• La prima operazione di rimpatrio del governo italiano direttamente dall’Albania

    Il 9 maggio un #charter partito da Roma e diretto a Il Cairo ha fatto scalo a Tirana per far salire a bordo cinque cittadini egiziani rinchiusi nel Centro di permanenza per il rimpatrio di #Gjadër. Un’operazione dai dubbi profili di legittimità che il governo italiano ha fatto passare in sordina. “Un fatto gravissimo -sottolinea Gianfranco Schiavone dell’Asgi- perché il trasferimento dalla struttura all’aeroporto è avvenuto al di fuori della giurisdizione italiana”

    L’Italia ha effettuato il suo primo rimpatrio direttamente dall’Albania. Lo scorso 9 maggio un volo partito da Roma e diretto a Il Cairo ha fatto tappa sul suolo albanese per far salire a bordo cinque persone di origine egiziana trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gjadër. Una procedura inedita che il governo italiano ha deciso di far passare in sordina. “Un fatto grave che mette a rischio la tenuta del quadro giuridico europeo e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte”, denuncia Francesco Ferri, esperto di migrazioni per ActionAid Italia.

    Secondo il Viminale da quando l’11 aprile a fine giugno la struttura albanese ha riaperto i battenti come Cpr sono transitate 110 persone. Al 21 maggio in totale sono state 24 quelle riportate in Italia per poi essere rimpatriate nei loro Paesi d’origine. Si pensava dunque che nessuno fosse stato espulso direttamente da Gjadër ma i documenti della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera, consultati da Altreconomia, dicono altro.

    Lo scorso 28 aprile, infatti, l’ufficio in seno al ministero dell’Interno ha pubblicato un bando pubblico per richiedere un servizio di noleggio di un aeromobile per l’espulsione di stranieri irregolari. Una procedura standard che però, questa volta, aveva una particolarità: l’operazione di rimpatrio verso l’Egitto richiedeva ai partecipanti alla gara una “tappa” intermedia a Tirana.

    Nel tardo pomeriggio dell’8 maggio l’operatore #Pas_professional_solution Srl, tramite il suo procuratore speciale #Angelo_Gabriele_Bettoni, firma il contratto da 113.850 euro per i servizi richiesti dal Viminale. Il giorno successivo un aereo parte da Roma Fiumicino alla volta della capitale albanese, dove atterra intorno alle 15.30, per poi ripartire un’ora e mezza dopo verso Il Cairo, con a bordo le persone provenienti dal Cpr di Gjadër.

    Secondo i dati ottenuti da Altreconomia a metà giugno dall’11 aprile al 21 maggio risultano cinque transiti e altrettanti rimpatri di cittadini egiziani dal Cpr albanese, proprio quelli finiti sul volo. Il ministero dell’Interno, interpellato sul punto, non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento. Quello che si sa per certo, però, è che quando la Direzione centrale ha pubblicato il bando e programmato l’operazione il 28 aprile, a Gjadër non c’era nessun cittadino egiziano: questi sarebbero stati “appositamente” portati nei primi giorni di maggio per poi essere caricati sul charter a Tirana.

    La mossa del governo italiano, tenuta fino a oggi “segreta”, apre molti interrogativi, innanzitutto sulla legittimità della procedura. “Anche qualora si volesse sostenere, con una tesi a mio avviso infondata, che il Cpr di Gjadër sia equiparabile ai centri posti nel territorio nazionale -spiega Gianfranco Schiavone, esperto di migrazioni e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)-, non risulta in alcun modo ammissibile prevedere che la persona sia portata fuori dall’area del centro di trattenimento, sul territorio albanese, e poi da lì rimpatriata”.

    Secondo Schiavone vi è una grave violazione nella riserva di giurisdizione prevista dall’articolo 13 della Costituzione. “Le operazioni di polizia condotte fuori dal centro di Gjadër in territorio albanese nei confronti delle persone trasportate in questo caso in aeroporto sono prive di controllo giurisdizionale e avvengono dunque senza alcuna copertura normativa. Quanto avvenuto è dunque un fatto gravissimo”.

    In questo quadro, poi, potrebbe aver giocato un ruolo importante anche l’Egitto. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha incontrato in un bilaterale il suo omologo egiziano Mahmoud Tawfiq lo scorso 9 aprile a margine dell’incontro del “Processo di Khartoum”, una piattaforma di cooperazione. Durante l’incontro, secondo quanto dichiarato dal Viminale, i ministri hanno fatto il punto su diverse tematiche tra cui quella dei flussi migratori. Non è detto però che non si sia parlato anche dell’operazione di volo da Tirana.

    Chi con molta probabilità era al corrente dell’operazione è l’aeroporto internazionale di Tirana da cui è transitato il charter. A partire dal 2020, la proprietà dello scalo è stata acquisita da #Kastrati_Group Sha, società energetica albanese che gestisce una serie di stazioni di servizio in tutto il Paese. Fa parte del consiglio direttivo #Piervittorio_Farabbi, ingegnere aeronautico italiano e direttore operativo, che supervisiona la gestione operativa quotidiana dell’aeroporto dall’aprile 2023. Farabbi in passato è stato direttore dello scalo di Perugia e della #Sacal, società aeroportuale calabrese. La direzione dell’aeroporto, contattata da Altreconomia, non ha risposto così come il ministero albanese degli Affari interni. La polizia di Stato invece ha glissato dicendo di rivolgersi alle autorità italiane.

    Per Francesco Ferri di ActionAid Italia, che con il Tavolo asilo e immigrazione (Tai) il 17 e 18 giugno ha visitato la struttura di Gjadër, questa operazione fa fare un’ulteriore salto di qualità in termini di opacità all’operazione Albania. “Con la trasformazione delle strutture in Cpr dell’11 aprile la mancanza di trasparenza si è aggravata -spiega-. Abbiamo saputo di una persona rimpatriata da Tirana durante la visita ed è un fatto gravissimo”.

    Da un lato l’Italia anticipa artigianalmente quanto previsto dalla proposta di nuovo Regolamento sui rimpatri “minando la tenuta del quadro giuridico europeo”, dall’altro le persone sono esposte a gravi violazioni dei diritti. “Già in questi mesi abbiamo faticato molto a rintracciare chi veniva riportato in Italia da Gjadër e lasciato libero se le persone vengono rimpatriate direttamente questo diventa pressoché impossibile -sottolinea-. Diventa ancora più difficile ricostruire e conoscere in che condizioni sono state rinchiuse le persone e se i loro diritti sono stati rispettati”.

    Infine, resta rilevante il tema dei costi: la “tappa” di Tirana è costata solo di affitto charter 31.779 euro in più rispetto all’ultima operazione di rimpatrio, dello stesso numero di persone, verso l’Egitto. Significa, per cinque rimandati indietro dall’Albania, più di 6.300 euro a testa.

    https://altreconomia.it/il-primo-rimpatrio-italiano-di-migranti-irregolari-direttamente-dallalb
    #Albanie #migrations #réfugiés #Italie #externalisation #renvois #expulsions #Egypte #rétention #détention_administrative #prix #coût

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...

    https://seenthis.net/messages/1043873

  • La montagna non si spopola, gli italiani ci stanno tornando

    Il saldo dei movimenti tra chi scende e chi sale in montagna per viverci torna ad essere positivo. E non solo grazie ai migranti stranieri.

    Chi l’ha detto che la montagna si spopola? Gli ultimi tre quinquenni (2009-2013, 2014-2018, e 2019-2023) raccontano di tre stagioni diverse: una dell’accoglienza”, una di “ripiegamento” e la terza -la più recente- di “risveglio”. Tradotto in numeri, tra 2009 e 2013, le 387 comunità territoriali della montagna italiana sono state uniformemente investite da un flusso di immigrazione di popolazione straniera: il territorio montano ha visto l’arrivo di oltre 150.000 immigrati, numero “ampiamente in grado di compensare il flusso in uscita che nel complesso interessa oltre 110.000 cittadini italiani”. Tra 2014 e 2018 l’afflusso migratorio di popolazione straniera nelle comunità di montagna, invece, italiana si raffredda: l’apporto scende a meno di 60.000 individui. Per converso il flusso in uscita dalla montagna della popolazione italiana continua rispetto al periodo precedente, registrando un saldo negativo più contenuto di 67.000 unità.
    Ed ecco infine il periodo 2022-2023 con un saldo “tra i movimenti della popolazione in ingresso e in uscita dalla montagna che torna a essere positivo e assume dimensioni assai più significative di quanto non si sia registrato nei momenti migliori del passato”, manda a a dire l’Uncem (Unione dei Comuni, Comuni ed Enti montani). Quasi 100.000 ingressi oltre le uscite, più del 12 per mille della popolazione. Ma non in modo uguale dappertutto: sono 250 su 387, quasi il 65%, le comunità territoriali con saldo positivo; 136 lo fanno con valori che vanno oltre il 20 per mille. La disomogeneità segna una frattura rilevante tra regioni del nord e del centro, tutte sistematicamente con apporti migratori positivi, e quelle del sud dove il segno meno, pur circoscritto e non generalizzato, appare ancora con una certa frequenza.
    Rispetto al passato però la discontinuità più forte è determinata dalla composizione del flusso migratorio.

    IL RITORNO DEGLI ITALIANI, UNA “NOVITÀ ASSOLUTA”

    Non solo, la popolazione italiana della montagna presenta -“ed è una novità assoluta”- un saldo positivo tra ingressi e uscite, ma questo, forte di quasi 64.000 unità, “sopravanza nettamente quello della popolazione di cittadinanza straniera che con meno di 36.000 unità si riduce ulteriormente (quasi si dimezza) rispetto ai valori del quinquennio precedente, portando in evidenza la tendenza ormai presente in tutto il Paese a una progressiva riduzione dell’interesse verso l’Italia da parte dei flussi migratori di lungo raggio”, dice Uncem. Queste analisi fanno parte dei punti fermi che domani a Roma, all’Università Mercatorum, verranno esaminati alla presentazione del Rapporto Montagne Italia 2025, realizzato dall’Uncem: un lavoro di 800 pagine, tra numeri, analisi, dati, approfondimenti curato, con la Fondazione Montagne Italia e #Uncem. E’ il racconto della montagna che cambia. “Una montagna che non è quella dello spopolamento”, evidenzia dunque il presidente nazionale Uncem, Marco Bussone, invitando a rifuggire da semplificazioni, “letture senza numeri, must buoni per convegni e comizi”.

    LA GEOGRAFIA DEI COMUNI DI MONTAGNA

    I Comuni classificati come totalmente montani sono 3.471 (il 43,4% dei Comuni italiani) e ospitano una popolazione di otto milioni e 900.529 abitanti (il 14,7% della popolazione nazionale) su una superficie di 147.531,8 chilometri quadrati (il 48,8% dell’estensione del territorio nazionale) con una densità di 60,3 abitanti per chilometro quadrato (rispetto a un valore medio nazionale di 200,8). La densità insediativa dei Comuni montani è, nella media, di 60,3 abitanti. contro una media nazionale di 200,1 abitanti.

    https://www.dire.it/23-06-2025/1161795-la-montagna-non-si-spopola-gli-italiani-ci-stanno-tornando
    #montagne #Italie #dépeuplement #cartographie #visualisation #démographie #Alpes #Apennins #chiffres #statistiques #migrations #réfugiés #rapport

    • RAPPORTO MONTAGNE ITALIA 2025

      Il Rapporto nasce nell’ambito del Progetto italiae del Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio dei ministri e attuato dallUNCEM per descrivere come si manifesta la contemporaneità nelle montagne italiane tra criticità, opportunità e nuovo protagonismo. Le montagne italiane raccontate attraverso la illustrazione delle dinamiche socioeconomiche che le caratterizzano e le strategie territoriali che le attraversano. Nella prima parte, mappe e dati servono a evidenziare i caratteri della montagna e la geografia delle comunità territoriali, e le loro caratterizzazioni economiche e sociali, evidenziando i processi associativi in atto. Un quadro completato dalle riflessioni argomentate e informate sul percorso fatto dalla Strategia delle Aree Interne e sulla novità dei processi in atto connessi alla Strategia delle green Community, precedute da un approfondimento sui temi dello spopolamento e del neopopolamento che molto hanno a che fare con entrambe le strategie. All’analisi delle strategie si connette anche l’approfondimento dedicato ai temi della governance, ulteriore affondo nella tematica delle green community, per esaminare le esperienze di governance in atto, inquadrare le politiche in un approccio più ampio e sistemico (il progetto Appennino Parco d’Europa) e quello relativo alla geocomunità delle piattaforme montane italiane che guarda anche alle differenze tra le Alpi e gli Appennini per evidenziare faglie e giunture e ragionare sulla prospettiva. Completano il quadro l’illustrazione di una articolata indagine sulla opinione degli italiani riguardo la montagna. Il Rapporto è arricchito da box tematici e commenti, oltre che da tre appendici.
      Materiali e riflessioni offerti alla politica, agli amministratori, ai territori impegnati a costruire futuro attraverso le Green Community e a tutti coloro che sono chiamati a decisioni importanti nell’allocazione di risorse, definizione di strumenti di governance e assetti istituzionali che riguardano il futuro della montagna e con ciò quello dell’intero Paese.

      https://uncem.it/uncem-presenta-il-rapporto-montagne-italia-2025

  • Florida building ’#Alligator_Alcatraz' migrant detention centre in #Everglades

    Florida has begun building a detention centre - dubbed the ’Alligator Alcatraz’ - to temporarily hold migrants on an air strip in the Everglades.

    Department of Homeland Security Secretary Kristi Noem said the facility would be funded “in large part” by the Federal Emergency Management Agency’s shelter and services programme, which was previously used to provide accommodation and other aid for undocumented migrants.

    The plan has been criticised by several lawmakers, including the mayor of Miami-Dade County, who argued it could be environmentally “devastating”.

    The proposal comes as Trump tries to deliver on a campaign pledge to ramp up deportations of illegal migrants.

    “Under President Trump’s leadership, we are working at turbo speed on cost-effective and innovative ways to deliver on the American people’s mandate for mass deportations of criminal illegal aliens,” Noem said in a statement.

    “We will expand facilities and bed space in just days, thanks to our partnership with Florida.”

    The facility is to be built on the site of the #Dade-Collier_Training_and_Transition_Airport, a public airport around 58km (36 miles) from Miami. It will cost about $450m (£332m) a year to run.

    In a video posted on X, Florida’s Attorney General James Uthmeier called the airport a “virtually abandoned facility”.

    He said the detention centre could be built in 30 to 60 days and hold an estimated 1,000 people.

    He argued the location acted as a natural deterrent for escapees.

    Uthmeier said in the video: “[If] people, get out, there’s not much waiting for them other than alligators and pythons. Nowhere to go, nowhere to hide.”

    The mayor of Miami-Dade County, Daniela Levine Cava, a Democrat, criticised the plan, saying “the impacts to the Everglades ecosystem could be devastating”.

    The Florida Everglades are a unique environmental region comprising marshes, prairies, forests, mangroves and estuaries. Uthmeier said the facility would not be located within #Everglades_National_Park.

    https://www.bbc.com/news/articles/c0rvq1eg8w9o
    #Floride #USA #Etats-Unis #migrations #sans-papiers #détention_administrative #rétention #parc_national #centre_de_rétention_administrative #CRA #nature #hostile_environment #environnement_hostile #crocodiles #pythons

  • Neue Studie : So kamen in der BRD Altnazis und schlimmste Antisemiten wieder in Machtpositionen
    https://www.berliner-zeitung.de/kultur-vergnuegen/debatte/historiker-so-kamen-in-der-brd-schlimmste-antisemiten-wieder-in-mac

    La domination de l’état ouest-allemand par les anciennes élites nazies et leurs héritiers n’est pas un mythe mais la triste réalité. Une nouvelle étude scientifique nous renseigne sur la présemce de nazis au sein de la vhemcellerie, l’administration la plus puissante de la République fédérale d’Allemagne (RFA).

    22.6.2025 von Susanne Lenz - Eine neue Studie zeigt, wie viel NS-belastetes Personal im Bundeskanzleramt wirkte. Antikommunismus war eine Entlastungsstrategie, sagen zwei Historiker im Interview.

    Eine neue Studie beschäftigt sich mit der Frage, ob es personelle und ideologische Kontinuitäten zwischen dem NS-Apparat und dem Bundeskanzleramt gab: „Das Kanzleramt: Bundesdeutsche Demokratie und NS-Vergangenheit“. Wir sprachen mit den Historikern Jutta Braun und Thomas Schaarschmidt, einem der Herausgeber, beide vom Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam, das für die Studie mit dem Institut für Zeitgeschichte in München und Berlin kooperierte.

    Frau Braun, Herr Schaarschmidt, warum kommt diese Studie erst jetzt?

    Thomas Schaarschmidt: Die Studie über das Auswärtige Amt hat das Auswärtige Amt selbst angestoßen. In anderen Behörden war das ähnlich, etwa beim Landwirtschafts- oder beim Innenministerium. Die Reichskanzlei hatte vor allem in der NS-Diktatur jedoch einen ganz anderen Zuschnitt als das Bundeskanzleramt und spielte eine andere Rolle. Deshalb gibt es so gut wie keine personellen Kontinuitäten, und die Impulse sind nicht aus der Behörde selbst gekommen, sondern aus der Forschung. Und das ist vielleicht gut so. Unsere Forschung war nicht nur organisatorisch völlig unabhängig, sondern konnte auch von den Erkenntnissen der anderen Studien profitieren.

    Konrad Adenauer, den Friedrich Merz als seine politische Leitfigur bezeichnet, war der erste Bundeskanzler der jungen Bundesrepublik. Wie sah es mit seinem Demokratieverständnis aus?

    Schaarschmidt: Konrad Adenauer ist sicher eine zentrale Figur, aber ich möchte ihn einbinden in die gesamte Behörde. Wenn man sich das Personal hier anschaut, bemerkt man eine starke Prägung nicht nur durch den Nationalsozialismus, sondern auch durch die Weimarer Republik und das Kaiserreich. Wir haben diese langen Linien berücksichtigt und kommen zu dem Ergebnis, dass sich Demokratievorstellungen über einen langen Zeitraum entwickeln. Teilweise ist es befremdlich, wie Demokratie in den Fünfzigerjahren verstanden wurde. Da gab es einen extrem autoritären Einschlag, mit Folgen für die politische Kommunikation, und eine paternalistische Haltung: Man begegnete der eigenen Gesellschaft mit tiefem Misstrauen.

    Welche Epoche war denn für dieses autoritäre Demokratieverständnis vor allem ausschlaggebend?

    Schaarschmidt: Die Krisenerfahrung in der Weimarer Republik spielt eine große Rolle. Diese Zeit hat viele Mitarbeiter des Bundeskanzleramts geprägt. Sie sind dadurch nicht unbedingt zu Demokraten geworden, sondern waren der Weimarer Republik gegenüber sehr skeptisch, wenn nicht gar feindlich eingestellt und haben in vielen Fällen problemlos den Weg in den NS-Staat gefunden. Nach 1945 haben sie sich dann eine demokratische Vita zurechtgelegt, um den Besatzungsbehörden gegenüber zu rechtfertigen, warum sie geeignet sind, am demokratischen Aufbau der Bundesrepublik mitzuwirken.

    Sie haben sich das Bundespresseamt vorgenommen. Wie hat sich diese autoritäre Prägung dort ausgewirkt, Frau Braun?

    Jutta Braun: Während in den Ministerien viele Juristen arbeiteten, waren im Bundespresseamt häufig Journalisten angestellt. Sie hatten teilweise für das antisemitische Hetzblatt Der Angriff oder den Völkischen Beobachter geschrieben. Es war schon problematisch, dass Personen, die früher die Eroberungsfeldzüge von Hitler verteidigt haben, jetzt für das Image der Bundesrepublik verantwortlich waren. Oder dass die, die früher antisemitische Propaganda gemacht haben, jetzt eine aufrichtige Vergangenheitspolitik vertreten sollten. Aber diese Belastung ist damals kaum nach außen gedrungen und wurde auch nicht diskutiert. Nicht einmal, was Felix von Eckardt angeht, der als Drehbuchautor sogar mit Joseph Goebbels zusammengearbeitet hatte. Das Bundespresseamt stand von Anfang an unter dem Generalverdacht, dass hier Goebbels’ Propagandaministerium wieder aufleben sollte.

    War da etwas dran?

    Braun: Es war im Kern unberechtigt. Aber interessant ist, dass etwa jemand wie Otto Lenz, der im Kanzleramt arbeitete, und in der NS-Zeit verfolgt worden war, gern ein Informationsministerium aufgebaut hätte, also wieder eine Superbehörde – weil er den Deutschen misstraute. Er hätte die reeducation, also die Umerziehung zur Demokratie gern auf Dauer gestellt. Er befürwortete also autoritäre Strukturen, aber nicht um NS-Ideologie zu transportieren, sondern im Sinne einer Demokratieerziehung.

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    Konrad Adenauer im Jahr 1955 Keystone/imago

    Hat sich dieses autoritäre Demokratieverständnis auch sonst ausgewirkt?

    Braun: Das Bundespresseamt hat mit Wissen Adenauers 1957 eine Wahlkampfzeitschrift ins Leben gerufen, die als bunte Illustrierte getarnt war. Vorne war Sissi drauf, innen war Adenauer drin. Damit wollte man die einfache Hausfrau erreichen, aber es war eine Irreführung der Öffentlichkeit, dass das Bundespresseamt ein Parteiorgan bezahlt und als etwas anderes ausgibt. Am Ende ist es herausgekommen und wurde etwa vom Spiegel kritisiert. Daran kann man den gesellschaftlichen Wandel erkennen. Aber das gespannte Verhältnis zur Presse setzt sich bis in die Zeit der Großen und sogar der sozialliberalen Koalition fort.

    Es gab in der BRD viele personelle Kontinuitäten, da hatte die DDR recht

    Das bekannteste Beispiel für die personelle Kontinuität zwischen NS-Zeit und Bundesrepublik ist neben dem Kanzler Kurt Georg Kiesinger Hans Globke. In Ost-Berlin galt diese Personalie als Beweis dafür, dass ehemalige Nazis in der BRD Karriere machen können. Hatte die DDR damit recht?

    Schaarschmidt: Es gab viele personelle Kontinuitäten, da hatte die DDR recht. Und das hängt stark mit Hans Globke zusammen. Er hat dafür gesorgt, dass im Bundeskanzleramt und allen leitenden Bundesbehörden NS-belastetes Personal eingestellt wurde, oft waren es Verwaltungsjuristen. In der Theorie sollte die NS-Belastung berücksichtigt werden, aber in der Praxis wurde ausgesprochen lax verfahren, es sei denn, jemand hatte in der Nazi-Zeit eine extrem herausgehobene Rolle.

    Das Argument damals lautete, dass es praktisch keine qualifizierten Leute gab, die nicht NS-belastet waren. Stimmt das?

    Schaarschmidt: Gunnar Take entlarvt das in seinem Beitrag als Scheinargument. Er zeigt das anhand von Kurt Oppler, der das Personalamt des Wirtschaftsrats der Bi-Zone leitete. Oppler war in der NS-Zeit verfolgt worden und als Jude emigriert. Und er hat sehr wohl darauf geachtet, qualifiziertes Personal zu finden, das nicht belastet war. Kurt Oppler war jedoch ein rotes Tuch für die Behördenleitung unter Globke und Adenauer. Er war Sozialdemokrat, er war Emigrant. Man schob ihn schnell auf einen diplomatischen Posten ab. Dann hatte Globke freie Hand. Trotzdem muss man sagen, dass die Propaganda der DDR hinsichtlich dieser personellen Kontinuitäten extrem überzogen hat.

    Zum Beispiel?

    Schaarschmidt: In der DDR wurde etwa anlässlich des Eichmann-Prozesses der Film „Aktion J“ gedreht, der Globke als Hauptverantwortlichen des Holocaust darstellt und eine bruchlose Kontinuität zu seiner Rolle im Kanzleramt behauptet, die Adenauer zu einer Randfigur machte. Es war für die Bonner Seite leicht, das zu dekonstruieren und als Lüge zu bezeichnen, auch wenn es in der Praxis die personelle Kontinuität gegeben hat, nur nicht in dieser überzeichneten Form. Aber das war Teil des Kalten Kriegs in den Fünfziger- und frühen Sechzigerjahren.

    Warum hat Adenauer Globke überhaupt eingesetzt?

    Schaarschmidt: Er war ein herausragender Verwaltungsfachmann, dem es gelungen ist, sich den Besatzungsmächten als Demokrat zu verkaufen, der er 1949 sicher nicht gewesen ist. Mit Adenauer war er über den politischen Katholizismus verbunden, er stammte ebenfalls aus dem Rheinland und wollte, wie Adenauer, Deutschland wieder zu Anerkennung verhelfen. Außerdem wird es Adenauer bewusst gewesen sein, dass seine deutliche Unterstützung für Globke ein Signal an die westdeutsche Bevölkerung war, vor allem an die, die auf die eine oder andere Weise am NS-System mitgewirkt hatten, dass ihnen eine zweite Chance gegeben wird, auch wenn er das nie offen gesagt hat. Das waren Millionen, die sonst schwer zu integrieren gewesen wären.

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    Hans Globke war in der NS-Zeit Mitverfasser und Kommentator der Nürnberger Rassengesetze und verantwortlich für die Namensänderungsverordnung von 1938, durch die Juden erkennbar gemacht wurden.Bundesarchiv, B 145 Bild-F015051-0008 / Patzek, Renate / CC-BY-SA 3.0

    Braun: Ich habe mich mit dem Gesundheitswesen in der BRD und der DDR beschäftigt, und da sieht man, dass auch in der DDR im Dienste des Aufbaus manchmal ein Auge zugedrückt wurde. Maxim Zetkin, der Sohn von Clara Zetkin und ein überzeugter Kommunist, wehrte sich Anfang der Fünfzigerjahre gegen Bestrebungen, alle Ärzte mit NS-Belastung auszusortieren: Man verliere dann zu viele Fachkräfte. Es gab damals einen regelrechten Broschürenkrieg: Die Westseite hat die Nazis im Osten aufgeschrieben und die Ostseite die Nazis im Westen. Im Verlauf der Zeit wandelt sich das. In den 70er-Jahren wurde Klaus Bölling Sprecher der Bundesregierung, der in Potsdam geboren wurde, selbst kurz in der SED war und dessen Mutter als Jüdin ins KZ Auschwitz deportiert worden war. Das war ein Generationswechsel, der die eingespielte Ost-West-Feindschaft und ihre erlernten Muster und Reflexe erschwert hat.

    Schaarschmidt: Dieser wichtige Wandel setzte allerdings schrittweise und spät ein, was auch mit Globkes Personalpolitik zusammenhängt. Der starke personelle Wandel kommt erst ab 1969, dann ändern sich auch Politikstile, das stellt unsere Kollegin Nadine Freund dar. Sie macht es am Beispiel des Verhältnisses von Männern und Frauen deutlich, das sich erst ändert, als nicht mehr die Leute mit sehr traditionellen Geschlechter- und Gesellschaftsvorstellungen in Amt und Würden sind. Für die Integration der westdeutschen Gesellschaft und die Legitimation des politischen Personals war aber vor allem der Antikommunismus sehr wichtig.

    Als Antikommunist stand man auf der richtigen Seite

    Inwiefern?

    Schaarschmidt: Er war in der BRD das Schmiermittel, welches es selbst den schlimmsten Antisemiten ermöglichte, wieder zu einer Funktion zu kommen. Als Antikommunist positionierte man sich im Systemkonflikt auf der richtigen Seite. Nach dem Motto: Egal was wir vorher gemacht haben, jetzt sind wir Antikommunisten und stehen im antitotalitären Kampf auf der Seite der Westmächte. Das Pendant dazu war der Antifaschismus in der DDR, der nicht nur die SED-Diktatur legitimierte, sondern den Menschen im Osten die Möglichkeit eröffnete, sich in die Gesellschaft der DDR zu integrieren, egal, was sie bis 1945 getan und gedacht hatten.

    Das Selbstverständnis der DDR als antifaschistischer Staat und die Behauptung, man habe sich wesentlich gründlicher entnazifiziert als die BRD, stimmt doch aber, oder?

    Schaarschmidt: Wenn man sich die frühen Entlassungen aus dem Justizapparat oder der Lehrerschaft in der DDR anschaut und im Vergleich dazu die Kontinuitäten in der westdeutschen Justiz, ist das gar keine Frage.

    Man bekommt angesichts Ihrer Studie den Eindruck, dass die BRD einen langen Weg hin zur Demokratie zurücklegen musste. Sehen Sie einen Bezug zur Gegenwart?

    Braun: Das verlief tatsächlich nicht schlagartig, und das ist auch für die Gegenwart wichtig. Es stellt sich immer aufs Neue die Frage, wo die Grenzen zwischen Demokratie und Diktatur verlaufen, wo sind die Kipppunkte und wo die schleichenden Prozesse – auf dem Weg zur Demokratie oder hinein in eine Diktatur. Auf diese Weise wird klar, dass eine Demokratie auch nicht über Nacht erodiert.

    Schaarschmidt: Ich habe in den Achtzigerjahren studiert und hätte mir nie vorstellen können, mich intensiver mit der Geschichte der Bundesrepublik zu beschäftigen. Diese Erfolgsgeschichte der Kanzlerdemokratie schien mir todlangweilig. Alles war toll und gut. Im Rückblick wird diese Geschichte wesentlich interessanter. Es war ein spannungsreicher Weg hin zur Demokratisierung, zur Liberalisierung, zu dem, was meine Generation in den Achtzigern als parlamentarische Demokratie kennengelernt hat. Doch vieles ist fragil und kann auch wieder infrage gestellt werden.

    Zur Person

    Thomas Schaarschmidt ist seit 2004 wissenschaftlicher Mitarbeiter am Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung und unterrichtet an der Universität Potsdam. Er studierte in Bonn und habilitierte sich 2004 an der Universität Leipzig. Seine Forschungsschwerpunkte sind die Gesellschaftsgeschichte moderner Diktaturen und Erinnerungskulturen. Zurzeit bereitet er eine Publikation über die Geschichte des ostdeutschen Handwerks in der Ära Honecker und nach dem Fall der Mauer vor.

    Jutta Braun, geb. in Köln, Studium der Neueren und Osteuropäischen Geschichte und Sinologie in München, ist Leiterin der Abteilung „Regime des Sozialen“ am Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam, 2019 Zeitgeschichte-digital-Preis, Publikationen zu u.a. Bundespresseamt, Ministerien sowie Kunst- und Sportpolitik im NS und geteilten Deutschland.

    #Allemagne #mazis #RFA #gouvernement #histoire #iatrocatie

  • Alfred Brendel - Haydn: Sonata Hob. XVI/49 & Mozart: Sonata K457 (2000)

    via https://diasp.eu/p/17705894

    in memoriam #AlfredBrendel (1931 - 2025)
    https://de.wikipedia.org/wiki/Alfred_Brendel

    https://www.youtube.com/watch?v=OfGscfrEOKo

    22.11.2017 (on Youtube) - 45 min.

    FRANZ JOSEPH #HAYDN

    Piano Sonata in E-flat major, Hob. XVI/49, L.59
    https://en.wikipedia.org/wiki/Piano_Sonata_Hob._XVI/49

    00:00:16 I. Allegro
    00:08:02 II. Adagio e cantabile
    00:17:26 III.Finale: Tempo di Menuet

    WOLFGANG AMADEUS #MOZART

    Piano Sonata No.14 in C minor, K.457
    https://de.wikipedia.org/wiki/Klaviersonate_Nr._14_(Mozart)

    00:21:42 I. Allegro molto
    00:30:15 II. Adagio
    00:39:17 III. Allegro assai

    ALFRED BRENDEL, #piano / #Klavier
    Filmed in the Snape Maltings Concert Hall, Suffolk, UK, July 2000

    #Musik #musique #music

  • La Belgique renforce les contrôles policiers sur son territoire pour lutter contre l’immigration irrégulière - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/65274/la-belgique-renforce-les-controles-policiers-sur-son-territoire-pour-l

    La Belgique renforce les contrôles policiers sur son territoire pour lutter contre l’immigration irrégulière
    Par Clémence Cluzel Publié le : 20/06/2025
    Les autorités belges ont annoncé jeudi renforcer dès cet été les contrôles policiers sur son territoire. Il ne s’agit pas de contrôles aux frontières, mais en interne, qui se concentreront sur les axes routiers, dans les trains et les bus du pays. Ces opérations visent à vérifier les titres de séjour et cartes d’identité des personnes, et de renvoyer les exilés en situation irrégulière hors de Belgique.
    La Belgique va renforcer dès cet été les contrôles policiers sur son territoire dans le cadre de la lutte contre l’immigration irrégulière, ont annoncé jeudi 19 juin le ministre de l’Intérieur Bernard Quintin et la ministre de l’Asile et de la Migration, Anneleen Van Bossuyt, sur la chaine flamande VTM.
    Il ne s’agit pas de contrôles aux frontières, mais en interne. Ils auront lieu sur les axes routiers principaux et au niveau des aires d’autoroutes très fréquentées. Ils seront également effectués à bord des lignes de bus internationales, particulièrement la ligne La Panne-Dunkerque, ainsi que dans certains trains, notamment au niveau de la gare de Bruxelles-Midi. Les arrivées de vols intérieurs à l’espace Schengen considérés comme étant des pays soumis à une forte pression migratoire, comme l’Italie et la Grèce, seront également concernés.
    Concrètement, les policiers vont vérifier les titres de séjour et cartes d’identité des personnes. Le but de ces opérations est d’identifier les personnes sans papiers ou celles ayant déjà demandé l’asile dans un autre pays européen, et de les renvoyer du sol belge. Elles visent aussi à renforcer la lutte contre la criminalité organisée (trafic de drogue et traite des êtres humains), assurent les autorités.
    « Nous assumons nos responsabilités en effectuant des contrôles stricts et ciblés aux carrefours stratégiques. Nous luttons ainsi contre les flux migratoires clandestins et empêchons le déplacement de la pression migratoire vers la Belgique, tout en luttant plus efficacement contre la criminalité afin de renforcer la sécurité sur notre territoire », a déclaré le ministre Quintin.
    Ces actions seront menées grâce à une étroite collaboration entre les services de la police fédérale, la police locale et l’Office des étrangers, un service du ministère qui statue sur les dossiers des demandes d’asile. Ce rapprochement entre ces différentes structures est vivement critiqué par les ONG des droits humains, pour qui cela traduit une criminalisation des étrangers, y compris les demandeurs d’une protection internationale.
    La ministre de l’Asile et de la Migration, Anneleen Van Bossuyt, avait réaffirmé quelques semaines plus tôt sa volonté de mettre en place « la politique migratoire la plus stricte que la Belgique ait connu », comme le rapportait le média La Libre Belgique. « La pression sur la société est trop forte. L’afflux doit diminuer », a-t-elle défendu, soulignant des flux migratoires en constante évolution ces dernières années. Quelques 39 000 demandes d’asile ont été déposées en 2024, soit une hausse de 12% par rapport à l’année précédente, qui, comme 2022, avait connu une baisse significative. La ministre a affirmé que la Belgique entend désormais renforcer sa fermeté à l’égard de l’immigration irrégulière et des demandes d’asile introduites successivement dans plusieurs pays européens, une pratique qu’elle qualifie de « shopping de l’asile ».
    Depuis sa prise de fonction en février dernier, le gouvernement nationaliste flamand de Bart de Wever a multiplié l’adoption de mesures répressives afin de lutter contre l’immigration illégale. Limitation du regroupement familial, restriction de l’accès à la citoyenneté belge, politique de renvoi des personnes déboutées dans leur demande de protection, suppression de structures d’accueil des migrants y compris des centres pour les mineurs étrangers non accompagnés (MNA), exclusion des hommes seuls des centres d’accueil, ou encore réduction de l’accès des réfugiés aux aides sociales... sont autant de restrictions et limitations rentrées en application ces derniers mois.
    Dans le même temps, une coupe drastique est prévue prochainement dans le budget alloué à la politique de l’asile.Ce durcissement de politique contre les migrants s’observe également dans les pays voisins, confrontés eux aussi à une montée des partis nationalistes et d’extrême-droite. L’Allemagne a ainsi rétabli le contrôle à ses frontières à l’été 2024, suivi par les Pays-Bas en novembre 2024. Le même mois, la France a instauré des contrôles temporaires, prolongés jusqu’au 31 octobre 2025, avec six de ces pays voisins (Luxembourg, Belgique, Italie, Espagne, Suisse, Allemagne). « Les gens qui se déplacent d’un pays à l’autre, c’est une réalité. Prétendre que l’on peut y mettre un terme grâce à des contrôles aux frontières, surtout entre les pays européens où la libre circulation est possible, est totalement absurde », a réagi le député fédéral écologiste Matti Vandemaele, cité par La Libre Belgique. « Les frontières belges font 1 445 kilomètres de long. Que veut faire la ministre ? Installer un poste de garde tous les dix mètres ? » interroge-t-il.
    Depuis 2021, la crise de l’accueil des migrants en Belgique continue de s’enliser. Les centres d’accueil sont engorgés faute de places suffisantes et les longs délais d’attente pour le traitement des demandes d’asile (plus d’un an en moyenne) exacerbent plus encore la situation. Fin 2024, environ 3 000 demandeurs d’asile, majoritairement des hommes, étaient en attente d’une place d’hébergement dans le réseau d’accueil national (Fedasil). Le délai moyen pour un homme seul est d’environ six mois avant d’obtenir une place dans l’un de ces centres. En attendant, les migrants survivent à la rue ou dans des squats, dans des conditions indignes.
    La Belgique a plusieurs fois été épinglée, dont en septembre dernier, par le Conseil de l’Europe pour son non-accueil des demandeurs d’asile. Les autorités belges ont ainsi été sommées d’augmenter la capacité de son réseau d’accueil, qui ne respecte pas les décisions de la Cour européenne des droits de l’Homme (CEDH). Mais malgré les rappels à l’ordre, le gouvernement belge persiste dans sa volonté de réduire la capacité d’accueil des migrants dans les centres dédiés à cet effet. Pour la ministre de l’Asile et de la Migration, la baisse combinée du nombre d’arrivées de migrants et la hausse des retours des personnes en situation irrégulière dans leur pays d’origine ou dans des pays tiers permettent de justifier cette réduction du nombre de places disponibles dans les centres d’accueil en Belgique.

    #Covid-19#migrant#migration#belgique#UE#allemagne#CEDH#asile#droit#sante#politiquemigratoire#paysbas#frontiere

  • #Zohran_Mamdani : un radical à la mairie de #New_York ?
    https://lvsl.fr/zohran-mamdani-un-radical-a-la-mairie-de-new-york

    Avec son programme de gratuité des bus et des crèches, de contrôle des loyers et d’épiceries municipales, le candidat de #gauche Zohran Mamdani pourrait renverser le baron démocrate corrumpu #Andrew_Cuomo. Une victoire de la mairie de New York qui enverrait un signal fort d’opposition face à #Trump.

    #Politique #alexandria_ocasio_cortez #Bernie_Sanders #démocrates #DSA #Eric_Adams #Etats-Unis #socialiste

  • Mer Méditerranée : 175 000 migrants secourus par des ONG allemandes depuis 10 ans - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/65258/mer-mediterranee--175-000-migrants-secourus-par-des-ong-allemandes-dep

    Mer Méditerranée : 175 000 migrants secourus par des ONG allemandes depuis 10 ans
    Par Charlotte Boitiaux Publié le : 19/06/2025
    Plusieurs ONG allemandes en mer, dont Sea-Eye et Sea-Watch, ont indiqué mercredi avoir secouru 175 000 exilés en mer Méditerranée centrale entre 2015 et 2025. Les humanitaires demandent depuis des années à Bruxelles de créer une force européenne de sauvetage dans cette zone maritime extrêmement meurtrière, pour ne plus laisser la responsabilité des secours à la seule société civile.
    Les ONG de sauvetage en mer sous pavillon allemand ont secouru plus de 175 000 migrants en Méditerranée depuis 10 ans, ont indiqué mercredi 18 juin plusieurs organisations humanitaires allemandes qui ont exhorté les États « à enfin prendre leurs responsabilités ». Un chiffre qui pourrait être encore plus important si l’on ajoute le bilan d’autres ONG, notamment celui de SOS Méditerranée - qui a secouru plus de 42 000 personnes depuis sa création en 2015.
    Ces organisations humanitaires (dont Sea-Eye, Sea-Watch, SOS Humanity, ResQ-People…) « sont financées par des dons et soutenues par une large base sociale, mais la pression sur nous augmente », a alerté Mirka Schäfer, porte-parole de l’ONG allemande SOS Humanity."[Heureusement] le soutien de la société au sauvetage civil en mer est resté intact", a ajouté Sandra Bils du collectif United4Rescue (qui réunit plusieurs ONG allemandes), citant le soutien constant de villes, de syndicats, de crèches mais aussi d’entreprises. « Et ce malgré tous les obstacles [...] ».
    Dans le viseur des ONG : le décret italien Piantedosi, notamment. Ce texte a introduit en 2022 une série de mesures qui régissent les activités des navires de sauvetage en Méditerranée. Et en tête de pont, celle qui oblige les ONG à se rendre « sans délai » au port de débarquement assigné par les autorités italiennes juste après un premier sauvetage. Généralement un port très éloigné de la zone de sauvetage, déplorent les humanitaires. Selon un rapport de SOS Méditerranée publié en février 2025, les bateaux d’ONG ont ainsi perdu 735 jours à rejoindre des ports de débarquements et parcouru au total plus de 275 000 km. Certains navires ont même jeté l’éponge. C’est le cas du Geo Barents de Médecins sans frontières, qui a mis fin à ses activités en Méditerranée centrale en décembre 2024, lassé des restrictions imposées par les autorités italiennes.
    Depuis 10 ans aussi, les drames s’enchaînent : plus de 25 000 personnes sont décédées ou ont disparu en Méditerranée centrale d’après l’Organisation internationales des migration (OIM). Et selon les dernières estimations de l’agence onusienne pour l’enfance (Unicef), environ 3 500 enfants sont décédés dans la même zone entre 2014 et 2024. Cela représente une moyenne d’un décès par jour pendant 10 ans.
    Dans cette région maritime se trouvent non seulement des navires humanitaires et les avions des ONG – comme le Sea Bird - mais aussi des patrouilleurs libyens et les drones de Frontex, l’agence européenne de surveillance des frontières. Reste que la zone est immense et la présence de tous ces bâtiments n’est pas une garantie de secours. Beaucoup d’embarcations passent inaperçues dans l’immensité de la mer. Beaucoup de canots sombrent sans avoir été repérés. C’est pour cette raison que Mirka Schäfer de SOS Humanity demande aux États membres de l’Union européenne (UE) d’agir collectivement pour être plus efficace, « d’enfin prendre leurs responsabilités » et d’organiser un programme de sauvetage commun.
    Actuellement, les Vingt-sept « laissent sciemment des milliers de personnes se noyer ou être emmenées dans des camps de torture » en Libye, en ignorant les appels de détresse ou en entravant le travail des équipes de sauvetage civiles, dénonce-t-elle.
    L’entrave qu’évoque la porte-parole vise surtout les gardes-côtes libyens, autorisés par Bruxelles à mener des opérations d’interception de migrants en mer Méditerranée, dans les eaux internationales. Depuis un accord signé en 2017, en effet, la coordination des sauvetages en Méditerranée centrale est assumée par Tripoli, et non par le centre de coordination de sauvetage maritime (MRCC) de Rome ou de La Valette, à Malte, comme c’était le cas auparavant. Les migrants secourus dans les eaux internationales sont par conséquent ramenés vers la Libye.
    Pourtant, le comportement des gardes-côtes de Tripoli a été maintes fois dénoncées par les ONG pour leur brutalité envers les exilés et leur méconnaissance du droit maritime international. Les Libyens empêchent parfois aussi le déroulement d’un sauvetage en mer en s’opposant aux ONG, en les menaçant, voire en tirant des coups de feu.
    En raison de cette violence en mer - et pour protester contre le retour forcé des migrants en Libye – les ONG appellent à mettre fin à cet accord UE-Tripoli.Deux organisations Refugees in Libya et Front-LEX ont même porté plainte contre Frontex, en 2024, pour que l’agence cesse ses activités en Méditerranée centrale. Les deux associations lui reprochent de communiquer quasi-systématiquement avec les Libyens pour leur fournir les données de géolocalisation des canots en détresse. Aux yeux des plaignants, Frontex se rend donc complice des crimes commis par le pays (débarquements forcés en Libye, détentions arbitraires de migrants, meurtres, tortures, viols...).
    Selon le décompte des ONG réalisé depuis 2015, 336 000 personnes ont ainsi été renvoyées illégalement en Libye (et en Tunisie). Et selon l’OIM, ils sont 10 600 depuis le début de l’année à avoir été ramenés dans le pays. Parmi eux, 9 000 hommes et environ 1 000 femmes.
    Les ONG en mer appellent aussi leur propre pays à agir, en l’occurrence l’Allemagne. Berlin doit « créer des voies migratoires sûres et légales » sans quoi les renvois vers la Libye se poursuivront, a réclamé Giulia Messmer, porte-parole de Sea-Watch. Concrètement, les humanitaires recommandent à l’UE de s’inspirer de « Mare Nostrum », la grande opération de sauvetage mis en place par la marine italienne entre 2013 et 2014 – lancé après un dramatique naufrage en 2013 qui avait fait 368 noyés. Mare Nostrum n’aura pourtant vécu qu’un an avant d’être remplacé par un dispositif européen moins ambitieux, Triton, arrêté lui aussi en 2018, puis relayé par Themis puis actuellement par Irini.

    #Covid-19#migration#migrant#mediterranee#libye#tunisie#allemagne#humanitaire#sante#protection

  • Israël fait « le sale boulot pour nous tous » en Iran : polémique en #Allemagne après les propos du chancelier Friedrich Merz
    https://www.franceinfo.fr/monde/conflit-israel-iran/israel-fait-le-sale-boulot-pour-nous-tous-en-iran-polemique-en-allemagne-

    Lors du G7, le dirigeant a ouvertement soutenu l’attaque d’Israël contre la République islamique, dans des termes qui ont choqué une grande partie de la classe politique allemande.

    Le sale boulot avec des armes ben d’chez nous
    https://seenthis.net/messages/1120641
    Après le G7 tout le monde au Bourget.
    https://mamot.fr/@obsarm

    Ce lundi 16 juin s’ouvre le salon international de l’aéronautique et de l’espace au Bourget jusqu’au 22 juin. Contrairement au salon d’Eurosatory en juin 2024 et d’Euronaval en novembre dernier, #Israël sera présent alors que la guerre contre Gaza s’intensifie. À cette occasion, l’Observatoire des #armements publie une nouvelle note qui révèle comment des entreprises françaises, présentes au salon, poursuivent leur coopération avec Israël.

    #marchands_de_canons

    L’usine nucléaire se fait inspecter - Les Simpson - Saison 2 - Épisode 04 - 1990
    https://video.antopie.org/w/bMTRFMfjdFRH4dE4k3gjZD

  • La profession d’enseignant-chercheur aux prises avec le #nouveau_management_public

    Ce texte se propose d’analyser différents impacts de la #néolibéralisation de l’enseignement supérieur et de la recherche (ESR) sur le contenu et les #conditions_de_travail des enseignants-chercheurs (EC). L’analyse s’appuie sur les résultats d’une enquête menée entre 2020 et 2022 sur la nature, les causes et les effets des mutations du #travail des EC. Cette recherche visait dans un premier temps à objectiver les évolutions et à saisir les représentations des acteurs à leur sujet. Le second temps entendait analyser les raisons et les vecteurs de ces évolutions. Outre la mobilisation de sources bibliographiques, trois outils ont servi à recueillir des données. Un questionnaire adressé en ligne aux membres des différentes sections du CNU et aux EC en poste dans cinq établissements (aux tailles, localisations et statuts variés), à l’exception de ceux du domaine de la santé [1] a permis de travailler sur 684 réponses complètes reçues. Des entretiens semi-directifs (de 30 à 90 minutes) ont ensuite été menés avec 108 répondants au questionnaire, avec 5 présidents ou vice-présidents d’université (en poste au moment de l’échange) et avec des représentants de 6 syndicats (SNESup, SNESup école émancipée, CFDT, CGT, FO et Sud) [2]. Des résultats provisoires ont enfin été discutés au cours de 7 séminaires réunissant des EC dans le but d’alimenter la réflexion et l’analyse finale. Le livre Enseignants-chercheurs. Un grand corps malade (Bord de l’eau, 2025) rend compte de façon détaillée des résultats de cette recherche.

    On montrera d’abord comment la mise en œuvre des principes du nouveau management public (#NMP) dans l’ESR a entraîné simultanément un alourdissement et un appauvrissement des tâches d’enseignement, de recherche et d’administration incombant aux EC. On abordera ensuite les effets de #surcharge et de #débordements du travail que produisent ces transformations du travail des EC ainsi que les impacts que cela engendre sur leur #moral, leur #engagement et leur #santé.

    Le travail des EC alourdi et appauvri sous l’effet de la #néo-libéralisation et du NMP

    La #néo-managérialisation de l’ESR a démarré dans les années 1990, sans qu’il s’agisse d’une #rupture absolue avec une #université qui aurait jusque-là échappé aux logiques capitalistes dominantes. Parlons plutôt d’une évolution marquée par l’adoption et l’adaptation des principes du néolibéralisme. Promus par la Société du Mont Pèlerin fondée en 1947, puis mis en œuvre à partir des années 1980 (par Thatcher et Reagan), ces principes prônent une réduction des missions et des coûts des services publics s’appuyant sur une gestion comparable à celle des entreprises privées. Il s’agit de rationaliser leur organisation et de réduire leurs budgets, d’instaurer une mise en concurrence interne (entre établissements, départements, équipes et collègues) et externe (avec des organisations privées fournissant des services de même nature), de viser leur rentabilité et de mesurer leur performance. Cela a conduit à favoriser le fonctionnement en mode projet, la diversification des financements en valorisant les #PPP (partenariats public/privé), l’évaluation sur #indicateurs_quantitatifs, les #regroupements… Les objectifs fixés étant l’#efficacité plutôt que l’#équité, l’#efficience plus que l’#utilité_sociale, la #rentabilité avant la qualité de service.

    Ce programme s’applique donc dans l’ESR français à partir des années 1990. En 1998, le #rapport_Attali « Pour un système européen d’enseignement supérieur » répond à une commande de #Claude_Allègre (ministre de l’Éducation nationale, de la Recherche et de la Technologie de 1997 à 2000) qui entend « instiller l’#esprit_d’entreprise dans le système éducatif » (Les Échos, 3 février 1998), une #orientation qui constitue une injonction à visée performative. Dans les établissements, et notamment les #universités_publiques, cette orientation va être conduite par des équipes comptant de plus en plus de technocrates et de managers formés et rompus à l’exercice du NMP qui entendent faire fonctionner une logique inscrite dans la droite ligne du « processus de production, de diffusion et de légitimation des idées néo-managériales en France depuis les années 1970 [3] »

    Le rapport Attali propose un cadre européen inspiré d’orientations de l’OCDE. Lors de la célébration du 800e anniversaire de la Sorbonne, toujours en 1998, les dirigeants français, allemand, britannique et italien lancent un appel pour « un cadre commun de référence visant à améliorer la lisibilité des diplômes, à faciliter la mobilité des étudiants ainsi que leur employabilité ». Dès 1999, 25 autres pays européens signent cet appel et donnent naissance au « #processus_de_Bologne » destiné à créer un Espace européen de l’enseignement supérieur avant 2010. En mars 2000, l’Union européenne rejoint ce projet, qui débouche sur la #stratégie_de_Lisbonne proposant de créer un « #marché_de_la_recherche ». C’est dans ce contexte qu’intervient la #bureaucratisation_néolibérale de l’ESR français qui va transformer la « #gouvernance » de l’ESR, ainsi que le travail et les conditions de travail de ses salariés, dont celles des EC.

    Parallèlement à la dégradation des #taux_d’encadrement (notamment en licence [4], avec des variations entre disciplines et établissements) et aux baisses d’effectifs et de qualification des personnels d’appui, les EC assument des tâches liées à l’enseignement de plus en plus nombreuses, diverses et complexes. Il s’agit notamment d’un travail d’#ingénierie_pédagogique de plus en plus prenant, d’une coordination de plus en plus fréquente d’équipes pédagogiques comprenant des précaires en nombre croissant (dont ils doivent aussi assurer le recrutement et le suivi), de réponses aux injonctions à la « #professionnalisation » (impliquant de faire évoluer les contenus de formation, en réécrivant les maquettes de diplôme en « compétences » [5], en multipliant le nombre de #stages à encadrer et en travaillant sur les #projets_professionnels des étudiants), d’une #complexification de l’#évaluation des étudiants due à la #semestrialisation, à des délais de correction raccourcis, à la « #concurrence » du web et désormais de l’IA et d’une prise en charge d’activités de #marketing et de #communication destinées à vanter, voire à « vendre », les diplômes, les parcours, l’établissement.

    - « On subit une accumulation de #micro-tâches, qui devient chronophage même si c’est souvent des bonnes idées. Par exemple, l’université nous demande de présenter les masters en faisant venir d’anciens étudiants, ce qu’on fait déjà deux fois pour les étudiants de L3 et aux journées portes ouvertes. Ils nous demandent de faire une présentation de plus pour diffuser plus largement sur des plateformes et toucher un public plus large. […] Autre exemple, on nous demande de refaire un point sur les capacités d’accueil de nos masters, et il faut refaire le travail. […] En fait, toute l’année on nous demande des #petits_trucs comme ça. » (PU en sciences de l’éducation et de la formation, en université).

    Une même dynamique opère du côté de la recherche, les activités sont aussi accrues et diversifiées dans un contexte de raréfaction des personnels d’appui, notamment en lien avec la #concurrence aiguisée entre chercheurs, entre labos, entre UFR, entre établissements. Cette évolution c’est aussi la baisse des #budgets_récurrents et la chasse aux #financements, en répondant à des #appels_à_projets émanant de institutions publiques (ANR, ministères, UE) ou d’acteurs privés, la course aux #publications dans les revues classées, en anglais pour certaines disciplines, la multiplication des #évaluations par les établissements, les agences (AÉRES puis #HCÉRES…), les tutelles, le ministère, l’œil rivé sur les classements, notamment celui de Shanghai.

    - « Une partie du temps, on est plus en train de chercher des budgets et de faire du #reporting que de faire la recherche elle-même. Sans compter qu’il faut publier pour être valorisé. Il y a des collègues dont on se demande ce qu’ils publient, parce que leur temps de recherche en fait, c’est du temps d’écriture, mais on ne sait pas sur quoi. » (PU en civilisation américaine en université).
    - « Si on regarde les laboratoires, il y a beaucoup de chercheurs et peu de personnels associés. Nécessairement, les EC doivent faire face à plus de tâches administratives. Et d’autre part, il y a des choses qui ont été formatées, il faut remplir des fichiers, des indicateurs, cela fait beaucoup de tâches administratives à réaliser. » (PU en électronique en IUT).

    À cela s’ajoutent les activités de sélection, de recrutement et de management des étudiants et des doctorants sur des plateformes aux performances discutables (#ParcoursPlus, #Mon_master, Adum), des ATER, des postdocs et des enseignants vacataires et contractuels, ainsi que de titulaires lorsqu’il faut siéger en comité de sélection quand des postes de MCF et PU (Professeur d’Université) sont ouverts. Il faut ici souligner la #surcharge spécifique pesant sur les #femmes, notamment PU, compte tenu des règles de parité (un COS doit compter au moins de 40% de membres de chacun des deux genres) et des inégalités de #genre dans les carrières [ 7].

    Les EC doivent aussi prendre en charge des activités d’information, d’évaluation et de valorisation à destination de divers instances et organismes, dans des délais souvent courts, au moyen d’outils numériques plus ou moins fiables et compatibles. Ces comptes à rendre portent en particulier sur la qualité des cursus, les débouchés professionnels et les taux d’insertion des diplômés, les coûts en heures et en masse salariale des cours, des TD et des TP, les résultats en termes de présence aux examens, de notes, de diplômés, d’abandons en cours de cursus…

    – « Je me sens être très gestionnaire, animatrice, gentille organisatrice une grande partie de mon temps. C’est quelque chose que je n’avais pas du tout anticipé en entrant dans ce métier, parce que je ne pensais pas avoir autant de #charges_administratives. […] Dès la 3è année après mon recrutement, j’étais directrice des études, à faire des emplois du temps, recruter des vacataires, travailler un petit peu le contenu de leurs interventions, mais je devais surtout faire des RH, essayer que ça convienne à chacun, récupérer les papiers qu’on lui demandait pour qu’il soit payé, etc. » (MCF en sociologie en IUT).

    On a ainsi assisté à un double mouvement d’alourdissement er d’appauvrissement du travail des EC sous les effets combinés des injonctions à la professionnalisation (la #loi-LRU de 2007 a ajouté « l’orientation et l’insertion » aux missions de l’ESR) et aux attentes des tutelles en la matière ainsi que des normes budgétaires strictes et des critères « d’#excellence » qui concrétisent l’essor des logiques et des modes de gestion du NMP et la #managérialisation de l’ESR (comparable à ce qu’a connu l’Hôpital,). Il en découle un ressenti fréquent de #perte_de_sens et un #malaise profond.

    – « Il faut se bagarrer pour trouver à garder du #sens au métier. Ça c’est très clair. […] On nous impose les choses, donc effectivement, il y a une perte de sens, enfin je ne sais pas si c’est une perte de sens mais on a une perte de la maîtrise de notre métier. »(MCF HDR en didactique de l’histoire en Inspé).
    - « Quand j’ai démarré au début des années 2000, j’avais l’impression d’être en phase avec mon travail et peut-être plusieurs de mes collègues aussi. J’ai l’impression qu’il y avait une sorte de vision collective partagée. Cette vision collective partagée, je la sens moins parce que je sens des #découragements, je sens des #lassitudes. Le partage de la mission de chercheur, c’est plus compliqué et le partage de la vision de la mission d’enseignement pour moi, elle est galvaudée. » (MCF HDR en chimie en université).

    Le #moral et la santé des EC pâtissent des #surcharges et débordements vécus par les EC.

    La détérioration des situations de travail vécue par les EC produit des effets à la fois sur leur état moral, leur #engagement_professionnel et leur état de santé. Les surcharges combinées au sentiment de ne plus pouvoir faire leur travail correctement sont à l’origine de nombreuses #souffrances. Leur travail a été peu à peu alourdi par une accumulation de tâches dont une partie tient à la #procédurisation qui concrétise « la #bureaucratisation_néolibérale ». Cela nourrit un important « #travail_caché », invisibilisé et non rémunéré, qui conduit à la fois à accroître et à hacher l’activité.

    Il en découle des #surcharges_temporelles (extension de la durée du travail professionnel), des #surcharges_mentales (dues à l’accumulation de sujets et de préoccupations) et des #surcharges_cognitives (liées aux changements récurrents de registres d’activité).

    - « L’université française s’écroulerait si nous ne consentions pas à faire un travail parfois considérable gratuitement ou presque. » (PU en langue et civilisation)

    L’#intensification_du_travail qui passe par un accroissement du travail invisible, ou plus justement invisibilisé, des EC, implique des débordements fréquents de leur vie professionnelle sur leur #vie_personnelle (aussi bien du point de vue du temps que de celui des lieux). Ce phénomène a été aggravé par l’usage d’outils (téléphone mobile, micro-ordinateur, tablette) et de dispositifs techniques (mails, réunions et cours à distance, remontées de datas, recherches sur le web) qui favorise le travail en tout lieu et à tout moment, et donc le brouillage des frontières entre travail et hors-travail.

    - « Je pense que tous les collègues font un peu comme moi, le temps d’écriture des articles est pris surtout sur le samedi et le dimanche, donc sur le temps personnel, en fait. Parfois, les conjoints ont du mal à s’y faire, mais moi non, mon conjoint est un chercheur. Globalement, on travaille tous les jours. Sinon, ça ne passe pas. Ou alors, on ne fait que de l’enseignement et on écrit un article par an. » (PU en histoire du droit en université).

    Le débordement temporel et spatial est un fait massif difficile à mesurer pour les EC car ceux-ci, comme tous les enseignants, ont toujours travaillé à la fois sur leur lieu de travail et à leur domicile ou en vacances (pour préparer des cours, corriger des copies et des mémoires, lire et écrire des travaux scientifiques, tenir des RV et réunions à distance).

    La porosité des frontières entre lieux de travail et de vie, entre temps de travail et hors-travail est ambivalente. D’un côté, elle permet aux EC de choisir où et quand ils travaillent, à l’inverse de la plupart des salariés. Cette souplesse d’organisation procure un sentiment de liberté, et une liberté réelle, qui facilite la conciliation entre obligations professionnelles et activités personnelles, domestiques, familiales. Mais, c’est aussi un piège qui met en péril la vie personnelle et familiale en impliquant une absence de limite aux temps et aux espaces consacrés au travail. Ce risque est d’autant plus grand que ce sont souvent les activités de recherche (à la fois les plus appréciées et les plus empêchées au quotidien) qui trouvent place en dehors des lieux et temps de travail. Beaucoup d’EC en viennent alors à accepter, voire à rechercher, ces débordements du travail pour retrouver le plaisir de faire ce qu’ils aiment dans un contexte plus favorable qu’au bureau (environnement calme et agréable) et à l’abri de sollicitations multiples (passages, appels téléphoniques, mails urgents, etc.). Ne peut-on évoquer ici une forme d’#aliénation, voire de « #servitude_volontaire » ? Cela rappelle ce que différentes enquêtes ont montré chez des cadres du secteur privé qui, en travaillant chez eux, y compris le soir, le week-end ou en congé, retrouvent comme ils le disent une « certaine continuité temporelle » et un « cadre spatial favorable à la #concentration ».

    - « Il faut avoir le #temps de faire sa recherche, on est dans une espèce de course à l’échalote permanente. Moi, j’ai eu beaucoup de chance, je ne veux pas cracher dans la soupe, j’ai pu travailler sur ce que je veux, et après à moi de trouver de l’argent. Mais, c’est un métier où ça peut être très dangereux si on ne trouve pas son équilibre. Moi, ça m’a coûté certaines choses au niveau personnel [un divorce !] parce qu’il est arrivé un moment donné où je ne dormais plus la nuit parce que je voyais tout ce que je n’avais pas eu le temps de faire. J’ai eu besoin de faire un travail sur moi pour me ressaisir et me dire que si je n’avais pas fait ça ou ça, ce n’était pas si grave, personne n’est mort à cause de ça, on se détend. J’ai eu de la chance, j’ai refait ma vie avec quelqu’un qui est professeure des écoles donc avec un rythme peu différent ». (MCF en chimie en université).

    Les inégalités de prise en charge des tâches domestiques, familiales et éducatives entre femmes et hommes, auxquelles n’échappent pas les EC, conduisent à exposer de nombreuses EC à des difficultés spécifiques (contribuant aux inégalités de déroulement de carrière à leur détriment), d’autant que la façon d’exercer le métier, de gérer les relations avec les étudiants et de prendre des responsabilités est aussi marquée par des différences de genre.

    – « Cette intensification du temps de travail s’est encore accrue au moment de mon passage PU, avec certains moments de l’année où pour pouvoir conduire mon activité et honorer mes engagements professionnels, je dois sacrifier tous mes week-ends sur une longue période. […] Il me semble que cette intensification tient aussi à une division sexuée du travail présente dans nos composantes : nombre de mes collègues hommes ayant longtemps refusé de prendre des responsabilités, en tous les cas les responsabilités chronophages et peu qualifiantes dans les CV ». (MCF en communication).
    – « Les femmes sont plus touchées que les hommes car elles assument les responsabilités de care pour les étudiants mais aussi pour leurs proches descendants ou ascendants de manière très déséquilibrée par rapport aux hommes. La charge mentale des femmes EC est très lourde. Concilier maternité et ESR (et donc espérer voir évoluer sa carrière) est mission impossible sauf pour celles qui ont un conjoint ou un réseau personnel sur lesquels s’appuyer. L’explosion des publications émanant d’EC masculins pendant la pandémie en est un bon exemple ». (MCF en anglais).

    Ces débordements s’inscrivant dans un contexte de dégradation de la qualité du travail et des conditions de sa réalisation contribuent à nourrir un sentiment d’#insatisfaction. C’est aussi de la #désillusion et diverses #souffrances_morales mais aussi physiques qui découlent de cette combinaison mortifère entre surcharges, débordements et insatisfaction.

    - « Moi, j’ai beaucoup de désillusions sur mon métier. Beaucoup d’#amertume, en fait. […] Quand on est enseignant-chercheur, on démarre, on est à fond, on en veut, etc. On a plein d’envies, on a plein d’ambition, puis on arrive dans la réalité et on prend un gros coup dans la figure et ça t’arrête net. Parce qu’on te colle tout de suite une responsabilité. […] Et tout ça pour un salaire de m… ! […] Moi je trouve que former des gens comme on les forme pour faire ça, c’est du gâchis franchement. » (Vice-présidente d’une université en poste).

    Ce qui mine et fait mal, comme l’évoquent de nombreux EC quand ils décrivent l’évolution de leur métier, c’est en particulier l’impression de devoir travailler toujours plus avec toujours moins de moyens disponibles, et donc pour un résultat dégradé ; ils ont le sentiment d’un « #travail_empêché » (comme le nomme Yves Clot) parce qu’ils se sentent empêchés de faire un travail de qualité comme ils savent et voudraient le faire ; ils ont des doutes sur la réalité de ce qu’ils font par rapport à ce qu’ils attendent de leur travail et ce qu’ils pensent que doit être le #service_public.

    Beaucoup des EC interrogés durant l’enquête se demandent ce qu’est devenu leur travail, quel sens ils peuvent encore lui donner et quel avenir attend l’université (et plus largement l’ESR). Si la plupart acceptent que le cœur de leur métier dépasse largement les seules activités de base d’enseignement et de recherche, ils doutent de plus en plus de pouvoir faire ce métier, auquel ils sont attachés, dans les règles de l’art telles qu’ils les conçoivent, et en particulier avec l’attention requise et les résultats voulus.

    - « Je pense que le métier d’enseignant-chercheur au-delà des 35 heures, ce n’est pas trop quelque chose de nouveau. Un chercheur, je pense qu’il a toujours beaucoup travaillé le soir. Mais peut-être que maintenant, on n’arrive plus à trouver le temps de tout faire ce qu’on nous demande. Et peut-être que ça, c’est nouveau ». (PU en biologie en IUT).
    – « J’ai vraiment du mal à croire qu’on puisse faire les trois choses ensemble. C’est-à-dire à la fois avoir une activité de recherche de haut niveau, avoir un investissement dans l’enseignement qui permet, enfin selon le critère qui est le mien, de renouveler ses cours extrêmement régulièrement pour ne pas se répéter, et en plus avoir des fonctions administratives ». (MCF en histoire en université).

    Cela fait émerger des questions majeures : à quoi et à qui sert aujourd’hui le travail des EC ? Sont-ils en mesure de réaliser des enseignements et des recherches de qualité ? Que devient le service public de l’ESR ? Ces questionnements rejoignent les trois dimensions majeures du sens du travail énoncées : son utilité vis-à-vis de ses destinataires, le respect de leurs valeurs éthiques et professionnelles, et le développement de leurs capacités.

    – « Il faut se bagarrer pour trouver à garder du sens au métier. Ça c’est très clair. […] On nous impose les choses, donc effectivement, il y a une perte de sens, enfin je ne sais pas si c’est une perte de sens mais on a une perte de la maîtrise de notre métier. » (MCF HDR en didactique de l’histoire en Inspé).

    Les différentes évolutions que nous venons de décrire peuvent s’interpréter comme les signes d’un risque de #déprofessionnalisation, un processus à la fois lent et peu visible prenant la forme d’une remise en cause ce qui fonde leurs « gestes professionnels » et de leur #identité_professionnelle ». Ce dont on parle ici ne concerne pas seulement tel ou tel individu, mais le groupe professionnel des EC à travers trois aspects.

    Le premier élément est une déqualification liée au fait que les EC sont de plus en plus souvent chargés de tâches ne correspondant ni au contenu, ni au niveau de leurs savoirs et de leurs objectifs. La deuxième dimension concerne la perte d’#autonomie à rebours de la #liberté_académique et de l’autonomie affirmées dans les textes. Le troisième aspect est le sentiment massivement exprimé durant l’enquête de l’#inutilité d’une part croissante du travail réalisé par rapport à ce que les EC voudraient apporter à leurs étudiants, et plus largement à la société qui finance leurs salaires, ce qui touche au cœur de l’identité fondant leur profession.

    La managérialisation de l’ESR alimente ce risque de déprofessionnalisation en enrôlant les EC dans les évolutions de leur travail et de leurs conditions de travail qui leur déplaisent, en les conduisant à faire - et pour ceux qui ont des responsabilités à faire faire à leurs collègues - ce qui les fait souffrir et que, pour partie, ils désapprouvent. C’est sans doute une des réussites du NMP que d’obtenir cette mobilisation subjective, comme la nomme la sociologue Danièle Linhart.

    La question de la déprofessionnalisation des EC mérite sans aucun doute d’être approfondie en termes de causes, de manifestations et d’effets. En l’état actuel de l’analyse, c’est une hypothèse à creuser dans le cadre d’un questionnement sur les impacts - et l’efficience - des modes de gestion impulsés par le nouveau management public et la bureaucratisation néolibérale.

    Si cette enquête ne suffit évidemment pas à établir un diagnostic global sur la santé des EC, elle permet néanmoins de mettre à jour des réalités peu connues et alarmantes. Ainsi, le terme épuisement est souvent revenu : il est employé spontanément par 45 répondants au questionnaire (dont 31 femmes). Il est évoqué 10 fois en réponse à la question : « Rencontrez-vous ou avez-vous rencontré des difficultés pour concilier vos différents activités professionnelles (enseignement, recherche, tâches administratives) ? Si oui, lesquelles ? ». Le stress, lui, est explicitement abordé dans 35 réponses (29 femmes) sans compter celles qui parlent du stress des étudiants et des Biatss. 17 répondants (dont 13 femmes) parlent de burn-out. Dans 7 de ces 17 cas, les répondants témoignent de burn-out subi par eux-mêmes ou par un membre de leur équipe au cours des dernières années. Les autres évoquent le risque ou la peur d’en arriver là. Les deux verbatims suivants illustrent l’importance de cette question.

    – « Il y a 20 ans, les réunions pouvaient durer 1 heure, 1 heure et demie. Aujourd’hui, il n’y a pas une réunion du CHSCT qui dure moins de 3 ou 4 heures. Parce qu’il y a un nombre incroyable de remontées au niveau des enseignants-chercheurs. […] Dans notre département, il y a eu pas moins de trois burn-out cette année, avec des arrêts maladie, des demandes de collègues de se mettre à mi-temps. » (PU, élu CGT).
    – « Je pense qu’il faut faire très, très attention. On est sur un fil raide. Ça peut basculer d’un côté comme de l’autre. Et je pense qu’on doit arrêter un peu le rythme, les gens sont fatigués, épuisés, donc il faut qu’on trouve un moyen de minimiser un peu les appels à projets. C’est sur ça qu’on se bat. Les garder, mais en faire moins. […] Bien sûr qu’on manque de moyens et bien sûr qu’il faut qu’on fasse comprendre à notre fichu pays que l’enseignement supérieur et la recherche, c’est un investissement. Je crois à ça profondément. » (Présidente d’une université en poste au moment de l’entretien).

    Pour conclure

    La profession des EC ressent assez largement un #malaise mettant en cause leur activité, voire leur carrière. Face à cela, la plupart des réponses sont aujourd’hui individuelles, elles passent pour certains par différentes formes de #surengagement (débouchant parfois sur du #stress, des #dépressions ou du #burn-out), pour d’autres (et parfois les mêmes à d’autres moments de leur carrière) à des variantes de désengagement (vis-à-vis de certaines tâches) pouvant aller jusqu’à diverses voies d’Exit (mises en disponibilité, départs en retraite avant l’âge limite, démissions très difficiles à quantifier). Les solutions collectives ont été assez décrédibilisées, notamment après l’échec du mouvement anti-LRU. De nouvelles pistes restent à imaginer et à construire pour ne pas continuer à subir les méfaits de la néo-libéralisation de l’ESR et trouver des alternatives aux dégradations en cours.

    [1] La situation des MCF-PH et des PU-PH à la fois EC à l’université et praticiens en milieu hospitalier étant très particulière.

    [2] Les verbatims présentés dans cette communication sont extraits des réponses au questionnaire ou des entretiens.

    [3] Bezès P. (2012). « État, experts et savoirs néo-managériaux, les producteurs et diffuseur du New Public Management en France depuis les années 1970 », Actes de la recherche en Sciences Sociales, n° 3, p. 18.

    [4] La massification de l’accès au bac s’est traduite par une très forte hausse du nombre d’élèves et étudiants inscrits dans l’ESR. Sur les 4 dernière décennies, ce nombre a plus que doublé en passant d’un peu moins de 1,2 million (à la rentrée 1980) à près de 2,8 millions (à la rentrée 2020). Le nombre d’EC n’a pas suivi !

    [5] Les diplômes universitaires doivent désormais figurer dans le Répertoire national des certifications professionnelles (le RNCP) conçu dans la logique des compétences.

    [6] Bibliothécaires, ingénieurs, administratifs, techniciens, personnels sociaux et de santé de l’enseignement supérieur.

    [7] En dépit des principes d’égalité professionnelle, les femmes sont infériorisées dans l’ESR. Parmi les MCF, seul le domaine droit, science politique, économie et gestion (DSPEG) est à parité avec 51% de femmes et 49% d’hommes. Les femmes sont sur-représentées (58%) en Lettres, Langues et Sciences humaines (LLSH) et sous-représentées (34%) en Sciences et Techniques (ST). Du côté des PU, les femmes sont 29% (contre 45% parmi les MCF) même si ce pourcentage a augmenté ces dernières années. Les femmes sont minoritaires parmi les PU dans les trois domaines, y compris là où elles sont majoritaires parmi les MCF : elles sont 36% en DSPEG, 45% en LLSH et 21% en ST. Et les écarts de statut ne sont pas les seules inégalités de genre entre EC.

    https://blogs.alternatives-economiques.fr/les-economistes-atterres/2025/06/17/crise-de-l-esr-contribution-2-la-profession-d-enseign
    #ESR #enseignement #recherche #new_public_management

  • „Aktive politische Absage an queere Sichtbarkeit“ : Regenbogen-Netzwerk des Bundestages darf nicht am Berliner CSD teilnehmen
    https://www.tagesspiegel.de/berlin/aktive-politische-absage-an-queere-sichtbarkeit-regenbogen-netzwerk-des

    Avec la majorité de droite il n’y aura pas de drapeau arc en ciel au dessus du Bundestag et l’association des employés du parlement queer n’aura pas le droit de participer au défilé CSD..

    Le bon vieux temps revient. Enfin la droite se montre comme l’ennemi de toutes et de tous comme à l’époque du film Nicht der Homosexuelle ist pervers sondern die Situation in der er lebt . Madame la présidente Jutta Klöckner et son chef dl’administration jouent les Précieuses ridicules . De vrais réactionnaires. Pour les chrétien-démocrates provinciaux le temps s’est arrête en 1971 . Moi ça me rajeunit énormément.

    https://www.youtube.com/watch?v=hOMGEw66kkg


    Ce n’est pas l’homosexuel qui est pervers mais la société dans laquelle il vit .

    16.6.2025 von Dominik Mai - Der Direktor des Bundestages hat verboten, dass das queere Mitarbeitenden-Netzwerk der Bundestagsverwaltung beim Christopher Street Day mitläuft. Der CSD kritisiert das scharf.

    Das queere Mitarbeitenden-Netzwerk der Bundestagsverwaltung darf in diesem Jahr, anders als in den Vorjahren, nicht am Christopher Street Day (CSD) in Berlin teilnehmen. Die bereits erfolgte Anmeldung einer Fußgruppe des Regenbogen-Netzwerks sei „auf Weisung der Verwaltungsspitze“ zurückgezogen worden, teilte der Trägerverein des CSD am Montag mit.

    Der Bundestag bestätigte das Verbot auf Tagesspiegel-Anfrage. „Der Direktor beim Deutschen Bundestag hat die Entscheidung getroffen, dass die Bundestagsverwaltung als solche, insbesondere aufgrund der gebotenen Neutralitätspflicht, nicht an politischen Demonstrationen und öffentlichen Versammlungen teilnimmt“, sagte eine Sprecherin. Privat dürften die Mitarbeitenden teilnehmen: „Außerhalb des Dienstes steht den Mitarbeitenden der Bundestagsverwaltung eine Teilnahme an solchen Versammlungen selbstverständlich frei“.

    Neuer Direktor und damit Leiter der Bundestagsverwaltung ist seit dem 12. Mai Paul Göttke. Die neue Bundestagspräsidentin Julia Klöckner (CDU) hatte ihn für die Position vorgeschlagen. Ob Göttke auf Weisung von Klöckner handelte, beantwortete die Pressestelle des Bundestages nicht.
    Entscheidung von Julia Klöckner: Keine Regenbogenflagge am Bundestag zum CSD

    Erst vor einem Monat hatte die CDU-Politikerin entschieden, dass – auch anders als in den Vorjahren – auf dem Reichstagsgebäude keine Regenbogenflagge zum Berliner CSD gehisst wird. „An diesem Tag wird die Regenbogenflagge zu Recht auf vielfältige Weise durch die Menschen selbst getragen und verbreitet, nicht durch die Institution Bundestag“, sagte Klöckner.

    Das kritisiert der Berliner CSD in seiner Stellungnahme. „Dass nun auch queere Beschäftigte der Bundestagsverwaltung nicht sichtbar beim CSD mitlaufen dürfen, verstärkt den Eindruck einer politischen Kehrtwende“, schreibt der Verein. Zudem sei es „ein Rückschritt für alle, die in Institutionen für Menschenrechte, Vielfalt und Demokratie eintreten“.

    Der CSD spricht von „einer aktiven politischen Absage an queere Sichtbarkeit“ und einer „bewussten Entscheidung gegen die Community“. CSDs seien gelebte Demokratie. „Wer die Teilnahme von queeren Mitarbeitenden staatlicher Institutionen untersagt, kündigt stillschweigend den Konsens auf, dass Grundrechte sichtbar verteidigt gehören“, so der Vorstand weiter. „Gerade in Zeiten, in denen CSDs zur Zielscheibe rechtsextremer Angriffe werden, wäre politischer Rückhalt mehr als angebracht.“

    CDU-Abgeordneter: Regenbogen-Netzwerk muss beim Berliner CSD sichtbar sein

    Der Berliner CDU-Bundestagsabgeordnete Jan-Marco Luczak forderte in einer Mitteilung, das Regenbogen-Netzwerk müsse beim Berliner CSD sichtbar sein. Er wünsche sich „eine Lösung, die das jenseits der gebotenen Neutralitätspflicht ermöglicht“, so Luczak. Beim CSD würden eine Million Menschen für Gleichberechtigung und Toleranz von LGBTIQ demonstrieren – Werte, für die auch der Bundestag einstehe. „Wenn das durch eine Teilnahme seiner Mitarbeiter zum Ausdruck kommt, finde ich das gut“, sagte Luczak.

    „Entsetzt und sehr enttäuscht“ ist die LSU, die Interessensvertretung queerer Menschen in CDU und CSU. In einer Mitteilung schrieb sie von einem „bedauerlichen Signal“. „Wenn sich LSBTIQ+ Mitarbeiterinnen und Mitarbeiter engagieren und für Sichtbarkeit beim CSD einstehen wollen, darf das keine Frage von Protokoll oder Formalia sein, sondern eine Selbstverständlichkeit“, so Sönke Siegmann, Bundesvorsitzender der LSU. „Wir appellieren an die Verantwortlichen, diese Haltung zu überdenken und weiterhin stärker auf Teilhabe und Sichtbarkeit zu setzen. Die Entscheidung ist ein Rückschritt für das offene Bild, das unser Parlament ausstrahlen sollte.“

    Der Kurswechsel von Julia Klöckner und der CDU ist kein Zufall – er ist ein gezielter Angriff auf queeres Leben. Maik Brückner, queerpolitischer Sprecher der Linken im Bundestag

    Der queerpolitische Sprecher der Linken im Bundestag, Maik Brückner, sprach auf Instagram von einem „fatalen Symbol“. „Der Kurswechsel von Julia Klöckner und der CDU ist kein Zufall – er ist ein gezielter Angriff auf queeres Leben. Dass queere Sichtbarkeit aus dem Bundestag verbannt wird, ist Ausdruck eines gefährlichen Rechtsrucks – auch innerhalb der Bundesregierung“, so Brückner.
    Nyke Slawik: „ein schwerwiegender politischer Rückschritt“

    Kritik kommt auch von Nyke Slawik, der queerpolitischen Sprecherin der Grünen im Bundestag. Das Verbot sei ein verheerendes Signal. „Die nun untersagte Präsenz des Regenbogen-Netzwerks des Bundestags auf einem der größten CSD des Landes ist ein institutioneller Rückzug aus gesellschaftlicher Verantwortung“, teilte sie mit. „Das ist ein klarer Rückschritt und eine Entscheidung – gegen die Community, gegen Sichtbarkeit und demokratische Vielfalt.“ Wenn queere Beschäftigte staatlicher Institutionen aus der Öffentlichkeit zurückgedrängt werden, sei das „ein schwerwiegender politischer Rückschritt.“

    Bundestagspräsidentin Klöckner müsse erklären, „wie sie in ihrer Rolle sicherstellen will, dass queere Mitarbeitende auch in Zukunft als Teil einer offenen, diversen Parlamentskultur in der Öffentlichkeit sichtbar sein dürfen“, so Slawik weiter: „Wer der queeren Belegschaft in der Verwaltung Sichtbarkeit verweigert, gestaltet damit politische Realität. Und diese Realität darf nicht eine der Ausgrenzung und Unsichtbarmachung sein.“

    Auch der Berliner CSD fordert von Klöckner, „sich klar zur Verantwortung des Bundestags für den Schutz queerer Menschen zu bekennen“. Der Verein hat die Mitglieder des Regenbogen-Netzwerks nun eingeladen, stattdessen auf dem offiziellen CSD-Truck mitzufahren.

    In diesem Jahr findet der Berliner CSD am 26. Juli statt. Erwartet werden wieder Hunderttausende Menschen, die für queere Rechte auf die Straße gehen. Start ist wie in den Vorjahren um 12 Uhr in der Leipziger Straße. Von dort aus geht es Richtung Potsdamer Platz, Nollendorfplatz, vorbei am Großen Stern auf die Straße des 17. Juni zum Brandenburger Tor.

    Das diesjährige Motto ist „Nie wieder still”. Das solle zeigen, dass die queere Community laut bleibe, sich nicht verdrängen, übersehen oder unsichtbar machen lasse, begründete der CSD das Motto.

    Les Précieuses ridicules (1659)
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Les_Pr%C3%A9cieuses_ridicules

    Ce n’est pas l’homosexuel qui est pervers mais la société dans laquelle il vit (1971)
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Ce_n%27est_pas_l%27homosexuel_qui_est_pervers_mais_la_soci%C3%A9t%C3

    Julia Klöckner (1972)
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Julia_Kl%C3%B6ckner

    #Allemagne #politique #droite #queer #Bundestag

  • Alfred Brendel, le pianiste qui tutoyait Beethoven et Schubert, est mort

    Durant ses soixante ans de carrière, le musicien, qui fut aussi, à ses heures, peintre, poète et penseur, laisse en héritage ses interprétations de Mozart, Beethoven et surtout #Schubert, dont il fut le medium privilégié. Il est mort mardi 17 juin, à l’âge de 94 ans.
    https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2025/06/17/alfred-brendel-le-pianiste-qui-tutoyait-beethoven-et-schubert-est-mort_66139

    https://archive.ph/JTlLe

    Les Trois Dernières Sonates de Franz Schubert, Chantal Akerman
    https://www.youtube.com/watch?v=jLWOfQChxik

    #piano

  • Dix ans de contrôle à la frontière franco-italienne : les associations dénoncent une « mise en danger » constante - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/65172/dix-ans-de-controle-a-la-frontiere-francoitalienne--les-associations-d

    Dix ans de contrôle à la frontière franco-italienne : les associations dénoncent une « mise en danger » constante
    Par La rédaction Publié le : 16/06/2025
    Une centaine de personnes était rassemblée dimanche, à l’appel d’Amnesty International, pour mettre en lumière les violations des droits des exilés depuis le rétablissement des contrôles entre la France et l’Italie. Depuis dix ans, le rétablissement de ces contrôles a engendré des formes de « mise en danger » et de « contrôles discriminatoires », sans faire baisser les arrivées puisque celles-ci repartent à la hausse ces dernières semaines.
    « Nous profitons de la journée mondiale des réfugiés le 20 juin pour commémorer les dix ans de la fermeture des frontières et dénoncer les violations des droits des personnes migrantes, leur mise en danger et les contrôles discriminatoires », introduit Christine Poupon, représentante d’Amnesty International dans les Alpes-Maritimes, auprès de l’AFP. Il y a dix ans, en juin 2015, les autorités commençaient à instaurer un contrôle systématique à la frontière franco-italienne - dont la légalité, déjà à l’époque, était contestée.
    Cette réintroduction du contrôle aux frontières intérieures a été officialisée en novembre 2015, initialement dans l’optique de la COP21 qui se tenait cette année-là. Puis, au motif des attentats du 13 novembre 2015. Depuis lors, la France reconduit ce dispositif tous les six mois. Pour rappel, ce type de contrôle est autorisé par le code Schengen « en cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure d’un État ».
    Le 7 mars 2025, le Conseil d’État, saisi par des associations, a jugé que ces contrôles étaient bien conformes au nouveau règlement Schengen et proportionnés face aux menaces pesant sur la France. Les contrôles sont actuellement en vigueur jusqu’au 31 octobre.
    « Grâce à la pression que nous avons exercée, nous avons obtenu des avancées, notamment pour les mineurs non accompagnés qui ne sont plus renvoyés systématiquement en Italie mais, quand leur minorité est reconnue par la police aux frontières, remis à l’Aide sociale à l’enfance », note Christine Poupon. « Récemment, nous avons pu observer aussi que certains migrants étaient relâchés avec une convocation pour se rendre à la plate-forme des demandeurs d’asile à Nice ».
    L’une de ces avancées avait été obtenue sur le plan juridique. Le 2 février 2024, le Conseil d’État avait annulé un article du code des étrangers (Ceseda) qui permettait aux forces de l’ordre de prononcer des refus d’entrée aux étrangers arrivés aux frontières françaises en situation irrégulière, sans leur laisser la possibilité de demander l’asile. Le Conseil d’État s’était alors appuyé sur un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) de septembre 2023 : selon les juges européens, la France était jusque-là dans l’illégalité et devait se conformer à la directive « retour » qui prévaut en UE.
    Mais ce répit a été de courte durée. Avec l’application du nouveau code Schengen, les règles changent. Cette révision publiée en mai 2024 renforce la possibilité de contrôles aux frontières intérieures. Auparavant d’une durée maximum de deux ans, ceux-ci peuvent désormais s’étendre sur une période de trois ans. Surtout : le nouveau code prévoit une procédure de « transfert » autorisant un État membre à renvoyer une personne arrêtée dans la zone frontalière vers l’État membre d’où elle provient. À la condition que ces transferts s’opèrent dans le cadre d’une coopération bilatérale.
    Sur le terrain franco-italien, les associations constatent depuis l’hiver dernier que les refoulements ont bel et bien repris. « On a recueilli plusieurs témoignages de personnes qui ont exprimé leur volonté de demander l’asile mais soit elles ont été totalement ignorées, soit les conditions d’entretien étaient inadaptées, parfois sans interprète », détaillait alors à InfoMigrants Isabelle Lorre, coordinatrice du programme Migration frontière transalpine à Médecins du Monde.
    Ces contrôles constants, ainsi que la récente reprise des refoulements, n’empêchent pas les arrivées. Bien au contraire : ces dernières semaines, les associations constatent une hausse importante de celles-ci. Côté italien, quelque 1 687 passages ont été recensés par le refuge Fraternita Massi sur la commune italienne de Oulx au mois de mai, contre 369 en 2024. Soit une augmentation de 357 % sur un an. En 2023, le refuge avait enregistré 876 arrivées à la même période.
    Côté français, la préfecture des Hautes-Alpes contactée par Infomigrants affirme qu’au mois de mai, « 1 004 ESI [étrangers en situation irrégulière, ndlr] dont 425 majeurs et 579 MNA [Mineurs non- accompagnés, ndlr] ont été interpellés » à la frontière, contre 291 l’année dernière à la même période.Depuis le début de l’année, la préfecture décompte 1 437 majeurs et 1 197 « individus se déclarant mineurs non accompagnés » interpellés à la frontière, soit au total 2 634 interceptions.Ces arrivées saturent les rares places d’accueil disponibles. Au niveau du point de passage du col de Montgenèvre, ces places se concentrent pour la plupart aux Terrasses Solidaires de Briançon. « On a accueilli deux fois plus de personnes au premier trimestre 2025 qu’à la même période l’année dernière », y relève Émile Rabreau, chargé de communication à l’association Refuges Solidaires qui gère l’accueil des exilés.
    Pour rappel, sur toute l’année 2024 dans les Alpes-Maritimes, 15 000 personnes en situation irrégulière avaient été interpellées le long des 100 kilomètres de frontière avec l’Italie. Un chiffre en large baisse par rapport à l’année précédente, puisque 42 000 personnes avaient été interpellées en 2023, toujours selon la préfecture.
    Face à cette situation compliquée, des militants se sont rassemblés dimanche dans la ville frontalière de Vintimille (Italie), à l’appel d’Amnesty International, pour dénoncer les violations de droits dont sont victimes les exilés depuis la « fermeture des frontières » de 2015. Ce rassemblement s’est tenu au niveau du mémorial créé fin 2022 par des citoyens solidaires au niveau du pont Saint-Ludovic, face à la mer. Ce pont marque la frontière entre l’Italie et la France : Vintimille d’un côté, Menton de l’autre. Une première stèle y avait été déposée pour Ahmed Zia Safi, âgé de 16 ans, renversé sur l’autoroute non loin de là, le 7 novembre 2022.
    Quarante-huit personnes sont décédées entre 2016 et 2025, selon une base de données de citoyens solidaires et de chercheurs rendue publique par la Ligue des droits de l’Homme de Nice mi-février. Elles venaient d’Érythrée, du Soudan, de Libye, du Tchad, du Népal, du Bangladesh ou encore d’Afghanistan. Les plus jeunes avaient 16 ans.
    La région la plus mortifère est celle de ce passage Vintimille-Menton. Face aux contrôles quasi systématiques dans les trains entre ces deux villes, les exilés tentent des voies alternatives dangereuses. Par exemple, la marche le long de la voie ferrée, de l’autoroute ; ou, la montée dans des camions. Mais aussi le passage par la montagne : entre 7 et 10 heures de marche - si l’on ne se perd pas -, sur des chemins escarpés. Le surnom de cette voie-là dit toute sa dangerosité : « Le sentier de la mort ».

    #Covid-19#migrant#migration#france#italie#alpesmaritimes#routemigratoire#migrationirreguliere#frontiere#sante

  • 1400 Kilometer Eiserner Vorhang: Ein DDR-Grenzer auf der Wanderung seines Lebens
    https://www.berliner-zeitung.de/politik-gesellschaft/1400-kilometer-eiserner-vorhang-ein-ddr-grenzer-auf-der-wanderung-s

    16.6.2025 von Maritta Adam-Tkalec - Warum Günter Polauke mit 76 Jahren das Grüne Band an der Ost-West-Grenze entlangläuft: „Nur gegen Krieg reden, hilft ja nicht.“ Er hat interessante Begleitung.

    Es gibt Menschen, die halten niemals die Füße still oder den Mund geschlossen – weil sie etwas verbessern wollen in ihrer unmittelbaren Umgebung, für das Gemeinwesen, ja, auch für die Menschheit. Andere schrecken vor den damit einhergehenden Konflikten zurück. Zu ersteren gehört Günter Polauke, Jahrgang 1948, Prenzlauer-Berg-Nachkriegskind aus antifaschistischer Familie, der den Vornamen seines im Alter von 21 Jahren in der Normandie gefallenen Onkels bekam: ein unverbesserlicher Optimist mit stabilem Gemüt und jener Art positiver Energie, die leicht auf andere überspringt.

    Seit 11. Juni 2025 trägt er seine 76 Lebensjahre, davon etwa die Hälfte DDR-Zeit, gewissermaßen als zweiten Rucksack das Grüne Band entlang. Diesen freundlichen Namen trägt seit 9. Dezember 1989 die einstige Ost-West-Grenze. 1200 seltene oder gefährdete Tier- und Pflanzenarten leben dort, wo einst kahle Fläche, robuste Metallzäune und Minenfelder einen Todesstreifen bildeten. Heute erstreckt sich ein einzigartiger Natur- und Geschichtsraum, mal 30, mal 200 Meter breit, über exakt 1393 Kilometer. Am Rande liegen Städtchen und Dörfer, deren Einwohner tausendfach unerzählte Lebensgeschichten in sich tragen.

    Als 18-Jähriger mit MP am Todesstreifen

    Diesen Weg will Günter Polauke laufen ­– durch Thüringen, Sachsen-Anhalt, Mecklenburg-Vorpommern, bis zum Ende, 80 Prozent davon Kolonnenweg, also mit Betonlochsteinplatten belegte Strecke, auf der einst DDR-Grenzposten patrouillierten. Polauke gehörte zu ihnen. Von 1967 bis 1970 leistete er Wehrdienst im Grenzabschnitt bei Salzwedel, wurde Feldwebel, auch Ausbilder. Er weiß, worum es geht, wenn von Schüssen auf DDR-Flüchtlinge die Rede ist. Mindestens 260 Tote hat es in den Jahren des Eisernen Vorhangs gegeben. „Ich stand da als 18-Jähriger mit der MP und 60 Schuss Munition“, sagt er heute, „glücklicherweise ist niemand gekommen. Was ich getan hätte, wenn es passiert wäre? Ich weiß es nicht.“

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    Das Grüne Band beginnt am Dreiländereck Sachsen/Bayern/Tschechien und verläuft entlang der ehemaligen Staatsgrenze durch Thüringen, Sachsen-Anhalt und Mecklenburg-Vorpommern.Grafik: BLZ.

    Es treibt ihn um, dass jetzt so viele Menschen über Krieg reden. Eine Waffe zu tragen, bedeute Verantwortung: „Politiker vergessen, in welche Situation sie Soldaten versetzen. Sie entscheiden fernab, die Soldaten verbluten im Graben.“ Deshalb sagt Polauke: „Nun soll wieder kriegstüchtig gemacht werden? Das kann nicht sein.“

    Aber was kann man tun? „Worte allein helfen ja nicht.“ Seine Antwort: „Fang bei dir selber an.“ So kam es, dass er sich nach monatelanger Vorbereitung auf den Weg machte, um als Pilger am Grünen Band sein Leben noch einmal abzugehen. Als Katharsis, oder dialektisch mit Hegels Begriff der „Aufhebung“ gesagt: Überwinden eines Widerspruchs, wobei die positiven, wertvollen Elemente erhalten bleiben und fortgeführt werden und die negativen entfallen. In Günter Polaukes Worten klingt das so: „Das Leben rückwärts zu verfolgen, heißt zu gucken, was man hatte. Ich will mit mir selber ins Reine kommen und mit Leuten am Weg ins Gespräch treten.“

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    Zwischen den in Mödlareuth erhaltenen Sperranlagen, links der Metallzaun, rechts die Betonmauer und ein WachturmSven Goldmann/Berliner Zeitung

    In seinem Fall fällt die Auseinandersetzung intensiver aus, als es allein seine Jahre als Grenzschützer erklären können. Von Beruf Ökonom mit Diplom der Handelshochschule Leipzig, SED-Mitglied, war Polauke 1986 bis 1989 Bürgermeister des Ost-Berliner Bezirks Treptow. Das hieß auch: 17 Kilometer Grenze zu West-Berlin, ein Stück Kreuzberg, ein Stück Neukölln. „Da war ich als politisch Verantwortlicher an der Grenze“, sagt er. Infrage gestellt habe er sie nicht; es sei eine „politische Gegebenheit“ gewesen.

    Als Bürgermeister nahm er regelmäßig an Fahrten in die Grenzzonen teil. Er wusste, was da los war, kannte die Festlegungen, wie bei Grenzdurchbrüchen zu handeln war. Oberstes Gebot: „Schusswaffe nicht anwenden. Flucht im Vorfeld verhindern.“ Trotzdem starb ausgerechnet in seinem Bezirk Chris Gueffroy: der letzte Berliner Mauertote, ein 21-Jähriger, der nach einem Kneipenbesuch in einer Kleingartenanlage beschloss, den Grenzdurchbruch zu wagen. Er kam am Abend des 5. Februar 1989 durch Kugeln von DDR-Grenzsoldaten ums Leben. „Jeder Todesfall war schrecklich und traurig“, sagt Polauke.

    Nach der Wende trat er bald als Bürgermeister zurück; er war von Amts wegen in die gefälschten Kommunalwahlen von 1989 verwickelt: „Ich konnte nicht mehr vor die Volksvertreter treten“, sagt er. Im Februar 1990 fing er ganz unten wieder an: in einer Kaufhalle in Köpenick. Weil er aber nun mal ist, wie er ist, stand er bald wieder in Verantwortung im Ehrenamt, als gewählter Vorsitzender des Sportvereins TSC – und führte 1998 bis 2011 den traditionsreichen Verein aus der Nachwendekrise. Seit 2001 ist Polauke SPD-Mitglied. Mit seiner Biografie ging er immer offen um.

    Wegen der Weltpolitik als Einzelner in die Lage zu kommen, einen Menschen zu töten, das lässt menschliche Gemüter nicht so leicht los. Schon gar nicht einen wie Polauke, den ja Empathie den Menschen zutreibt. Um damit fertig zu werden, die kleine eigene wie die große Geschichte zu bewältigen, begibt er sich zweieinhalb Monate auf Wanderschaft.

    Der größte Teil wird Einsamkeit sein, viele Stunden zum Nachdenken, Rekapitulieren. Inneren Frieden schließen mit Menschen, mit denen man haderte und stritt, aber auch klar Haltung beziehen, zum Beispiel zum jüngsten Krieg in Europa: „Ich bin solidarisch mit den von Russland überfallenen Ukrainern. Aber der Krieg in der Ukraine ist nicht mein Konflikt. Dort wird nicht meine Freiheit verteidigt.“ Er zweifelt: „Haben wir alle Mittel zum Friedenschaffen ausgeschöpft?“

    Deshalb sucht er am Wegesrand das Gespräch; man müsse doch im Austausch bleiben, vor allem mit der Jugend – auch wenn die Meinungen ganz verschieden seien. Er spürt seit längerem: „Die Leute haben wieder Angst.“

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    Rast im thüringischen Hirschberg am Saale-Ufer. Günter Polauke trägt seine „Grenzgänger“-Kappe.Sven Goldmann/Berliner Zeitung

    An den ersten Wandertagen ergeben sich die Gespräche wie von selbst. Ein älterer Herr besucht zusammen mit seiner Frau und einer Freundin noch einmal die Orte, wo er selbst als Grenzer in den 1970er-Jahren Dienst tat. Ein anderer steht am Gartenzaun seines Hauses, und bald stellt sich heraus: Auch er war einst Grenzsoldat. Eine Frau erzählt von 40 Jahren Leben im Sperrgebiet, nicht mal der Bruder aus Jena habe sie besuchen dürfen. Jetzt allerdings, bei offener Grenze, habe ihr Ort keinen Bäcker mehr, keinen Arzt, keinen Bürgermeister.

    Eine alte Dame sucht an der Saalebrücke bei Hirschberg gezielt Kontakt mit Durchwandernden. Sie hat einen Zettel mit einem Gedicht von Heinrich Hoffmann von Fallersleben (1798–1874) dabei; das soll man laut vorlesen: „Ihr wilden Gänse habt es gut, / Ihr ziehet frei und wohlgemut / Von einem Strand zum andern Strand / Durchs ganze liebe deutsche Land.“ Und weiter: „Uns zahmen Menschen geht′s nicht so: / Wir reisten gern auch frei und froh / Ununtersucht und unbekannt / Durchs ganze liebe deutsche Land.“ So war es 1840, und ist es nicht wieder so? Das Trauma der Teilung lebt. Und wird neu belebt.

    Das Ziel: Günter Polauke wird, so alles gutgeht, Ende August wohlbehalten an der Ostsee ankommen.

    Dabei sein: Wer will, kann seinen Weg auf www.guenterpolauke.de oder auf Instagram begleiten und Tagebucheinträge lesen. Wer sich für ein Wegstück anschließen will, kann das tun.

    Hier kann man den Tatsachen nicht ausweichen: Die Leute in den Grenzgebieten traf die Nachkriegsordnung mit aller Härte. Ganze Orte wurden umgesiedelt. Wer blieb, sah „die andere Seite“ nur Meter entfernt. Doch Blickkontakt war untersagt. Das Regime wurde von Jahr zu Jahr strenger. Ein älterer Mann erzählt, was es bedeutete, dass der Gartenzaun zugleich der Grenzzaun war. Flog der Ball der Kinder beim Spiel über den Zaun, also die Grenze, baten sie in den ersten Jahren noch die Posten auf der anderen Seite, den Ball in die Saale zu werfen, sodass sie ihn an der nächsten Brücke einsammeln konnten. Bald war das undenkbar geworden.

    Zwei Tage lang begleiteten zwei Freunde Polaukes Gang, zweimal etwa 20 Kilometer Kolonnenweg durch die ersten heißen Tage des Jahres: Holger Friedrich, der Verleger der Berliner Zeitung, war dabei, weil „diese glaubwürdige Art der biografischen Aufarbeitung unterstützt gehört“.

    Der zweite war Heskel Nathaniel, ein aus Israel stammender Immobilienentwickler, der vor 20 Jahren, als er längst Berliner war, selbst eine große Aktion organisierte, um ein Zeichen zu setzen. Damals erschütterten Terroranschläge Israel. Bei einem Joint mit einem Freund sei die Idee entstanden: „Wir müssen all den schlechten Nachrichten eine gute entgegensetzen.“ Es sollte einen „Berg der israelisch-palästinensischen Freundschaft“ geben.

    Namenlose Berge, deren Erstbesteiger das Recht zur Namensvergabe haben, standen nur noch in der Antarktis. Die Aktion war dann eine Weltnachricht: 2004 segelten vier Palästinenser und vier Israelis, je drei Männer und eine Frau, 1000 Kilometer von Südchile in die Antarktis, wanderten zehn Tage durchs Eis und gaben einem 997 Meter hohen Berg den hoffnungsvollen Namen. Geholfen habe es nicht viel, sagt Heskel Nathaniel, aber was wäre, wenn alles wegen anscheinender Aussichtslosigkeit unterbliebe?

    Die Grenzanlagen: Heute in BUND-Hand

    Er erzählt die Geschichte in Nordhalben, Bayern, knapp südlich des einstigen Eisernen Vorhangs, in einem kleinen Café bei einem Schwedenbecher kurz vor dem Abschied von Günter Polauke, der nun gegen die vermeintliche Alternativlosigkeit der Kriegslogik anwandert: durch in 35 Jahren gewachsene Gehölze, die auf dem einst kahl gehaltenen Grenzstreifen wuchern. Über weite Strecken verläuft parallel zum Kolonnenweg der sogenannte Kfz-Graben, der den Grenzdurchbruch mit Fahrzeugen stoppen sollte. Immer wieder stößt der Wanderer auf Reste des Originalmetallzaunes. Eine mächtige Infrastruktur, um 1400 Kilometer über Berg und Tal dicht zu machen.

    Heute spürt der Bund für Umwelt und Naturschutz (BUND), was es heißt, das Biotop zu bewahren. Noch gibt es keine durchgehende Kennzeichnung des Wanderweges, obwohl die Zahl der Menschen stetig steigt, die zumindest Teilstrecken gehen.

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    Günter Polauke (M.) und Begleiter auf dem Kolonnenweg, links der Grenzstreifen mit Zaun und Kfz-GrabenSven Goldmann/Berliner Zeitung

    In Mödlareuth, wo die kleine Gruppe um Polauke startete, sind die Grenzanlagen in krasser Form erhalten. Schon immer trennte der Tannbach das jahrhundertealte, heute 55 Einwohner zählende Dorf. Seit 1810 verlief entlang des Bachs quer durch Mödlareuth die Grenze zwischen dem Königreich Bayern und dem Fürstentum Reussen-Lobenstein. Das störte nie, die Nachbarn feierten gemeinsam, gingen in eine Schule – bis die Spaltung Europas auch Deutschland trennte. Und ihr Dorf zerriss.

    1952 entstand eine übermannsgroße Bretterwand quer durchs Dorf, 1966 eine 700 Meter lange Betonsperrmauer mit Wachtürmen und all den Grenzanlagen, wie sie auch West-Berlin umschlossen. Amerikanische Militärs nannten Mödlareuth „Little Berlin“. Am 9. Dezember 1989 öffnete ein Bagger einen direkten Übergang. Die wichtigsten Grenzanlagen sind erhalten und heute Teil des Deutsch-Deutschen Museums Mödlareuth.

    Günter Polauke hat sich gefreut, dass man ihm dort freundlich begegnete, obwohl er von der „Täterseite“ kommt und unumwunden einräumt: „Ich bin kein Opfer.“ Doch er ist froh, dass die Grenze Vergangenheit ist: „Gut, dass wir heute darüber reden können.“

    #Allemagne #histoire #DDR #RDA #BRD #guerre_froide

  • Veteranentag in Berlin : Danke für Euren Einsatz, Antifa Werkstatt
    https://taz.de/Veteranentag-in-Berlin/!6091226

    Adbusting-Aktion : „Deutscher Mix : Nazis, Munition, Einzelfälle“ Foto : Antimilitaristisches Aktionsnetzwerk

    Je suis entouré de connards qui veulent envoyer mes enfants à la mort. 59 pour cent des allemands sont pour le service militaire obligatoire. Heureusement il y a les adbusters pour expliquer ce que c’est le militaire.

    15.6.2025 von Lilly Schröder - Mit einer Adbusting-Aktion protestieren Ak­ti­vis­t*in­nen bundesweit gegen den „Nationalen Veteranentag“. In Berlin wurden 100 Vitrinen gekapert.

    A dbusting ist wie „Deine-Mudda- Witze“: unverschämt unoriginell und trotzdem erstaunlich witzig. Zum Beispiel, wenn am Hauptbahnhof ein Werbeplakat im Bundeswehr-Flecktarn auftaucht, auf dem steht: „Deutscher Mix: Nazis, Munition, Einzelfälle“. Darunter das Bundeswehr-Logo leicht abgeändert: „Braunes Heer“ statt „Bundeswehr“. Besonders lustig wird es, wenn sich dann drei Polizisten an dieser Plakatvitrine zu schaffen machen, um diesem staatszersetzenden, vaterlandsverräterischen Unfug umgehend ein Ende zu setzen!

    Das Plakat am Hauptbahnhof ist eines von über 100 gefälschten Plakaten, die Ak­ti­vis­t*in­nen aus der Werkstatt für Antifaschistische Aktionen am Samstagmorgen in Werbevitrinen der BVG platzierten – geöffnet mit einem Rohrsteckschlüssel aus dem Baumarkt. Wo sonst auf Bundeswehrplakaten traditionsverherrlichendes, völkisches Gelaber steht, wie: „Holma? Lassma? Tuma? Unsere Azubis haben noch richtige Namen“, prangt nun zum Beispiel „Mit Nazipreppern abhängen?“.

    Hintergrund der Aktion ist der erste „Nationale Veteranentag“, der am Sonntag mit einem „Bürgerfest“ auf der Reichstagwiese begangen wird. Offizielles Ziel: das „Band zwischen Bundeswehr und Gesellschaft stärken“. Zu diesem Anlass werden in mehreren Bundesländern alle öffentlichen Gebäude beflaggt. Das Antimilitaristische Aktionsnetzwerk in der Deutschen Friedensgesellschaft-Vereinigte Kriegsgegner*innen, das zu der Adbusting-Aktion aufgerufen hat, kritisiert: „Der Veteranentag ist ein weiterer Schritt, den militärischen Mordapparat in der Öffentlichkeit schrittweise zu normalisieren.“

    Gegen Normalisierung

    Dem wollen sie mit der Plakataktion etwas entgegensetzen –und es kam offenbar gut an: Viele Pas­san­t*in­nen hätten mit Zustimmung reagiert, so die Aktivist*innen. Nur ist Berlin nicht repräsentativ für Deutschland oder wie Fritze zu sagen pflegt: „Nicht Kreuzberg ist Deutschland!“ Eine in dieser Woche veröffentlichte Forsa-Umfrage zeigt: 59 Prozent der Deutschen sprechen sich für die Rückkehr zur Wehrpflicht aus, nur 37 Prozent lehnen sie ab.

    In den 12 weiteren deutschen Städten, in denen die Adbusting-Aktion stattfand, könnten die Reaktionen daher deutlich verhaltener ausgefallen sein. Nicht zuletzt, weil im Vorfeld des Veteranentags intensiv Stimmung vom Reservistenverband und dem Bund Deutscher Einsatzveteranen gemacht wurde – (Letzterer mit einem Lorbeerkranz-Logo, das dem der Neonazikleinstpartei „Der 3. Weg“ ungechillt ähnlich sieht).

    Was? Rechtsextremismus in der Bundeswehr?! Soll’s geben: Dem Jahresbericht des Verteidigungsministeriums zufolge gab es allein im Jahr 2023 916 rechtsextreme Verdachtsfälle. 62 Bundeswehrangehörige wurden 2023 wegen rechtsextremistischer Einstellungen entlassen, darunter 10 Offiziere .

    Doch die Bundeswehr zeigt sich traditionsverliebt und geschichtsvergessen wie eh und je. Der Veteranentag setzt diese Linie fort. Ein Dank gebührt deshalb einzig der Antifa Werkstatt: Danke für Euren Einsatz!

    #Allemagne #militarisme #conscription

  • „Ich war im Kindergefängnis“ – Verschickungskinder brechen ihr Schweigen

    A partir de la défaite nazie en 1945 les infirmières, médecins et pédagogues du régime assurent leur bien aller pécunier et leur emprise sur les enfants allemands en établissant un réseau de centres d’acceuil privés pour les enfants des couches populaires et petit-bourgeoises. Dans ces colos d’enfer ils continuent jusqu’à la fin des années 1980 à torturer les enfants avec les méthodes de l’éducation nazie.

    Verschickungskinder
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Verschickungskinder

    Pour leurs victimes la guerre n’est toujours pas terminée. Les témoignages de survivants s’empilent alors que la pédagogie libératrice des années 1970 a fait place à la compétition et les dépenses pour les guerre à venir cannibalisent les budgets sociaux et pédagogiques.

    12.06.2025 von Petra Strecker - Als junges Mädchen wurde unsere Autorin zur Kinderkur geschickt. Die traumatischen Erlebnisse im Heim kann sie auch nach 45 Jahren nicht vergessen.

    Im Jahr 1980, als ich gerade zehn Jahre alt wurde, musste ich zur Kinderkur – so nannte man es damals. Der Grund war mein starkes Asthma. Meine Eltern wollten mir helfen, suchten Rat bei Ärzten, und die Empfehlung lautete: Höhenluft, gesunde Ernährung, frische Schwarzwaldluft. Und so wurde ich verschickt – nach Saig bei Lenzkirch im Schwarzwald.

    Was mich dort erwartete, war allerdings alles andere als heilend. Es war kein erholsamer Aufenthalt, keine Zeit der Genesung oder der Unbeschwertheit. Es war ein Bruch – ein traumatisches Erlebnis, das mich geprägt hat, bis heute. Schon der Abschied war schwer, doch ich war ein kontaktfreudiges Kind, neugierig, offen für Neues. Ich hatte gehofft, Freunde zu finden, Abenteuer zu erleben. Aber ich erinnere mich an keine Namen, keine Kinder, keine Freundschaften. Nichts ist geblieben außer einem Gefühl der Einsamkeit, der Angst, des Eingesperrtseins.

    Gemütliches Kinderzimmer war nur Kulisse

    Meine Eltern hatten sich vor meiner Abreise die Einrichtung angeschaut. Sie erzählten später, man habe ihnen ein wunderschönes Zimmer gezeigt – mit Holzbetten, liebevoll dekoriert, mit karierten Bettdecken im typischen Schwarzwaldstil. Einladend, freundlich. Was sie nicht wussten: Dieses Zimmer war ein Vorzeigezimmer. Eine Kulisse.

    Als ich ankam, war alles anders. Ich wurde in ein Gitterbett gelegt – mit zehn Jahren. Es war zu klein für mich, und abends wurde das Bett verschlossen. Ich konnte nicht mehr heraus. Ich hatte panische Angst. Ich erinnere mich besonders an die erste Nacht. Wie so oft bekam ich nachts einen schweren Asthmaanfall. Ich konnte nicht atmen, konnte mich nicht bemerkbar machen – es gab keine Klingel, kein Notfallknopf, keine Hilfe.

    Ich kämpfte mich in meiner Panik aus dem Gitterbett, stemmte mich mit eingeklemmten Füßen hoch, suchte nach jemandem, der mir helfen konnte. Und ich hatte Glück – in dieser Nacht war die Nachtschwester Maggi im Dienst. Eine freundliche, warme Frau. Sie half mir zu inhalieren, beruhigte mich. Hätte sie nicht Dienst gehabt – ich weiß nicht, was passiert wäre.

    Von den Mahlzeiten ausgeschlossen

    Damals gab es noch keine Asthmasprays, keine moderne Notfallversorgung. Ich war auf Hilfe angewiesen – auf Menschen. Aber viele dieser Menschen dort waren nicht hilfsbereit. Sie waren streng, kalt, autoritär.

    Ich war ein moppeliges Kind. Dick. Und das hatte man mich spüren lassen. Während andere Kinder zum Zunehmen gezwungen wurden, wurde ich vom Essen ausgeschlossen. Ich musste zusehen, wie andere Kinder gezwungen wurden, zu essen – oft unter Tränen. Ich hingegen saß daneben, hungrig, beschämt. Heute leide ich an Adipositas. Und tief in mir ist die Angst geblieben: Ich bekomme nichts zu essen.

    Noch schlimmer war das Duschen. Alle Kinder – Mädchen wie Jungen – mussten sich gemeinsam ausziehen, in einer Reihe stehen. Kein Schutz, keine Trennung. Ich war in der Entwicklung, gerade aus dem Kommunionsunterricht gekommen, wo man von Sünde, Scham und Anstand gesprochen hatte – und nun musste ich nackt vor fremden Jungen stehen. Es war erniedrigend. Ein Gefühl völliger Ausgeliefertheit.

    Das Duschen selbst war kalt, lieblos. Wir wurden abgespritzt, ohne Erklärung, ohne Zuwendung. Körperhygiene als Zwangsritual. Ich fühlte mich nicht gereinigt, sondern beschmutzt – seelisch. Auch der sogenannte Mittagsschlaf war ein Albtraum. Wir mussten draußen auf Liegen schlafen, still, regungslos. Wenn sich jemand auch nur einen Zentimeter bewegte, kam eine der Aufseherinnen – wir nannten sie nur „die Hexe“ – und schlug zu. Kein Trost, kein Verständnis. Nur Angst. Und Gehorsam.

    „Ich war im Kindergefängnis, und ich weiß nicht, warum“

    Lange dachte ich, es sei nur mir so ergangen. Dass ich übertreibe, empfindlich bin. Ich sagte zu Hause immer: „Ich war im Kinderknast.“ Oder: „Ich war im Kindergefängnis, und ich weiß nicht, warum.“ Meine Eltern verstanden das nicht. Ich konnte es auch nicht in Worte fassen. Wie auch? Ich war zehn. Was ich erlebt hatte, hatte keinen Namen. Nur Schmerz.

    Erst Jahrzehnte später – viele Jahre, in denen ich nicht in den Schwarzwald fahren konnte, ohne Schweißausbrüche, ohne Panikattacken, ohne Heulanfälle – sah ich einen Bericht im Fernsehen über Verschickungskinder. Und plötzlich wusste ich: Das war es. Ich war nicht allein. Ich bin Teil dieser Geschichte. Ich gehöre dazu.

    Seitdem habe ich sechs weitere Frauen gefunden, die ebenfalls damals in Saig waren. Wir nennen uns heute liebevoll „die Saigmädels“. Der Austausch mit ihnen ist heilsam. Gemeinsam versuchen wir, unser Leid zu verarbeiten. Unsere Erinnerungen decken sich. Die Rituale, die Strafen, die Ohnmacht. All das, was ich lange allein in mir trug, findet nun ein Echo. Es war real. Es war schlimm. Und es war nicht meine Schuld.

    Wurden an den Kindern Medikamente ausprobiert?

    Wir sprechen heute offen darüber. Über unsere Ängste, unsere Träume, unsere Krankheiten. Viele von uns sind chronisch krank geblieben – körperlich wie seelisch. Und immer wieder stellen wir uns die Frage: Gab es damals Medikamente, die an uns ausprobiert wurden?

    Ich erinnere mich nur bruchstückhaft an die erste Nacht. Danach ist vieles verschwommen. Wurden wir ruhiggestellt? Gab es Schlafmittel, Beruhigungsmittel? Wir wissen es nicht. Das Heim war privat geführt. Es gibt keine Unterlagen mehr, keine Einsicht, keine Transparenz. Doch es würde mir helfen, manches besser zu verstehen. Vielleicht auch, warum ich mein Leben lang krank war – und bin.

    Ein Lichtblick in all dem Dunkel ist für mich die Arbeit von Anja Röhl, die mit großem Engagement das Thema Verschickungskinder in die Öffentlichkeit gebracht hat. Sie hat Stimmen gehört, Schicksale gesammelt, Missstände benannt. Ihre Arbeit gibt uns Betroffenen ein Stück Würde zurück. Heute, mit Abstand, sage ich: Ja, ich war ein Verschickungskind. Und ich bin es noch. Denn das, was ich dort erlebt habe, lebt in mir weiter. Aber ich spreche darüber. Und ich bin nicht mehr allein.

    Petra Strecker wohnt in Mühlheim an der Donau und ist Mutter von drei Kindern. Mit zehn Jahren wurde sie zur Kinderkur geschickt – ihre erste Reise und ein einschneidendes Erlebnis, das sie bis heute prägt. Sie beschreibt gerne ihre persönlichen Erlebnisse in Kurzgeschichten.

    #Allemagne #pédagogie #iatrocratie

  • Autobauer in der Krise - Wie die Volksrepublik Volkswagen abhängte
    https://taz.de/Autobauer-in-der-Krise/!6091941&s=China

    Voici un peu d’histoire, juste pour mieux comprendre ce qui se passe actuellement. Bref il faut en finir avec l’arrogance des patrons de VW, Mercedes et BMW . Malheureusement leurs camarades de chez KMW et Rheinmetall ont déjà repris le bâton. L’histoire ne verra pas de meilleure issue pour eux.

    Est-ce que cela me regarde ? Bien sûr car notre avenir dépend largement de nos bonnes relations avec la Chine et la Russie. Nos amis déglingués et suicidaires d’outre Atlantique ne sauront que nous entrainer dans l’abîme qu’ils sont en train de creuser..

    14.6.2025 von Felix Lee - Mein Vater hat das China-Geschäft von VW mit aufgebaut. Damals waren die deutschen Autobauer Vorbild für China. Nun kehrt sich das Verhältnis um.

    Mein Vater hat das China-Geschäft von VW mit aufgebaut. Damals waren die deutschen Autobauer Vorbild für China. Nun kehrt sich das Verhältnis um.

    E r kommt. Tagelang ist in Peking spekuliert worden, ob Martin Winterkorn zur Automesse persönlich erscheinen wird. Nun macht die Nachricht sofort die Runde: Der VW-Chef reist an. Eine Polizeieskorte geleitet ihn im April 2008 durch die Stadt, darauf hat er bestanden. Ganze Straßenzüge vom Flug­hafen in die Pekinger Innenstadt und raus zum Messegelände werden für seinen Konvoi abgeriegelt. Für Winterkorn rollen die Veranstalter mehr rote Teppiche aus als für den chinesischen ­Parteichef.

    Auf der Messe betritt Winterkorn in dunklem Anzug unter lautem Applaus die Bühne. Er präsentiert „eine ­Weltneuheit“, wie er sagt, die Stufen­heck-Limousine Lavida, die nur für den chinesischen Markt vorgesehen ist. Während in Deutschland die Forderung laut wird, die anstehenden Olympischen Sommerspiele in Peking wegen des brutalen Vorgehens gegen Tibeter zu boykottieren, kündigt Winterkorn an, die Spiele mit rund 1.000 Fahrzeugen von VW und Audi zu ­sponsern.

    Sein Aufenthalt wird zum Spektakel. Zwanzig Chauffeure zählen zu seiner Entourage und harren bis tief in die Nacht aus, wenn der Chef noch durch die Bars im angesagten Pekinger Viertel Sanlitun zieht.

    Unter den deutschen Automanagern in China herrscht in dieser Zeit eine Atmosphäre großer Selbstherrlichkeit. Sie feiern ein rauschendes Fest nach dem anderen, so glänzend laufen die Geschäfte. Zehntausende Deutsche – darunter viele VW-Mitarbeiter – leben, arbeiten und genießen das Leben in den neu entstandenen Szenevierteln von Peking und Shanghai. Die Gewinne sprudeln, und manch ein Manager wird mit Boni belohnt, die dem doppelten Jahresgehalt entsprechen.

    Das war 2008. Heute ist die große Party vorbei. VW steckt tief in der Krise, auch wegen des China-Geschäfts. In den Nullerjahren hatte Volkswagen dort einen Marktanteil von zeitweilig über 50 Prozent, er ist inzwischen auf unter 12 Prozent gefallen. Die Deutschen spielen auf dem größten Automarkt der Welt nur noch eine Nebenrolle. Inzwischen müssen sie froh sein, wenn sie in chinesischen Automagazinen überhaupt noch erwähnt werden. Dabei ist kein Auslandsmarkt für deutsche Automobilhersteller wichtiger als China, mehr als eine Million deutsche Arbeitsplätze hängen an diesem Industrie­zweig.

    Wo zuvor Selbstherrlichkeit herrschte, regiert nun Angst. Früher haben die Chinesen von Deutschen gelernt, was es heißt, erfolgreich Autos zu bauen. Nun könnte sich dieses Verhältnis umkehren.

    Ich bin von 2010 bis 2019 China-­Korrespondent verschiedener Medien, auch der taz. Wie alle deutschen Kor­respon­denten beobachte ich den chinesischen Automarkt. Was Technik und Design betrifft, kann die chinesische Konkurrenz mit den deutschen Autobauern zu keinem Zeitpunkt mithalten. Allerdings schauen wir nur auf den Verbrenner, nicht auf das Elektrosegment. Da gibt es damals schon Anzeichen, dass sich etwas verändert.

    Der chinesische Automobilmarkt hat nicht nur beruflich mit mir zu tun, sondern auch persönlich. Ich bin wahrlich kein Autofan. Aber ich bin in Wolfsburg geboren und habe einen Großteil meiner Kindheit und Jugend in der Volkswagenstadt verbracht. Vor allem ist die Geschichte von VW in China eng mit meiner Familie verbunden. Denn es war mein Vater, der einst Volkswagen nach China brachte.

    Wie alles begann

    An einem Morgen in Wolfsburg, im ­April 1978. Mein Vater ist Forschungsingenieur bei Volkswagen, als plötzlich das Telefon klingelt. „Wenpo“, so heißt mein Vater, „sprichst du Chinesisch?“, fragt ihn der Leiter der Öffentlichkeitsabteilung. Vor dem Werkstor stehe eine Gruppe Chinesen und einer behaupte, er sei der Maschinenbauminister.

    Mein Vater, in jungen Jahren vor Maos Kommunisten nach Taiwan geflohen, ist zu der Zeit der einzige Chinese im VW-Werk in Wolfsburg. Er glaubt in jenem Moment nicht, dass es sich bei der Gruppe um Chinesen aus der Volksrepublik handelt, das Land ist abgeschottet, vergleichbar mit dem heutigen Nordkorea. Als er die Delegation vor dem Werktor sieht, erkennt er auf einen Blick: Doch, das sind Chinesen. Etwas verloren stehen sie in ihrer Einheitskleidung da. Sie haben nicht einmal einen Dolmetscher dabei – und sind dankbar, dass sie sich mit meinem Vater unterhalten können.

    Diese erste Begegnung ist dem Zufall geschuldet, verändert aber alles. Eigentlich hatte sich der chinesische Minister die Nutzfahrzeugsparte von Mercedes anschauen wollen. Als er in Stuttgart mit dem Taxi unterwegs ist, sieht er den T2, im Volksmund auch bekannt als Bulli, mit dem großen VW-Zeichen darauf. Der Taxifahrer erzählt, dass dieses Fahrzeug aus Wolfsburg komme. Prompt setzt sich die Gruppe in den Zug und steht einige Stunden später vor dem Werktor von VW.

    Allein für den Taximarkt und die Parteikader würde sich ein VW-Werk lohnen, meinte mein Vater

    Noch am selben Abend lädt Produktionschef Günter Hartwich die Gäste ins offizielle Gästehaus des Konzerns ein. Erst nach dem Essen am Kamin kommen sie mit Hilfe meines Vaters ins Gespräch. Die Chinesen wollen sich Nutzfahrzeuge anschauen, doch in Wolfsburg werden nur Pkws gebaut, an denen ist der chinesische Minister nicht interessiert. Zu teuer für sein völlig verarmtes Land, sagt er. Es gebe in China nicht einmal ausreichend asphaltierte Straßen, geschweige denn Parkplätze. Produktionschef Hartwich wittert eine Chance und überzeugt den Minister, sich die Pkw-Produktion von VW in Wolfsburg dennoch anzusehen – mit dem Argument, dass sich auch im Nachkriegsdeutschland niemand vorstellen konnte, wie wichtig Autos für den wirtschaftlichen Aufschwung werden würden. Der chinesische Minister lässt sich darauf ein. So beginnen die Verhandlungen.

    Bei einem der nächsten Besuche ist es ein Mitarbeiter der VW-Finanzabteilung, der sich skeptisch zeigt. Sie haben sich in der Abteilung Chinas wirtschaftliche Kennzahlen angeschaut. Der Durchschnittslohn eines städtischen Angestellten liegt damals bei umgerechnet 100 D-Mark im Jahr – nach heutigen Maßstäben wären das 100 Euro. Selbst wenn jemand sein Leben lang arbeite, ohne zu essen und Miete zu zahlen, könne er sich keinen VW leisten, rechnet er vor. Ob China sich überhaupt Autos leisten könne, geschweige denn eine ganze Fabrik? Ohne die Frage zu übersetzen, antwortet ihm mein Vater. China sei zwar arm, aber zugleich sehr groß. Allein für den Taximarkt und die Parteikader würde sich für VW der Bau eines Werks schon lohnen.

    Der Finanzvorstand gibt schließlich grünes Licht. Und so nimmt die deutsch-chinesische Zusammenarbeit ihren Lauf, auch wenn es noch Jahre dauert, bis 1984 der erste VW Santana in Shanghai vom Band läuft. An Verkäufe an Privatkunden ist zunächst tatsächlich nicht zu denken. Die Kalkulation meines Vaters geht aber auf. Ab Mitte der 1980er prägen rot-gelbe Santanas das Straßenbild von Peking und Shanghai. Der gesamte Taximarkt ist komplett in der Hand von VW, ebenso die Regierungsfahrzeuge. Das schafft eine Verbundenheit, die bei der älteren Generation bis heute anhält. Wie einst der Käfer in der Bundesrepublik für viele das erste Auto war, entwickelt sich auch der Santana im Bewusstsein der Chinesen zu einem „Volks“-Wagen.

    Wolfsburg, April 1978. Wenpo Lee (Mitte) führt den chinesischen Minister Yang Keng (r.) durch die VW-Werkshallen   Foto: Felix Lee Familienarchiv

    Als ich den Santana zum ersten Mal auf Shanghais Straßen sehe, wundere ich mich. Warum ausgerechnet dieses altbackene Auto? In Wolfsburg fährt es kaum jemand, andere Modelle kommen mir moderner vor. VW wollte eigentlich auch in China den Golf verkaufen. Aber die chinesische Seite mag ihn nicht. Wenn ein Auto, dann ein richtiges Auto, finden sie. Und ein richtiges Auto ist für sie eins mit Stufenheck – auch wenn in den Kofferraum weniger hineinpasst als beim Golf.

    Mein Vater wird in den darauffolgenden Jahren zum Mittler zwischen den Kulturen. Er hilft, deutsche Standards – etwa beim Patentrecht – nach China zu bringen. Das erleichtert später auch anderen deutschen Firmen den Markteintritt. Die Eröffnung des VW-Werks markiert den Beginn der engen deutsch-chinesischen Wirtschaftsbeziehungen – es ist das erste euro­päische Großunternehmen, das in China einen Produktionsstandort aufbaut. Es folgen rasch auch deutsche Zulieferer, die wiederum weitere deutsche Unternehmen anlocken.

    Aufbruchstimmung

    Als Generalbevollmächtigter des Volkswagen-Konzerns wird mein Vater ab Mitte der 1980er-Jahre nach Peking entsandt, um dort die Verhandlungen mit der chinesischen Führung über den Bau weiterer Werke voranzutreiben. In dieser Zeit wohne auch ich für einige Jahre dort. Im Vergleich zu meinem Leben in Wolfsburg erlebe ich das Land als arm und rückständig. Die Behausungen vieler Chinesen sind eng und karg eingerichtet. Reis, Schweinefleisch und Klopapier werden rationiert, man bekommt sie nur gegen Lebensmittelkarten, die der Staat verteilt.

    Und dennoch liegt Aufbruch in der Luft. Unter Mao waren private wirtschaftliche Aktivitäten verpönt, sie spielten kaum eine Rolle. Nun werden die Geschäfte wieder mehr und bunter. Auf den Straßen gibt es Marktstände und Garküchen. Und auch die Menschen tragen immer seltener ­Einheitskleidung – dunkelblaue, graue und olivgrüne Arbeiteroveralls. Die ersten Cafés entstehen, in denen Rock­musik läuft und Nescafé angeboten wird. Überall spürt man Optimismus. Die Zuversicht ist groß, dass die Zeiten bessere werden.

    Das erste Büro von VW richtet mein Vater im Peking-Hotel ein. Die Betten werden durch Schreibtische aus­getauscht, das restliche Hotelmobiliar bleibt drin. Bürogebäude nach westlichem Maßstab, also mit Telefon­anschlüssen und Faxgeräten, gibt es noch nicht.

    Ich bin 10 Jahre alt und gehe auf die Schule der deutschen Botschaft. Als ich 1985 dort ankomme, zählt die Schulgemeinschaft weniger als 30 Schüler, die meisten von ihnen Kinder von Diplomaten. Unsere Klassenzimmer befinden sich in einer Diplomaten-Wohnung. Meine Klasse ist mit 8 Schülern die größte. Wir werden im Wohnzimmer unterrichtet.

    Wir führen zu dieser Zeit ein privilegiertes Leben. Es gibt ein spezielles Geschäft nur für Ausländer, erste westliche Hotels und Restaurants, die ­Chinesen nur in Ausnahmefällen betreten dürfen. Die Regierung heißt westliche Ausländer ausdrücklich willkommen, schließlich sollen sie zum wirtschaft­lichen Aufbau des Landes beitragen. Ich erinnere mich, dass mein Vater regelmäßig von hohen Regierungsbeamten eingeladen wird, auch wir als Familie. Mir sagen die Namen erst Jahrzehnte später etwas, als mir klar wird, dass aus den Gastgebern von damals Minister und Parteichefs wurden.

    Nach drei Jahren in Peking kehren wir nach Wolfsburg zurück. Die Zahl der Schüler auf der Deutschen Schule Peking ist in dieser Zeit auf über 100 angewachsen, die Klassen werden nun auf zwei Wohnungen verteilt. Viele meiner Mitschüler sind nicht mehr Kinder von Diplomaten, sondern deutscher Geschäftsleute – und die deutsche Community wächst stetig weiter.

    Hat keiner vor zu großen Abhängigkeiten gewarnt? „Doch“, sagt mein Vater, das habe aber keiner hören wollen. „Wer will schon der Miesepeter sein?“

    Viele westliche Länder entdecken China in den 1980er-Jahren für sich. Investoren aus Japan, Taiwan, Hongkong oder den USA sehen die Volksrepublik in erster Linie als Werkbank für günstige Arbeitskräfte zur Produktion von Turnschuhen, Haushaltswaren und Elektronik. Die deutschen Unternehmen gehen einen anderen Weg. Sie sind für China mehr als nur ein Handelspartner, sie prägen den Aufstieg des Landes zur zweitgrößten Volkswirtschaft der Welt maßgeblich mit. Denn sie bringen genau jene Industrien ins Land, die China benötigt: chemische Vorprodukte wie zum Beispiel Kunststoffe sowie Maschinen und Autos.

    Dabei verfolgt die kommunistische Führung unter ihrem Macht­haber Deng Xiaoping von Beginn ihrer Öffnungs­politik Ende der 1970er-Jahre an ein Ziel: das Land wirtschaftlich zu modernisieren und von westlichem Know-how zu profitieren, ohne dabei die Kontrolle über zentrale Bereiche der Wirtschaft aus der Hand zu geben. Dengs Strategie besteht darin, ausländisches Kapital und Expertise ins Land zu holen. Jedes ausländische Unternehmen muss aber in Form eines Joint Ventures mit einem chinesischen Staatsunternehmen als Partner zusammen­arbeiten. So will Deng sicherstellen, dass Technologie und Managementmethoden möglichst schnell auf chinesische Unternehmen übergehen. Der Wissens­transfer ist also explizit Teil der Bedingungen. Die chinesische Führung lässt ihre Ziele zwar nicht offiziell verlauten, aber es ist ein offenes Geheimnis, dass man die ausländischen Unternehmen, sobald sie ihren Zweck erfüllt haben, wieder loswerden will.

    Für die Deutschen entwickelt sich China in den Nullerjahren zum wichtigsten Absatzmarkt außerhalb Europas. Sie reisen als Lehrmeister ins Reich der Mitte und genießen sichtlich ihre Rolle als Überlegene. Nicht nur Martin Winterkorn, auch andere von VW vor und nach ihm. Die Chinesen be­gegnen den Deutschen mit Dankbarkeit und Respekt. „Made in Germany“ gilt als begehrtes Qualitätssiegel, deutsche Produkte erfreuen sich höchster Wertschätzung – allen voran deutsche Autos, die als Inbegriff technischer Perfektion gelten.

    VW steht an der Spitze dieser Entwicklung. Erst der Santana, dann der Jetta, der City Golf, der Polo, der Lavida und die eigens für China verlängerten Karosserien des Audi 100 – die Fahrzeuge des VW-Konzerns prägen das Straßenbild chinesischer Städte. Mein Vater hat daran seinen Anteil, zwei VW-Werke entstehen in seiner Zeit in China, ein drittes wird geplant. 1997 geht er in den Ruhestand und scheidet offiziell aus dem Unternehmen aus, bleibt aber für einige Jahre beratend für VW und andere deutsche und chinesische Unternehmer tätig, zunächst in Peking, ab 2000 dann in Shanghai.

    Gewissermaßen hat mein Vater mit die Grundlage für den Boom gelegt, der in den Jahren danach erst richtig losgeht. Bis 2019 ist Volkswagen an 39 Werken in der Volksrepublik beteiligt, der Marktanteil liegt da bei 14,4 Prozent. Er sinkt nur, weil auch andere west­liche Autobauer in China investieren, die Stückzahl steigt aber in rasantem Tempo weiter – bis ab 2012 ungefähr jedes dritte Auto von VW in China verkauft wird, bei BMW und Mercedes-Benz ist es ebenso. Von 2014 bis 2019 überweisen die VW-Werke in China jährlich zwischen vier und acht Milliarden Euro an die deutschen Zentralen von Audi und Volkswagen – Ingolstadt und Wolfsburg entwickeln sich zu den reichsten Städten der Bundesrepublik.

    „Mit einer solchen Größenordnung haben wir nie gerechnet“, sagt mein Vater rückblickend. Es ist eines der vielen Gespräche am Esstisch in seiner Wohnung in Berlin, die ich in jüngerer Zeit öfter mit ihm habe, seit VW in der Krise steckt und das China-Geschäft ganz besonders. Hat es keine Warnungen vor zu großen Abhängigkeiten gegeben?“, frage ich ihn. „Doch“, sagt er. Die habe es gegeben. Aber niemand habe sie ­hören wollen. „Wer will schon der Miese­peter sein?“

    Die Rechnung ist auf­gegangen: Taxis von VW im Jahr 2007 in Shanghai   Foto: Muhs/Caro/picture alliance

    Als ich 2010 als Korrespondent nach Peking ziehe, erinnert nichts mehr an die Armut, die ich als Zehnjähriger in den 1980er-Jahren noch gesehen habe. Peking, Shanghai und die vielen ­anderen Metropolen haben Skylines, die sich mit denen von New York und Chicago messen können. Garküchen sind hochpreisigen Restaurants gewichen. In den Shopping-Malls von Shanghai finden sich Flagship Stores fran­zösischer und italienischer Luxus­marken.

    Die größte Veränderung im Straßenbild aber betrifft den Verkehr. In meiner Kindheit waren in Peking Millionen Menschen auf zwei Rädern unterwegs. Statt Klingelgeräuschen und dem gleichmäßigen Fluss der Radfahrer dominieren nun Motorlärm und dichter Autoverkehr das Stadtbild. Die Fahrradstadt von einst ist zu einem automobilen Moloch geworden.

    2010 leben Zehntausende Deutsche in Peking. Nicht nur in den großen Städten, auch in den aufstrebenden Industrieparks der Provinzen bilden sie rasch die mit Abstand größte Gruppe westlicher Ausländer. Für ihre Bedürfnisse entstehen eigene Schulen, Geschäfte und Biergärten – kleine Inseln deutscher Lebensart inmitten des chinesischen Aufstiegs.

    Die Deutschen verdienen meist gut und treten nicht selten arrogant auf, besonders die deutschen Autobauer. Chinesische Mitarbeiter werden herumkommandiert, die Ehefrauen der meist männlichen Manager beklagen sich lautstark über die angebliche Rückständigkeit ihrer chinesischen Hausangestellten. Ich erinnere mich an einen Restaurantbesuch in Peking. Am Nebentisch sitzt ein deutsches Ehepaar. Weil die Angestellte etwas serviert, was das Ehepaar nicht bestellt hat, brüllt die Frau sie an, wie sie es in Deutschland in der Öffentlichkeit sicher nie wagen würde. Die junge Angestellte erträgt den Wutanfall mit gesenktem Kopf und ohne Widerworte.

    Es tut sich was

    Mit der Zeit verändert sich das Verhältnis von Deutschen und Chinesen. Die chinesischen Mitarbeiter verlangen Jahr für Jahr höhere Löhne. Mit dem Wohlstand wächst auch ihr Selbstbewusstsein. Immer deutlicher wird, dass auch die chinesische Führung sich mit der Situation nicht zufriedengibt. China wollte nie der ewige Schüler sein. Das ursprüngliche Ziel, von ausländischen Unternehmen zu lernen, um sie später durch eine starke heimische Industrie zu ersetzen, gelingt in einzelnen Branchen, etwa in der Textilindustrie, in der Elektronik oder in der Solarindustrie. Beim klassischen Verbrennungsmotor allerdings tun sich chinesische Unternehmen schwer, die deutschen Autobauer sind zu überlegen.

    Es ist schließlich Wan Gang, ein stets freundlich blickender und lächelnder Mittfünfziger, der als chinesischer ­Minister für Wissenschaft und Technologie eine neue Richtung vorgibt. Wan Gang hat in Clausthal-Zellerfeld in Niedersachsen studiert und mehrere Jahre bei Audi gearbeitet, er spricht sehr gut Deutsch. Im Frühjahr 2010 trifft sich die Nationale Reform- und Planungskommission, die im kommunistischen Apparat eine wichtige Rolle spielt. Bei der Sitzung teilt Wan Gang den Anwesenden mit, China solle nicht mehr länger von deutschen Herstellern abhängig sein. Er kündigt eine neue Antriebstechnologie an: den Elektromotor.

    Genau genommen ist der Elektro­motor keine neue Erfindung, die Technik ist sogar älter als der Verbrennungsmotor. Rückblickend wird man es wohl als eine der größten industriepolitischen Fehlentwicklungen betrachten, dass über 150 Jahre hinweg beim Automobil eine umweltschädliche Technologie bevorzugt wurde, anstatt den Elektromotor weiterzuentwickeln. Wie anders hätte sich die Geschichte der Mobilität entfalten können, hätte man schon früher auf diese saubere und effiziente Antriebstechnik vertraut?

    Wan Gang tut genau das. Schon früh entwickelt er eine umfassende Batteriestrategie, die nicht nur eine gezielte Förderung chinesischer Batteriehersteller wie BYD oder CATL vorsieht, sondern China auch den Zugang zu Rohstoffen in Afrika und Südamerika sichert.

    Ich erlebe Wan Gang zu jener Zeit bei einer Veranstaltung mit deutschen und chinesischen Automanagern in Peking. Auch hier erzählt er, wie er sich die neue Ära der Elektromobilität vorstellt. Für diese Vision wird er belächelt, von Deutschen und Chinesen. Zwar boomen Elektromotoren seinerzeit, allerdings nur in Mopeds und Treträdern. Dass ganze Limousinen mit Batterien betrieben werden sollen, erscheint auch vielen Chinesen kaum vorstellbar. Wan Gang lässt sich nicht beirren, die vorgetragenen Bedenken lächelt er freundlich weg.

    Im Frühjahr 2019 sehe ich von meiner Wohnung in Peking aus einen Bautrupp anrücken. Als ich einen Bauarbeiter frage, was hier gemacht wird, antwortet er, sie verlegten Fernwärme-leitungen, Glasfaser und Leitungen für Ladestationen – gleichzeitig

    In den folgenden Jahren bekommt die Elektromobilität mehrere Schübe. Elon Musk entdeckt China. Mit dem Eintritt Teslas auf dem chinesischen Markt ab 2013 und dem Bau einer Gigafactory ab 2018 in Shanghai wandelt sich Tesla in China vom Nischenanbieter zum Massenhersteller und wird in kurzer Zeit zum Maßstab für Elektromobilität.

    Die deutschen Autobauer haben diese Entwicklung nicht kommen sehen. Ich erinnere mich, wie VW-Vorstandschef Matthias Müller im Oktober 2017 über die US-Konkurrenz – ohne Tesla beim Namen zu nennen – sagt: „Es gibt Unternehmen, die kaum 80.000 Autos im Jahr verkaufen. Dann gibt es Firmen wie Volkswagen mit 11 Millionen Einheiten.“ Und weiter: „Wir sollten nicht Äpfeln mit Birnen vergleichen.“

    Musks Erfolg zeigt wiederum den Chinesen, dass auch ein Newcomer es schaffen kann, den traditionellen Autoriesen Konkurrenz zu machen. Warum dann nicht auch sie? Im ganzen Land entstehen bald Hunderte chinesische Start-ups, die Elektroautos bauen.

    Für einen weiteren Schub sorgen die Chinesen selbst mit einer Lockerung bestehender Regeln. Wer in den von Smog und Staus geplagten Metropolen Peking und Shanghai ein Nummernschild haben will, erhält sie bis dahin nur im Losverfahren. So soll die Zahl der Autos begrenzt werden. Die Chance, ein Nummernschild zu ergattern, liegt bei 1 zu 80. Nun gibt es eine Ausnahme: Elektroautos werden mit der neuen Regulierung von der Verlosungspflicht befreit.

    Die Regierung führt zudem eine Quote ein: Jedes zehnte in China verkaufte Auto soll ein sogenanntes New Energy Vehicle sein, also ein Elektroauto oder Plug-in-Hybrid. Diese Quote soll Jahr für Jahr sukzessive angehoben werden.

    Die Klagen sind groß – bei den deutschen, aber auch bei den chinesischen Autobauern. Sie klingen genauso, wie sie heute in Deutschland noch immer zu hören sind: Die Batterien seien zu leistungsschwach, es gebe viel zu wenig Ladestationen. Und überhaupt: Wer wolle schon elektrisch fahren? Die chinesische Regierung rudert zurück und lockert die Quote etwas, hält grundsätzlich aber an ihrem Kurs fest.

    Im Januar 2018 treffe ich gemeinsam mit Kollegen anderer Medien den China-Chef von Volkswagen, Jochem Heizmann, in einem Tagungsraum eines Pekinger Luxushotels. Dass er sich überhaupt mit Journalisten trifft, ist eher selten. Heizmann redet sachlich, auf kritische Nachfragen reagiert er gereizt. Heizmann ist in seiner Zeit als Vorstandsmitglied zuständig für das China-Geschäft, persönliche Nähe zu China und seine Kultur entwickelt er nicht. Anders als seine Mitarbeiter lebt er nicht einmal in Peking, sondern fliegt teilweise wöchentlich hin und her. Wir fragen ihn, wie sich VW angesichts der zusätzlichen Regularien neu aufstellen werde, der Kurs der chinesischen Führung sei ja eindeutig. Die Pläne für E-Autos lägen alle in der Schublade, antwortet Heizmann. Aber VW wäre ja schön blöd sie herauszuholen, solange Verbrenner sich noch so blendend verkauften.

    Der Rückstand Europas lässt sich kaum noch aufholen, sagt auch mein inzwischen 89-jähriger Vater an seinem Esstisch

    Im Frühjahr 2019 sehe ich von meiner Wohnung in Peking aus einen Bautrupp anrücken. Es dürften um die 100 Bauarbeiter sein. Binnen weniger Stunden haben sie mit Presslufthämmern und kleinen Baggern die gesamte Straße aufgerissen. Als ich einen Bauarbeiter frage, was hier gemacht wird, antwortet er, sie verlegten Fernwärmeleitungen, Glasfaser und Leitungen für Ladestationen – gleichzeitig. Fünf Tage später ist die Straße wieder zu­gebuddelt, die alten Bäume stehen wieder, neue Blumen und Sträucher werden gepflanzt. Und an jedem Parkplatz steht eine Ladesäule. Nicht nur in meiner Straße, im gesamten Stadtteil.

    Einige Monate später kehre ich nach Berlin zurück. In den nächsten Jahren wird vor meiner Wohnung mehrfach die Straße aufgerissen. Jedes Mal dauert es Monate. Fernwärmeanschluss hat meine Wohnung inzwischen, Glasfaser nach fast anderthalbjähriger Bauzeit auch. Die Ladestationen lassen immer noch auf sich warten.

    Der Schock

    Wegen der Pandemie vergehen Jahre, bis ich wieder nach China reisen kann. Erst im April 2023 findet die Automesse in Shanghai wieder statt. Wie viel in der Zwischenzeit passiert ist, merke ich erst dort.

    In einer der Messehallen drängt sich eine Menschenmenge vor einem Stand. Aus den Lautsprechern ertönt sanftes Wellenrauschen. Der chinesische Autobauer BYD inszeniert hier seine neue „Ozean“-Reihe: drei vollelektrische SUVs. Besonders der Seagull – Möwe –, das kleinste Modell der Serie, begeistert das Publikum. Mit seiner abgerundeten Form und dem auffälligen Zitronengelb erinnert es an den VW-Käfer. Die Batterie hat eine Reichweite von bis zu 400 Kilometern, was für diese Fahrzeugklasse viel ist. Umgerechnet rund 10.000 Euro kostet die Basisversion – das entspricht einem Viertel des ­Preises für den VW ID.3 Pro, dem Einstiegs­modell von Volkswagen.

    Auch das Spitzenpersonal der deutschen Autobauer ist zur Shanghai Motor Show angereist. Die Manager von Volkswagen stehen an diesem Vormittag vor dem BYD-Stand. Staunen und Entsetzen zeichnen sich in ihren Gesichtern ab. Mit dem Seagull bietet BYD das, was die deutschen Hersteller all die Jahre versäumt haben zu entwickeln – oder leichtfertig in der Schublade liegen ließen: ein vollwertiges Elektroauto für die breite Masse.

    2023 muss VW erstmals seit dem Markteintritt die Spitzenposition an den chinesischen Konkurrenten BYD abgeben. Besonders alarmierend für die deutschen Autobauer: Im Segment der Elektroautos kommt VW nur auf einen Marktanteil von rund 2 Prozent. BMW, Mercedes und Porsche spielen hier praktisch gar keine Rolle. Die deutsche Fachpresse spricht vom „Shanghai-Schock“. Während die deutschen Autobauer ihre neuesten Verbrennermodelle zur Schau stellen, zeigt die chinesische Konkurrenz ausschließlich Autos mit batteriebetriebenen Elektromotoren. Ihre Stände sind überlaufen. Für die Ausstellungsflächen von Mercedes, BMW, Porsche, Audi und VW interes­sieren sich trotz viel Lichts und riesiger LED-Wände nur wenige.

    Warum das unrentable VW-Werk in Osnabrück nicht mit einem Partner aus China betreiben?   Foto: Jens Gyarmaty

    Die deutschen Automanager, die in Peking und Shanghai stationiert sind, waren in den Jahren zuvor offenbar so sehr mit der Pandemie beschäftigt, dass sie annahmen, auch bei den chinesischen Wettbewerbern passiere nicht viel. Doch während in Deutschlands Chefetagen Pandemie­pläne diskutiert wurden, haben sich Chinas Megastädte gewaltig ver­ändert. Vor ­Corona prägten in Shanghai Smog, Lärm und endlose Staus das Bild. Nach der Pandemie rollen leise surrende Elektroautos durch die Stadt, und an nahezu jedem Parkplatz steht eine Lade­säule.

    Heute, im Jahr 2025, ist mangelnde Ladeinfrastruktur in Chinas Groß­städten kein Thema mehr. Sie ist überall vorhanden. Nicht nur vor der eigenen Haustür, sondern auch auf Park­plätzen vor großen Einkaufszentren, wo selbstfahrende Laderoboter ihren Service anbieten. Einstige Tankstellen haben Batterieaustausch-Netzwerke und Schnellladesysteme, bei denen die ­Batterie nach weniger als 10 Minuten zu 80 Prozent wieder aufgeladen ist. CATL, Chinas führender Batterie­hersteller, der auch weltweit an der Spitze steht, bietet Batterien für Reichweiten von über 1.000 Kilo­metern an, BYD und Nio bauen sie in ihre Fahrzeuge ein.

    Seit vergangenem Jahr ist in China jedes zweite verkaufte Auto elektrifiziert – und das ganz ohne eine deutliche Verschärfung der staatlichen Elektroauto-Quote. Der Markt hat sich längst verselbstständigt. Immer mehr Menschen entscheiden sich aus eigener Überzeugung für ein E-Auto.
    Und nun?

    Der Elektroboom in China hat für gewaltige Überkapazitäten gesorgt. 22 Millionen Autos werden in China derzeit im Jahr verkauft, Kapazitäten geschaffen haben die Autobauer für über 50 Millionen Autos. Die Hundert­tausende Autos, die auf gigantischen Flächen vor den Autofabriken oder vor Hafenanlagen stehen, sollen aber irgendwohin. Die USA haben schon unter Joe Biden als Präsident ihren Automarkt dicht gemacht und Zölle auf chinesische E-Auto-Importe von pauschal 100 Prozent erhoben. So drängen die Hersteller nach Südamerika, Russland, Afrika und Südostasien. Die EU-Kommission befürchtet zwar – ähnlich wie die USA – eine Schwemme von billigen chinesischen E-Autos. Doch insbesondere die Deutschen sind gegen Strafzölle, sie wollen Vergeltungs­maß­nahmen der Chinesen auf deutsche Auto­verkäufe in China vermeiden.

    Anders als beim Verbrenner liegt die Wertschöpfung eines chinesischen Elektroautos, von der Batterie bis zur Software, komplett in chinesischer Hand. Die deutschen Autobauer hingegen sind beim Herzstück des E-Autos, der Batterie, auf chinesische Lieferanten angewiesen.

    Der Rückstand Europas lässt sich kaum noch aufholen, sagt auch mein inzwischen 89-jähriger Vater an seinem Esstisch in Berlin. Ich berichte ihm, was ich über die Krisenstimmung in Wolfsburg weiß. Er informiert mich, was er aus chinesischen Medien über den Automarkt erfährt. Fast täglich bekommt er von ehemaligen Kollegen aus Changchun, Shanghai und Nanjing die Berichte über die Entwicklungen des chinesischen Automarkts geschickt, aus deutscher Sicht sind es Schreckensmeldungen.

    Wir sprechen auch darüber, wie es für VW weitergehen könnte. Auch wenn das noch vor Kurzem unvorstellbar war: Angesichts der technologischen Überlegenheit der Chinesen könnte ein Teil der Lösung sein, chinesische Hersteller von Batterien und Fahrzeugen für die Ansiedlung in Europa – möglichst in Deutschland – zu gewinnen. Warum das unrentable VW-Werk in Osnabrück nicht mit einem Partner aus der Volksrepublik betreiben? Das wird in Berater­kreisen des Wirtschaftsministeriums unter Robert Habeck Anfang des Jahres ernsthaft in Erwägung gezogen. So könnten Arbeitsplätze gesichert werden, Technologietransfer stattfinden – wir lernen von den ­Chinesen. VW selbst äußert sich auf Anfrage offiziell dazu nicht.

    Derartige Formen der Zusammenarbeit kennen deutsche Konzerne aus China, wo Joint Ventures einst die Eintrittskarte in den chinesischen Markt waren. Jetzt könnte es umgekehrt laufen: Die Chinesen sind die Lehrer, die Deutschen müssen auf die Schulbank.

    Mein Vater sagt, es brauche einen Mentalitätswechsel in Wolfsburg, und das werde nicht leicht. Noch immer hätten viele VW-Manager die Arroganz gegenüber China nicht abgelegt, noch immer wüssten sie nicht, wie man mit den chinesischen Partnern verhandeln soll. Von „Überforderung in Wolfsburg“ spricht er, auch von „Gier“.

    Als er noch für VW arbeitete, ging es um ganze zwei Werke in China. Heute sind es 37.

    Ob er sein Lebenswerk bedroht sieht? „Ja“, sagt er, „natürlich.“

    #Allemagne #Chine #économie #histoire

  • #Eurêkoi : Les bibliothécaires répondent à votre curiosité directement sur mobile

    Eurêkoi est un service de questions-réponses en ligne, gratuit et ouvert à tous, qui répond à vos demandes en moins de 72h. Désormais disponible sur smartphone et tablette via ses nouvelles applications iOS et Android, ce service public d’exception devient encore plus accessible. Bâti, alimenté et animé par l’#intelligence_collective de 600 #bibliothécaires en France et en Belgique, Eurêkoi est une perle numérique à promouvoir et à protéger.

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    Applications pour mobile Eurekoi

    "Si Google peut vous apporter des centaines de milliers de résultats, les bibliothécaires peuvent vous aider à trouver le bon !"

    Cette citation de Neil Gaiman, auteur britannique, résume parfaitement la philosophie d’Eurêkoi. Les professionnels du réseau le prouvent au quotidien avec cette formidable initiative pilotée par la Bibliothèque Publique d’information du Centre Pompidou à Paris.

    Comme le formidable site #InterroGe développé par les bibliothèques de la ville de Genève, Eurêkoi part de la même idée d’aider à trouver des réponses dans l’immensité des sources d’informations mondiales. Mais la réponse ici, contrairement aux moteurs de recherche et autres algorithmes, est humaine.

    Eurêkoi regroupe 48 bibliothèques situées en France et en Belgique et mobilise plus de 600 professionnels. Le réseau s’efforce de trouver le meilleur interlocuteur pour répondre à vos questions en fonction de la spécialité des bibliothèques partenaires. Une réponse documentée est apportée dans un délai de 72 heures. Magique.

    Des réponses documentées à toutes vos questions

    Questions bibliothécaires

    Eurêkoi c’est aussi un site web qui regroupe une belle sélection des questions posées ainsi que des réponses apportées par les bibliothécaires. Une mine d’informations et de découvertes de toute sorte que l’on parcourt avec plaisir façon encyclopédie. Un #moteur_de_recherche interne permet également, avant de poser votre question, de vérifier si elle a déjà été traitée sur le réseau.

    Vous trouverez également sur le site tous les conseils pour formuler efficacement votre question et des guides méthodologiques pour mener vous-même des recherches documentaires.

    Le site propose une interface colorée et moderne qui séduit tous les publics. Avec le lancement des applications mobiles, cette expérience utilisateur optimisée se prolonge naturellement sur smartphone et tablette.

    Des #suggestions de #livres, #films et #séries

    Les bibliothécaires du réseau Eurêkoi n’ont pas oublié leurs missions traditionnelles, notamment celle de jardinier de la #curiosité des lecteurs. Irriguer et cultiver via des propositions de lectures reste au cœur de leur ADN. Eurêkoi se définit d’ailleurs comme « complice de votre curiosité ».

    Le service propose des conseils personnalisés en fiction : romans, littérature jeunesse, bande dessinée, séries TV et films. Un questionnaire interactif permet d’obtenir des suggestions adaptées à votre profil et à vos envies du moment. Là, encore, vous pouvez consulter l’historique des suggestions réalisées sur le site. Une véritable mémoire collective des goûts et découvertes.

    Un service d’utilité publique renforcé par le mobile

    Un grand coup de chapeau à l’immense équipe de bibliothécaires qui proposent ce service d’utilité publique.

    On voit de plus en plus de machines et d’ordinateurs dans les bibliothèques, mais ils ne remplaceront jamais le savoir-faire, le conseil avisé et la passion des bibliothécaires. La preuve par Eurêkoi.

    Eurêkoi, avec ses nouvelles applications mobiles, franchit une étape supplémentaire dans sa mission de démocratisation du savoir. Désormais accessible en mobilité, le service confirme sa vocation : être un service public authentiquement au service des gens.

    Eurêkoi reste entièrement gratuit et donc d’une valeur inestimable. Les applications sont également gratuites et disponibles sur l’App Store et Google Play.

    https://outilstice.com/2025/06/eurekoi-bibliothecaires-repondent-aux-questions
    #bibliothèque #app #smartphone #alternative #google #recherche #documentation
    #au_lieu_de_demander_à_ChatGPT

    Le site web :
    https://www.eurekoi.org
    –-> déjà signalé par @touti :
    https://seenthis.net/messages/1096683

  • Mieux s’alimenter pour moins cher, l’objectif des supermarchés et réseaux d’achat coopératifs

    #Supermarchés_coopératifs et #groupements_d'achat proposent aux consommateurs une meilleure alimentation à des #prix plus accessibles. Ils cherchent maintenant à toucher un public plus large et plus mixte socialement.

    A la #Louve, les caissiers et les caissières sont aussi des clients. Ils font partie des 4 000 coopérateurs du supermarché coopératif et participatif qui a ouvert ses portes en 2016 dans un quartier populaire du nord de la capitale. Toutes les quatre semaines, chaque coopérateur vient assurer un service bénévole. Les tâches sont variées : mise en rayon, nettoyage, travail administratif…

    Pour devenir membre de la #coopérative, ils ont versé cent euros, et en ont acheté dix parts sociales à10 euros. #La_Louve a fait des émules, à Toulon, Toulouse, Lille, Bruxelles, d’autres supermarchés coopératifs et participatifs ont ouvert leurs portes même s’ils sont de taille plus modeste.

    C’est en visitant #Brooklyn en 2009 que #Tom_Boothe, l’un des cofondateurs du projet, découvre la #Park_Slope_Food_Coop (#PSFC), fondée en 1973. « Pendant les années 1970, dans le sillage du mouvement hippie, de nombreux magasins participatifs, inspirés des #épiceries_coopératives, ont vu le jour. Mais presque tous ont disparu dans les années 1980. Seul PSFC a survécu », raconte-t-il. PSFC a aidé à la naissance de la Louve.

    L’histoire des coopératives de consommateurs est bien plus ancienne et remonte la première moitié du XIXe siècle. En 1844, à #Rochdale en Angleterre, des tisserands se sont rassemblés pour fonder les #Equitables pionniers de Rochdale. Constatant que leur niveau de vie dépendait des marchands qui fixaient les prix des marchandises qu’ils achetaient, ils ont créé un magasin coopératif.

    Leur but était non seulement de garantir aux clients des prix raisonnables, mais aussi une bonne qualité des produits à une époque où les fraudes étaient légion. Rapidement, la taille de la coopérative s’est accrue au point de compter plus de 10 000 membres en 1880.

    Une large gamme de produits

    La Louve propose une palette étendue de produits alimentaires et d’hygiène. Dans un même rayon voisinent grandes marques, produits bio et produits « gourmets », mais tous sont de 20 % à 50 % moins chers que dans la grande distribution. Les produits vendus sont choisis par les adhérents via un classeur de suggestions.

    « Notre but n’est pas d’être un complément, mais de permettre d’acheter l’ensemble des produits : nous ne nous en interdisons aucun. Nous ne sommes pas un club, mais un #magasin où des adultes font leurs choix en conscience », explique Tom Boothe.

    Tous les produits ne sont donc pas biologiques. « On peut acheter à la Louve des tomates en hiver, mais dans les faits, nous en vendons très peu », précise toutefois Tom Boothe.

    Si la Louve a vocation à toucher le public le plus large, dans les faits, cela reste compliqué : 10 % des membres ne souscrivent qu’une part sociale car ils sont bénéficiaires du revenu de solidarité active (RSA), étudiants boursiers ou en service civique. 16 % payent leur souscription en plusieurs chèques.

    « Ceux qui fréquentent la Louve sont sans doute plus "blancs" et ont des revenus plus élevés que la moyenne de la population. Malgré une action volontariste, dont des portes ouvertes tous les premiers samedis du mois, les gens du quartier présument que comme nous sommes un supermarché alternatif, cela va être plus cher », regrette-t-il.

    Un chèque-déjeuner avec bonus alimentation durable

    Elargir l’accès à une alimentation de qualité, c’est la démarche d’une autre coopérative, #Up_Coop, la société coopérative et participative (Scop) qui a popularisé le #chèque-déjeuner. « Le titre-restaurant s’étant largement démocratisé auprès des salariés, nous nous sommes demandé comment ramener ces ressources vers l’économie locale », explique Yassir Fichtali, directeur général secteur public chez Up Coop.

    En 2023, la Scop s’est donc associée à la ville de #Creil pour lancer le programme #Up+. La municipalité a proposé de bonifier sur une cagnotte la somme versée à ses agents s’ils l’utilisent sur la ville de Creil, et encore davantage en centre-ville. La carte #Up_Déjeuner devient ainsi un outil pour soutenir le commerce de centre-ville.

    « Nous allons tirer maintenant ce fil vers l’alimentation durable, inciter les gens à passer de la junk food à des achats dans des magasins bio, du vrac… », poursuit-il.

    Plusieurs villes se sont ensuite engagées dans le programme Up+ : Bourg-en-Bresse, Valenciennes, Haguenau, Nancy, Halluin, Mulhouse, Bagnolet et Angers. En Seine-Saint-Denis et dans le Gers, Up Coop participe à des expérimentations visant à orienter vers une #alimentation_durable la consommation de populations en difficulté.

    Le département du 93 a ainsi mis en place sur quatre territoires un #chèque_alimentation sous forme de carte, #Vital’im, en ciblant à chaque fois un public spécifique : à Montreuil, les personnes accompagnées par le CCAS, à Villetaneuse, un public étudiant, à Clichy-sous-Bois et Sevran, des familles. Son montant est bonifié de 50 % si les achats sont effectués chez un commerçant durable (Biocoop, primeurs locaux, les commerces et producteurs locaux).

    « On ne peut pas demander à des personnes en difficulté de payer le juste prix du durable. Cette politique publique permet à des publics de ne plus avoir à arbitrer entre le #pouvoir_d’achat et le #pouvoir_d’agir », commente Yassir Fichtali.

    Les CCAS, la Fondation Armée du salut, Action contre la faim sont associés à cette initiative. « Certains bénéficiaires n’osaient pas entrer dans un Biocoop, ils avaient l’impression que ce n’était pas pour eux. Des #freins que l’on peut déconstruire », souligne-t-il. Encore faut-il que cette offre alimentaire durable existe sur le territoire : à Clichy-sous-Bois, ce n’est par exemple pas le cas.

    Cette difficulté n’existe pas dans le département rural du Gers, où Up Coop participe au programme public #Mieux_manger, lancé en 2024. La mission a d’abord consisté à affilier les producteurs bio. Un groupement d’intérêt public rassemblant des collectivités et des associations a ensuite identifié plusieurs centaines de personnes destinataires d’une bonification en cas d’achat alimentaire durable et cette bonification évolue au fil des usages.

    « L’idée de cette expérimentation est de vérifier que le changement des pratiques va perdurer même si la bonification baisse », indique Yassir Fichtali.

    #Vrac, un groupement d’achat agroécologique

    #Vers_un_réseau_d’achat_en_commun (Vrac) mobilise aussi le soutien des pouvoirs publics dans une démarche résolument démocratique, en proposant des achats alimentaires sans emballages issus de l’agroécologie. Depuis 2013, il permet ainsi aux plus modestes – mais pas seulement – de se réapproprier leur #consommation_alimentaire.

    Au départ, son initiateur, #Boris_Tavernier, qui avait monté à Lyon un bar restaurant coopératif cuisinant des produits paysans, a été sollicité par un bailleur social lyonnais et la Fondation Abbé-Pierre (désormais Fondation pour le logement des défavorisés) pour monter un projet d’achat en commun afin d’améliorer le pouvoir d’achat des locataires. C’est ainsi qu’est né le premier #groupement_d’achat sous forme d’association.

    « Pas question toutefois de chercher les prix les plus bas, mais plutôt d’orienter les achats vers une alimentation durable et de qualité rémunératrice pour les producteurs », explique Lorana Vincent, déléguée générale de Vrac France, l’association nationale qui rassemble désormais 22 structures locales.

    Douze ans après, le réseau emploie une centaine de salariés. Une épicerie éphémère ouvre une fois par mois dans un local de chacun des quartiers où le réseau est implanté (association, maison des jeunes et de la culture, centre social…). Des bénévoles pèsent les produits, et chaque adhérent apporte ses contenants.

    En 2013, le projet a été lancé dans le quartier lyonnais de la #Duchère, à #Villeurbanne et #Vaux-en-Velin. L’initiative s’est tout d’abord heurtée à l’absence d’offre de qualité dans ces territoires emblématiques de la politique de la ville où le hard discount est très présent, et aux réticences de leurs habitants. Pour vaincre celles-ci, Vrac s’est appuyé sur des personnes-ressources, en très grande majorité des femmes.

    « Nous leur avons fait goûter les produits sans les présenter comme bio. Nous avons construit avec elles le catalogue en partant de leurs besoins. L’#huile_d’olive a été un formidable levier. Elles se sont emparées du projet », poursuit Lorana Vincent.

    Cette démarche de #démocratie_alimentaire s’est inscrite dans le temps. Sur chaque territoire, un « club produits » associant bénéficiaires et bénévoles est régulièrement réuni pour faire évoluer le catalogue. Les produits sont vendus sans marge, à un prix rémunérateur pour le producteur.

    « Vrac est un espace collectif où les habitantes et les habitantes ont accès à l’information sur l’origine des produits, la rémunération des producteurs. Cela permet de prendre ses décisions de manière éclairée et participe à faire de l’alimentation un sujet politique. »

    Le soutien crucial des pouvoirs publics

    Cette absence de marge est rendue possible par des #financements_publics. Depuis 2023, Vrac est notamment soutenu par la Direction générale de la cohésion sociale (DGCS), via le fonds #Mieux_manger_pour_tous. Les habitants des #quartiers_populaires peuvent acheter les produits 10 % moins cher que les prix coûtants, et même 50 % pour les personnes bénéficiant des minima sociaux.

    Si l’aventure Vrac a commencé dans ces quartiers populaires et continue à s’y développer, le réseau souhaite s’adresser à tous et toutes. Certes, les personnes non issues de ces quartiers payent, elles, 10 % de plus par rapport au prix coûtant. Mais « c’est un prix d’équilibre, cela permet que leurs achats ne coûtent rien au réseau », souligne Lorana Vincent. Et cela reste inférieur à ce qui se pratique dans le commerce traditionnel.

    Cette volonté de favoriser la mixité sociale est au cœur de la démarche de Vrac. « ATD Quart-monde a pour habitude de rappeler qu’une politique pour les pauvres, c’est une pauvre politique », conclut sa déléguée générale.

    https://www.alternatives-economiques.fr/mieux-salimenter-cher-lobjectif-supermarches-reseaux-d/00114404
    #alimentation #qualité #réseaux #supermarché_participatif #bénévolat #mixité_sociale

  • African prisoners made sound recordings in German camps in WW1: this is what they had to say
    https://theconversation.com/african-prisoners-made-sound-recordings-in-german-camps-in-ww1-this

    8.6.2025 by Anette Hoffmann - During the first world war (1914-1918) thousands of African men enlisted to fight for France and Britain were captured and held as prisoners in Germany. Their stories and songs were recorded and archived by German linguists, who often didn’t understand a thing they were saying.

    Now a recent book called Knowing by Ear listens to these recordings alongside written sources, photographs and artworks to reveal the lives and political views of these colonised Africans from present-day Senegal, Somalia, Togo and Congo.

    Anette Hoffmann is a historian whose research and curatorial work engages with historical sound archives. We asked her about her book.
    How did these men come to be recorded?

    A book cover showing an old sepia image of the back of an African man as he walks, head bowed, led by a man in a military helmet.
    Duke University Press

    About 450 recordings with African speakers were made with linguists of the so-called Royal Prussian Phonographic Commission. Their project was opportunistic. They made use of the presence of prisoners of war to further their research.

    In many cases these researchers didn’t understand what was being said. The recordings were archived as language samples, yet most were never used, translated, or even listened to for decades.

    The many wonderful translators I have worked with over the years are often the first listeners who actually understood what was being said by these men a century before.
    What did they talk about?

    The European prisoners the linguists recorded were often asked to tell the same Bible story (the parable of the prodigal son). But because of language barriers, African prisoners were often simply asked to speak, tell a story or sing a song.

    We can hear some men repeating monotonous word lists or counting, but mostly they spoke of the war, of imprisonment and of the families they hadn’t seen for years.

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    Listen Abdoulaye Niang from Senegal sings in Wolof

    In the process we hear speakers offer commentary. Senegalese prisoner Abdoulaye Niang, for example, calls Europe’s battlefields an abattoir for the soldiers from Africa. Others sang of the war of the whites, or speak of other forms of colonial exploitation.

    When I began working on colonial-era sound archives about 20 years ago, I was stunned by what I heard from African speakers, especially the critique and the alternative versions of colonial history. Often aired during times of duress, such accounts seldom surface in written sources.

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    Listen Joseph Ntwanumbi from South Africa chants in isiXhosa

    Clearly, many speakers felt safe to say things because they knew that researchers couldn’t understand them. The words and songs have travelled decades through time yet still sound fresh and provocative.
    Can you highlight some of their stories?

    The book is arranged around the speakers. Many of them fought in the French army in Europe after being conscripted or recruited in former French colonies, like Abdoulaye Niang. Other African men got caught up in the war and were interned as civilian prisoners, like Mohamed Nur from Somalia, who had lived in Germany from 1911. Joseph Ntwanumbi from South Africa was a stoker on a ship that had docked in Hamburg soon after the war started.

    A colourised portrait in profile of an unsmiling African man with a beard in a thick brown coat.
    Abdoulaye Niang. Wilhelm Doegen/Anette Hoffmann

    In chapter one Niang sings a song about the French army’s recruitment campaign in Dakar and also informs the linguists that the inmates of the camp in Wünsdorf, near Berlin, do not wish to be deported to another camp.

    An archive search reveals he was later deported and also that Austrian anthropologists measured his body for racial studies.

    His recorded voice speaking in Wolof travelled back home in 2024, as a sound installation I created for the Théodore Monod African Art Museum in Dakar.

    Chapter two listens to Mohamed Nur from Somalia. In 1910 he went to Germany to work as a teacher to the children of performers in a so-called Völkerschau (an ethnic show; sometimes called a human zoo, where “primitive” cultures were displayed).

    A black and sepia painting of a young man in a plain shirt, hair receding from his forehead.
    Mohamed Nur. Rudolf Zeller.

    After refusing to perform on stage, he found himself stranded in Germany without a passport or money. He worked as a model for a German artist and later as a teacher of Somali at the University of Hamburg. Nur left a rich audio-visual trace in Germany, which speaks of the exploitation of men of colour in German academia as well as by artists. One of his songs comments on the poor treatment of travellers and gives a plea for more hospitality to strangers.

    Stephan Bischoff, who grew up in a German mission station in Togo and was working in a shoe shop in Berlin when the war began, appears in the third chapter. His recordings criticise the practices of the Christian colonial evangelising mission. He recalls the destruction of an indigenous shrine in Ghana by German military in 1913.

    An old black and white photo of an African man bending over and playing drums on a hollowed out log. He’s dressed warmly with a scarf and looks directly to camera, eyes grim.
    Albert Kudjabo drumming in a German camp. Photographer unknown

    Also in chapter three is Albert Kudjabo, who fought in the Belgian army before he was imprisoned in Germany. He mainly recorded drum language, a drummed code based on a tonal language from the Democratic Republic of Congo that German linguists were keen to study. He speaks of the massive socio-cultural changes that mining brought to his home region, which may have caused him to migrate.

    Together these songs, stories and accounts speak of a practice of extracting knowledge in prisoner of war camps. But they offer insights and commentary far beyond the “example sentences” that the recordings were meant to be.
    Why do these sound archives matter?

    As sources of colonial history, the majority of the collections in European sound archives are still untapped, despite the growing scholarly and artistic interest in them in the last decade. This interest is led by decolonial approaches to archives and knowledge production.

    A room with chairs and shelves and a table. On the wall, a poster of a portrait of an African man and on the top of the shelves a photo of an African woman from behind, hair braided elaborately.
    The author’s sound installation in Dakar of Niang’s recordings. Anette Hoffmann

    Sound collections diversify what’s available as historical texts, they increase the variety of languages and genres that speak of the histories of colonisation. They present alternative accounts and interpretations of history to offer a more balanced view of the past.

    #Alkemagne #colonialisme #guerre #racisme