_réadmission
    cc @stesummi