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  • #TuNur, il modello di esportazione di energia verde dal Nord Africa all’Ue

    Un’impresa britannico-tunisina sta progettando una gigantesca centrale solare a nel deserto della Tunisia, un impianto che richiede un enorme consumo d’acqua. L’energia verde però andrà solo all’Europa.

    Produrre energia pulita a basso costo tra le soleggiate dune del deserto del Sahara è stato per decenni il sogno di diverse aziende private, alla costante ricerca di nuove fonti energetiche. “Il Sahara può generare abbastanza energia solare da coprire l’intero fabbisogno del globo” è un mantra ripetuto più o meno frequentemente, da aziende e lobby, a seconda della congiuntura economica o politica.

    Tra costi esorbitanti e accordi internazionali irrealizzabili, i progetti di esportazione di energia solare dal Nord Africa all’Europa sono però stati messi da parte per anni. Tornano di attualità oggi, nel contesto di crisi energetica legata alla guerra in Ucraina. Con un inverno freddo alle porte, senza il gas russo, gli Stati europei puntano gli occhi sulle contese risorse dei vicini meridionali. Con l’impennata dei prezzi dei combustibili fossili, la transizione energetica non è più semplicemente urgente in funzione della crisi climatica, ma anche economicamente conveniente, quindi finanziariamente interessante.

    A maggio 2022 l’Unione europea ha annunciato di voler aumentare gli obiettivi di energia prodotta da fonti rinnovabili fino al 40% entro il 2030, dotandosi di 600 GWh supplementari di energia solare. Ma il vecchio continente non ha né lo spazio né le risorse per produrre internamente la totalità del proprio fabbisogno di energia verde. Ed ecco che gli annunci di mega progetti di centrali solari in Nord Africa, così come quelli di cavi sottomarini nel mediterraneo, non fanno che moltiplicarsi.

    Il miracolo del sole africano torna a suggestionare un’Europa che ancora fatica a liberarsi del proprio retaggio coloniale quando guarda alla riva sud del Mediterraneo. Buona parte delle compagnie che promettono energia pulita importata continuano a raccontare una favola distorta e romanticizzata dei deserti: terre vuote, inutili, da colonizzare.

    Una narrazione contestata da chi, invece, quel deserto lo abita: «Non ci opponiamo alle rinnovabili, ma chiediamo una transizione energetica equa, che prenda in considerazione le rivendicazioni sociali e ambientali locali e non riproduca le dinamiche dell’industria fossile», ripetono le comunità che osservano l’installazione dei pannelli solari europei dalla finestra di casa.
    La transizione europea si farà sulle spalle del Nord Africa?

    Lungo il confine fra Tunisa e Algeria, a 120 chilometri dalla città più vicina, Kebilli, l’unica strada che porta a Rjim Maatoug è percorsa avanti e indietro dai camion cisterna che vanno ai giacimenti di petrolio e gas del Sud tunisino. Cittadina in mezzo al deserto negli anni ‘80 monitorata dai soldati del Ministero della difesa tunisino, Rjim Maatoug è stata costruita ad hoc con l’aiuto di fondi europei, e in particolar modo dell’Agenzia Italiana per lo Sviluppo e la cooperazione (AICS).

    Un tempo abitato da comunità nomadi, il triangolo desertico che delimita il confine tunisino con l’Algeria da un lato, la Libia dall’altro, è oggi un’immensa zona militare accessibile ai non residenti solo con un permesso del Ministero della difesa. Questi terreni collettivi sono da sempre la principale fonte di sostentamento delle comunità del deserto, che un tempo si dedicavano all’allevamento. Occupate durante la colonizzazione francese, queste terre sono state recuperate dallo Stato dopo l’indipendenza nel 1957, poi concesse a compagnie private straniere, principalmente multinazionali del petrolio. Prima nella lista: l’italiana #Eni.

    In questa zona, dove la presenza statale è vissuta come una colonizzazione interna, villaggi identici delimitati da palmeti si sussegono per 25 chilometri. «Abbiamo costruito questa oasi con l’obiettivo di sedentarizzare le comunità nomadi al confine», spiega uno dei militari presenti per le strade di Rjim Maatoug. Dietro all’obiettivo ufficiale del progetto – “frenare l’avanzata del deserto piantando palmeti” – si nasconde invece un’operazione di securizzazione di un’area strategica, che ha radicalmente modificato lo stile di vita delle comunità locali, privandole dei loro mezzi di sussistenza. Un tempo vivevano nel e del deserto, oggi lavorano in un’immensa monocultura di datteri.

    È di fronte alla distesa di palme di Rjim Maatoug, piantate in centinaia di file parallele, che la società tunisino-britannica TuNur vuole costruire la sua mega centrale solare. L’obiettivo: «Fornire elettricità pulita a basso costo a 2 milioni di case europee», annuncia la società sul suo sito internet.

    Per la sua vicinanza all’Italia (e quindi all’Europa), la Tunisia è il focus principale delle aziende che puntano a produrre energia solare nel deserto. In Tunisia, però, solo il 3% dell’elettricità per ora è prodotta a partire da fonti rinnovabili. Nell’attuale contesto di grave crisi finanziaria, il Paese fatica a portare avanti i propri ambiziosi obiettivi climatici (35% entro il 2030). Ma l’opportunità di vendere energia all’Ue sembra prendersi di prepotenza la priorità sulle necessità locali, anche grazie a massicce operazioni di lobbying.

    TuNur si ispira apertamente alla Desertec Industrial Initiative (Dii), un progetto regionale abbandonato nel 2012, portato avanti all’epoca da alcuni tra gli stessi azionisti che oggi credono in TuNur. Desertec mirava all’esportazione di energia solare prodotta nel Sahara attaverso una rete di centrali sparse tra il Nord Africa e il Medio Oriente per garantire all’Europa il 15% del proprio fabbisogno di elettricità entro il 2050. Se neanche il progetto pilota è mai stato realizzato, i vertici della compagnia proiettavano i propri sogni su due deserti in particolare: quello tunisino e quello marocchino.

    Oggi il progetto è stato relativamente ridimensionato. La centrale tunisina TuNur prevede di produrre 4,5 GWh di elettricità – il fabbisogno di circa cinque milioni di case europee – da esportare verso Italia, Francia e Malta tramite cavi sottomarini.

    Il progetto è sostenuto da una manciata di investitori, ma i dipendenti dell’azienda sono solo quattro, conferma il rapporto del 2022 di TuNur consultato da IrpiMedia. Tra questi, c’è anche il direttore: il volto dell’alta finanza londinese Kevin Sara, fondatore di diversi fondi di investimenti nel Regno Unito, ex membro del gigante finanziario giapponese Numura Holdings e della cinese Astel Capital. Affiancato dal direttore esecutivo, l’inglese Daniel Rich, Sara è anche amministratore delegato dello sviluppatore di centrali solari Nur Energie, società che, insieme al gruppo maltese Zammit, possiede TuNur ltd. Il gruppo Zammit, che raccoglie imprese di navigazione, bunkering, e oil&gas, è apparso nel 2017 nell’inchiesta Paradise Papers sugli investimenti offshore. Il braccio tunisino del comitato dirigente, invece, è un ex ingegnere petrolifero che ha lavorato per anni per le multinazionali del fossile Total, Shell, Noble Energy e Lundin, Cherif Ben Khelifa.

    Malgrado le numerose richieste di intervista inoltrate alla compagnia, TuNur non ha mai risposto alle domande di IrpiMedia.

    TuNur opera in Tunisia dalla fine del 2011, ed ha più volte annunciato l’imminente costruzione della mega centrale. Finora, però, neanche un pannello è stato installato a Rjim Maatoug, così che numerosi imprenditori del settore hanno finito per considerare il progetto “irrealistico”, anche a causa dei costi estremamente elevati rispetto al capitale di una compagnia apparentemente piccola. Eppure, ad agosto 2022 l’amministratore delegato di TuNur annunciava all’agenzia Reuters «l’intenzione di investire i primi 1,5 miliardi di euro per l’installazione della prima centrale». Non avendo potuto parlare con l’azienda resta un mistero da dove venga, e se ci sia davvero, un capitale così importante pronto per essere investito.

    Ma che la società sia ancora alla ricerca del capitale necessario, lo spiega lo stesso direttore esecutivo Daniel Rich in un’intervista rilasciata a The Africa Report nel 2022, affermando che TuNur ha incaricato la società di consulenza britannica Lion’s Head Global Partners di cercare investimenti. Poco dopo queste dichiarazioni, Rich ha ottenuto un incontro con il Ministero dell’energia. Anticipando i dubbi delle autorità, ha assicurato «la volontà del gruppo di espandere le proprie attività in Tunisia grazie ai nuovi programmi governativi». Secondo i documenti del registro di commercio tunisino, la sede tunisina della società TuNur – registrata come generica attività di “ricerca e sviluppo” – possiede un capitale di appena 30.000 dinari (10.000 euro). Una cifra infima rispetto a quelle necessarie ad eseguire il progetto.

    Secondo Ali Kanzari, il consulente principale di TuNur in Tunisia, nonché presidente della Camera sindacale tunisina del fotovoltaico (CSPT), il progetto si farà: «Il commercio Tunisia-Europa non può fermarsi ai datteri e all’olio d’oliva», racconta nel suo ufficio di Tunisi, seduto accanto ad una vecchia cartina del progetto. Ai suoi occhi, la causa del ritardo è soprattutto «la mancanza di volontà politica». «La Tunisia è al centro del Mediterraneo, siamo in grado di soddisfare il crescente fabbisogno europeo di energia verde, ma guardiamo al nostro deserto e non lo sfruttiamo», conclude.
    Ouarzazate, Marocco: un precedente

    La Tunisia non è il primo Paese nordafricano sui cui le compagnie private hanno puntato per sfruttare il “potenziale solare” del deserto. Il progetto di TuNur è ricalcato su quello di una mega centrale solare marocchina fortemente voluta da re Mohamed VI, diventata simbolo della transizione del Paese della regione che produce più elettricità a partire da fonti rinnovabili (19% nel 2019).

    Nel febbraio 2016, infatti, il re in persona ha inaugurato la più grande centrale termodinamica del mondo, Noor (suddivisa in più parti, Noor I, II, III e IV). Acclamato dai media, il progetto titanico Noor, molto simile a TuNur, non produce per l’esportazione, ma per il mercato interno ed ha una capacità di 580 MWh, solo un ottavo del progetto tunisino TuNur. Il sito è attualmente gestito dal gruppo saudita ACWA Power insieme all’Agenzia marocchina per l’energia sostenibile (MASEN). Secondo quanto si legge sul sito della società, anche Nur Energie, azionista di TuNur e di Desertec, avrebbe partecipato alla gara d’appalto.

    Nel paesaggio desertico roccioso del Marocco sud-orientale, a pochi chilometri dalla città di Ouarzazate, ai piedi della catena dell’Alto Atlante, centinaia di pannelli si scorgono a distanza tra la foschia. Sono disposti in cerchio intorno a una torre solare, e si estendono su una superficie di 3.000 ettari. Si tratta di specchi semiparabolici che ruotano automaticamente durante il giorno per riflettere i raggi solari su un tubo sottile posto al centro, da dove un liquido viene riscaldato, poi raccolto per alimentare una turbina che produce elettricità. Così funziona la tecnologia CSP (Concentrated Solar Power) riproposta anche per il progetto tunisino TuNur. «Con il CSP possiamo immagazzinare energia per una media di cinque ore, il che è molto più redditizio rispetto all’uso delle batterie», afferma Ali Kanzari, consulente principale della centrale TuNur, che vuole utilizzare la stessa tecnologia.

    Diversi grandi gruppi tedeschi sono stati coinvolti nella costruzione del complesso marocchino Noor. Ad esempio, il gigante dell’elettronica Siemens, che ha prodotto le turbine CSP. Secondo il media indipendente marocchino Telquel, i finanziatori del progetto – la Banca Mondiale e la banca tedesca per lo sviluppo Kfw – avrebbero perorato l’adozione di questa tecnologia, difendendo gli interessi dei produttori tedeschi, mentre gli esperti suggerivano – e suggeriscono tutt’ora – una maggiore cautela. La causa: l’elevato consumo di acqua di questo tipo di tecnologia durante la fase di raffreddamento.

    La valutazione dell’impatto ambientale effettuata prima della costruzione del progetto, consultata da IrpiMedia, prevede un consumo idrico annuale di sei milioni di metri cubi provenenti dalla diga di El Mansour Eddahbi, situata a pochi chilometri a est di Ouarzazate, che attualmente dispone solo del 12% della sua capacità totale. «Tuttavia, è impossibile ottenere statistiche ufficiali sul consumo effettivo, che sembra molto maggiore», osserva la ricercatrice Karen Rignall, antropologa dell’Università del Kentucky e specialista della transizione energetica in zone rurali, che ha lavorato a lungo sulla centrale solare di Noor.

    Il Marocco attraversa una situazione di «stress idrico strutturale», conferma un rapporto della Banca Mondiale, e la regione di Ouarzazate è proprio una delle più secche del Paese. Nella valle del Dadès, accanto alla centrale Noor, dove scorre uno degli affluenti della diga, gli agricoltori non hanno dubbi e chiedono un’altra transizione rinnovabile, che apporti riscontri positivi anche alle comunità della zona: «La nostra valle è sull’orlo del collasso, non possiamo stoccare l’acqua perché questa viene deviata verso la diga per le esigenze della centrale solare. Per noi Noor è tutt’altro che sostenibile», afferma Yousef il proprietario di una cooperativa agricola, mentre cammina tra le palme secche di un’oasi ormai inesistente, nella cittadina di Suq el-Khamis.

    In questa valle, conosciuta per le coltivazioni di una varietà locale di rosa, molti villaggi portano il nome del oued – il fiume, in arabo – che un tempo li attraversava. Oggi i ponti attraversano pietraie asciutte, e dell’acqua non c’è più traccia. I roseti sono secchi. A metà ottobre, gli abitanti della zona di Zagora, nella parallela ed egualmente secca valle di Draa, sono scesi in piazza per protestare contro quello che considerano water grabbing di Stato, chiedendo alle autorità una migliore gestione della risorsa. «In tanti stanno abbandonando queste aree interne, non riescono più a coltivare», spiega il contadino.

    Nel silenzio dei media locali, le manifestazioni e i sit-in nel Sud-Est del Marocco non fanno che moltiplicarsi. I movimenti locali puntano il dito contro la centrale solare e le vicine miniere di cobalto e argento, che risucchiano acqua per estrare i metalli rari. «In entrambi i casi si tratta di estrattivismo. Sono progetti che ci sono stati imposti dall’alto», spiega in un caffè di Ouarzazate l’attivista Jamal Saddoq, dell’associazione Attac Marocco, una delle poche ad occupasi di politiche estrattiviste e autoritarismo nel Paese. «È paradossale che un progetto che è stato proposto agli abitanti come soluzione alla crisi climatica in parte finisca per esserne responsabile a causa di tecnologie obsolete e dimensioni eccessive», riassume la ricercatrice Karen Rignall.

    È una centrale molto simile, ma di dimensioni nove volte maggiori, quella che TuNur intende installare nel deserto tunisino, dove l’agricoltura subisce già le conseguenze della siccità, di un’eccessiva salinizzazione dell’acqua a causa di infiltrazioni nella falda acquifera e di una malagestione delle risorse idriche. Secondo i dati dell’associazione Nakhla, che rappresenta gli agricoltori delle oasi nella regione di Kebili (dove si trova Rjim Maatoug), incontrata da IrpiMedia, viene pompato il 209% in più delle risorse idriche disponibili annualmente.

    La monetizzazione del deserto

    Eppure, ancora prima della pubblicazione della gara d’appalto del Ministero dell’energia per una concessione per l’esportazione, prerequisito per qualsiasi progetto di energia rinnovabile in Tunisia, e ancor prima di qualsiasi studio di impatto sulle risorse idriche, nel 2018 TuNur ha «ottenuto un accordo di pre-locazione per un terreno di 45.000 ettari tra le città di Rjim Maatoug e El Faouar», riferisce Ali Kanzari, senior advisor del progetto, documenti alla mano.

    Per il ricercatore in politiche agricole originario del Sud tunisino Aymen Amayed, l’idea dell’”inutilità” di queste aree è frutto di decenni di politiche fondarie portate avanti dall’epoca della colonizzazione francese. Le terre demaniali del Sud tunisino sono di proprietà dello Stato. Come in Marocco e in altri Paesi nord africani, le comunità locali ne rivendicano il possesso, ma queste vengono cedute alle compagnie private. «Queste terre sono la risorsa di sostentamento delle comunità di queste regioni, – spiega Aymen Amayed – Lo Stato ne ha fatto delle aree abbandonate, riservate a progetti futuri, economicamente più redditizi e ad alta intensità di capitale, creando un deserto sociale».

    TuNur promette di creare più di 20.000 posti di lavoro diretti e indiretti in una regione in cui il numero di aspiranti migranti verso l’Europa è in continua crescita. Ma nel caso di questi mega-progetti, «la maggior parte di questi posti di lavoro sono necessari solo per la fase di costruzione e di avvio dei progetti», sottolinea un recente rapporto dell’Osservatorio tunisino dell’economia. A confermarlo, è la voce degli abitanti della zona di Ouarzazate, in Marocco, che raccontano di essersi aspettati, senza successo, «una maggiore redistribuzione degli introiti, un posto di lavoro o almeno una riduzione delle bollette».

    La caratteristica di questi mega progetti è proprio la necessità di mobilitare fin dall’inizio una grande quantità di capitale. Tuttavia, «la maggior parte degli attori pubblici nei Paesi a Sud del Mediterraneo, fortemente indebitati e dipendenti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali, non possono permettersi investimenti così cospicui, così se ne fanno carico gli attori privati. In questo modo i profitti restano al privato, mentre i costi sono pubblici», spiega il ricercatore Benjamin Schütze, ricercatore in relazioni internazionali presso l’Università di Friburgo (Germania) che lavora sul rapporto tra autoritarismo ed estrattivismo green.

    Questa dinamica è illustrata proprio dalla mega centrale solare marocchina Noor. Fin dalla sua costruzione, l’impianto marocchino è risultato economicamente insostenibile: l’Agenzia marocchina per l’energia sostenibile (MASEN) ha garantito alla società privata saudita che lo gestisce un prezzo di vendita più elevato del costo medio di produzione dell’energia nel Paese. Un divario che costa allo Stato marocchino 800 milioni di dirham all’anno (circa 75 milioni di euro), anche a causa della scelta di una tecnologia costosa e obsoleta come il CSP, ormai sostituito dal fotovoltaico. A sostenerlo è il rapporto sulla transizione energetica del Consiglio economico, sociale e ambientale (CESE), un’istituzione consultiva indipendente marocchina. Le critiche emesse dal CESE sul piano solare marocchino sono costate il posto al direttore e a diversi esponenti dell’agenzia MASEN, anche se vicini al re.

    Per questi motivi, sostiene il ricercatore tedesco, i mega-progetti che richiedono una maggiore centralizzazione della produzione sono più facilmente realizzabili in contesti autoritari. In Tunisia, se per un certo periodo proprio il difficile accesso a terreni contesi ha rappresentato un ostacolo, la legislazione è cambiata di recente: il decreto legge n. 2022-65 del 19 ottobre 2022, emesso in un Paese che dal 25 luglio 2021 è senza parlamento, legalizza l’esproprio di qualsiasi terreno nel Paese per la realizzazione di un progetto di “pubblica utilità”. Una porta aperta per le compagnie straniere, non solo nell’ambito energetico.

    Lobbying sulle due rive

    Ma perché la porta si spalanchi, ai privati serve soprattutto una legislazione adatta. Anche se per ora la mega centrale TuNur esiste solo su carta, la società sembra esser stata riattivata nel 2017, pur rimanendo in attesa di una concessione per l’esportazione da parte del Ministero dell’energia tunisino.

    Se c’è però un settore nel quale la compagnia sembra essere andata a passo spedito negli ultimi anni, questo è proprio quello del lobbying. A Tunisi come a Bruxelles. Dal 2020, l’azienda viene inserita nel Registro della trasparenza della Commissione europea, che elenca le compagnie che tentano di influenzare i processi decisionali dell’Ue. Secondo il registro, TuNur è interessata alla legislazione sulle politiche energetiche e di vicinato nel Mediterraneo, al Green Deal europeo e alla Rete europea dei gestori dei sistemi di trasmissione di energia elettrica, un’associazione che rappresenta circa quaranta gestori di diversi Paesi. La sede italiana della compagnia TuNur è stata recentemente inclusa nel piano decennale di sviluppo della rete elettrica Ue dalla Rete europea.

    «Abbiamo bisogno che lo Stato ci dia man forte così da poter sviluppare una roadmap insieme ai Paesi europei, in modo che l’energia pulita tunisina possa risultare competitiva sul mercato», spiega il consulente Ali Kanzari consultando un dossier di centinaia di pagine. E conferma: TuNur ha già preso contatti con due società di distribuzione elettrica, in Italia e in Francia. Anche in Tunisia le operazioni di lobbying della società, e più in generale dei gruppi privati presenti nel Paese, sono cosa nota. «Questo progetto ha costituito una potente lobby con l’obiettivo di ottenere l’inclusione di disposizioni sull’esportazione nella legislazione sulle energie rinnovabili», conferma un rapporto sull’energia dell’Observatoire Tunisien de l’Economie, che analizza le ultime riforme legislatve e i casi di Desertec e TuNur.

    Approvata nel 2015, la legge n. 2015-12 sulle energie rinnovabili ha effettivamente aperto la strada ai progetti di esportazione di energia verde. A tal fine, ha quindi autorizzato la liberalizzazione del mercato dell’elettricità in Tunisia, fino ad allora monopolio della Socetà tunisina dell’Elettricità e del Gas (STEG), di proprietà statale, fortemente indebitata. La legge favorisce il ricorso a partenariati pubblico-privato, i cosidetti PPP.

    «Alcune raccomandazioni dell’Agenzia tedesca per la cooperazione internazionale allo sviluppo (GIZ) e dell’Iniziativa industriale Desertec (Dii) hanno anticipato alcune delle misure contenute nella legge del 2015», sottolinea ancora il rapporto dell’Osservatorio economico tunisino. Emendata nel 2019, la legge sulle rinnovabili è stata fortemente contestata da un gruppo di sindacalisti della società pubblica STEG, che chiedono che il prezzo dell’elettricità rimanga garantito dallo Stato.

    Dopo aver chiesto formalmente che la non-privatizzazione del settore nel 2018, due anni più tardi, in piena pandemia, i sindacalisti della STEG hanno bloccato la connessione alla rete della prima centrale costruita nel Paese, a Tataouine, che avrebbe quindi aperto il mercato ai privati. Cofinanziata dall’Agenzia francese per lo sviluppo (AFD), la centrale fotovoltaica da 10 MW appartiene alla società SEREE, una joint venture tra la compagnia petrolifera italiana Eni e la compagnia petrolifera tunisina ETAP.

    «Chiediamo allo Stato di fare un passo indietro su questa legge, che è stata ratificata sotto la pressione delle multinazionali. Non siamo contrari alle energie rinnovabili, ma chiediamo che rimangano a disposizione dei tunisini e che l’elettricità resti un bene pubblico», spiega in forma anonima per timore di ritorsioni uno dei sindacalisti che hanno partecipato al blocco, incontrato da IrpiMedia. Tre anni dopo la fine dei lavori e un lungo braccio di ferro tra governo e sindacato, la centrale solare di Tataouine è infine stata collegata alla rete elettrica all’inizio di novembre 2022.

    «Sbloccare urgentemente il problema della connessione delle centrali elettriche rinnovabili» è del resto una delle prime raccomandazioni citate in un rapporto interno, consultato da IrpiMedia, che la Banca Mondiale ha inviato al Ministero dell’economia tunisino alla fine del 2021. Anche l’FMI, con il quale la Tunisia ha concluso ad ottobre un accordo tecnico, incoraggia esplicitamente gli investimenti privati nelle energie rinnovabili attraverso il programma di riforme economiche presentato alle autorità, chiedendo tra l’altro la fine delle sovvenzioni statali all’energia. «Con la crisi del gas russo in Europa, la pressione nei nostri confronti è definitivamente aumentata», conclude il sindacalista.

    Nonostante un impianto legale che si è adattato ai progetti privati, i lavori di costruzione di buona parte delle centrali solari approvate in Tunisia, tutti progetti vinti da società straniere, sono rimasti bloccati. Il motivo: «La lentezza delle procedure amministrative. Nel frattempo, durante l’ultimo anno il costo delle materie prime è aumentato notevolmente sul mercato internazionale», spiega Omar Bey, responsabile delle relazioni istituzionali della società francese Qair Energy. «Il budget con il quale sono stati approvati i progetti qualche anno fa, oggi manderebbe le compagnie in perdita».

    Solo le multinazionali del fossile quindi sembano potersi permettere gli attuali prezzi dei pannelli solari da importare. «Non è un caso che l’unica centrale costruita in tempi rapidi e pronta ad entrare in funzione appartiene alla multinazionale del petrolio Eni», confida una fonte interna alla compagnia petrolifera tunisina ETAP. Le stesse multinazionali erano presenti al Salone internazionale della transizione energetica, organizzato nell’ottobre 2022 dalla Camera sindacale tunisina del fotovoltaico (CSPT), di cui TuNur è membro, riunite sotto la bandiera di Solar Power Europe, un’organizzazione con sede a Bruxelles. Sono più di 250 le aziende che ne fanno parte, tra queste TotalEnergies, Engie ed EDF, le italiane ENI, PlEnitude ed Enel, ma anche Amazon, Google, Huawei e diverse società di consulenza internazionali. Società con obiettivi diversi, spesso concorrenti, si riuniscono così di fronte all’esigenza comune di influenzare le autorità locali per rimodellare la legge a proprio piacimento.

    L’associazione di lobbying, infatti, si è presentata con l’obiettivo esplicito qui di «individuare nuove opportunità di business» e «ridurre gli ostacoli legislativi, amministrativi e finanziari allo sviluppo del settore». Per il consulente di TuNur Ali Kanzari, «la legge del 2015 non è sufficientemente favorevole alle esportazioni e va migliorata».

    Se gli studi tecnici e d’impatto per collegare le due rive si moltiplicano, sono sempre di più le voci che si levano a Sud del Mediterraneo per reclamare una transizione energetica urgente e rapida sì, ma innanzitutto equa, cioè non a discapito degli imperativi ambientali e sociali delle comunità locali a Sud del Mediterraneo «finendo per riprodurre meccanismi estrattivi e di dipendenza simili a quelli dell’industria fossile», conclude il ricercatore Benjamin Schütze. Molti sindacati e associazioni locali in Tunisia, in Marocco e nel resto della regione propongono un modello decentralizzato di produzione di energia verde, garanzia di un processo di democratizzazione energetica. Proprio il Partenariato per una Transizione energetica equa (Just Energy Transition Partnership) è al centro del dibattito di una COP27 a Sud del Mediterraneo.

    https://irpimedia.irpi.eu/greenwashing-tunur-energia-verde-da-nord-africa-a-europa
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  • Profili critici delle attività delle ONG italiane nei centri di detenzione in Libia con fondi A.I.C.S.


    https://sciabacaoruka.asgi.it/wp-content/uploads/2020/07/Profili-critici-delle-attivita%CC%80-delle-ONG-italiane-nei-centr

    Résumé du rapport en anglais :
    https://sciabacaoruka.asgi.it/wp-content/uploads/2020/07/ENG-executive-summary.pdf

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    Commentaire sur le site de Melting Pot :

    Profili critici delle attività delle ONG italiane nei centri di detenzione in Libia con fondi #AICS. ASGI presenta il rapporto sugli interventi finanziati dall’#Agenzia_Italiana_per_la_Cooperazione_e_lo_Sviluppo nei centri di detenzione libici

    Tra queste troviamo: #Emergenza_Sorrisi, #Helpcode (già #CCS), #CEFA, #CESVI, #Terre_des_Hommes_Italia, #Fondation_Suisse_de_Deminage, #GVC (già #We_World), #Istituto_di_Cooperazione_Universitaria, #Consorzio_Italiano_Rifugiati (#CIR), #Fondazione_Albero_della_Vita.
    I progetti, alcuni dei quali sono ancora in corso di realizzazione, sono stati finanziati con 6 milioni di euro dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (AICS).

    L’iniziativa ha suscitato, sin dall’emanazione del primo bando a novembre 2017 molto scalpore nell’opinione pubblica, sia perché il sistema di detenzione per migranti in Libia è caratterizzato da gravissimi e sistematici abusi (“è troppo compromesso per essere aggiustato”, aveva detto il Commissario ONU per i diritti umani) sia per la vicinanza temporale con gli accordi Italia-Libia del febbraio 2017. I centri di detenzione libici infatti, soprattutto quelli ubicati nei dintorni di Tripoli che sono destinatari della maggior parte degli interventi italiani, sono destinati ad ospitare anche migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera Libica, a cui l’Italia ha fornito e tuttora fornisce un decisivo appoggio economico, politico e operativo.

    Il rapporto si interroga quindi sulle conseguenze giuridiche degli interventi attuati, a spese del contribuente italiano, nei centri di detenzione libici.

    Anzitutto, si mette in discussione la logica stessa dell’intervento ideato dall’AICS, mostrando come in larga misura le condizioni disumane nei centri, che i Bandi mirano in parte a migliorare, dipendano da precise scelte del governo di Tripoli (politiche oltremodo repressive dell’immigrazione clandestina, gestione affidata a milizie, assenza di controlli sugli abusi, ubicazione in strutture fatiscenti, mancata volontà di spesa, ecc.). I Bandi non condizionano l’erogazione delle prestazioni ad alcun impegno da parte del governo libico a rimediare a tali criticità, rendendo così l’intervento italiano inefficace e non sostenibile nel tempo.

    In secondo luogo, il rapporto osserva come nei centri nei pressi di Tripoli le ONG italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico. Inoltre, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri.

    In terzo luogo, alcuni interventi sono volti a mantenere in efficienza infrastrutture anche costrittive, come cancelli e recinzioni, cosicché potrebbe profilarsi un contributo al mantenimento di detenuti nella disponibilità di soggetti notoriamente coinvolti in gravissime violazioni di diritti fondamentali.

    Infine, il rapporto si interroga sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati. L’assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie indubbiamente ostacolano un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L’approssimativa rendicontazione da parte di alcune ONG delle spese sostenute sembra avvalorare il quadro di scarso o nullo controllo su quanto effettivamente attuato dagli implementing partner libici sul campo. Non può così escludersi che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle già ricordate sevizie ai danni dei detenuti.

    Il rapporto conclude osservando che l’intervento italiano è direttamente funzionale alla strategia di contenimento dei flussi irregolari di migranti attraverso meccanismi per la loro intercettazione, trasferimento in Libia, detenzione e successiva rimozione dal territorio libico attraverso rimpatrio nel paese di origine o resettlement in Paesi terzi.

    Il rapporto, pur ponendo alcuni interrogativi cruciali, non fornisce un quadro esaustivo, in quanto l’AICS ha sempre negato l’accesso ad alcuni documenti-chiave, quali i testi dei progetti, necessari a comprendere appieno la situazione.

    https://www.meltingpot.org/Profili-critici-delle-attivita%CC%80-delle-ONG-italiane-nei.html

    #Libye #asile #migrations #centres_de_détention #détention #ONG #ONG_italiennes #rapport #aide_du_développement #développement #coopération_au_développement #financement

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    Ajouté à la métaliste migrations et développement :
    https://seenthis.net/messages/733358

    • La realtà libica raccontata attraverso un rapporto sugli interventi finanziati da fondi AICS nei centri di detenzione

      Il rapporto presentato da ASGI nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka

      Il 15 luglio nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka è stato pubblicato dall’ASGI un interessante rapporto sugli interventi attuati da alcune ONG italiane nei centri di detenzione per stranieri in Libia.

      Il rapporto «Profili critici delle attività delle ONG italiane nei centri di detenzione in Libia con fondi A.I.C.S.» [1] rappresenta un’analisi critica sull’operato in Libia dei progetti di alcune ONG finanziate dal nostro Paese. Si tratta di un’analisi che evidenzia soprattutto le grandi contraddizioni che si celano dietro tali interventi, le enormi lacune e soprattutto le pesanti violazioni dei diritti umani da parte del governo di Tripoli.

      Si parla di progetti, alcuni dei quali ancora in corso, finanziati con 6 milioni di euro dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (AICS). Progetti che non hanno sicuramente migliorato le condizioni dei tanti migranti detenuti presso i centri libici.

      In particolare, il rapporto osserva come “nei centri nei pressi di Tripoli le ONG italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico”, ma purtroppo tale attività non serve a superare le mancanze del governo libico e a migliorare la condizione generale dei soggetti detenuti. Infatti, vi sono delle pre-condizioni che non permettono di cambiare lo stato delle cose neppure con gli interventi che arrivano attraverso questi progetti.

      A tale proposito, è significativo il contesto generale in cui si inseriscono i progetti presi in considerazione dal rapporto pubblicato da ASGI. Non va infatti dimenticato che in Libia la detenzione di cittadini stranieri nei centri è disposta da un’autorità amministrativa (il Ministero dell’Interno) e che tale decisione non è soggetta ad alcun vaglio da parte delle autorità giurisdizionali. La detenzione, poi, è disposta per un tempo indeterminato e si accompagna alla pratica dei lavori forzati.
      Ma non solo.

      Le autorità libiche, con la limitata eccezione di alcune nazionalità, non distinguono tra migranti irregolari e richiedenti asilo bisognosi di protezione internazionale e, in ultimo, non sono previsti meccanismi successivi di controllo sulla legalità della detenzione disposta. Un quadro molto chiaro che si pone in netta violazione dei più elementari principi di tutela dei diritti umani e in aperto contrasto con il diritto internazionale.

      In questo quadro generale, si inseriscono gli interventi finanziati dal Governo italiano con i Bandi che vengono specificamente analizzati nel rapporto in commento. E, la descrizione che ne viene data è, a dir poco, drammatica. Una situazione, quella nei centri libici, “non determinata dalla temporanea impossibilità di un governo in difficoltà nel fornire assistenza volta a salvare le vite delle persone più vulnerabili”.

      Infatti, le condizioni in cui sono detenute migliaia di cittadini stranieri in Libia sembrano essere dovute non da circostanze esterne indipendenti dalla volontà del governo libico ma da sue precise scelte in merito alla:
      – mancata erogazione di servizi di base (cibo, medicine, ecc.), a fronte di una non trascurabile capacità di spesa pubblica;
      – detenzione di un numero di persone eccessivo rispetto agli spazi disponibili;
      – ubicazione in strutture intrinsecamente inadeguate allo scopo;
      – detenzione di persone vulnerabili quali donne e bambini anche in assenza di garanzie ed appositi servizi loro dedicati;
      – detenzione di persone in modo arbitrario (per durata indefinita, senza alcuna procedura legale, controllo giurisdizionale, registrazione formale o possibilità di accesso ad un avvocato);
      – gestione solo nominale da parte del Ministero libico di molti centri, di fatto gestiti da milizie;
      – assenza di meccanismi di prevenzione o controllo sugli abusi commessi in tali centri.

      Nello specifico, il rapporto fa emergere una serie di contraddizioni che sono intrinseche alla situazione politica della Libia e rispetto alle quali gli aiuti economici e logistici approvati con gli accordi tra Libia ed Italia del 2017 nulla possono.

      La ragione di questi accordi allora è da rinvenire esclusivamente nella volontà di limitare l’afflusso di migranti verso il continente europeo, senza alcuna considerazione di quelle che sono le condizioni in cui versano coloro che vengono trattenuti nel paese libico.

      Come più volte sottolineato dai più attenti osservatori, assistiamo ad un fenomeno di “esternalizzazione” delle frontiere europee con l’aggravante che in questi nuovi territori ove si esercita il controllo si ha una vera e propria sospensione del diritto internazionale e continue violazioni dei diritti umani. Non interessa se chi viene trattenuto sia un richiedente asilo o possa essere iscritto ad una categoria protetta. Non vi è distinzione tra uomini, donne e bambini. Sono tutti semplicemente migranti destinati a vivere la stessa drammatica situazione di detenzione arbitraria e indefinita, di violenze e di torture.

      In più, dalla lettura del rapporto, viene in evidenza l’esistenza di un problema a monte che concerne le politiche migratorie europee che sono, purtroppo, finalizzare esclusivamente al contenimento dei flussi migratori. Si tratta di una impostazione del discorso da parte dei Paesi europei che influenza pesantemente le scelte legislative che vengono compiute e gli interventi concreti che vengono fatti. Una errata impostazione delle politiche migratorie che si aggiunge ai tanti problemi concreti presenti in Libia. Non possiamo infatti dimenticare che la Libia è un paese politicamente instabile, caratterizzato da un controllo del territorio da parte di milizie armate che estromettono lo Stato e si sostituiscono a questo. Milizie rispetto alle quali è impossibile intervenire da parte delle ONG che non possono neppure effettuare un controllo sull’utilizzo effettivo che viene fatto dei beni acquistati con il denaro pubblico.

      Stando così le cose, non stupisce lo stato dei centri di detenzione libici. Una situazione di grande precarietà, di sovraffollamento, di carenza di cibo, di carenze strutturali degli edifici utilizzati, di mancanza di attenzione alle donne e ai bambini, di assenza di assistenza sanitaria.

      Nelle conclusioni del Rapporto, i ricercatori che si sono dedicati a questa attenta analisi dei progetti delle ONG italiane in Libia evidenziano quanto già abbiamo avuto modo di dire in precedenza. Tali progetti sono uno dei tasselli di cui si compone il complesso mosaico che riguardo i rapporti bilaterali tra Italia e Libia.

      Una stagione di accordi che prende le mosse dal noto memorandum del mese di febbraio 2017 e che mira soprattutto a limitare l’afflusso di migranti privi di visto di ingresso dal territorio libico a quello italiano.

      Un altro tassello è sicuramente costituito dalle missioni (peraltro rifinanziate dal nostro Parlamento pochi giorni fa) di addestramento e sostegno alla Guardia Costiera libica sempre da parte del nostro Stato.

      Lo scopo di questi accordi è quello di bloccare o riportare in Libia i migranti irregolari, detenerli in questo Paese e, poi, eventualmente smistarli verso altri paese terzi come il Niger o il Ruanda (o rimpatriarli nei paesi di origine).

      Tutto quello che accade durante e dopo non interessa. Non interessano gli strumenti che vengono utilizzati per bloccare le partenze, non interessano i metodi che vengono adoperati dalla Guardia costiera per bloccare i migranti, non interessa lo stato di detenzione a cui sono sottoposti. In vista del contenimento dei flussi migratori tutto è consentito alla Libia.

      https://www.meltingpot.org/La-realta-libica-raccontata-attraverso-un-rapporto-sugli.html