Il prezzo di frutta e verdura bio è più alto, ma le condizioni in cui lavorano i braccianti in alcuni casi non sono migliori. Eppure il biologico è l’unica via per rendere l’agricoltura europea sostenibile
3,22 euro contro 4,50 euro. Il primo è il prezzo cui viene venduta on line una confezione di passata di pomodori datterini biologici. A produrla e commercializzarla è l’OP Principe di Puglia che, sul suo sito internet, si definisce «una delle più importanti aziende produttrici di verdura e frutta biologica del territorio pugliese». Il secondo è il compenso orario che, stando alle testimonianze raccolte dagli inquirenti, una delle imprese del circuito aziendale dell’OP Principe di Puglia pagava ad Aboubacar Baman, un bracciante della Costa d’Avorio di 34 anni, che, con fatica e senza diritti, quei pomodorini biologici li raccoglieva. Nell’aprile 2021, l’OP Principe di Puglia è stata al centro di un’operazione della Procura di Foggia contro l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. In pratica, contro il caporalato. Ora si attende il rinvio a giudizio.
L’agricoltura biologica è molto cresciuta negli ultimi anni, è sempre più richiesta da certe fasce di consumatori e ora è anche sostenuta dall’Unione europea con la strategia Farm to fork. Chi compra bio sceglie di pagare di più per avere prodotti buoni per la salute e l’ambiente. Ma questi prodotti sono buoni anche per chi li produce? Casi come quello dell’OP Principe di Puglia portano a chiedersi se e quanto, grazie a sussidi e a prezzi più corretti, il biologico possa contribuire a migliorare le condizioni dei lavoratori agricoli e a cambiare, anche a livello generazionale, l’agricoltura italiana.
La definizione di biologico
Per provare a rispondere, è bene partire dalle definizioni. Il biologico, spiega Aiab, è «un metodo di coltivazione e di allevamento che ammette solo l’impiego di sostanze naturali, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica». Le aziende biologiche, quindi, sono tenute, come tutte le altre aziende, a rispettare le norme sul lavoro ma le certificazioni che devono ottenere non riguardano i lavoratori: riguardano i prodotti e il modo in cui vengono ottenuti. Questo non vuol dire, però, che il mondo del bio non mostri attenzione anche per gli aspetti più sociali dell’agricoltura. Secondo Ifoam, una delle più antiche organizzazioni internazionali ad occuparsi della materia, «coloro che sono coinvolti nell’agricoltura biologica dovrebbero condurre le relazioni umane in modo da assicurare l’equità a tutti i livelli e a tutte le parti – agricoltori, lavoratori, trasformatori, distributori, commercianti e consumatori».
È forse ispirandosi a questo principio che, nel 2020, Federbio ha annunciato che si sarebbe costituita parte civile in un altro procedimento pugliese riguardante produzioni agricole biologiche. «FederBio – commentò allora la presidente Maria Grazia Mammuccini – collabora da sempre con la magistratura e le forze dell’ordine per tutelare le vere produzioni biologiche e a difesa del lavoro etico e sostenibile, equamente remunerato. Queste pratiche criminali vanno combattute ed eliminate per difendere la maggioranza di imprese oneste del biologico italiano». Il caso in questione era quello di Settimio Passalacqua.
Nel luglio 2020, l’imprenditore di Apricena, sempre in provincia di Foggia, è stato accusato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. All’epoca, le aziende riconducibili alla sua famiglia impiegavano centinaia di braccianti per un volume di affari di alcuni milioni di euro, in gran parte legato a prodotti biologici. Ora si attende il rinvio a giudizio, ma, secondo l’accusa, alcune delle aziende avrebbero pagato fino a 3,33 euro l’ora i lavoratori, in gran parte stranieri e residenti nei ghetti della zona. Il più noto è quello di Rignano Garganico, un insediamento irregolare in piena campagna, tra gli ulivi, composto da casali occupati, baracche, roulotte e altri ripari di fortuna. «Solitamente ci vivono circa 800 persone, ma durante l’estate può arrivare ad ospitarne anche il doppio. Sono lavoratori dell’Africa subsahariana», spiega Khady Sene, operatrice della Caritas di Foggia.
Voci dal ghetto di Rignano Garganico. Anche tra i lavoratori del bio
Joseph, nel ghetto, ci ha abitato per un anno. Poi, ha trovato lavoro in un’azienda agricola biologica del territorio, che gli garantiva anche un posto letto. «Eravamo in otto in stanza e pagavo 185 euro al mese. Mi sono dovuto pagare anche i guanti, le calze, l’acqua», racconta a IrpiMedia. «Prendevo tre euro all’ora. Facevo otto ore, nove, a volte undici, quando c’era bisogno, sia nei campi sia in magazzino», continua Joseph. Secondo le sue descrizioni, l’azienda per cui lavorava arrivava ad occupare oltre 200 persone e produce tuttora verdure e ortaggi biologici, in larga parte per l’esportazione. «Ho capito piano piano che qualcosa non andava. Ho chiesto spiegazioni al capo italiano, ma mi ha detto che queste erano le condizioni. Così, dopo un anno e mezzo, me ne sono andato», ricorda oggi Joseph. Il suo non era lavoro nero, ma grigio, una forma di sfruttamento tanto diffusa quanto difficile da scoprire. E, come mostrano i casi fin qui raccontati, che tocca anche l’agricoltura biologica.
«Vertenze e segnalazioni le abbiamo anche nel biologico. Non si può dire che il settore sia esente dalle tentazioni di sfruttamento e caporalato», ragiona Jean René Bilongo, sindacalista e responsabile osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Per Giulia Laganà, analista dell’Open Society European Policy Institute, «l’agricoltura biologica ha gli stessi problemi di quella convenzionale: la grande distribuzione e gli intermediari causano sfruttamento con i loro prezzi bassi».
Un mercato in crescita con le sovvenzioni Ue
Dal 2010 al 2020, il numero degli operatori è aumentato del 71% e le superfici coltivate dell’88%. Anche i consumi sono cresciuti: il valore del mercato interno è salito del 104% negli ultimi cinque anni arrivando a 3,6 miliardi, pari al 4% del comparto agroalimentare. Con la strategia Farm to fork, poi, la Commissione europea ha proposto di raggiungere il 25% di terreni Ue coltivati a biologico entro il 2030, un obiettivo che non è vincolante, ma potrebbe stimolare ulteriormente la crescita del comparto. Per Ifoam, l’Italia ha le potenzialità per arrivare al 41% di superfici bio. «Il settore biologico – riprende Bilongo – è in grande ascesa: le vertenze sindacali sono la spia di un malessere che si annida anche lì. Il caso StraBerry è eloquente».
StraBerry è una start up agricola lombarda che produce frutti di bosco biologici alle porte di Milano sui terreni della Società Agricola Cascina Pirola Srl, biologica dal 2017. Ad agosto 2021, il fondatore di StraBerry Guglielmo Stagno d’Alcontres è stato rinviato a giudizio. Stando all’imputazione, l’imprenditore, sua madre e altri due imputati avrebbero sottoposto dal 2018 in poi 73 lavoratori stranieri a «condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno», minacciandoli, insultandoli e pagandoli 4 euro all’ora. I braccianti della start up, che puntava molto sulla sostenibilità del suo marchio e vendeva i suoi prodotti bio con degli Apecar in centro a Milano, erano prevalentemente richiedenti asilo, provenienti dall’Africa subsahariana e ospiti dei centri di accoglienza del territorio. Abdulai Mohamed Kargbo è uno di loro. Agli inquirenti ha spiegato che «Capo grasso [Guglielmo Stagno d’Alcontres, ndr] urlava sempre, tu non hai finito tuo lavoro domani non c’è lavoro per te, tu non hai fatto 25 cassette domani non c’è lavoro per te, lui urlava sempre, era sempre arrabbiato e diceva sempre parolacce».
Esempi come questo sono la conferma che i casi di sfruttamento in agricoltura biologica si contano in molte parti d’Italia. Anche in Piemonte. Al tribunale di Cuneo, a febbraio, dovrebbe arrivare a sentenza il primo processo per caporalato nel distretto della frutta di Saluzzo. Tra gli imputati, Diego Gastaldi e sua madre Marilena Bongiasca. La famiglia rappresenta una realtà imprenditoriale storica e solida del territorio. Anche le loro aziende si sono convertite al biologico negli ultimi anni e, durante il procedimento, Diego Gastaldi ha sostenuto che la transizione al biologico è stata una delle difficoltà per le quali i braccianti venivano pagati in parte fuori busta, in contanti, in nero. Secondo l’accusa, infatti, lui e la madre avrebbero corrisposto ad alcuni lavoratori africani «retribuzioni in modo palesemente difforme dalla legge e dai contratti collettivi […] ed in modo comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato», con «una paga minima di 5 euro all’ora» (contro i 7,47 decisi dalla contrattazione collettiva) e senza «il versamento di almeno due terzi dei contributi previdenziali».
Bio conviene, a prescindere dall’etica
Il punto è cercare di capire se questi casi sono episodi isolati o, invece, spie di una più ampia e preoccupante tendenza. Secondo Riccardo Bocci bisogna «vedere se la crescita di questo settore tiene il passo delle sue ambizioni etiche, sociali e politiche». Bocci è direttore tecnico di Rete semi rurali e ha una lunga esperienza nel campo. «Oggi – prosegue – l’aumento delle vendite dei prodotti bio legato alla grande distribuzione organizzata e, soprattutto, ai discount pone dei dubbi sull’eticità, per i diritti dei lavoratori ma anche per tutto il sistema di consumo e produzione». Anche Lucio Cavazzoni è un esperto di biologico ed è stato presidente di Alce Nero, uno dei maggiori marchi italiani del settore. A suo parere, «casi di grandi e medie aziende agricole che passano al biologico perché hanno dei vantaggi» esistono e «lo sfruttamento è sfruttamento, anche nel biologico». «Credo però – continua – che la grande massa dei produttori biologici sia lontana da queste pratiche».
L’ong Terra! ha lavorato con chi non è solo lontano da queste pratiche, ma le contrasta attivamente. Il progetto IN CAMPO! senza caporale ha garantito a una quindicina di braccianti provenienti dall’Africa subsahariana formazione, sostegno nel lasciare i ghetti e inserimento regolare in alcune aziende del foggiano. Tra queste vi è Aquamela bio, di Cerignola, comune di 60 mila abitanti con una delle superfici agricole più estese d’Italia.
«Il bio è ossigeno», dice Vito Merra, mentre raccoglie l’uva insieme a una squadra di braccianti, in parte italiani in parte stranieri. Aquamela bio è sua e di suo fratello Roberto: sono 23 ettari, sui quali coltivano anche cereali e olive, usate per produrre olio in proprio. I lavoratori sono tutti in regola: Aquamela bio paga loro tutte le giornate che effettivamente lavorano e consente loro di raggiungere così il numero minimo di giorni necessari per la disoccupazione. «I prodotti biologici hanno più valore e ci garantiscono margini più alti. E poi anche gli incentivi aiutano», spiega Merra.
L’esperienza di Terra! è positiva, ma piccola. Riguarda alcune decine di lavoratori e poche imprese, a fronte di oltre 70 mila aziende agricole biologiche attive in Italia e circa 180 mila braccianti vulnerabili stimati dalla Flai-Cgil in tutto il Paese. È significativa, però, perché mette in evidenza quale potrebbe essere il contributo di questo tipo di agricoltura nella lotta allo sfruttamento.
Il biologico, poiché è considerato positivo per l’ambiente e la salute, è sostenuto da incentivi pubblici. L’Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, è lo stato europeo che ha ottenuto più fondi per il biologico dalla Politica agricola comune dell’Ue. I prodotti bio, inoltre, vengono venduti a prezzi più alti rispetto a quelli convenzionali. Secondo i dati Ismea, le arance biologiche vengono pagate ai produttori, in media, il 24% in più di quelle convenzionali, i pomodori il 53%, le mele il 103%. Per contro, non utilizzando la chimica, il biologico può avere una produzione meno ricca del convenzionale e ha dei costi aggiuntivi come quelli di certificazione, pesanti soprattutto per le piccole aziende. Nel complesso, però, il gioco può valere la candela. «Il biologico – riprende Merra – dà ad Aquamela bio la capacità economica di rispettare i diritti dei lavoratori».
Il biologico, quindi, può aiutare, ma da solo non è sufficiente a cambiare la situazione. Secondo operatori ed esperti del settore, servono più controlli da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il cui organico va potenziato, e criteri più rigidi per le certificazioni biologiche. Inoltre, sarebbe importante ragionare su quanto le leggi italiane in materia di immigrazione creino un serbatoio di lavoratori stranieri senza alternative: i cittadini extracomunitari la cui presenza in Italia è spesso legata al contratto di lavoro. «Ho sempre accettato di essere sfruttato per il semplice motivo che altrimenti non avrei ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno», ha spiegato con disarmante semplicità un bracciante africano nel corso di un’u
La “condizionalità sociale” dei fondi europei
Anche i fondi europei giocano un ruolo importante: per molte aziende agricole, biologiche e non, sono vitali e quindi la loro erogazione andrebbe collegata al rispetto dei diritti dei lavoratori, come previsto dalla nuova Politica agricola comune (Pac) Ue. «Francamente non vedo differenza tra agricoltura convenzionale e biologica: lo sfruttamento dei lavoratori rappresenta una piaga che non a caso abbiamo deciso di contrastare con l’inserimento della condizionalità sociale nella riforma della Pac. Questo strumento dovrà garantire che i fondi pubblici non vadano più nelle tasche di chi non rispetta i diritti», commenta Paolo De Castro, ex ministro dell’Agricoltura, oggi eurodeputato del Partito Democratico – Gruppo S&D.
La nuova Politica agricola comune, che il gruppo S&D ha votato, prevede una condizionalità sociale volontaria dall’anno prossimo e obbligatoria dal 2025. Per Daniel Freund, eurodeputato tedesco per i Verdi, che invece si sono opposti alla riforma della Pac, non è sufficiente. «Perché ci vuole così tanto tempo solo per rispettare le norme sociali e sanitarie di base in aziende agricole che a volte sono davvero spaventose? Le norme [per tutelare i lavoratori, ndr] esistono già. Perché non vengono applicate subito?», si chiede Freund.
Secondo i legislatori, il periodo di transizione è necessario per consentire agli stati Ue di organizzarsi, dal momento che le modalità con cui i fondi verranno erogati (o negati) saranno decise a livello nazionale. Per Enrico Somaglia, vice segretario generale di Effat, la Federazione europea dei sindacati dei settori alimentari, agricoltura e turismo, «la condizionalità sociale va applicata il prima possibile e in modo corretto. Il meccanismo si basa su controlli ed ispezioni, che oggi sono troppo deboli e troppo poco frequenti». «Come sindacati – ragiona – sosteniamo la strategia Farm to fork e la crescita del bio per ragioni ambientali, ma la transizione ecologica deve essere un’occasione per migliorare le condizioni di lavoro e non una minaccia».
C’è poi la questione generazionale. Al tribunale di Cuneo, durante il dibattimento, è emerso che Diego Gastaldi era in disaccordo con il padre Graziano in merito al tipo di agricoltura che le aziende famigliari avrebbero dovuto praticare. Il genitore avrebbe voluto continuare col metodo convenzionale che aveva sempre usato. Il figlio, nato nel 1993, spingeva invece per passare al biologico, come effettivamente poi avvenuto. Questa differenza di vedute è paradigmatica in un momento di passaggio per l’agricoltura italiana. Oltre il 60% dei capi delle aziende agricole italiane ha più di 55 anni, il 38% addirittura più di sessantacinque. In un settore composto in gran parte da aziende famigliari, la generazione dei figli è spesso più istruita di quella dei genitori e si ritrova a valutare con maggiore interesse il biologico. Per convinzione o per opportunità.
Un sindacalista che preferisce rimanere anonimo spiega di aver parlato con imprenditori interessati a regolarizzare la posizione dei loro braccianti, anche in seguito alle azioni anti-caporalato di forze di polizia e magistratura. «Si interessano al bio perché pensano che possa essere un modo per mettere in regola i lavoratori mantenendo l’azienda sostenibile dal punto di vista economico», dice il sindacalista. Per il momento, si tratta di casi isolati. Ma in futuro, con l’avanzare del ricambio generazionale, l’entrata in vigore della condizionalità sociale, una maggiore repressione e una crescente domanda di prodotti biologici, potrebbero aumentare.
Intanto, anche ad Aquamela bio, a Cerignola, le generazioni si alternano. Vito Merra, oggi, coltiva insieme al fratello Roberto sulla terra che il nonno ottenne con la seconda riforma agraria nel dopoguerra. «La sua generazione era battagliera, era la generazione di Di Vittorio», dice, riferendosi allo storico segretario della Cgil nato proprio a Cerignola. Anche il padre dei fratelli Merra, che ora è in pensione, ha lavorato come agricoltore e presto, tra ulivi e viti, arriverà un’altra generazione, quella del figlio di Roberto. «Sta facendo agronomia all’università», dice il padre, con orgoglio.
AGGIORNAMENTO 11 APRILE 2022: Il giudice Alice Di Maio del Tribunale di Cuneo ha condannato in primo grado a 5 anni di reclusione Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca nell’ambito del primo procedimento per caporalato in provincia di Cuneo. Il padre di Diego Gastaldi, Graziano Gastaldi, è stato invece assolto.