• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

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    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • La chute du Heron blanc, ou la fuite en avant de l’agence #Frontex

    Sale temps pour Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières : après le scandale des pushbacks dans les eaux grecques, qui a fait tomber son ex-directeur, l’un de ses drones longue portée de type Heron 1, au coût faramineux, s’est crashé fin août en mer ionienne. Un accident qui met en lumière la dérive militariste de l’Union européenne pour barricader ses frontières méridionales.

    Jeudi 24 août 2023, un grand oiseau blanc a fait un plongeon fatal dans la mer ionienne, à 70 miles nautiques au large de la Crète. On l’appelait « Heron 1 », et il était encore très jeune puisqu’il n’avait au compteur que 3 000 heures de vol. Son employeur ? Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes chargée depuis 2004 de réguler les frontières européennes, avec un budget sans cesse en hausse.

    Le Heron 1 est désigné dans la terminologie barbare du secteur de l’armement comme un drone MALE (Medium Altitude Long Endurance) de quatrième génération, c’est-à-dire un engin automatisé de grande taille capable de voler sur de longues distances. Frontex disposait jusqu’au crash de seulement deux drones Heron 1. Le premier a été commandé en octobre 2020, quand l’agence a signé un contrat de 50 millions d’euros par an avec Airbus pour faire voler cet appareil en « leasing » – Airbus passant ensuite des sous-contrats, notamment avec le constructeur israélien IAISystem
    1
    – pour un total de 2 400 heures de vol, et avec des dépassements qui ont fait monter la facture annuelle. En clair, le coût de fonctionnement de ce drôle d’oiseau est abyssal. Frontex rechigne d’ailleurs à entrer dans les détails, arguant de « données commerciales sensibles », ainsi que l’explique Matthias Monroy, journaliste allemand spécialisé dans l’aéronautique : « Ils ne veulent pas donner les éléments montrant que ces drones valent plus cher que des aéroplanes classiques, alors que cela semble évident. »
    2

    La nouvelle de la chute de l’onéreux volatile n’a pas suscité beaucoup de réactions publiques – il n’en est quasiment pas fait mention dans les médias autres que grecs, hormis sur des sites spécialisés. On en trouve cependant une trace sur le portail numérique du Parlement européen, en date du 29 août 2023. Ce jour-là, Özlem Demirel, députée allemande du parti de gauche Die Linke, pose la question « E-002469/2023 » (une interpellation enregistrée sous le titre : « Crash of a second long-range drone operated on Frontex’s behalf »), dans laquelle elle interroge la fiabilité de ces drones. Elle y rappelle que, déjà en 2020, un coûteux drone longue distance opéré par Frontex s’était crashé en mer – un modèle Hermes 900 cette fois-ci, tout aussi onéreux, bijou de l’israélien Elbit Systems. Et la députée de demander : « Qui est responsable ? »

    Une question complexe. « En charge des investigations, les autorités grecques détermineront qui sera jugé responsable, explique Matthias Monroy. S’il y a eu une défaillance technique, alors IAI System devra sans doute payer. Mais si c’est un problème de communication satellite, comme certains l’ont avancé, ou si c’est une erreur de pilotage, alors ce sera à Airbus, ou plutôt à son assureur, de payer la note. »
    VOL AU-DESSUS D’UN NID D’EMBROUILLES

    Le Heron 1 a la taille d’un grand avion de tourisme – presque un mini-jet. D’une envergure de 17 mètres, censé pouvoir voler en autonomie pendant 24 heures (contre 36 pour le Hermes 900), il est équipé de nombreuses caméras, de dispositifs de vision nocturne, de radars et, semble-t-il, de technologies capables de localiser des téléphones satellites
    3
    . Détail important : n’étant pas automatisé, il est manœuvré par un pilote d’Airbus à distance. S’il est aussi utilisé sur des théâtres de guerre, notamment par les armées allemande et israélienne, où il s’est également montré bien peu fiable
    4
    , sa mission dans le cadre de Frontex relève de la pure surveillance : il s’agit de fournir des informations sur les embarcations de personnes exilées en partance pour l’Europe.

    Frontex disposait de deux drones Heron 1 jusqu’au crash. Airbus était notamment chargé d’assurer le transfert des données recueillies vers le quartier général de Frontex, à Varsovie (Pologne). L’engin qui a fait un fatal plouf se concentrait sur la zone SAR(Search and Rescue
    5
    ) grecque et avait pour port d’attache la Crète. C’est dans cette même zone SAR que Frontex a supervisé plus ou moins directement de nombreux pushbacks (des refoulements maritimes), une pratique illégale pourtant maintes fois documentée, ce qui a provoqué un scandale qui a fini par contraindre le Français Fabrice Leggeri à démissionner de la tête de l’agence fin avril 2022. Il n’est pas interdit de penser que ce Heron 1 a joué en la matière un rôle crucial, fournissant des informations aux gardes-côtes grecs qui, ensuite, refoulaient les embarcations chargées d’exilés.

    Quant à son jumeau, le Heron positionné à Malte, son rôle est encore plus problématique. Il est pourtant similaire à celui qui s’est crashé. « C’est exactement le même type de drone », explique Tamino Bohm, « tactical coordinator » (coordinateur tactique) sur les avions de Sea-Watch, une ONG allemande de secours en mer opérant depuis l’île italienne de Lampedusa. Si ce Heron-là, numéro d’immatriculation AS2132, diffère de son jumeau, c’est au niveau du territoire qu’il couvre : lui survole les zones SAR libyennes, offrant les informations recueillies à ceux que la communauté du secours en mer s’accorde à désigner comme les « soi-disant gardes-côtes libyens »
    6
    – en réalité, des éléments des diverses milices prospérant sur le sol libyen qui se comportent en pirates des mers. Financés en partie par l’Union européenne, ils sont avant tout chargés d’empêcher les embarcations de continuer leur route et de ramener leurs passagers en Libye, où les attendent bien souvent des prisons plus ou moins clandestines, aux conditions de détention infernales
    7
    .

    C’est ainsi qu’au large de Lampedusa se joue une sorte de guerre aérienne informelle. Les drones et les avions de Frontex croisent régulièrement ceux d’ONG telles que Sea-Watch, dans un ballet surréaliste : les premiers cherchant à renseigner les Libyens pour qu’ils arraisonnent les personnes exilées repérées au large ; les seconds s’acharnant avec leurs maigres moyens à documenter et à dénoncer naufrages et refoulements en Libye. Et Tamino d’asséner avec malice : « J’aurais préféré que le drone crashé soit celui opérant depuis Malte. Mais c’est déjà mieux que rien. »
    BUDGET GONFLÉ, MANDAT ÉLARGI

    Tant que l’enquête sur le crash n’aura pas abouti, le vol de drones Heron 1 est suspendu sur le territoire terrestre et maritime relevant des autorités grecques, assure Matthias Monroy (qui ajoute que cette interdiction s’applique également aux deux drones du même modèle que possède l’armée grecque). Le crash de l’un de ses deux Heron 1 est donc une mauvaise nouvelle pour Frontex et les adeptes de la forteresse Europe, déjà bien éprouvés par les arrivées massives à Lampedusa à la mi-septembre et l’hospitalité affichée sur place par les habitants. À l’image de ces murs frontaliers bâtis aux frontières de l’Europe et dans l’espace Schengen – un rapport du Parlement européen, publié en octobre 2022 « Walls and fences at EU borders » (https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2022)733692), précise que l’on en est à 2 035 kilomètres de barrières frontalières, contre 315 en 2014 –, matérialisation d’un coûteux repli identitaire clamant une submersion fantasmée, il est évident que la démesure sécuritaire ne freine en rien les volontés de rejoindre l’Europe.

    Ce ne sont pourtant pas les moyens qui manquent. Lors de sa première année d’opérations, en 2005, Frontex disposait d’un budget de 6 millions d’euros. Depuis, celui-ci n’a cessé d’enfler, pour atteindre la somme de 845,4 millions d’euros en 2023, et un effectif de plus de 2 100 personnels – avec un budget prévisionnel 2021-2027 de 11 milliards d’euros et un objectif de 10 000 gardes d’ici à 2027 (dont 7 000 détachés par les États membres).

    Depuis 2019, Frontex dispose d’un mandat élargi qui autorise l’acquisition et la possession d’avions, de drones et d’armes à feu. L’agence s’est aussi géographiquement démultipliée au fil de temps. Ses effectifs peuvent aussi bien patrouiller dans les eaux de Lampedusa que participer à des missions de surveillance de la frontière serbo-hongroise, alors que son rôle initial était simplement d’assister les pays européens dans la gestion de leurs frontières. L’agence européenne joue aussi un rôle dans la démesure technologique qui se développe aux frontières. Rien que dans les airs, l’agence se veut novatrice : elle a déjà investi plusieurs millions d’euros dans un projet de #zeppelin automatisé relié à un câble de 1 000 mètres, ainsi que dans le développement de drones « #quadcopter » pesant une dizaine de kilos. Enfin, Frontex participe aussi à la collecte généralisée de #données migratoires dans le but d’anticiper les refoulements. Elle soutient même des projets visant à gérer les flux humains par #algorithmes.

    Traversée comme les armées par une culture du secret, l’agence s’est fait une spécialité des zones grises et des partenariats opaques, tout en prenant une place toujours plus importante dans la hausse de la létalité des frontières. « Frontex est devenue l’agent de la #militarisation_des_frontières européennes depuis sa création, résume un rapport de la Fondation Jean-Jaurès sorti en juillet 2023. Fondant son fonctionnement sur l’#analyse_des_risques, Frontex a contribué à la perception des frontières européennes comme d’une forteresse assiégée, liant le trafic de drogue et d’êtres humains à des mouvements migratoires plus larges. »

    « VOUS SURVEILLEZ LES FRONTIÈRES, NOUS VOUS SURVEILLONS »

    Dans sa volonté d’expansion tous azimuts, l’agence se tourne désormais vers l’Afrique, où elle œuvre de manière plus ou moins informelle à la mise en place de politiques d’#externalisation des frontières européennes. Elle pèse notamment de tout son poids pour s’implanter durablement au #Sénégal et en #Mauritanie. « Grâce à l’argent des contribuables européens, le Sénégal a construit depuis 2018 au moins neuf postes-frontières et quatre antennes régionales de la Direction nationale de lutte contre le trafic de migrants. Ces sites sont équipés d’un luxe de #technologies de #surveillance_intrusive : outre la petite mallette noire [contenant un outil d’extraction des données], ce sont des #logiciels d’#identification_biométrique des #empreintes_digitales et de #reconnaissance_faciale, des drones, des #serveurs_numériques, des lunettes de vision nocturne et bien d’autres choses encore », révèle une enquête du journal étatsunien In These Times. Très impopulaire sur le continent, ce type de #néocolonialisme obsidional se déploie de manière informelle. Mais il porte bien la marque de Frontex, agence agrippée à l’obsession de multiplier les murs physiques et virtuels.

    Au Sénégal, pour beaucoup, ça ne passe pas. En août 2022, l’association #Boza_Fii a organisé plusieurs journées de débat intitulées « #Pushback_Frontex », avec pour slogan : « Vous surveillez les frontières, nous vous surveillons ». Une manifestation reconduite en août 2023 avec la mobilisation « 72h Push Back Frontex ». Objectif : contrer les négociations en cours entre l’Union européenne et le Sénégal, tout en appelant « à la dissolution définitive de l’agence européenne de gardes-frontières ». Sur RFI, son porte-parole #Saliou_Diouf expliquait récemment son point de vue : « Nous, on lutte pour la #liberté_de_circulation de tout un chacun. […] Depuis longtemps, il y a beaucoup d’argent qui rentre et est-ce que ça a arrêté les départs ? »

    Cette politique « argent contre muraille » est déployée dans d’autres États africains, comme le #Niger ou le #Soudan. Frontex n’y est pas directement impliquée, mais l’Europe verse des centaines de millions d’euros à 26 pays africains pour que des politiques locales visant à bloquer les migrations soient mises en place.

    « Nous avons besoin d’aide humanitaire, pas d’outils sécuritaires », assure Mbaye Diop, travailleur humanitaire dans un camp de la Croix-Rouge situé à la frontière entre le Sénégal et la Mauritanie, dans l’enquête de In These Times. Un constat qui vaut de l’autre côté de la Méditerranée : dans un tweet publié après le crash du Heron 1, l’ONG Sea-Watch observait qu’avec les 50 millions alloués à Airbus et à ses sous-traitants pour planter son Heron dans les flots, « on pourrait faire voler pendant 25 ans nos avions de secours Seabird 1 et Seabird 2 ».

    https://afriquexxi.info/La-chute-du-Heron-blanc-ou-la-fuite-en-avant-de-l-agence-Frontex

    #drones #Heron_1 #frontières #surveillances_des_frontières #contrôles_frontaliers #migrations #asile #réfugiés #drone_MALE (#Medium_Altitude_Long_Endurance) #crash #Airbus #complexe_militaro-industriel #IAI_System #coût #prix #budget #chute #fiabilité #Hermes_900 #Elbit_Systems #données #push-backs #refoulements #AS2132 #Libye #guerre_aérienne_informelle #biométrie

  • "#Analyse_Retraite" (n°4) consacré à la #pénibilité du #Comité_de_Mobilisation_INSEE DG :

    Nous sommes des agents de l’Insee, l’Institut national de la statistique et des études économiques, mobilisés contre la réforme des retraites du gouvernement. Pour aider à la compréhension des enjeux sociaux et économiques autour de cette réforme, nous mettons en lumière des statistiques publiques dans une collection appelée Analyse Retraites. Ce nouveau numéro est centré sur les questions de pénibilité.


    A télécharger ici :
    https://drive.proton.me/urls/PZQC9YRVT4#c3LuuB7m3wt9

    #analyse #retraites #statistiques #chiffres #rapport #INSEE

    • À l’Insee, la mobilisation contre la réforme des retraites s’organise aussi

      Les agents de l’Insee ont perturbé une conférence de presse cette semaine et ont publié une analyse contre la réforme des retraites. Leur but : mettre au service du mouvement social leur expertise et leur outil de travail, la statistique nationale.

      Mercredi 15 février. Alors que les syndicats ont appelé à une nouvelle journée de manifestation contre la réforme des retraites, l’Insee (l’Institut national de la statistique et des études économiques) fait comme si de rien n’était. Les journalistes économiques ont été convoqués à distance à 10 heures pour la traditionnelle présentation de la « Note de conjoncture » de l’institut de statistiques national. Mais l’écran reste désespérément noir pendant une dizaine de minutes.

      Soudain, une voix s’impose sur l’écran toujours noir. C’est celle d’un responsable du « comité de mobilisation » des agents de l’Insee contre la réforme des retraites. Il rappelle qu’une partie du personnel de l’Insee est vent debout contre la réforme depuis le 19 janvier, que le comité a publié une analyse de quatre pages pour mettre en évidence le caractère inutile de la réforme et, enfin, il invite les journalistes à une conférence de presse le lendemain pour la publication d’une nouvelle analyse du comité sur la question de la pénibilité.

      L’interruption aura été très brève, une poignée de minutes, mais met mal à l’aise le représentant de l’Insee, qui se confond en excuses auprès de la presse. Mis devant la pression du comité, il a dû lui céder la parole, mais insiste sur le fait que ses paroles doivent être différenciées de celles de l’institution.

      Le lendemain, la conférence du comité de mobilisation se tient à la même heure, mais dans des conditions très différentes. Initialement prévue dans les locaux de l’Insee à Montrouge, elle doit se déporter dans un café proche et, pour les journalistes, se passer à distance. À 17 h 20, la veille, dans un mail signé par l’ancienne députée socialiste Karine Berger, devenue en janvier 2020 secrétaire générale de l’Insee, la direction interdit la réunion. « Les réunions syndicales ne sont autorisées dans l’enceinte de l’administration que pour des informations syndicales à destination des seuls agents », rappelle le texte du mail.

      La conférence de presse du comité de mobilisation s’est donc tenue dans des conditions plus difficiles. Les journalistes sont un peu moins nombreux (et assez différents) de ceux de la veille. Mais le texte de l’analyse sur la pénibilité est néanmoins présenté.

      Une analyse au vitriol contre la réforme

      Parfaitement mis en page, ce texte titré « Analyse retraites » n’est pas sans rappeler la charte graphique de l’Insee, ni même le style des notes de l’institut. Un membre du comité assume même le caractère d’« imitation » du document. Tout y est issu des données de l’Insee, et le texte est émaillé de douze références à des articles scientifiques.

      Il s’agit d’un « numéro 4 », qui suit deux premiers numéros publiés lors de la mobilisation contre la précédente réforme des retraites en 2019-2020 et celui du mois de janvier dernier, qui rappelait que les gains de productivité permettaient de compenser le vieillissement de la population, rendant la réforme injustifiée.

      Cette fois, le texte se concentre sur la question de la pénibilité pour mettre en échec un des axes du discours macroniste sur la retraite. En février, le chef de la majorité présidentielle François Patriat, ancien membre du Parti socialiste, avait déclaré que les déménageurs et les couvreurs disposaient désormais d’« exosquelettes ». La note des agents de l’Insee souligne, au contraire, la persistance de la pénibilité et des effets du travail sur la #santé et l’#espérance_de_vie.

      « Ces dernières années ont été marquées par une dégradation des #conditions_de_travail, y compris chez les seniors : accélération des cadences, sous-effectif chronique […], parcellisation et surveillance accrue », souligne la note. En 2019, rappellent les agents, 37 % des salariés se sentaient incapables de tenir dans leur travail jusqu’à l’âge de la retraite. Et ce phénomène touche d’abord les métiers les moins qualifiés.

      L’analyse rappelle aussi que l’espérance de vie sans incapacité n’est que de 63,9 ans pour les hommes et de 65,3 ans pour les femmes, avec là encore un biais fort selon la nature du travail. Cet âge n’est ainsi que de 62,4 ans chez les ouvriers et 64,7 ans chez les ouvrières. En tout, une personne sur quatre présente déjà une incapacité aujourd’hui au moment de son départ en retraite.

      Mais ces différences sont plus globales encore : l’espérance de vie des 5 % les plus pauvres est inférieure de 13 % à celle des 5 % les plus riches. Celle des cadres dépasse de 6,4 ans celle des ouvriers. À 62 ans, 14 % des ouvriers sont déjà morts, contre 6 % des cadres… De quoi relativiser le leitmotiv gouvernemental : « On vit plus longtemps, il faut travailler plus longtemps. »

      Du côté des #contraintes_physiques, le bilan n’est guère plus réjouissant. Certes, certaines d’entre elles ont été réduites, mais elles restent à un niveau élevé. 35 % des salariés et salariées sont ainsi encore exposés à la manutention de charges lourdes à la main. Surtout, l’#intensité_du_travail et la #surveillance_électronique se sont accrues.

      Enfin, l’analyse des agents de l’Insee insiste sur les effets des réformes des retraites sur le #marché_du_travail. Reprenant une étude récente de l’Unédic, le texte rappelle que la réforme de 2010, qui avait porté l’âge légal de départ à la retraite à 62 ans, a créé 100 000 chômeurs supplémentaires et un accroissement des dépenses d’assurance-maladie. « Il y a donc un transfert des coûts de l’#assurance-retraite vers l’#assurance-maladie et l’#assurance-chômage », souligne un agent.

      Mettre son expertise au service du mouvement social

      La démarche de cette analyse mérite d’être soulignée. Les agents mobilisés utilisent leurs compétences pour mettre en lumières des « chiffres publics » qui ne passent pas la « cacophonie médiatique » et, cela n’est pas dit, les cadres existants des publications de l’institut. Il y a donc là, à l’occasion de cette réforme des retraites, une forme de prise de contrôle de l’outil de travail au service du mouvement social, mais aussi une démarche critique vis-à-vis de la communication globale de l’Insee.

      « Ce que l’on essaye de montrer, c’est que notre travail peut servir à autre chose », reconnaît un agent lors de la conférence de presse du comité. Et d’ajouter : « On est en train de dire, en agissant ainsi, qu’on veut un autre type d’expression et de relations avec la société civile. »

      On comprend que les relations avec la direction de l’Insee puissent être tendues, même si un autre agent mobilisé indique que, globalement, jusqu’à mercredi, les rapports étaient plutôt paisibles. Lors de la naissance de cette initiative, au moment de la précédente réforme de 2019-2020, quelques tensions avaient déjà pu se faire sentir, notamment lorsque les agents mobilisés étaient intervenus au cours d’une autre présentation d’une « Note de conjoncture » de l’Insee à la gare de Lyon. La direction avait alors rappelé les agents au « #devoir_de_réserve » qui les oblige à ne pas intervenir dans le débat en tant qu’agents de l’Insee.

      C’est pourquoi ces derniers interviennent au nom global du comité de mobilisation. Depuis, les agents estiment que la direction ne peut pas réellement contester les chiffres mis en avant dans leurs analyses. Un membre du comité estime d’ailleurs que ce travail « participe au rayonnement de l’Insee ». Au reste, il n’y a pas de critique, au sein du comité de mobilisation, de l’Insee en tant que tel. Il y a surtout une volonté d’utiliser les savoirs au service de la lutte contre la réforme.

      En tout, ce comité regroupe « une cinquantaine d’agents », dont une trentaine se réunissent régulièrement. Il est soutenu par quatre syndicats de l’institut : CFDT, CGT, FO et Sud. Mais la mobilisation des agents tend à la dépasser. Selon des membres de ce comité, près de 150 agents ont pu se mettre en grève au cours des semaines de mobilisation. Cela représente près de 10 % des effectifs des services centraux. Un chiffre faible ? Peut-être, mais l’Insee n’est pas un centre traditionnel de la contestation sociale et, affirme un agent membre du comité, « la plupart des agents, comme le reste des Français, sont hostiles à la réforme des retraites ». Jusqu’ici, en tout cas, les publications du comité de mobilisation n’ont pas causé d’hostilité majeure en interne.

      Concrètement, ce mouvement s’est construit autour de celui de 2019-2020. Les cadres de la précédente mobilisation, durant laquelle avaient été publiés déjà deux numéros d’« Analyses retraites », ont été rapidement réactivés. Le comité se structure autour de sous-comités avec des tâches bien précises, notamment la rédaction du quatre-pages. L’assemblée générale se réunit tous les trois ou quatre jours et reçoit des invités, parmi lesquels les économistes Michaël Zemmour ou Nicolas Da Silva, mais aussi les comités interprofessionnels de mobilisation de la région.

      D’ailleurs, les agents mobilisés cherchent de plus en plus à nouer des liens avec les salariés en grève autour du siège de Montrouge. Des agents sont déjà allés sur d’autres lieux de mobilisation pour inciter à l’action. « Cela apporte de la légitimité et du sérieux à la lutte », explique un des agents, qui considère que c’est sur ce point que le personnel de l’Insee peut être utile : « L’Insee a une image de sérieux et de rigueur, et il faut utiliser l’impact que cela peut avoir. »

      L’enjeu, à présent, est de poursuivre et d’amplifier la mobilisation. En poursuivant la rédaction d’analyses, mais aussi en répondant aux coups de frein de la direction, notamment sur la possibilité de réaliser une conférence de presse à distance depuis les locaux de l’Insee. Mais le principal défi sera de voir s’il est faisable d’organiser un blocage et une grève massive à l’institut. « C’est plus difficile, mais je suis optimiste », affirme un agent du comité qui considère que l’usage de l’article 49-3 de la Constitution est de nature à faire franchir le pas à de nombreux agents.

      Déjà, à la direction régionale de Saint-Quentin-en-Yvelines, des agents ont bloqué la production de documents avec l’appui d’une caisse de grève interne. « C’est ce genre d’action que l’on voudrait répéter à la direction générale », indique un agent. Une chose est certaine : à l’institut de statistiques, la colère est la même que dans la plupart des autres entreprises du pays. Et ses agents ont su faire preuve de créativité pour apporter leur expertise au mouvement social.

      https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/170323/l-insee-la-mobilisation-contre-la-reforme-des-retraites-s-organise-aussi

  • La Révolution de 1848 et le drapeau rouge, de Maurice Dommanget (1888-1976)

    Texte écrit en 1928 par le syndicaliste-révolutionnaire Maurice Dommanget, secrétaire général de la Fédératon unitaire de l’enseignement de 1926 à 1928 dont il fut un des fondateurs, et publié en mars 1948 par les Editons Spartacus.

    #pdf : https://www.marxists.org/francais/dommanget/works/1928/La%20Revolution%20de%201848%20et%20le%20drapeau%20rouge.pdf

    #epub : https://www.marxists.org/francais/dommanget/works/1928/Dommanget%201848%20drapeau.epub

    Sommaire :
    La révolution de 1848
    – Les conditons
    – La République arrachée
    – Les mesures sociales
    #Louis_Blanc
    – Les courants socialistes en février
    #Auguste_Blanqui
    – Le ralliement de l’église
    – Explicaton de l’échec prolétarien
    – Le manifeste communiste
    – Leçons du manifeste de la #révoluton_de_1848

    Le drapeau rouge en 1848 et sous la IIe République

    Chapitre 1 : la révolution de février
    – Du drapeau rouge en général
    – Les drapeaux des barricades
    – Appariton des premiers drapeaux rouges
    – Succès du drapeau rouge : ses causes
    – La thèse lamartnienne
    – La thèse proudhonienne
    – Le drapeau rouge gagne la province

    Chapitre 2 : #Lamartine, Blanqui, #Proudhon, le gouvernement et le drapeau rouge
    – L’effervescence du 25 février
    – La sommaton de l’ouvrier Marche
    – Le discours de Lamartne
    – Réactons et mesures d’apaisement
    – Riposte de Blanqui
    – Nouvelle ofensive et délibératon du 26 février
    – Nouvelle riposte de Blanqui
    – Décisions gouvernementales
    – Défaite du drapeau rouge

    Chapitre trois : des journées de février aux journées de juin
    – Eclipse du drapeau rouge jusqu’au 13 mai
    – La diatribe de #Victor_Hugo
    – Les #journées_de_juin

    Chapitre 4 : sous la répression et la réaction
    – Caractère et rayonnement internatonal du #drapeau_rouge
    – Manifestatons diverses en 1849
    – Le plaidoyer d’Alfred Delvaux 1850
    – Après le #coup_d'état du #2_décembre_1851

    #marxisme #analyse_de_classe #lutte_de_classe

  • La guerre en Ukraine, une étape majeure dans l’escalade vers la troisième guerre mondiale
    https://mensuel.lutte-ouvriere.org//2022/12/10/la-guerre-en-ukraine-une-etape-majeure-dans-lescalade-vers-l

    Extrait :

    Prendre position sur la #guerre_en_Ukraine en faisant abstraction de l’emprise de l’impérialisme sur le monde, c’est se ranger dans le camp des puissances impérialistes. Lorsqu’il s’agit de tendances politiques qui se revendiquent du #marxisme, c’est un abandon.

    Les justifications avancées par ceux qui se rangent, ouvertement ou hypocritement, dans le camp des puissances impérialistes sont étonnamment semblables à celles avancées par leurs ancêtres ou prédécesseurs d’avant ou pendant la #Deuxième_Guerre_mondiale.

    La défense de la #démocratie  ?

    Poutine est un dictateur de la pire espèce, c’est-à-dire de l’espèce de #Staline, dont il se revendique pour rejeter Lénine. Mais l’argument est misérable lorsqu’on sait combien sont les dictatures suscitées, protégées, armées par l’impérialisme de la grande «  démocratie  » américaine, de par le monde.

    Le droit de la nation ukrainienne à disposer d’elle-même  ?

    Lors de l’agression de la monarchie des Habsbourg contre la Serbie – acte déclencheur de la Première Guerre mondiale –, on pouvait éprouver un sentiment de solidarité pour une petite nation pauvre dont la survie était menacée. Mais le droit à l’existence nationale de la Serbie est passé aux yeux des révolutionnaires de l’époque au second plan alors qu’il se plaçait dans le cadre d’un affrontement entre camps impérialistes.

    Poutine responsable d’une politique impérialiste  ?

    C’est incontestablement vrai, au sens générique du terme depuis la politique de la Rome antique pendant des siècles. Mais l’insistance à répéter le terme est faite surtout pour dissimuler que l’impérialisme d’aujourd’hui est avant tout un certain stade du capitalisme et qu’on ne peut mettre fin à sa politique guerrière qu’en détruisant ses racines capitalistes.

    C’est #Poutine qui a déclenché la guerre ?

    Argument lamentable, du même ordre que d’invoquer le coup de chasse-mouches du Dey d’Alger pour justifier la conquête de l’Algérie par la France.

    Pour des communistes révolutionnaires, la seule attitude possible doit être guidée par l’idée formulée à l’époque du premier conflit mondial par Karl Liebknecht  : «  L’ennemi principal est dans notre propre pays  » .

    Pour des militants communistes russes, cela implique l’opposition à la guerre menée par Poutine et le renversement de son régime prédateur pour le compte de la bureaucratie et des oligarques milliardaires.

    Fraternisation  ; s’adresser aux prolétaires d’Ukraine, au nom de l’identité de leurs intérêts avec ceux des prolétaires de Russie, tout en se revendiquant de la politique des bolcheviks de respecter le droit de l’#Ukraine à l’indépendance, si les travailleurs le souhaitent.

    Politique identique pour les militants ukrainiens  : refus de faire partie de l’union nationale et militer pour le renversement du régime en place qui s’appuie sur des cliques bureaucratiques et des oligarques, du même acabit que celles pour lesquelles on demande de mourir aux prolétaires russes mobilisés dans l’armée.

    #communisme_révolutionnaire #analyse_marxiste #impérialisme #oligarchie

    • Iran : face à une dictature obscurantiste, élément de l’ordre impérialiste

      Cercle Léon Trotsky n°170 (#archiveLO, 5 février 2023)

      Le texte : https://www.lutte-ouvriere.org/publications/brochures/iran-face-une-dictature-obscurantiste-element-de-lordre-imperialiste

      Sommaire :

      – Introduction
      – Sous la tutelle impérialiste
      – L’impact de la #révolution_russe
      – De la tutelle britannique à celle des #États-Unis, l’échec de #Mossadegh
      – Le #chah, un dictateur au service de l’#impérialisme américain
      – L’opposition politique au chah
      – La montée révolutionnaire de 1978-79
      – La #république_islamique, une dictature réactionnaire, anti-ouvrière et garante de l’ordre social
      #Nationalisme et #anti-impérialisme exacerbés
      – La république islamique, élément de l’ordre impérialiste au #Moyen-Orient
      – Une puissante économie régionale
      – Les tribulations de l’accord sur le nucléaire
      – Une population éduquée qui s’enfonce dans la crise
      – Une classe dirigeante privilégiée et corrompue
      – De la révolte de 2009 à celle de 2019
      – Une classe ouvrière combative
      – La #révolte actuelle
      – L’attitude de la #classe_ouvrière
      – La politique du régime
      – Quelle direction ? Quelle perspective ?

      Introduction

      La révolte qui secoue l’Iran depuis l’assassinat de Mahsa Amini par la police des mœurs, le 16 septembre dernier, impressionne par la détermination et l’engagement des femmes et des hommes qui l’animent. Elle frappe par le très jeune âge de ceux qui se révoltent.

      Désormais des dizaines de milliers de #femmes sortent sans voile et tiennent tête à ceux qui les agressent. Hier encore, comme chaque vendredi, une nouvelle manifestation a eu lieu à #Zahedan, la capitale du #Baloutchistan. Depuis cinq mois, les manifestations étant dispersées dans la plupart des autres villes, des rassemblements ont été improvisés, des locaux de la police attaqués. Ces actions se terminent par des charges policières meurtrières, des #exécutions en pleine rue et des arrestations massives. Mais des femmes et des hommes recommencent les jours suivants. Les quelque 20 000 arrestations, 500 morts, les dizaines de condamnations à mort pour avoir simplement manifesté, les exécutions publiques de quatre jeunes, tous des travailleurs, tout cela a renforcé la rage contre la république islamique.

      La #jeunesse est en première ligne mais elle est soutenue par tout un peuple : par les #classes_populaires privées de viande, d’oeufs et de tant d’autres produits de base, à cause de l’inflation et de la spéculation ; par les travailleurs, en particulier ceux du pétrole et du gaz, de la métallurgie, des transports ou de l’enseignement qui ont multiplié les grèves ces dernières années pour obtenir #augmentations_de_salaires ou titularisation des précaires ; par la #petite-bourgeoise appauvrie par la crise et privée d’avenir avec l’#embargo_américain ; par les milieux intellectuels, artistiques ou sportifs qui dénoncent aujourd’hui ce régime « tueur d’enfants ». L’enjeu a dépassé la liberté des femmes et même la liberté tout court, c’est le système lui-même qui est contesté.

      Ce mouvement de contestation n’est pas le premier en Iran. Rien que dans les cinq dernières années, deux révoltes ont éclaté contre le pouvoir. Les deux fois, la dictature et ses sbires les ont étouffé en déployant une répression impitoyable. A chaque fois les dirigeants occidentaux l’ont dénoncée du bout des lèvres car ils ne veulent surtout pas que ce régime soit renversé par une révolution populaire.

      La révolte actuelle est plus profonde que les précédentes. Elle l’est par sa durée, parce qu’elle touche toutes les couches sociales du pays et parce que la rupture entre la société et les dirigeants de république islamique semble irrémédiable. Va-t-elle trouver les voies et le courage de rebondir malgré la répression ? Finira-t-elle par faire tomber cette dictature obscurantiste et anti-ouvrière ? Nous ne pouvons évidemment que l’espérer !

      Mais il ne suffit pas aux opprimés de renverser une dictature pour changer leur sort. La population iranienne l’a cruellement expérimenté à ses dépens : le régime des mollahs aujourd’hui haï est arrivé au pouvoir en s’appuyant, en 1978-79, sur la révolte de tout un peuple contre la dictature pro-américaine du chah d’Iran. Né en prétendant défendre les pauvres contre les riches et en exploitant les sentiments anti-impérialistes de la population, ce régime est aujourd’hui le défenseur sanglant des privilégiés iraniens. Il est aussi, de fait, un gardien de l’#ordre_mondial.

      Pour qu’il en soit autrement, la seule voie est que la classe des travailleurs prenne consciemment la tête de la révolte, avec sa propre organisation et ses propres objectifs politiques. Dans cette puissance régionale qu’est l’Iran, avec ses 87 millions d’habitants, sa longue histoire de révoltes sociales, son industrie développée et sa classe ouvrière combative, une telle perspective n’est pas une chimère : c’est un programme !

      #lutte_de_classe #analyse_de_classe #marxisme #histoire

  • Reims expérimente une intelligence artificielle de Thalès pour surveiller ses habitants, et personne n’est au courant | StreetPress
    https://www.streetpress.com/sujet/1674664403-reims-intelligence-artificielle-camera-surveillance-police-d

    StreetPress révèle la collaboration entre Reims et le géant français de la défense, Thalès. À partir de 2021, la police municipale a utilisé un algorithme vidéo utilisant l’intelligence artificielle pour analyser ses ressortissants.

    Si vous avez déjà flâné aux alentours de la cathédrale Notre-Dame de Reims (51), vous avez peut-être été analysé par une intelligence artificielle. L’outil « Savari », conçu par le géant français Thalès (1), a été intégré aux caméras de surveillance de l’agglomération et utilisé par la police municipale, pour une expérimentation d’un an. Le but : repérer automatiquement des regroupements ou des intrusions, et identifier des armes ou des véhicules. Problème, ni les habitants et ni les élus de l’opposition n’ont été informés.

    Une révélation qui arrive au moment où le Sénat vient d’adopter, mardi 24 janvier 2023, l’article 7 du projet de loi des Jeux Olympiques. Il autorise ces expérimentations de caméras dotées d’algorithmes à compter de cette année en vue des JO de 2024 à Paris.

    En novembre dernier, Amnesty International avait alerté sur « les risques de dérives dangereuses » pour les libertés individuelles que comporte cette loi. À la différence de la vidéo-surveillance classique, ce type d’outil peut conduire à « un traitement massif de données à caractère personnel, y compris parfois de données sensibles », explique la CNIL dans un rapport publié en juillet 2022.

    Reims n’a pas attendu que les parlementaires l’autorisent dans la capitale pour faire ses propres tests et profiter du vide juridique. C’est Arnaud Robinet, maire de la ville depuis 2014, affilié au mouvement Horizons d’Édouard Philippe, qui aurait décidé de cette collaboration. Contacté par StreetPress, l’édile de droite a refusé de répondre à nos questions.
    Algorithme et « deep learning »

    Savari est une « vidéosurveillance intelligente, clé de la sécurité urbaine des Smart Cities ». C’est ainsi que Thalès présente sa solution sur le site du Salon des maires, un séminaire annuel pendant lequel les entreprises tiennent des stands pour draguer les élus.

    Elle utilise des « algorithmes vidéos intelligents » et du « deep learning » pour « surveiller, superviser et analyser automatiquement » des situations telles que des regroupements et des intrusions. Elle peut aussi « détecter, identifier et classifier » des armes, des vélos ou des véhicules, assure le fleuron français. À l’aide de la lecture automatique des plaques d’immatriculation (LAPI), Savari permet également de faire du contrôle routier et de mettre des amendes à ceux qui ne paient pas leur stationnement.

    Une expérimentation faite dans le dos des Rémois

    « Ce qui me choque, c’est que ça a été fait dans une grande opacité. Ce n’est pas normal que les citoyens ne soient pas informés », s’indigne Léo Tyburce, élu Europe-Écologie-Les-Verts à Reims, informé de l’expérimentation de Thalès dans sa ville par StreetPress. Lors du conseil municipal du 16 novembre 2021, l’écolo avait interpellé le maire Arnaud Robinet au sujet de l’utilisation d’une intelligence artificielle dans les caméras de la commune évoquée lors d’une précédente réunion publique. L’édile de droite avait renvoyé la balle à son Monsieur sécurité, Xavier Albertini.

    « Dans le cadre de l’évolution de l’organisation de la police municipale, il a été souhaité de mettre en place une étude et le développement avec une entreprise nationale d’un logiciel qui n’est pas de la reconnaissance faciale (…) mais c’est une capacité de reconnaître un certain nombre d’éléments et en particulier, dans la limite de la réglementation, de reconnaître n’importe quel véhicule qui se trouve pris par le champ des caméras », avait déclaré l’adjoint. La vidéo du conseil municipal est toujours en ligne. Il admet donc qu’une étude liée aux caméras de surveillance est en cours avec une entreprise nationale. Sans dévoiler de laquelle il pourrait s’agir, ni dévoiler l’intégralité des usages de cette technologie.

    À l’époque, le conseiller municipal de l’opposition Léo Tyburce est rassuré par cette réponse. « On m’avait répondu, ne vous inquiétez pas tout roule, c’est juste pour repérer les véhicules… » Aujourd’hui, il se sent trompé :

    « Finalement, on voit que ça permet de repérer des groupements de personnes, d’installer une sorte de surveillance urbaine. J’aurais aimé qu’il y ait un débat public autour de cette question. Il y a un manque de transparence terrible. »

    Le Rémois Antoine (2), membre d’Action non-violente COP21, n’était pas au courant de l’utilisation d’une intelligence artificielle par les forces de l’ordre. « Ça m’intéresse de savoir que l’outil repère les rassemblements parce qu’on fait des actions non déclarées », pointe-t-il. Le militant pour l’environnement connaît pourtant bien les caméras de surveillance de sa ville. Avec son groupe, ils s’attaquent aux panneaux publicitaires rétroéclairés. « On se rend bien compte une fois qu’on lève la tête qu’on est surveillés de tous les côtés. » Alors, pour ne pas se faire prendre, ils ont établi une cartographie des zones surveillées :

    « On en avait repéré une soixantaine sur à peine un km carré en centre-ville en 2021. »

    Ce n’est pas un hasard si Thalès a réussi à vendre son outil à la « cité des Sacres », particulièrement friande de caméras de surveillance. Arnaud Robinet en a fait un argument de campagne. Depuis 2014, pas moins de 218 caméras supplémentaires ont été installées dans l’agglomération rémoise, qui n’en comptait que 36. Le maire adepte de la rengaine sécuritaire a même inauguré en 2016 un Centre de Surveillance Urbain (CSU) au sein de l’hôtel de police où 120 agents observent les images 24h/24 et 7 jours sur 7.

    La multiplication des caméras et donc des vidéos à analyser est un des arguments avancés par Xavier Robinet pour justifier l’acquisition d’un algorithme. Au conseil municipal, après avoir assuré qu’il ne s’agissait que de surveiller des voitures, il ajoute : « D’un point de vue technique, ce sont 56.000 types de véhicules différents (…) qui sont ainsi rentrés dans une base de données et quand y a une réquisition pour rechercher un véhicule, il y a une quasi-instantanéité de l’ensemble des caméras. »

    Pour les industriels du secteur, la multiplication des caméras de surveillance rend nécessaire l’intelligence artificielle pour aider les humains, devenus trop peu nombreux. Un « bluff technologique », selon La Quadrature du Net, qui défend les droits et les libertés sur Internet. « Il y a un énorme marché privé qui est en train de se lancer et qui est en partie financé par des fonds publics », analyse Martin Drago, spécialiste de ces questions au sein de l’association.
    Sept millions d’euros pour filmer ses habitants

    Arnaud Robinet a dû mettre le prix pour acquérir le tout nouveau produit du géant de l’aérospatial. Dans le budget de la ville, pour son second mandat qui a commencé en 2020, pas moins de sept millions d’euros sont dédiés à des investissements pour la vidéo-surveillance et l’équipement de la police municipale. Un logiciel dit « d’aide à la relecture », qui doit aider les policiers à fournir des éléments probants à l’autorité judiciaire lors des réquisitions, a été financé par ce budget. Mais le montant exact n’est pas connu. Ni Thalès, ni la mairie de Reims n’ont souhaité nous le fournir.

    Reims vient ainsi s’ajouter à une longue liste de villes françaises qui ont passé des contrats avec des entreprises leur proposant d’expérimenter la « vidéosurveillance algorithmique ». Sur son site Tecnopolice.fr, La Quadrature du Net en a répertorié dans une dizaine de villes. À Nîmes (30) ou Moirans (38), l’outil de l’entreprise israélienne Briefcam analyse les faits et gestes des habitants. Marseille (13) collabore depuis 2018 avec l’entreprise locale SNEF. En 2016, Toulouse (31) a passé un contrat avec la boîte américaine IBM. Coût pour la ville du Sud : 47.350 euros.

    Ces expérimentations coûtent des milliers d’euros aux collectivités. Leur utilité reste pourtant à démontrer. Dans un rapport publié en 2020, la Cour des comptes a jugé qu’« aucune corrélation globale n’a été relevée entre l’existence de dispositifs de vidéoprotection et le niveau de la délinquance commise sur la voie publique, ou encore les taux d’élucidation ».

    À LIRE AUSSI : En 2010, déjà, StreetPress testait les caméras de surveillance de Levallois-Perret

    Du No man’s land juridique à la légalisation ?

    D’après le spécialiste Martin Drago, qui gère la campagne Technopolice, le déploiement de ces outils a été facilité par le flou juridique qui les entoure. « Dans le code pénal, il y a des articles précis sur les caméras de vidéosurveillance, mais rien sur la vidéosurveillance algorithmique qui porte pourtant de nouvelles atteintes aux libertés individuelles. » Il ajoute :

    « Les industriels de la surveillance profitent de ce no man’s land juridique pour faire des expérimentations. »

    https://reims.sous-surveillance.net
    https://seenthis.net/messages/988273

    #vidéosurveillance #vidéosurveillance_intelligente #analyse_comportementale #contrôle_social #jeux_olympiques #deep_learning #smart_city #Thalès

  • JO 2024 : le Sénat favorable à une expérimentation de la vidéosurveillance intelligente
    https://www.lemonde.fr/sport/article/2023/01/25/jo-2024-le-senat-adopte-la-videosurveillance-intelligente_6159170_3242.html

    JO 2024 : le Sénat favorable à une expérimentation de la vidéosurveillance intelligente

    Censées permettre la détection des mouvements suspects au milieu d’une foule, des caméras dotées d’algorithmes seront expérimentées dès cette année, afin d’être opérationnelles pour les Jeux olympiques.

    Le Monde avec AFP
    Publié hier à 01h11, mis à jour hier à 08h58

    C’est l’article-phare du projet de loi olympique, très axé sur la sécurité. Le Sénat a très largement voté, mardi 24 janvier, pour l’expérimentation de caméras dotées d’algorithmes à compter de cette année. L’objectif est de pouvoir déployer ce dispositif pour les Jeux de 2024.

    Pour la ministre des sports, Amélie Oudéa-Castéra, ce texte, soumis en procédure accélérée au Parlement (une seule lecture au Sénat et à l’Assemblée), contient « les ajustements incontournables pour aller au bout de nos engagements et de nos besoins opérationnels pour la livraison et le bon déroulement des JO ». Le débat a été apaisé, y compris sur les points les plus sensibles. L’article a été voté par 243 voix pour et 27 contre.

    Cette loi arrive quelques mois après le fiasco de la finale de la Ligue des champions, à la fin de mai 2022, au Stade de France. Spectateurs sans billets escaladant les grilles, détenteurs de billets bloqués à l’entrée, familles aspergées de gaz lacrymogène par la police ou encore vols et agressions : la finale avait tourné au cauchemar.

    Pour sécuriser les JO de Paris, susceptibles d’attirer 13 millions de spectateurs, et quelque 600 000 personnes pour la cérémonie d’ouverture le long des quais de Seine le 26 juillet 2024, l’aide de caméras permettant de détecter des mouvements suspects dans les foules est réclamée par les autorités.

    Tant aux abords des enceintes que dans les transports adjacents, elles pourront aussi détecter « des objets abandonnés », ou encore permettre « des analyses statistiques, de flux de fréquentation par exemple », selon l’étude d’impact de la loi.

    Opposition des communistes et des écologistes

    La mesure n’est pas du goût du Conseil national des barreaux (CNB). « Les avocats ne laisseront pas les Jeux olympiques se transformer en concours Lépine des atteintes aux libertés individuelles », a prévenu mardi son président, Jérôme Gavaudan. L’association La Quadrature du Net ne décolère pas non plus.

    Les sénateurs communistes et écologistes ont marqué leur opposition. « Les JO sont un prétexte pour jouer aux apprentis sorciers, le marché est énorme », a regretté le sénateur écologiste Thomas Dossus, alors même qu’il s’agit de « technologies absolument pas matures » qui, de surcroît, pourraient « nourrir » des systèmes ensuite potentiellement utiles à des « tyrannies à l’autre bout du monde ». Eliane Assassi (PCF) a fustigé des JO devenant « un accélérateur de la surveillance », et un texte « cheval de Troie ».

    Du côté du PS, les sénateurs sont soucieux « d’accompagner le développement dans de bonnes conditions ». Cependant, ils ne sont pas parvenus à ramener à septembre 2024, et non juin 2025, la fin de la période d’expérimentation.

    L’expérimentation de ces nouveaux outils pourra démarrer à compter de l’entrée en vigueur de la loi, mais aussi pour des manifestations « récréatives » et « culturelles ». Le texte a été retouché par le gouvernement après l’avis de la Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL) et celui du Conseil d’Etat.

    Pas de reconnaissance faciale

    A la reprise de la séance en soirée, le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, est venu défendre cette mesure, expliquant qu’il était important de « développer un cadre français », après qu’un peu plus tôt Amélie Oudéa-Castéra a redit que le gouvernement « ne voulait pas de la reconnaissance faciale pour les JO ». Marc-Philippe Daubresse (LR) a annoncé mardi qu’il déposerait une proposition de loi sur ce dernier sujet.

    Le ministre de l’intérieur a aussi défendu la mesure permettant de « cribler » les personnes intervenant dans les fan-zones (les soumettre à une enquête administrative), sinon « nous laisserions un énorme champ d’action aux terroristes », selon lui. Un amendement de LR visant à pouvoir cribler les « intérimaires » a été adopté.

    Autre mesure de sécurité : les scanners corporels, qui pourraient venir un peu supplanter le manque d’agents de sécurité privée, en particulier de femmes, que tout le monde anticipe. La mise en place de ces scanners est envisagée « avant d’en venir à l’armée », a lancé M. Darmanin, répondant à David Assouline (PS), qui a déposé un amendement sur le sujet. Un vote solennel est prévu pour le 31 janvier. Le texte sera ensuite examiné par l’Assemblée nationale.

    Le Monde avec AFP

    https://seenthis.net/messages/984344

    #vidéosurveillance #vidéosurveillance_intelligente #analyse_comportementale #contrôle_social

  • Gericht spricht einstige Starunternehmerin Holmes des Betrugs schuldig
    https://m.tagesspiegel.de/wirtschaft/bluttestfirma-theranos-gericht-spricht-einstige-starunternehmerin-holmes-des-betrugs-schuldig/27943662.html

    L’avarice des riches et de la caste médicale ont permis à une entreprise proposant des tests de sang jamais fonctionnels à atteindre une valeurs de milliards de dollars. Sa patronne vient d’être condaamné par un tribunal étatsunien. Son histoire montre les ingrédients essentiels pour réussir dans le monde des startups capitalistes. Il faut beaucoup de chuzpe et la confiance de personnes faisant partie des plus hauts cercles du pouvoir. Ces conditions réunis avec un produit comme un vaccin révolutionnaire plus ou moins efficace c’est une affaire gagnée. Avec un produit entièrement défaillant le succès est également possible, mais il y aura toujours quelqu’un qui en paiera le prix. Là il s’agit de la jeune cheffe qui a trahi ses alliés haut placés.

    L’affaire aurait sa place dans une série netflix comme Suits à regarder comfortablement depuis son fauteuil préféré, si le fond de ce commerce n’était pas la vulnérabilité des patients étatsuniens et dans les autres psys sans assurance maladie pour tous. La leur peur et les souffrances des malades sont la source d’énormes profits pour ces hyènes de l’arène médicale.

    4.1.2022 - Sie wurde früher mit Apple-Gründer Steve Jobs verglichen und als Selfmade-Milliardärin gefeiert. Nun droht Elizabeth Holmes eine Haftstrafe.

    Die einstige US-Vorzeigeunternehmerin Elizabeth Holmes ist des Betrugs an Investoren schuldig gesprochen worden. Die Geschworenen sahen vier von insgesamt elf Anklagepunkten als erfüllt an, wie aus Gerichtsunterlagen in der Nacht zum Dienstag hervorging.

    Holmes hatte das letztlich gescheiterte Bluttest-Start-up Theranos gegründet und mehrere hundert Millionen Dollar bei Investoren eingenommen. Die 37-Jährige hatte den Betrugsvorwurf stets zurückgewiesen und kann gegen das Urteil noch in Berufung gehen.

    Über das Strafmaß wird Richter Edward Davila zu einem späteren Zeitpunkt entscheiden. Theoretisch drohen Holmes bis zu 20 Jahre Gefängnis pro Anklagepunkt - allerdings gingen Prozessbeobachter in den USA davon aus, dass die Strafe deutlich milder ausfallen dürfte.

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    Das große Versprechen von Theranos war, Bluttests zu revolutionieren: Nur wenige Tropfen aus dem Finger sollten reichen, um auch umfangreiche Analysen durchzuführen. Die Gesamtbewertung von Theranos erreichte in den Finanzierungsrunden bis zu neun Milliarden Dollar, auch das Vermögen von Holmes - die im vergangenen Jahr Mutter wurde - betrug damit zumindest auf dem Papier mehrere Milliarden Dollar.

    Holmes, die Theranos als 19-jährige Studienabbrecherin der Elite-Uni Stanford gründete, wurde als Visionärin gefeiert. Medien verglichen sie mit Apple-Gründer Steve Jobs - was von ihrer Vorliebe für schwarze Rollkragenpullover noch unterstützt wurde.

    Elizabeth Holmes (Mitte), vor Gericht in San Jose, Kalifornien Foto: dpa/AP/Nic Coury
    Elizabeth Holmes (Mitte), vor Gericht in San Jose, Kalifornien © dpa/AP/Nic Coury

    Unter anderem die Drogerie-Kette Walgreens stieg ein und verkaufte Theranos-Bluttests in ihren Läden. Wie sich jedoch herausstellte, funktionierte die Theranos-Technologie nie ausreichend verlässlich. So wurden Tests nicht mit eigenen Maschinen der Firma, sondern mit Labortechnik anderer Hersteller durchgeführt, die von Theranos-Technikern auf eigene Faust umgeändert wurde. Investoren und der Öffentlichkeit wurde das verschwiegen.

    Ein zentrales Problem dieser Methode war, dass die Maschinen auf größere Mengen Blut aus den Venen der Patienten ausgelegt waren. Theranos streckte deswegen die kleinen Fingerproben, was aber zu Problemen mit der Genauigkeit einiger Tests führte.

    Ein weiterer Faktor war laut Experten, dass der Druck auf die Fingerkuppen bei der Blutabnahme die Beschaffenheit der Proben verändert - was ebenfalls zu falschen Analysewerten führen könne. Die Ergebnisse dienen Ärzten aber als Anhaltspunkt für mögliche Erkrankungen und Behandlungen. Theranos musste schließlich auf breiter Front Testergebnisse annullieren.
    Enthüllungsberichte im „Wall Street Journal“ führten zum Aus

    Die Probleme wurden 2015 mit einer Serie von Enthüllungsberichten im „Wall Street Journal“ bekannt, die Theranos zunächst mit Hilfe von Anwälten zu unterdrücken versuchte. Holmes stritt alles ab, aber die Artikel riefen US-Regulierungsbehörden auf den Plan, die unter anderem die Labore der Firma unter die Lupe nahmen. Theranos musste dichtmachen - und die Geldgeber gingen leer aus.

    In einer pikanten Wendung war auch der Besitzer der Zeitung „Wall Street Journal“, Rupert Murdoch, unter den Theranos-Investoren, die schließlich ihr Geld verloren. Es gibt aber keine Hinweise darauf, dass er in die Berichterstattung eingriff. Holmes hatte einflussreiche Figuren wie die Ex-Außenminister Henry Kissinger und George Shultz sowie Donald Trumps späteren Verteidigungsminister James Mattis in den Verwaltungsrat geholt. Sie verliehen Theranos Glaubwürdigkeit, hatten aber keine Expertise in der Medizintechnik.

    In der Familie von George Shultz sorgte die Kontroverse für ein jahrelanges Zerwürfnis. Shultz’ Enkel Tyler, der zeitweise bei Theranos gearbeitet hatte, war eine der Quellen der Enthüllungen. Sein Großvater hielt aber lange danach noch zu Holmes.

    Einige Geldgeber trugen auch den Eindruck davon, dass Theranos-Technologie für den Einsatz durch das US-Militär in Kriegsschauplätzen im Rennen sei. Sondierungen dazu liefen jedoch in Wirklichkeit schnell in die Sackgasse.

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    Die Anklage warf Holmes vor, Geldgeber bewusst hinters Licht geführt zu haben, um an die Investitionen für Theranos zu kommen. Die Geschworenen sahen das bei drei Geldspritzen bestätigt - und sprachen Holmes in einem weiteren Anklagepunkt auch der Verschwörung zum Betrug schuldig.

    Holmes sagte in dem Prozess aus, sie habe aufrichtig an die Technologie geglaubt, sei als Chefin aber nicht über alle Probleme informiert worden. Für eine Verurteilung mussten die Ankläger die Geschworenen - acht Männer und vier Frauen - überzeugen, dass Holmes Investoren mit betrügerischen Absichten falsch informiert und Fehler bei Tests von Patienten in Kauf genommen habe. Bei drei Anklagepunkten konnten sich die Geschworenen nicht auf das nötige einstimmige Votum einigen. Diese Vorwürfe können die Staatsanwälte noch einmal vor Gericht bringen.

    Die Anklage pickte sich speziell die Fälle von zwei Patienten sowie sechs Überweisungen von Theranos-Geldgebern im Höhe zwischen knapp 100.000 und rund 100 Millionen Dollar aus den Jahren 2013 und 2014 heraus. Des gezielten Betrugs an Patienten befanden die Geschworenen Holmes nicht schuldig.

    #startup #capitalisme #maladie #exploitation #fraude #médecins #USA #vaccin #brevet #tests #analyse_du_sang #élite

  • Sociologues ou gardiens de la doxa ? Qui entache la réputation de notre discipline ? La réponse de Laurent Mucchielli
    https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/220821/sociologues-ou-gardiens-de-la-doxa-qui-entache-la-reputation-de-notr

    Huit sociologues qui n’ont jamais publié le moindre travail empirique sur l’analyse de la crise sanitaire, ni sur la pharmacovigilance, m’injurient par voie de presse, sur le fondement d’un seul argument (je ne comprendrais rien à la causalité) et de sources douteuses. Voici ma réponse.

    Le 19 août 2021, 8 collègues sociologues parisiens ont cru bon de publier dans le journal Le Monde une très courte tribune https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/08/19/vaccination-contre-le-covid-19-la-sociologie-ne-consiste-pas-a-manipuler-des toute entière dirigée contre ma personne, m’insultant, me diffamant et demandant au CNRS de me sanctionner. Il s’agit de Gérald Bronner, Alain Ehrenberg, Jean-Louis Fabiani, Olivier Galland, Nathalie Heinich, Jean-Claude Kaufmann, Pierre-Michel Menger et Dominique Schnapper. On trouvera ici ma réponse qui :

    1) rappelle l’argumentation de nos huit éminents collègues,
    2) montre qu’ils valorisent la censure de Mediapart en ignorant les arguments des journalistes et des intellectuels qui ont republié nos articles,
    3) montre que, en réalité, ils ne m’ont pas lu et ne connaissent manifestement pas grand chose au sujet,
    4) s’interroge sur leurs motivations et leurs présupposés,
    5) défend effectivement une autre conception de la sociologie que la leur.

    L’argumentation des censeurs
    Selon ces 8 éminents collègues, il est heureux que Mediapart m’ait interdit de publier sur les effets indésirables des vaccins anti-covid car je tromperais mes lecteurs en me parant de mon titre professionnel de directeur de recherche au CNRS et ainsi en « présentant comme scientifique » une analyse qui procéderait « au mieux, d’une erreur d’interprétation inadmissible et, au pire, d’une falsification de données » . Et voici leur explication : mon analyse « confond les décès intervenus durant une période consécutive à une vaccination avec ceux causés par la vaccination – une causalité qui, bien sûr, n’a été nullement avérée, et dont la probabilité est infinitésimale » . La conclusion arrive immédiatement : « C’est là un exemple de la confusion classique entre concomitance et causalité. Une faute de raisonnement qui ferait sourire de la part d’étudiants en première année mais qui, commise par un chercheur au CNRS, constitue une démonstration d’incompétence professionnelle » .
    Fichtre ! Une telle agressivité surprend !

    Et ce n’est pas tout. Non content d’être un imbécile, je serais de surcroît un dangereux complotiste. En témoignerait « la multiplication de publications complotistes commises par ce même sociologue depuis le début de la crise épidémique, et que recense avec précision le site Conspiracy Watch - L’observatoire du conspirationnisme, dans un article du 6 août ».

    Tout d’un coup, ce n’est donc plus un article qui est contestable mais tout mon travail depuis un an et demi qui est qualifié de « douteuse production ». Je ne ferais qu’étaler une « position idéologique » qui « n’a rien à voir avec de soi-disant travaux de recherche indigents, voire frauduleux ». Et ils concluent que j’incarnerais une « dérive » qui « entache la réputation de notre discipline » dont eux prétendent défendre « l’honneur » . Rien de moins !

    Ainsi, l’argumentation de nos éminents collègues tient en tout et pour tout dans deux affirmations :
    1) je ne comprends rien à l’imputabilité des effets indésirables des vaccins,
    2) je suis de toutes façons un affreux complotiste, ce mot discréditant à lui seul l’ensemble de mon travail. Et la messe (d’enterrement) serait dite.

    Mediapart est libre d’adopter la doxa, d’autres ne le font pas
    Ces collègues ignorent que je n’ai pas publié un mais deux articles sur le sujet (voir https://altermidi.org/2021/08/06/le-texte-de-laurent-mucchielli-depublier-par-mediapart et https://www.ardeur.net/2021/08/la-dangerosite-des-nouveaux-vaccins-anti-covid-est-un-fait-historique ).
    Le premier (celui « dépublié » par Mediapart – puisque mes critiques n’assument pas le mot « censure ») a été republié notamment sur un site d’information générale (AlterMidi) , créé par des journalistes indépendants qui ont de surcroît motivé leur décision en écrivant fort intelligemment ceci : « Nous ne sommes pas compétents pour établir la vérité, mais nous constatons que toutes les formes de pouvoir s’arment aujourd’hui de la vérité scientifique pour imposer une marche à suivre et que la science produit des vérités en fonction du contexte social. Voilà pourquoi, avec l’aimable autorisation de son auteur, nous prenons le parti de publier ci-dessous le volet refusé en laissant aux lecteurs la liberté de fonder leurs propres opinions ».

    Le second a été publié notamment sur le site de L’ardeur , où l’équipe rédactionnelle (des intellectuels de gauche, militants de l’éducation populaire) a également longuement expliqué http://www.ardeur.net/2021/08/pourquoi-nous-publions-un-article-de-laurent-mucchielli pourquoi elle s’engageait en nous publiant. Nos éminents critiques ne les ayant naturellement pas lus non plus, je leur fais un résumé : « L’argument selon lequel sa légitimité pourrait être mise en question par le fait qu’il intervient aujourd’hui dans le domaine sanitaire, pour lequel ‘il n’a pas de compétence universitaire ou scientifique particulière’, nous semble spécieux et inquiétant. Car c’est à une question bien plus large que le seul aspect sanitaire que nous sommes confrontés. (…)

    Nous entrons aujourd’hui, sous couvert d’un ‘état d’urgence sanitaire’, dans une phase de contrôle total de la population, un nouvel ‘ordre sanitaire’ calqué sur la mise en place de ‘l’ordre sécuritaire’ (…). Après l’instrumentalisation et la stigmatisation du jeune, forcément de banlieue, celle du ‘non-vacciné’. Ainsi que l’ont montré les philosophes Barbara Stiegler et Grégoire Chamayou, les penseurs du néo-libéralisme, de Lippman à Hayek, ont théorisé le principe d’un État fort, policier et carcéral, pour maintenir sous contrôle des populations qui risqueraient de ne pas comprendre ou accepter la condition qui leur est assignée. Nous nous y dirigeons à grands pas et, une nouvelle fois, celle qui se nomme encore la gauche, dans sa quasi-totalité, fait allégeance ». En outre, ils estiment que « L’argumentation de Mediapart est par ailleurs fallacieuse car elle repose sur l’idée que le texte de Laurent Mucchielli diffuserait de ‘fausses informations’ : la rédaction de Mediapart peut contester l’interprétation que le sociologue fait des chiffres qui appuient sa démonstration, il n’empêche que ceux-ci sont officiels (…). Nous savons le pouvoir des mots : étendre la notion de ‘fausses nouvelles’, jusque-là réservée aux faits eux-mêmes, à leur interprétation est porteur des dérives potentielles les plus graves ».
    Et les auteurs de conclure que la censure par Mediapart est « un geste proprement inouï : nous revendiquons de pouvoir lire des analyses critiques de la politique sanitaire dans des médias « de gauche ». Mediapart rejoint dans ce geste de censure Facebook, YouTube et l’ensemble des médias de propagande gouvernementale ».
    On le voit, il est permis de penser autrement que dans le béat conformisme ambiant. Et nous sommes très nombreux dans ce cas.

    A propos de l’innocuité des vaccins anti-Covid
    Même en s’y mettant à huit, mes éminents collègues ne m’ont manifestement pas lu, ce qui certes permet de gagner beaucoup de temps, mais est tout de même un peu gênant lorsque l’on se permet de proférer en public de telles injures.

    Les deux articles sur la pharmacovigilance sont signés par six personnes et non une seule. Les cinq autres auteurs sont deux collègues universitaires en informatique (Emmanuelle Darles) et en mathématique (Vincent Pavan), une biologiste ancienne chercheuse à l’INSERM (Hélène Banoun), un médecin généraliste (Éric Ménat) et un pharmacien hospitalier (Amine Umlil) qui est spécialiste de pharmacovigilance. Mon nom apparaît en premier car je suis le principal rédacteur, mais les cinq autres signatures ne sont pas là pour faire tapisserie. Elles traduisent le fruit du travail d’un petit groupe, comme pour la plupart des articles que j’ai publiés sur la crise sanitaire depuis un an et demi. Mon enquête sur la gestion politico-sanitaire de la crise du Covid a débutée en mars 2020.
    J’ai publié une soixantaine d’articles (que j’appelle les « épisodes » de la série) et une trentaine de collègues universitaires (de toutes disciplines) et de professionnels de santé (ambulatoires ou hospitaliers). Je suis également le rédacteur principal de cinq tribunes collectives, publiées entre septembre 2020 et janvier 2021, qui ont rassemblé à chaque fois entre 200 et 600 signataires, essentiellement des universitaires et des professionnels de la santé, du droit, de l’éducation et de la culture. Tout ceci est indiqué sur la page du site Internet https://www.lames.cnrs.fr/spip.php?article1536 de mon laboratoire sur laquelle il suffit de cliquer. Mais il est évidemment infiniment plus facile de se défouler en quelques lignes et en recopiant des sources de seconde voire de troisième main plutôt que d’étudier un peu sérieusement un dossier qui fait en réalité plusieurs centaines de pages.

    Venons-en à ce défoulement. Mes huit critiques n’ont en tout et pour tout qu’un seul argument intellectuel : je ne comprendrais rien à l’imputabilité des effets indésirables des vaccins, mon raisonnement ne serait donc même pas digne d’un étudiant de première année de sociologie. Tiens donc. Vérifions alors. Relisons ce que nous avons écrit dans ces deux articles qui discutent en réalité à chaque fois la question complexe de l’imputabilité. N’importe quel lecteur honnête peut y constater que nous avançons six arguments que je copie-colle simplement ici :

    1- « Sur tous les sites de pharmacovigilance du monde, on trouve les mêmes précautions d’interprétation indiquant que les déclarations d’effets indésirables imputées à tel ou tel médicament ne sont qu’une présomption de causalité (imputabilité). Cette présomption est cependant considérablement renforcée lorsque les décès surviennent très rapidement après la vaccination, ce qui est le cas comme on le verra avec les données américaines ».

    2- « Il est évident qu’il est très difficile de déterminer la cause exacte d’un effet indésirable grave lorsque le malade présente (ou présentait s’il est décédé) des comorbidités importantes, ou lorsque son dossier médical est insuffisamment connu. Le raisonnement vaut d’ailleurs aussi pour les morts réputés causées par la covid [morts de la covid ou avec la covid ?]. Et c’est aussi pour cette même raison que, quel que soit le médicament concerné (vaccin ou autre), il ne faut jamais l’administrer uniformément mais bien au cas par cas en fonction de l’état de santé général de la personne et des éventuelles spécificités de son histoire médicale ».

    3- « En matière de mortalité, la preuve ultime de l’imputabilité qu’est la répétition du même symptôme à la suite de la même médication ne peut par définition pas être fournie (on ne meurt qu’une fois…) ».

    4- Qu’on le veuille ou non, « il existe des faits (des effets indésirables graves sont constatés dans les heures et les jours qui suivent un acte médical) et il n’est pas possible de s’en débarrasser d’un revers de la main au prétexte que la causalité directe (a fortiori unique) n’est pas établie. C’est un peu comme si on voulait contester l’existence d’un homicide au motif que l’on n’a pas encore trouvé le coupable. Les déclarations de pharmacovigilance relatives aux effets indésirables graves de la vaccination sont là, il faut les interpréter et non tenter de les cacher sous le tapis ».

    5- « On verra que la comparaison avec d’autre médicaments montre qu’il se passe bel et bien quelque chose d’inédit pour ces vaccins génétiques anti-covid ». Car nous avons également prouvé par la comparaison avec d’autres pays et avec les vaccins contre la grippe saisonnière.

    6- « Autre exemple saisissant de parti-pris : à la fin du mois de mars 2020, il avait suffi de 3 cas de décès (liés en réalité à des auto-médications surdosées) remontés par la pharmacovigilance pour déclencher en France une tempête politico-médiatique sur le thème de la dangerosité de l’hydroxychloroquine. En d’autres termes, pour la plupart des journalistes [et de certains sociologues, donc], les statistiques sanitaires sont indiscutables quand elles vont dans le sens de la narration officielle, mais elles deviennent soudainement discutables lorsqu’elles contredisent cette même narration. Cette malhonnêteté intellectuelle devrait sauter aux yeux ».

    J’ai beau réfléchir, je ne vois pas quoi ajouter. En revanche, je serais curieux de connaître les publications scientifiques m’ayant manifestement échappées, qui permettant à mes éminents collègues d’affirmer que la probabilité (que les effets indésirables graves voire mortels déclarés par les médecins à la pharmacovigilance et attribués aux vaccins le soient effectivement) est « infinitésimale » . Cela me rassurerait sur leur « compétence professionnelle ».

    Quand la sociologie de salon perd le contact avec le réel
    Je terminerai par quatre arguments que je crois importants.

    1) Sur la civilité qui fait tellement défaut à ce genre de diatribe
    « Incompétence professionnelle », même pas « le niveau d’un étudiant de première année », grave atteinte à « la réputation de notre discipline », « fraude », « balivernes »… Pourquoi m’insulter, cher(e)s collègues ? Ne savez-vous donc pas parler normalement ? Comme des gens civilisés ? Accessoirement, connaissez-vous mon CV avant de me traîner dans la boue ? Ce langage est effarant, il traduit une grave et révélatrice incapacité à maîtriser ses émotions. On y reviendra.

    Drapés dans leur hautain mépris, mes huit éminents détracteurs ne respectent donc pas les règles déontologiques élémentaires de la disputatio scientifique. Ont-ils pris réellement connaissance de mon travail ? On vient de voir que non. M’ont-ils écrit pour m’interroger sur mon travail ? Jamais. Ont-ils manifesté l’envie de débattre dans un séminaire ou un autre cénacle universitaire quelconque ? Jamais. A l’image des journalistes sans doute trop heureux de les publier (on sait combien j’ai critiqué https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/150721/la-crise-sanitaire-revele-l-inquietant-declin-du-journalisme le traitement de la crise sanitaire par le journal Le Monde notamment, et ce journal s’est bien gardé de me prévenir et de me proposer un droit de réponse), mes collègues pratiquent la tentative d’assassinat à distance. C’est tellement plus confortable. Ce faisant, ils se mettent au niveau de ce qui s’étale tous les jours sur des réseaux sociaux comme Twitter devenus le lieu d’une lutte d’influence sauvage où tous les coups sont permis. Cette façon de faire bafoue les règles les plus élémentaires de la civilité et de la déontologie universitaire.

    2) Sur le « complotisme »
    Mes savants donneurs de leçons pratiquent allègrement le procès d’intention et l’invective gratuite. Me voilà donc « complotiste ». Je me permets de leur conseiller la lecture de mon article du 16 novembre 2020 https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/161120/le-complotisme-pour-les-nuls-l-occasion-d-un-recent-documentaire intitulé « Le complotisme pour les nuls ». Cette expression est devenue à la fois un fourre-tout pour caser toute forme de critique et une sorte de point Godwin qui sert à discréditer globalement une personne pour mieux éviter d’avoir à discuter précisément ses arguments. L’étape suivante consiste à suggérer que la personne a des accointances avec l’extrême droite, quand les prétendus débatteurs n’utilisent pas l’arme ultime consistant à accuser les gens d’antisémitisme (comme certains s’amusent actuellement à le faire sur la page que me consacre le site wikipedia). Tout ceci non seulement n’est pas sérieux, mais est de surcroît insultant et diffamatoire. Le vrai conspirationnisme est une forme de pensée magique visant à expliquer le réel par le jeu de forces occultes cachées. Ceci n’a strictement rien à voir avec l’analyse sociologique que je développe pour analyser la construction de la narration officielle que j’appelle « la doxa du covid » et dont j’analyse les acteurs et les discours dans un autre épisode (central) de la série (21 février 2021) https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/210221/qui-construit-la-doxa-du-covid .

    3) Sur les sources d’information de mes détracteurs
    J’aimerais demander à mes huit savants accusateurs quelles sont leurs sources pour mettre ainsi en cause mon travail. Leur article n’en mentionne que trois, deux sources journalistiques (une dépêche type fact-check de l’ #AFP et la déclaration de la rédaction de Mediapart contre mon article) et un article https://www.conspiracywatch.info/laurent-mucchielli-de-mediapart-a-francesoir.html d’un site Internet intitulé Conspiracy Watch. Ce site m’a en effet consacré tout un article à charge pour m’assimiler en fin de compte à l’extrême droite sous prétexte qu’untel ou untel reprendrait ici ou là tel ou tel de mes propos. De la part d’un site qui a soutenu depuis un an et demi (avec d’autres https://www.leparisien.fr/societe/covid-19-plus-d-un-quart-des-francais-pensent-que-le-coronavirus-a-ete-fa comme Jérôme Fourquet, directeur du pôle opinion et stratégies d’entreprises à l’IFOP) que l’hypothèse de l’accident de laboratoire à Wuhan relevait du complotisme, cela fait sourire (voir notre analyse https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/100521/l-epidemie-de-coronavirus-probablement-pour-origine-un-accident-de-l ). Il s’agit d’un site assurant manifestement avant tout la promotion personnelle de son créateur, un certain Rudy Reichstadt que l’Observatoire du néo-conservatisme présentait en 2013 https://anticons.wordpress.com/2013/09/09/rudy-reichstadt-opportuniste-neo-conservateur comme « un opportuniste de la galaxie néo-conservatrice », un « expert autoproclamé », « proche de BHL », « disciple de Pierre-André Taguieff et très proche de Caroline Fourest », « c’est surtout le jeu des réseaux qui lui a permis d’exister ». Plus récemment, Le Monde Diplomatique a raconté également https://www.monde-diplomatique.fr/mav/158/BREVILLE/58491 comment « il s’impose dans les médias en tant qu’expert ès théories du complot. Il multiplie les entretiens et les tribunes dans Le Monde, Libération, Le Parisien, etc. Quand les universitaires Gérald Bronner et Pierre-André Taguieff ne sont pas libres, c’est lui qu’on invite pour commenter les dernières élucubrations sur tel ou tel attentat ». Pascal Boniface, Frédéric Lordon, Jean Ziegler et bien d’autres ont ainsi eu à subir ses attaques généralement pleines de mauvaise foi et d’amalgames. Chacun jugera si M. Reichstadt est ou non plus crédible que moi en matière de lutte contre l’extrême droite.

    J’en profite pour dire de façon générale que ce chantage permanent à l’extrême droite est non seulement profondément ridicule me concernant (j’ai combattu l’extrême droite toute ma vie, mon dernier livre https://www.fayard.fr/documents-temoignages/la-france-telle-quelle-est-9782213716800 paru en mars 2020 est tout entier dirigé contre cette idéologie) mais aussi et surtout très dangereux sur le double plan intellectuel et politique.

    Il s’agit en réalité de la stratégie du pouvoir exécutif actuel que de se poser pour 2022, comme il l’a déjà fait en 2017, en rempart contre l’extrême droite. Se dire de gauche et reprendre à son compte cette rhétorique revient donc à se tirer une balle dans le pied. De gauche intellectuelle et politique, il n’y en aura bientôt plus du tout si chacun se jette ainsi dans les bras du pouvoir actuel. Que des intellectuels se droitisent en vieillissant n’est hélas pas original. Mais que la direction d’un syndicat comme Sud Éducation (qui titre un communiqué récent https://www.sudeducation.org/communiques/pour-la-vaccination-contre-lextreme-droite « Pour la vaccination, contre l’extrême droite ») ne le comprenne pas est juste atterrant. Et il n’est pas le seul.

    4) Sur la sociologie de salon et « la réputation de notre discipline »
    Résumons : huit sociologues qui n’ont jamais publié le moindre travail empirique sur l’analyse de la crise sanitaire et de sa gestion politique, ni sur la pharmacovigilance, m’injurient et me diffament sur le fondement d’un seul argument (je ne comprends rien à la causalité) et des informations tirées de deux coupures de presse et d’un article d’un site Internet qui ne vaut pas tripette. Oserais-je dire que c’est très faible intellectuellement ? Et que cela ressemble davantage à un règlement de compte qu’à une critique scientifique ?

    Que vous ai-je donc fait de si insupportable, cher(e)s collègues ?

    Certes, bien que n’étant nullement opposé à la vaccination en soi , je critique en revanche ce que j’appelle l’idéologie vaccinale https://wonderfulnews.world/mucchielli qui, comme toute idéologie, divise stupidement le monde en amis en ennemis (pro et anti). Certes encore, je critique ce laisser-passer sanitaire incroyablement discriminatoire https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/170821/le-laisser-passer-sanitaire-un-dispositif-discriminatoire-au-sens-de (principe d’égalité entre les citoyens) en indiquant de surcroît qu’il n’a aucun fondement épidémiologique puisque la vaccination ARNm ne garantit pas de la contamination ni de la transmission du virus (ce qui est juste un fait, que l’on connaît, ou pas).

    Certes enfin, je soutiens que les quatre vaccins ARNm fabriqués en urgence par les industriels pour profiter de l’aubaine financière ont des effets indésirables plus nombreux et plus graves qu’aucun autre vaccin utilisé massivement ces trente dernières années. Et j’en conclus que la moindre des précautions serait donc de réserver ces vaccins aux personnes réellement menacées par les formes graves de Covid et de décréter de toute urgence un moratoire pour toutes les autres catégories de la population, dans l’attente de données et d’analyses plus approfondies. Je l’ai écrit, je le maintiens et je suis prêt à le défendre devant n’importe qui.

    Alors, est-ce un crime, un sacrilège, qui justifie que l’on souhaite me brûler en place publique ? Peut-être après tout, mais dans ce cas ces sociologues me permettront de leur répondre qu’ils ne font à mes yeux qu’incarner les mécanismes de domination idéologique des élites et les pressions de conformité que je mets en lumière dans mon analyse, qu’ils sont ainsi de bons petits soldats de la doxa, et qu’ils rejoignent la liste de ces intellectuels (voire une précédente polémique https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog/261020/doxa-anti-raoultiste-et-police-de-la-pensee ) prenant le risque d’être peut-être considérés dans le futur comme ayant été en quelque sorte les idiots utiles d’une vaste opération idéologico-commerciale.

    Mais peut-être aussi y a-t-il autre chose qui permette de comprendre cette haine ? A vrai dire, pour certains, je me doute de la réponse. J’ai déjà eu l’occasion de dire ce que je pensais de la sociologie de salon de l’un d’entre eux (voilà qu’il me fait à mon tour le coup du « danger sociologique » ! https://www.puf.com/content/Le_danger_sociologique ). Certains sont probablement par ailleurs des soutiens politiques de l’actuel président de la République (je remarque que trois d’entre eux https://www.liberation.fr/checknews/2019/03/19/qui-sont-les-intellectuels-qui-ont-refuse-l-invitation-a-debattre-avec-ma étaient au fameux dîner de l’Élysée le 18 mars 2019, y servant de décor ou de caution), ce qui est évidemment leur droit mais n’est pas mon cas. Enfin, j’ai sans doute aussi le malheur de m’inspirer régulièrement de Pierre Bourdieu pour analyser doxas et sociodicées dans cette affaire. Or chacun sait combien au moins quatre autres de mes huit accusateurs ne cessent de régler leurs comptes avec Bourdieu même longtemps après sa mort. Et l’on devinera que je trouve cela pitoyable. Je n’ai pas connu Bourdieu et je ne suis pas de votre génération. Je tente simplement de faire mon métier de sociologue et mon devoir d’intellectuel engagé sur la gestion politico-sanitaire de cette crise, comme je l’avais fait auparavant à plusieurs reprises, par exemple sur les émeutes de 2005 ou sur le mouvement des gilets jaunes de 2018-2019.

    Comme plusieurs d’entre vous, je ne me suis jamais senti cantonné à un micro-domaine de spécialité. Mais je ne pratique pas la sociologie de salon. Au cours de mon enquête en cours, comme déjà dit, j’ai interviewé une cinquantaine de médecins et de chercheurs, publié une soixantaine d’articles et une bonne trentaine de collègues (tous « complotistes » et « incompétents » aussi du coup ?), passé des semaines à analyser des données statistiques. Bref, j’ai beaucoup travaillé sur la gestion politico-sanitaire de cette crise. Pas vous que je sache (mais j’attends avec grand intérêt vos publications sur le sujet). Alors la moindre des honnêtetés intellectuelles et des civilités serait de prendre au sérieux ce travail avant de prétendre porter sur lui un jugement global, a fortiori aussi caricaturalement lapidaire. A vrai dire, j’aimerais beaucoup pouvoir débattre davantage avec des collègues sociologues, dans le cadre d’un séminaire de recherche par exemple.

    Mais là, franchement, avec un langage aussi violent, des sources aussi superficielles et une argumentation aussi faible, croyez-vous être crédibles dans votre prétention à sauvegarder la « réputation de notre discipline » ? Je crains fort, au contraire, que ce genre de règlements de compte ne convainque que celles et ceux qui partagent vos petites émotions hargneuses, et fasse en définitive plus de tort que de bien à notre discipline.

    #sociologue_de_salon : #Gérald_Bronner, #Alain_Ehrenberg, #Jean-Louis_Fabiani, #Olivier_Galland, #Nathalie_Heinich, #Jean-Claude_Kaufmann, #Pierre-Michel_Menger et #Dominique_Schnapper

    #Conspiracy_Watch #agression #complotisme #censure #analyse_critique #politique_sanitaire #médias #conformisme #analyse_sociologique
    la #doxa du #covid #Jérôme_Fourquet #IFOP #Rudy_Reichstadt #Pierre-André_Taguieff #Caroline_Fourest #crise sanitaire #pharmacovigilance #police_de_la_pensée #Bourdieu #sociologie #Laurent_Mucchielli

  • De l’autorité
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1504

    Un an après la Commune, à l’automne 1872, Friedrich Engels, l’alter ego de Marx, exécute les « antiautoritaires » - c’est-à-dire les anarchistes et libertaires de l’époque - dans un article aussi bref que brillant. Si nous le republions un siècle et demi après sa parution dans l’Almanaco Republicano, ce n’est pas que nous, les anti-industrialistes, nous rendions à la rationalité technicienne de Engels, mais parce que celui-ci a l’avantage sur ses adversaires de poser le débat en termes clairs et corrects, et de mettre en lumière leurs contradictions. En fin dialecticien, il distingue en effet deux types d’autorité – rationnelle ou irrationnelle - s’exerçant dans deux cadres différents : la sphère économique et la sphère politique. Partant, il n’a aucun mal à montrer que même « les plus furieux (...)

    #Documents
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/IMG/pdf/de_l_autorite_.pdf

  • Cannabis, cocaïne, MDMA... L’analyse des drogues, un outil de prévention pour « savoir ce que l’on consomme » - Basta !
    https://www.bastamag.net/Cannabis-cocaine-MDMA-ketamine-chemsexeur-toxiques-analyse-des-drogues-tox

    Même si ces substances sont prohibées, l’analyse des drogues est autorisée pour permettre aux usagers de savoir ce qu’ils consomment, alors que les produits frelatés ou trafiqués se multiplient. Des associations la pratiquent depuis longtemps.

    https://www.saferparty.ch/231.html
    http://www.asud.org/2017/11/21/rdr-cannabis-avec-ou-sans-combustion
    #drogues #analyse_des_drogues #addiction #asud

  • In the Sonoran Desert, #GIS Helps to Map Migrant Deaths

    GIS technology lends insight into why some undocumented migrants perish while crossing international borders.

    Last year geographer #Sam_Chambers published an unusual map of the Sonoran Desert. He wasn’t interested in marking roads, mountains, and cities. Instead, the University of Arizona researcher wanted to show the distance a young male can walk in various regions of the desert before the high temperature and physical exertion put him at risk of dying from heat exposure or hyperthermia.

    On the resulting map, red and purple correspond with cooler, mountainous terrain. Yellow and white, which dominate the image, indicate a remote, hot valley. It’s here where migrants seeking to cross between Mexico and the United States are at greatest risk of dying from the desert’s relentless sun.

    Chambers’ map relies on geographical information system (GIS) modeling, a digital technology that allows geographers to perform spatial, data-driven analysis of landscapes. Chambers’ chosen topic represents a burgeoning effort to use GIS to understand the risk undocumented migrants face while crossing international borders, according to Jonathan Cinnamon, a geographer at Ryerson University in Toronto. According to Chambers’ analysis, migrants began crossing through hotter, more rugged parts of the desert after the U.S. government increased the number of Border Patrol agents and installed new surveillance technologies, including underground motion sensors and radar-equipped watchtowers.

    The Sonoran covers roughly 100,000 square miles in Arizona, California, and Mexico, and includes major cities such as Phoenix and Tucson, as well as vast swathes of empty public and private lands. The effort to funnel migrants into this desert began in 1994 under the Clinton administration. That’s when the wave of increased migration that had started in the 1980s prompted the U.S. government to embrace the policy of “prevention through deterrence.” The idea was that would-be migrants from Mexico and Central America would be deterred from illegally crossing the U.S. border if their routes were too treacherous. With this goal in mind, Border Patrol erected new infrastructure and stepped up enforcement in border cities like Tijuana and El Paso, leaving the harsh unpopulated borderlands as the only option.

    In an email to Undark, John Mennell, a public affairs specialist with U.S. Customs and Border Protection (CBP) — the agency that oversees Border Patrol — in Arizona, said that people crossing the border illegally are at risk from the predations of smugglers and criminal organizations, who, he says, encourage migrants to ride on train tops or to shelter in packed houses with limited food and water. Mennell says the agency has installed rescue beacons in the desert, which migrants can use to call for help. According to CBP, Border Patrol rescued roughly 5,000 migrants on the Southwest border from October 2019 through September 2020.

    Yet according to data compiled by the nonprofit group Humane Borders, the prevention through deterrence approach has failed to stop migrants from attempting the border crossing. “There continues to be a shift in migration into more remote and difficult areas,” said Geoff Boyce, a geographer at Earlham College in Indiana, and one of Chambers’ collaborators. Migrants have a much higher chance of dying in the desert today than they did 15 years ago, he said, and the numbers continue to rise, from 220 deaths per 100,000 apprehensions in 2016 to 318 deaths per 100,000 apprehensions in 2020. Last year, 227 migrants died in the Pima County Medical Examiner’s jurisdiction, in southern Arizona, although activists say that the number is likely much higher because of the way bodies disappear in the desert.

    Chambers and Boyce source mortality data from the Pima County Medical Examiner’s Office. They have gotten information on migrant activity from No More Deaths, one of many humanitarian groups in the Tucson area that maintains desert water and supply stations for migrants. No More Deaths, which supports the decriminalization of undocumented migration, has set up supplies in the mountains and other hard-to-reach areas. Humane Borders also maintains stations in areas accessible by car. These organizations maintain meticulous records — the raw data that launched Chambers’ and Boyce’s first desert mapping collaboration.

    On a cool November morning, Rebecca Fowler, administrative manager with Humane Borders, climbed into a truck armed with a list of 53 water stations. She was joined by two volunteers who chatted on the street next to a truck bed bearing yards of hoses and 55-gallon blue barrels that the organization purchases at a discount from soda companies.

    Fowler was leading the Friday morning water run to seven stations off State Route 286, which runs south from Tucson to an isolated border town called Sasabe. Each week, Fowler and her volunteers check to be sure that the water is potable and plentiful. They change out dirty barrels and make notes of any vandalism. (In the past, some of the group’s barrels have been found with bullet holes or with the spigots ripped off.)

    Among other data points, Fowler and her team gather data on water usage, footprints, and clothes found near their sites. Using the county’s medical examiner data, they have also created an interactive map of migrant deaths. A search of their website reveals a spread of red dots on the Southwestern United States, so many between Phoenix and Tucson that the map turns black. The organization has charted more than 3,000 deaths in the past two decades.

    In her years in the desert, Fowler has noticed the same kind of changes pointed to in Boyce’s and Chambers’ research. “Migrants have been increasingly funneled into more desolate, unforgiving areas,” she said.

    GIS modeling, which is broadly defined as any technique that allows cartographers to spatially analyze data and landscapes, has evolved alongside computers. The U.S. military was an early developer and adopter of this technology, using it to understand terrain and plan operations. In those early days, few activists or academics possessed the skills or the access needed to use GIS, said Cinnamon. But in the last decade, more universities have embraced GIS as part of their curricula and the technology has become more readily available.

    Now, the kind of GIS modeling employed by Chambers, who uses ArcGIS and QGIS software, is commonplace in archaeology and landscape design. It allows modelers to understand how factors like terrain, weather, and manmade features influence the way people move through a given physical environment.

    An architect might employ GIS technology to decide where to put sidewalks on a college campus, for example. Chambers used these techniques to study elk migration during his doctoral studies at the University of Arizona. But after Boyce connected him to No More Deaths, he started using his skills to study human migration.

    No More Deaths tracks data at their water stations, too — including acts of vandalism, which they asked Boyce and Chambers to assist in analyzing via GIS. That report, released in 2018, spatially examines the time of year and location of the vandalism and uses its results to postulate that Border Patrol agents are primarily responsible, while acknowledging that rogue actors, such as hunters and members of militia groups, may contribute as well. (CBP did not respond to Undark’s questions on water station vandalism.)

    When Boyce and Chambers finished analyzing the information, they asked themselves: What else could this data reveal? Previous attempts to understand the desert’s hostility had relied on the prevalence of human remains or statistics on capture by Border Patrol agents, but both of those are imperfect measures.

    “It’s very hard to get any type of reliable, robust information about undocumented migration, particularly in remote desert areas,” said Boyce. “The people who are involved, their behavior is not being methodically recorded by any state actor.”

    Most of the water stations on Fowler’s route were set back from the highway, off bumpy roads where mesquite scraped the truck. By 11 a.m., heavy-bellied clouds had rolled in and the temperature was in the 80s and rising. The fingers of saguaro cacti pointed at the sky and at the Quinlan Mountains jutting over the horizon; on the other side lay the Tohono O’odham Nation. Fowler says Border Patrol’s policies increasingly shunt migrants into treacherous lands within the reservation.

    Humane Borders’ water barrels are marked by long poles capped by tattered blue flags, fluttering above the brush. Each barrel features a combination lock, preventing vandals from opening the barrel and pouring anything inside. Each is also marked by a Virgin of Guadalupe sticker, a symbol for migrants passing through the desert.

    At each stop, Fowler and that day’s volunteers, Lauren Kilpatrick and Isaiah Ortiz, pulled off the lock and checked the water for particulates and pH levels. They picked up nearby trash and kept an eye out for footprints. At the third station, the water harbored visible black dots — an early sign of algae — so the group dumped all 55 gallons and set up a new barrel. At a later station, Fowler found a spigot that had been wrenched off and flung among the mesquite. Later still, the group came upon a barrel full of decaying, abandoned backpacks.

    This was the third water run for Kilpatrick and Ortiz, a couple from Nevada now living in Arizona. Kilpatrick had read books and listened to podcasts about the borderlands, and Ortiz had wanted to get involved because the crisis felt personal to him — some of his family are immigrants, some of his friends and their relatives undocumented.

    “I just think about their journey — some of them are from Central America and Mexico,” he said. “Their lives were in real danger coming through areas like this.”

    GIS modeling simplifies this complex landscape into a grid. To analyze the grid, Chambers uses a standard modeling software; so far, he has published five papers with Boyce about the desert. For the first they worked on together, the team took No More Deaths’ data on visits to water sites from 2012 to 2015 and looked at changes in water usage at each site. Once they’d determined which routes had fallen out of favor and which had risen in popularity, they looked at whether those newer routes were more treacherous, using a ruggedness index that Chambers developed with his colleagues by looking at the slope and jaggedness of terrain, along with vegetation cover and temperature. They concluded that official United States policy is increasingly shunting migrants into more rugged areas.

    From CBP’s perspective, “Walking through remote inhospitable terrain is only one of many dangers illegal immigrants face during their dangerous journey into the United States,” said Mennell. And installing new technology and increased patrol on popular migration routes is actually a good thing, he says, because it contributes to the goal of securing the border against smugglers shepherding in so-called “illegal immigrants.”

    In another paper, Chambers studied whether migrants took new routes to avoid increased surveillance, and whether those new routes put them at higher risk of heat exposure and hyperthermia. To map out which areas were toughest to cross — as measured by caloric expenditure — Chambers factored in such variables as slope, terrain, and average human weight and walking speed, borrowing both military and archaeological formulas to measure the energy expenditures of different routes. He used viewshed analysis, which tells a mapmaker which areas are visible from a certain point — say, from a surveillance tower — and, using his slope calculations and the formulae, compared the energy costs of walking within sight of the towers versus staying out of sight.

    Chambers tested his findings against the maps of recovered human remains in the area before and after increased surveillance. To map risk of heat exposure, Chambers used formulae from sports medicine professionals, military physicians, and physiologists, and charted them onto the desert. And he found, just as with the ruggedness index, that people are taking longer, more intense routes to avoid the towers. Now they need more calories to survive the desert, and they’re at higher risk of dying from heat.

    Caloric expenditure studies had been done before in other contexts, said Chambers. But until this map, no one had ever created a detailed spatial representation of locations where the landscape and high temperatures are deadliest for the human body.

    GIS mapping is also being used to track migration into Europe. Lorenzo Pezzani, a lecturer in forensic architecture at Goldsmiths, University of London, works with artists, scientists, NGOs, and politicians to map what they see as human rights violations in the Mediterranean Sea.

    Compared with the group conducting research in Arizona, Pezzani and his team are at a distinct disadvantage. If a body drops into the sea, it’s unlikely to be recovered. There’s just not as much data to study, says Pezzani. So he and his team study discrete disasters, and then they extrapolate from there.

    Pezzani disseminates his group’s work through a project called Forensic Oceanography, a collaborative research effort consisting of maps, visualizations, and reports, which has appeared in art museums. In 2018, information gathered through their visualizations was submitted to the European Court of Human Rights as evidence showing the Italian government’s role in migrant drowning deaths.

    The goal is to make migrant deaths in the Mediterranean more visible and to challenge the governmental narrative that, like the deaths in the Sonoran, these deaths are unavoidable and faultless. Deaths from shipwrecks, for example, are generally blamed on the criminal networks of human traffickers, said Pezzani. He wants to show that the conditions that draw migrants into dangerous waters are the result of “specific political decisions that have been taken by southern European states and by the European Union.”

    Pezzani, Chambers, and Boyce all intend for their work to foster discussion about government policy on immigration and borderlands. Boyce, for one, wants the U.S. government to rethink its policy of “prevention through deterrence” and to demilitarize the border. He believes the current policy is doomed to fail and is inhumane because it does not tackle the underlying issues that cause people to try to migrate in the first place. Ryan Burns, a visiting scholar at University of California, Berkeley, said he wants to see more research like this. “We need more scientists who are saying, ‘We can produce knowledge that is sound, that is actionable, that has a very well-established rigor to it, but is also politically motivated,’” Burns said.

    Cinnamon said that GIS, by its nature, tends to involve approaching a project with a viewpoint already in mind. “If the U.S. government decided to do the same study, they might approach it from a very different perspective,” he said. As long as the authors are overt about their viewpoints, Cinnamon sees no issue.

    Burns, however, did sound one cautionary note. By drawing attention to illegal crossings, he said, researchers “could be endangering people who are taking these paths.” In other words, making a crisis more visible can be politically powerful, but it can also have unintended consequences.

    Before their last water station visit, the group from Humane Borders drove into Sasabe. A helicopter chopped overhead, probably surveilling for migrants, Fowler said. Border Patrol vehicles roamed the streets, as they do throughout this part of the country.

    Once, Fowler said, a 12-foot wall spread for miles across the mountains here. In recent months, it’s been replaced by the U.S. government’s latest effort to stop migrants from venturing into the desert: a 30-footer, made of steel slats, undulating through the town and across the mountains in either direction. It’s yet another factor to consider when mapping the Sonoran and envisioning how its natural and manmade obstacles will shape its migration routes.

    “There’s so much speculation” about what will happen to migrants because of this wall, said Fowler. She suspects they will cross through the Tohono O’odham Nation, where there’s no wall. But they won’t have access to water dropped by Humane Borders. “What I worry about, obviously, is more people dying,” said Fowler. She’s certain the migrants “will continue to come.”

    Chambers and Boyce plan to keep making maps. They recently published a paper showing the stress that internal border checkpoints place on migrants crossing the desert, the latest step in their quest to create empirical evidence for the increasing treacherousness of the border.

    “It’s an important thing for people to know,” said Boyce.

    https://undark.org/2021/03/31/mapping-migrant-deaths-sonoran-desert
    #SIG #désert_du_Sonora #asile #migrations #frontières #morts_aux_frontières #décès #morts #USA #Mexique #Etats-Unis #cartographie #visualisation #contre-cartographie

    ping @reka

    • Developing a geospatial measure of change in core temperature for migrating persons in the Mexico-U.S. border region

      Although heat exposure is the leading cause of mortality for undocumented immigrants attempting to traverse the Mexico-U.S. border, there has been little work in quantifying risk. Therefore, our study aims to develop a methodology projecting increase in core temperature over time and space for migrants in Southern #Arizona using spatial analysis and remote sensing in combination with the heat balance equation—adapting physiological formulae to a multi-step geospatial model using local climate conditions, terrain, and body specifics. We sought to quantitatively compare the results by demographic categories of age and sex and qualitatively compare them to known terrestrial conditions and prior studies of those conditions. We demonstrated a more detailed measure of risk for migrants than those used most recently: energy expenditure and terrain ruggedness. Our study not only gives a better understanding of the ‘#funnel_effect’ mechanisms, but also provides an opportunity for relief and rescue operations.

      https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1877584520300411
      #risques #risque #analyse_spatiale

  • Artificial intelligence : #Frontex improves its maritime surveillance

    Frontex wants to use a new platform to automatically detect and assess „risks“ on the seas of the European Union. Suspected irregular activities are to be displayed in a constantly updated „threat map“ with the help of self-learning software.

    The EU border agency has renewed a contract with Israeli company Windward for a „maritime analytics“ platform. It will put the application into regular operation. Frontex had initially procured a licence for around 800,000 Euros. For now 2.6 million Euros, the agency will receive access for four workstations. The contract can be extended three times for one year at a time.

    Windward specialises in the digital aggregation and assessment of vessel tracking and maritime surveillance data. Investors in the company, which was founded in 2011, include former US CIA director David Petraeus and former CEO’s of Thomson Reuters and British Petroleum. The former chief of staff of the Israeli military, Gabi Ashkenazi, is considered one of the advisors.

    Signature for each observed ship

    The platform is based on artificial intelligence techniques. For analysis, it uses maritime reporting systems, including position data from the AIS transponders of larger ships and weather data. These are enriched with information about the ship owners and shipping companies as well as the history of previous ship movements. For this purpose, the software queries openly accessible information from the internet.

    In this way, a „fingerprint“ is created for each observed ship, which can be used to identify suspicious activities. If the captain switches off the transponder, for example, the analysis platform can recognise this as a suspicuous event and take over further tracking based on the recorded patterns. It is also possible to integrate satellite images.

    Windward uses the register of the International Maritime Organisation (IMO) as its database, which lists about 70,000 ships. Allegedly, however, it also processes data on a total of 400,000 watercraft, including smaller fishing boats. One of the clients is therefore the UN Security Council, which uses the technology to monitor sanctions.

    Against „bad guys“ at sea

    The company advertises its applications with the slogan „Catch the bad guys at sea“. At Frontex, the application is used to combat and prevent unwanted migration and cross-border crime as well as terrorism. Subsequently, „policy makers“ and law enforcement agencies are to be informed about results. For this purpose, the „risks“ found are visualised in a „threat map“.

    Windward put such a „threat map“ online two years ago. At the time, the software rated the Black Sea as significantly more risky than the Mediterranean. Commercial shipping activity off the Crimea was interpreted as „probable sanction evasions“. Ship owners from the British Guernsey Islands as well as Romania recorded the highest proportion of ships exhibiting „risky“ behaviour. 42 vessels were classified as suspicious for drug smuggling based on their patterns.

    Frontex „early warning“ units

    The information from maritime surveillance is likely to be processed first by the „Risk Analysis Unit“ (RAU) at Frontex. It is supposed to support strategic decisions taken by the headquarters in Warsaw on issues of border control, return, prevention of cross-border crime as well as threats of a „hybrid nature“. Frontex calls the applications used there „intelligence products“ and „integrated data services“. Their results flow together in the „Common Integrated Risk Analysis Model“ (CIRAM).

    For the operational monitoring of the situation at the EU’s external borders, the agency also maintains the „Frontex Situation Centre“ (FSC). The department is supposed to provide a constantly updated picture of migration movements, if possible in real time. From these reports, Frontex produces „early warnings“ and situation reports to the border authorities of the member states as well as to the Commission and the Council in Brussels.

    More surveillance capacity in Warsaw

    According to its own information, Windward’s clients include the Italian Guardia di Finanza, which is responsible for controlling Italian territorial waters. The Ministry of the Interior in Rome is also responsible for numerous EU projects aimed at improving surveillance of the central Mediterranean. For the training and equipment of the Libyan coast guard, Italy receives around 67 million euros from EU funds in three different projects. Italian coast guard authorities are also installing a surveillance system for Tunisia’s external maritime borders.

    Frontex now wants to improve its own surveillance capacities with further tenders. Together with the fisheries agency, The agency is awarding further contracts for manned maritime surveillance. It has been operating such a „Frontex Aerial Surveillance Service“ (FASS) in the central Mediterranean since 2017 and in the Adriatic Sea since 2018. Frontex also wants to station large drones in the Mediterranean. Furthermore, it is testing Aerostats in the eastern Mediterranean for a second time. These are zeppelins attached to a 1,000-metre long line.

    https://digit.site36.net/2021/01/15/artificial-intelligence-frontex-improves-its-maritime-surveillance
    #intelligence_artificielle #surveillance #surveillance_maritime #mer #asile #migrations #réfugiés #frontières #AI #Windward #Israël #complexe_militaro-industriel #militarisation_des_frontières #David_Petraeus #Thomson_Reuters #British_Petroleum #armée_israélienne #Gabi_Ashkenazi #International_Maritime_Organisation (#IMO) #thread_map #Risk_Analysis_Unit (#RAU) #Common_Integrated_Risk_Analysis_Model (#CIRAM) #Frontex_Situation_Centre (#FSC) #Frontex_Aerial_Surveillance_Service (#FASS) #zeppelins

    ping @etraces

    • Data et nouvelles technologies, la face cachée du contrôle des mobilités

      Dans un rapport de juillet 2020, l’Agence européenne pour la gestion opérationnelle des systèmes d’information à grande échelle (#EU-Lisa) présente l’intelligence artificielle (IA) comme l’une des « technologies prioritaires » à développer. Le rapport souligne les avantages de l’IA en matière migratoire et aux frontières, grâce, entre autres, à la technologie de #reconnaissance_faciale.

      L’intelligence artificielle est de plus en plus privilégiée par les acteurs publics, les institutions de l’UE et les acteurs privés, mais aussi par le #HCR et l’#OIM. Les agences de l’UE, comme Frontex ou EU-Lisa, ont été particulièrement actives dans l’#expérimentation des nouvelles technologies, brouillant parfois la distinction entre essais et mise en oeuvre. En plus des outils traditionnels de surveillance, une panoplie de technologies est désormais déployée aux frontières de l’Europe et au-delà, qu’il s’agisse de l’ajout de nouvelles #bases_de_données, de technologies financières innovantes, ou plus simplement de la récupération par les #GAFAM des données laissées volontairement ou pas par les migrant·e·s et réfugié∙e∙s durant le parcours migratoire.

      La pandémie #Covid-19 est arrivée à point nommé pour dynamiser les orientations déjà prises, en permettant de tester ou de généraliser des technologies utilisées pour le contrôle des mobilités sans que l’ensemble des droits des exilé·e·s ne soit pris en considération. L’OIM, par exemple, a mis à disposition des Etats sa #Matrice_de_suivi_des_déplacements (#DTM) durant cette période afin de contrôler les « flux migratoires ». De nouvelles technologies au service de vieilles obsessions…

      http://www.migreurop.org/article3021.html

      Pour télécharger le rapport :
      www.migreurop.org/IMG/pdf/note_12_fr.pdf

      ping @karine4 @rhoumour @_kg_ @i_s_

    • La #technopolice aux frontières

      Comment le #business de la #sécurité et de la #surveillance au sein de l’#Union_européenne, en plus de bafouer des #droits_fondamentaux, utilise les personnes exilées comme #laboratoire de recherche, et ce sur des #fonds_publics européens.

      On a beaucoup parlé ici ces derniers mois de surveillance des manifestations ou de surveillance de l’espace public dans nos villes, mais la technopolice est avant tout déployée aux #frontières – et notamment chez nous, aux frontières de la « forteresse Europe ». Ces #dispositifs_technopoliciers sont financés, soutenus et expérimentés par l’Union européenne pour les frontières de l’UE d’abord, et ensuite vendus. Cette surveillance des frontières représente un #marché colossal et profite grandement de l’échelle communautaire et de ses programmes de #recherche_et_développement (#R&D) comme #Horizon_2020.

      #Roborder – des essaims de #drones_autonomes aux frontières

      C’est le cas du projet Roborder – un « jeu de mots » entre robot et border, frontière en anglais. Débuté en 2017, il prévoit de surveiller les frontières par des essaims de #drones autonomes, fonctionnant et patrouillant ensemble. L’#intelligence_artificielle de ces drones leur permettrait de reconnaître les humains et de distinguer si ces derniers commettent des infractions (comme celui de passer une frontière ?) et leur dangerosité pour ensuite prévenir la #police_aux_frontières. Ces drones peuvent se mouvoir dans les airs, sous l’eau, sur l’eau et dans des engins au sol. Dotés de multiples capteurs, en plus de la détection d’activités criminelles, ces drones seraient destinés à repérer des “#radio-fréquences non fiables”, c’est-à-dire à écouter les #communications et également à mesurer la #pollution_marine.
      Pour l’instant, ces essaims de drones autonomes ne seraient pas pourvus d’armes. Roborder est actuellement expérimenté en #Grèce, au #Portugal et en #Hongrie.

      Un #financement européen pour des usages « civils »

      Ce projet est financé à hauteur de 8 millions d’euros par le programme Horizon 2020 (subventionné lui-même par la #Cordis, organe de R&D de la Commission européenne). Horizon 2020 représente 50% du financement public total pour la recherche en sécurité de l’UE. Roborder est coordonné par le centre de recherches et technologie de #Hellas (le #CERTH), en Grèce et comme le montre l’association #Homo_Digitalis le nombre de projets Horizon 2020 ne fait qu’augmenter en Grèce. En plus du CERTH grec s’ajoutent environ 25 participants venus de tous les pays de l’UE (où on retrouve les services de police d’#Irlande_du_Nord, le ministère de la défense grecque, ou encore des entreprises de drones allemandes, etc.).

      L’une des conditions pour le financement de projets de ce genre par Horizon 2020 est que les technologies développées restent dans l’utilisation civile, et ne puissent pas servir à des fins militaires. Cette affirmation pourrait ressembler à un garde-fou, mais en réalité la distinction entre usage civil et militaire est loin d’être clairement établie. Comme le montre Stephen Graham, très souvent les #technologies, à la base militaires, sont réinjectées dans la sécurité, particulièrement aux frontières où la migration est criminalisée. Et cette porosité entre la sécurité et le #militaire est induite par la nécessité de trouver des débouchés pour rentabiliser la #recherche_militaire. C’est ce qu’on peut observer avec les drones ou bien le gaz lacrymogène. Ici, il est plutôt question d’une logique inverse : potentiellement le passage d’un usage dit “civil” de la #sécurité_intérieure à une application militaire, à travers des ventes futures de ces dispositifs. Mais on peut aussi considérer la surveillance, la détection de personnes et la #répression_aux_frontières comme une matérialisation de la #militarisation de l’Europe à ses frontières. Dans ce cas-là, Roborder serait un projet à fins militaires.

      De plus, dans les faits, comme le montre The Intercept (https://theintercept.com/2019/05/11/drones-artificial-intelligence-europe-roborder), une fois le projet terminé celui-ci est vendu. Sans qu’on sache trop à qui. Et, toujours selon le journal, beaucoup sont déjà intéressés par Roborder.

      #IborderCtrl – détection d’#émotions aux frontières

      Si les essaims de drones sont impressionnants, il existe d’autres projets dans la même veine. On peut citer notamment le projet qui a pour nom IborderCtrl, testé en Grèce, Hongrie et #Lettonie.

      Il consiste notamment en de l’#analyse_d’émotions (à côté d’autres projets de #reconnaissances_biométriques) : les personnes désirant passer une frontière doivent se soumettre à des questions et voient leur #visage passer au crible d’un #algorithme qui déterminera si elles mentent ou non. Le projet prétend « accélérer le #contrôle_aux_frontières » : si le #détecteur_de_mensonges estime qu’une personne dit la vérité, un code lui est donné pour passer le contrôle facilement ; si l’algorithme considère qu’une personne ment, elle est envoyée dans une seconde file, vers des gardes-frontières qui lui feront passer un #interrogatoire. L’analyse d’émotions prétend reposer sur un examen de « 38 #micro-mouvements du visage » comme l’angle de la tête ou le mouvement des yeux. Un spectacle de gadgets pseudoscientifiques qui permet surtout de donner l’apparence de la #neutralité_technologique à des politiques d’#exclusion et de #déshumanisation.

      Ce projet a également été financé par Horizon 2020 à hauteur de 4,5 millions d’euros. S’il semble aujourd’hui avoir été arrêté, l’eurodéputé allemand Patrick Breyer a saisi la Cour de justice de l’Union Européenne pour obtenir plus d’informations sur ce projet, ce qui lui a été refusé pour… atteinte au #secret_commercial. Ici encore, on voit que le champ “civil” et non “militaire” du projet est loin de représenter un garde-fou.

      Conclusion

      Ainsi, l’Union européenne participe activement au puissant marché de la surveillance et de la répression. Ici, les frontières et les personnes exilées sont utilisées comme des ressources de laboratoire. Dans une optique de militarisation toujours plus forte des frontières de la forteresse Europe et d’une recherche de profit et de développement des entreprises et centres de recherche européens. Les frontières constituent un nouveau marché et une nouvelle manne financière de la technopolice.

      Les chiffres montrent par ailleurs l’explosion du budget de l’agence européenne #Frontex (de 137 millions d’euros en 2015 à 322 millions d’euros en 2020, chiffres de la Cour des comptes européenne) et une automatisation toujours plus grande de la surveillance des frontières. Et parallèlement, le ratio entre le nombre de personnes qui tentent de franchir la Méditerranée et le nombre de celles qui y laissent la vie ne fait qu’augmenter. Cette automatisation de la surveillance aux frontières n’est donc qu’une nouvelle façon pour les autorités européennes d’accentuer le drame qui continue de se jouer en Méditerranée, pour une “efficacité” qui finalement ne profite qu’aux industries de la surveillance.

      Dans nos rues comme à nos frontières nous devons refuser la Technopolice et la combattre pied à pied !

      https://technopolice.fr/blog/la-technopolice-aux-frontieres

    • Artificial Intelligence - based capabilities for European Border and Coast Guard

      In 2019, Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, commissioned #RAND Europe to carry out an Artificial intelligence (AI) research study.

      The purpose of the study was to provide an overview of the main opportunities, challenges and requirements for the adoption of AI-based capabilities in border managament. Frontex’s intent was also to find synergies with ongoing AI studies and initiatives in the EU and contribute to a Europe-wide AI landscape by adding the border security dimension.

      Some of the analysed technologies included automated border control, object recognition to detect suspicious vehicles or cargo and the use of geospatial data analytics for operational awareness and threat detection.

      As part of the study, RAND provided Frontex in 2020 with a comprehensive report and an executive summary with conclusions and recommendations.

      The findings will support Frontex in shaping the future landscape of AI-based capabilities for Integrated Border Management, including AI-related research and innovation projects which could be initiated by Frontex (e.g. under #EU_Innovation_Hub) or recommended to be conducted under the EU Research and Innovation Programme (#Horizon_Europe).

      https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/artificial-intelligence-based-capabilities-for-european-border-and-co

    • Pour les réfugiés, la #biométrie tout au long du chemin

      Par-delà les murs qui poussent aux frontières du monde depuis les années 1990, les réfugiés, migrants et demandeurs d’asile sont de plus en plus confrontés à l’extension des bases de #données_biométriques. Un « #mur_virtuel » s’étend ainsi à l’extérieur, aux frontières et à l’intérieur de l’espace Schengen, construit autour de programmes et de #bases_de_données.

      Des réfugiés qui paient avec leurs #iris, des migrants identifiés par leurs #empreintes_digitales, des capteurs de #reconnaissance_faciale, mais aussi d’#émotions… Réunis sous la bannière de la « #frontière_intelligente », ces #dispositifs_technologiques, reposant sur l’#anticipation, l’#identification et l’#automatisation du franchissement de la #frontière grâce aux bases de données biométriques, ont pour but de trier les voyageurs, facilitant le parcours des uns et bloquant celui des autres.

      L’Union européenne dispose ainsi d’une batterie de bases de données qui viennent compléter les contrôles aux frontières. Depuis 2011, une agence dédiée, l’#Agence_européenne_pour_la_gestion_opérationnelle_des_systèmes_d’information_à_grande_échelle, l’#EU-Lisa, a pour but d’élaborer et de développer, en lien avec des entreprises privées, le suivi des demandeurs d’asile.

      Elle gère ainsi plusieurs bases compilant des #données_biométriques. L’une d’elles, le « #Entry_and_Exit_System » (#EES), sera déployée en 2022, pour un coût évalué à 480 millions d’euros. L’EES a pour mission de collecter jusqu’à 400 millions de données sur les personnes non européennes franchissant les frontières de l’espace Schengen, afin de contrôler en temps réel les dépassements de durée légale de #visa. En cas de séjour prolongé devenu illégal, l’alerte sera donnée à l’ensemble des polices européennes.

      Se brûler les doigts pour ne pas être enregistré

      L’EU-Lisa gère également le fichier #Eurodac, qui consigne les empreintes digitales de chacun des demandeurs d’asile de l’Union européenne. Utilisé pour appliquer le #règlement_Dublin III, selon lequel la demande d’asile est déposée et traitée dans le pays européen où le migrant a été enregistré la première fois, il entraîne des stratégies de #résistance.

      « On a vu des migrants refuser de donner leurs empreintes à leur arrivée en Grèce, ou même se brûler les doigts pour ne pas être enregistrés dans Eurodac, rappelle Damien Simonneau, chercheur à l’Institut Convergences Migrations du Collège de France. Ils savent que s’ils ont, par exemple, de la famille en Allemagne, mais qu’ils ont été enregistrés en Grèce, ils seront renvoyés en Grèce pour que leur demande y soit traitée, ce qui a des conséquences énormes sur leur vie. » La procédure d’instruction dure en effet de 12 à 18 mois en moyenne.

      La collecte de données biométriques jalonne ainsi les parcours migratoires, des pays de départs jusqu’aux déplacements au sein de l’Union européenne, dans un but de limitation et de #contrôle. Pour lutter contre « la criminalité transfrontalière » et « l’immigration clandestine », le système de surveillance des zones frontières #Eurosur permet, via un partage d’informations en temps réel, d’intercepter avant leur arrivée les personnes tentant d’atteindre l’Union européenne.

      Des contrôles dans les pays de départ

      Pour le Transnational Institute, auteur avec le think tank Stop Wapenhandel et le Centre Delàs de plusieurs études sur les frontières, l’utilisation de ces bases de données témoigne d’une stratégie claire de la part de l’Union européenne. « Un des objectifs de l’expansion des #frontières_virtuelles, écrivent-ils ainsi dans le rapport Building Walls (https://www.tni.org/files/publication-downloads/building_walls_-_full_report_-_english.pdf), paru en 2018, est d’intercepter les réfugiés et les migrants avant même qu’ils n’atteignent les frontières européennes, pour ne pas avoir à traiter avec eux. »

      Si ces techniques permettent de pré-trier les demandes pour fluidifier le passage des frontières, en accélérant les déplacements autorisés, elles peuvent également, selon Damien Simonneau, avoir des effets pervers. « L’utilisation de ces mécanismes repose sur l’idée que la #technologie est un facilitateur, et il est vrai que l’#autonomisation de certaines démarches peut faciliter les déplacements de personnes autorisées à franchir les frontières, expose-t-il. Mais les technologies sont faillibles, et peuvent produire des #discriminations. »

      Ces #techniques_virtuelles, aux conséquences bien réelles, bouleversent ainsi le rapport à la frontière et les parcours migratoires. « Le migrant est confronté à de multiples points "frontière", disséminés un peu partout, analyse Damien Simonneau. Cela crée des #obstacles supplémentaires aux parcours migratoires : le contrôle n’est quasiment plus lié au franchissement d’une frontière nationale, il est déterritorialisé et peut se produire n’importe où, en amont comme en aval de la frontière de l’État. »

      Ainsi, la « politique d’#externalisation de l’Union européenne » permet au contrôle migratoire de s’exercer dans les pays de départ. Le programme européen « #SIV » collecte par exemple dès leur formulation dans les #consulats les données biométriques liées aux #demandes_de_visas.

      Plus encore, l’Union européenne délègue une partie de la gestion de ses frontières à d’autres pays : « Dans certains États du Sahel, explique Damien Simonneau, l’aide humanitaire et de développement est conditionnée à l’amélioration des contrôles aux frontières. »

      Un programme de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), le programme #MIDAS, financé par l’Union européenne, est ainsi employé par 23 pays, majoritairement en Afrique, mais aussi en Asie et en Amérique. Son but est de « collecter, traiter, stocker et analyser les informations [biométriques et biographiques] des voyageurs en temps réel » pour aider les polices locales à contrôler leurs frontières. Mais selon le réseau Migreurop, ces données peuvent également être transmises aux agences policières européennes. L’UE exerce ainsi un droit de regard, via Frontex, sur le système d’information et d’analyse de données sur la migration, installé à Makalondi au Niger.

      Des réfugiés qui paient avec leurs yeux

      Un mélange des genres, entre organisations humanitaires et États, entre protection, logistique et surveillance, qui se retrouve également dans les #camps_de_réfugiés. Dans les camps jordaniens de #Zaatari et d’#Azarq, par exemple, près de la frontière syrienne, les réfugiés paient depuis 2016 leurs aliments avec leurs iris.

      L’#aide_humanitaire_alimentaire distribuée par le Programme alimentaire mondial (PAM) leur est en effet versée sur un compte relié à leurs données biométriques. Il leur suffit de passer leurs yeux dans un scanner pour régler leurs achats. Une pratique qui facilite grandement la gestion #logistique du camp par le #HCR et le PAM, en permettant la #traçabilité des échanges et en évitant les fraudes et les vols.

      Mais selon Léa Macias, anthropologue à l’EHESS, cela a aussi des inconvénients. « Si ce paiement avec les yeux peut rassurer certains réfugiés, dans la mesure où cela les protège contre les vols, développe-t-elle, le procédé est également perçu comme une #violence. Les réfugiés ont bien conscience que personne d’autre au monde, dans une situation normale, ne paie ainsi avec son #corps. »

      Le danger de la fuite de données

      La chercheuse s’inquiète également du devenir des données ainsi collectées, et se pose la question de l’intérêt des réfugiés dans ce processus. « Les humanitaires sont poussés à utiliser ces nouvelles technologies, expose-t-elle, qui sont vues comme un gage de fiabilité par les bailleurs de fonds. Mais la #technologisation n’est pas toujours dans l’intérêt des réfugiés. En cas de fuite ou de hackage des bases de données, cela les expose même à des dangers. »

      Un rapport de Human Rights Watch (HRW) (https://www.hrw.org/news/2021/06/15/un-shared-rohingya-data-without-informed-consent), publié mardi 15 juin, alerte ainsi sur des #transferts_de_données biométriques appartenant à des #Rohingyas réfugiés au Bangladesh. Ces données, collectées par le Haut-commissariat aux réfugiés (HCR) de l’ONU, ont été transmises par le gouvernement du Bangladesh à l’État birman. Si le HCR a réagi (https://www.unhcr.org/en-us/news/press/2021/6/60c85a7b4/news-comment-statement-refugee-registration-data-collection-bangladesh.html) en affirmant que les personnes concernées avaient donné leur accord à ce #transfert_de_données pour préparer un éventuel retour en Birmanie, rien ne permet cependant de garantir qu’ils seront bien reçus si leur nom « bipe » au moment de passer la frontière.

      https://www.rfi.fr/fr/technologies/20210620-pour-les-r%C3%A9fugi%C3%A9s-la-biom%C3%A9trie-tout-au-long-du-chemin

      #smart_borders #tri #catégorisation #déterritorialisation #réfugiés_rohingyas

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      Sur les doigts brûlés pour ne pas se faire identifier par les empreintes digitales, voir la scène du film Qu’ils reposent en paix de Sylvain George, dont j’ai fait une brève recension :

      Instant tragique : ce qu’un migrant appelle la « prière ». Ce moment collectif où les migrants tentent de faire disparaître leurs empreintes digitales. Étape symbolique où ils se défont de leur propre identité.

      https://visionscarto.net/a-calais-l-etat-ne-peut-dissoudre

  • La #Technopolice, moteur de la « #sécurité_globale »

    L’article 24 de la #loi_Sécurité_Globale ne doit pas devenir l’arbre qui cache la forêt d’une politique de fond, au cœur de ce texte, visant à faire passer la #surveillance et le #contrôle_de_la_population par la police à une nouvelle ère technologique.

    Quelques jours avant le vote de la loi Sécurité Globale à l’Assemblée Nationale, le ministère de l’Intérieur présentait son #Livre_blanc. Ce long #rapport de #prospective révèle la #feuille_de_route du ministère de l’Intérieur pour les années à venir. Comme l’explique Gérard Darmanin devant les députés, la proposition de loi Sécurité Globale n’est que le début de la transposition du Livre dans la législation. Car cette loi, au-delà de l’interdiction de diffusion d’#images de la police (#article_24), vise surtout à renforcer considérablement les pouvoirs de surveillance des #forces_de_l’ordre, notamment à travers la légalisation des #drones (article 22), la diffusion en direct des #caméras_piétons au centre d’opération (article 21), les nouvelles prérogatives de la #police_municipale (article 20), la #vidéosurveillance dans les hall d’immeubles (article 20bis). Cette loi sera la première pierre d’un vaste chantier qui s’étalera sur plusieurs années.

    Toujours plus de pouvoirs pour la police

    Le Livre blanc du ministère de l’Intérieur envisage d’accroître, à tous les niveaux, les pouvoirs des différentes #forces_de_sécurité (la #Police_nationale, la police municipale, la #gendarmerie et les agents de #sécurité_privée) : ce qu’ils appellent, dans la novlangue officielle, le « #continuum_de_la_sécurité_intérieure ». Souhaitant « renforcer la police et la rendre plus efficace », le livre blanc se concentre sur quatre angles principaux :

    - Il ambitionne de (re)créer une #confiance de la population en ses forces de sécurité, notamment par une #communication_renforcée, pour « contribuer à [leur] légitimité », par un embrigadement de la jeunesse – le #Service_National_Universel, ou encore par la création de « #journées_de_cohésion_nationale » (page 61). Dans la loi Sécurité Globale, cette volonté s’est déjà illustrée par la possibilité pour les policiers de participer à la « #guerre_de_l’image » en publiant les vidéos prises à l’aide de leurs #caméras_portatives (article 21).
    - Il prévoit d’augmenter les compétences des #maires en terme de sécurité, notamment par un élargissement des compétences de la police municipale : un accès simplifié aux #fichiers_de_police, de nouvelles compétences en terme de lutte contre les #incivilités … (page 135). Cette partie-là est déjà en partie présente dans la loi Sécurité Globale (article 20).
    - Il pousse à une #professionnalisation de la sécurité privée qui deviendrait ainsi les petites mains de la police, en vu notamment des #Jeux_olympiques Paris 2024, où le besoin en sécurité privée s’annonce colossal. Et cela passe par l’augmentation de ses #compétences : extension de leur #armement, possibilité d’intervention sur la #voie_publique, pouvoir de visionner les caméras, et même le port d’un #uniforme_spécifique (page 145).
    - Enfin, le dernier grand axe de ce livre concerne l’intégration de #nouvelles_technologies dans l’arsenal policier. Le titre de cette partie est évocateur, il s’agit de « porter le Ministère de l’Intérieur à la #frontière_technologique » (la notion de #frontière évoque la conquête de l’Ouest aux États-Unis, où il fallait coloniser les terres et les premières nations — la reprise de ce vocable relève d’une esthétique coloniale et viriliste).

    Ce livre prévoit une multitude de projets plus délirants et effrayants les uns que les autres. Il propose une #analyse_automatisée des #réseaux_sociaux (page 221), des #gilets_connectés pour les forces de l’ordre (page 227), ou encore des lunettes ou #casques_augmentés (page 227). Enfin, le Livre blanc insiste sur l’importance de la #biométrie pour la police. Entre proposition d’#interconnexion des #fichiers_biométriques (#TAJ, #FNAEG, #FAED…) (page 256), d’utilisation des #empreintes_digitales comme outil d’#identification lors des #contrôles_d’identité et l’équipement des #tablettes des policiers et gendarmes (#NEO et #NEOGEND) de lecteur d’empreinte sans contact (page 258), de faire plus de recherche sur la #reconnaissance_vocale et d’#odeur (!) (page 260) ou enfin de presser le législateur pour pouvoir expérimenter la #reconnaissance_faciale dans l’#espace_public (page 263).

    Le basculement technologique de la #surveillance par drones

    Parmi les nouveaux dispositifs promus par le Livre blanc : les #drones_de_police, ici appelés « #drones_de_sécurité_intérieure ». S’ils étaient autorisés par la loi « Sécurité Globale », ils modifieraient radicalement les pouvoirs de la police en lui donnant une capacité de surveillance totale.

    Il est d’ailleurs particulièrement marquant de voir que les rapporteurs de la loi considèrent cette légalisation comme une simple étape sans conséquence, parlant ainsi en une phrase « d’autoriser les services de l’État concourant à la #sécurité_intérieure et à la #défense_nationale et les forces de sécurité civile à filmer par voie aérienne (…) ». Cela alors que, du côté de la police et des industriels, les drones représentent une révolution dans le domaine de la sécurité, un acteur privé de premier plan évoquant au sujet des drones leur « potentiel quasiment inépuisable », car « rapides, faciles à opérer, discrets » et « tout simplement parfaits pour des missions de surveillance »

    Dans les discours sécuritaires qui font la promotion de ces dispositifs, il est en effet frappant de voir la frustration sur les capacités « limitées » (selon eux) des caméras fixes et combien ils fantasment sur le « potentiel » de ces drones. C’est le cas du maire LR d’Asnières-sur-Seine qui en 2016 se plaignait qu’on ne puisse matériellement pas « doter chaque coin de rue de #vidéoprotection » et que les drones « sont les outils techniques les plus adaptés » pour pallier aux limites de la présence humaine. La police met ainsi elle-même en avant la toute-puissance du #robot par le fait, par exemple pour les #contrôles_routiers, que « la caméra du drone détecte chaque infraction », que « les agents démontrent que plus rien ne leur échappe ». Même chose pour la #discrétion de ces outils qui peuvent, « à un coût nettement moindre » qu’un hélicoptère, « opérer des surveillances plus loin sur l’horizon sans être positionné à la verticale au-dessus des suspects ». Du côté des constructeurs, on vante les « #zooms puissants », les « #caméras_thermiques », leur donnant une « #vision_d’aigle », ainsi que « le #décollage possible pratiquement de n’importe où ».

    Tout cela n’est pas que du fantasme. Selon un rapport de l’Assemblée nationale, la police avait, en 2019, par exemple 30 drones « de type #Phantom_4 » et « #Mavic_Pro » (ou « #Mavic_2_Enterprise » comme nous l’avons appris lors de notre contentieux contre la préfecture de police de Paris). Il suffit d’aller voir les fiches descriptives du constructeur pour être inondé de termes techniques vantant l’omniscience de son produit : « caméra de nacelle à 3 axes », « vidéos 4K », « photos de 12 mégapixels », « caméra thermique infrarouge », « vitesse de vol maximale à 72 km/h » … Tant de termes qui recoupent les descriptions faites par leurs promoteurs : une machine volante, discrète, avec une capacité de surveiller tout (espace public ou non), et de loin.

    Il ne s’agit donc pas d’améliorer le dispositif de la vidéosurveillance déjà existant, mais d’un passage à l’échelle qui transforme sa nature, engageant une surveillance massive et largement invisible de l’espace public. Et cela bien loin du léger cadre qu’on avait réussi à imposer aux caméras fixes, qui imposait notamment que chaque caméra installée puisse faire la preuve de son utilité et de son intérêt, c’est-à-dire de la nécessité et de la #proportionnalité de son installation. Au lieu de cela, la vidéosurveillance demeure une politique publique dispendieuse et pourtant jamais évaluée. Comme le rappelle un récent rapport de la Cour des comptes, « aucune corrélation globale n’a été relevée entre l’existence de dispositifs de vidéoprotection et le niveau de la délinquance commise sur la voie publique, ou encore les taux d’élucidation ». Autre principe fondamental du droit entourant actuellement la vidéosurveillance (et lui aussi déjà largement inappliqué) : chaque personne filmée doit être informée de cette surveillance. Les drones semblent en contradiction avec ces deux principes : leur utilisation s’oppose à toute notion d’information des personnes et de nécessité ou proportionnalité.

    Où serons-nous dans 4 ans ?

    En pratique, c’est un basculement total des #pratiques_policières (et donc de notre quotidien) que préparent ces évolutions technologiques et législatives. Le Livre blanc fixe une échéance importante à cet égard : « les Jeux olympiques et paralympiques de Paris de 2024 seront un événement aux dimensions hors normes posant des enjeux de sécurité majeurs » (p. 159). Or, « les Jeux olympiques ne seront pas un lieu d’expérimentation : ces technologies devront être déjà éprouvées, notamment à l’occasion de la coupe de monde de Rugby de 2023 » (p. 159).

    En juillet 2019, le rapport parlementaire cité plus haut constatait que la Police nationale disposait de 30 drones et de 23 pilotes. En novembre 2020, le Livre blanc (p. 231) décompte 235 drones et 146 pilotes. En 14 mois, le nombre de drones et pilotes aura été multiplié par 7. Dès avril 2020, le ministère de l’Intérieur a publié un appel d’offre pour acquérir 650 drones de plus. Rappelons-le : ces dotations se sont faites en violation de la loi. Qu’en sera-t-il lorsque les drones seront autorisés par la loi « sécurité globale » ? Avec combien de milliers d’appareils volants devra-t-on bientôt partager nos rues ? Faut-il redouter, au cours des #JO de 2024, que des dizaines de drones soient attribués à la surveillance de chaque quartier de la région parisienne, survolant plus ou moins automatiquement chaque rue, sans répit, tout au long de la journée ?

    Les évolutions en matières de reconnaissance faciale invite à des projections encore plus glaçantes et irréelles. Dès 2016, nous dénoncions que le méga-fichier #TES, destiné à contenir le visage de l’ensemble de la population, servirait surtout, à terme, à généraliser la reconnaissance faciale à l’ensemble des activités policières : enquêtes, maintien de l’ordre, contrôles d’identité. Avec le port d’une caméra mobile par chaque brigade de police et de gendarmerie, tel que promis par Macron pour 2021, et la retransmission en temps réel permise par la loi « sécurité globale », ce rêve policier sera à portée de main : le gouvernement n’aura plus qu’à modifier unilatéralement son #décret_TES pour y joindre un système de reconnaissance faciale (exactement comme il avait fait en 2012 pour permettre la reconnaissance faciale à partir du TAJ qui, à lui seul, contient déjà 8 millions de photos). Aux robots dans le ciel s’ajouteraient des humains mutiques, dont le casque de réalité augmentée évoqué par le Livre Blanc, couplé à l’analyse d’image automatisée et aux tablettes numériques NEO, permettrait des contrôles systématiques et silencieux, rompus uniquement par la violence des interventions dirigées discrètement et à distance à travers la myriade de drones et de #cyborgs.

    En somme, ce Livre Blanc, dont une large partie est déjà transposée dans la proposition de loi sécurité globale, annonce le passage d’un #cap_sécuritaire historique : toujours plus de surveillance, plus de moyens et de pouvoirs pour la police et consorts, dans des proportions et à un rythme jamais égalés. De fait, c’est un #État_autoritaire qui s’affirme et se consolide à grand renfort d’argent public. Le Livre blanc propose ainsi de multiplier par trois le #budget dévolu au ministère de l’Intérieur, avec une augmentation de 6,7 milliards € sur 10 ans et de 3 milliards entre 2020 et 2025. Une provocation insupportable qui invite à réfléchir sérieusement au définancement de la police au profit de services publiques dont le délabrement plonge la population dans une #insécurité bien plus profonde que celle prétendument gérée par la police.

    https://www.laquadrature.net/2020/11/19/la-technopolice-moteur-de-la-securite-globale
    #France #Etat_autoritaire

    ping @isskein @karine4 @simplicissimus @reka @etraces

  • #Jeanne_Sarson et #Linda_MacDonald : Qu’est-ce qu’une analyse féministe et pourquoi nous en faut-il une dans l’enquête sur la fusillade de masse commise en Nouvelle-Écosse en avril ?
    https://tradfem.wordpress.com/2020/08/03/quest-ce-quune-analyse-feministe-et-pourquoi-nous-en-faut-il-une-


    Nous faisons les divulgations suivantes avant de répondre aux deux questions posées dans le titre.

    Nos écrits éthiques, professionnels et personnels sur les racines misogynes de la violence masculine envers les femmes et les filles sont influencés, avant tout, par nos enfances différentes mais similaires, où nous sommes nées de pères très violents qui battaient nos mères.

    Lorsque nous étions enfants, la violence conjugale n’était pas un crime en soi. Il était rare que les spectateurs se préoccupent de ces « affaires familiales » ou tentent d’intervenir dans ce domaine. De tels rejets sociaux étaient douloureux. Aujourd’hui, des décennies plus tard, bien que des lois aient été adoptées, le négationnisme des attitudes misogynes qui contribue à cette violence demeure et, comme on peut le constater, a contribué aux féminicides et homicides de masse commis en avril 2020 en Nouvelle-Écosse.

    Notre deuxième révélation est que moi, Jeanne, j’ai vécu le meurtre soudain de ma mère. Un chauffeur ivre l’a tuée sur le coup. Mes fils jumeaux n’avaient que quatre ans. Ils n’ont jamais eu l’occasion de vivre une relation avec elle comme grand-mère aimante. On m’a dit que le chauffeur ivre avait plusieurs fois été reconnu coupable de conduite en état d’ivresse et le lendemain, il est apparu dans une pub en portant un T-shirt où l’on pouvait lire : « Je suis un tueur ». C’était avant que MADD Canada ne devienne « un réseau national de victimes/survivants et de citoyens concernés qui travaillent pour mettre fin à la conduite en état d’ivresse et pour soutenir les victimes/survivantes de ce crime violent ». Lorsque ma mère a été tuée, la conduite en état d’ivresse était simplement considérée comme « macho » ou « comme un « comportement typique des jeunes hommes ».

    Traduction : #Tradfem
    Version originale : https://nsadvocate.org/2020/08/03/what-is-a-feminist-analysis-and-why-do-we-need-one-as-part-of-the-nova-scotia-mass-shooting-inquiry/?unapproved=82991&moderation-hash=8828e98f5a59f274a48c5ff1b9defc2f#comme
    #misogynie #violences_masculines #analyse_féministe #féminicide

  • Greece: Investigate Pushbacks, Collective Expulsions

    Greek law enforcement officers have summarily returned asylum seekers and migrants at the land and sea borders with Turkey during the Covid-19 lockdown, Human Rights Watch said today. The officers in some cases used violence against asylum seekers, including some who were deep inside Greek territory, and often confiscated and destroyed the migrants’ belongings.

    In reviewing nine cases, Human Rights Watch found no evidence that the authorities took any precautions to prevent the risk of transmission of Covid-19 to or among the migrants while in their custody. These findings add to growing evidence of abuses collected by nongovernmental groups and media, involving hundreds of people intercepted and pushed back from Greece to Turkey by Greek law enforcement officers or unidentified masked men over the last couple of months. Pushbacks violate several human rights norms, including against collective expulsion under the European Convention on Human Rights.

    “Greek authorities did not allow a nationwide lockdown to get in the way of a new wave of collective expulsions, including from deep inside Greek territory, ” said Eva Cossé, Greece researcher at Human Rights Watch. “Instead of protecting the most vulnerable people in this time of global crisis, Greek authorities have targeted them in total breach of the right to seek asylum and in disregard for their health.”

    Human Rights Watch interviewed 13 victims and witnesses who described incidents in which the Greek police, the Greek Coast Guard, and unidentified men in black or commando-like uniforms, who appeared to be working in close coordination with uniformed authorities, violently pushed migrants back to Turkey in March and April 2020.

    Six of those interviewed said Greek police officers rounded up people in the Diavata camp for asylum seekers in Thessaloniki, 400 kilometers from the land border with Turkey. This is the first time Human Rights Watch has documented collective expulsions of asylum seekers from deep inside Greece, through the Evros river.

    Six asylum seekers, from Syria, Palestine, and Iran, including a 15-year-old unaccompanied girl from Syria, described three incidents in March and April in which Greek Coast Guard personnel, Greek police, and armed masked men in dark clothing coordinated and carried out summary returns to Turkey from the Greek islands of Rhodes, Samos, and Symi. All of them said they were picked up on the islands soon after they landed, placed on larger Coast Guard boats, and once they were back at the sea border, were forced onto small inflatable rescue rafts, with no motor, and cast adrift near Turkish territorial waters.

    Another asylum seeker described a fourth incident, in which the Greek Coast Guard and unidentified men dressed in dark uniforms wearing balaclavas used dangerous maneuvers to force a boat full of migrants back to Turkey.

    On June 10, the International Organization for Migration reported that they had received allegations of migrants being arbitrarily arrested in Greece and pushed back to Turkey and asked Greece to investigate. On June 12, the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) urged Greece to investigate multiple reports of pushbacks by Greek authorities at the country’s sea and land borders, possibly returning migrants and asylum seekers to Turkey after they had reached Greek territory or territorial waters.

    In response to the Covid-19 pandemic, the Greek government instituted nationwide restrictions on public movement from March 13 until early May. Migrants and asylum seekers were locked down in some camps, mainly on the Greek islands, where restrictions on freedom of movement continue, and where the closing of government offices has left them in legal limbo.

    Human Rights Watch sent letters to the Greek police and the Greek Coast Guard on June 29, presenting authorities with a summary of findings but received no response. The Greek Coast Guard indicated they would reply but at the time of publication, we had received no communication.

    Greek judicial authorities should conduct a transparent, thorough, and impartial investigation into allegations that Greek Coast Guard and Greek police personnel are involved in acts that put the lives and safety of migrants and asylum seekers at risk, Human Rights Watch said. Any officer engaged in illegal acts, as well as their commanding officers, should be subject to disciplinary sanctions and, if applicable, criminal prosecution.

    The Greek parliament should urgently establish an inquiry into all allegations of collective expulsions, including pushbacks, and violence at the borders, and determine whether they amount to a de facto government policy.

    The Greek Ombudsman, an independent national authority, should examine the issue of summary and collective expulsions, and issue a report with recommendations to the Greek authorities, Human Rights Watch said.

    The European Commission, which provides financial support to the Greek government for migration control, including in the Evros region and the Aegean Sea, should urge Greece to end all summary returns and collective expulsions of asylum seekers to Turkey, press the authorities to investigate allegations of violence, and ensure that none of its funding contributes to violations of fundamental rights and EU laws. The European Commission should also open legal proceedings against Greece for violating EU laws prohibiting collective expulsions.

    On July 6, during a debate at the European Parliament on fundamental rights at the Greek border, the European Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, said that incidents should be investigated and indicated that the European Commission may consider a new system to monitor and verify reports of pushbacks amid increased allegations of abuse at the EU’s external borders. The Commission should take concrete measures to set up an independent and transparent investigation in consultation with members of civil society, Human Rights Watch said.

    Everyone seeking international protection has a right to apply for asylum and should be given that opportunity.

    Returns should follow a procedure that provides access to effective remedies and safeguards against refoulement – return to a country where they are likely to face persecution – and ill-treatment, Human Rights Watch said.

    “Greece has an obligation to treat everyone humanely and not to return refugees and asylum seekers to persecution, or anyone to the real risk of inhuman and degrading treatment or worse,” said Cossé. “Putting a stop to these dangerous incidents should be a priority for the Greek government and the European Commission as well.”

    For more information and accounts from migrants and asylum seekers, please see below.

    Sea Pushbacks to Turkey

    Between May 29 and June 6, 2020, Human Rights Watch interviewed six men from Iran, Palestine, and Syria, and one 15-year-old unaccompanied girl from Syria, who were in Turkey and who described three incidents in which they said the Greek Coast Guard, Greek police officers, and unidentified men in black or commando-like uniforms coordinated summary returns from Symi, Samos, and Rhodes in March and April. In the fourth incident, the Greek Coast Guard and unidentified men in uniforms wearing balaclavas used dangerous maneuvers to force the boat full of migrants back to Turkey from the Aegean Sea.

    Marwan (a pseudonym), 33, from Syria, said that on March 8, the Greek Coast Guard engaged in life-threatening maneuvers to force the small boat carrying him and 22 other passengers, including women and children, back to Turkey:

    “[W]e saw a Greek Coast Guard boat. It was big and had the Greek flag on it…. They started pushing back our boat, by creating waves in the water making it hard for us to continue…. It was like a battle – like living in Syria, we thought we were going to die.”

    In the three cases involving summary returns of people who had reached land, Greek law enforcement officers apprehended them within hours after they landed, and summarily expelled them to Turkey. All of those interviewed said that they were forced first onto large Coast Guard boats and then onto small inflatable rescue rafts, with no motor, and cast adrift near the Turkish sea border. In all cases, they said the Greek officers stole people’s belongings, including personal identification, bags, and money.

    These findings add to growing evidence of abuses collected by nongovernmental groups, including Alarm Phone and Aegean Boat Report, and the reputable German media outlet Deutsche Welle. Human Rights Watch was able to identify 26 reported incidents published by others, that occurred between March and July, involving at least 855 people. In 2015 Human Rights Watch documented that armed masked men were disabling boats carrying migrants and asylum seekers in the Aegean Sea and pushing them back to Turkish waters.

    Karim (a pseudonym), 36, from Syria, said that he arrived by boat to Symi island on March 21, along with approximately 30 other Syrians, including at least 10 children. He said that the Greek police approached the group within hours after they arrived. They explained that they wanted to claim asylum, but the officers detained them at an unofficial port site and summarily returned them to Turkey two days later, he said. They were taken on a military ship to open water, where the asylum seekers – including children and people with disabilities – were violently thrown from the ship’s deck to an inflatable boat:

    [T]hey [Greek police] put us in a military boat and pushed us [from the deck] to a small [inflatable] boat that doesn’t have an engine. They left us on this boat and took all our private stuff, our money, our IDs. We were on the boat and we were dizzy. We were vomiting. They [the Greek Coast Guard] didn’t tell us anything…. [W]e were in the middle of the sea. We called the Turkish Coast Guard. They came and took our boat.

    Karim and his extended family were detained in the Malatya Removal Center in the Eastern Anatolia region of Turkey, and in three other detention centers in Turkey, for seven weeks. They were released on May 7.

    In another incident at the end of March, 17 men and women and an unaccompanied girl from Iran, Palestine, and Syria were intercepted on a highway on the island of Rhodes, an hour after landing and forced back to the shore. They were detained in a tent for two days, without food and water, and then forced onto what they believe was a Greek Coast Guard boat on the third day, then dumped at sea in a small motor-less rescue raft. Human Rights Watch gathered four separate witness statements about the same incident, in which interviewees gave similar accounts. The Turkish Coast Guard rescued them.

    Leila L. (a pseudonym), 15, a Syrian girl traveling alone, said:

    On the third day, it was night, we don’t know what time, they told us to move … they looked like army commandoes and they had weapons with them. There were six of them, wearing masks … they pointed their weapons at us. We were pushed in a horrible way and they pushed our bags in the sea. Before getting on the first boat, they took everything from us – our phones, our IDs, our bags … everything, apart from the clothes we were wearing. We were very scared. Some people were vomiting. Think what you would feel if you’re in the middle of the sea and you don’t know what would happen to you. We stayed between two to three hours [in the sea]. The boat had no engine. It was a rescue boat. It was like a dinghy. After two to three hours, the Turkish Coast Guard drove us to shore.

    In another incident, Hassan (a pseudonym), 29, a Palestinian refugee from Gaza, said that the police apprehended him and his group of approximately 25 people about three hours after they arrived on the island of Samos, during the third week of March. He said the police took them to the shore, where another group of police and Greek Coast Guard officers were waiting:

    The Greek Coast Guard put us in a big boat…. We drove for three hours but then they put us in a small boat. It was like a raft. It was inflatable and had no motor. Like a rescue boat they keep on big boats in case there is an emergency. They left us in the sea alone. There was no food or water. They left us for two nights. We had children with us….

    Hassan said that a Greek Coast Guard boat came back on the third day, threw them a rope, and “drove around for two hours in the sea,” leaving them closer to Turkish waters. The Turkish Coast Guard rescued them.

    Video footage analyzed by Human Rights Watch from an incident that allegedly took place in the sea between Lesbos and Turkey on May 25, shows what appears to be women, men, and children drifting in an orange, tent-like inflatable life raft while three other rafts can be seen in the background. The rafts appear to be manufactured by the Greek company Lalizas, which according to publicly available information is a brand that the Greek Ministry of Maritime Affairs and Insular Policy purchases. The person speaking in the video alleges they were placed on those rafts by the Greek Coast Guard to force them back to Turkey.

    Human Rights Watch contacted the Lalizas company through email with questions on the use of the life rafts by the Greek Coast Guard, but received no response.

    In its June 10 statement, the International Organization for Migration notes that “footage showing the use of marine rescue equipment to expel migrants across the Eastern Aegean Sea are [sic] especially disturbing.”

    Collective Expulsions Across Land Border

    In May, Human Rights Watch interviewed six men from Afghanistan who described five separate incidents in which they were summarily returned from Greece to Turkey in March and April. They gave detailed accounts of the Greek police apprehending them in the Diavata camp, a reception facility in Thessaloniki.

    They said the police took them to what they thought were police stations that they could not always identify or to an unofficial detention site that they said was like a small jail, close to the Greek-Turkish border, robbed them of their personal belongings including their ID, phone, and clothes, and beat them with wooden or metal rods – then summarily expelled them to Turkey.

    In one case, a 19-year-old man from Kapisa, in Afghanistan, gave Human Rights Watch a photo of injuries – red strip-like marks across his back – he said were caused by beatings by people he believed were police officers.

    Reporting by Human Rights Watch and other groups suggests that collective expulsions of people with documents allowing them to be in Greece, from deep inside the mainland, appear to be a new tactic by Greek law enforcement.

    Five of the men had obtained a document from police authorities in Thessaloniki granting the right to remain in Greece for up to 30 days. While the document is formally a deportation order, the person should have the chance to apply for asylum during the 30-day period if they wish to and the document may, under certain circumstances, be renewed.

    The men said they had either not understood their rights or had been unable to apply for asylum, or to renew this document, due to Covid-19 related shutdown of government institutions. They said that before they were returned to Turkey, in the weeks following the nationwide lockdown due to Covid-19, they saw Greek police forces visiting the Diavata camp almost daily to identify and return to Turkey residents whose documents had expired.

    Greece suspended the right to lodge asylum applications for those who arrived irregularly between March 1 and 31, following tensions on the Greek-Turkish land borders at the end of February due to a significant and rapid increase in people trying to cross the border. The Emergency Legislative order said that these people were to be returned to their country of origin or transit “without registration.”

    Making the situation worse, the Asylum Service suspended services to the public between March 13 and May 15 to protect against the spread of the Covid-19 virus. During this period, applications for international protection were not registered, interviews were not conducted, and appeals were not registered. The Asylum Service resumed full operations on May 18 but the Greek Council of Refugees, a non-governmental group providing legal assistance to asylum seekers, said that no new asylum applications had been lodged by the end of May with the exception of people under administrative detention.

    Greek law requires authorities to provide for the reception of third-country nationals who are arrested due to unlawful entry or who stay in Greece under conditions that guarantee human rights and dignity in accordance with international standards. During the reception and identification procedure, authorities should provide socio-psychological support and information on the rights of migrants and asylum seekers, including the right to apply for asylum, and refer vulnerable people such as unaccompanied children and victims of torture to social services.

    Mostafa (a pseudonym), 19, from Afghanistan, said that in mid-April, Greek police rounded him up from Diavata camp, took him to a police station near the camp, and then transferred him to another small detention site near the border, where he was detained for a night, then forced onto a boat and expelled to Turkey:

    When they [the police] came to check my papers [at Diavata camp] I told them I couldn’t renew them because the office was closed but they didn’t listen to me…. They didn’t allow us any time. They just took us to the bus and said: “We will take you to renew the papers.” They were beating us the whole time…. [T]hey took us to the police station near the camp, there were more people, 10 people altogether…. [T]hey kept us in the rain for a few hours and then they transferred us to the border. There were two children with us – around 15 or 16 years old….When they took us to the police station, they took my coat, I was just with pants and a t-shirt and then at the border, they took these too. They took everything, my money, ID, phone.

    Mostafa gave the following description of the detention site near the border and the secret expulsion that followed:

    It was like a small police station. There were toilets. There were other migrants there. It was around four and a half hours away from the border. They carried us in a bus like a prison. We stayed in this small jail for one night, no food was given. It was at 10 or 11 o’clock at night when they took us to the border. I crossed with the boat. There were 18 people in one boat. It took six or seven minutes – then we arrived on the Turkish side. [T]he police were standing at the border [on the Greek side] and looking at us.

    Two men giving accounts about two separate incidents, said that the police took them to an unofficial detention site near the border. They described the detention locations as “small jails” and said they were detained there for a day or two.

    Four out of the six asylum seekers said that Greek security forces had abused them, throughout their summary deportation, beating them with heavy metal, plastic, or wooden sticks.

    Mohamed (a pseudonym), 24, from Afghanistan, said:

    They had a stick that all the police have with them…. The stick was made of plastic, but it was very heavy. They had black uniforms. I couldn’t see all of the uniform – I couldn’t see their faces – if I looked up they would beat us. They beat one migrant for five minutes…. There were eight of them – they asked us if we came from Thessaloniki and we said yes and then they started beating us.

    All of those interviewed said the Greek security forces stripped them of their clothes, leaving them in either just their underwear or just a basic layer, and took their possessions, including personal identification documents, money, telephones, and bags before pushing them back to Turkey.

    In a report published in March, Human Rights Watch documented that Greek security forces and unidentified armed men at the Greece-Turkey land border detained, assaulted, sexually assaulted, robbed, and stripped asylum seekers and migrants, then forced them back to Turkey. At the end of June, Greece’s Supreme Court Prosecutor opened a criminal investigation initiated by the Greek Helsinki Monitor, a nongovernmental group, into the pushbacks and violence documented by Human Rights Watch and others, as well as into the shooting and deaths of two people in Evros in March.

    Human Rights Watch documented similar situations in 2008 and 2018. In March 2019, the Public Prosecutor of Orestiada in Evros, initiated an investigation regarding the repeated allegations of systematic violence against migrants and asylum seekers at the Evros river, based on the Human Rights Watch 2018 report, and a report by three nongovernmental groups, including the Greek Council for Refugees.

    Border Violence Monitoring Network (BVMN), a nongovernmental group, has built an extensive database of testimony of people being pushed back from Greece to Turkey over the Evros river. Between March 31 and April 28, BVMN has reported at least 7 incidents involving more than 306 people. Among these cases, at least six people had legal documents regularizing their stay in Greece when they were summarily expelled.

    https://www.hrw.org/news/2020/07/16/greece-investigate-pushbacks-collective-expulsions

    #refoulements_collectifs #migrations #asile #réfugiés #life_rafts #Grèce #refoulement #push-backs #refoulements #frontières

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    sur les #life_rats :
    https://seenthis.net/messages/840285
    #life_raft #liferafts

    • Press Release: New Legal Centre Lesvos report details collective expulsions in the Aegean Sea

      Greek authorities are unlawfully expelling migrants who have arrived in Greece, and abandoning them at sea on motorless, inflatable vessels. In a report released today by Legal Centre Lesvos, testimonies from 30 survivors detail the systematic, unlawful and inherently violent nature of these collective expulsions.

      Since the Greek authorities’ one month suspension of the right to seek asylum on 1 March 2020, the Greek government has adopted various unlawful practices that are openly geared towards the deterrence and violent disruption of migrant crossings, with little regard for its obligations deriving from international law and specifically from the non refoulement principle – and even less for the lives of those seeking sanctuary.

      While collective expulsions from Greece to Turkey are not new, in recent months Greek authorities have been using rescue equipment – namely inflatable, motorless life rafts – in a new type of dystopic expulsion. Migrants are violently transferred from Greek islands, or from the dinghy upon which they are travelling, to such rafts, which are then left adrift in open water.

      In addition to the well-documented practice of non-assistance to migrant dinghies, the Greek authorities have damaged the motor or gasoline tank of migrant dinghies before returning the vessel – and the people on board – to open waters, where they are subsequently abandoned.

      These collective expulsions, happening in the Aegean region, are not isolated events. Direct testimonies from survivors, collected by the Legal Centre Lesvos, demonstrate that they are part of a widespread and systematic practice, with a clear modus operandi implemented across various locations in the Aegean Sea and on the Eastern Aegean islands.
      The information shared with the Legal Centre Lesvos is from 30 survivors, and testimonies from 7 individuals who were in direct contact with survivors, or were witness to, a collective expulsion. These testimonies, related to eight separate collective expulsions, were collected between March and June 2020, directly by the Legal Centre Lesvos.

      Collective expulsions are putting peoples’ lives at risk, are contrary to Greece’ international legal obligations and violate survivors’ fundamental and human rights, including their right to life and the jus cogens prohibitions on torture and refoulement. When carried out as part of a widespread and systematic practice, as documented in our report, these amount to a crime against humanity.

      Collective expulsions should undoubtedly be condemned, in the strongest possible terms; however, this is not sufficient: it is only through the immediate cessation of such illegal practices that the protection of human rights and access to asylum will be restored at the European Union’s external borders.

      Lorraine Leete, attorney and one of the Legal Centre Lesvos’ coordinators, said that:
      “The Greek authorities are abandoning people in open water, on inflatable and motorless life rafts – that are designed for rescue – with no regard for their basic safety, let alone their right to apply for asylum. Such audacious acts show the violence at the core of the European border regime, and the disregard that it has for human life.

      Greek authorities have denied reports of collective expulsions as “fake news”, despite a plethora of undeniable evidence, from survivors and various media outlets. This is untenable: evidence shared with the Legal Centre has shown that collective expulsions are happening in the Aegean sea, with a systematic and widespread modus operandi that amounts to crimes against humanity. They are being carried out in the open, in plain view – if not with the participation – of the European Border and Coast Guard Agency, Frontex. European Authorities are complicit in these crimes as they have thus far failed to act to prevent further pushbacks, or hold Greek authorities accountable.”

      https://legalcentrelesvos.org/2020/07/13/press-release-new-legal-centre-lesvos-report-details-collective-e

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      Pour télécharger le #rapport:


      http://legalcentrelesvos.org/wp-content/uploads/2020/07/Collective-Expulsions-in-the-Aegean-July-2020-LCL.pdf

      #Mer_Egée #Méditerranée

    • BVMN Visual Investigation: Analysis of Video Footage Showing Involvement of Hellenic Coast Guard in Maritime Pushback

      The following piece is a product of a joint-investigation by Josoor and No Name Kitchen on behalf of the Border Violence Monitoring Network.

      Introduction

      Since the spring, consistent and well-documented reports have shown masked men aggressively pursuing boats full of refugees, migrants, and asylum seekers in the Aegean Sea, before either destroying or off-loading the boats and initiating illegal return operations to Turkey.

      One investigation which Josoor contributed to, analyzed a set of materials documenting masked men operating from an inflatable boat off the island of Lesvos in early June. Testimonies recorded on the BVMN database [June 5th; June 3rd] as well as other media reports describe a series of incidents where Hellenic Coast Guard [HCG] vessels approach boats carrying men, women and children in the Aegean between Turkey and Greece and variably drove them back, intimidated them, or destroyed and removed their engines. Several of these operations have been marked by direct physical violence at the hands of the HCG. A more recent report from the New York Times referenced at least 1,072 asylum seekers being abandoned at sea by Greek officials in at least 31 separate expulsions since March.

      The consistency of these reports underscore a broader pattern of maritime pushbacks which, in many ways, mirrors the similarly illegal procedures which have become commonplace throughout Greece and along the Balkan Route.

      Despite numerous witness testimonies of this behavior, direct evidence linking specific Hellenic Coast Guard Vessels to these illegal practices remain sparse. New video evidence obtained by the association Josoor [a BVMN-member based in Turkey] from an incident on July 11th, may provide a crucial new perspective in the analysis of this behavior.

      https://giphy.com/gifs/U6MK9HH9ZdM33U74aA

      In this investigation, we will focus on a series of four videos [Link to videos 1, 2, 3, & 4] filmed on July 11th and obtained on the same day, showing masked men on a medium-sized vessel approaching a dingy filled with women and children. The man who filmed this video sent the materials over to Josoor while still on the dinghy, after this he reported being returned to Turkey and held in detention for a period of two weeks. The purpose of this analysis is to better identify the individuals and the vessel involved in the operation which resulted in the pushback of the group.

      Given the initial lack of a witness testimony for this event [which was unable to be obtained for several weeks due to the respondent’s detention in Turkey], we had limited material to work with. In order to address these shortcomings, we utilized various open-source techniques such as geolocating the video using topographic satellite renders, stitching together the scene with compiled images, and conducting research on the origins of the vessel carrying the masked men.

      Geolocating of the 11 July Incident

      An important part of this investigation was the geolocation of the incident in order to better understand the dynamics at play, and verify the pushback element.

      A useful hint in geolocating these videos was the distinct mountain lines featured in the background in two of the clips. In order to do this, we first isolated the ridge-lines shown in the backgrounds of these two clips by using a photo-stitching technique to produce a panorama of the scene.

      Using Google Earth’s topographic satellite renders of the Aegean Sea around the coastlines of Lesvos, we were then able to geolocate these two clips. In the background of the alleged pushback operation is the shore of Lesvos; Mytilini can be seen in the center right as the populated area in the background of the videos. This indicates that the dinghy was being chased east towards Diliki, Turkey as it was intercepted by the HCG vessel.

      This geolocated area matches with information posted from Turkish Coast Guard of a rescue operation on July 11th at 10:00 am off the coast of Dikili, Turkey. This was their only reported rescue of that day.

      Identification Of HCG Vessel Involved in the July 11th Incident

      The vessel in question’s colour is light grey and features a white and blue striped symbol towards the bow on the starboard side: the symbol of the Hellenic Coast Guard.

      Slightly farther towards the bow of the boat on its starboard side, the lettering marking the vehicle’s identification within the HCG can also be seen: ΛΣ-618

      The boat in question is one of two Faiakas-class fast patrol crafts (FPCs) currently operated by the Hellenic Coast Guard (HCG) – this one being the ΛΣ-618 and the other being ΛΣ-617. Under a contract awarded by the HCG in April 2014, the Montmontaza-Greben shipyard, located on the island of Korcula, Croatia, was awarded a 13.3 million euro ($15.5 million) contract to supply six of these vessels which are listed as POB-24G.

      The POB-24 vessels are 24.6 meters long, and are equipped with two diesel engines that enable a maximum speed of 30 knots and a range of 400 miles. The vessels are staffed by a crew of seven but can be augmented by up to 25 additional personnel if needed.

      Importantly, the acquisition of these vessels by the HCG was majority financed via the European Commission’s External Borders Fund which provided for 75% of the cost, with the rest consisting of domestic funding. The first of POB-24G vessels, ΛΣ-617, was delivered in February 2015 whereas ΛΣ-618 was launched into service several months later in August 2015. These boats have enhanced the operational capacity of the HCG by relieving pressure from its aging Dilos-Class patrol vessels.

      Identification of the officers present in the 11 July Incident

      While the men seen approaching the dinghy on board the ΛΣ-618 took steps to conceal their identities, context clues within the videos allowed us to draw a better picture of who exactly they were and what their behavior was.

      Six men can be counted standing on board the ΛΣ-618. The men wear dark colored clothing with short-sleeved shirts marked with a logo on their upper right torsos and have either dark colored shorts or long trousers on. All six have their faces covered with either black balaclava masks or neck gaiters – an important point to keep in mind when considering that in June, the Hellenic Coast Guard’s spokesperson stated that “under no circumstances do the officers of the Coast Guard wear full face masks during the performance of their duties”.

      The men in the image above are wearing clothes which share similarities with the uniforms worn by the Hellenic Coast Guard, as the picture below shows.

      The man closest to the bow of the boat holds a weapon which appears to be an FN FAL assault rifle whereas the man second from the stern looks at the group with either a camera or a pair of binoculars. FN-FAL rifles have been carried by Greek government forces since the 1970s, thus falling in line with the scene we are shown in the videos.

      Treatment of the refugees, migrants, and asylum seekers on board the dingy

      Our investigation of the events documented in this video, and what happened next to the refugees, migrants, and asylum seekers on board the dingy, prioritized a fact-finding search within the clips themselves. On the day of the incident, a Syrian man on board the dinghy sent four videos to Josoor. He claimed to have sent them from the dinghy as they were being approached by the vessels initially and then later after they were cast afloat into Turkish waters.

      In one of the videos, at least 32 people on board the now motorless dingy can be seen floating in largely calm waters. The video shows a largely mixed passenger demographic with the men, women, and children on the boat having a varied representation of skin colors. Turkish Coast Guard records from their single intervention of the coast of Dikili on July 11th reports a group of 40 refugees assisted of which 21 were Syrian, 8 Congolese, 4 Somali,
 3 Central African, 2 Palestinian, 
1 Senegalese, and 1 Eritrean. Accounting for the boat passengers not shown within the video, these numbers correspond with the video footage inside the dinghy.

      Giving his testimony of the event several weeks later to Josoor, the man who filmed these videos described that upon its initial approach of their dinghy, the AE-618 had a rigid-hulled inflatable boat (RHIB) deployed next to it which approached them. Allegedly, one of the officers spoke in English to a member of the dinghy group, who expressed their intention to claim asylum. The officer responded negatively to this request and told them that because of COVID-19, they would not be allowed to enter the island and had to return to Turkey. The respondent described that at first, the driver of the dinghy did not follow that order and subsequently the officers destroyed the engine of the dinghy and beat its driver with batons. As other group members tried to protect the driver, they were also beaten with batons.


      The officers subsequently dragged them to Turkish waters and then left the group floating there with the broken engine. After spending several more hours in the water, the Turkish Coast Guard arrived at the scene to rescue the passengers aboard the dingy. They took them to a quarantine detention center, from where they were released after 15 days.

      With closer analysis, the video footage is able to corroborate this account. In the final video sent by the Syrian dinghy passenger, the dinghy is shown to be floating quietly in the ocean. There is no indication of the ΛΣ-618 being present at this point and the group inside the dinghy appears uncertain. At one point in the video, the cameraman pans towards the stern of the boat and briefly shows its motor. When comparing a still of the motor in the final video to a still from the dinghy’s motor during its initial flight from the ΛΣ-618, it becomes clear that it was tampered with in the intervening time. Given the many substantiated reports of boat motor destruction at the hands of the HCG, it is most likely that the balaclava-clad men on the ΛΣ-618 destroyed the dinghy’s motor before setting it adrift towards Turkey

      Contextualizing the incident on 11 July

      In contextualizing the incident of 11 July in the broader practices of the HCG in the Aegean, it is important to look at the documented history of aggression of the ΛΣ-618. On March 7th, 2020 the boat ΛΣ-618 was involved in an incident with a Turkish Coast Guard boat wherein the Greek boat entered Turkish waters and was chased in close proximity at high speeds by the Turkish boat. More recently, in the early morning hours of August 15th, the boat was documented participating in an incident along with Nato and Frontex vessels [and several helicopters], blocking a boat carrying women and children from entering into Greek waters.

      Pushbacks in the Aegean Sea have been reported on a daily basis these past few months. Given the persistence of pushbacks in the area as well as the strong presence of Frontex vessels on the Aegean Sea, the tacit support that the European Union lends to the Hellenic Coastguard in these illegal practices must be considered. The EU-funded acquisition of the ΛΣ-618 represents just a portion of the close to 40 million euros which the EU has afforded the HCG to procure new vessels within the last five years. These boats, as it has been shown in this investigation, are being used to illegally push vulnerable people back to Turkish waters – a gross misuse of power.

      https://giphy.com/gifs/J4ClIZSSzrAUjmFySd

      Conclusion

      This investigation began by analysing a series of four videos showing masked men in a vessel approaching a small dinghy filled with refugees, migrants, and asylum seekers on the Aegean Sea who later claimed to be pushed back to Turkey from Greek waters. Using Earth Studio and photo-stitching techniques, we were first able to geolocate the video to somewhere on the Aegean between Mytilini, Greece and Diliki, Turkey. We were then able to identify the vessel as the Hellenic Coast Guard’s ΛΣ-618 Faiakas-class fast patrol craft by highlighting the clear HCG emblem visible on its side and it’s ship identification number. This allowed us to make a strong conclusion that the masked men on this boat, who wore uniforms identical to those previously worn by the vessel’s crew-members, were acting in an official capacity. Finally, we were also able to contextualize the ΛΣ-618 documented history of aggressive pursuits of boats carrying refugees and asylum seekers in Greek waters and also highlighted the vessel’s EU-linked acquisition from a Croatian boatbuilder.

      When put together, this analysis clearly links the materials shown in the videos to the well documented trend of maritime push-backs by the HCG in the last months. To be clear, the findings of this investigation directly contradicts the claims of the Hellenic Coast Guard’s spokesperson who recently stated that “under no circumstances do the officers of the Coast Guard wear full face masks during the performance of their duties”. Going even further, this investigation disproves the statement of Greek government spokesman Stelios Petsas who told the New York Times in August that “Greek authorities do not engage in clandestine activities.” This investigation also further confirms the conclusion of previous investigations that the Hellenic Coastguard is engaging in pushbacks, casting strong doubt on Prime Minister Mitsotakis statement from August 19 that “it has not happened.”Pushbacks, whether they be on land or on sea, are illegal procedures, emboldened and made more efficient by EU funding mechanisms.

      https://www.borderviolence.eu/bvmn-investigations-analysis-of-video-footage-showing-involvement-of-
      #analyse_visuelle #architecture_forensiques

    • Small Children Left Drifting In Life Rafts In The Aegean Sea!

      In yet another shocking breach of international law, men, women and children have been beaten, robbed and forced onto a life raft by Greek authorities, despite repeated government claims that it does not undertake ‘pushbacks’ of refugees into Turkey. Thirteen men, women and children were forcibly removed from a refugee camp in Lesvos on Wednesday night by uniformed operatives, who claimed the refugees were being taken to be tested for COVID-19. Instead, they were forced into an isobox, repeatedly beaten with batons, stripped of their possessions and forced into the sea on an inflatable life raft.

      On Wednesday night (17th February 2021) at around 19.00 EET, a boat carrying 13 people – 5 children, 3 women and 5 men – landed east of Eftalou, in northern Lesvos. They came ashore and walked into the woods to avoid being seen by people, because they were afraid of being found and pushed back to Turkey by the Hellenic coast guard.

      At 20.00, they contacted Aegean Boat Report on Whatsapp for help. It was a cold night and the children were freezing so the group needed to find shelter. At 20.10 they sent both their live location and regular location on Whatsapp, which showed they were just 300 meters from the quarantine camp in Megala Therma, Lesvos.

      At 20.18 the new arrivals were sent the camp’s location, and directions to it from their position. At first, they were scared of the police, but they decided to listen to the advice they were given, and walked to the camp. Infuriatingly and unforgivably, in light of what happened next, the refugees were proven correct to mistrust the Greek port police to accept and protect their rights as human beings.

      At 21.15, the 13 people arrived outside the Megala Therma camp, where they were met by that night’s port police duty officers, were told to wait inside the camp, while one officer made a phone call on his mobile phone. While the officer made this call, camp residents gave the new arrivals blankets and raisins, because the 13 were freezing and no support was provided by the police. At this point, the new arrivals were inside the camp, and the women and children used the toilets. This detail is important, because what happened next means these people were removed by force from a camp managed by the Greek Ministry of Migration, and illegally deported.

      When the officer returned, he told the new arrivals they were going to be taken to be tested for COVID-19, which camp residents who overheard found odd, because this is not usually done at night. On Wednesday evening there where 29 residents in the quarantine camp, so there are many witnesses of their arrival and later removal by police. There is no doubt that the 13 people later deported were inside Megala Therma camp.

      Aegean Boat Report has obtained a detailed description of the two officers on duty that night, and in coordination with a shift protocol from the port police, it would be fairly easy to determine the identity of these two officers in any official investigation.

      Police told the new arrivals to hand over their phones. They had eight phones between them, but at this stage they only handed three to the police. The officers then demanded that they walk west on the dirt track, but the people refused. They didn’t trust the police, because residents in the camp had told them that testing was not performed at night. The police insisted and the 13 people, five of them children, did not feel they could resist officer carrying guns.

      They walked for about 15 minutes, and arrived at a small white container. They were told to wait outside the container, and about 30 minutes later an officer arrived with a key and locked them inside. When they had calmed down enough, they wrapped the children in blankets, helped them to sleep, and at 22.36 EET, made a video which they sent, along with their location, to Aegean Boat Report.

      Local residents in the area confirm that police have placed a white container/Isobox next to the dirt track in this exact location, and the video sent by the new arrivals from inside the container, combined with the location sent at the same time, confirm that this was where they were locked up.

      After about one hour, a black or dark blue van arrived, and four men wearing unmarked dark blue or black, seemingly military, uniforms and balaclavas, and carrying batons entered the container shouting. The refugees, particularly the children, were very frightened, and the uniformed men screamed “Get up! Get up!” and hit people with batons to force them to stand. They immediately frisked them one by one, even the children, and stole their belongings, bags, money and three of the remaining mobile phones. The refugees report that the men paid particular attention to the women, putting their hands in private areas by force, which was especially humiliating, a violation which they were powerless to prevent. The officers next forced the men, women and children one by one into the back of the van like cattle. Those who resisted were again beaten with batons.

      The refugees said it felt like they had travelled for hours in the van, but it was difficult to get a real feeling of time in their situation. When they eventually arrived, they were taken out of the van, each struck 2-3 times with batons and ordered to look at the ground. Those who didn’t were beaten again. They had arrived in a port, made of concrete, which had floodlights, a fence, and a flat roofed square building. But as they were beaten every time they tried to look around, it was hard for them to be certain about their surroundings. From their description, travel time from the container, and the travel time in the boat to the point they were abandoned in a life raft, it’s fairly certain that the port is the Schengen port in Petra, north-east Lesvos, which has been used frequently in the last months for illegal deportations by the Hellenic coast guard. (Another Proven Pushback!)

      In similar previous cases, people have been taken from the port in large vessels, but this time they were put on a small boat, described by the refugees as a grey rubber speedboat with two engines and a four-man crew. They were placed in the front of the boat, which was piloted by one crew member in its centre. The boat described is almost certainly a Lambro coastal patrol RIB used by the Hellenic coast guard, usually to help people in distress. The five children, three women and five men were forced onto this RIB by four men in the same dark military uniforms and balaclavas as those who had robbed, beaten and forced them into a van. The refugees could not say if they were the same four men who had picked them up and beaten them at the container, but they, too, beat the men, women and children as they forced them into the RIB, ordering them to “look down”.

      They were travelling in the boat for less than 30 minutes, including a short stop close to a large grey vessel, after only 10 minutes. One of the officers spoke on the radio with the large vessel in a language the refugees thought was Greek, and was certainly not English. They described the vessel as grey with blue and white stripes on the front – a description which matches the appearance of the Hellenic Coast Guard vessels which patrol the border area.

      The boat stopped after approximately 30 minutes, and then an orange tent shaped inflatable life raft was cast over the side. One of the officers went into the raft and put up a small light inside, then the officers pushed the people into the raft one by one. This took only a few minutes, and as soon as all 13 people had been forced into the raft, the boat with the Greek officers left the men, women and children alone, in the dark, helplessly drifting in the sea. Not one of the people – even the children – in the life raft were given life jackets, and sea water had already found its way into the life raft.

      At 01.29, they a video was sent to Aegean Boat Report, showing the people inside the life raft. Soon after, alone, cold, tired, powerless, and vulnerable, the refugees began to panic. Using one of the phones they had managed to hide when they were robbed by the uniformed officers, they called the Turkish coast guard.

      At 04.10 the Turkish coast guard reported they had found and rescued 13 people from a life raft drifting outside Behram, Turkey.

      Aegean Boat Report received a third video the following day, this time from inside a bus, and a location that showed they were heading towards Ayvacik, Turkey.

      This video is of the same people in the video from the container on Lesvos, and from the life raft helplessly drifting in the Aegean Sea.

      And there is absolutely no doubt who is responsible for their illegal deportation. Despite the fact that the Greek government continues to claim to follow all international laws and regulations.

      Last week, the minister of asylum and immigration, Notis Mitarachis, once again denied claims that Greece is pushing refugees back to Turkey, calling the allegations “fake news,” and claiming they are part of a strategy promoted by Turkey. For some reason he has not chosen to explain this strategy. (Greek migration minister calls allegations of migrant pushbacks ‘fake news’)

      And yet, even as Mitarachis and his government continues to make these claims, more and more people are illegally set adrift in the Aegean Sea, having been forcibly removed from refugee camps, beaten, stripped of their possessions, and forced onto inflatable rafts by uniformed people operating in Greece.

      https://aegeanboatreport.com/2021/02/22/small-children-left-drifting-in-a-life-raft-in-the-aegean-sea-appr

    • Uno-Flüchtlingshilfswerk zählt Hunderte mutmaßliche Pushbacks

      Das Uno-Flüchtlingshilfswerk (UNHCR) erhöht wegen der Rechtsverletzungen in der Ägäis den Druck auf die griechische Regierung. Seit Beginn des vergangenen Jahres habe man »mehrere Hundert Fälle« von mutmaßlichen Pushbacks registriert, sagte die UNHCR-Repräsentantin in Griechenland, Mireille Girard, dem SPIEGEL.

      Das UNHCR habe den Behörden die entsprechenden Hinweise übergeben. In allen Fällen lägen der Organisation eigene Informationen vor, die auf illegale Pushbacks an Land oder auf See hindeuten. »Wir erwarten, dass die griechischen Behörden diese Vorfälle untersuchen«, sagte Girard. »Das Recht auf Asyl wird in Europa angegriffen.«
      Pushbacks verstoßen gegen internationales Recht

      Der SPIEGEL hat seit Juni 2020 in gemeinsamen Recherchen mit »Report Mainz« und Lighthouse Reports gezeigt, dass die griechische Küstenwache Flüchtlingsboote in der Ägäis stoppt, den Motor der Schlauchboote kaputt macht und die Menschen wieder in türkische Gewässer zieht. Anschließend setzen die griechischen Beamten die Migrantinnen und Migranten auf manövrierunfähigen Schlauchbooten auf dem Meer aus. Manchmal benutzen sie auch aufblasbare orange Rettungsflöße. Am griechisch-türkischen Grenzfluss Evros kommt es zu ähnlichen Aktionen.

      DER SPIEGEL

      Diese sogenannten Pushbacks verstoßen gegen internationales und europäisches Recht – unter anderem, weil den Schutzsuchenden kein Zugang zu einem Asylverfahren gewährt wird. Griechenland bestreitet die Anschuldigungen pauschal, bei den Augenzeugenberichten und geolokalisierten Videos handele es sich um »Fake News«.

      Auch die europäische Grenzschutzagentur Frontex ist in die Pushbacks verwickelt, sie führt in der Ägäis gemeinsame Operationen mit der griechischen Küstenwache durch. In mindestens sieben Fällen befanden sich Frontex-Einheiten in der Nähe von Pushbacks, in einigen Fällen übergaben die europäischen Grenzschützer den Griechen die Flüchtlinge sogar, diese übernahmen dann den Pushback. Ein deutscher Bundespolizist im Frontex-Einsatz verweigerte deswegen den Dienst.

      Die EU-Antibetrugsbehörde Olaf, das EU-Parlament und die Ombudsfrau der EU untersuchen derzeit die Pushbacks. Eine interne Frontex-Untersuchung konnte nicht alle Vorfälle aufklären.

      Die griechischen Behörden schleppen selbst Geflüchtete zurück aufs Meer, die bereits europäischen Boden erreichen konnten. Der SPIEGEL konnte zwei dieser Fälle zweifelsfrei nachweisen. Im April 2020 war eine Gruppe Asylsuchender auf Samos angekommen, im November eine auf Lesbos.
      UNHCR dokumentierte Pushback von Lesbos

      Das UNHCR hat nun ebenfalls einen solchen Fall aufgezeichnet. Am 17. Februar 2021 seien 13 Asylsuchende auf Lesbos angelandet, sagte Girard. Griechische Inselbewohner hätten das UNHCR alarmiert, die Organisation habe dann den lokalen Behörden Bescheid gegeben.

      Die griechische Polizei habe die Geflüchteten in einen Container in einem Quarantänecamp im Norden der Insel geführt. Dann seien vermummte Männer gekommen, hätten die Migrantinnen und Migranten, darunter Frauen und Kinder, zum Hafen gefahren und die Menschen in einem aufblasbaren Rettungsfloß antriebslos auf dem Meer zurückgelassen. Später wurden sie von der türkischen Küstenwache gerettet.

      Das UNHCR habe den Fall detailliert rekonstruiert sowie Zeugen und die Überlebenden interviewt. Es bestehe kein Zweifel, dass die Menschen auf Lesbos angekommen und illegal in die Türkei zurückgeführt worden seien, sagt Girard. Solche Aktionen seien illegal. »Der Vorfall muss untersucht werden und Konsequenzen haben.«

      Die teilweise gewalttätigen Aktionen führten dazu, dass Geflüchtete sich inzwischen oft vor den Behörden versteckten, so Girard weiter. »Die Asylsuchenden sind ohnehin schon traumatisiert, wenn ihnen nun in Europa wieder Gewalt angetan wird, retraumatisiert sie das«, sagt Girard. »Besonders die Kinder haben damit noch jahrelang zu kämpfen.«

      https://www.spiegel.de/politik/ausland/uno-fluechtlingshilfswerk-zaehlt-hunderte-mutmassliche-pushbacks-a-01b3fb03-

      #vidéo

  • Covid-19 : analyse spatiale de l’influence des facteurs socio-économiques sur la prévalence et les conséquences de l’épidémie dans les départements français
    https://economix.fr/uploads/source/media/MA_GA_NL-Covid19_2020-04-18.pdf

    Cette recherche met en évidence que, au-delà de l’importance des caractéristiques individuelles comme facteurs explicatifs de la probabilité de contracter la Covid-19 et de ses conséquences, les
    éléments liés au contexte économique, démographique et social interviennent également. Les départements les plus denses, les plus inégalitaires ainsi que ceux dans lesquels la part d’ouvriers est la
    plus élevée se sont en effet révélés les plus vulnérables. Ces caractéristiques soulignent d’abord la complémentarité entre les politiques de santé d’une part et les politiques sociales et de redistribution de l’autre. Le rôle des services d’urgence comme facteur de réduction des manifestations de l’épidémie va dans le même sens. Il montre en effet qu’en présence d’inégalités les services publics, en l’occurrence de santé, permettent de protéger les populations de la maladie et de réduire les décès. Ensuite, en
    mettant en évidence le rôle de la densité démographique, cet article rappelle que les départements ruraux ou les moins peuplés ne sont pas les plus vulnérables mais que les territoires métropolitains
    présentent aussi des faiblesses au niveau de la prise en charge des malades qu’il est important de considérer. Enfin, les disparités locales et les effets de débordement que nous avons mis en évidence
    vont dans le sens d’une régionalisation poussée de la mise en œuvre des politiques de santé. Menées au plus près des territoires, ces dernières peuvent en effet être en mesure de mieux prendre en
    considération les effets de proximité géographique et socio-économiques qui prévalent au niveau de leur périmètre d’action et, ainsi, être mieux à même d’affecter les ressources humaines et financières.

    #COVID-19 #densité #inégalités_sociales #santé #urgences

  • La pandémie COVID-19 – la dimension géographique du phénomène

    Basé sur des messages transmis par des collègues du laboratoire EDYTEM de l’Université de Savoie :

    La diffusion d’une pandémie comporte des aspects éminemment géographiques, qui font appel aux modèles de diffusion, à l’analyse des réseaux, à celle des mobilités, … Elle se prête à la représentation cartographique, et pose à ce titre des problèmes de sémiologie graphique spécifique. La diffusion d’une épidémie est aussi le reflet du fonctionnement d’une société, et à ce titre la rapidité de la diffusion de l’épidémie de COVID-19 dans le monde est évidemment le résultat de la mondialisation. En même temps, cette mondialisation et la diffusion quasi instantanée de l’information permet de suivre en temps réel la propagation de l’épidémie. Les outils de cartographie interactive en temps réel deviennent ainsi un réel outil de gestion de crise.

    Pour ceux qui le souhaitent, on vous invite d’abord à consulter l’excellent article suivant, qui fait la synthèse à la fois historique et actuelle des approches géographiques, et plus généralement graphiques, des épidémies. :
    https://cartonumerique.blogspot.com/2020/01/cartographie-epidemies.html

    Il est régulièrement mis à jour. Vous y verrez comment une analyse de la progression du virus, par les cartes, est riche d’enseignements, mais aussi parfois peut être anxiogène selon la sémiologie retenue. Vous y verrez aussi tout un tas de documents, graphes et courbes, renvoyant aux outils d’#analyse_spatiale.

    Beaucoup de liens et de sites sont listés notamment à la fin de l’article.
    La diffusion d’une pandémie est systémique et elle se prête également à la modélisation. Cette approche cherche à expliquer et comprendre ce système complexe.

    Un site web interactif a été créé par une équipe de chercheurs de différentes disciplines, tous spécialistes de la modélisation des systèmes complexes et désireux de mobiliser leurs compétences pour répondre aux nombreuses interrogations que soulève l’épidémie de COVID-19. L’idée est de permettre à chacun de poser la/les questions qui le travaillent et d’y répondre, aussi rapidement que possible, en mobilisant les connaissances scientifiques sur le sujet mais aussi des outils de visualisation scientifique, de modélisation et de simulation.
    https://covprehension.org

    D’autres ressources :

    Sur la géographie de la #quarantaine et la fameuse courbe que l’on cherche à aplatir :
    https://www.geographyrealm.com/geography-of-quarantines

    Un article sur #mondialisation et #épidémie : il montre l’influence des mégacités et de leur interconnexion dans la diffusion des épidémies. Il a été écrit avant la pandémie actuelle, mais sa pertinence ne s’en trouve que renforcée :
    http://cafe-geo.net/wp-content/uploads/epidemies-mondialisation.pdf

    N’oublions pas que c’est une #analyse_géographique (par la #cartographie) qui a permis, en 1854, à #John_Snow, médecin britannique, d’identifier la source de l’épidémie de #Choléra à #Londres.
    https://fr.wikipedia.org/wiki/%C3%89pid%C3%A9mie_de_chol%C3%A9ra_de_Broad_Street

    Cette approche géographique est évidemment majeure dans la discipline « #épidémiologie »
    https://fr.wikipedia.org/wiki/%C3%89pid%C3%A9miologie

    Cependant, un article de 2016 met en garde sur « l’épidémie cartographique », à propos du #traitement_cartographique de la crise du virus #Ebola :
    http://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/dossiers-thematiques/geographie-de-la-sante-espaces-et-societes/geographie-appliquee/tous-cartographes-ebola

    Le site d’ESRI propose des cartographies interactives sur la France, mais aussi sur de nombreux pays :
    https://www.esrifrance.fr/coronavirus-ressources.aspx

    –-> compilation de liens par Philippe Schönheich, reçue par mail, le 06.04.2020

    #géographie #pandémie #épidémie #coronavirus #covid-19 #ressources_pédagogiques #flattening_the_curve

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    • Géopolitique du Covid-19

      La #propagation du virus, qui ne cesse de s’étendre, suit une logique de diffusion très claire : celle de la #mondialisation, et plus exactement de la #mondialisation_urbaine. De Wuhan à Milan en passant par New York et Lagos, un tour du monde du Covid-19 révèle que la pandémie est non seulement une métaphore mais une enfant de la mondialisation. Elle ne fait que mettre ses pas dans ceux des hommes et ne fait que calquer son rythme, sa vitesse de propagation et sa #géographie sur ceux de l’humanité mondialisée.

      Ce qui frappe, dans le flot de reportages, de tentatives d’explication, d’articles parus jusqu’ici sur le coronavirus, c’est la focalisation sur l’aspect pandémique (nombre de morts, de personnes infectées, extension de la maladie, etc.) ou politique de la crise (mauvaise gestion de la pandémie par les gouvernants italien ou américain, quarantaine stricte comme en Chine ou souple comme en Allemagne, etc.) ainsi que sur « l’après ». En revanche, étrangement, peu de monde semble s’intéresser à la géographie de la pandémie : où est-elle née ? Comment s’est-elle diffusée ? Quels en sont les principaux foyers ? Pourquoi tels pays sont-ils plus touchés que d’autres ? En clair, qu’est-ce que la pandémie nous dit de notre monde ?
      Hormis la compassion qu’on éprouve nécessairement devant les drames qui se nouent sous nos yeux en Italie, en Espagne et ailleurs, il est nécessaire de garder la tête claire et de décoder la trajectoire géographique du Covid-19. Car même si l’on a aujourd’hui l’impression que le virus s’abat partout, qu’il frappe au hasard aussi bien en Inde qu’en Afrique ou en Iran, en fait, il suit une logique de diffusion très claire : celle de la mondialisation, et plus exactement de la mondialisation urbaine.
      Dès l’origine, la mondialisation explique vraisemblablement la naissance du virus dans la province du Hubei en Chine à la fin de l’année 2019. Même si elle demande à être confirmée par les scientifiques, l’hypothèse la plus plausible repose sur l’idée que la chauve-souris aurait transmis le coronavirus au pangolin, et que ce dernier l’aurait à son tour transmis à l’homme. Or, le pangolin est l’un des animaux les plus braconnés au monde. Il existe notamment un trafic illégal très important qui part de l’Afrique (Cameroun, RDC, Centrafrique, Guinée, Gabon, Congo, Nigeria) ainsi que de l’Asie du Sud-Est (Birmanie notamment) et qui a pour destination essentiellement la Chine, où l’animal arrive vivant.
      Mais avant de devenir le symbole de la pandémie, le petit mammifère à écailles figurait depuis longtemps comme l’un des symboles du trafic animal international et d’une forme de mondialisation illégale sur laquelle tout le monde ou presque fermait les yeux. Comme les deux pandémies précédentes au début des années 2000 (virus H5N1 et Sras), le coronavirus est donc parti des régions rurales chinoises, où la tradition d’élevages intensifs d’animaux, y compris des animaux sauvages, en dehors de tout respect des conditions élémentaires d’hygiène et sanitaires, perdure, sans que les autorités y aient mis fin. Cette pratique crée un danger pour l’homme quand un virus animal se transmet à l’homme. C’est ce qui s’est passé dans le Hubei dès la fin de l’année 2019.
      Malheureusement, l’État chinois a d’abord nié le problème pendant trois semaines, laissant se dérouler les fêtes du Nouvel An chinois qui ont permis au coronavirus de se propager partout, notamment dans la capitale régionale, Wuhan, qui va devenir l’épicentre de la crise et qui va vivre sous quarantaine totale pendant onze semaines. Succès – très médiatisé – de l’opération à Wuhan et en Chine… Mais le virus, lui, s’était déjà diffusé ailleurs. Malgré ce que nous font croire les autorités chinoises avec des chiffres qu’on ne pourra jamais vérifier, il est clair que le coronavirus n’a pas été contenu à la seule province du Hubei. Il s’est très probablement diffusé aux provinces voisines, le Hunan, le Chongqing, le Henan, et aux métropoles, Shanghai et Pékin.
      Ensuite, vu les liens commerciaux et humains que la Chine continentale entretient avec Taïwan, Singapour, Hong Kong et la Corée du Sud, il n’est pas étonnant de constater que ces pays sont les premiers touchés par la vague pandémique hors de Chine, au tout début de l’année 2020. Dans un deuxième temps, le virus s’étend à la fois en direction de l’ouest, vers l’Inde, le Pakistan et l’Iran, ainsi que vers le sud suivant en cela les nouvelles routes de la mondialisation : Viet Nam, Thaïlande, Cambodge sont touchés à leur tour. Les flux migratoires sont intenses dans cette partie de l’Asie du Sud-Est transformée en gigantesque « atelier du monde » notamment dans l’industrie textile. Les donneurs d’ordre sont américains, libanais, français, italiens, allemands… À cette époque-là, l’Europe pense encore que l’épidémie sera contenue en Chine et en Asie du Sud-Est. Elle ne réagit pas aux alertes lancées par l’Office Mondial de la Santé (OMS). Fatale erreur.
      Le premier foyer (et non pas cas) avéré du coronavirus détecté sur le sol européen le 21 février 2020 se trouve en Italie du Nord, en Lombardie, plus précisément dans la région de Bergame, non loin de Milan. La Lombardie, avec ses 10 millions d’habitants, est de loin la région la plus prospère et la plus performante d’Italie : elle réalise à elle seule 22% du PIB du pays. C’est aussi, avec la Vénétie voisine, la région la plus urbanisée de la péninsule avec son maillage complexe et interdépendant de grandes villes, de villes moyennes, de petites villes et de villages qui a permis la diffusion très rapide du virus, comme Michel Lussault le montre remarquablement dans son article paru dans AOC le 14 avril.
      Grâce notamment à son industrie textile et son industrie de la mode mondialement réputée, la Lombardie est connectée à la planète entière. Les fabricants de vêtements, de chaussures ou d’accessoires disposent de succursales, d’usines et de filiales partout, surtout en Asie du Sud-Est. Est-ce par ces relations commerciales que le virus, via quelques individus infectés, s’est transporté de la Chine intérieure à l’Italie du Nord ? On ne le sait pas mais c’est probable.
      Toujours est-il que depuis l’épicentre de la Lombardie, le virus a d’abord ravagé Bergame, Brescia et Milan, capitale économique de l’Italie, avant de remonter vers le Nord et de gagner le Tyrol, l’Autriche et la Bavière (le Land le plus touché d’Allemagne actuellement), puis de descendre vers le Sud de la Péninsule, vers Rome, Naples et Bari, heureusement sous une forme moins létale. Ce qui est sûr, c’est que le virus prospère dans les grandes villes. Rien de plus normal puisque celles-ci constituent des concentrés de population dont de nombreux groupes socio-professionnels extrêmement mobiles (hommes d’affaires, commerciaux, artistes, étudiants en échange universitaire, touristes, sportifs professionnels, travailleurs migrants et saisonniers…). L’équation virus / métropole / mondialisation va se vérifier de manière limpide en Espagne.
      Fruits d’une certaine forme de mondialisation religieuse, les pèlerinages constituent aussi des foyers potentiels de pandémie et diffusent le virus très rapidement dans le monde.
      La façon dont le virus a pénétré en Espagne fin janvier puis début février 2020 est un résumé de la mondialisation. Le 31 janvier 2020, un touriste allemand est testé positif sur l’île de la Gomera dans les Canaries. Le virus est alors présent sur le sol espagnol et il va se propager à tout le pays à la suite d’un deuxième événement : le 19 février, alors que l’épidémie commence à sévir en Italie, 2 500 supporters du club de football de Valence effectuent le voyage en Italie pour supporter leur équipe en 1/8 de finale aller de Ligue des Champions contre l’Atalanta de… Bergame. Le match a lieu au stade San Siro de Milan. Bergame et Milan sont les haut lieux de la pandémie, et vu la promiscuité existant dans les stades de foot et dans les bars pour la « troisième mi-temps » d’après-match, il est évident que nombre de supporters espagnols ont été infectés à cette occasion[1].
      Peu de temps après, Valence et surtout Madrid deviennent les principaux foyers du virus en Espagne, ainsi que Barcelone en Catalogne. Madrid (capitale et première ville du pays), Barcelone (capitale économique et deuxième ville du pays), Valence (grande ville touristique, premier port à conteneurs de Méditerranée, premier port de marchandises d’Espagne, troisième ville du pays) : de nouveau, le coronavirus frappe le pays au cœur, là où le double mouvement de métropolisation et de mondialisation a été le plus efficace pour assurer aux métropoles productives et attractives ainsi qu’à leur hinterland prospérité et rayonnement.
      La France, quant à elle, est touchée à peu près au même moment que l’Espagne. Le confinement est déclaré le 13 mars. Le premier foyer de coronavirus déclaré n’a, à première vue, pas grand-chose à voir avec le processus de mondialisation. Il s’agit de la région Grand-Est, avec comme épicentre la ville de Mulhouse, quasiment frontalière avec l’Allemagne et la Suisse. Or, comme on le sait maintenant, Mulhouse avait accueilli fin février un très grand rassemblement évangélique avec des fidèles venant du monde entier, y compris d’Italie et d’Asie. Au cours de ce rassemblement, des centaines de personnes ont été contaminées à leur insu et ont ensuite regagné leur foyer non seulement en Alsace mais aussi partout en France, jusqu’en Guyane. À Mulhouse, la situation fut très vite dramatique, les hôpitaux furent débordés et on n’y pratique plus qu’une « médecine de catastrophe » ou une « médecine de guerre », aux dires des soignants.
      Ce triste épisode nous rappelle que les rassemblements religieux ou œcuméniques et les pèlerinages (La Mecque, Jérusalem, Lourdes, Saint-Jacques de Compostelle…) mettent en contact des fidèles ou des pèlerins qui viennent de régions très éloignées les unes des autres. Fruits d’une certaine forme de mondialisation qu’on peut qualifier de mondialisation religieuse, ils constituent donc des foyers potentiels de pandémie et ils diffusent le virus très rapidement dans le monde.
      L’autre grand foyer français est plus « attendu » : il s’agit de Paris et de l’Île-de-France. Cette région concentre 19% de la population française sur seulement 2,2% du territoire national, et elle présente ainsi des densités de population extrêmement élevées : plus de 1 000 habitants par km² dans la région et jusqu’à 21 000 habitants par km² pour la ville de Paris. En outre, elle concentre un quart de l’emploi national et 31% de la richesse. Très attractive, ville globale, Paris attire des salariés de toute la France, de toute l’Europe et du monde entier. Paris et l’Île-de-France étaient donc, d’une certaine manière, prédestinées à être sévèrement touchées par la pandémie de Covid-19. C’est exactement le même schéma qui s’est produit deux semaines plus tard à New York aux États-Unis.
      Les États-Unis, probablement touchés par la pandémie juste après l’Europe, ont perdu des semaines très précieuses en minimisant, par la voix de leur président, l’impact du virus sur le sol américain. Mi-février, le président Trump annonçait qu’il avait bon espoir que la pandémie soit terminée en avril. On sait maintenant que le mois d’avril restera comme le plus meurtrier dans l’histoire du Covid-19 aux États-Unis. Il faudra attendre le dimanche 1e mars pour que soit officiellement annoncé le premier malade atteint de coronavirus à New York, une auxiliaire médicale revenue d’Iran (belle ironie de l’histoire quand on sait que l’Iran est l’ennemi juré des États-Unis). Cela dit, le virus était déjà présent aux États-Unis avant le 1e mars, des centaines d’Américains revenus d’Asie ou d’Europe étant infectés sans le savoir.
      Depuis la fin du mois de mars, New York est l’épicentre de la pandémie aux États-Unis, avec une situation sanitaire tout aussi dramatique que dans les pires foyers de crise européens mais démultipliée par les caractéristiques de la ville : ville ouverte et global city par excellence, concentrant 20 millions d’habitants (ville et État) dont beaucoup d’étrangers, hub mondial (JFK), New York est la capitale de l’économie-monde et la bourse de Wall Street en est le cœur. D’un point de vue géographique, New York est une ville à la fois très dense dans l’hypercentre (sur l’île de Manhattan notamment) et assez étalée vers ses périphéries. Enfin, elle est située au cœur de la mégalopolis nord-américaine « BosWash » et ses 60 millions d’habitants. Il ne faut donc pas s’étonner si, à part New York, les grandes villes de la mégalopole, Boston, Philadelphie, Washington, Baltimore, sont touchées à leur tour.
      Entre-temps, les autres grandes régions économiques des États-Unis, la Floride et Miami, la Californie et Los Angeles, l’État de Washington, sont également touchés. Dans cet État, Seattle, la capitale, n’échappe pas à la pandémie, au contraire. Le comté de King, qui englobe la ville de Seattle, constitue le principal foyer de Covid-19 aux États-Unis avec New York. C’est à Seattle que le premier cas avéré de coronavirus a été détecté sur le sol américain, le 21 janvier 2020. Le patient était un homme de 35 ans rentré de Wuhan quelques jours auparavant. Pensant avoir dans un premier temps circonscrit le virus, les autorités ont dû acheter en catastrophe des « motels de la quarantaine » pour y placer des personnes fragiles et des sans domicile fixe, au grand dam de la population locale.
      Ironie ou plutôt leçon de l’histoire, Seattle fait figure de ville très dynamique, hyper-connectée et à l’avant-garde de la modernité. Elle concentre les sièges sociaux de trois des firmes transnationales les plus puissantes du monde, Boeing, Microsoft et Amazon. À ce titre, et de par sa situation sur la côte Pacifique des États-Unis, elle attire des salariés du monde entier à commencer par l’Asie (Chine, Corée du Sud, Japon, Taïwan…) avec laquelle elle entretient des liens étroits. Enfin, sa proximité géographique, linguistique et culturelle avec la métropole de Vancouver au Canada en fait l’une des régions économiques les plus attractives du pays — mais aussi l’une des zones de contamination potentielle les plus virulentes.
      La carte du degré d’intensité de la pandémie sur le continent africain est un décalque de la carte de la mondialisation.
      À l’autre bout du continent, le premier cas de contamination au Covid-19 en Amérique du Sud est signalé le 26 février 2020 au Brésil. La personne en question avait voyagé en Italie. À partir de là, le virus va se propager sans heurts pendant tout le mois de mars, notamment dans la capitale économique et première métropole du sous-continent, Sao Paulo. C’est cette ville qui concentre la majorité des cas de Covid-19 même si, entre-temps, l’épidémie s’est propagée aux autres grandes villes du pays, Rio et Belo Horizonte. Les autres métropoles d’Amérique latine, Buenos Aires, Bogota, Caracas, sont aussi les plus touchées et font office de porte d’entrée du virus sur le sous-continent, virus qui ensuite se répand aux villes moyennes et aux régions de l’intérieur.
      Du fait des deux tendances fortes à la métropolisation et à la littoralisation de l’économie latino-américaine, ce sont les métropoles côtières qui sont de loin les plus touchées par le virus. Par leurs ports de commerce, leur aéroport international et leurs firmes transnationales, ces métropoles reçoivent et émettent des flux incessants d’hommes et de marchandises. Ce sont donc des proies de choix pour le virus. Certaines sont d’ores et déjà dans des situations critiques puisqu’à la crise sanitaire s’ajoute la pénurie alimentaire.
      Ainsi, Guayaquil, deuxième ville d’Équateur avec 3,6 millions d’habitants, qui s’enorgueillit sur Wikipedia d’être « un port très actif », « l’aéroport international le plus moderne du Sud » et « la gare de bus la plus moderne d’Amérique latine », paye un prix très élevé à son ouverture internationale. La « perle du Pacifique » est aujourd’hui, avec ses rues jonchées de cadavres, la ville-martyr du Covid-19 en Amérique du Sud. Officiellement, le Covid-19 aurait fait 120 victimes en Équateur à la date du 2 avril 2020. Mais comme le montrent les photos et les reportages inquiétants sur Guayaquil, ces chiffres sont très largement sous-estimés. L’Équateur est aujourd’hui le deuxième pays le plus touché du sous-continent après le Brésil.
      Longtemps, comme en Europe et en Amérique d’ailleurs, les Africains se sont cru épargnés par la pandémie. Et c’est vrai que lorsque l’on observe la carte mondiale de la pandémie, le continent africain apparaît encore en « blanc », avec moins de 10 000 infections et 414 décès à la date du 3 avril. Mais le blanc pourrait vite virer au gris et même au noir tant les pays africains sont démunis par rapport à la pandémie. La carte du degré d’intensité de la pandémie sur le continent africain s’avère être un décalque de la carte de la mondialisation sur ce même continent. En effet, ce sont les pays les plus développés et les plus ouverts aux flux internationaux, au Nord (Maroc, Algérie, Tunisie, Égypte) comme au Sud (Afrique du Sud), qui sont les plus touchés.
      Une étude scientifique récente, publiée sur le site medrxiv.org, tente de dresser la liste des pays africains les plus affectés par le coronavirus. Elle est intéressante car elle croise de nombreux critères qui a priori n’ont pas grand-chose à voir entre eux, comme le nombre de liaisons aériennes quotidiennes de chaque pays avec la Chine. Trois pays ressortent nettement : l’Égypte, l’Algérie et l’Afrique du Sud. Ce sont justement les pays africains qui ont été les premiers touchés. Cette donnée nous rappelle que depuis une dizaine d’années, la Chine a investi en Afrique comme aucun autre pays au monde, qu’elle s’est implantée commercialement presque partout, au point que la « Chinafrique » aurait remplacé la « Françafrique ».
      En dehors des pays déjà cités, Lagos (Nigeria), Nairobi (Kenya) et Addis-Abeba (Éthiopie) entretiennent aussi des relations commerciales et aériennes intenses avec des villes chinoises. Ces grandes métropoles africaines sont aujourd’hui à leur tour touchées par le virus. Toute la question est désormais de savoir dans quelle mesure la pandémie va se répandre à l’ensemble du continent africain, ou si elle restera peu ou prou cantonnée aux grandes villes.
      Que retenir de ce tour du monde du Covid-19 brossé à très grands traits ? Contrairement à l’économiste Daniel Cohen qui affirme que « le Covid-19 agit comme une métaphore de la démondialisation » (Libération, 19 mars 2020), les faits, plus valides que les prédictions, disent précisément le contraire. Le Covid-19 est non seulement une métaphore mais un enfant de la mondialisation. C’est un « opérateur spatial redoutable » (M. Lussault). Comme toutes les pandémies, il lui faut, pour se développer et se propager, des porteurs de virus mobiles. Or, dans le monde globalisé qui est le nôtre, tout s’accélère depuis une trentaine d’années. Les hommes, les marchandises et les capitaux bougent de plus en plus vite et en tout point du globe.
      L’avènement de l’internet, de la téléphonie mobile puis des réseaux sociaux ont achevé de faire de nous des êtres connectés. Cette connection n’est pas que virtuelle, elle est aussi bien réelle. Elle prend la forme de grands événements sportifs, de grands rassemblements religieux, de voyages d’affaires, de congrès, meetings et colloques internationaux, de migrations de travail ou encore de voyages touristiques. Chacun de ces flux connaît depuis trente ans une très nette augmentation. Or, « flux » est le maître-mot de la mondialisation.
      La pandémie pourrait laisser la place à une menace bien plus dangereuse : la pénurie alimentaire qui, couplée au réchauffement climatique, pourrait engendrer une crise migratoire sans précédent et une déstabilisation politique.
      Les grands gagnants de la mondialisation depuis trente ans sont les points du globe qui réussissent à la fois à capter une partie des flux mondiaux à leur profit et à émettre ou rediriger d’autres flux vers d’autres régions du monde. Les pôles urbains de rang mondial (ville globale, mégalopole, mégapole, métropole mondiale) et leur déclinaison logistique (hub aéroportuaire, complexe industrialo-portuaire, gare centrale) profitent pleinement du double processus de métropolisation et de globalisation en cours depuis une trentaine d’années. De même, la littoralisation des activités confère aux métropoles côtières une prééminence accrue par rapport aux régions intérieures. Ainsi, les plus grandes villes du monde ainsi que les métropoles littorales, dont les habitants se montrent très mobiles et hyper-connectés, sont assurément les grandes gagnantes de la mondialisation.
      Et ce sont assurément les grandes perdantes du Covid-19. À ceux qui, en ces temps de grande confusion et de panique, seraient tentés d’y voir une punition divine ou l’ultime avertissement de la nature adressé à l’humanité avant « le grand effondrement », la géopolitique oppose un cinglant démenti. Non, il n’y a rien d’irrationnel ni de punitif dans l’apparition du coronavirus en 2019 et dans sa propagation aux grandes métropoles de la planète en 2020. Même s’il est particulièrement virulent, le Covid-19 ne fait que mettre ses pas dans ceux des hommes et il ne fait que calquer son rythme, sa vitesse de propagation et sa géographie sur ceux de l’humanité mondialisée.
      Il commence par frapper la mondialisation en ses cœurs, qui sont aussi les pôles majeurs de l’économie mondiale, puis de là, il s’étend à ses poumons c’est-à-dire aux villes et aux régions de l’intérieur et aux zones rurales. Il touche actuellement ses franges, les favelas de Rio et de Sao Paulo, les townships de Johannesburg et de Durban, les bidonvilles de Mumbai et de Calcutta comme les quartiers-ghettos des banlieues pauvres de Seine-Saint-Denis – autrement dit l’envers du monde moderne et ouvert – car ces espaces qu’on nous présente à tort comme fermés et impénétrables sont aussi, à leur façon (informelle), des acteurs de la mondialisation. Ainsi, au bout du compte, seules des régions situées à l’extrême limite de l’écoumène, comme le Nunavut au Nord du Canada, échapperont au virus mondial, et encore.
      Cependant, au sein d’une même population, d’un même pays, d’une même ville, la pandémie ne touche pas tout le monde avec la même intensité. La corrélation entre la structure par âge de la population et le taux de létalité du Covid-19 recoupe en bonne partie la géographie jusqu’ici établie : c’est dans les zones urbanisées des pays développés, où la proportion de personnes âgées de plus de 70 ans est plus importante que la moyenne, que le Covid-19 frappe le plus.
      En clair, les pays de la Triade (États-Unis, Europe de l’Ouest, Japon), ceux où la population est vieillissante et où l’espérance de vie est la plus élevée du monde, sont proportionnellement plus touchés que d’autres pays nettement moins développés mais à la population beaucoup plus jeune comme ceux d’Afrique sub-saharienne. Ce à quoi il faut tout de suite objecter que la promiscuité, les systèmes de santé fragiles de ces pays et leur manque de moyens les expose malgré tout à un risque de contamination.
      Par conséquent, nous ne sommes pas tous égaux devant la lutte contre le virus ni face à ses conséquences pour « l’après ». Dans la gestion de crise elle-même, force est de constater que les rares pays qui ont anticipé, ne serait-ce que de quelques jours, l’arrivée sur leur sol de la pandémie enregistrent aujourd’hui un nombre de personnes infectées et surtout de décès nettement moindre que les autres. Que ce soit en fermant leurs frontières précocement (République tchèque, Slovaquie, Hongrie), en dépistant systématiquement la population (Corée du Sud, Taiwan) ou en plaçant les zones touchées en quarantaine stricte (Chine), les pays ayant pris la menace au sérieux et arrêté tout de suite des mesures exceptionnelles ont réussi à contenir la pandémie.
      En revanche, tous ceux et ils sont nombreux, de l’Inde aux États-Unis, du Royaume-Uni au Brésil, de la Russie à la Turquie, dont les gouvernements n’ont pas pris à temps les mesures qui s’imposaient alors qu’ils savaient que la pandémie allait les frapper à leur tour, ceux-là payent la négligence coupable de leurs dirigeants au prix fort[2].
      Pour ce qui est de l’après-pandémie, même si la ville de New York, la Lombardie, la Catalogne, la région madrilène, londonienne ou parisienne ont payé, paient ou paieront un lourd tribut humain à la pandémie, elles s’en remettront et leurs économies aussi, car elles en ont les moyens financiers. De ce point de vue, je crois davantage à une re-mondialisation rapide des échanges et à une re-connection des flux après la crise qu’à une démondialisation. Par contre, les pays pauvres d’Amérique latine, d’Afrique et d’Asie risquent fort d’être durablement affectés par le Covid-19, et de plusieurs manières.
      Vu la faiblesse du système médical et l’impossibilité pour la plupart des États de faire strictement appliquer des mesures de confinement à une population qui a besoin de travailler pour survivre, le virus se propagera et continuera à faire des malades et des victimes, même en nombre relativement faible. Mais si l’on en croit le dernier rapport de l’ONG Oxfam, la pandémie pourrait laisser la place à une menace bien plus dangereuse : la pénurie alimentaire, qui, couplée au réchauffement climatique, pourrait engendrer une crise migratoire sans précédent et une déstabilisation politique. Ces États seront alors dans un tel dénuement qu’ils seront dépendants de l’aide humanitaire et économique des pays riches.
      D’un point de vue géopolitique, le Covid-19 agit ainsi comme un puissant révélateur (au sens photographique du terme) des failles de ce que le géographe Olivier Dollfus appelait le système-monde, qui sont les failles du capitalisme mondialisé. Comme une sorte de face sombre de la mondialisation, le virus risque fort d’accroître les inégalités déjà béantes entre pays riches et pays pauvres, entre métropoles sur-développées et métropoles sous-développées, entre monde fluide et connecté au « Nord » et monde pauvre et englué dans ses insolubles problèmes intérieurs au « Sud ». Telle est l’amère leçon géopolitique du Covid-19 : les villes globales et les pays développés ont été les premiers touchés par la pandémie, mais à long terme, les grands perdants seront les pays pauvres et émergents. Les cadavres jonchés à même le sol de Guayaquil sont là pour nous le rappeler douloureusement.

      [1] Dans le domaine des matchs de football de Ligue des Champions où l’appât du gain et des recettes des droits télévisés l’emportent sur le principe de précaution élémentaire, la France n’a aucune leçon à donner. Le 26 février 2020, soit une semaine après le match de Valence contre l’Atalanta de Bergame, l’Olympique lyonnais recevait lors d’une « soirée de gala » le club italien de la Juventus de Turin dans un stade plein à craquer au sein duquel 3 000 supporters italiens avaient trouvé place, malgré la peur et les polémiques. Le football, sport-roi en Europe, est aussi un acteur de la mondialisation et un potentiel vecteur de virus.
      [2] Sur ce point, il faut noter que les dirigeants des six pays en question sont tous des hommes notoirement égocentriques, ambitieux et imprévisibles, qui ont d’autant moins voulu prendre au sérieux la pandémie à ses débuts qu’ils sont habités par un sentiment d’invincibilité. En se moquant de l’épidémie, en niant l’évidence puis en tergiversant alors que la raison commandait d’agir, ils ont exposé leur population à une vague épidémique sans précédent et portent une lourde responsabilité dans le chaos qui s’est ensuivi. Vu leur profil psychologique, il est très peu probable qu’ils fassent amende honorable après la crise et qu’ils se jugent eux-mêmes. L’histoire, elle, les jugera-t-elle ?

      https://aoc.media/analyse/2020/05/06/geopolitique-du-covid-19

      #Boris_Grésillon

    • La mondialisation du confinement. Une faille dans la #planétarisation de l’#urbain ?

      Si le virus du Covid-19 s’est propagé aussi rapidement, c’est aussi parce que l’urbanisation est désormais planétaire et qu’aujourd’hui les grandes villes sont connectées les unes aux autres, insérées dans des flux internationaux de biens et de personnes.

      À l’heure où nous écrivons, les confinements décidés pour juguler la propagation du Covid-19 concernent quatre milliards d’êtres humains. La simultanéité de ces décisions politiques est exceptionnelle. Le résultat sera une récession d’une ampleur inédite depuis les années 1930. Sur tous les continents, les gouvernements ont ainsi brutalement entravé la fluidité des échanges marchands, mis à mal la machine économique et déstabilisé les sociétés. Ils ont également sévèrement restreint les libertés publiques.

      Limiter le confinement aux seuls foyers, comme lors des grandes pandémies précédentes (de la Grande Peste, où furent instaurés des cordons sanitaires autour des zones infectées jusqu’aux récentes épidémies d’Ebola, de MERS ou de SRAS), aurait évidemment permis de limiter considérablement l’impact économique et social de la pandémie. Et c’est bien ce qui a été tenté au départ : la Chine, d’où a surgi la pandémie, a circonscrit le périmètre du confinement au foyer de Wuhan, puis à la région dans laquelle s’insère la mégalopole industrielle, le Hubei. Elle est ainsi parvenue à juguler, pour l’instant, la propagation du virus sur son territoire.
      L’Italie, premier pays européen concerné par l’épidémie, a initialement tenté de suivre cette voie en restreignant la mise en quarantaine aux seuls foyers. Mais le pays a dû se résoudre à étendre rapidement le cordon sanitaire pour finalement confiner l’ensemble du territoire national. Rares sont les pays qui ont ensuite tenté la stratégie de quarantaine locale ou même régionale. Pourquoi de telles mesures de confinement, aussi peu discriminantes spatialement, et donc aussi coûteuses économiquement et socialement, sont-elles partout apparues comme la seule solution ?

      Les caractéristiques propres du virus jouent évidemment un rôle. Certes, le sacrifice de l’économie et de la vie sociale à la santé ne découle pas directement du taux de mortalité du virus : estimé entre 0,4 % et 1,3 %, celui-ci est nettement plus faible que les épidémies récentes, et notamment celles du SRAS (11 %) et du MERS (34 %). En outre, le Covid-19 n’est pas particulièrement contagieux, avec un taux de reproduction (ou R zéro) proche de celui du SRAS, maladie dont on a pourtant su maîtriser la diffusion. Mais il possède des caractéristiques spécifiques, qui rendent sa diffusion particulièrement difficile à contrôler. Il se transmet plutôt rapidement et est difficile à repérer en raison des nombreuses personnes qui, sans présenter de symptômes marqués, n’en sont pas moins contagieuses.

      Cette disposition du virus à trouver des hôtes à partir desquels se répandre sans se faire remarquer a joué un rôle essentiel. Cela lui a permis de tirer parti d’une évolution restée relativement silencieuse et mal comprise : l’urbanisation planétaire. Le virus a donc pu se jouer des mesures habituelles de cordons sanitaires et de mise en quarantaine des foyers d’infection. Ce faisant, le règne de l’économie comme enjeu surplombant les politiques publiques est venu se heurter à une nouvelle réalité géographique... que l’économie a elle-même largement construit.
      L’urbain déborde la ville

      Comment définir l’urbain ? On l’oppose classiquement au rural. Mais quels sont les critères de distinction ? Un groupement dense de quelques milliers d’habitants était désigné comme une ville au Moyen-Age, alors qu’aujourd’hui il évoque davantage la campagne. À l’inverse, un village périurbain de quelques centaines d’habitants situé à proximité d’une métropole peut paraître aujourd’hui plus urbain que de nombreuses villes : ses habitants peuvent en effet accéder rapidement à des ressources bien plus fournies que celles offertes à l’habitant d’une ville moyenne située dans un territoire périphérique (une préfecture d’un département du centre de la France par exemple). Bref, ce que l’on appelle l’urbain doit désormais être dissocié des critères morphologiques à partir duquel on persiste à le qualifier, à savoir la densité et la diversité des activités et des fonctions.

      Mais qu’est-ce que l’urbain dans ce cas ? Dans le monde rural traditionnel, on observe la juxtaposition de groupements relativement autonomes. Les villages ont des relations entre eux, mais ils peuvent survivre (presque) indépendamment. À l’inverse, dans le monde urbain, chacun apporte une contribution au fonctionnement d’un ensemble. Dans ce cadre, chacun dépend des contributions des autres pour sa survie. La grande ville, avec ses différents quartiers, est l’incarnation traditionnelle de l’urbain. Aujourd’hui, elle s’est ramifiée spatialement. La ville que l’on dit « globale » est profondément insérée dans des flux internationaux de biens, de personnes, de matières et de capitaux : par exemple le siège social de telle firme sera à Paris, mais ses usines et son service clientèle ne seront plus dans la banlieue parisienne, mais à Wuhan et Rabat.

      Les grandes villes sont aussi liées aux lieux de villégiature, comme on a pu le voir avec la migration de leurs habitants au moment du confinement. Ces espaces sont souvent considérés comme relevant des campagnes. Mais celles-ci sont pourtant bien urbaines. Un village de bord de mer ou une station de ski sont tout autant urbains qu’une grande ville, en ce qu’ils fonctionnent avant tout en relation avec d’autres lieux relativement éloignés : ceux où vivent les propriétaires de résidence secondaire, et plus largement les vacanciers. Ces lieux dédiés aux loisirs possèdent par ailleurs une qualité essentielle de l’urbanité : le brassage des populations, entre les saisonniers, les habitants permanents, et les visiteurs qui, dans certains cas, peuvent venir du monde entier.

      À une échelle plus restreinte, celle des espaces qui peuvent être parcourus quotidiennement pour aller travailler, les grandes métropoles dépendent directement d’espaces situés bien au-delà du périmètre qu’on leur attribue. Ce sont notamment les espaces ruraux qui accueillent les couches populaires et classes moyennes inférieures qui jouent le rôle de soutiers des économies métropolitaines, comme on l’a vu avec le mouvement des Gilets jaunes.

      Bref, l’urbain est aujourd’hui constitué de tout un ensemble de lieux dont les liens se déploient à de multiples échelles géographiques, du quartier, voire du logement, à la planète. Des espaces a priori éloignés des définitions courantes de la ville sont ainsi devenus urbains. C’est le cas, par exemple, des plateformes pétrolières, des mines ou encore des espaces agricoles. Tous sont en effet dépendants de marchés urbains, tant pour leur fonctionnement que pour leurs débouchés. Et les échelles d’interdépendance sont locales tout autant que planétaires : les habitants d’une ville française moyenne embauchent le plombier du quartier tout en consommant de la viande d’animaux nourris au soja latino-américain, en regardant la télévision sur des écrans coréens ou en utilisant du pétrole algérien. Autrement dit, le métabolisme d’un lieu le lie à la planète entière.

      Un débat récent, qui a rencontré peu d’échos en France, évoque précisément ces évolutions. Il a été déclenché par la réactualisation du concept d’ « urbanisation planétaire », sur la base d’anciennes propositions de Henri Lefebvre (sur l’extension de la société urbaine et du tissu urbain vers une « urbanisation complète »). Dans un ouvrage publié en 2014, Schmidt et Brenner plaident ainsi pour une refonte complète des catégories d’analyse usuelles, et en premier lieu la distinction entre ville et campagne. Très ambitieux théoriquement, l’ouvrage a suscité d’intenses débats, peinant à emporter l’adhésion, faute notamment de preuves empiriques convaincantes. Pourtant, depuis l’émergence du Covid-19 jusqu’à sa diffusion, et depuis la réponse publique à la crise sanitaire jusqu’à ses conséquences économiques et sociales, beaucoup d’événements récents peuvent être lus et mieux compris au prisme de l’urbanisation planétaire. Ce faisant, cette crise apporte un étayage empirique décisif à cette proposition théorique.

      Très schématiquement, l’urbanisation planétaire, dont le déploiement est intimement lié à la globalisation du capitalisme, s’exprime dans quatre processus étroitement interconnectés : la disparition des « mondes sauvages », l’interconnexion mondiale des territoires, le brouillage de la dichotomie entre ville et campagne, et enfin la planétarisation des inégalités urbaines.
      Un virus au cœur de l’urbanisation planétaire

      Les maladies humaines d’origine animale, dont les zoonoses, représentent 60 % des maladies infectieuses à l’échelle mondiale et trois quarts des nouveaux agents pathogènes détectés ces dernières décennies. Ces maladies viennent pour l’essentiel du « monde sauvage ». Elles peuvent certes émerger dans des élevages, mais dans ce cas le virus émerge généralement via des contaminations par des animaux sauvages. Les maladies de type zoonotique ne sont donc pas sans lien avec la fin du « monde sauvage » associée à l’urbanisation planétaire. Dans toutes les régions du globe, les espaces considérés comme sauvages sont transformés et dégradés par l’avancée de l’urbanisation sous toutes ses formes, qu’il s’agisse d’exploiter des gisements, de planter des hévéas ou de construire des villes nouvelles. Cette avancée bouleverse les écosystèmes et établit de nouveaux contacts entre la faune, la flore et les humains.
      Les géographes qui ont mené des recherches sur les pandémies récentes, notamment celle du SRAS, ont montré le rôle déterminant de l’avancée de l’urbanisation dans l’émergence des nouveaux agents infectieux. Ce n’est ainsi pas un hasard si les derniers virus les plus importants ont émergé dans des territoires (Chine, Afrique de l’Ouest, Moyen-Orient) où l’urbanisation avance de la manière la plus effrénée, démultipliant les contacts nouveaux entre les sociétés humaines et les mondes restés les plus sauvages.

      Cette avancée se traduit notamment par de nouvelles exploitations agricoles intensives. Ainsi, les risques d’émergence de virus ont été démultipliés par l’augmentation phénoménale de la consommation de viande à l’échelle de la planète, et plus particulièrement en Chine. Les élevages, destinés à alimenter les nouvelles classes moyennes des mégalopoles telles que Wuhan, s’étendent dans des espaces toujours plus vastes, conquis sur le monde sauvage. La déforestation en particulier perturbe l’habitat des chauves-souris, dont on connaît le rôle dans l’apparition de nouveaux virus transmissibles à l’homme. Elles sont supposées d’ailleurs être à l’origine de la pandémie actuelle, avec le pangolin comme possible hôte intermédiaire. Si cela était encore nécessaire, l’émergence du Covid-19 vient démontrer la perméabilité de la supposée frontière entre nature et culture, perméabilité que l’urbanisation planétaire vient constamment augmenter.

      Un deuxième aspect clé de la thèse de l’urbanisation planétaire est l’émergence de « galaxies urbaines » dont les différents éléments interagissent de manière presque simultanée avec l’ensemble du globe. Le virus est un révélateur de l’importance de cette échelle planétaire. Certes, la grippe espagnole et, avant elle, la peste noire ont été des pandémies mondiales, mais la situation actuelle se singularise par la rapidité de la diffusion du virus. Les enquêtes épidémiologiques menées en France soupçonnent l’apparition de premiers cas dès la fin 2019, alors même que le gouvernement chinois mettait encore en question la possibilité d’une transmission du virus entre humains. Cette rapidité met en lumière toute l’ampleur des flux humains. Au cours des trois premiers mois critiques, entre décembre 2019 et février 2020, 750 000 passagers sont entrés aux États-Unis en provenance de Chine. Couplée à la capacité du virus à se transmettre hors de tout symptômes, l’ampleur des flux humains explique qu’il se soit avéré impossible de contenir les foyers de l’épidémie.

      L’accélération de l’urbanisation planétaire a clairement été sous-estimée, ce qui a contribué à l’impréparation des gouvernements. Il y a huit siècles, la Grande Peste avait mis une quinzaine d’années pour parcourir la route de la Soie jusqu’à l’Europe. Les principales épidémies récentes se sont évidemment diffusées plus rapidement, mais nettement moins que le Covid-19. En 2003, quatre mois après l’apparition du SARS-COV, on comptait 1 600 cas de contaminations dans le monde, contre près de 900 000 pour le SARS-COV-2 au bout de la même période, soit 500 fois plus. C’est que la globalisation était encore bien loin d’être ce qu’elle est aujourd’hui : en 2018, on estimait le nombre de passagers transportés par avion à 4,2 milliards, presque trois fois plus qu’en 2003. Et l’aéroport de Wuhan, l’une des principales plateformes de correspondance de Chine, joue un rôle clé dans cette dynamique. Le virus s’est ainsi dispersé hors de Chine à une vitesse que peu de gens avaient vraiment anticipé.

      Personne n’ignore que beaucoup de biens sont importés de Chine, mais on imagine surtout des usines qui fabriquent à profusion, et à bas coût, des objets qui permettent aux classes populaires occidentales de continuer à faire partie de la société de consommation. On est pourtant loin du simple échange des biens à bas coût contre des biens à haute valeur ajoutée. Les flux sont beaucoup plus complexes et multiformes du fait des délocalisations et de la planétarisation des chaînes de fabrication. On trouve ainsi à Wuhan une centaine d’entreprises françaises, dont des fleurons nationaux, notamment Renault et PSA. Loin du bas-de-gamme associé à la Chine, leurs usines produisent des centaines de milliers de véhicules, en misant sur la globalisation du style de vie occidental. Ces relations économiques s’accompagnent d’intenses flux humains de cadres, de techniciens ou de commerciaux qui s’ajoutent aux personnes qui gèrent les flux logistiques.

      Avec le Covid-19, l’Europe a appris à ses dépens que la Chine fait intégralement partie de son monde, ou plutôt qu’elle n’est plus qu’un élément d’un vaste réseau dont les territoires chinois sont d’autres éléments clés, des immenses exploitations productrices de tomates destinées à l’exportation, aux usines suburbaines de métropoles plus grandes que Paris mais au nom inconnu du grand public, en passant par des centres d’affaires dont la verticalité donne une allure presque provinciale à la Défense.

      Troisième élément central de la thèse de l’urbanisation planétaire : la métropole n’est plus réductible à la ville dense et verticale. Certes, les haut-lieux du pouvoir économique, (notamment financier), s’incarnent dans des quartiers d’affaires hérissés de tours. Mais ce n’est là qu’une figure de la métropolisation, et même de la ville. Loin de se réduire à un centre historique et à un quartier d’affaires, la métropole contemporaine doit plutôt s’appréhender comme un entrelacs de réseaux qui mettent quotidiennement en relation des lieux de formes, de tailles et de fonctions très diverses. Brenner et Schmidt évoquent un processus continu d’« implosions/explosions », où des îlots de densité surnagent au milieu de traînées irrégulières d’urbanisation diffuse. Largement partagé en géographie urbaine, ce constat a été singulièrement confirmé par la localisation des foyers d’infection par le SARS-COV-2. Ces foyers révèlent en effet des interconnexions souvent insoupçonnées, ou en tout cas rarement mises en avant.

      Les discours sur la géographie de la mondialisation opposent souvent des cœurs métropolitains connectées à des territoires laissés de côté, ceux de la France périphérique. Or la diffusion du virus révèle une géographie de la globalisation bien plus complexe, dont la thèse de l’urbanisation planétaire rend bien compte. En France les premiers foyers ont été Méry-sur-Oise (une commune de 10 000 habitants, située aux confins de la banlieue parisienne), Les Contamines-Montjoie (une station de ski alpine), La Balme-de-Sillingy (un village du périurbain d’Annecy) et une église évangélique de Mulhouse. On est loin des cœurs des grandes métropoles françaises. En Italie, les premiers foyers ont également été des villages ou des petites villes (Codogno ou Vo’) plutôt que les quartiers centraux de Milan ou de Venise.

      Avec ces premiers foyers européens, le virus a révélé le rôle des périphéries métropolitaines dans la mondialisation des chaînes de valeur industrielles. C’est que les flux ne concernent pas seulement les quartiers d’affaires des grandes villes : ils se tissent avant tout entre des lieux de production. L’intensité des liens entre les usines textiles du Val Seriana et la Chine explique pourquoi ce territoire périurbain situé au nord-est de Bergame est devenu l’un des premiers foyers italiens. Et en Allemagne, l’infection a été repérée pour la première fois à Starnberg, commune de 20 000 habitants située à une vingtaine de kilomètres de Munich, mais connectée au reste du monde par son usine d’équipements automobiles. Bien sûr, les centres des grandes villes sont devenus aujourd’hui les principaux épicentres de l’épidémie (ce dont New-York est devenu l’exemple le plus éloquent), au point que certains mettent en cause ce qui jusqu’ici apparaissait comme un atout économique : la densité et l’intensité des échanges qu’elles permettent. Il n’en reste pas moins que les premiers foyers européens n’ont pas été identifiés dans les cœurs métropolitains.

      Résumons l’essentiel : face au brouillage des périmètres urbains, face à l’étendue des réseaux formés par les noyaux d’urbanisation et face à l’intensité des flux qui parcourent ces réseaux, il s’est rapidement révélé impossible d’isoler des foyers. Les seuls cordons sanitaires qu’il a été possible de mettre en place sont les bonnes vieilles frontières nationales. Et encore ces frontières restent-elles souvent assez perméables, faute de pouvoir rompre les chaînes logistiques internationales, ou de pouvoir se passer des travailleurs frontaliers.
      La planétarisation des inégalités urbaines

      Un quatrième élément, central, caractérise enfin l’urbanisation planétaire : la reconfiguration de la dimension spatiale des inégalités. L’urbanisation des inégalités ne date bien sûr pas d’hier. Permise par la révolution néolithique, l’apparition des premières villes repose sur l’extraction d’un surplus agricole au détriment de l’autosuffisance paysanne, afin de nourrir une classe libérée des contraintes de la production alimentaire. Plus près de nous, la ville médiévale, dont les limites sont encore relativement nettes, s’organise autour d’un lieu central, lui-même clairement identifié et matérialisé : un marché. D’après Max Weber, celui-ci permet l’émergence d’une classe sociale, la bourgeoisie, laquelle s’engage en retour dans un processus d’accumulation. En repoussant les barrières féodales ou religieuses, et en intégrant un arrière-pays de plus en plus éloigné dans l’économie urbaine, cette accumulation jette les bases du capitalisme. Et de fait, l’un des chapitres de l’ouvrage de Schmidt et Brenner montre comment la restructuration complète des campagnes anglaises constitue in fine un processus d’extension de la ville et du pouvoir de sa bourgeoisie qui allait progressivement jeter les bases de la révolution industrielle. Les enclosures ont en effet appuyé la transformation de millions de paysans sans terre en une main-d’œuvre bon marché, en les poussant vers les faubourgs de Londres et Manchester.

      L’urbanisation prend ensuite progressivement le relais de l’industrialisation comme principal moteur du capitalisme. Il est dès lors possible de lire sa planétarisation comme la phase ultime de l’extension des relations hautement inégalitaires qu’elle tisse entre les territoires. Bien sûr, ces processus s’accompagnent de l’apparition de classes moyennes dans des pays où elles n’existaient pratiquement pas. Mais, à l’échelle mondiale, ce sont les plus riches qui tirent le plus de bénéfices de la globalisation. Et ces différences se lisent dans l’espace. Par exemple, les travaux récents menés à l’échelle internationale concluent en l’existence d’une « gentrification planétaire » qui voit les plus aisés s’approprier les cœurs des principales métropoles. Cette appropriation s’accompagne de la mondialisation d’une forme de ségrégation puisque, dans toutes les grandes métropoles, les classes populaires se trouvent rejetées de plus en plus loin en périphérie. Même les favelas du centre de Rio subissent les pressions de la gentrification.

      Ces inégalités jouent un rôle majeur dans l’impact du Covid-19 sur nos sociétés. En effet, les pandémies surviennent plus particulièrement durant les périodes d’accroissement des disparités sociales. Peter Turchin observe une corrélation historique entre le niveau des inégalités, l’intensité des liens entre territoires éloignés, et la violence des pandémies. En effet, plus une classe s’affirme dans son aisance, plus elle dépense dans la consommation ostentatoire, souvent dans des produits de luxe originaires de lieux éloignés. Or les virus voyagent avant tout avec le commerce de longue distance. Ce fait n’est pas nouveau : l’effondrement presque simultané des empires chinois et romain dans les premiers siècles de notre ère s’explique en partie par la virulence des épidémies qui se diffusaient le long des routes commerciales. Mais les mobilités étaient alors sans commune mesure avec celles d’aujourd’hui. Pour les flux humains mondiaux, la différence est particulièrement marquée pour les classes supérieures. Leur sociabilité a toujours été internationale, voire cosmopolite. Mais leur mobilité a pris une nouvelle dimension sous l’effet de la globalisation, et de l’urbanisation planétaire. Dès lors, face à un nouveau virus à la fois hautement social et difficilement détectable, les classes supérieures se sont présentées comme un potentiel super-diffuseur collectif. Et cela a bien été leur rôle pendant l’hiver 2020.

      Des enquêtes seront nécessaires pour préciser les canaux de diffusion du virus, mais la rapidité de cette diffusion a d’ores et déjà révélé l’importance des séminaires internationaux, des flux d’étudiants, des déplacements touristiques et professionnels. Ces flux, et notamment ceux sur lesquels repose la mondialisation industrielle, ont allumé les premiers foyers européens, qui ont ensuite contribué à diffuser le virus non seulement dans l’ensemble de l’Europe, mais aussi vers d’autres continents, notamment l’Afrique. Ces premiers foyers sont apparus socialement peu sélectifs, illustrant le fait que la mondialisation se fait aussi par le bas et pas seulement via des déplacements de cadres ou de touristes aisés. Ainsi, les adeptes de la Porte ouverte chrétienne, dont le rassemblement à Mulhouse a été un des premiers foyers français, ou de l’église Shincheonji de Jésus en Corée du Sud, ne s’apparentent pas aux catégories supérieures. Et la désormais fameuse « patiente 31 », à l’origine de 80 % des infections en Corée du Sud, n’avait pas voyagé. Elle ne faisait donc pas partie des élites voyageuses.
      Pourtant, quand on reprend la chronologie des différents foyers identifiés de par le monde, on est frappé par l’importance des lieux fréquentés par les classes supérieures. Au Brésil, c’est depuis un club de plage de Rio, le plus select du pays, que l’épidémie s’est propagée. À Hong-Kong, les premiers foyers sont apparus dans des hôtels de haut standing (comme pour le SRAS d’ailleurs). En Égypte, c’est une croisière sur le Nil qui a entraîné l’infection d’une partie des passagers (surtout originaires d’Europe et d’Amérique du Nord), mais aussi de l’équipage égyptien. En Australie, une croisière est aussi en cause : le virus s’est propagé avec les passagers infectés disséminés dans le pays après avoir débarqué d’un paquebot. En Norvège, en Islande, au Danemark, en Suède ou Finlande, la diffusion du Covid-19 est liée à des retours de vacances dans des stations de ski des Alpes, et notamment celle d’Ischgl. En Europe de l’Est, la pratique du ski est aussi en cause : c’est des restaurants et des clubs huppés de Courchevel que le virus est parti vers la Russie, l’Ukraine et la Biélorussie. Même l’Afrique du Sud a été contaminée via les Alpes : la première entrée identifiée du virus est liée à un vacancier de retour d’un week-end de ski en Italie. Au Mexique et aux États-Unis, des chaînes de contamination se sont aussi constituées depuis les pistes du Colorado. L’Uruguay, quant à lui, a vu ses cas se multiplier à la suite d’un mariage dans la haute société, à laquelle assistait une grande couturière tout juste rentrée de vacances en Espagne. Ces exemples montrent à quel point la propagation du virus s’est notamment appuyée sur des pratiques fondées à la fois sur des interactions sociales intenses dans des lieux confinés (restaurants, conventions, cocktails, clubs) et sur des déplacements internationaux tout aussi intenses. Ceci explique également que la pandémie ait d’emblée lourdement frappé les personnalités politiques de premier plan, groupe partageant le même type de pratiques.

      L’impression du caractère élitaire de la contagion internationale a pu être renforcée par la difficulté d’accéder aux tests (ce qui renvoie à une autre forme d’inégalité face à la pandémie). Il n’empêche qu’à la différence de la tuberculose ou du choléra, qui tuent avant tout dans des pays pauvres et des bidonvilles, la nouvelle épidémie n’a pas initialement frappé les quartiers populaires denses. Elle s’est notamment diffusée par les réseaux des classes supérieures, qui prennent appui sur des pratiques de sociabilité multi-localisées, intenses et éphémères. Le cas de Singapour est éloquent. Le premier cas confirmé remonte au 23 janvier. Il concerne un Chinois originaire de Wuhan de passage dans un resort haut de gamme. Les premières infections non importées sont repérées le 4 février, dans un magasin fréquenté par des touristes chinois. C’est seulement deux mois plus tard, en avril, que l’épidémie atteint des groupes sociaux nettement plus modestes, avec la déclaration d’un foyer dans un dortoir de travailleurs migrants. Compte-tenu de la dynamique de l’épidémie, ce décalage dans le temps est considérable.
      Le virus a donc d’abord largement frappé les groupes qui bénéficient le plus de l’urbanisation planétaire. Il s’est diffusé à la faveur de leur mobilité. C’est ce qui fait que l’Europe s’est très rapidement substituée à la Chine comme principale propagatrice du virus. De fait, les données phylogénétiques le confirment : la diffusion du virus en Afrique vient avant tout d’Europe. Même en Inde, si les premiers cas sont liés à la Chine, les premiers foyers sont liés à l’Europe. Se dessine alors, au cours de cette seconde phase de la pandémie, une autre mondialisation, caractérisée par des flux entre la plaque tournante européenne et les pays nouvellement infectés.
      Cette coloration européenne du virus dans les premières étapes de sa propagation hors d’Asie de l’Est explique ainsi la diffusion du néologisme de « coronisation » en Afrique puis en Inde. L’association initiale du virus aux classes aisées explique quant à elle pourquoi au Mexique, un gouverneur a pu prétendre publiquement que les pauvres étaient immunisés contre le Covid-19. De même, dans les quartiers noirs des États-Unis, il a, un temps, pu être perçu comme une maladie de « Blancs riches ».
      Des flux de la mondialisation aux quartiers populaires

      Ces idées ont fait long feu. Dans un second temps, le virus s’est plus largement diffusé, à la fois spatialement et socialement. Là encore, la thèse de l’urbanisation planétaire aide à comprendre comment. D’abord, la mondialisation a aussi ses soutiers. Le cas de Singapour l’illustre : même si c’est à un rythme nettement plus lent que pour les catégories aisées, le virus a aussi été transporté par ceux que l’on appelle des migrants plutôt que des expatriés. Les conditions de vie de ces derniers, avec la promiscuité propre aux dortoirs, a favorisé une contagion marquée, plus difficilement contrôlable que dans les condominiums des quartiers aisés. D’une manière générale, la distanciation sociale est difficile dans les bidonvilles, figures majeures de l’urbanisation planétaire, qui abritent une proportion considérable de la population des grandes métropoles africaines, latino-américaines ou asiatiques.
      Le virus s’est également diffusé en suivant les réseaux constitués par les systèmes métropolitains. Les migrations qui ont suivi le confinement ont démontré toute l’étendue et la diversité de ces interdépendances, bien au-delà des banlieues et des couronnes périurbaines. Ces migrations ont été empêchées dans certains pays comme la Chine ou la Norvège. Mais, en Inde ou dans plusieurs pays d’Afrique, on a pu voir l’importance du nombre de migrants et la précarité de leur statut au cœur des grandes métropoles : le retour à la campagne a pour eux été une question de survie. Dans les pays riches où la mise en œuvre du confinement a été relativement permissive, comme aux États-Unis ou en France, on a pu voir les étudiants retourner chez leurs parents quand ils le pouvaient et les plus aisés quitter les cœurs métropolitains pour des lieux de résidence plus confortables. L’analyse de l’INSEE montre ainsi que 11 % des résidents parisiens ont quitté la ville. Les départs des plus aisés vers leurs résidences secondaires ont marqué les esprits. En France ou aux États-Unis, de nouvelles inégalités spatiales sont ainsi apparues plus clairement, à des échelles beaucoup plus vastes que celles usuellement considérées pour opposer les cœurs de métropoles et leurs banlieues populaires ou même leurs lointaines couronnes périurbaines. L’exode urbain vers les résidences secondaires a nourri une rancœur chez les habitants des territoires d’accueil qui ne sera pas facilement résorbable.

      Si la trajectoire de la pandémie met en exergue la spatialité des inégalités, c’est aussi parce qu’à la base de l’échelle sociale, le télétravail a souvent été impossible et que la mobilité quotidienne s’est maintenue, notamment vers les zones denses concentrant les activités. Durant le confinement, ce sont principalement les habitants des quartiers populaires qui continuent à devoir se rendre sur leur lieu de travail et à avoir des contacts (certes des catégories aisées continuent à se déplacer pour travailler, les médecins au premier chef, mais elles sont moins nombreuses en proportion). Ajoutée à la dépendance plus élevée aux transports en commun, cette mobilité a largement contribué à la diffusion du virus dans les classes populaires. Ceci explique pourquoi les quartiers populaires concentrent plus de cas et plus de morts.

      Dans le premier foyer repéré aux États-Unis, une maison de retraite de Kirkland, dans la banlieue de Seattle, les employés, en large majorité des femmes, ont fortement contribué à propager le virus. Elles ont en effet été réticentes à évoquer leur contamination, non pas par crainte du stigmate social (comme dans certains milieux aisés au début de la pandémie), mais plus prosaïquement par crainte de perdre leur emploi et par absence de congés maladie. En outre, elles sont fréquemment contraintes de cumuler plusieurs emplois précaires, dont l’un, souvent, dans le secteur de la restauration, domaine d’activité dont on connaît le rôle potentiel dans la diffusion du virus.

      Ainsi, le Covid-19 souligne les nouvelles inégalités territoriales fabriquées à travers l’urbanisation planétaire. Si les liens qui se tissent d’un bout à l’autre de la planète bénéficient avant tout aux catégories aisées, les épicentres ont émergé dans des espaces populaires, pourtant à l’écart des foyers initiaux : en France et aux États-Unis, les stations de ski étaient les principaux foyers mais la Seine-Saint-Denis, le département le plus pauvre de France, et Détroit, la plus pauvre des grandes villes des États-Unis, sont devenus les épicentres. À la Nouvelle-Orléans, la pandémie s’est diffusée à la faveur de Mardi gras, importée par les touristes et les fêtards, dont certains avaient eu le bon goût de se déguiser en virus. Ce sont aujourd’hui les quartiers pauvres de la ville qui payent à la maladie l’un des plus lourds tributs de l’ensemble des États-Unis.
      Ces inégalités sont en effet redoublées par la haute sélectivité du virus qui, outre les personnes âgées, cible notamment les individus présentant des facteurs de co-morbidité (diabète, insuffisance cardiaque etc.). Or ces affections ne sont évidemment pas également distribuées dans la société et dans l’espace. Aux États-Unis, où les inégalités entre et dans les métropoles sont particulièrement marquées, le virus s’avère nettement plus mortel, d’une part dans les villes à majorité noire (La Nouvelle-Orléans, Chicago, Détroit, Milwaukee), et d’autre part dans les quartiers pauvres, c’est-à-dire dans les ghettos transformés en déserts alimentaires et médicaux sous l’effet des politiques d’austérité. Ainsi, à Chicago, l’écart d’espérance de vie moyenne entre les quartiers atteint jusqu’à 30 ans, soit plus d’une génération. Ce faisant, le Covid-19 ne fait que redoubler des inégalités majeures en matière d’accès à la santé, puisque ceux qui en meurent le plus souvent sont aussi ceux dont l’espérance de vie recule depuis plusieurs années sous l’effet d’autres facteurs (overdoses, suicides, empoisonnement de l’eau, etc.).

      Des recherches devront affiner ce qui vient d’être dressé à grands traits et apporteront certainement des nuances, mais le tableau d’ensemble paraît clair : le Covid-19 révèle l’ampleur des inégalités associées à l’urbanisation planétaire, avec d’un côté des classes aisées nomades qui, pour leurs loisirs ou leur activité professionnelle, ont transporté le virus aux quatre coins de la planète, et d’un autre côté des classes populaires beaucoup plus sédentaires, qui travaillent à leur service. Ce sont ces dernières qui paieront le prix le plus élevé de la pandémie.
      Le gouvernement de l’urbanisation planétaire en question

      Il faut évidemment se garder de toute prévision hâtive. L’impact de la pandémie dépendra notamment de sa durée. Si, pour une raison ou une autre, elle est jugulée rapidement, on peut s’attendre à un retour à la normale. Mais si le virus s’installe durablement, les relations sociales et la vie économique vont être fortement perturbées. La crise du Covid-19, en partie issue de l’urbanisation planétaire, pourrait donc en retour l’affecter profondément. Elle pourrait notamment modifier les hiérarchies établies entre les types d’espaces urbains. En dépit des premières étapes de la diffusion de la pandémie, il est probable que resurgisse une crainte de la ville dense. De fait, une fois l’épidémie installée, le virus s’est diffusé plus fortement dans les grands centres urbains et leurs banlieues. Face à ce constat, après avoir quitté les villes et changé d’habitudes pendant le confinement (transformation de la résidence secondaire en résidence principale, pratique accrue du télétravail, etc.), une partie des classes aisées sera peut-être tentée de prolonger l’expérience, surtout si, comme on peut s’y attendre, les transports deviennent durablement plus compliqués dans les grands centres denses. Les lignes bougeront lentement, mais peut-être un nouveau cycle, moins favorable à la densité, s’enclenchera-t-il. Une telle évolution pourrait réduire la pression immobilière sur les grands centres métropolitains et les rendre de nouveau un peu plus accessibles aux soutiers des économies métropolitaines. Elle favoriserait sans doute aussi une meilleure prise en considération politique des mondes périurbains et ruraux. Mais elle s’accompagnerait d’une pression encore accrue sur les ressources environnementales de ces territoires (concurrence entre agriculture, habitat et commerce, pollution accrue par le recours à la voiture individuelle, etc.). De telles perspectives renforcent, si besoin était, la nécessité d’une démocratisation et d’une extension des périmètres de la planification. Ce n’est désormais qu’à l’échelle de vastes régions métropolitaines que peuvent être légitimement débattus et arbitrés les conflits actuels comme futurs sur l’usage des sols, entre préservation environnementale, répartition des logements, et relocalisation industrielle et agricole.

      À une autre échelle, le Covid-19 met aussi à l’épreuve la manière dont la planète est gouvernée. Avec l’urbanisation planétaire, les interdépendances entre les lieux, les territoires et les espaces se sont largement affranchies des frontières nationales. En outre, les échanges internationaux sont devenus plus complexes et multiscalaires, au sens où ce n’est pas la France qui entre en relation avec la Chine, mais la station de ski des Contamines-Montjoie qui se trouve raccordée avec une forêt du Hubei, via un touriste Anglais revenu d’une conférence à Singapour où il a côtoyé d’autres cadres chinois, qui eux-mêmes avaient peut-être dîné avec un ami médecin employé dans un hôpital de Wuhan. Comment gouverner les liens ainsi constitués ? On sent bien que face à ces réseaux, fermer les frontières nationales oscille entre le dérisoire et l’excessif. Le dérisoire car le virus a souvent passé les frontières avant même qu’on ait eu l’idée de les fermer, et l’excessif tant leur fermeture introduit des perturbations économiques et sociales majeures.

      On revient ici au point de départ de cet article. On peut en effet faire l’hypothèse que, si une mesure aussi brutale et aveugle que le confinement a été imposée à des milliards d’individus, c’est faute de pouvoir se sevrer brutalement des flux portés par l’urbanisation planétaire (un chiffre suffit à mesurer la difficulté : 80 % des produits actifs des médicaments mondiaux viennent d’Inde ou de Chine). C’est aussi faute de pouvoir gouverner ces flux. Leur gouvernement est au cœur des débats actuels sur le traçage et le suivi des contacts de personnes potentiellement malades. Le problème est que plane ici le spectre du renforcement du contrôle et de la surveillance, observé par Foucault lorsque frappait la peste. Beaucoup craignent qu’une telle évolution vers le contrôle des flux s’effectue sous un angle disciplinaire, voire liberticide. Et ce d’autant plus qu’une offre, émanant des multinationales de la sécurité et de la surveillance électronique, ne demandera qu’à rencontrer des États désireux de réaffirmer leur capacité à protéger leurs citoyens. Dans ce contexte, comment tracer sans interférer sur les libertés fondamentales ? Les sociétés civiles découvrent avec un certain vertige ce à quoi le gouvernement des flux pourrait conduire.

      La question, déjà épineuse dans un cadre national, l’est encore plus dans un cadre international. L’Europe par exemple, après avoir mis en place des dispositifs de protection des données personnelles parmi les plus stricts au monde, pourrait-elle faire volte-face et imposer ce qui s’apparenterait à une surveillance généralisée des mouvements ? Ce genre de question et l’impossibilité d’y répondre positivement ont poussé la plupart des gouvernements à conclure que le virus serait d’autant plus difficile à éliminer qu’un pays qui se donnerait les moyens de le faire se trouverait fortement contraint dans ses relations avec ses voisins. La Nouvelle-Zélande, pays dans lequel le virus ne semble presque plus circuler, impose ainsi depuis le 29 avril dernier une quarantaine d’au moins 14 jours à tous les nationaux qui rentrent de l’étranger ; les autres, à l’exception des Australiens, sont tout bonnement interdits d’entrée. Est-il possible de tenir longtemps comme cela, quand le virus continue à circuler aux portes du pays ? Comme le Covid-19 présente une morbidité qui, à la différence du SRAS, ne semble pas totalement inacceptable, tenter de vivre avec cette maladie a pu sembler la « moins mauvaise » des solutions. C’est ainsi que de nombreux pays ont renoncé à chercher à éliminer le virus pour plutôt en contrôler la diffusion via la distanciation sociale (dont le confinement est une variante extrême), faisant le pari qu’avec un traitement, un vaccin ou une immunité collective, la pandémie finira par devenir une maladie banale, comme la grippe. Ce pari a déjà valu un premier confinement dévastateur, sans garantie qu’il n’y en ait pas d’autres. Si la situation ne s’améliore pas, les voix seront de plus en plus nombreuses à demander si l’urbanisation planétaire vaut son prix.

      https://laviedesidees.fr/La-mondialisation-du-confinement.html

    • Does lockdown work? A spatial analysis of the spread and concentration of Covid-19 in Italy

      The spread of Covid-19 is a global concern, especially in the most developed countries where the rapid spread of the virus has taken governments by surprise. Adopting a spatial approach to this issue, we identify the spatial factors that help explain why some areas are hit harder than others, based on the Italian example (with the Lombardy region as the epicentre in Europe). Our analysis combines an autoregressive spatial model and a bivariate spatial autocorrelation from a pool of data collected from the Italian provinces to propose a real-time analysis of the spread and concentration of the virus. The findings suggest that the most globally connected areas are also the worst hit, and that the implementation of a lockdown at the beginning of March 2020 was a crucial and effective approach to slowing the spread of the virus further.

      https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/00343404.2021.1887471

  • Monitoring « secondary movements » and « hotspots » : Frontex is now an internal surveillance agency

    The EU’s border agency, Frontex, now has powers to gather data on “secondary movements” and the “hotspots” within the EU. The intention is to ensure “#situational_awareness” and produce risk analyses on the migratory situation within the EU, in order to inform possible operational action by national authorities. This brings with it increased risks for the fundamental rights of both non-EU nationals and ethnic minority EU citizens.

    http://www.statewatch.org/news/2019/dec/eu-frontex-int-surv.htm
    #surveillance #mouvements_secondaires #asile #migrations #réfugiés #frontières #Frontex #hotspot #hotspots #risques #analyse_de_risques

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    Dans ce rapport de Statewatch, on peut lire :

    Previously, the agency’s surveillance role has been restricted to the external borders and the “pre-frontier area” – for example, the high seas or “selected third-country ports.”2 New legal provisions mean it will now be able to gather data on the movement of people within the EU.

    Ce qui n’est pas sans rappeler la carte de @reka sur les 3 frontières européennes :
    #pré-frontière
    #frontière
    #post-frontière


    https://visionscarto.net/la-mediterranee-plus-loin

    Pour une version plus récente de cette carte...


    https://asile.ch/2016/12/13/regard-dune-geographe-murs-frontieres-fantasme-controle-migratoire

    ping @etraces @karine4 @reka @isskein

  • The Data Gaze. Capitalism, Power and Perception

    A significant new way of understanding contemporary capitalism is to understand the intensification and spread of data analytics. This text is about the powerful promises and visions that have led to the expansion of data analytics and data-led forms of social ordering.

    It is centrally concerned with examining the types of knowledge associated with data analytics and shows that how these analytics are envisioned is central to the emergence and prominence of data at various scales of social life. This text aims to understand the powerful role of the data analytics industry and how this industry facilitates the spread and intensification of data-led processes. As such, The Data Gaze is concerned with understanding how data-led, data-driven and data-reliant forms of capitalism pervade organisational and everyday life.

    Using a clear theoretical approach derived from #Foucault and critical data studies the text develops the concept of the #data_gaze and shows how powerful and persuasive it is. It’s an essential and subversive guide to data analytics and data capitalism.


    https://uk.sagepub.com/en-gb/eur/the-data-gaze/book257707
    #capitalisme #données #livre #analyse_de_données #connaissance
    ping @fil

  • Santé publique France - Cartographie des cancers : premières estimations régionales et départementales de l’incidence et de la mortalité pour 24 cancers en France

    Étude très exhaustive, tous les tableaux téléchargeables, les dossiers régionnaux contiennent des cartes, mais je me demande : pouvons-nous exploiter ces données et appliquer des traitements statistiques et graphiques qui pourraient potentiellement nous en dire plus ?

    https://www.santepubliquefrance.fr/Actualites/Cartographie-des-cancers-premieres-estimations-regionales-et-dep

    http://invs.santepubliquefrance.fr/Dossiers-thematiques/Maladies-chroniques-et-traumatismes/Cancers/Donnees-par-territoire

    http://invs.santepubliquefrance.fr/Publications-et-outils/Rapports-et-syntheses/Maladies-chroniques-et-traumatismes/2019/Estimations-regionales-et-departementales-d-incidence-et-de

    Cartographie des cancers : premières estimations régionales et départementales de l’incidence et de la mortalité pour 24 cancers en France

    Quelles sont les spécificités régionales et départementales ? Quels sont les principaux cancers par région ? Derrière les grandes tendances nationales se cachent des disparités parfois importantes sur le territoire français. C’est pourquoi, le réseau français des registres des cancers (réseau Francim), le service de Biostatistique-Bioinformatique des Hospices Civils de Lyon, l’Institut national du cancer et Santé publique France publient pour la première fois des estimations d’incidence et de mortalité à une échelle régionale et départementale pour 24 cancers en France.

    Cette nouvelle production d’indicateurs permet de décrire les variations d’incidence et de mortalité par cancer dans les 13 régions métropolitaines et 3 régions Outre-Mer (Guadeloupe, en Guyane et en Martinique) sur la période 2007-2016. Ces données publiées sous forme de 16 synthèses régionales et départementales proposent une description complète des cancers dans l’ensemble des départements de ces régions.
    Ce qu’il faut savoir :

    Ces travaux ont permis de fournir pour la première fois des estimations régionales et départementales d’incidence pour les cancers de l’estomac, du foie, du pancréas, du rein, du système nerveux central, du lymphome de Hodgkin et pour l’entité « tous cancers ».
    Les données d’incidence et de mortalité de 14 localisations cancéreuses, publiées entre 2015 et 2016 à l’échelle départementale ont été mises à jour (Hommes : Lèvres-bouche-pharynx, œsophage, côlon-rectum, larynx, poumon, prostate, testicule, thyroïde, lymphome malin non-hodgkinien ; Femmes : Lèvres-bouche-pharynx, côlon-rectum, poumon, sein, col de l’utérus, corps de l’utérus, ovaire, vessie, thyroïde)
    Chacun des 16 rapports comporte une page de synthèse des principaux résultats du rapport

    Cette étude a été réalisée pour répondre aux besoins des Agences régionales de santé (ARS) en matière de données de surveillance épidémiologique des cancers. Une attention particulière a été portée à l’interprétation des disparités géographiques de chaque indicateur (incidence et mortalité) afin que les ARS disposent d’informations opérationnelles adaptées à leur propre région pour leur permettre de dégager des orientations de santé publique à l’échelle de leurs territoires (préventions, dépistages ou offre de soins). Ces données seront très utiles pour les hôpitaux et cliniciens qui doivent adapter l’offre de soins aux besoins de santé.

    #santé #france #cancer #statistiques #données #cartographie #analyse_spatiale