• Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

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  • Les Canadiens, chefs de file du gaspillage alimentaire Radio-Canada - Mis à jour le 26 mai 2021
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1774932/nourriture-rapport-onu-pertes-environnement

    Le Canada est champion du gaspillage alimentaire à la maison en Amérique du Nord, loin devant les États-Unis, selon une nouvelle étude.

    C’est ce que révèle un nouveau rapport de l’ONU publié jeudi. Selon l’étude, chaque Canadien jetterait 79 kg (175 lb) de nourriture par année, soit 20 kg (44 lb) de plus que l’Américain moyen.

    En 2019, trois millions de tonnes de nourriture ont ainsi trouvé le chemin de la poubelle au Canada.


    Près de 20 % de la nourriture est gaspillée dans les secteurs du commerce de détail, de la restauration et par les ménages - Photo : Getty Images

    Le rapport rédigé par le Programme des Nations unies pour l’environnement (PNUE) estime à près d’un milliard de tonnes la quantité de nourriture gaspillée dans le monde en 2019 dans les commerces de détail, les restaurants et au sein des ménages. Il inclut dans le calcul des déchets alimentaires à la fois les parties comestibles et non comestibles (épluchures, noyaux, etc.) des aliments.

    Le gaspillage individuel, qui provient des foyers, est responsable de la majorité des pertes de ces trois secteurs.
    En tout, c’est près de 20 % de la nourriture produite dans le monde qui est ainsi gaspillée.
    Le rapport https://www.unep.org/fr/resources/rapport/rapport-2021-du-pnue-sur-lindice-du-gaspillage-alimentaire ne tient toutefois pas compte des pertes liées à la production agricole, à la distribution et à la transformation.

    Mise au point
    Cet article et son titre ont été modifiés pour préciser la méthodologie et mieux refléter la portée du rapport du PNUE.

    Un problème qui ne touche pas que les pays riches
    “Le problème est immense. C’est coûteux aux niveaux environnemental, social et économique”, a déclaré à l’AFP Richard Swannel, directeur du développement de l’ONG britannique Wrap et co-auteur du rapport du PNUE.

    Selon ses auteurs, “le rapport présente la collecte, l’analyse et la modélisation des données sur le gaspillage alimentaire les plus complètes à ce jour”.


    Plus de 900 millions de tonnes de nourriture sont gaspillées chaque année à l’échelle mondiale. - Photo : Reuters / Ben Nelms

    Des données pour l’année 2019 ont été recueillies dans 54 pays, développés comme à bas revenus.

    Résultat des compilations, modélisées ensuite à l’échelle mondiale : 931 millions de tonnes d’aliments sont jetées par an, dans les restaurants, les commerces et par les ménages.

    Et contrairement à une idée reçue, ces données montrent que le phénomène touche tous les pays, quel que soit leur niveau de revenu.

    « Jusqu’à présent, le gaspillage alimentaire était considéré comme un problème de pays riches. Mais notre rapport montre que dans chaque pays l’ayant mesuré, le gaspillage domestique est un problème. » Une citation de Clementine O’Connor, co-auteure du rapport

    Selon l’ONU, près de 700 millions de personnes à travers le monde souffrent de la faim et 3 milliards n’ont pas accès à une alimentation saine. La population mondiale est estimée à 7,8 milliards d’individus.

    À écouter
    Dans une entrevue à l’émission Tout un matin, https://ici.radio-canada.ca/ohdio/premiere/emissions/tout-un-matin/segments/entrevue/346025/environnement-dechet-nourriture-rapport-onu le chercheur indépendant Éric Ménard explique que selon lui l’étude du PNUE est incomplète.

    Pertes alimentaires et changements climatiques
    L’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture (FAO) compile de son côté un rapport sur les “pertes” alimentaires, mesurées au niveau de la production agricole et de la distribution.

    Selon ses chiffres, environ 14 % des aliments produits dans le monde sont perdus avant même de parvenir sur le marché, soit un montant de quelque 400 milliards de dollars par an, à peu près le PIB de l’Autriche.

    “Si le gaspillage et les pertes alimentaires étaient un pays, il serait le troisième émetteur au monde de gaz à effet de serre”, relève Richard Swannel. “Il faut réparer le système alimentaire si on veut s’attaquer au changement climatique, et une des priorités c’est de s’occuper des déchets”.

    Lorsque ces déchets se retrouvent au dépotoir, leur processus de décomposition émet du méthane, un puissant gaz à effet de serre.

    Un des objectifs de développement durable de l’ONU prévoit une réduction de moitié du gaspillage alimentaire, tant chez les consommateurs que dans les commerces de détail d’ici 2030.

    Les Nations unies doivent d’ailleurs organiser à l’automne le tout premier “sommet sur les systèmes alimentaires”, visant à des modes de production et de consommation plus “sains, durables et équitables”.

    #nourriture #faim #alimentation #gaspillage #gaspillage_alimentaire #agriculture #consommation #déchets

  • Nous pouvons (et devons) stopper la crise sur les marchés internationaux – Fondation FARM
    https://fondation-farm.org/crise-alimentaire-securite-mondiale

    Bien sûr, la guerre en Ukraine n’a rien arrangé. Cette région du monde (Ukraine + Russie) produit une part significative du blé et du maïs exporté sur les marchés internationaux (environ 20%) et il en est de même pour les huiles végétales (notamment celle de tournesol) et pour les engrais azotés. Pour l’instant, ce n’est pas tant la production qui est compromise que les exportations (qui se faisaient traditionnellement par les ports de la mer Noire).
    Mais l’essentiel de la hausse des prix s’est produit avant la guerre en Ukraine. Et il ne s’agit pas là d’un détail. Car si les prix alimentaires, notamment ceux du maïs, du blé et des huiles végétales, ont fortement augmenté depuis la mi-2020, c’est parce qu’ils ont été entraînés à la hausse par le prix des énergies fossiles (pétrole et gaz naturel). Ce qui est en cause, c’est donc notre modèle de production agricole basé sur l’utilisation intense de ces énergies : intrants chimiques (notamment les engrais azotés fabriqués avec du gaz naturel), mécanisation, transport à grande distance. Ce qui est en cause, c’est surtout notre utilisation massive de produits alimentaires pour fabriquer du carburant, surtout aux Etats-Unis (maïs) et dans l’Union européenne (colza). Une utilisation qui lie très fortement le prix des céréales (maïs et blé) et des huiles végétales aux prix des énergies fossiles.
    Alors bien sûr la guerre en Ukraine a prolongé et amplifié la crise mais lui en attribuer l’entière responsabilité est factuellement inexact. Nous (Européens et Américains du nord) avons aussi notre (grande) part de responsabilité et il nous revient de l’assumer.

    #marchés_céréales #crise_ukraine #biocarburant

  • Le système alimentaire mondial menace de s’effondrer

    Aux mains de quelques #multinationales et très liée au secteur financier, l’#industrie_agroalimentaire fonctionne en #flux_tendu. Ce qui rend la #production mondiale très vulnérable aux #chocs politiques et climatiques, met en garde l’éditorialiste britannique George Monbiot.

    Depuis quelques années, les scientifiques s’évertuent à alerter les gouvernements, qui font la sourde oreille : le #système_alimentaire_mondial ressemble de plus en plus au système financier mondial à l’approche de 2008.

    Si l’#effondrement de la finance aurait été catastrophique pour le bien-être humain, les conséquences d’un effondrement du #système_alimentaire sont inimaginables. Or les signes inquiétants se multiplient rapidement. La flambée actuelle des #prix des #aliments a tout l’air du dernier indice en date de l’#instabilité_systémique.

    Une alimentation hors de #prix

    Nombreux sont ceux qui supposent que cette crise est la conséquence de la #pandémie, associée à l’#invasion de l’Ukraine. Ces deux facteurs sont cruciaux, mais ils aggravent un problème sous-jacent. Pendant des années, la #faim dans le monde a semblé en voie de disparition. Le nombre de personnes sous-alimentées a chuté de 811 millions en 2005 à 607 millions en 2014. Mais la tendance s’est inversée à partir de 2015, et depuis [selon l’ONU] la faim progresse : elle concernait 650 millions de personnes en 2019 et elle a de nouveau touché 811 millions de personnes en 2020. L’année 2022 s’annonce pire encore.

    Préparez-vous maintenant à une nouvelle bien plus terrible : ce phénomène s’inscrit dans une période de grande #abondance. La #production_alimentaire mondiale est en hausse régulière depuis plus de cinquante ans, à un rythme nettement plus soutenu que la #croissance_démographique. En 2021, la #récolte mondiale de #blé a battu des records. Contre toute attente, plus d’humains ont souffert de #sous-alimentation à mesure que les prix alimentaires mondiaux ont commencé à baisser. En 2014, quand le nombre de #mal_nourris était à son niveau le plus bas, l’indice des #prix_alimentaires [de la FAO] était à 115 points ; il est tombé à 93 en 2015 et il est resté en deçà de 100 jusqu’en 2021.

    Cet indice n’a connu un pic que ces deux dernières années. La flambée des prix alimentaires est maintenant l’un des principaux facteurs de l’#inflation, qui a atteint 9 % au Royaume-Uni en avril 2022 [5,4 % en France pour l’indice harmonisé]. L’alimentation devient hors de prix pour beaucoup d’habitants dans les pays riches ; l’impact dans les pays pauvres est beaucoup plus grave.

    L’#interdépendance rend le système fragile

    Alors, que se passe-t-il ? À l’échelle mondiale, l’alimentation, tout comme la finance, est un système complexe qui évolue spontanément en fonction de milliards d’interactions. Les systèmes complexes ont des fonctionnements contre-intuitifs. Ils tiennent bon dans certains contextes grâce à des caractéristiques d’auto-organisation qui les stabilisent. Mais à mesure que les pressions s’accentuent, ces mêmes caractéristiques infligent des chocs qui se propagent dans tout le réseau. Au bout d’un moment, une perturbation même modeste peut faire basculer l’ensemble au-delà du point de non-retour, provoquant un effondrement brutal et irrésistible.

    Les scientifiques représentent les #systèmes_complexes sous la forme d’un maillage de noeuds et de liens. Les noeuds ressemblent à ceux des filets de pêche ; les liens sont les fils qui les connectent les uns aux autres. Dans le système alimentaire, les noeuds sont les entreprises qui vendent et achètent des céréales, des semences, des produits chimiques agricoles, mais aussi les grands exportateurs et importateurs, et les ports par lesquels les aliments transitent. Les liens sont leurs relations commerciales et institutionnelles.

    Si certains noeuds deviennent prépondérants, fonctionnent tous pareil et sont étroitement liés, alors il est probable que le système soit fragile. À l’approche de la crise de 2008, les grandes banques concevaient les mêmes stratégies et géraient le risque de la même manière, car elles courraient après les mêmes sources de profit. Elles sont devenues extrêmement interdépendantes et les gendarmes financiers comprenaient mal ces liens. Quand [la banque d’affaires] Lehman Brothers a déposé le bilan, elle a failli entraîner tout le monde dans sa chute.

    Quatre groupes contrôlent 90 % du commerce céréalier

    Voici ce qui donne des sueurs froides aux analystes du système alimentaire mondial. Ces dernières années, tout comme dans la finance au début des années 2000, les principaux noeuds du système alimentaire ont gonflé, leurs liens se sont resserrés, les stratégies commerciales ont convergé et se sont synchronisées, et les facteurs susceptibles d’empêcher un #effondrement_systémique (la #redondance, la #modularité, les #disjoncteurs, les #systèmes_auxiliaires) ont été éliminés, ce qui expose le système à des #chocs pouvant entraîner une contagion mondiale.

    Selon une estimation, quatre grands groupes seulement contrôlent 90 % du #commerce_céréalier mondial [#Archer_Daniels_Midland (#ADM), #Bunge, #Cargill et #Louis_Dreyfus]. Ces mêmes entreprises investissent dans les secteurs des #semences, des #produits_chimiques, de la #transformation, du #conditionnement, de la #distribution et de la #vente au détail. Les pays se divisent maintenant en deux catégories : les #super-importateurs et les #super-exportateurs. L’essentiel de ce #commerce_international transite par des goulets d’étranglement vulnérables, comme les détroits turcs (aujourd’hui bloqués par l’invasion russe de l’Ukraine), les canaux de Suez et de Panama, et les détroits d’Ormuz, de Bab El-Mandeb et de Malacca.

    L’une des transitions culturelles les plus rapides dans l’histoire de l’humanité est la convergence vers un #régime_alimentaire standard mondial. Au niveau local, notre alimentation s’est diversifiée mais on peut faire un constat inverse au niveau mondial. Quatre plantes seulement - le #blé, le #riz, le #maïs et le #soja - correspondent à près de 60 % des calories cultivées sur les exploitations. La production est aujourd’hui extrêmement concentrée dans quelques pays, notamment la #Russie et l’#Ukraine. Ce #régime_alimentaire_standard_mondial est cultivé par la #ferme_mondiale_standard, avec les mêmes #semences, #engrais et #machines fournis par le même petit groupe d’entreprises, l’ensemble étant vulnérable aux mêmes chocs environnementaux.

    Des bouleversements environnementaux et politiques

    L’industrie agroalimentaire est étroitement associée au #secteur_financier, ce qui la rend d’autant plus sensible aux échecs en cascade. Partout dans le monde, les #barrières_commerciales ont été levées, les #routes et #ports modernisés, ce qui a optimisé l’ensemble du réseau mondial. On pourrait croire que ce système fluide améliore la #sécurité_alimentaire, mais il a permis aux entreprises d’éliminer des coûts liés aux #entrepôts et #stocks, et de passer à une logique de flux. Dans l’ensemble, cette stratégie du flux tendu fonctionne, mais si les livraisons sont interrompues ou s’il y a un pic soudain de la demande, les rayons peuvent se vider brusquement.

    Aujourd’hui, le système alimentaire mondial doit survive non seulement à ses fragilités inhérentes, mais aussi aux bouleversements environnementaux et politiques susceptibles de s’influencer les uns les autres. Prenons un exemple récent. À la mi-avril, le gouvernement indien a laissé entendre que son pays pourrait compenser la baisse des exportations alimentaires mondiales provoquée par l’invasion russe de l’Ukraine. Un mois plus tard, il interdisait les exportations de blé, car les récoltes avaient énormément souffert d’une #canicule dévastatrice.

    Nous devons de toute urgence diversifier la production alimentaire mondiale, sur le plan géographique mais aussi en matière de cultures et de #techniques_agricoles. Nous devons briser l’#emprise des #multinationales et des spéculateurs. Nous devons prévoir des plans B et produire notre #nourriture autrement. Nous devons donner de la marge à un système menacé par sa propre #efficacité.

    Si tant d’êtres humains ne mangent pas à leur faim dans une période d’abondance inédite, les conséquences de récoltes catastrophiques que pourrait entraîner l’effondrement environnemental dépassent l’entendement. C’est le système qu’il faut changer.

    https://www.courrierinternational.com/article/crise-le-systeme-alimentaire-mondial-menace-de-s-effondrer

    #alimentation #vulnérabilité #fragilité #diversification #globalisation #mondialisation #spéculation

  • 70 ans d’agriculture française au service de l’accumulation capitaliste | Tanguy Martin
    https://www.terrestres.org/2022/06/14/70-ans-dagriculture-francaise-au-service-de-laccumulation-capitaliste

    En 1950, 31 % de la population active française était alors agriculteur.rice. En 2020, ce chiffre est tombé à … 2,5%. Cette spirale sans fin est le produit d’une politique qui a délibérément reposé sur l’industrialisation, le productivisme, la production et la consommation de masse, la concentration des terres et la disparition des paysan.es. Après 70 ans de modernisation agricole, l’impasse écologique se double d’une impasse économique et sociale. Tanguy Martin 14 juin 2022 Source : Terrestres

  • « Bébés Coca » : dans les Hauts-de-France, les ravages méconnus du soda sur les très jeunes enfants
    Médiacités - Virginie Menvielle
    https://www.mediacites.fr/enquete/lille/2022/06/10/bebes-coca-dans-les-hauts-de-france-les-ravages-meconnus-du-soda-sur-les-

    Dans les Hauts-de-France, un certain nombre d’enfants en bas âge ne consomment que des boissons sucrées.

    Des bébés aux dents de lait tachées, noircies, dont il ne reste que les racines. Des bambins de trois ou quatre ans exhibant déjà des prothèses dentaires ou des dents de travers, qui poussent trouées comme du gruyère… Ces enfants, les professionnels de santé et de la petite enfance qui les reçoivent ou les côtoient au quotidien les surnomment parfois « les bébés Coca ». Les descriptions qu’ils en font semblent sorties d’un livre de Dickens. Cela ne se passe pas à l’autre bout de la planète mais bien ici, dans la métropole lilloise et toute la région.


    La dentiste Angéline Leblanc a exercé à Roubaix et soutenu, en 2020, une thèse au CHU de Lille sur les caries précoces portant sur 50 enfants originaires de la métropole européenne de Lille (MEL). « On parle de caries précoces quand elles surviennent chez des enfants de moins de six ans », explique-t-elle. Dans certains cas, les premières taches sur les dents se manifestent bien avant. « Nous voyons parfois des patients d’un an qui ne possèdent que quatre dents, toutes cariées, déplore la professionnelle de santé. Il ne reste alors plus que les racines et nous n’avons pas d’autre solution que les extraire. »

    « On a plutôt tendance à retirer les dents qu’à les soigner »
    Au CHU de Lille, les interventions de ce type sont monnaie courante, constate Angéline Leblanc. « Il est très compliqué de soigner de si jeunes enfants : quand ils arrivent au service d’odontologie, c’est souvent trop tard. Cela fait trop longtemps qu’ils ont mal. On a alors plutôt tendance à retirer la ou les dents en question qu’à les soigner… »

    Les dentistes ne sont pas les seuls à faire ce constat. « On accueille des enfants aux dents tellement fines qu’elles se cassent très facilement », confie Stéphanie Leclerc, responsable du pôle petite enfance de la métropole lilloise au sein de l’Établissement public départemental pour soutenir, accompagner, éduquer (EPDSAE) de Lille. Âgés de quelques mois à six ans, ils subissent des interventions chirurgicales lourdes et enchaînent les rendez-vous médicaux plus ou moins traumatiques. À cela s’ajoutent les craintes des familles, totalement dépassées par les évènements.

    « Nous accompagnons des parents en grande précarité sociale, qui ne savent parfois pas lire. Ils pensent bien faire et n’ont pas conscience que ce qu’ils font consommer à leurs enfants peut être nocif, observe Stéphanie Leclerc. Certains ne reçoivent que des biberons de Coca ou d’Ice tea… » Les équipes de Stéphanie Leclerc, composées notamment d’éducateurs et d’auxiliaires de puériculture, font de la pédagogie. Elles demandent aux parents d’assister aux rendez-vous médicaux pour qu’ils prennent conscience des dangers que ce type de boissons représente pour leurs enfants.

    Pas tous égaux face aux biberons marron
    « On considère que 20 % de la population française concentre 80 % des problèmes de dentition », souligne Angéline Leblanc. Autrement dit, ceux-ci sont très corrélés au niveau de vie. Mais dans toutes les classes sociales, c’est la méconnaissance des dangers liés à l’ingestion des boissons sucrées pour les plus jeunes qui domine. « Les parents s’amusent à voir leurs bébés faire la grimace à cause des bulles. Ils leur en redonnent donc », raconte Stéphanie Leclerc.

    Devant la grille des écoles, des enseignantes interloquées voient passer des bébés avec des biberons marronasses dans leurs poussettes. « La première fois, ça m’a saisie, ça me paraissait assez surréaliste comme scène », se souvient Marie, enseignante en maternelle en REP+ dans le Pas-de-Calais. Elle en parle autour d’elle et découvre une pratique bien plus courante qu’elle ne l’imaginait. « J’ai noué des relations avec plusieurs familles – je suis notamment allée plusieurs fois chez une maman qui faisait goûter du Coca à son nourrisson avec une petite cuillère… »

    « Les familles les plus aisées ne se retrouveront pas avec des enfants en grande souffrance à qui il faut arracher des dents »

    Face à un tel fléau, les professionnels disent se sentir souvent impuissants. Jeune enseignante, Marie s’est retrouvée démunie face à une situation qui ne relevait pas de sa compétence. « J’essayais de créer un lien avec les familles. La meilleure manière de le faire n’était pas de leur tomber dessus en jugeant la façon dont elles élevaient leurs enfants. Mais j’ai quand même fait des allusions lors de voyages scolaires ou rappelé que boire de l’eau était indispensable. »

    Ces notes aux parents avant les sorties scolaires pour leur indiquer que l’eau est la boisson à privilégier pour tous les enfants, les enseignants et animateurs de centres de loisirs ont presque tous l’habitude de les faire. Et pas seulement dans les quartiers prioritaires. L’engouement pour les boissons sucrées touche toutes les classes sociales. Dans les réunions parents-profs, le sujet revient régulièrement sur la table. Parmi ceux qui ne jurent que par le bio, beaucoup oublient que dans les jus de fruits… il y a du sucre et en quantité ! Reste qu’à l’apparition des caries, les incidences ne sont pas les mêmes dans ces familles. « Les plus aisées vont aller chez le dentiste dès la première tache et ne se retrouveront pas avec des enfants en grande souffrance à qui il faut arracher des dents », confirme Angéline Leblanc.

    Vers une meilleure prévention ?
    Au regard de la gravité de la situation, certains professionnels de santé continuent d’enrager en passant dans les rayons de produits infantiles des supermarchés qui proposent notamment de petites bouteilles de concentré de fruits. « Ça devrait être interdit », lâche Angéline Leblanc, agacée. Elle n’est pas la seule à le penser. « On milite pour que des étiquettes “interdit aux moins de 6 ans” soient apposées sur les bouteilles de soda », annoncent les parents les plus impliqués. Mais ces coups de gueule sporadiques ne dépassent pas les conseils d’école et ne peuvent à eux seuls faire bouger les lignes. Ceux des dentistes non plus.

    « On essaye d’expliquer aux parents, mais bien souvent ils nous répondent qu’eux-mêmes ne boivent pas d’eau et ne voient pas où est le problème »

    Lancées en France en 2017, les étiquettes nutri-score pourraient devenir obligatoires fin 2022. Mais ces indications ne semblent pas suffire – d’où l’idée de créer d’autres marqueurs pour signaler les produits « interdits aux enfants », sur le modèle du logo « déconseillé aux femmes enceintes » sur les bouteilles d’alcool. Certains pays se sont déjà emparés du sujet. Deux États mexicains interdisent par exemple la vente de boissons sucrées aux moins de 18 ans depuis le 8 août 2020 https://elpais.com/mexico/2020-08-08/oaxaca-inicia-la-carrera-contra-los-productos-azucarados-con-el-apoyo-del-go . Une première mesure avait déjà été appliquée en 2014, qui imposait une taxe sur les boissons sucrées. Le Mexique est à ce jour le seul pays du monde à avoir pris de telles dispositions, principalement pour lutter contre l’obésité infantile. D’autres, comme le Chili, tentent d’inciter à la précaution au moyen d’ étiquettes choc . 
     
    Dans l’Hexagone, il n’existe rien de semblable pour le moment. Pourtant, une étude nationale sur l’état de santé des enfants de 5-6 ans dans les différentes régions de France https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/sites/default/files/er250.pdf , commanditée par le ministère de la Santé à l’aube de l’an 2000, faisait déjà état d’une situation d’urgence. Une vingtaine d’années plus tard, rien n’a changé. Désabusés, certains professionnels de la petite enfance finissent par abandonner. D’autres continuent à se mobiliser, avec des initiatives personnelles : des enseignants en maternelle distribuent des flyers sur l’importance de l’hygiène dentaire ou la nécessité de restreindre la consommation de boissons sucrées… « On essaye d’expliquer aux parents, mais bien souvent ils nous répondent qu’eux-mêmes ne boivent pas d’eau et ne voient pas où est le problème. »

    Faute de réponse massive et coordonnée des autorités sanitaires sur le sujet, leurs actions individuelles restent un minuscule pavé dans une immense mare de… Coca.
    #sucre #dents #santé #obésité #enfants #bambins #cola #coca_cola #pepsi_cola #alimentation #caries #dentistes #pauvreté #publicité #multinationales #écoles #ARS #prévention
    J’ai découvert l’existence des « bébés Coca » à l’entrée en maternelle de mon propre enfant. L’institutrice distribuait aux parents des flyers sur l’hygiène dentaire ; j’ai été interloquée par les préconisations qui y étaient imprimées. Il me paraissait évident qu’il ne fallait pas donner de sodas et de boissons sucrées aux plus jeunes avant de dormir, par exemple. J’en ai parlé avec l’enseignante : elle était très surprise que j’ignore l’existence de ces « bébés Coca » et m’a dit ce qu’elle en savait. Au fil du temps, d’autres personnes (éducateurs, auxiliaires puéricultrices…) que j’ai rencontrées lors de différents reportages ont mentionné ce qu’ils désignaient parfois aussi sous le nom de « syndrome du biberon ».

    Ces rencontres ont eu lieu dans l’Aisne, le Pas-de-Calais et le Nord. J’ai compris qu’il y avait un problème de santé publique et décidé d’enquêter. La rencontre avec Angéline Leblanc, dentiste qui a fait sa thèse sur le sujet, a été déterminante. Elle m’a permis de prendre conscience de l’ampleur du phénomène même s’il est impossible d’obtenir des chiffres sur le nombre d’enfants concernés. Pour l’heure, il n’existe pas de données, mêmes approximatives, sur le sujet. Contactée, l’Agence régionale de santé (ARS) Hauts-de-France n’a pas souhaité apporter son éclairage à Mediacités et nous le regrettons, dans une région réputée pour ses indicateurs inquiétants en la matière…

    Au Mexique, depuis début octobre 2020, de nouvelles étiquettes sont apparues sur les emballages alimentaires. Il s’agit de grands octogones en noir et blanc collés sur tous les aliments où il faut signaler un excès de gras, de sucre ou de sel. Une obligation contraignante puisqu’elle concernerait 80 % des produits mis à la vente, d’après l’Institut national de santé publique mexicain. L’Organisation mondiale de la santé (OMS) est convaincue de l’intérêt d’une telle initiative et a remis un prix au pays pour cette initiative ambitieuse. Le Mexique n’est pas le seul pays à avoir mis en place ce type d’étiquetage. Le Chili l’a fait il y a trois ans et les résultats vont dans le bon sens https://observatoireprevention.org/2020/09/02/le-chili-un-exemple-dintervention-agressive-de-letat-pour-co . Le Pérou, Israël et le Canada travaillent sur des systèmes similaires.

  • Nestlé, #ferrero : ouvriers sacrifiés, consommateurs en danger
    https://www.blast-info.fr/emissions/2022/nestle-ferrero-ouvriers-sacrifies-consommateurs-en-danger-GlLXoCbiS-O-55w

    Ces derniers mois de nombreux scandales sanitaires ont marqué l’actualité. Pizza Buitoni contenant la bactérie escherichia coli, Kinder à la salmonelle, ces intoxications ont vraisemblablement fait deux morts et conduit des dizaines d’enfants à l’hôpital.…

    #Alimentation #nestlé
    https://static.blast-info.fr/stories/2022/thumb_story_list-nestle-ferrero-ouvriers-sacrifies-consommateurs-e

  • Contrôle des #aliments : la #réforme passe en catimini | 60 Millions de Consommateurs
    https://www.60millions-mag.com/2022/06/03/controle-des-aliments-la-reforme-passe-en-catimini-20086

    La création d’une police unique, aux mains du ministère de l’agriculture, est actée. Les syndicats de la Répression des fraudes s’inquiètent.

    […]

    Selon Roland Girerd, « il y avait une vraie offensive [du ministère] de l’agriculture pour récupérer la tutelle », et l’absence de consultation autour du décret du 1er juin est un message fort du gouvernement pour les législatives : « Voilà ce qui est important pour nous, et ça ne vous regarde pas. »

    En mai, Solidaires s’interrogeait « sur les #conflits_d’intérêts que ce transfert sous-tend », sachant qu’il est « de notoriété publique que le ministère de l’agriculture entretient des liens privilégiés avec les lobbys de l’#agroalimentaire ».

  • Artificialisation des sols : les projets de construction sur des terrains agricoles ont explosé l’année dernière
    https://www.francetvinfo.fr/economie/emploi/metiers/agriculture/artificialisation-des-sols-les-projets-de-construction-sur-des-terrains

    Le nombre d’opérations pour des maisons individuelles ou des zones d’activités a bondi de 25% en 2021, selon un rapport. Les propriétaires ont notamment anticipé les mesures contre la pression foncière prévues par la loi Climat votée en juillet dernier.

    • Un article à mon avis indispensable à lire, sur le sujet de l’artificialisation des sols :
      L’artificialisation est-elle vraiment un problème quantitatif ?, Eric Charmes
      Eric Charmes
      https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00849424/document

      Extrait de la conclusion :

      Résumons-nous. La France et ses campagnes ne sont pas menacées par une artificialisation massive des sols. Elles sont encore moins menacées d’être submergées par des nappes pavillonnaires déversées par les villes. De fait, la ville ne s’étend plus guère par étalement continu de son agglomération centrale. Elle s’émiette. Ceci étant, à surface artificialisée égale, cet émiettement soulève des problèmes que l’étalement continu ne pose pas ou sous une forme moins accentuée. Pour l’agriculture en particulier, l’émiettement démultiplie l’impact des extensions urbaines et périurbaines. De ce point de vue, le monde agricole se trompe en réclamant un arrêt de l’artificialisation. Il serait plus avisé de réclamer une meilleure organisation des extensions urbaines et une meilleure planification. Il est vrai que cela lui demanderait des concessions significatives, puisqu’un meilleur contrôle des extensions périurbaines nécessiterait que les maires des petites communes rurales se départissent de leurs prérogatives en matière de contrôle de l’usage des sols...

  • Une partie du bétail suisse pourra de nouveau être nourri de farines animales RTS - ami
    https://www.rts.ch/info/suisse/13135293-une-partie-du-betail-suisse-pourra-de-nouveau-etre-nourri-de-farines-an

    Le Conseil des Etats a suivi lundi le Conseil national en décidant tacitement d’autoriser les farines animales pour nourrir les volailles et les porcs. Ces aliments avaient été bannis à la suite du scandale sanitaire de la vache folle au tournant du millénaire.

    L’idée n’avait déjà pas fait de vagues au Conseil national l’automne dernier. Les motions acceptées émanent du camp UDC et socialiste et relevaient que les farines animales sont à nouveau autorisées au sein de l’Union européenne.


    Les farines animales sont à nouveau autorisées dans l’agriculture et l’élevage / 19h30 / 2 min. / hier à 19:30

    L’interdiction de nourrir les animaux de rente par des protéines animales est un héritage de la crise de la « vache folle » (1986-2001), ou encéphalopathie spongiforme bovine (ESB), dont le variant Creutzfeldt-Jakob, pouvait se transmettre à l’homme. En 2001, le Conseil fédéral avait interdit les farines animales pour toutes les bêtes.

    Bovins pas concernés
    Interrogé dans Forum peu avant la décision du Conseil des Etats, Loïc Bardet, le directeur d’AGORA, l’organisation faîtière de l’agriculture romande, a expliqué que la situation actuelle a évolué depuis la crise de la « vache folle ». A ce moment-là, des bovins avaient été nourris avec des sous-produits carnés issus de leur propre espèce.

    « Ce qui est actuellement débattu au Parlement est limité aux omnivores qui sont monogastriques, les porcs et la volaille », a-t-il indiqué. « Et, surtout, on ne veut pas qu’il y ait de la nourriture interne à l’espèce. L’idée c’est de valoriser de la protéine animale, par exemple des porcs pour nourrir la volaille », a-t-il souligné. Les boeufs ne sont pas concernés par le projet, en raison du risque lié à la « vache folle ».

    Selon Loïc Bardet, l’utilisation de ces farines permettra aussi de se passer d’importations de nourriture de l’étranger, comme du soja ou des compléments alimentaires.

    « Un petit plus »
    « C’est un petit plus, mais ce n’est certainement pas déterminant pour l’ensemble de l’affouragement des porcs en Suisse », tempère dans le 19h30 Pascal Rufer, le responsable de la production animale de Prométerre, l’association vaudoise de promotion des métiers de la terre. « Les 20’000 tonnes de potentiel de ces protéines animales transformées représenteraient moins de 3% », estime-t-il.

    Également interrogé dans le 19h30, l’agriculteur vaudois Jean-Daniel Roulin est sceptique : « On a pu s’en passer pendant plus de vingt ans. Je ne vois pas pourquoi on reprendrait le risque de remettre ça dans les rations. »

    #prions #farines animales #vache_folle #encéphalopathie_spongiforme bovine #ESB #Creutzfeldt-Jakob #agriculture #élevage #alimentation #quelle_agriculture_pour_demain_ #vaches #viande #agro-industrie #Suisse #ue #union_européenne

  • #Pénurie de blé : vers une crise alimentaire
    https://www.blast-info.fr/articles/2022/penurie-de-ble-vers-une-crise-alimentaire-lRx6WAYdTsuByxceQKoDKg

    Dérèglement climatique, pandémie de Covid-19, hausse démographique : les causes de la crise alimentaire actuelle étaient déjà nombreuses. Depuis le mois de février, s’ajoute désormais le conflit entre la Russie et l’Ukraine, deux pays majeurs dans la…

    #Alimentation #Blé #Inflation
    https://static.blast-info.fr/stories/2022/thumb_story_list-penurie-de-ble-vers-une-crise-alimentaire-lRx6WAY

    • Des étudiants d’AgroParisTech appellent à « déserter » des emplois « destructeurs »

      Huit diplômés de l’école d’ingénieurs agronomes se sont exprimés, lors de leur cérémonie de remise de diplômes, contre un avenir tout tracé dans des emplois qu’ils jugent néfastes.

      « Ne perdons pas notre temps, et surtout, ne laissons pas filer cette énergie qui bout quelque part en nous. » Sur la scène de la luxueuse salle parisienne Gaveau, ce 30 avril, ils sont huit ingénieurs agronomes, fraîchement diplômés de la prestigieuse école AgroParisTech, à prendre la parole collectivement. Dans l’ambiance plutôt policée de cette soirée de remise de diplômes, après une introduction de musique disco sous éclairage de néons violet et vert bouteille, ils déroulent, d’un ton calme, un discours tranchant très politique.

      https://www.lemonde.fr/planete/article/2022/05/11/des-etudiants-d-agroparistech-appellent-a-deserter-des-emplois-destructeurs_

    • « Nous, démissionnaires » : enquête sur la désertion d’en bas

      Les discours vibrants d’étudiants d’une grande école d’ingénieurs agronomes, au moment de la remise de leur prestigieux diplôme, qui déclarent ne pas vouloir suivre la voie royale que notre société de classe leur réserve, ont eu un grand retentissement. Or, si la désertion d’une petite frange de nos élites est un événement, elle masque trop souvent la désertion d’en bas, moins flamboyante mais parfois plus héroïque, des membres de la classe laborieuse. Elle survient actuellement dans tous les secteurs, de la restauration à l’informatique en passant par l’Éducation nationale ou l’associatif. Les démissionnaires d’en bas disent beaucoup du dégoût du travail et de la vie sous le capitalisme. Ils remettent en question avec force la façon dont on produit, dirige et travaille dans ce pays comme ailleurs. Ils sont un groupe dont on ne parle pas mais qui augmente en nombre et dont l’existence est un caillou dans la botte du patronat. Enquête sur la désertion d’en bas.

      Il y a un an, j’ai conclu une rupture conventionnelle et quitté mon dernier CDI. Deux mois plus tard, une amie faisait de même. Six mois plus tard, un autre m’annonçait sa démission. Il y a deux semaines, mon frère a démissionné de son premier CDI, il a vécu ce moment comme une libération. Après des années de brimades et de résistances dans une association, ma belle-mère a fait de même. Autour de moi, au travail, “on se lève et on se casse”. “Félicitations pour ta démission !” est un message que j’envoie plus souvent que “bravo pour ta promotion !” . Le récit du premier rendez-vous Pôle Emploi est devenu, parmi mes proches, plus répandu que celui du prochain entretien d’embauche. Le média en ligne Reporterre nous a informé la semaine dernière que nous n’étions pas les seuls, loin de là. Le phénomène de la « grande démission », qui a concerné aux Etats-Unis autour de 47 millions de personnes, semble toucher la France. L’enquête périodique du ministère du Travail sur les mouvements de main-d’œuvre le confirme : on assiste depuis 2 ans à une augmentation importante des démissions (+20,4% entre le premier trimestre 2022 et le dernier trimestre 2019).

      Ça n’a échappé à personne tant que le matraquage médiatique est intense : des secteurs peinent à recruter, ou perdent du personnel. C’est le cas de la restauration, dont le patronat se plaint, dans Le Figaro, de ne plus oser parler mal à ses salariés de peur qu’ils fassent leur valise. Mais c’est aussi le cas de l’hôpital public ou de l’Education nationale. Les explications médiatiques laissent le plus souvent à désirer : pour le Point, nous aurions perdu le goût de l’effort, tandis que la presse managériale se lamente sur ce problème qui serait générationnel. Ces dernières semaines, le thème de la désertion est essentiellement traité du point de vue d’une petite partie de la jeunesse diplômée et bien née, qui pour des principes éthiques et politiques, refuserait, comme par exemple dans les discours devenus viraux des étudiants d’AgroParisTech dont nous parlions en introduction, de diriger une économie basée sur la destruction de notre habitat pour se reconvertir dans l’agriculture paysanne.

      Mais qu’en est-il de cette désertion du milieu et d’en bas, celle des employés, des cadres subalternes, des fonctionnaires, des techniciens et des exécutants de la société capitaliste qui décident – souvent parce qu’ils n’en peuvent plus – de quitter leur emploi ? Derrière les grands principes, la réalité du travail est exposée dans la cinquantaine de témoignages que nous avons reçue, issus de tous secteurs : la désertion de la classe laborieuse est avant tout une quête de survie individuelle dans un monde du travail absurde et capitaliste. Elle dit beaucoup de la perte de nos outils collectifs de résistance aux injustices, de la solitude des travailleurs dont tout le monde se fout, mais aussi d’un refus puissant de jouer le rôle qu’on nous assigne. La grande démission est-elle une chance à saisir pour changer la société ?

      La démission, une question de survie face à la violence au travail

      Arthur* ne parle pas de « désertion ». Il n’a pas eu l’occasion de faire un discours vibrant lors de sa remise de diplôme. C’est normal, il est devenu apprenti pâtissier dès ses 14 ans et n’a pas eu le temps de souffler depuis. Mais il y a deux mois, il a démissionné de son emploi dans la restauration. Son patron a refusé la rupture conventionnelle, ce dispositif légal qui permet de partir, avec l’accord de son employeur, en échange d’indemnités minimales mais d’un accès aux indemnités chômage. Sa justification ? « Je t’ai appris des valeurs donc tu ne vas pas pointer au chômage ». Parmi les valeurs de ce Père La Morale : l’homophobie, qui a contraint Arthur à devoir cacher sa sexualité, avant d’être poussé au coming out, devant des collègues, par son patron. Dans cette petite entreprise, il a enduré des années de brimades et d’humiliations qui lui ont fait perdre confiance en lui et le goût de son travail. Depuis sa démission, il est sans revenus et a du mal à retrouver un emploi décent. Il n’empêche qu’il vit son départ comme un soulagement, après avoir enduré tête baissée ces années de captivité professionnelle, avec ses horaires décalées, son chef tyrannique et sa paye minimale. Le confinement de 2020 a joué un rôle déterminant dans sa prise de décision : Arthur a enfin eu du temps pour voir ses proches, sa famille, pour s’intéresser à la politique et ainsi, avancer.

      Les problèmes de turnover du secteur de la restauration ne sont quasiment jamais décrits du point de vue d’Arthur et de ses collègues. La presse est entièrement mobilisée pour relayer le point de vue du patronat, qui se plaint d’une pénurie de main-d’œuvre. Arthur rit jaune devant un tel spectacle : « ça me fait autant marrer que ça me dégoûte, m’explique-t-il, et mon patron tenait aussi ce discours de ouin-ouin « il y a un grand turn over plus personne ne veut travailler… » alors qu’on faisait quasiment tous 65h payées 39h ». Le secteur de la restauration est à l’avant-poste de tout ce qui dysfonctionne – ou plutôt fonctionne selon les intérêts du patronat – dans le monde du travail : des salariés isolés, sans représentation syndicale efficace, une hiérarchie omniprésente et intrusive, un travail difficile, en horaires décalés, avec beaucoup d’heures supplémentaires (souvent non payées) et avec peu d’autonomie et où le droit est très peu respecté.

      C’est aussi à cause de la violence généralisée que Yann a quitté plusieurs emplois successifs, dans la manutention puis le bâtiment. Pour lui, le problème venait tout autant de hiérarchies « maltraitantes » que de l’ambiance générale entretenue au sein des entreprises qu’il a connu : « J’avais cette sensation qu’on m’obligeait à bosser avec des personnes que j’aurais détesté fréquenter en dehors, et d’un autre côté qu’on me mettait en compétition avec des gens avec qui j’aurais pu être pote » m’a-t-il raconté. L’ambiance « stupidement viriliste » au travail ne lui convenait pas et il n’a pas trouvé de possibilités d’améliorer les choses.

      La plupart des témoignages reçus viennent confirmer une tendance lourde du monde du travail des années 2020 : si la violence est aussi répandue, c’est parce que la pression au travail s’est accrue, et pèse sur les épaules de toute une partie des effectifs, des managers aux employés de base. L’absence d’empathie des chaînes hiérarchiques semble être devenue la norme, comme nous l’avions déjà décrit dans un précédent article. C’est ainsi que Sara*, responsable de boutique dans une chaîne d’épicerie, a fini par quitter son emploi, après avoir gravi tous les échelons. Déjà éprouvée par la misogynie continuelle qu’elle subissait au quotidien, elle s’est retrouvée seule face à une situation de violence au travail, sans réaction de sa hiérarchie. Dans cette structure jeune, très laxiste sur le droit du travail, elle n’a pas trouvé de soutien face à la pression continuelle qu’elle subissait. Résultat, nous dit-elle, « j’allais au travail la boule au ventre, je faisais énormément de crises d’angoisse chez moi le soir, beaucoup d’insomnies aussi. J’ai un terrain anxieux depuis l’adolescence mais c’était la première fois depuis des années que j’ai ressenti le besoin d’être sous traitement. Je me sentais impuissante et en danger ».

      Ce témoignage est tristement banal : il semblerait qu’en France, les hiérarchies se complaisent dans l’inaction face aux atteintes à la santé des salariés. Il faut dire que les dernières évolutions législatives ont considérablement favorisé cette nouvelle donne. Nous en avons parlé à de multiples reprises : depuis la loi El Khomri de 2016 et les ordonnances travail de 2017, la santé au travail est reléguée au second plan, et le pouvoir du patronat face aux salariés a été considérablement renforcé. Le prix à payer était, jusqu’ici, l’augmentation du mal-être au travail, du burn out ainsi que des accidents, qui fait de la France une triste championne d’Europe de la mortalité au travail.

      La démission et le turn over qui en résultent, ainsi que la difficulté à recruter dans de nombreux secteurs, est désormais le prix que doivent payer les employeurs, et ils ne sont pas contents : peut-être auraient-ils pu y songer quand ils envoyaient toutes leurs organisations représentatives (MEDEF, CPME…) plaider pour détricoter le code du travail auprès des gouvernements successifs.

      La « perte de sens » : une question matérielle et non spirituelle

      Dans les témoignages reçus, la question du sens occupe une place moins grande que celle des (mauvaises) conditions de travail. Là encore, la désertion d’en bas diffère de la désertion d’en haut décrite dans la presse, où la question du sens et des grands principes est centrale. Au point que les grands groupes s’adaptent pour retenir leurs « talents » (c’est comme ça que les cadres sup appellent les autres cadres sup) en se donnant une « raison d’être » qui ne soit pas que la satisfaction de l’appât du gain des actionnaires. Ce dispositif est permis par la loi PACTE depuis 2019, et il ne sert à rien d’autre qu’à faire croire qu’une boîte capitaliste n’est pas seulement capitaliste : elle aime les arbres, aussi. Quand il s’agit du sens au travail, personne n’évoque la politique de “Responsabilité Sociale et Écologique » que les grands groupes affichent fièrement sur des affiches dans le hall du siège social. En revanche, trois cas de figures semblent se dessiner : le sentiment d’absurdité et d’inutilité, le sentiment de ne pas réussir à faire correctement son travail et de voir ses missions dévoyées, et enfin celui de faire un travail nuisible, intrinsèquement mauvais, qu’il convient de quitter pour des raisons politiques et morales.
      1 – L’absurdité au rendez-vous : « qu’on existe ou pas, ça ne change rien »

      Mon frère a quitté une structure associative où il était constamment noyé de boulot… sans savoir à quoi il servait. « J’ai encore une histoire à la The Office à te raconter » avait-il l’habitude de m’écrire. The Office, brillante série américaine, met en scène des salariés qui font toujours autre chose que leur travail, car constamment sollicités par un patron égocentrique et extravagant les entraînant dans un tourbillon de réunions, formations sécurité, séminaires de team building, concours de meilleur employé etc. Mais à la fin, ils servent à quoi, ces gens qui travaillent ? Dans le cas de mon frère, si le sens était altéré, c’était d’abord en raison d’une mauvaise gestion, d’un objet mal défini par un compromis politique reconduit chaque année par un directoire composé d’élus locaux. Il n’empêche que pour mon frère, l’intérêt de son job pour la société n’était pas avéré : « qu’on existe ou pas, ça ne change rien » m’a-t-il dit avant de décider de partir.

      Le thème des « bullshit jobs », ces métiers inutiles et ennuyeux dont l’existence a été brillamment théorisée par l’anthropologue britannique David Graeber, peut expliquer tout un pan du désamour d’une partie des cadres moyens pour leurs professions vides de sens. Pour mon ami A., son activité de consultant s’inscrivait en partie dans ce paradigme-là. Bien sûr, son action avait une utilité pour l’entreprise cliente, car le logiciel qu’il y mettait en place et pour lequel il formait le personnel à une organisation dédiée améliorait vraiment les choses. Mais que faire si l’entreprise elle-même avait une activité absurde ?

      Le capitalisme contemporain, nous dit Graeber, génère une immense aristocratie constituée de services de ressources humaines et de cabinets de consultants, c’est-à-dire de gens dont le travail est de gérer le travail des autres. Forcément, l’utilité ne tombe pas toujours sous le sens. Cette masse de gens qui dépendent de cette économie des services pour le travail n’a cessé de grossir, et ses contradictions génèrent sa propre croissance : dans ces entreprises où les cadres s’ennuient et se demandent à quoi ils servent, il faut faire venir des consultant en bien-être au travail qui vont organiser des ateliers et des cercles de parole pour parler de ce problème.

      Le problème du sentiment d’absurdité au travail, c’est qu’aucune hiérarchie ne tolère qu’il s’exprime librement. Les techniques de management des années 2020 insistent sur la nécessité de l’engagement, en toute bienveillance évidemment : il s’agit d’être sûr que tout le monde adhère à fond au sens de son travail. Ecrire un hymne en l’honneur de l’entreprise, comme A. a été invité à le faire lors d’un week-end de « team building », poster des photos de son travail et de son enthousiasme sur un réseau social interne, comme doivent le faire les salariés d’un grand groupe agroalimentaire où j’ai eu l’occasion de mener une expertise en santé au travail. Le non-engagement est sanctionné : dans cette entreprise, une évaluation comportementale annuelle se penche sur le niveau d’engagement et d’implication des salariés. Le soupir n’est pas de mise. Comment, dans ces conditions, tenir le coup sans devenir un peu fou ? A., comme d’autres consultants qui m’ont écrit, a choisi la démission.
      2 – La qualité empêchée : « j’aimerais juste pouvoir faire mon travail »

      Le sentiment d’absurdité ne peut expliquer à lui seul la succession de démissions et de déception professionnelle. Au contraire, nombre de récits reçus sont ceux de gens qui croyaient en ce qu’ils faisaient mais se sont vu empêcher de mener correctement leurs missions. La question du sens est le plus souvent abordée sous l’angle de la capacité ou non à bien faire son travail. Or, autour de moi et dans les témoignages reçus pour cette enquête, tout le monde semble frappé de ce que les psychologues du travail appellent la « qualité empêchée ».

      L’histoire de Céline*, maîtresse de conférence dans l’université d’une grande ville française, s’inscrit en partie dans ce cadre. Elle aussi a été poussée au départ par une pression administrative constante et l’absence de solidarité de son équipe. Elle a quitté une situation pourtant décrite comme confortable et stable : fonctionnaire, dans l’université publique… Pour elle, son travail est détruit par « les dossiers interminables pour avoir des moyens ou justifier qu’on a bien fait son travail », mais aussi les programmes et l’organisation du travail qui changent constamment et, évidemment, le manque de moyens. Paloma, enseignante dans le secondaire, a pris conscience de son envie de partir lors des confinements, mise face à la désorganisation de l’Education nationale, au niveau du pays comme des deux établissements où elle enseignait. Plus généralement, elle m’a confié que “le plus dur, c’était de constater que les élèves détestent l’école et les profs aussi, et qu’on ne cherche pas à faire réfléchir les élèves ou à développer leur sens critique. Je ne voulais pas contribuer à ça.”

      La question du manque de moyens est omniprésente lorsque l’on discute avec les personnels des services publics. Ce manque, qui se ressent dans la rémunération mais qui transforme toute envie d’agir ou d’améliorer les choses en parcours du combattant face à des gestionnaires omniprésents et tâtillons, brisent l’envie de rester. Les soignant.e.s ne cessent de le répéter, apparemment en vain : « En formation, on apprend que chaque patient est unique et qu’il faut le traiter comme tel, résumait Thierry Amouroux, porte-parole du Syndicat National des Professionnels Infirmiers. Mais quand on arrive à l’hôpital, on est face à un processus bien plus industriel, où on n’a pas le temps d’accompagner le patient, d’être à l’écoute. Il y a alors le sentiment de mal faire son travail et une perte de sens ». C’était il y a un an. Désormais, la pénurie de personnel entraîne la fermeture de services d’urgences la nuit, un peu partout en France. Ce sont les patients, et le personnel qui continue malgré tout, qui subissent de plein fouet les départs en masse de l’hôpital public où « la grande démission » n’est pas une légende médiatique.

      Face à ces problèmes très concrets, la question du sens devient presque une opportunité rhétorique pour le gouvernement et les strates hiérarchiques : il faudrait « réenchanter la profession », donner du sens aux métiers du service public à base de communication abstraite, plutôt que de donner les moyens de travailler correctement.
      3 – Le sentiment de faire un travail nocif : ​​”j’étais surtout un maillon de la perpétuation de la violence sociale”

      Hugo* travaillait pour un important bailleur social d’Île-de-France. Désireux de sortir de la précarité continue qu’il connaissait en enchaînant les CDD dans la fonction publique, il est devenu chef de projet dans cette structure, en ayant l’espoir de pouvoir se rendre utile. « J’y suis arrivé plein d’entrain car j’avais à cœur de faire un métier « qui ait du sens » … loger les pauvres, être un maillon de la solidarité sociale, etc ». Il a vite déchanté : « Globalement, je me suis rendu compte que j’étais surtout un maillon de la perpétuation de la violence sociale. In fine, malgré tout l’enrobage du type « bienveillance », « au service des plus démunis », des photos de bambins « de cité » tout sourire, il s’agissait d’encaisser les loyers pour engraisser les actionnaires (c’était un bailleur social privé, pas public). J’ai ainsi participé à une opération de relogement d’une tour de 60 habitants, qui allait être démolie dans le cadre du « renouvellement urbain ». Autant vous dire que les locataires n’étaient pour beaucoup (hormis quelques fonctionnaires communaux ayant encore un peu d’âme) que des numéros. Des « poids » à dégager au plus vite. Toutes les semaines je devais faire un « reporting » sur combien étaient partis, combien il en restait encore, avec un objectif… Je devais faire 3 propositions de logement aux locataires et leur mettre la pression pour qu’ils acceptent, en brandissant la menace de l’expulsion à demi-mot. Je voyais l’angoisse sur le visage des gens. » Hugo a fini par craquer et obtenir – au forceps – une rupture conventionnelle.

      Selma* et Damien* travaillaient aussi dans des professions participant de la façon dont on construit et on habite les villes. La première est urbaniste, le second architecte. Ils ont quitté des métiers pourtant souvent perçus comme intéressants et utiles parce que les effets de leur action leur semblaient vains voire néfastes, sur le plan social et écologique. Pour Selma, les mauvaises conditions de travail liées aux contraintes financières de son entreprise rachetée par un grand groupe sapait la qualité de son travail. Quant à Damien, il déplore les activités de son ancienne agence d’architecture : “Les projets sur lesquels je travaillais étaient très loin de mes convictions : des logements pour des promoteurs, en béton, quasiment aucune réflexion sur l’écologie (au-delà des normes thermiques obligatoires). Je faisais partie d’une organisation qui construisait des logements dans le seul but de faire de l’argent pour les promoteurs avec qui je travaillais.” Sa conclusion est sans appel : “Globalement, j’en suis arrivé à la conclusion que nous allions tous dans le mur (écologique). Les villes seront bientôt invivables, ne sont pas résilientes au changement climatique (essayez de passer un été sans clim à Strasbourg). J’ai constaté que j’étais totalement impuissant pour changer un tant soit peu les choses.”

      Les personnes qui travaillent dans des domaines d’activité nocifs à la société et qui en souffrent évoluent dans une contradiction forte, qui se termine souvent par un départ, faute d’avoir pu faire changer les choses de l’intérieur. Le manque d’autonomie conjugué à la quête de sens peut expliquer le nombre croissant de démissions et la pénurie de main-d’œuvre dans certains secteurs (le nucléaire, par exemple, a de grosses difficultés à recruter – étonnant, non ?). Chercher du sens dans son travail pose néanmoins une question de ressources : la stabilité économique doit d’abord être garantie, et la majeure partie de la classe laborieuse n’a pas le luxe de s’offrir le sens et la sécurité tout à la fois.
      La démission : une forme (désespérée) de protestation au travail ?

      Je repense à mes départs successifs (trois, au total : un non-renouvellement de CDD, une démission, une rupture conventionnelle) avec soulagement mais aussi une pointe de culpabilité. Quitter un emploi, c’est laisser derrière soi des collègues que l’on appréciait, avec qui l’on riait mais aussi avec qui on luttait. Deux de mes départs ont été le résultat de petites ou de grosses défaites collectives, accompagné d’un dégoût ou d’un désintérêt pour des secteurs ou des entreprises que j’estimais impossibles, en l’état du rapport de force, à changer. J’ai donc demandé à toutes les personnes qui m’ont raconté leur démission si elles avaient tenté de changer les choses de l’intérieur, et comment cela s’était passé. La majeure partie des personnes qui m’ont répondu ont tenté de se battre. En questionnant la hiérarchie sur les conditions de travail, en réclamant justice, en poussant la structure à s’interroger sur le sens de son action et de ses missions… en vain.

      Les situations les plus désespérées en la matière m’ont sans doute été racontées de la part de démissionnaires du monde associatif. Les associations, des structures où l’on exerce en théorie des métiers qui ont du sens… et qui sont progressivement vidées de leur essence par des hiérarchies calamiteuses, des conditions de travail très dégradées, des logiques néolibérales et gestionnaires qui viennent s’appliquer au forceps, contre l’intérêt des salariés et des usagers… Et le pire, c’est que le discours du sens y est devenu une arme mobilisée par le patronat associatif pour mater les salariés récalcitrants en leur opposant la noblesse de leur mission et la nécessité de ne pas y déroger pour ne pas nuire aux usagers. Antoine, démissionnaire d’une association d’éducation populaire dans l’ouest de la France, résume bien la situation : “dans l’associatif, la répression syndicale est super forte, joli combo avec le côté « on est dans une association alors on est toustes des gens biens et militants donc ça se fait pas de parler de domination”, qui décourage pas mal à se mobiliser…”.

      Il y a des secteurs qui sont structurellement moins propices à la résistance salariale collective, et l’associatif en fait partie, et pas seulement à cause du discours évoqué par Antoine. Le syndicat ASSO, la branche de Solidaires dédié aux salariés de l’associatif, rappelle qu’il s’agit d’un secteur “très atomisé, où nombre de salarié.e.s se trouvent seul.e.s dans de très petites structures : plus de 80 % des associations emploient moins de 10 salarié.e.s. L’organisation d’élections n’est pas obligatoire selon le code du travail pour les structures de moins de 10 salarié.e.s (6 pour la Convention de l’animation). Très peu de salarié.e.s ont une voix officielle, via un représentant.e du personnel, pour participer aux discussions sur leurs conditions de travail et pas d’appuis en interne en cas de conflit.” Par ailleurs, “près de 30% des salarié.e.s associatifs ne sont pas couverts par une convention collective (contre 8% dans le secteur privé marchand)”. On part donc de plus loin, quand on est salarié de l’associatif, que d’autres, pour améliorer les choses. Mais c’est le cas, d’une façon générale, dans l’ensemble des secteurs du pays qui ont tous subi d’importants reculs en matière de rapport de force salarial. Partout, le patronat est sorti renforcé des différentes réformes gouvernementales.

      C’est le cas à la SNCF, dont le personnel est massivement sur le départ depuis 2018, date de la réforme ferroviaire et d’une longue grève brisée par Macron et Borne, alors ministre des Transports et depuis Première ministre. En 2019, les départs ont augmenté de 40% par rapport à 2018, et ils suivent depuis le même rythme. La direction de la SNCF a tout fait pour briser les collectifs de travail, atomiser les salariés et modifier leurs conditions de travail. Dans Libération, les cheminots racontent comment la fin de leur statut a mis fin, entre autres, à la retraite garantie à 55 ans, compensation d’un rythme de travail épuisant.

      Difficile de résister quand les syndicats sont de moins en moins présents et nombreux. Yann, notre manutentionnaire démissionnaire, s’en prend quant à lui à la perte de culture du rapport de force chez ses collègues : « J’ai 35 ans et j’ai entendu de plus de plus les discours managériaux et les exigences patronales dans la bouche des ouvriers. C’est d’une déprime… Rien à prendre aussi du côté des « anciens » avec des dos défoncés qui ressassent des discours du type « on se plaignait pas avant », « les jeunes veulent plus rien faire »… ». Le problème dépasse largement, selon Yann, la culture de son ex-entreprise. Il s’étonne : “C’est fou que le sujet du malheur au travail ne soit quasiment jamais abordé à part par le côté clinique des burn out. Le sujet est absent de toutes les dernières campagnes électorales.”

      La solitude et la désunion, ou du moins l’absence de culture du rapport de force au travail, est une réalité qu’il est facile d’éprouver : la baisse continue des effectifs syndicaux n’en est que l’illustration statistique la plus flagrante. La démission devient alors une façon de mettre le collectif face à ses contradictions, d’interpeller collègues, direction et la société plus globalement sur les injustices qui s’accumulent. C’est un peu ce que concluait mon amie Orianne, infirmière à l’AP-HP et depuis en disponibilité pour exercer dans le privé. Comme des milliers de soignant.e.s en France, elle a déserté des hôpitaux publics détraqués par les gouvernements successifs – et celui-ci en particulier. Membre du collectif InterUrgences, Orianne s’est pourtant battue pendant plusieurs années, avec ses collègues, pour obtenir une revalorisation salariale et de meilleures conditions de travail, globalement en vain. Les applaudissements aux fenêtres durant le premier confinement n’auront donc pas suffi : le départ a été pour elle une issue personnelle et, dans un sens, collective ; face au manque de soignant.e.s, le gouvernement va-t-il finir par réagir ?

      De là à dire que la démission est une forme radicale et individuelle de grève, il n’y a qu’un pas que nous franchirons pas : car les grèves renforcent le collectif, soudent les collègues autour d’un objectif commun alors que la démission vous laisse le plus souvent seul, même si des effets collectifs peuvent se créer. Antoine a bon espoir que sa démission ait un peu secoué les choses : “mon départ a pas mal remué le Conseil d’Administration de mon association qui a prévu un gros travail sur la direction collégiale entre autres. A voir si cela bouge en termes de fonctionnement interne”, me dit-il. Lorsque mon frère a quitté son association, il s’est demandé si ses supérieurs hiérarchiques allaient “se remettre en question”. Je lui ai plutôt conseillé de ne pas en attendre grand-chose : les hiérarchies sont généralement expertes pour ne pas se remettre en question. Les “départs” sont évoqués, dans les entreprises, avec une grande pudeur, voire carrément mis de côté ou rangés du côté des fameux “motifs personnels” qui sont la réponse préférée des hiérarchies aux manifestations de la souffrance au travail.
      La quête (vaine ?) d’un ailleurs

      “Si ça continue, je vais partir élever des chèvres dans le Larzac moi” : c’est une phrase que j’ai souvent entendu, cliché du changement de vie après des déceptions professionnelles. Force est de constater que ce n’est pas la route empruntée par la plupart des démissionnaires, sinon les départements de la Lozère ou de l’Ariège auraient fait un signalement statistique. La plupart des personnes qui ont témoigné au cours de cette enquête ont des aspirations plus modestes : trouver un emploi avec des horaires moins difficiles, quitter une entreprise toxique, prendre le temps de réfléchir à la suite ou devenir indépendant.

      La reconversion agricole ou la reconversion tout court restent des possibilités accessibles à une minorité de personnes, en raison du temps et de l’argent que cela requiert. Yann, à nouveau, a tout résumé : “J’entends souvent le type de discours sur la perte de sens des CSP+ qui rêvent d’ouvrir un food truck ou un salon de massage, et ça m’irrite au plus haut point. Quand on est cadre, on a le capital financier/scolaire et le réseau pour faire autre chose. C’est nettement plus difficile quand on est préparateur de commande”. Mon compagnon fait partie de celles et ceux qui ont choisi la reconversion agricole comme planche de salut après des expériences désastreuses dans d’autres secteurs de l’économie. Il est le premier à relativiser le discours qui fait de l’agriculture un “ailleurs” au capitalisme . Ce n’est d’ailleurs pas pour ça qu’il a franchi ce cap, mais bien en raison d’un désir de vivre à la campagne, loin de la ville et dans un secteur qui l’intéressait davantage. Mais pour lui ce n’est pas une “alternative” au capitalisme, et c’est loin d’être une activité qu’il conseillerait à toutes celles et ceux qui veulent déserter les bureaux ou les entrepôts de la vie capitaliste : “C’est dur et tu gagnes mal ta vie”.

      Loin de l’image d’Epinal de la reconversion agricole enchantée où l’on vit d’amour et d’eau fraîche dans des cabanes dans les bois, façon vidéo Brut, l’agriculture, même biologique, s’insère dans un marché et dans des rapports de force qui sont tout sauf anticapitalistes. Le poids politique de l’agriculture intensive, le règne de la FNSEA, le principal lobby agro-industriel qui impose ses vues à tout le monde, avec le soutien du gouvernement, ne font pas de ce secteur un endroit apaisé et éloigné des turpitudes décrites précédemment.

      J’ai voulu un temps m’y lancer moi aussi (depuis, je me contente d’être vendeur au marché, ce qui me convient très bien) et j’ai vu, lors des formations que je suivais, l’attraction que le secteur exerçait sur de nombreux salariés désireux de changer, littéralement, d’horizon. J’ai vu ceux d’en bas, qui luttaient pour obtenir un lopin de terre à peine cultivable, et ceux d’en haut, qui rachètent des domaines immenses, font creuser des étangs et plantent le jardin bio-permaculture de leur rêve – pardon, font planter par des ouvriers agricoles – et semblent y jouer une vie, comme Marie-Antoinette dans la fausse fermette construite pour elle dans les jardins de Versailles. Puis ils s’étonnent que la population locale ne les accueille pas à bras ouverts… Bref, le monde agricole n’est pas un ailleurs, il est une autre partie du capitalisme où il faut lutter – même si le paysage y est souvent plus beau. Et d’ailleurs, les agriculteurs démissionnent aussi – de leur métier ou, c’est une réalité tragique, de leur propre vie. Les exploitants agricoles ont malheureusement la mortalité par suicide la plus élevée de toutes les catégories sociales.

      S’il y a bien un désir qui réunit la majeure partie des démissionnaires à qui j’ai parlé, et qui m’a moi-même animé, c’est celui de sortir du lien de subordination et du monde étouffant de l’entreprise en devenant indépendant. Ce désir d’indépendance, souvent snobé, quand on est de gauche, car il s’apparenterait à de la soumission déguisée en autonomie entrepreneuriale, n’est pourtant pas vécu comme un “projet” disruptif et capitaliste. Bien au contraire, les gens qui choisissent la voie de “l’auto-entrepreneuriat” et du freelance savent que c’est aussi une précarité économique que l’on peut vivre si on en a les moyens : quelques économies, un niveau de qualification suffisant, un petit réseau… Mais parfois, après avoir subi la violence du lien hiérarchique, on peut s’en contenter si c’est une possibilité. Mohamed, ingénieur, résume ce qui, pour lui, mène à l’envie d’indépendance, et qui résulte directement des impasses structurelles du travail sous le capitalisme contemporain : “Je n’ai que trois possibilités : faire partie d’un grand groupe (Atos, Orange, Thales, etc.), pire solution car travaillant exclusivement pour des actionnaires avec un boulot qui n’a aucun sens. Repartir en PME, ce qui est très bien pour 5 ans maximum mais on finit toujours par se faire racheter par les gros. Ou devenir indépendant.” Mais pour beaucoup, après la démission, c’est la quête d’un boulot salarié “moins pire” qui reste le seul choix possible.

      Démissionnaires de tous les secteurs, unissons-nous !

      Poussés dehors par des entreprises et des services publics de plus en plus macronisés (c’est-à-dire où la violence des rapports humains, la fausseté du discours et la satisfaction des actionnaires ou des gestionnaires prennent toute la place), nous sommes amenés à chercher des recours possibles pour mener une vie plus tranquille, un peu à l’égard de la guerre que le capitalisme nous mène. Mais l’ailleurs n’existe pas, ou bien il implique des choix de vie radicaux et sacrificiels. “Je me demande s’il y a moyen de dire fuck à la société capitaliste sans devenir un primitiviste babos qui ne se lave plus”, me résumait cette semaine mon frère, sans pitié. Franchement, sans doute pas. On peut s’épargner des souffrances inutiles en refusant le salariat, des boulots absurdes et profondément aliénants – quand on le peut – mais partout où on l’on se trouve, il faut lutter.

      Ce constat serait plombant si j’étais le seul à avoir quitté à répétition mes derniers emplois. Mais ce n’est pas le cas. Nous, démissionnaires, sommes des dizaines de milliers. Nous, les rescapés des ruptures conventionnelles, les démissionnaires sans allocations, les abandonneurs de postes, rejoignons chaque jour le cortège ordinaire des licenciés, des en-incapacité-de-travailler, des accidentés, des malades, de tous ceux qui ont été exclus ou se sont exclus du cursus honorum que le capitalisme accorde à celles et ceux qui ne font pas partie de la classe bourgeoise : baisse la tête, obéis au chef, endette-toi, fais réparer ta voiture et peut-être qu’à 40 ans tu seras propriétaire de ton logement.

      Nous, démissionnaires, sommes si nombreux et si divers. Les écœurés du virilisme des chantiers comme Yann, les saoulées du sexisme de boutique comme Sara, les rescapés de la brutalité patronale comme Arthur, les Selma et Damien qui ne veulent pas nuire aux habitants en faisant de la merde, les Céline, Paloma et Orianne qui n’ont pas rejoint le service public pour maltraiter élèves et patients mais aussi les Mohamed, les Hugo qui ne veulent pas engraisser des actionnaires en faisant de l’abattage de dossier pour gonfler les chiffres… Démissionnaires = révolutionnaires ? En tout cas, leur démission est une preuve de non-adhésion au système capitaliste.

      Démissionnaires de tous les secteurs : vous n’êtes pas seuls, nous sommes des milliers, et notre existence fait le procès de l’entreprise capitaliste. Notre amour du travail bien fait, de la justice et de la solidarité sont incompatibles avec la façon dont le capitalisme transforme nos activités, même celles qui en sont a priori le plus éloignées. Démissionnaires de tous les secteurs : unissons-nous !

      https://www.frustrationmagazine.fr/enquete-desertion

      #désertion #désertion_d'en_bas #démissionnaires #travail

  • Les Greniers d’Abondance  : « Les répercussions de la #guerre en #Ukraine sur l… » - Framapiaf
    https://framapiaf.org/@lga/108282222577378987

    Les répercussions de la #guerre en #Ukraine sur le #commerce #agricole international et la #sécurité #alimentaire viennent nourrir un discours qui semble frappé au coin du bon sens :

    💡 "pour lutter contre la faim, ns (comprendre « les pays exportateurs de produits agricoles ») devons produire plus !"

    ⚠️ ✋ Si cette idée est démentie par les faits depuis longtps, ça ne l’empêche pas d’être ressassée par de nbrx resp. politiques ou figures médiatiques, parfois de bonne foi, parfois moins.

  • Batailles de la #faim

    La faim est un phénomène construit, inhérent aux sociétés humaines, quels que soient le niveau de #ressources disponibles, les #régimes_politiques ou de #gouvernance. Les relations entre faim et #politique sont étroites : la faim cristallise des #rapports_de_force et de pouvoir, donnant lieu à des batailles plurielles, tant matérielles que symboliques. Dans ce numéro, les textes soulignent les expériences vécues, les pratiques et les normes des acteurs, individuels, collectifs et institutionnels, et leurs multiples conflits et intérêts en jeu. Le double prisme politique et empirique retenu ici apparaît généralement comme un angle mort, voire un impensé, pour de nombreuses institutions (appareils d’État, acteurs de l’aide et du développement, etc.), qui déclinent la lutte contre la faim en objectifs normés, selon un processus souvent présenté comme consensuel. Or, la nature des pouvoirs et des visions antagoniques de la faim contredit les lectures technocratiques : les batailles naissent et se cristallisent du fait de #rapports_de_domination, de logiques et d’intérêts opposables. Le dossier aborde ainsi les controverses autour de la #définition et de la délimitation de la faim ; la faim comme source de revendication de #droits et de ressources, ou comme outil de #protestation et d’#actions_collectives ; l’utilisation de la faim à des fins de #contrôle_social et politique des populations. Ce faisant, nous espérons apporter des connaissances et des pistes de réflexion qui contribueront à faire de la faim un #problème_public et de l’#alimentation un #bien_commun.

    https://journals.openedition.org/traces/12520

    #revue #famine

  • Paresse business : petits livreurs et gros profits | ARTE Radio
    https://www.arteradio.com/emission/vivons_heureux_avant_la_fin_du_monde

    Depuis la pandémie, les applications de « quick commerce » ont révolutionné les comportements du citadin moyen. La recette miraculeuse ? Commander en trois clics sur son smartphone une barquette de guacamole pour l’apéro ou un pack de lait UHT, et se les faire amener à domicile en quelques minutes par un livreur à vélo. Et ceci tous les jours, de l’aube à minuit, pour un surcoût dérisoire de même pas deux euros. Flink, Cajoo, Gorillas, Getir… Une dizaine de jeunes start-up européennes se disputent, après celui de la livraison des repas, ce nouveau marché des courses d’épicerie disruptées. Leur arme fatale : un réseau de dark stores, des mini-entrepôts disséminés dans les grandes métropoles et qui permettent aux livreurs d’être à proximité des clients. Des siècles de civilisation et d’innovation technique pour ne plus bouger ses fesses du canapé... Que raconte ce business de la paresse ? Sous prétexte de nous simplifier la vie, comment cette économie change-t-elle le visage de la ville ? Notre rapport aux autres, au travail, au temps ? D’ailleurs, quelle vie mènent ceux qui pédalent toute la journée avec des sacs isothermes sur le dos ? En rencontrant un livreur à vélo sans papiers, des geeks du numérique, et un économiste affûté et pédagogue, Delphine Saltel éclaire ce qui se passe à l’ombre des dark stores et des dark kitchens. Au cœur de nos petits arrangements avec la flemme.

    #Podcast #Alimentation #Économie #Numérique

  • #173 - Manger seul.e : La solitudîner
    https://art19.com/shows/bouffons/episodes/d15d17a4-7d28-44ad-ba31-4608cdba0392

    Que vous inspire l’idée d’entrer dans un restaurant pour vous attabler et manger seul.e ? Un malaise face à l’inconfort d’exposer votre solitude aux yeux d’une salle bondée de gens venus casser la croûte accompagnés ? Ou au contraire, une joie, devant le plaisir de savourer chaque condiment d’un plat sans devoir faire la conversation à quelqu’un ?

    Contraint ou voulu, le manger solitaire semble relever du tabou culturel, dans une société qui porte aux nues la notion de convivialité et fait du repas le décor officiel de celle-ci. Pourtant, l’ingestion d’aliments reste une action biologique tout à fait individuelle. Alors pourquoi la solitude devant l’assiette intrigue-t-elle ? Existe-t-il différentes façons d’être des mangeurs et mangeuses solitaires ? En quoi manger seul au resto le midi paraît-il plus simple que le soir ?

    Dans cet épisode, Émilie Laystary discute avec Nathalie Peyrebonne, chercheuse spécialisée en sociabilité alimentaire. Au micro de Bouffons, l’universitaire explique ce qui se joue dans l’acte de manger comme rappel de notre humanité.

    #Repas #Alimentation #Podcast #Société

  • Paysannes indiennes : une année de lutte intense

    Chukki Nanjundaswamy, de Via Campesina, a évoqué ce qui s’est passé après les mobilisations et les protestations des agricultrices et agriculteurs dans le pays

    Depuis novembre 2020, les paysannes indiennes se battent pour leurs droits, qui sont constamment menacés par le gouvernement autoritaire d’extrême droite dirigé par le Premier ministre Narendra Modi. Le pays lutte en partenariat avec des multinationales contre le programme de Modi, qui met en danger la vie de nombreux agriculteurs du pays, en particulier des femmes. 80% de la nourriture indienne est produite par des femmes. Elles sont majoritaires dans les champs et les plantations, même si elles ne sont pas officiellement considérées comme des agricultrices. Et ce sont elles qui souffrent le plus du manque de politiques publiques.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2022/04/23/paysannes-indiennes-une-annee-de-lutte-intense

    #international #inde

  • Diminuez le salaire des commissaires européens !

    https://www.youtube.com/watch?v=0UQZSUHp03A

    Pour la guerre, l’Union européenne trouve toujours de l’argent.
    Pour les travailleurs, c’est toujours un problème.
    Le député européen du PTB Marc Botenga, qui vit – lui – avec un salaire moyen de travailleur, a donc proposé de diminuer les salaires des commissaires européens pour les reconnecter à la vie réelle.

    Ce qui ne leur a pas plu.

    #privilégiés #privilèges #inégalités #politique #ue #union_européenne #commission_européenne #commissaires_européens #europe bonne #soupe et belle #gamelle #députés #corruption #PTB #guerre #ukraine #Marc_Botenga

    • Un multimillionnaire russe et sa famille retrouvés morts dans leur villa
      https://www.lessentiel.lu/fr/story/un-multimillionnaire-russe-et-sa-famille-retrouves-morts-dans-leur-villa-

      Le corps de Sergey Protosenya, ancien vice-président du géant gazier russe Novatek, a été découvert à son domicile de la Costa Brava. Sa femme et sa fille sont également décédées.

      Que s’est-il passé dans la maison de Sergey Protosenya ? En séjour en France, le fils adolescent de l’oligarque russe s’inquiétait de ne pas pouvoir joindre sa famille. Il a donc alerté la police catalane, qui s’est rendue au domicile que le multimillionnaire partage avec sa femme et leur fille de 18 ans à Lloret de Mar, sur la Costa Brava. Une fois arrivées sur les lieux mardi, les forces de l’ordre ont retrouvé le corps pendu de Sergey Protosenya dans le jardin. Elles ont ensuite découvert les cadavres des deux femmes, qui avaient été poignardées.

      Les premiers éléments de l’enquête indiquent que l’homme d’affaires aurait tué son épouse Natalia et sa fille Maria avant de se donner la mort. Mais pour l’heure, les autorités n’écartent aucune piste. Certains éléments sèment en effet le doute : l’oligarque n’a laissé aucune lettre de suicide et les deux femmes ont été tuées de manière extrêmement violente. Or, aucune trace de sang n’a été retrouvée sur le corps de Sergey Protosenya.

      Pour les enquêteurs, il s’agit désormais d’analyser les derniers échanges téléphoniques et SMS des victimes et d’entendre le témoignage du seul survivant de la famille. Les trois armes potentielles du crime retrouvées dans la chambre de l’épouse de l’homme d’affaires seront, elles, soumises à une analyse d’éventuelles empreintes digitales ou traces d’ADN. Des traces de sang ont été retrouvées sur un couteau et une hache. Les images de vidéosurveillance de la villa devraient également fournir de précieuses informations aux autorités.

      Ex-directeur financier de la compagnie pétrolière russe Tarkosaleneftega, Sergey Protosenya a aussi été le vice-président du conseil d’administration de Novatek, le plus grand producteur indépendant de gaz naturel de Russie. Lui et sa famille avaient un train de vie luxueux, qu’ils affichaient volontiers sur les réseaux sociaux. La fortune de l’ingénieur et économiste était de 440 millions d’euros en 2011, précise abc.es https://www.abc.es/espana/catalunya/abci-doble-crimen-lloret-mar-y-moscu-202204211508_noticia.html . La propriété de Lloret de Mar était la résidence secondaire de la famille Protosenya, qui habitait principalement en France.

      Une affaire similaire à Moscou
      Un jour plus tôt, la police moscovite a découvert les corps sans vie de Vladislav Avayev, de sa femme et de leur fille de 13 ans dans leur luxueux appartement. Les trois personnes avaient été tuées par balles. Pour l’heure, les autorités privilégient la thèse du double meurtre suivi d’un suicide. Avayev, 51 ans, est l’ancien vice-président de Gazprombank.

      #gaz #Novatek #Gazprombank #oligarques #oligarchie #multinationales #corruption #vol

    • Wilk va pouvoir produire du lait humain et animal cultivé sans recours aux animaux Ricky Ben-David - Time of israel
      https://fr.timesofisrael.com/wilk-va-pouvoir-produire-du-lait-humain-et-animal-cultive-sans-rec

      L’entreprise, qui était connue, par le passé, sous le nom de Biomilk, espère dorénavant s’attaquer au marché mondial du lait infantile

      La firme spécialisée dans le lait cultivé Wilk (elle s’appelait Biomilk par le passé) a récemment obtenu un brevet américain pour ses méthodes et technologies de recherche pour la production de lait cultivé et de lait maternel à partir de cellules ce qui positionne fermement la compagnie sur un marché qui a été évalué à plus de 800 milliards de dollars en 2020 et dans une industrie mondiale du lait infantile qui devrait dépasser les 100 milliards de dollars en 2026.

      La firme va pouvoir aussi améliorer de manière importante ses activités de développement grâce à ce brevet.

      Photo d’illustration : Un biberon rempli de lait maternel et des poches remplies de lait maternel congelé. (Crédit : (NegMarDesign via iStock by Getty Images)

      Ce brevet exclusif, octroyé au mois de février par le Patent and Trademark Office américain, protège la propriété intellectuelle de la compagnie. Il couvre aussi les méthodes et les systèmes développés par Wilk pour son mode de culture et ses processus de séparation des composantes des cellules cultivées du lait – au moment où la compagnie tourne son attention vers les procédés qui lui permettront d’augmenter ses volumes de production, a commenté Tomer Aizen, directeur-général de Wilk.

      Pour le lait cultivé d’origine animale, Wilk utilise des cellules mammaires « qui se développent et qui sont cultivées » dans des bioréacteurs en combinaison avec « une sauce secrète », a commenté Aizen auprès du Times of Israel au cours d’un entretien en visioconférence qui a lieu au mois de février, se référant à des processus basés sur une décennie de recherches effectuées par les docteures Nurit Argov-Argaman et Maggie Levy de l’Université hébraïque de Jérusalem.

      Argov-Argaman et Levy avaient cofondé Wilk (qui s’appelait alors Biomilk) en 2018. L’entreprise est entrée à la bourse de Tel Aviv l’année dernière dans le cadre d’un accord de fusion de type SPAC (société d’acquisition à vocation spécifique).

      Les processus de traitement de Wilk s’appliquent également à la production en laboratoire de lait maternel – le gras et les protéines qui constituent une partie importante de sa valeur nutritionnelle sont ensuite ajoutés – en utilisant des cellules obtenues à l’issue d’interventions de chirurgie de réduction mammaire, a expliqué Aizen.

      Le brevet comprend également le processus de sécrétion développé par la firme de manière à ce que les cellules se comportent « comme chez les mammifères », a-t-il ajouté, notant que la compagnie se concentrait dorénavant sur un système qui permettra de créer du volume.


      Le laboratoire de Wilk à Rehovot. (Autorisation)

      Wilk veut « fournir des composants uniques aux industries qui en ont besoin, de manière à ce qu’elles puissent les intégrer dans leurs produits », a continué Aizen.
      Et l’année dernière, Wilk a signé un accord stratégique avec la Central Bottling Company, également connue sous le nom de Coca-Cola israel , qui permettra de développer des produits sur la base de sa technologie de lait cultivé. Coca-Cola Israel est propriétaire de la coopérative laitière Tara, la deuxième structure de production laitière israélienne, forte d’environ 12 % de parts de marché.

      Dans le cadre de l’accord, Coca-Cola Israel a accepté d’investir un total de deux millions de dollars dans Wilk.

      Aizen explique que son entreprise passera rapidement de l’étape de la Recherche & Développement à l’étape pilote, et qu’elle espère pouvoir entrer sur le marché « avec un fromage ou un yoghourt qui contiendra nos composants de lait cultivé » à l’horizon 2024.

      Concernant le travail à faire pour développer du lait humain, cela sera certainement plus long, estime Aizen, les démarches en termes de régulation étant significatives « et les différentes étapes à franchir étant nombreuses ».

      Wilk est l’une des compagnies spécialisées dans les technologies alimentaires qui développent un lait cultivé, sans avoir recours aux animaux – chacune étant à un stade différent de développement. Remilk, une firme de Rehovot, par exemple, a récemment soulevé 120 millions de dollars pour produire du lait, du fromage et du yoghourt sans avoir recours aux vaches, avec des capacités de production qui ont déjà démarré.

      Toutefois, Wilk fait partie des rares entreprises du secteur du lait maternel cultivé sur la scène mondiale.

      Une compagnie américaine, Biomilq, avait déclaré l’année dernière qu’elle avait été « la première dans le monde » à créer un lait à partir de cellules mammaires humaines en-dehors du corps humain. Cette firme de Caroline du Nord, fondée en 2019, prélève des cellules des glandes mammaires, les nourrit de nutriments de manière à ce que ces dernières prolifèrent avant de les transférer dans un bioréacteur où elles continuent à se multiplier de manière à créer un processus de fabrication de lait. Mais les produits développés par Biomilq ne sont pas identiques biologiquement au lait maternel, précise la firme.

      Biomilq a soulevé 21 millions de dollars de fonds lors d’une Série A de financement avec la firme d’investissement de Bill Gates, Breakthrough Energy Ventures, et d’autres soutiens, alors que la firme tente d’offrir une alternative au lait infantile fabriqué à partir de soja ou de lait de vache, espérant pouvoir commercialiser ce type de produit à l’horizon 2025.

      À Singapour, TurtleTree a développé un ingrédient du lait, la lactoferrine, qui est utilisée dans le lait infantile pour réguler l’absorption du fer dans le corps et qui était, jusqu’à présent, fabriqué à partir de cellules de vache. La firme TurtleTree explique être parvenue depuis à produire de la lactoferrine à partir du corps humain et la compagnie a fait savoir qu’elle abordait actuellement la phase commerciale pour créer un lait proche du lait maternel au niveau nutritionnel.

      Aizen remarque que si « rien ne peut remplacer l’allaitement » pour ses bénéfices significatifs et pour sa valeur nutritionnelle complexe – avec notamment des anticorps déterminants qui sont transmis au bébé – Wilk « est la première firme à s’approcher autant du lait maternel dans la mesure où nous ne travaillons que sur le lait humain », sans nutriments ou composants ajoutés.



      Wilk développe du lait animal cultivé et du lait maternel dans ses bureaux de Rehovot. (Autorisation)

      Les produits offerts par Wilk pourraient devenir une alternative bienvenue pour les mères qui préfèrent nourrir un bébé avec du lait maternel mais qui ont des difficultés avec l’allaitement, pour les bébés prématurés et pour les bébés qui ne peuvent pas consommer le lait infantile habituellement vendu dans le commerce.

      Mais Wilk ne cherche pas nécessairement à remplacer le lait infantile, et Aizen suggère que les autres entreprises qui travaillent dans le même secteur peuvent devenir des alliées.

      « C’est une situation gagnant-gagnant pour tout le monde. Nous voulons travailler avec l’industrie et nous cherchons des partenaires qui peuvent nous accompagner. Les opportunités sont innombrables », a-t-il déclaré, ajoutant que l’objectif était d’obtenir un produit plus riche au niveau nutritionnel et concurrentiel en matière de coût.

      Wilk est une firme basée à Rehovot qui compte une vingtaine de salariés dans ses divisions de lait animal et de lait humain. Aizen précise que les équipes échangent leurs connaissances et qu’elles collaborent lors des recherches, précisant que les systèmes sont similaires.

      #coca-cola #lait #technologies_alimentaires #lait_cultivé #bébé #vaches #alimentation #agro-industrie #quelle_agriculture_pour_demain_ #végétalien_vegan_

  • COUSCOUS : LES GRAINES DE LA DIGNITÉ

    « Couscous : les graines de la dignité » est une invitation au débat ouvert, sérieux et collectif sur les politiques de #dépendance_alimentaire poursuivies par tous les gouvernements tunisiens depuis la fin de l’époque coloniale française jusqu’à aujourd’hui.
    Le film se concentre sur les conditions politiques, sociales, économiques et écologiques des #céréales et démontre comment la question de l’#alimentation est en fait au cœur de la question de la #dignité_humaine individuelle et collective, ainsi que de l’indépendance et de la #souveraineté_alimentaire locales et nationales.

    https://cmca-med.org/film/couscous-les-graines-de-la-dignite

    #film #documentaire #film_documentaire
    #Tunisie #indépendance_alimentaire #agriculture

  • 5 questions à Roland Riachi. Comprendre la #dépendance_alimentaire du #monde_arabe

    Économiste et géographe, Roland Riachi s’est spécialisé dans l’économie politique, et plus particulièrement dans le domaine de l’écologie politique. Dans cet entretien, il décrypte pour nous la crise alimentaire qui touche le monde arabe en la posant comme une crise éminemment politique. Il nous invite à regarder au-delà de l’aspect agricole pour cerner les choix politiques et économiques qui sont à son origine.

    https://www.carep-paris.org/5-questions-a/5-questions-a-roland-riachi
    #agriculture #alimentation #colonialisme #céréales #autosuffisance_alimentaire #nationalisation #néolibéralisme #Egypte #Soudan #Liban #Syrie #exportation #Maghreb #crise #post-colonialisme #souveraineté_nationale #panarabisme #militarisme #paysannerie #subventions #cash_crop #devises #capitalisme #blé #valeur_ajoutée #avocats #mangues #mondialisation #globalisation #néolibéralisme_autoritaire #révolution_verte #ouverture_du_marché #programmes_d'ajustement_structurels #intensification #machinisation #exode_rural #monopole #intrants #industrie_agro-alimentaire #biotechnologie #phosphates #extractivisme #agriculture_intensive #paysans #propriété_foncière #foncier #terres #morcellement_foncier #pauvreté #marginalisation #monoculture #goût #goûts #blé_tendre #pain #couscous #aide_humanitaire #blé_dur #durum #libre-échange #nourriture #diète_néolibérale #diète_méditerranéenne #bléification #importation #santé_publique #diabète #obésité #surpoids #accaparement_des_terres #eau #MENA #FMI #banque_mondiale #projets_hydrauliques #crise_alimentaire #foreign_direct_investment #emploi #Russie #Ukraine #sécurité_alimentaire #souveraineté_alimentaire

    #ressources_pédagogiques

    ping @odilon

    • LA VACHE QUI BUVAIT LA MEUSE Claude Semal
      Consomme-t-on vraiment 15.000 litres d’eau pour produire un kilo de viande de bœuf ?
      . . . . . . . .
      Pour le savoir, tentons d’estimer la consommation d’eau totale d’un bovin.
      Commençons par le plus simple : la boisson.

      Un bœuf ou une vache laitière boit 100 litres d’eau par jour (1) et vit en moyenne trois ans, soit à la louche, mille jours (1). Ce qui nous fait 100.000 litres, soit 100 litres d’eau par kilo de viande (100.000 litres : 1000 kg).

      Passons à l’alimentation.

      Un bovin mange en moyenne dix kilos de céréales par jour (1).

      Multiplié par mille jours de rumination, cela fait donc, en trois ans, dix tonnes de céréales dans son écuelle. Un fameux petit dej !

      Or pour faire pousser un kilo de céréales, type mélange maïs/blé, il faut 400 litres d’eau (1) (2).

      Ce qui nous fait 1000 jours x 10 kilos de céréales x 400 litres d’eau divisé par le poids de la bête,… n’essayez pas de suivre, je compte pour vous, abracadabra… !
      Cela fait 4 m3 d’eau par kilo de viande. Ah ! bon quand même ! …Mais est-ce que le compte y est ?

      Par ce biais, on s’en rapproche un peu. 4100 litres d’eau, c’est effectivement beaucoup.

      Mais cela n’en fait toujours pas 15.000.
… Bon sang, mais c’est bien sûr ! J’ai fait mes “calculs” avec le poids d’une bête “sur pied”.

      Or seuls 30 % de l’animal seront effectivement transformés en viande (6).

      Par kilo de viande, cela multiplie par 3,3 notre “consommation” d’eau, soit 13.530 litres. On approche, on approche.

      Qu’est ce que j’ai encore oublié ? OK, le fonctionnement général d’une ferme, et plus encore celui d’un abattoir, divisé par le nombre de vaches, cela doit nécessairement consommer beaucoup de flotte. Le sang, ça tâche, et la bouse aussi. Sans doute assez pour justifier cette différence. OK, je rends les armes. Méluche avait raison.

      On vérifie ? Je fais appel à l’équipe… ou à défaut, à Wikipédia. Bon, finalement, ce sera plutôt decodagri.fr (3).

      Et ici, surprise ! Sur ce site, visiblement inspiré par les éleveurs, on nous explique que depuis 2002, le système Water Footprint Network (WFN) ne calcule pas la vraie consommation d’eau, mais une empreinte virtuelle, comme on calcule par ailleurs l’empreinte carbone de certains produits.
      Dans les chiffres ci-dessus cités, 95 % de “l’estimation” ne concerneraient ainsi ni la vraie consommation d’eau des animaux, nécessaire à ce qu’ils boivent, ni la vraie consommation d’eau des cultures céréalières, nécessaire à ce qu’ils mangent, mais… l’ensemble de l’eau de pluie qui tombe sur la surface des prairies et des champs cultivés, avant de retourner remplir les nappes phréatiques.

      Et qui serait de toutes façons tombée sur le sol, avec ou sans vaches, avec ou sans cultures. Et qu’il semble donc un peu tiré par les cornes de comptabiliser dans le bilan hydrique de nos hamburgers.
      . . . . . . . .
      La suite : https://www.asymptomatique.be/la-vache-qui-buvait-la-meuse

      #Boeuf #vache #viande #eau

      #agriculture #alimentation #élevage #consommation #agroalimentaire #culture #Water_Footprint_Network #WFN #empreinte_carbone