• Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

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    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

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    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

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    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

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    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

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    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • Contre l’antisémitisme, l’enseignement de la Shoah, un rempart devenu insuffisant
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/11/24/contre-l-antisemitisme-l-enseignement-de-la-shoah-un-rempart-devenu-insuffis

    (...) le système scolaire revient de loin. « A l’époque où j’étais élève, on nous montrait Nuit et brouillard et c’était censé nous vacciner », rappelle Hubert Strouk, responsable du service pédagogique au Mémorial de la Shoah, qui raconte avoir vu au lycée une projection du film d’Alain Resnais. Ce documentaire de trente-deux minutes, sorti en 1956, reflétait les connaissances parcellaires de l’époque.

    Annette Wieviorka, qui a commencé sa carrière dans l’enseignement secondaire, s’en souvient : « L’idée a pris de l’ampleur, après le procès de [l’officier SS] Klaus Barbie [en 1987], qu’il existait un devoir de mémoire, rappelle-t-elle. Cela a poussé les enseignants à adopter une position de surplomb moral que les élèves n’apprécient pas. Comme s’ils étaient des antisémites en puissance, qu’ils allaient le devenir s’ils ne nous écoutaient pas. »
    Une pédagogie de l’horreur se diffuse alors dans les salles de classe, comme si les images les plus insoutenables allaient permettre de toucher du doigt le mal absolu. « Après chaque acte antisémite, on nous disait de passer des extraits de Nuit et brouillard, se souvient Annette Wieviorka. Mais comment voulez-vous qu’un adolescent fasse le lien entre des images de corps ramassés au bulldozer [au camp de concentration de] Bergen-Belsen et l’antisémitisme contemporain ? »

    « Concurrence victimaire »

    Cette approche appartient aujourd’hui au passé. « Il y a longtemps que nous avons compris que l’enseignement de l’histoire de la Shoah ne suffisait pas », assure Jacques Fredj, le directeur du Mémorial. La question, travaillée dès le milieu des années 2000, devient brûlante après les attentats perpétrés par Mohammed Merah à Toulouse et à Montauban, en mars 2012. « A partir de là, on s’est dit que notre rôle était d’enseigner les conséquences de l’antisémitisme et du racisme dans l’histoire de la Shoah et des génocides. »
    Depuis, le Mémorial de la Shoah tente de faire comprendre aux 80 000 élèves qui visitent les lieux chaque année, et à tous ceux qui bénéficient des ateliers hors les murs, « ce qu’est la mécanique génocidaire, en mettant les élèves face à l’histoire, face aux preuves, et en leur expliquant que cette logique est présente à plusieurs moments – par exemple avec les Arméniens ou les Tutsi [au Rwanda] », indique encore Jacques Fredj. Ce travail sur les génocides a été pensé pour « tuer dans l’œuf » l’idée d’une « concurrence des mémoires » de la part d’élèves considérant que les juifs ne sont pas les seuls à avoir souffert.

    Dans les salles de classe, cette « concurrence victimaire » existe toujours – mais semble s’être déplacée sur le terrain de l’actualité : « Les élèves ne nous demandent plus tellement pourquoi on leur parle de la Shoah plutôt que d’autre chose. En revanche, ils ont l’impression que l’on se soucie plus, aujourd’hui, de la souffrance des juifs que des autres », rapporte Christophe Tarricone. « Après l’attaque du 7 octobre, cette question est revenue de manière plus aiguë, pointe Iannis Roder, directeur des formations au Mémorial de la Shoah et professeur d’histoire dans un collège de Seine-Saint-Denis. Mais il y a quelques années déjà, les élèves pouvaient me demander pourquoi l’armée protégeait les écoles juives, et pas les autres. »

    https://archive.is/LKj2q#
    Lire aussi : Pays-Bas : la Shoah, un « mythe » ou un récit exagéré, selon un quart des jeunes

    #antisémitisme #histoire #école

    • En cours d’histoire, replacer la Shoah dans le temps long de l’antisémitisme [en une heure...]
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/11/24/en-cours-d-histoire-replacer-la-shoah-dans-le-temps-long-de-l-antisemitisme_

      Au départ, il y a les mots. « Talmud », « Torah », « shalom », mais aussi « riche », « radin » et « complot ». « Je leur ai fait écrire tous les mots auxquels leur faisaient penser les juifs et le judaïsme », rapporte l’enseignante d’histoire de ce lycée du Val-d’Oise – qui restera anonyme, ainsi que toutes les personnes rencontrées ce mardi après-midi de novembre, sur demande du rectorat de Versailles. « C’est un moyen d’avoir une idée des connaissances déjà en place, et une bonne méthode pour faire émerger les préjugés. »

      Dans cette classe « plutôt sympa » et investie, selon l’enseignante, les élèves ont écrit des mots-clés qui révèlent des connaissances acquises en cours d’histoire au collège – où la Shoah est au programme de 3e – mais aussi des clichés résolument antisémites, que la plupart d’entre eux semblent, du reste, avoir identifié comme tels.
      [...]
      « Notre rôle est de combler les manques »
      Parmi les mots-clés, les élèves ont écrit « complot » ; à charge pour l’enseignante d’expliquer pourquoi. Elle projette au mur une affiche du caricaturiste Léandre, parue en 1898, en pleine affaire Dreyfus, dans le journal antisémite Le Rire. Un homme à longue barbe referme ses mains en forme de serres sur un globe. « Cette caricature s’appelle Le Roi Rothschild, explique-t-elle. On y retrouve plusieurs signaux antisémites. Les traits du personnage, ses mains, comme un rapace prêt à faire main basse sur le monde, et le titre, dans le champ lexical du pouvoir, de la domination et du complot. »
      Dans un coin du dessin, les élèves ont remarqué la présence des Tables de la Loi. Détour biblique : « Moïse a rencontré Dieu à travers quelle métaphore ? » « L’ange Gabriel ? », tente un jeune homme au premier rang. « Mais non, le buisson ardent », corrige une camarade. « Les connaissances en histoire religieuse varient énormément d’un élève à l’autre », explique l’enseignante en aparté, « alors que certains détails de la Bible reviennent dans les stéréotypes antisémites. Notre rôle est de combler les manques, qui ne seront jamais exactement situés au même endroit chez chacun ».

      https://archive.is/V5lFR

      #histoire_religieuse #éducation

    • J’ai demandé à deux de mes enfants adultes de me dire si iels connaissent des insultes antisémites. Après longue réflexion j’ai eu comme réponse : nez crochu ? C’est tout ! Rien d’autre ! Même question contre les arabes ou les musulmans. Looongue liste .

    • oui, sans doute l’étendue du vocabulaire s’est-elle restreinte. hier, j’ai entendu une élève de 6eme adresser un « sale juif » à un élève de sa classe.
      l’article porte plutôt sur les stéréotypes, pour partie inusables ? partiellement en cours de renouvellement ?

      j’apprends par ces articles que le vocabulaire religieux « shoah » serait abandonné lors des leçons pour un plus explicite (et séculier) extermination des juifs. une bonne nouvelle.

      pour les journaux écrire « extermination des juifs par les nazis » qui situe précisemmént ce dont on cause, c’est pas près d’être fait.

  • La ville d’#Oslo exprime son soutien au peuple palestinien
    https://www.lemonde.fr/international/live/2023/11/29/en-direct-guerre-israel-hamas-l-oms-s-inquiete-des-risques-d-epidemies-dans-

    Le drapeau palestinien a été hissé devant l’hôtel de ville d’Oslo en signe de solidarité avec la population de #Gaza, où des milliers de personnes ont perdu la vie dans une campagne militaire israélienne en représailles à l’attaque perpétrée le 7 octobre par le Hamas.

    L’initiative coïncide avec la Journée internationale de solidarité avec le peuple palestinien, célébrée depuis 1978 à la demande de l’Assemblée générale des Nations unies. « Quand on sait que plus de 5 000 enfants ont perdu la vie, soit [l’équivalent de] plus de 275 classes, il est naturel de les commémorer », a déclaré à l’Agence France-Presse la maire d’Oslo, #Anne_Lindboe, en marge de l’événement, qui a rassemblé une poignée de militants propalestiniens.

    « Il est très important de souligner qu’Oslo doit être une ville pour tous, où notre petite minorité juive aussi bien que ceux qui ont des origines palestiniennes doivent se sentir en sécurité, considérés et intégrés », a-t-elle affirmé.

    #respect

  • I. – La Mutualité - Avant-propos
    https://www.partage-noir.fr/i-la-mutualite-avant-propos

    La mutualité, en France, possède cette particularité d’être une énorme organisation de masse : 23 millions de personnes « mutualisées », et d’être, en fait, peu connue. Bien sûr, tout le monde a une idée plus ou moins juste de ce qu’est une mutuelle ; en général, c’est l’image d’un organisme qui apporte un complément aux prestations versées par la Sécurité sociale et qui, parfois, gère un centre médical, un centre d’optique. Or si, effectivement, la complémentarité est actuellement un des principaux rôles de la mutualité, ses buts, son action vont bien au-delà de cette activité et iront grandissant dans le pays. 22 - Le mouvement mutualiste - André (...)

    #André_Devriendt #mutualité

  • Cesária Évora en musique et en image
    https://www.radiofrance.fr/fip/podcasts/certains-l-aiment-fip/cesaria-evora-en-musique-et-en-image-3984095

    J’ai vu ce très beau documentaire sur Cesaria Evora en avant première il y a un ou deux mois, où l’on découvre (pour moi) aussi sa bipolarité, son alcoolisme, et en même temps sa liberté tenue tout le long de sa vie. Il sort cette semaine, foncez le voir !

    Cesaria Evora est née Amalia Rodrigues en 1941 dans la petite ville portuaire de Mindelo au Cap-Vert. Elle a sept ans lorsque son père Justino da Cruz Evora, qui joue du violoncelle pour nourrir sa famille, meurt, laissant sa mère, cuisinière pour les riches familles portugaises du Cap Vert, dans la pauvreté. Elevée ensuite par sa grand-mère puis à l’orphelinat où elle intègre une chorale, dès l’âge de 16 ans, elle chante dans des bars à marins et des soirées privées ? Ce n’est qu’en 1985 que son blues mélancolique déferle sur la planète. En 1988, elle découvre la France et enregistre son premier disque, La diva aux pieds nus ! sur le label de son manager et producteur José Da Silva. Après plus d’une vingtaine d’années de carrière et dix albums, Cesária Évora mourrait le 17 décembre 2011, sur son île natale, à l’âge de 70 ans.

    #musique #documentaire #Cesaria_Evora #morna #Cap_Vert #Ana_Sofia_Fonseca

  • La musique d’Angola : Un incroyable répertoire
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-serie-musicale/bonga-5221922

    La semba, ce genre musical politique, fusion de rythmes anciens, la kizomba, musique lascive évidemment poétique et presque nostalgique qui se danse, l’incontournable kuduro… L’Angola est l’un des pays dont l’histoire, terrible, n’a d’égal que la richesse de son incroyable répertoire musical.

    L’Angola a connu la terrible colonisation portugaise, la très difficile lutte pour l’indépendance et une guerre civile qui a duré jusqu’en 1991. Toutes les difficultés, les souffrances, le peuple angolais les a racontées, les a chantées et a tenté de les transcender justement par la #musique, même si bien des figures musicales dans cette playlist sont mortes à cause de leurs positionnements.

  • Albert Libertad (1875-1908)
    http://anarlivres.free.fr/pages/archives_nouv/pages_nouv/Nouv_Libertad.html

    L’ayant fréquenté au cours de sa jeunesse, Emile Bachelet dépeint en octobre 1949 dans les colonnes de « Défense de l’homme », cet extraordinaire propagandiste, anarchiste individualiste. Nous y avons ajouté des notes et des illustrations pour enrichir ce texte de souvenirs, et présentons quelques extraits de sa brochure « Le Culte de la charogne »...

    #anarchisme #libertaire #Libertad #individualisme #CauseriesPopulaires

  • „Sie waren Nachbarn“: Jüdische Ausstellung in Berlin bleibt vorerst zerstört - als Mahnmal
    https://www.berliner-zeitung.de/news/sie-waren-nachbarn-in-berlin-moabit-juedische-ausstellung-durch-bra

    20.11.2023 von Maria Windisch - In Berlin wurde ein Schaukasten mit einer Ausstellung zur jüdischen Geschichte beschädigt. Als Mahnung gegen antisemitische Gewalt soll die zerstörte Vitrine erst mal so bleiben.

    Nachdem in Berlin-Moabit die jüdische Schaukasten-Ausstellung „Sie waren Nachbarn“ durch einen Brandanschlag zerstört wurde, soll die Vitrine vor dem Rathaus Tiergarten vorerst nicht repariert werden. Wie das Bezirksamt Mitte am Montag mitteilte, beschlossen Bezirksbürgermeisterin Stefanie Remlinger und Vertreter des gleichnamigen Vereins, dass die Vitrine als Mahnung gegen antisemitische Gewalt zeitweise so belassen werden soll. Laut dem Verein soll außerdem eine Hinweistafel aufgestellt werden. Die Ausstellung selbst soll in wenigen Wochen wiedereröffnen.

    Mit einem Stein hatten der oder die Täter am Sonntag die Scheibe des Schaukastens zerstört und danach Feuer gelegt, wie der Verein am Sonntag mitteilte. Eine Passantin hatte den Anschlag gegen Mittag entdeckt und die Polizei informiert. Da war die Ausstellung allerdings schon größtenteils zerstört. Beamte des Staatsschutzes sicherten Spuren am Tatort.

    Nicht der erste Anschlag? Schon zuvor gab es wohl Demolierungen

    Bereits in den Tagen zuvor soll es an dem Kasten Verschmutzungen und kleinere Beschädigungen gegeben haben. „Wir sind über den offensichtlich antisemitisch motivierten Brandanschlag entsetzt“, machte der Verein in einem Statement deutlich.

    Aro Kurp, Vorstandsmitglied des Vereins „Sie waren Nachbarn“, sagte, die Ausstellung in der Vitrine sei seit Anfang November zu sehen gewesen. Sie sollte noch bis Ende Dezember gezeigt werden. Der Verein, der sich regelmäßig mit solchen Ausstellungen der NS-Geschichte und dem jüdischen Moabit widmet, habe sich diesmal mit dem Krankenhaus des Stadtteils beschäftigt. Dort gab es Widerstand gegen das Naziregime und Unterstützung etwa für Juden oder Deserteure.

    Auch im sozialen Netzwerk X wurde über den Brandanschlag berichtet. So kommentierte Stefanie Remlinger, Bezirksbürgermeisterin von Berlin-Mitte, mit ihrem Privataccount: „Keine Wut der Welt wegen dem Leid der Palästinenser rechtfertigt Antisemitismus und das Stören des Gedenkens an den Holocaust.“ Dazu postete sie ein Bild der mutwillig zerstörten Ausstellung.

    Unsere Ausstellung Jüdisches Leben in Moabit von „Sie waren Nachbarn“ wurde heute zerstört. Entsetzt, traurig und entschlossen sage ich: Keine Wut der Welt wegen dem Leid der Palästinenser rechtfertigt Antisemitismus und das Stören des Gedenkens an den Holocaust #Mitte #wir pic.twitter.com/4kf9CZxUrs
    — Stefanie Remlinger (@StefRemlinger) November 19, 2023

    #Allemagne #Berlin #antisemitisme

  • Le crime paie

    Oil and gas giants to cash in on climate crisis they helped cause: Melting ice exposes new petroleum reservoirs in the Arctic worth $7TRILLION - in what is being dubbed a ’modern day gold rush’ | Daily Mail Online
    https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-12784315/Oil-gas-giants-cash-climate-crisis-helped-cause-Melting-ice-exposes-new

    • Et ce nouveau métier vous a valu d’être encore en danger…

      Oui, parce que l’OAS, qui défendait l’Algérie française par tous les moyens, a condamné à mort les journalistes qui s’opposaient à cette nouvelle guerre. En juin 1962, alors que je roulais vers Oran avec le reporter de RTL Jean-Pierre Farkas, notre voiture a été prise pour cible par l’OAS. Un attentat terrible, dont je souffre encore. J’y ai perdu un œil, et mes fractures ne se sont jamais tout à fait résorbées. Mais, après, je n’ai plus jamais été blessée. Et, un an et demi plus tard, j’étais de nouveau sur le terrain, dans les souterrains du Vietcong.

      Longtemps, vous n’avez rien dit de votre guerre. Qu’est-ce qui vous a décidée à en parler ?

      Une discussion en 1994 avec Raymond Aubrac, un de mes anciens grands chefs dans la Résistance. Au moment du cinquantenaire de la Libération, il m’a secouée : « Dis donc, tu vas enfin l’ouvrir, ta gueule ? » Pour éviter que nos copains morts ne soient oubliés, il tenait à ce que j’aille parler aux historiens, dans les écoles, partout. Au début, je n’étais pas très chaude. Raconter la vie des autres, d’accord. La mienne, non. Je n’avais aucune envie de retrouver la rue des Saussaies. En réalité, témoigner m’a offert une deuxième vie. Maintenant, je peux mourir tranquille.

      Vous êtes même devenue autrice et héroïne de BD !

      Quand cet animal de Jean-David Morvan m’a contactée, je ne savais pas ce que c’était qu’une bande dessinée. J’ai découvert que c’était un très bon moyen de transmettre la vérité.

      Vous avez saisi l’occasion pour révéler que le milicien chargé de vous faire passer la ligne de démarcation vous avait violée. Pourquoi avoir tant attendu ?

      Je me disais : « Pour quoi faire ? » Mais j’ai eu tort de ne pas parler plus tôt.

      Aujourd’hui, vous menez un nouveau combat en justice…

      Oui, contre la directrice de l’agence de maintien à domicile qui s’est occupée de moi et m’a escroquée de plus de 140 000 euros en profitant du fait que je suis aveugle. Cette femme a été mise en examen. Le procès aura lieu le 19 décembre, mais je n’ai plus un sou pour me payer un avocat. J’ai aussi écrit au président de la République. Il n’y a plus de place dans les hôpitaux, c’est le drame dans les Ehpad, alors on incite les gens à rester chez eux. Encore faut-il que le ménage soit fait dans le secteur du maintien à domicile. Je peux être une voix qui porte sur ce sujet.

      Vous avez participé à trois guerres. Que vous inspirent celles d’aujourd’hui ?

      Beaucoup de peine. Le monde est en sang. On a essayé de l’améliorer, on a sans doute échoué. Je le laisse dans un état qui n’est vraiment pas celui que j’aurais voulu. Vous voyez, il faut dire la vérité, même quand elle est sombre.

      https://archive.is/WLvps

      #Madeleine_Riffaud #guerre #Résistance #anti-colonialisme #OAS

  • Explosion des actes antisémites : 13 personnes, dont sept fichés S d’ultradroite, ont été interpellées après des tags de croix gammées à Paris
    https://www.francetvinfo.fr/societe/antisemitisme/explosion-des-actes-antisemites-13-personnes-dont-sept-fiches-s-d-ultra

    Les actes antireligieux [#wtf, ndc] progressent depuis le début conflit entre Israël et le Hamas. Nouvelle illustration samedi 25 novembre à Paris, où 13 personnes, dont sept fichées S d’ultradroite, ont été interpellées pour des tags de croix gammées au sol dans le XVIIe arrondissement de la capitale, a annoncé le parquet de Paris. Les 13 individus ont été arrêtés pour dégradation ou détérioration du bien d’autrui « en raison de la race, l’ethnie, la nation ou la religion » et pour provocation publique à la haine, à la violence ou à la discrimination raciale, a précisé le parquet. Les investigations ont été confiées au commissariat du XVIIe arrondissement de la capitale.
    Depuis le 7 octobre et le début du conflit entre Israël et le Hamas, « il y a eu 1 518 actes ou propos antisémites » a assuré Gérald Darmanin, le ministre de l’Intérieur sur Europe 1, le 14 novembre. Ce qui représente « l’équivalent de trois fois ceux recensés en 2022 », avait dit le président du Crif Yonathan Arfi, le 19 novembre. Les faits interviennent aussi alors que des militants d’ultradroite ont défilé samedi en début de soirée à Romans-sur-Isère (Drôme), après le décès de Thomas, lycéen de 16 ans, mortellement blessé lors d’un bal à Crépol (Drôme). La police a arrêté 20 personnes, dont 17 ont été placées en garde à vue « à la suite de violences contre les forces de l’ordre », a dit la préfecture de la Drôme à l’AFP.

    #racisme #antisémitisme #média

    • « Gros lardon », « Porcinet » et leurs amis humiliés à Romans

      Mort de Thomas à Crépol : descente de militants d’extrême droite dans un quartier de Romans-sur-Isère
      https://www.liberation.fr/societe/police-justice/mort-de-thomas-a-crepol-descente-de-militants-dextreme-droite-dans-un-qua

      Encagoulées et habillées de noir, des dizaines de personnes ont défilé samedi 25 novembre à Romans-sur-Isère derrière une banderole « Justice pour Thomas, ni pardon, ni oubli », en scandant [non sans licence poétique, ndc] « La rue, la France, nous appartient » [et l’archéologique "Europe, jeunesse, révolution !"] . Environ 80 militants d’ultradroite sont descendus dans les rues du quartier populaire de la Monnaie une semaine après le décès de Thomas, le lycéen de 16 ans, mortellement blessé lors d’un bal dans la Drôme. La police a arrêté 20 personnes, dont 17 ont été placées en garde à vue « à la suite de violences contre les forces de l’ordre », a fait savoir la préfecture de la Drôme.

      Sous couvert de « faire payer aux agresseurs », la mouvance d’#extrême_droite a désigné, à coups de formules plus ou moins directes, les immigrés ou Français d’origine immigrée comme des ennemis à abattre. Neuf jeunes, dont trois mineurs, ont été arrêtés à Toulouse et Romans-sur-Isère dans l’enquête ouverte par les gendarmes. Samedi soir, ils ont tous ont été mis en examen pour différents chefs dont « meurtre en bande organisée », « tentatives de meurtre » ou « violences volontaires commises en réunion », après la mort du jeune Thomas lors d’un bal à Crépol (Drôme).

      A Romans-sur-Isère, « vers 18 heures, 80 individus ont tenté d’entrer dans le quartier de la Monnaie pour en découdre et ont affronté les forces de l’ordre », selon la préfecture, qui précise que les heurts sont survenus hors de ce quartier sensible. Des mortiers d’artifice ont été tirés, des poubelles déployées pour faire barrage, mais rien n’a été incendié, a précisé une source policière.

      « La situation s’est calmée mais nous restons sous haute surveillance », a souligné la préfecture. Cette poussée de violence d’extrême droite « avait été anticipée dans l’après-midi et le ministre avait passé des consignes très strictes », a fait savoir l’entourage du ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin.

      L’ultradroite qui mène depuis le drame une campagne virulente sur les réseaux sociaux a aussi diffusé des images de « cortèges spontanées en hommage à Thomas avec des drapeaux français », tournées selon eux à Valence vendredi soir. Une manifestation interdite de l’ultradroite à Lyon avait débouché sur une interpellation jeudi soir, selon la préfecture du Rhône.

      Par ailleurs, des tags islamophobes ont été découverts samedi sur les murs de la mosquée de Cherbourg-en-Cotentin (Manche) comprenant des menaces de mort ou encore « justice pour Thomas, ici on est en France ».

      ça a aussi paradé à Reims. À Romans, ils venaient de diverses villes de France (dont Rouen) et se sont pris deux déculottées, l’une policière (arrestations) et l’autre par des gars du quartier. l’un d’entre eux a été déshabillé et filmé avec envoi sur les RS (...), deux autres sont filmés alors que leur échanges télégrammes leur sont lus : « Gros lardon » leur ordonne de ne pas frapper des "bougnoules" et de se planquer (raté).
      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1728695063629176832/pu/vid/avc1/720x720/30pbc8GjAisY0mp8.mp4?tag=12

      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1728600972795011072/pu/vid/avc1/720x1266/e3ppue2Egb3XZQCD.mp4?tag=12

      extrême-droitisation des média publics...

      edit
      sauve qui peut
      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1692348040026210304/pu/vid/234x352/PFAWizQKzbdWBf3l.mp4?tag=12

      Gros lardon se nomme Léo Rivière-Prost, il avait été interpellé pour tentative de « ratonnade » lors du match France-Maroc à #Paris en 2022.

      un équipage de la BAC les aurait prévenu de l’arrivée imminente des CRS, selon un « témoignage de l’un des participants », à la fois posé et contradictoire (la bas les aurait prévenu alors qu’ils se faisaient déjà matraquer)
      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1728764129664466944/pu/vid/avc1/720x1280/X70k6GiJOVvSQTHI.mp4?tag=12

      bilan politico-militaire en cours, avec questionnement éthique à la clé, "s’en prendre à leurs mère" ou pas ?

      bon, ils ont pris la confiance au point de se prendre pour Occident débarquant à la fac de Rouen alors qu’ils savent tout au plus parader et ratonner des isolés, loin de la gymnastique commando. les voilà contraints à penser.ils vont être occupés par la défense de leur arrêtés et des procès. occasion (ou pas) d’une campagne politique plus large, qui n’aurait pas cette fois besoin de réagir au plus vite à un fait divers.

      #néo_nazis

    • Violences de l’ultra-droite à Romans-sur-Isère : jusqu’à dix mois de prison ferme pour six participants
      https://www.francebleu.fr/infos/faits-divers-justice/violences-de-l-ultra-droite-a-romans-sur-isere-jusqu-a-un-an-de-prison-re

      La procureure a requis 12 mois de prison avec maintien en détention pour cinq d’entre eux, six mois pour le dernier. Le tribunal les a finalement condamnés à des peines de six à dix mois de prison ferme avec mandat de dépôt. Ils restent tous en prison.

      pas question de demande de report de procès. à croire que ces arrêtés étaient également nuls en matière de défense.
      pas de nouvelles des onze autres gardés à vue, comme si ils avaient été libérés sans suite.

      une bio de « gros lardon » (Léo Rivière-Prost) via @sombre https://threadreaderapp.com/thread/1728837458539004149.html

  • Nahostkonflikt – Kritik von Juden in Deutschland : „Wir verzweifeln an Israels Politik“
    https://www.berliner-zeitung.de/open-source/nahostkonflikt-kritik-von-juden-in-deutschland-wir-verzweifeln-an-i

    Voilà une position que la majorité politique allemande considère comme antisemite. De l’antisemitisme juif qu’il.a fallu inventer pour faire taire les voix juives humanistes.

    23.11.2023 von Nirit Sommerfeld
    ...
    Wir verzweifeln an Israels Politik, die seit Jahrzehnten das Ziel verfolgt, die Palästinenser loszuwerden und das gesamte Land zwischen Mittelmeer und Jordan für sich zu beanspruchen, was derzeit in einer rechtsradikalen Regierung manifest geworden ist, die unverhohlen Äußerungen von sich gibt, die in Deutschland (zurecht!) als Volksverhetzung oder Schlimmeres identifiziert würden.

    So will etwa Israels Staatspräsident Herzog nicht zwischen Hamas und Zivilisten unterscheiden und verlangt in einer martialischen Rede, ihnen „das Rückgrat zu brechen“. Verteidigungsminister Yoav Galant spricht, wie viele andere auch in der israelischen Zivilgesellschaft, von „Tieren“ oder „human animals“; die auf sie gerichteten Militäroperationen seien „nicht auf Genauigkeit aus, sondern auf Zerstörung“. Israels Minister für ‚Jerusalemer Angelegenheiten und Heimaterbe‘, Amichai Eliyahu, brachte den Einsatz einer Atombombe ins Spiel und schlägt den „Monstern von Gaza“ die Flucht in die Wüste oder nach Irland vor.

    Wir wissen: Worte bereiten Taten vor. Seit Netanyahu der Hamas den Krieg erklärt hat, findet meiner Ansicht nach ein Kriegsverbrechen gegen die Zivilbevölkerung statt. Es ist die Rache für den 7. Oktober, bei dem die Hamas ihrerseits durch nichts zu rechtfertigende Kriegsverbrechen an Zivilisten verübt hat.
    In Israel sagt man lieber „Araber“ als „Palästinenser“

    Übrigens war das schon vor 15 Jahren, als ich in Israel gelebt habe, völlig normal, so über Palästinenser zu sprechen. Mehrere Bekannte sagten mir damals schon, es gäbe nur eine Lösung für das Palästinenserproblem, und das sei Vernichtung. Diese Araber – in Israel nimmt man ungern das Wort ‚Palästinenser‘ in den Mund, als fürchte man, die alleinige Namensnennung könne schon die Anerkennung ihrer Existenz andeuten – würden nicht leiden, sie machten nur Theater, um das Mitleid der Welt zu erregen. Geschichte sei nun einmal nicht gerecht, man habe als jüdisches Volk 2000 Jahre Diaspora hinter sich und mit der Shoa das schlimmste Menschheitsverbrechen erdulden müssen; jetzt seien eben andere dran.

    In solchen Aussagen liegt der Schmerz, den viele in der „Jüdischen Stimme“ kennen. Er rührt von einer Wunde, die sich nicht schließen will. Bei mir ist es die tiefe Enttäuschung, die ich erfahren habe, als ich 2007 in mein Geburtsland zurückzog. Im Laufe von zwei Jahren musste ich festzustellen, dass all meine Überzeugungen bezüglich dieses Landes, an denen ich ebenso wenig wie alle anderen Kinder Israels je gezweifelt hatte, Lügen und Täuschungen waren: Von der Mär vom leeren „Land ohne Volk für ein Volk ohne Land“ über die „moralischste Armee der Welt“ und der „einzigen Demokratie im Nahen Osten“ (die immerhin für jüdische Israelis bis vor kurzem noch halbwegs existierte) bis hin zur im israelischen Diskurs komplett geleugneten Nakba, der Ermordung tausender und Vertreibung hunderttausender Palästinenser im Zuge der Staatsgründung, des Raubes ihres Besitzes, ihres Landes, ihres verbrieften Rückkehrrechts. Die Liste ließe sich lang fortsetzen.

    Auf alledem baut sich eine existenzielle Angst auf: Angst um die Menschen in Israel, Angst um die Palästinenser, Angst um Juden weltweit, Angst vor einem Flächenbrand, der zu einem Dritten (und letzten?) Weltkrieg führen könnte. Wo soll das hinführen, wenn wir diesen Pfad der Gewalt nicht verlassen? Wenn wir ein Menschheitsverbrechen – und das hat die Hamas mit ihrem barbarischen Vernichtungszug am 7. Oktober begangen, was nicht nur verdammt, sondern auch bestraft werden muss – mit einem weiteren Menschheitsverbrechen vergelten?

    Bitte nicht mit dem Beispiel von Nazi-Deutschland kommen!

    Die Geschichte hat gezeigt, dass Gewalt immer nur Gegengewalt erzeugt, und dass Ideen und Ideologien nicht weggebombt werden können. Und da soll mir keiner mit dem Beispiel von Nazi-Deutschland kommen! Die Alliierten wussten schon Jahre vor 1945 von der Existenz von KZs, sie hätten das Grauen schon lange zuvor beenden können. Faschistische Nazi-Ideologie wurde nicht durch Bomben auf Dresden ausgelöscht. Sie macht das Leben in Deutschland heute noch für bestimmte Minderheiten gefährlich, siehe NSU, Hanau oder Halle, nur um die Spitze des Eisbergs zu benennen.

    Was erwarten wir von den überlebenden Kindern in Gaza, deren Eltern und Urgroßeltern schon Flüchtlinge von 1948 waren? Sollen sie, nachdem sie wochenlang Ruinen, Hunger und Durst, Verschüttete und Verbrannte, Tod und Trauma erlebt haben, nach einem Wiederaufbau ihres Freiluftgefängnisses unsere freundlichen Nachbarn mit eingeschränkten Rechten werden, die unsere israelischen Gärten bestellen und unsere Häuser bauen, so wie die meisten Palästinenser es sich eingerichtet haben in den vergangenen Jahrzehnten? Oder werden sie eines Tages zu jungen Männern werden, die in ihrer Verzweiflung und Wut wieder Waffen in die Hand nehmen, um sich zu rächen an der Rache Israels?

    Diese tödliche Spirale wird ausschließlich durch einen Paradigmenwechsel zu unterbrechen sein. Entweder durch radikale Trennung zwischen Israelis und Palästinensern, was ich bis dato immer abgelehnt habe, weil ich durch meine eigene Familiengeschichte weiß, wie gut Juden und Araber neben- und miteinander leben konnten, solange die einen sich nicht über die anderen gestellt und sie entrechtet haben. Oder durch gleiche Rechte für alle Menschen zwischen Mittelmeer und Jordan in einem wie auch immer gearteten gemeinsamen Staat, einer Konföderation, einem Staatenbündnis oder einer sonstigen Organisationsform, die ohnehin die Menschen vor Ort selbst zu bestimmen haben.

    Aber bis dahin wird viel Blut fließen. Mit jedem Tag, an dem das Gemetzel in Gaza und die Tötungen, Vertreibungen und Hauszerstörungen im Westjordanland weitergehen, entfernt sich ein gerechter Frieden um eine Generation, mindestens. Hier kommt meine Verzweiflung über die deutsche Politik ins Spiel – von der EU und den USA ganz zu schweigen. Deutschland begreift nicht, dass sein „Wir stehen bedingungslos an der Seite Israels“ zu einer riesigen Gefahr für Israel und vor allem für Juden in Deutschland werden kann.

    Wo war Deutschlands Staatsräson, als Zivilisten Schutz brauchten?

    Wie nur kann der deutsche Staat wegsehen, wenn israelische Minister sich selbst als Faschisten bezeichnen, und Israels korrupter Ministerpräsident alles tut, um nur ja an der Macht zu bleiben? Seht Ihr nicht, dass er sein eigenes Volk verraten hat? Wo war die israelische Selbstverteidigung am 7. Oktober, auf deren Recht Ihr permanent pocht? Wo war Deutschlands „Staatsräson“, als israelische Zivilisten dringen Schutz vor Terroristen gebraucht hätten? Und wo ist jetzt Eure „unverbrüchliche Freundschaft“ mit einem Staat, der Völkermord und Vertreibung an den Palästinensern vorantreibt und womöglich nicht einmal vor dem Einsatz einer „kleinen“ Atombombe zurückschreckt?

    Oder – was fast schlimmer wäre – die gesamte islamische Welt auf den Plan rufen könnte, wenn der Plan von rund 20 radikal-jüdischen Organisationen und deren Anhängern sich durchsetzt, den Felsendom zu sprengen und den Dritten Tempel an seiner Stelle zu erreichten? Die Einrichtungsgegenstände samt der goldenen Menorah, so wie sie in der Bibel beschrieben ist, das Gewand des Hohepriesters, Becher und Löffel für Weihrauch und Vieles mehr liegt schon im „Tempel-Institut“ in der Altstadt Jerusalems bereit und erfreut sich einer steigenden Besucherzahl, vor allem von evangelikalen und andere Christensekten.

    Das alles macht mir, macht uns „Jüdischen Stimmen“ Angst. Ich habe Angst um meine Verwandten und Freunde in Israel, um den Niedergang der einst sozialistisch beflügelten, einst demokratisch und geschlechter- und herkunftsgleich gedachten israelischen Gesellschaft, in der heute nur noch Hass und Überlegenheitsanspruch regiert. Deswegen senken wir die Köpfe angesichts des Todes und der Gewalt, die auch wieder auf uns zurückfallen kann – und es ist gut, dass Grauschöpfe, dunkle Locken, Juden und Nichtjuden dabei sind. Der Staat Israel verrät sein eigenes Volk, verrät uns Juden weltweit, indem er am laufenden Band gegen jüdische Werte verstößt und seine Bürger nicht schützte, als sie es am nötigsten hatten. Stattdessen waren Militär und Polizei mit dem Schutz gewalttätiger Siedler in der Westbank beschäftigt.

    Ist es da nicht auch für Deutsche ermutigend, dass Juden in Deutschland ihre Stimme erheben? In den USA sind Tausende dem Ruf unserer Schwesterorganisation „Jewish Voice for Peace“ gefolgt, haben den Kongress in Washington besetzt und den zentralen Bahnhof von New York blockiert. Sie tragen T-Shirts mit der Aufschrift „Not in our name“ (Nicht in unserem Namen), verlangen einen sofortigen Waffenstillstand, die Befreiung der Geiseln, Verhandlungen. „We still need to talk“ (Wir müssen immer noch reden) ist dort wie hier die Devise, unter der vorletzte Woche eine von Jüdinnen und Juden in Berlin geführte Demonstration mit mehr als tausend Menschen friedlich stattfand.
    ...
    Für eine gemeinsame, gerechte und friedliche Zukunft werde ich laut und eigensinnig weiterhin meine jüdische Stimme erheben. Denn unsere Trennlinie verläuft nicht zwischen Juden und Arabern, sondern zwischen Humanisten und Fanatikern.

    Im Übrigen hat der Berliner Kultursenator verkündet, dass dem Kulturzentrum Oyoun aufgrund der Zusammenarbeit mit „Jüdische Stimme“ sämtliche Fördergelder entzogen werden. Begründung: „Versteckter Antisemitismus“. Ich wünschte, in Deutschland würde mit dieser Entschlossenheit echtem, unverhohlenem Antisemitismus begegnet werden.

    Nirit Sommerfeld, in Israel geboren, in Ostafrika und Deutschland aufgewachsen, ist Schauspielerin, Sängerin und Autorin. Von 2007 bis 2009 lebte sie mit ihrer Familie in Tel Aviv und besuchte regelmäßig die besetzte Westbank, seitdem setzt sie sich für die Beendigung der Besatzung und gleiche Rechte für Israelis und Palästinenser zwischen Mittelmeer und Jordan ein.

    #Allemagne #Israël #sionisme #antisemitisme

  • ★ Il n’est de juste guerre que la guerre de classe (OCL nov. 2022)

    « Lorsque deux impérialismes s’affrontent, grande est la tentation de choisir son camp.
    Il y a ceux qui le font clairement en fonction de leurs options idéologiques et de leur intérêt (ou de ce qu’ils croient être leur intérêt). Il y a ceux qui hésitent, qui pèsent le pour et le contre, qui essayent de mesurer ce qu’il y a à gagner dans la victoire de l’un ou la défaite de l’autre et qui se refusent à condamner de manière identique et claire les deux camps : il y aurait, au bout du compte, un agresseur et un agressé.
    Parmi celles et ceux qui se rangent en temps de paix dans le camp anticapitaliste, anarchistes ou marxistes, on entend souvent l’argument consistant à dire que les grands principes anti-impérialistes sont valables en général, mais que cette fois-ci la situation est particulière. Cet argument, on l’a lu et entendu en 1914, en 1939, au moment de la guerre en Yougoslavie, de la guerre du Golfe ou de la guerre en Ukraine aujourd’hui. Eh oui, c’est une évidence, chaque situation est différente d’une autre ! Mais chaque grève aussi est différente d’une autre par son contexte, ses enjeux, ses acteurs, et cela ne veut pas dire qu’il est possible de choisir le camp des patrons ! Ou, sans aller jusque-là, de trouver quelque vertu à des alliances (temporaires, juré craché !) avec l’ennemi de classe… et de même, pour ce qui nous occupe ici, avec l’un des impérialistes (...)
     »

    ▶ Lire la suite... https://oclibertaire.lautre.net/spip.php?article3401

    #guerres #impérialisme #campisme #anticapitalisme #antiétatisme #antimilitarisme #internationalisme #Anarchisme

  • Dans la #Manche, les coulisses terrifiantes du sauvetage des migrants

    Il y a deux ans, au moins 27 personnes périssaient dans des eaux glaciales au large de Calais, après le naufrage de leur embarcation. Mediapart a enquêté sur les pratiques des différents acteurs missionnés pour sauver celles et ceux qui tentent de rejoindre le Royaume-Uni par la mer.

    « Parfois, ils refusent notre appel, parfois ils décrochent. Quand j’appelle le 999, ils me disent d’appeler les Français, et les Français nous disent d’appeler les Anglais. Ils se moquent de nous. » Ces quelques phrases, issues d’un échange entre un membre de l’association #Utopia_56 et un exilé se trouvant à bord d’une embarcation dans la Manche, résument à elles seules les défaillances du #secours en mer lorsque celui-ci n’est pas coordonné.

    Elles illustrent également le désarroi de celles et ceux qui tentent la traversée pour rejoindre les côtes britanniques. Le 20 novembre 2021, les membres d’Utopia 56 ont passé des heures à communiquer par messages écrits et audio avec un groupe d’exilé·es qui s’était signalé en détresse dans la Manche. « Nous avons appelé tous les numéros mais ils ne répondent pas. Je ne comprends pas quel est leur problème », leur dit un homme présent à bord. « Restez calmes, quelqu’un va venir. Appelez le 112 et on va appeler les #garde-côtes français, ok ? » peut-on lire dans les échanges consultés par Mediapart.

    « Comme ils ont pu nous contacter, on a relancé le #Cross [#Centre_régional_opérationnel_de_surveillance_et_de_sauvetage_maritimes – ndlr], qui a pu intervenir. Mais on peut se demander ce qu’il se serait passé pour eux si ça n’avait pas été le cas », commente Nikolaï, d’Utopia 56. Cet appel à l’aide désespéré a été passé seulement quatre jours avant le naufrage meurtrier du #24_novembre_2021, qui a coûté la vie à au moins vingt-sept personnes, parmi lesquelles des Afghan·es, des Kurdes d’Irak et d’Iran, des Éthiopien·nes ou encore un Vietnamien.

    Un an plus tard, Le Monde révélait comment le Cross, et en particulier l’une de ses agent·es, avait traité leur cas sans considération, voire avec mépris, alors que les personnes étaient sur le point de se noyer. Une #information_judiciaire a notamment été ouverte pour « homicides », « blessures involontaires » et « mise en danger » (aggravée par la violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité ou de prudence), menant à la mise en examen de cinq militaires pour « #non-assistance_à_personne_en_danger » au printemps 2023.

    « Ah bah t’entends pas, tu seras pas sauvé », « T’as les pieds dans l’eau ? Bah, je t’ai pas demandé de partir »… Rendue publique, la communication entre l’agente du Cross et les exilé·es en détresse en mer, en date du 24 novembre, a agi comme une déflagration dans le milieu associatif comme dans celui du secours en mer. Signe d’#inhumanité pour les uns, de #surmenage ou d’#incompétence pour les autres, cet épisode dramatique est venu jeter une lumière crue sur la réalité que subissent les migrant·es en mer, que beaucoup ignorent.

    « Urgence vitale » contre « urgence de confort »

    Entendue dans le cadre de l’#enquête_judiciaire, l’agente concernée a expliqué faire la différence entre une situation d’« #urgence_vitale » et une situation de « #détresse » : « Pour moi, la détresse c’est vraiment quand il y a une vie humaine en jeu. La plupart des migrants qui appellent sont en situation de détresse alors qu’en fait il peut s’agir d’une urgence de confort », a déroulé la militaire lors de son audition, précisant que certains cherchent « juste à être accompagnés vers les eaux britanniques ».

    Elle décrit aussi des horaires décalés, de nuit, et évoque des appels « incessants » ainsi que l’incapacité matérielle de vérifier les indicatifs de chaque numéro de téléphone. Un autre agent du Cross explique ne pas avoir souvenir d’un « gros coup de bourre » cette nuit-là. « Chaque opération migrant s’est enchaînée continuellement mais sans densité particulière. » Et de préciser : « Ce n’est pas parce qu’il n’y a pas de densité particulière que nous faisons le travail avec plus de légèreté ; aucun n’est mis de côté et chaque appel est pris au sérieux. »

    Deux sauveteurs ont accepté de se confier à Mediapart, peu après le naufrage, refusant que puisse se diffuser cette image écornée du #secours_en_mer. « C’est malheureux de dire des choses comme ça », regrette Julien*, bénévole à la #Société_nationale_de_sauvetage_en_mer (#SNSM). Il y a peut-être, poursuit-il, « des personnes avec moins de jugeote, ou qui ont décidé de se ranger d’un côté et pas de l’autre ».

    L’homme interroge cependant la surcharge de travail du Cross, sans « minimiser l’incident » de Calais. « La personne était peut-être dans le rush ou avait déjà fait un certain nombre d’appels… Ils sont obligés de trier, il peut y avoir des erreurs. Mais on ne rigole pas avec ça. »

    Lorsque des fenêtres météo favorables se présentent, sur une période d’à peine deux ou trois jours, le Cross comme les sauveteurs peuvent être amenés à gérer jusqu’à 300 départs. Les réfugié·es partent de communes de plus en plus éloignées, prenant des « #risques énormes » pour éviter les contrôles de police et les tentatives d’interception sur le rivage.

    « Cela devient de plus en plus périlleux », constate Julien, qui décrit par ailleurs les stratégies employées par les #passeurs visant à envoyer beaucoup d’exilé·es d’un seul coup pour en faire passer un maximum.

    Il y a des journées où on ne fait que ça.

    Alain*, sauveteur dans la Manche

    « En temps normal, on arrive à faire les sauvetages car nos moyens sont suffisants. Mais à un moment donné, si on se retrouve dans le rush avec de tels chiffres à gérer, on a beau être là, avoir notre #matériel et nos #techniques de sauvetage, on ne s’en sort pas. » Julien se souvient de cette terrible intervention, survenue fin 2021 au large de la Côte d’Opale, pour laquelle plusieurs nageurs de bord ont été « mis à l’eau » pour porter secours à un canot pneumatique disloqué dont le moteur avait fini à 23 heures au fond d’une eau à 7 degrés.

    Présents sur zone en une demi-heure, les nageurs récupèrent les exilé·es « par paquet de trois », essayant d’optimiser tous les moyens dont ils disposent. « On aurait peut-être eu un drame dans la Manche si on n’avait pas été efficaces et si les nageurs n’avaient pas sauté à l’eau », relate-t-il, précisant que cette opération les a épuisés. L’ensemble des personnes en détresse ce jour-là sont toutes sauvées.

    Le plus souvent, les sauveteurs font en sorte d’être au moins six, voire huit dans l’idéal, avec un patron qui pilote le bateau, un mécanicien et au moins un nageur de bord. « Le jour où on a frôlé la catastrophe, on était onze. Mais il nous est déjà arrivé de partir à quatre. »

    Alain* intervient depuis plus de cinq années dans la Manche. La surface à couvrir est « énorme », dit-il. « Il y a des journées où on ne fait que ça. » Ce qu’il vit en mer est éprouvant et, « au #drame_humain auquel nous devons faire face », se rajoute parfois « le #cynisme aussi bien des autorités françaises que des autorités anglaises ».

    On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet. Les autres ont dû attendre.

    Alain* à propos d’un sauvetage

    Il évoque ce jour de septembre 2021 où 40 personnes sont en danger sur une embarcation qui menace de se plier, avec un brouillard laissant très peu de visibilité. Ne pouvant y aller en patrouilleur, l’équipe de quatre sauveteurs se rend sur zone avec deux Zodiac, et « accompagne » l’embarcation jusqu’aux eaux anglaises. Mais celle-ci commence à se dégonfler.

    La priorité est alors de stabiliser tous les passagers et de les récupérer, un par un. « Ça hurlait dans tous les sens, mais on a réussi à les calmer », relate Alain qui, tout en livrant son récit, revit la scène. « Il ne faut surtout pas paniquer parce qu’on est les sauveteurs. Plus difficile encore, il faut se résoudre à admettre que c’est un sauvetage de masse et qu’on ne peut pas sauver tout le monde. » Alain et ses collègues parviennent à charger tous les passagers en les répartissant sur chaque Zodiac.

    Lors d’un autre sauvetage, qu’il qualifie de « critique », ses collègues et lui doivent porter secours à une quarantaine d’exilés, certains se trouvant dans l’eau, et parfois sans gilet de sauvetage. « On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet, explique-t-il. Mais les autres ont dû attendre notre retour parce qu’on manquait de place sur notre bateau. Et par chance, entre-temps, c’est la SNSM qui les a récupérés. » Ce jour-là, confie-t-il, le Cross a « vraiment eu peur qu’il y ait des morts ».

    Négociations en pleine mer

    À cela s’ajoute la « #mise_en_danger » provoquée par les tractations en pleine mer pour déterminer qui a la responsabilité de sauver les personnes concernées.

    Une fois, raconte encore Alain, le boudin d’un canot pneumatique transportant 26 personnes avait crevé. « On leur a dit de couper le moteur et on les a récupérés. Il y avait un bébé de quelques mois, c’était l’urgence absolue. » En mer se trouve aussi le bateau anglais, qui fait demi-tour lorsqu’il constate que les exilé·es sont secouru·es.

    « Les migrants se sont mis à hurler parce que leur rêve s’écroulait. C’était pour nous une mise en danger de les calmer et de faire en sorte que personne ne se jette à l’eau par désespoir. » Le bateau anglais finit par revenir après 45 minutes de discussion entre le Cross et son homologue. « Plus de 45 minutes, répète Alain, en pleine mer avec un bébé de quelques mois à bord. »

    Qu’est devenu ce nourrisson ? s’interroge Alain, qui dit n’avoir jamais été confronté à la mort. Il faut se blinder, poursuit-il. « Nous sommes confrontés à des drames. Ces personnes se mettent en danger parce qu’elles n’ont plus rien à perdre et se raccrochent à cette traversée pour vivre, seulement vivre. » Il se demande souvent ce que sont devenus les enfants qu’il a sauvés. Sur son téléphone, il retrouve la photo d’une fillette sauvée des eaux, puis sourit.

    Pour lui, il n’y aurait pas de « consignes » visant à distinguer les #eaux_françaises et les #eaux_anglaises pour le secours en mer. « On ne nous a jamais dit : “S’ils sont dans les eaux anglaises, n’intervenez pas.” Le 24 novembre a été un loupé et on ne parle plus que de ça, mais il y a quand même des gens qui prennent à cœur leur boulot et s’investissent. » Si trente bateaux doivent être secourus en une nuit, précise-t-il pour illustrer son propos, « tout le monde y va, les Français, les Anglais, les Belges ».

    Lors de ses interventions en mer, la SNSM vérifie qu’il n’y a pas d’obstacles autour de l’embarcation à secourir, comme des bancs de sable ou des courants particulièrement forts. Elle informe également le Cross, qui déclenche les sauveteurs pour partir sur zone.

    « On approche très doucement du bateau, on évalue l’état des personnes, combien ils sont, s’il y a des enfants, s’il y a des femmes, si elles sont enceintes », décrit Julien, qui revoit cet enfant handicapé, trempé, qu’il a fallu porter alors qu’il pesait près de 80 kilos. Ce nourrisson âgé de 15 jours, aussi, qui dépassait tout juste la taille de ses mains.

    Si les exilés se lèvent brutalement en les voyant arriver, ce qui arrive souvent lorsqu’ils sont en détresse, le plancher de l’embarcation craque « comme un carton rempli de bouteilles de verre » qui glisseraient toutes en même temps vers le centre. Certains exilés sont en mer depuis deux jours lorsqu’ils les retrouvent. « En short et pieds nus », souvent épuisés, affamés et désespérés.

    Des « miracles » malgré le manque de moyens

    Les sauveteurs restent profondément marqués par ces sauvetages souvent difficiles, pouvant mener à huit heures de navigation continue dans une mer agitée et troublée par des conditions météo difficiles. « L’objectif est de récupérer les gens vivants, commente Julien. Mais il peut arriver aussi qu’ils soient décédés. Et aller récupérer un noyé qui se trouve dans l’eau depuis trois jours, c’est encore autre chose. »

    En trois ans, le nombre de sauvetages a été, selon lui, multiplié par dix. Le nombre d’arrivées au Royaume-Uni a bondi, conduisant le gouvernement britannique à multiplier les annonces visant à durcir les conditions d’accueil des migrant·es, du projet d’externalisation des demandes d’asile avec le Rwanda, à l’hébergement des demandeurs et demandeuses d’asile à bord d’une barge, plus économique, et non plus dans des hôtels.

    Pour Julien, les dirigeant·es français·es comme britanniques s’égarent dans l’obsession de vouloir contenir les mouvements migratoires, au point de pousser les forces de l’ordre à des pratiques parfois discutables : comme le montrent les images des journalistes ou des vacanciers, certains CRS ou gendarmes viennent jusqu’au rivage pour stopper les tentatives de traversée, suscitant des tensions avec les exilé·es. Aujourd’hui, pour éviter des drames, ils ne sont pas autorisés à intercepter une embarcation dès lors que celle-ci est à l’eau.

    Dans le même temps, les sauveteurs font avec les moyens dont ils disposent. Un canot de sauvetage vieillissant, entretenu mais non adapté au sauvetage de migrants en surnombre, explique Julien. « On porte secours à près de 60 personnes en moyenne. Si on est trop lourd, ça déséquilibre le bateau et on doit les répartir à l’avant et au milieu, sinon l’eau s’infiltre à l’arrière. » Ses équipes ont alerté sur ce point mais « on nous a ri au nez ». Leur canot devrait être remplacé, mais par un bateau « pas plus grand », qui ne prend pas ce type d’opérations en compte dans son cahier des charges.

    En un an, près de « 50 000 personnes ont pu être sauvées », tient à préciser Alain, avant d’ajouter : « C’est un miracle, compte tenu du manque de moyens. » Il peut arriver que les bénévoles de la SNSM reçoivent une médaille des autorités pour leur action. Mais à quoi servent donc les médailles s’ils n’obtiennent pas les moyens nécessaires et si leurs requêtes restent ignorées ?, interroge-t-il.

    « La France est mauvaise sur l’immigration, elle ne sait pas gérer », déplore Alain, qui précise que rien n’a changé depuis le drame du 24 novembre 2021. Et Julien de conclure : « Les dirigeants sont dans les bureaux, à faire de la politique et du commerce, pendant que nous on est sur le terrain et on sauve des gens. S’ils nous donnent des bateaux qui ne tiennent pas la route, on ne va pas y arriver… »

    Mercredi 22 novembre, deux exilés sont morts dans un nouveau naufrage en tentant de rallier le Royaume-Uni.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/241123/dans-la-manche-les-coulisses-terrifiantes-du-sauvetage-des-migrants
    #Calais #mourir_en_mer #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #France #UK #Angleterre #GB #sauvetage #naufrage #frontières #migrations #asile #réfugiés

  • Israël/Gaza  : les réseaux sociaux entre censure des voix palestiniennes et démultiplicateur de haine (Publié le 02.11.2023)

    https://www.amnesty.fr/liberte-d-expression/actualites/israel-gaza-reseaux-sociaux-entre-censure-des-voix-palestiniennes-et-demulti

    Hausse alarmante de la haine en ligne, censure des contenus palestiniens, faille de modération… depuis la vague de violence qui a éclaté le 7 octobre en Israël et à Gaza, nous sommes préoccupés par la haine et la censure qui profilèrent sur les réseaux sociaux. Nos équipes d’Amnesty Tech ont analysé plusieurs exemples, réunis dans cet article.

    Des publications antisémites

    Nos équipes ont aussi recensé plusieurs publications antisémites, dont un grand nombre appellent à la haine et à la violence contre les personnes juives. Des recherches menées dernièrement par le Centre de lutte contre la haine numérique (CCDH) ont d’ailleurs révélé une prolifération des contenus antisémites sur X ces derniers mois.

    Sur fond d’escalade de violences en Israël et à Gaza nous appelons les entreprises qui gèrent les réseaux sociaux à s’attaquer à la vague de haine et de racisme qui déferle en ligne contre les communautés palestinienne et juive.

    «  Shadow ban  » des contenus palestiniens

    Certains contenus issus de comptes de Palestiniens ou de personnes défendant leurs droits ou relayant simplement des informations sur la situation à Gaza auraient été censurés par les réseaux sociaux. C’est ce que l’on appelle le «  shadow banning  » ou «  bannissement furtif  » qui signifie donc que des contenus palestiniens auraient bénéficié d’une visibilité presque nulle. La directrice d’Amnesty Tech, Rasha Abdul-Rahim, s’est dite vivement préoccupée par ces informations.

    « Tandis qu’Israël intensifie ses bombardements sans précédent sur la bande de Gaza, nous sommes extrêmement préoccupés par les informations faisant état du blocage partiel, parfois même de la suppression de contenus publiés par des défenseur·e·s des droits des Palestinien·ne·s » Rasha Abdul-Rahim, directrice d’Amnesty Tech

    La population palestinienne de la bande de Gaza est de plus en plus soumise à des coupures des moyens de communications, qui limitent sa capacité à chercher, recevoir et transmettre des informations. Les inégalités dans la modération des contenus par les plateformes de réseaux sociaux risquent d’affaiblir encore plus la capacité des Palestinien·ne·s à l’intérieur comme à l’extérieur de la bande de Gaza d’exercer leurs droits à la liberté d’expression, d’association et de réunion pacifique.

    Les failles abyssales des réseaux sociaux dans la gestion des contenus

    Des recherches ont montré que, sous couvert de neutralité, les systèmes fondés sur l’Intelligence Artificielle (IA) reproduisaient souvent les préjugés existant déjà dans la société. Le 19 octobre 2023, META s’est excusée d’avoir ajouté le mot « terroriste » dans des traductions de profils Instagram contenant les mots « Palestinien » et « Alhamdulillah » (qui signifie Dieu soit loué), ainsi que l’émoji drapeau palestinien. Elle a aussi abaissé de 80 % à 25 % le seuil de certitude requis pour « cacher » un contenu hostile, pour les contenus provenant en grande partie du Moyen-Orient. Cette mesure était une tentative d’endiguer le flux de propos hostiles, mais risque aussi d’entraîner des restrictions excessives des contenus.

    En mai 2021, un rapport de l’organisation Business for Social Responsibility a montré que les contenus en langue arabe faisaient d’avantage l’objet d’une «  modération excessive  » sur les plateformes de Meta contrairement à des contenus dans d’autres langues, dont l’hébreu. Des publications signalées à tort ont contribué à réduire la visibilité et l’engagement de publications en arabe.

    La responsabilité des réseaux sociaux

    Plusieurs de nos recherches [1] ont déjà révélé comment les algorithmes de plateforme comme Facebook ont contribué à de graves violations des droits humains.

    Ces enquêtes sur la responsabilité de Facebook dans des violations commises en Ethiopie ou au Myanmar ont montré la nuisance du modèle économique de Meta basé sur les algorithmes. Conçus pour générer un maximum d’engagement, les algorithmes entraînent souvent une amplification disproportionnée de contenus comme les appels à la haine incitant à la violence, à l’hostilité et à la discrimination.

    Dans ce contexte, il est impératif que les géants technologiques s’emploient à remédier aux conséquences réelles de leurs activités sur les droits humains afin qu’elles ne contribuent pas et ne permettent pas à la haine, au racisme et à la désinformation de proliférer.

    [1] https://www.amnesty.fr/actualites/facebook-a-contribue-au-nettoyage-ethnique-des-rohingyas et https://www.amnesty.fr/actualites/meta-facebook-a-contribue-a-des-violations-dans-le-conflit-en-ethiopie

  • ▶ Le numéro 1856 de décembre du Monde Libertaire est prêt !

    ▶ 𝐄𝐝𝐢𝐭𝐨 : "En décembre, c’est l’apothéose la grande bouffe et les p’tits cadeaux ils sont toujours aussi moroses mais y a de la joie dans les ghettos" - Renaud, Hexagone

    • Et revoilà les fêtes de fin d’années et leur cortège d’excès... à vomir ! D’ailleurs, à l’heure d’écrire ces lignes (le 17 novembre), l’un de nous croule déjà sous les colis de ses clients qui ne se posent pas trop de questions sur le système qu’ils utilisent, donc cautionnent... Aux Innocents les mains pleines ! Sauf que nous, anarchistes ou en tout cas anarchistes en devenir, nous ne cautionnons plus ces excès, et ce, depuis longtemps déjà pour certain(e)s d’entre nous. On entend déjà quelques bonnes consciences exprimer leurs regrets de la situation internationale et nationale à table ou au comptoir avant de s’en retourner se bâfrer de dindes aux marrons... C’est pour cette raison que le dossier de décembre porte sur un « marronnier » anarchiste, la consommation, et qu’il est d’ailleurs intitulé « On n’est pas des dindes ! »

    • Donc dans les pages qui vont suivre vous trouverez d’excellents textes qui interrogent la société de consommation mais aussi d’autres sur la guerre en Palestine, sur la galère d’être en recherche d’emploi dans le secteur artistique lato sensu ou encore sur une lutte victorieuse. On revient aussi sur Saint-Imier via une traduction de Malatesta ou sur le Chili de 73. Bref, un Monde Libertaire à offrir pour les fêtes, avec de nombreuses recensions de livres (à offrir également, même si on ne veut pas pousser à... la consommation) ! (...)

    #presse #anarchisme #LeMondeLibertaire

    https://monde-libertaire.net/?articlen=7590&article=EDITO_DU_ML_N_1856

  • Histoire du mouvement libertaire en #Bulgarie - II. – Aperçu historique général
    https://www.partage-noir.fr/histoire-du-mouvement-libertaire-en-bulgarie-ii-apercu

    Il serait absurde de penser et d’affirmer que les peuples sont historiquement prédestinés à accepter et réaliser certaines idées sociales plutôt que d’autres conceptions. Mais, en étudiant l’histoire des mouvements sociaux et révolutionnaires des divers pays, l’on constate que chaque peuple a ses particularités et obéit à des facteurs de caractère historique, géographique, politique, économique et culturel qui le rendent prédisposé à adhérer à certaines idées sociales, en les transformant (...) 16-17 - Histoire du mouvement libertaire en Bulgarie (Esquisse) - G. Balkanski

    #Bulgarie #Balkanski #anarchisme

  • [Les Promesses de l’Aube] La B.O.U.M: #bibliothèque anarchiste
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/la-boum-bibliotheque-anarchiste

    Ce mercredi on a parlé de la B.O.U.M, la bibliothèque anarchiste qui a sa permanence au #boom café tous les jeudis.

    On a discuté anarchie, rencontre et échanges, bibliothèque, on a écouté des lectures de textes de Voltairine De Cleyre et Marianne Enckell et on a écouté du René Binamé :-)

    L’entretien avec Sam, Bastien et Zoé commence à 1h18 dans le podcast ci-dessous.

    Playlist :

    One too many mornings - Cat Power The Suffering - Bel Canto Preciso me encontrar - Elza Soares, Negra Li Baby Brother - Mattiel Your Ancestor - Nynke Laverman Ca sent pas la bonne nouvelle - Monsieur Lune Universal Guide - Dumbo Gets Mad Keeping Secrets Will Destroy You - Bonnie Prince Billy Mother’s little helper - René Binamé Kestufé du wéékend - René Binamé La vie s’écoule - René Binamé La Zablière - Les Enfants (...)

    #anarchisme #collectifs #anarchisme,bibliothèque,collectifs,boom
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/la-boum-bibliotheque-anarchiste_16854__1.mp3