• Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

    –—

    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

    –—

    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

    –—

    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

    –—

    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

    –—

    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

    –—

    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1016060

    #accueil #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #business #Gradisca_d'Isonzo #Italie #CPR #Vakhtang_Enukidze #Enukidze #Simone_Borile #Ecofficina-Edeco #Ecofficina #Edeco #Cona #Bagnoli #Ekene #Macomer #coopérative #Ecofficina_Educational #Sara_Felpati #Gaetano_Battocchio #Ecofficina_Servizi #Due_Carrare #CPA #CAS #SAI #centri_di_prima_accoglienza #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #Centri_di_accoglienza_straordinaria #Edeco #Annalisa_Carraro #Ecos #Food_Service #Sandrine_Bakayoko #Tuendelee #Oderzo #caserma_Zanusso #Caltanissetta #Badia_Grande

  • In Europa nascono reti di avvocati per difendere i migranti

    Qualche anno fa, al termine di un’intervista sul Patto sulla migrazione e l’asilo presentato dalla Commissione europea l’avvocata italiana #Anna_Brambilla aveva lanciato una proposta: “Fondiamo il #Gtmaaf: #gruppo_transnazionale_di_mutuo_aiuto_per_avvocati_frustrati”.

    A metà tra la battuta e l’appello alla resistenza, l’idea di Brambilla, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), nasceva da una constatazione: in un contesto europeo sempre più ostile alle persone migranti, di fronte allo smantellamento sempre più rapido del diritto d’asilo e degli stranieri, difendere i diritti dei migranti era diventata una missione quasi impossibile, un mestiere screditato da governi che agitavano lo spauracchio degli “avvocati attivisti”.

    Dal 2020 la situazione è peggiorata, accrescendo il senso d’impotenza tra giuriste e giuristi impegnati al fianco di richiedenti asilo e altre persone che tentano di regolarizzare la propria presenza sul territorio dell’Unione europea. Da sinistra a destra, i governi europei si sforzano di restringere i diritti delle persone non europee modificando le leggi o ignorandole, e calpestando di conseguenza i loro diritti fondamentali.

    Unire le forze
    Nessuna pratica è più emblematica di quella dei pushback (o respingimenti). Benché il diritto internazionale vieti di rimandare i richiedenti asilo verso territori nei quali la loro vita o la loro libertà potrebbero essere minacciate, questo tipo di operazione è ormai comune in molti stati membri, alle frontiere tanto esterne (Bulgaria, Croazia, Spagna, Grecia, Ungheria, l’elenco è lungo) quanto interne dell’Ue (come accade alla frontiera franco-italiana).

    La Lituania si è recentemente distinta approvando un provvedimento che legalizza questa pratica, ma la maggior parte dei paesi che eseguono dei respingimenti lo fa violando deliberatamente la legge.

    A Lesbo, isola greca a una decina di chilometri dalle coste della Turchia, i respingimenti avvengono “quasi ogni giorno, in certi casi anche più volte al giorno, cosa che le autorità negano sistematicamente”, denuncia Ozan Mirkan Balpetek, responsabile della comunicazione e dell’advocacy presso il Legal centre Lesvos (Centro legale di Lesbo, Lcl), un’organizzazione senza scopo di lucro registrata in Grecia, che fornisce assistenza legale gratuita alle persone migranti.

    Le associazioni puntano anche sul contenzioso strategico, con l’obiettivo di ottenere un cambiamento più ampio sul piano giuridico e sociale

    In Polonia, l’avvocata Aleksandra Pulchny, socia dell’Association for legal intervention di Varsavia, descrive una situazione simile: “Dall’agosto 2021, le persone che arrivano dalla Bielorussia vengono trasferite dalle guardie di frontiera polacche nella foresta di Białowieża. I respingimenti continuano perché, nonostante la costruzione del muro, le persone riescono ancora a entrare in territorio polacco. E anche se abbiamo ottenuto delle condanne emesse da alcuni tribunali, le guardie di frontiera continuano con i respingimenti”.

    Per rafforzare l’assistenza legale e umanitaria alle persone che arrivano alla frontiera, l’associazione ha creato, con altri partner, la rete Grupa Granica. “Facciamo anche parte del Migration consortium”, spiega Pulchny, “una rete di ong polacche con le quali prendiamo posizioni comuni e incontriamo le autorità”. Al livello europeo, l’associazione ha aderito al progetto Prab, che riunisce diverse organizzazioni impegnate contro i pushback. “Unire le forze con altri è essenziale”, assicura Pulchny.

    Balpetek è d’accordo, ma sottolinea quanto sia importante costruire alleanze che vadano oltre le frontiere dell’Ue, com’è successo in occasione del settimo anniversario dell’accordo di cooperazione tra l’Ue e la Turchia, denunciato dall’Lcl con 73 partner. “Il fatto che le persone muoiano in acque internazionali o in una no man’s land (terra di nessuno) deve naturalmente portare gli avvocati che lavorano nell’Ue a collaborare con i loro colleghi nei paesi vicini”.

    Balpetek cita la collaborazione nata intorno al caso di Barış Büyüksu, un cittadino turco morto il 22 ottobre 2022, poco dopo essere stato trovato su un canotto gonfiabile al largo della città turca di Bodrum. Secondo alcune testimonianze, l’uomo era arrivato sull’isola greca di Kos, dove sarebbe stato detenuto e torturato dalle autorità greche prima di essere respinto insieme ad altre 14 persone. Il rapporto dell’autopsia, da poco rilasciato in Turchia, conferma le accuse di tortura.

    “Più i respingimenti diventano una realtà e più sentiamo il bisogno di collaborare con i nostri colleghi in Turchia”, spiega Balpetek, “perché la Grecia continentale è a 500 chilometri da qui, mentre ora, mentre parlo, vedo la Turchia dalla mia finestra L’Europa non finisce in Grecia o in Bulgaria”.

    Il rovescio della medaglia
    Le tre associazioni puntano anche sul contenzioso strategico, portando casi emblematici davanti a tribunali nazionali o internazionali con l’obiettivo di ottenere un cambiamento più ampio sul piano giuridico e sociale. “Può essere utile, ma c’è il rovescio della medaglia”, osserva Brambilla, “perché anche quando vinci, il potere si riorganizza per vanificare questo risultato. Non bisogna lasciarsi scoraggiare ma occorre forse riconsiderare il contenzioso anche prevedendo quale potrebbe essere la possibile risposta delle autorità statali”.

    Pulchny dà un esempio. In seguito ad alcune decisioni della Corte europea dei diritti umani, che condannava la Polonia per la detenzione amministrativa di minorenni, “alcuni tribunali polacchi avevano cambiato posizione”. Poi, di recente, il centro di detenzione per famiglie di Kętrzyn, nel nord del paese, è stato trasformato in una struttura riservata agli uomini. “Secondo noi, potrebbe essere accaduto perché il tribunale responsabile di esaminare i casi di quel centro era diventato troppo ‘a favore dei bambini’”, spiega l’avvocata. “Oggi le famiglie con bambini sono detenute in un’altra città, dove il tribunale è meno attento a questo tema, e dobbiamo ricominciare tutto da capo”.

    “Lo stato non ama sottomettersi alla legge”, osserva l’avvocata belga Selma Benkhelifa, socia del Progress lawyers network. Benkhelifa è il tipo di avvocata che non esita a recitare una poesia di Bertolt Brecht (“Le nostre sconfitte, vedete/non provano nulla, se non/che siamo troppo pochi/a lottare contro l’infamia”) quando un giudice decide di rinviare la sua cliente, una giovane afgana scolarizzata in Belgio, nel suo paese di origine. “Quando ho cominciato a esercitare la professione, nel 2001, giudici e avvocati si trovavano spesso d’accordo sui princìpi di base: l’esistenza dei diritti umani, il fatto che una persona bianca e una nera sono uguali. Però ci dicevano: ‘Il suo cliente mente’, e noi dovevamo dimostrare che non mentiva. Da qualche anno, anche quando dimostriamo che la persona potrebbe morire se fosse rispedita nel suo paese di origine, il giudice risponde: ‘Pazienza’”.

    Arrendersi all’incredulità
    Benkhelifa e i suoi colleghi hanno preso l’abitudine di non presentarsi più soli “quando rischiamo di ritrovarci con un tribunale molto ostile: per sostenerci a vicenda, ma anche perché a volte ti capita di sentire certe cose… e ti chiedi se stai sognando”.

    Di recente, in Belgio, anche i giudici hanno dovuto arrendersi all’incredulità. Nonostante le oltre ottomila condanne da parte del tribunale del lavoro e le molteplici ingiunzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, le autorità belghe continuano a violare la legge lasciando per strada migliaia di richiedenti asilo, che hanno tutti diritto a un alloggio. Secondo Benkhelifa, questo rifiuto di rispettare le decisioni della giustizia segna un punto di svolta: “Spesso dico che gli stranieri sono un banco di prova delle politiche liberticide. L’erosione dei diritti fondamentali comincia da loro perché non interessa a nessuno. È un precedente molto pericoloso”.

    Nonostante la gravità delle sfide, da Varsavia a Bruxelles, da Lesbo a Milano la volontà di battersi rimane intatta, anche grazie alla solidarietà che cresce tra, e intorno a, chi difende i diritti delle persone in movimento. “Certo, proviamo frustrazione”, riconosce Balpetek, “ma quello che ci permette di andare avanti è l’enorme solidarietà internazionale”, come quella ispirata dal caso dei “Moria 6”, i sei giovani afgani condannati, sulla base di elementi discutibili, a pesanti pene detentive per l’incendio del campo di Moria a Lesbo nel 2020 (il processo di appello, che doveva cominciare il 6 marzo 2023, è stato rinviato di un anno). “Questa solidarietà è importante per noi, ma anche per le persone detenute”. In tutta l’Ue e oltre, i rapporti tra coloro che resistono – giuristi, ong, attivisti – si stanno quindi consolidando su scala transnazionale.

    Qualcosa sta cambiando anche tra gli stessi giuristi. “Credo che di fronte alla situazione attuale, alcuni colleghi si radicalizzino”, osserva Benkhelifa, “e riconoscano che bisogna aprire le frontiere se vogliamo smettere di far morire le persone”. Anna Brambilla parla della necessità di cambiare rotta e prospettiva, di non pensare esclusivamente in termini di asilo ma di tornare alla riflessione originaria sui diritti, sulla libertà di movimento e sulle migrazioni.

    “Il cambiamento deve essere anche culturale e personale”, afferma. Così, dal 2022, l’Asgi propone ai suoi soci degli incontri con specialisti della migrazione in ambiti diversi dal diritto, per stimolare questo cambio di prospettiva ed evitare l’isolamento e il frazionamento disciplinare. “Non possiamo inoltre non osservare come, anche tra gli ‘addetti ai lavori’, il sapere sia ancora essenzialmente bianco e occidentale”, aggiunge Brambilla. “Come sostiene Rachele Borghi, docente di geografia all’Université Paris-Sorbonne, occorre ‘decolonizzare il sapere’”, e questo anche nel campo del diritto.

    “Certo che sono arrabbiata, ma non ho perso la speranza, perché credo che la questione dei diritti umani e della democrazia sia un’eterna lotta”, conclude Benkhelifa. “La situazione potrebbe peggiorare ancora per qualche anno, e poi migliorare. Uno dei motivi per cui ho deciso di diventare avvocata era l’ammirazione che provavo per la giurista franco-tunisina Gisèle Halimi. Durante la guerra di Algeria, difese attivisti e attiviste del Fronte di liberazione nazionale che avevano ricevuto una condanna a morte. Halimi e i suoi colleghi ebbero il coraggio di portare avanti questa battaglia perché credevano nell’Algeria libera. Io credo nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani e nell’apertura delle frontiere e questo mi dà la forza per continuare questa lotta, anche se per ora può sembrare utopistica”.

    https://www.internazionale.it/notizie/francesca-spinelli/2023/05/23/migranti-difesa-reti-avvocate-europa

    #avocats #droit #réseau #réseaux_européens #réseaux #défense

  • Un quartier de #Berlin rebaptise des lieux avec les noms de résistants africains à la #colonisation

    Une rue et une #place portant le nom de personnalités phares du colonialisme allemand ont été débaptisées, début décembre, dans le quartier de #Wedding. Elles ont désormais le nom de résistants ayant œuvré, au début du XXe siècle, contre l’action de l’Allemagne en Afrique.

    “Fini d’honorer les dirigeants de la colonisation.” Comme le rapporte le Tagesspiegel, plusieurs lieux du “quartier africain” de Berlin ont été rebaptisés, dans le cadre d’une initiative menée par les autorités locales. “L’ancienne place #Nachtigal est devenue la place #Manga-Bell ; et la rue #Lüderitz, la rue #Cornelius-Fredericks”, détaille le titre berlinois. Le tout au nom du “travail de mémoire” et du “#décolonialisme”.

    #Gustav_Nachtigal et #Adolf_Lüderitz, dont les noms ornaient jusqu’à présent les plaques du quartier, avaient tous deux “ouvert la voie au colonialisme allemand”. Ils ont été remplacés par des personnalités “qui ont été victimes de ce régime injuste”.

    À savoir Emily et Rudolf Manga Bell, le couple royal de Douala qui s’est opposé à la politique d’expropriation des terres des autorités coloniales allemandes au #Cameroun, et Cornelius Fredericks, résistant engagé en faveur du peuple des #Nama, avant d’être emprisonné et tué dans le camp de concentration de #Shark_Island, dans l’actuelle #Namibie.

    “Indemnisation symbolique”

    “Les noms des rues du quartier africain ont fait polémique pendant plusieurs années”, assure le journal berlinois. Lorsqu’en 2018 l’assemblée des délégués d’arrondissement de ce quartier, Wedding, dans l’arrondissement de #Berlin-Mitte, avait proposé pour la première fois de changer les noms de certains lieux, près de 200 riverains étaient montés au créneau, critiquant notamment le coût de la mesure. Ils assuraient par ailleurs qu’“on ne peut pas faire disparaître l’histoire des plaques de rue”.

    Mais les associations des différentes diasporas africaines, elles, considèrent que les changements de noms sont importants, dans un pays “où les crimes du colonialisme allemand ne sont pas éclaircis systématiquement”. L’Empire allemand a en effet été responsable de diverses atrocités commises pendant sa courte période coloniale – comme le génocide des Héréro et des Nama, entre 1904 et 1908, dans ce que l’on appelait à l’époque le “Sud-Ouest africain allemand” et qui correspond aujourd’hui à la Namibie.

    Cet épisode de l’histoire n’a été reconnu par l’Allemagne qu’en mai 2021, rappellent les organisations décoloniales d’outre-Rhin. “Elles demandent de nouveaux noms de rue à titre d’indemnisation symbolique pour les victimes, mais également à titre éducatif.”

    https://www.courrierinternational.com/article/memoire-un-quartier-de-berlin-rebaptise-des-lieux-avec-les-no

    #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #résistance #noms_de_rue #rebaptisation #colonialisme_allemand #Allemagne_coloniale #Allemagne #toponymie_coloniale #mémoire

    ping @cede @nepthys

    • Keine Ehre für Kolonialherren in Berlin: Straßen im Afrikanischen Viertel werden umbenannt

      Aus dem Nachtigalplatz wird am Freitag der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße. Anwohner hatten gegen die Umbenennung geklagt.

      Nach jahrelangen Protesten werden ein Platz und eine Straße im Afrikanischen Viertel in Wedding umbenannt. Aus dem bisherigen Nachtigalplatz wird der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße.

      „Straßennamen sind Ehrungen und Teil der Erinnerungskultur“, sagte Bezirksbürgermeisterin Stefanie Remlinger (Grüne). Daher sei es eine wichtige Aufgabe, Namen aus dem Berliner Straßenbild zu tilgen, die mit Verbrechen der Kolonialzeit im Zusammenhang stehen.

      Gustav Nachtigal und Adolf Lüderitz waren Wegbereiter des deutschen Kolonialismus, der im Völkermord an den Herero und Nama gipfelte. An ihrer Stelle sollen nun Menschen geehrt werden, die Opfer des deutschen Unrechtsregimes wurden.

      Das Königspaar Emily und Rudolf Duala Manga Bell setzte sich nach anfänglicher Kooperation mit deutschen Kolonialautoritäten gegen deren Landenteignungspolitik zur Wehr. Cornelius Fredericks führte den Widerstandskrieg der Nama im damaligen Deutsch-Südwestafrika, dem heutige Namibia, an. Er wurde 1907 enthauptet und sein Schädel zur „Erforschung der Rassenüberlegenheit“ nach Deutschland geschickt und an der Charité aufbewahrt.

      Über die Straßennamen im Afrikanischen Viertel wurde viele Jahre gestritten. Im April 2018 hatte die Bezirksverordnetenversammlung Mitte nach langem Hin und Her beschlossen, den Nachtigalplatz, die Petersallee und die Lüderitzstraße umzubenennen. Dagegen hatten 200 Gewerbetreibende sowie Anwohnende geklagt und die Namensänderungen bis jetzt verzögert. Im Fall der Petersallee muss noch über eine Klage entschieden werden.

      Geschichte könne nicht überall von Straßenschildern getilgt werden, argumentieren die Gegner solcher Umbenennungen. Denn konsequent weitergedacht: Müsste dann nicht sehr vielen, historisch bedeutenden Personen die Ehre verweigert werden, wie etwa dem glühenden Antisemiten Martin Luther?
      Klagen verzögern auch Umbenennung der Mohrenstraße

      Ein anderes viel diskutiertes Beispiel in Mitte ist die Mohrenstraße, deren Namen als rassistisch kritisiert wird. Auch hier verzögern Klagen die beschlossene Umbenennung. Gewerbetreibende argumentieren auch mit Kosten und Aufwand für Änderung der Geschäftsunterlagen.

      Vor allem afrodiasporische und solidarische Organisationen wie der Weddinger Verein Eoto und Berlin Postkolonial kämpfen für die Straßenumbenennungen. Sie fordern sie als symbolische Entschädigung für die Opfer, aber auch als Lernstätte. Denn bis heute fehlt es oft an Aufklärung über die deutschen Verbrechen. Die Debatte darüber kam erst in den letzten Jahren in Gang.

      Wenn am Freitag ab 11 Uhr die neuen Straßenschilder enthüllt werden, sind auch die Botschafter Kameruns und Namibias sowie König Jean-Yves Eboumbou Douala Bell, ein Nachfahre des geehrten Königspaares, dabei. Die Straßenschilder werden mit historischen Erläuterungen versehen. (mit epd)

      https://www.tagesspiegel.de/berlin/bezirke/keine-ehre-fur-kolonialherren-in-berlin-strassen-im-afrikanischen-viert

    • Benannt nach Kolonialverbrechern: #Petersallee, Nachtigalplatz - wenn Straßennamen zum Problem werden

      Die #Mohrenstraße in Berlin wird umbenannt. Im Afrikanischen Viertel im Wedding dagegen wird weiter über die Umbenennung von Straßen gestritten.

      Die Debatte über den Umgang mit kolonialen Verbrechen, sie verläuft entlang einer Straßenecke im Berliner Wedding. Hier, wo die Petersallee auf den Nachtigalplatz trifft, wuchert eine wilde Wiese, ein paar Bäume werfen kurze Schatten, an einigen Stellen bricht Unkraut durch die Pflastersteine des Bürgersteigs. Kaum etwas zu sehen außer ein paar Straßenschildern. Doch um genau die wird hier seit Jahren gestritten.

      Am Mittwoch hat die Bezirksverordnetenversammlung Berlin-Mitte beschlossen, die Mohrenstraße in Anton-Wilhelm-Amo-Straße umzubenennen, nach einem widerständigen afrikanischen Gelehrten. Im gleichen Bezirk hat die Organisation „Berlin Postkolonial“ in dieser Woche ein Informationszentrum zur deutschen Kolonialgeschichte in der Wilhelmstraße eröffnet – in den kommenden vier Jahren soll es von Erinnerungsort zu Erinnerungsort ziehen.

      Das Zentrum ist die erste speziell dem Thema gewidmete öffentliche Anlaufstelle in der Stadt.

      Andernorts aber kämpft man seit Jahren nach wie vor erfolglos für eine Umbenennung von Straßennamen mit Bezügen zur Kolonialzeit. In ganz Deutschland gibt es noch immer mehr als 150 – im Berliner Wedding treten sie besonders geballt im sogenannten Afrikanischen Viertel auf. Orte wie die Petersallee, der Nachtigalplatz und die Lüderitzstraße. Orte, die nach deutschen Kolonialverbrechern benannt sind.
      #Carl_Peters wurde wegen seiner Gewalttaten „blutige Hand“ genannt. Gustav Nachtigal unterwarf die Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika.

      Carl Peters (1856–1918) war die treibende Kraft hinter der Gründung der ehemaligen deutschen Kolonie #Deutsch-Ostafrika, seine Gewalttätigkeit brachte ihm die Spitznamen „Hänge-Peters“ und „blutige Hand“ ein. Gustav Nachtigal (1834– 1885) nahm eine Schlüsselrolle ein bei der Errichtung der deutschen Herrschaft über die drei westafrikanischen Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika, das heutige Namibia. Und der Bremer Kaufmann Adolf Eduard Lüderitz (1834–1886) gilt als der Mann, der das deutsche Kolonialreich mit einem betrügerischen Kaufvertrag in Gang setzte.

      Eine Ehrung für außergewöhnliche Leistungen

      Straßennamen sollen eine besondere Ehrung darstellen, sie sollen an Menschen erinnern, die außergewöhnlich Gutes geleistet haben. Das deutsche Kolonialreich aufgebaut zu haben, fällt nicht mehr in diese Kategorie. Aus diesem Grund wurden in der Geschichte der Bundesrepublik bislang allein 19 Straßen umbenannt, die Carl Peters im Namen trugen. Das erste Mal war das 1947 in Heilbronn. Der aktuellste Fall findet sich 2015 in Ludwigsburg. Auch nach dem Ende des Nationalsozialismus und dem der DDR hat man im großen Stil Straßen umbenannt, die als Würdigung problematischer Personen galten.

      Im Wedding ist wenig passiert, in der Welt zuletzt viel. Die Ermordung des schwarzen US-Amerikaners George Floyd hat Proteste ausgelöst, weltweit. Gegen Rassismus, gegen Polizeigewalt. Aber auch gegen die noch immer präsenten Symbole des Kolonialismus, dem diese Ungerechtigkeiten, diese Unterdrückungssysteme entspringen. Im englischen Bristol stürzten Demonstranten die Statue des Sklavenhändlers Edward Colston von ihrem Sockel und versenkten sie im Hafenbecken.

      „Krieg den Palästen“

      Ein alter Gewerbehof in Kreuzberg unweit des Landwehrkanals, Sommer 2019. Tahir Della, Sprecher der Initiative Schwarze Menschen in Deutschland, sitzt an seinem Schreibtisch in einem Co-Working-Space. Um ihn herum Bücher, Flyer. Hinter Della lehnen zwei große Plakate. Auf dem einen steht: „Black Lives Matter“. Auf dem anderen: „Krieg den Palästen“. Ein paar Meter über Dellas Kopf zieht sich eine großformatige Bildergalerie durch die ganze Länge des Raums. Fotos von Schwarzen Menschen, die neue Straßenschilder über die alten halten.

      „Die kolonialen Machtverhältnisse wirken bis in die Gegenwart fort“, sagt Della. Weshalb die Querelen um die seit Jahren andauernde Straßenumbenennung im Wedding für ihn auch Symptom eines viel größeren Problems sind: das mangelnde Bewusstsein und die fehlende Bereitschaft, sich mit der deutschen Kolonialvergangenheit auseinanderzusetzen. „Die Leute haben Angst, dieses große Fass aufzumachen.“

      Denn wer über den Kolonialismus von damals spreche, der müsse auch über die Migrations- und Fluchtbewegungen von heute reden. Über strukturellen Rassismus, über racial profiling, über Polizeigewalt, darüber, wo rassistische Einordnungen überhaupt herkommen.

      Profiteure der Ausbeutung

      „Deutsche waren maßgeblich am Versklavungshandel beteiligt“, sagt Della. In Groß Friedrichsburg zum Beispiel, an der heutigen Küste Ghanas, errichtete Preußen schon im 17. Jahrhundert ein Fort, um von dort aus unter anderem mit Sklaven zu handeln. „Selbst nach dem sogenannten Verlust der Kolonien hat Europa maßgeblich von der Ausbeutung des Kontinents profitiert, das gilt auch für Deutschland“, sagt Della.

      Viele Menschen in diesem Land setzen sich aktuell zum ersten Mal mit dem Unrechtssystem des Kolonialismus auseinander und den Privilegien, die sie daraus gewinnen. Und wenn es um Privilegien geht, verhärten sich schnell die Fronten. Weshalb aus einer Debatte um die Umbenennung von kolonialen Straßennamen in den Augen einiger ein Streit zwischen linkem Moralimperativ und übervorteiltem Bürgertum wird. Ein Symptom der vermeintlichen Empörungskultur unserer Gegenwart.

      Ein unscheinbares Café im Schatten eines großen Multiplexkinos, ebenfalls im Sommer 2019. Vor der Tür schiebt sich der Verkehr langsam die Müllerstraße entlang, dahinter beginnt das Afrikanische Viertel. Drinnen warten Johann Ganz und Karina Filusch, die beiden Sprecher der Initiative Pro Afrikanisches Viertel.
      Die Personen sind belastet, aber die Namen sollen bleiben

      Ganz, Anfang 70, hat die Bürgerinitiative 2010 ins Leben gerufen. Sie wünschen sich eine Versachlichung. Er nennt die betreffenden Straßennamen im Viertel „ohne Weiteres belastet“, es sei ihm schwergefallen, sie auf Veranstaltungen zu verteidigen. Warum hat er es dennoch getan?

      Seine Haltung damals: Die Personen sind belastet, aber die Straßennamen sollten trotzdem bleiben.

      „Da bin ich für die Bürger eingesprungen“, sagt Ganz, „weil die das absolut nicht gewollt haben.“ Und Filusch ergänzt: „Weil sie nicht beteiligt wurden.“

      Allein, das mit der fehlenden Bürgerbeteiligung stimmt so nicht. Denn es gab sie – obwohl sie im Gesetz eigentlich gar nicht vorgesehen ist. Für die Benennung von Straßen sind die Bezirksverwaltungen zuständig. Im Falle des Afrikanischen Viertels ist es das Bezirksamt Mitte. Dort entschied man, den Weg über die Bezirksverordnetenversammlung zu gehen.
      Anwohner reichten 190 Vorschläge ein

      In einem ersten Schritt bat man zunächst die Anwohner, Vorschläge für neue Namen einzureichen, kurze Zeit später dann alle Bürger Berlins. Insgesamt gingen etwa 190 Vorschläge ein, über die dann eine elfköpfige Jury beriet. In der saß neben anderen zivilgesellschaftlichen Akteuren auch Tahir Della, als Vertreter der Schwarzen Community. Nach Abstimmung, Prüfung, weiteren Gutachten und Anpassungen standen am Ende die neuen Namen fest, die Personen ehren sollen, die im Widerstand gegen die deutsche Kolonialmacht aktiv waren.

      Die #Lüderitzstraße soll in Zukunft #Cornelius-Fredericks-Straße heißen, der Nachtigalplatz in Manga-Bell-Platz umbenannt werden. Die Petersallee wird in zwei Teilstücke aufgeteilt, die #Anna-Mungunda-Allee und die #Maji-Maji-Allee. So der Beschluss des Bezirksamts und der Bezirksverordnetenversammlung im April 2018. Neue Straßenschilder hängen aber bis heute nicht.

      Was vor allem am Widerstand der Menschen im Viertel liegt. Mehrere Anwohner haben gegen die Umbenennung geklagt, bis es zu einer juristischen Entscheidung kommt, können noch Monate, vielleicht sogar Jahre vergehen.

      Eine Generation will endlich gehört werden

      Auf der einen Seite ziehen sich die Prozesse in die Länge, auf der anderen steigt die Ungeduld. Wenn Tahir Della heute an die jüngsten Proteste im Kontext von „Black Lives Matter“ denkt, sieht er vor allem auch eine jüngere Generation, die endlich gehört werden will. „Ich glaube nicht, dass es gleich nachhaltige politische Prozesse in Gang setzt, wenn die Statue eines Versklavungshändlers im Kanal landet“, sagt Della, „aber es symbolisiert, dass die Leute es leid sind, immer wieder sich und die offensichtlich ungerechten Zustände erklären zu müssen.“

      In Zusammenarbeit mit dem Berliner Peng-Kollektiv, einem Zusammenschluss von Aktivisten aus verschiedenen Bereichen, hat die Initiative kürzlich eine Webseite ins Leben gerufen: www.tearthisdown.com/de. Dort findet sich unter dem Titel „Tear Down This Shit“ eine Deutschlandkarte, auf der alle Orte markiert sind, an denen beispielsweise Straßen oder Plätze noch immer nach Kolonialverbrechern oder Kolonialverbrechen benannt sind. Wie viel Kolonialismus steckt im öffentlichen Raum? Hier wird er sichtbar.

      Bemühungen für eine Umbenennung gibt es seit den Achtzigerjahren

      Es gibt viele Organisationen, die seit Jahren auf eine Aufarbeitung und Auseinandersetzung mit dem Unrecht des Kolonialismus drängen. Zwei davon sitzen im Wedding, im sogenannten Afrikanischen Viertel: EOTO, ein Bildungs- und Empowerment-Projekt, das sich für die Interessen Schwarzer, afrikanischer und afrodiasporischer Menschen in Deutschland einsetzt, und Berlin Postkolonial.

      Einer der Mitbegründer dieses Vereins ist der Historiker Christian Kopp. Zusammen mit seinen Kollegen organisiert er Führungen durch die Nachbarschaft, um über die Geschichte des Viertels aufzuklären. Denn Bemühungen, die drei Straßen umzubenennen, gibt es schon seit den achtziger Jahren.

      Kopp erzählt auch von der erfolgreichen Umbenennung des Gröbenufers in Kreuzberg im Jahr 2010, das seitdem den Namen May-Ayim-Ufer trägt. „Vor zehn Jahren wollte niemand über Kolonialismus reden“, sagt Kopp. Außer man forderte Straßenumbenennungen. „Die Möglichkeit, überhaupt erst eine Debatte über Kolonialismus entstehen zu lassen, die hat sich wohl vor allem durch unsere Umbenennungsforderungen ergeben.“

      Rassismus und Raubkunst

      2018 haben sich CDU und SPD als erste deutsche Bundesregierung überhaupt die „Aufarbeitung des Kolonialismus“ in den Koalitionsvertrag geschrieben. Auch die rot-rot-grüne Landesregierung Berlins hat sich vorgenommen, die Rolle der Hauptstadt in der Kolonialzeit aufzuarbeiten.

      Es wird öffentlich gestritten über das koloniale Erbe des Humboldt-Forums und dem Umgang damit, über die Rückgabe von kolonialer Raubkunst und die Rückführung von Schädeln und Gebeinen, die zu Zwecken rassistischer Forschung einst nach Deutschland geschafft wurden und die bis heute in großer Zahl in Sammlungen und Kellern lagern.

      Auch die Initiative Pro Afrikanisches Viertel hat ihre Positionen im Laufe der vergangenen Jahre immer wieder verändert und angepasst. War man zu Beginn noch strikt gegen eine Umbenennung der Straßen, machte man sich später für eine Umwidmung stark, so wie es 1986 schon mit der Petersallee geschehen ist. Deren Name soll sich nicht mehr auf den Kolonialherren Carl Peters beziehen, sondern auf Hans Peters, Widerstandskämpfer gegen den Nationalsozialismus und Mitglied des Kreisauer Kreises.

      Straßen sollen vorzugsweise nach Frauen benannt werden

      Heute ist man bei der Initiative nicht mehr für die alten Namen. Für die neuen aber auch nicht wirklich. Denn diese würden nicht deutlich genug im Kontext deutscher Kolonialgeschichte stehen, sagt Karina Filusch, Sprecherin der Initiative. Außerdem würden sie sich nicht an die Vorgabe halten, neue Straßen vorzugsweise nach Frauen zu benennen.

      An Cornelius Fredericks störe sie der von den „Kolonialmächten aufoktroyierte Name“. Und Anna Mungunda habe als Kämpferin gegen die Apartheid zu wenig Verbindung zum deutschen Kolonialismus. Allgemein wünsche sie sich einen Perspektivwechsel, so Filusch.

      Ein Perspektivwechsel weg von den weißen Kolonialverbrechern hin zu Schwarzen Widerstandskämpfern, das ist das, was Historiker Kopp bei der Auswahl der neuen Namen beschreibt. Anna Mungunda, eine Herero-Frau, wurde in Rücksprache mit Aktivisten aus der Herero-Community ausgewählt. Fredericks war ein Widerstandskämpfer gegen die deutsche Kolonialmacht im heutigen Namibia.
      Bezirksamt gegen Bürger? Schwarz gegen Weiß?

      Für die einen ist der Streit im Afrikanischen Viertel eine lokalpolitische Auseinandersetzung zwischen einem Bezirksamt und seinen Bürgern, die sich übergangen fühlen. Für die anderen ist er ein Symbol für die nur schleppend vorankommende Auseinandersetzung mit der deutschen Kolonialgeschichte.

      Wie schnell die Dinge in Bewegung geraten können, wenn öffentlicher Druck herrscht, zeigte kürzlich der Vorstoß der Berliner Verkehrsbetriebe. Angesichts der jüngsten Proteste verkündete die BVG, die U-Bahn-Haltestelle Mohrenstraße in Glinkastraße umzutaufen.

      Ein Antisemit, ausgerechnet?

      Der Vorschlag von Della, Kopp und ihren Mitstreitern war Anton-W.-Amo- Straße gewesen, nach dem Schwarzen deutschen Philosophen Anton Wilhelm Amo. Dass die Wahl der BVG zunächst ausgerechnet auf den antisemitischen russischen Komponisten Michail Iwanowitsch Glinka fiel, was viel Kritik auslöste, offenbart für Della ein grundsätzliches Problem: Entscheidungen werden gefällt, ohne mit den Menschen zu reden, die sich seit Jahrzehnten mit dem Thema beschäftigen.

      Am Dienstag dieser Woche ist der Berliner Senat einen wichtigen Schritt gegangen: Mit einer Änderung der Ausführungsvorschriften zum Berliner Straßengesetz hat er die Umbenennung umstrittener Straßennamen erleichtert. In der offiziellen Mitteilung heißt es: „Zukünftig wird ausdrücklich auf die Möglichkeit verwiesen, Straße umzubenennen, wenn deren Namen koloniales Unrecht heroisieren oder verharmlosen und damit Menschen herabwürdigen.“

      https://www.tagesspiegel.de/gesellschaft/petersallee-nachtigalplatz-wenn-strassennamen-zum-problem-werden-419073

  • Architettura italiana in Eritrea

    Questo libro amplia la documentazione della mostra “Asmara – Africa’s Secret Modernist City”, curata da Omar Akbar e da Naigzy Gebremedhin: la mostra, dopo l’esordio a Berlino lo scorso 2 Ottobre 2006, e dopo numerose tappe di un itinerario internazionale, viene presentata per la prima volta in Italia, a Torino, nell’ambito del XXIII Congresso Internazionale degli Architetti (29 giugno – 4 luglio 2008). Il libro, basato sull’album fotografico dei numerosi viaggi dell’autrice in Eritrea, illustra, attraverso la scelta di immagini significative, le manifestazioni architettoniche che hanno segnato il periodo coloniale italiano in Eritrea dal 1882 al 1941.

    The fruit of its author’s professional experience in Eritrea, this book provides readers with an upbeat, original presentation of the architectural developments that marked the history of the Italian colonial administration in Eritrea from 1882 to 1941, recording them with an extensive repertoire of contemporary and historical photographs and documents.
    Architects, town planners, engineers and other professionals working in the African colony seized the opportunity to experiment with new concepts, erecting modern architectural forms that they would not have been able to propose with the same degree of freedom in Italy itself, especially from the twenties onwards. The resulting artistic heritage is unique for the creative traits that range from interpretations of neoclassical taste to modern expressions of Rationalism, as well as the unusually balanced way in which they were inserted into their environmental context.

    www.editricelarosa.it/larosa/fc06.html
    http://www.editricelarosa.it/larosa/index.htm

    #architecture #livre #Anna_Godio #colonialisme_italien #colonisation #Italie #Erythrée #histoire #urbanisme #livre

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @cede

    • Asmara. Africa’s Secret Modernist City

      Asmara, the capital of the small East African country of Eritrea, bordering the Red Sea, is one of the most important and exciting architectural ’discoveries’ of recent years. Built almost entirely in the 1930s by the Italians, who transformed it into a hotbed of radical architectural innovation, Asmara has one of the highest concentrations of Modernist architecture anywhere in the world. This superb building-by-building survey, illustrated with previously unpublished archival material and specially commissioned photography, chronicles the colonial past and remarkable survival of a city that has evocatively been described as ’the Miami of Africa’.

      The first book to explore one of the most important but least-known Modernist cities in the world
      Authoritatively written by experts with extensive first-hand knowledge of the city
      A must-have for anyone interested in architectural history and the dynamics of Modernism

      https://www.merrellpublishers.com/index.php

    • Modernist architecture in Asmara, Eritrea

      UNESCO World Heritage Sites are natural and cultural legacies of “outstanding value to humanity…irrespective of the territory on which they are located”. Africa has less than a third of Europe’s number of sites. UNESCO is endeavouring to redress this imbalance, although the nomination process remains costly, time-consuming and dependent on specific expertise.

      The locally-based Asmara Heritage Project (AHP) was established in March 2014 and has been supported by a number of governmental and non-governmental agencies internationally. In January 2016, AHP will submit an application to have the capital city of Eritrea recognised as a World Heritage Site.

      AHP’s application will be under three of the ten criteria set out by UNESCO, stipulating that the nominated site must:

      – Exhibit an important interchange of human values, over a span of time or within a cultural area of the world, on developments in architecture or technology, monumental arts, town planning or landscape design
      – Bear a unique or at least exceptional testimony to a cultural tradition or to a civilization which is living or has disappeared
      - Be an outstanding example of a type of building, architectural or technological ensemble or landscape which illustrates (a) significant stage(s) in human history

      Urban planning and architecture constitute two distinct elements of the Asmara bid. Both are outstanding examples of their respective contributions to world heritage.

      On 9 September Dr Edward Denison, co-author of “Asmara: Africa’s Secret Modernist City” and member of the AHP team, spoke to a full house – including many Eritreans – at ARI. Here is a selection of ten things of interest from the presentation and discussion afterwards.

      1. Modernism was not an exclusively western phenomenon – it was global. Africa, Asia and South America must not be overlooked. There are “multiple modernities”. Asmara represents “perhaps the most concentrated and intact assemblage of Modernist architecture anywhere in the world”. Before the 1930s there was quite an eclectic mix of architectural styles – neo-classicism, neo-baroque and neo-romanesque. Things started to change in 1935-6, coinciding with the apogee of Fascism and the Italian invasion of Ethiopia. We know this from the architectural archive in Asmara municipality, an extraordinarily rich resource. Modernism, not Art Deco, as is often erroneously claimed, characterises many of the buildings constructed in this period.

      2. Italian planners in the early 1900s embraced the topography of Asmara as they developed their urban plans. Their designs – such as Cavagnari’s 1913 plan – sought to create a modern city that addressed the uniquely modern requirements of transportation, communication and sanitation, but did so in a way that respected and responded to the local environment while embracing modern planning principles. In doing so they created a very distinct urban plan. Although the city has since expanded and evolved substantially, the core characteristics have been retained, highlighting the success of the original designs.

      3. The planners of Asmara were, for the most part, Italians but the physical construction of the city was undoubtedly undertaken by Eritreans. Local materials, such as lignite, granite and basalt, were used as the core building material with plaster rendered over this base. This means many of the structures were built using materials not normally associated with modernism, which exploited the properties of reinforced concrete.

      4. Enda Mariam Orthodox Cathedral, built in 1938, is a unique example of rationalist/ modernist design acknowledging highland vernacular architecture. The “monkey head” building technique, using wooden dowels to bind the walls, had been used for centuries in the highlands of Eritrea and their legacy can be seen in the detailing of Enda Mariam and its surrounding buildings.

      5. The piece of the puzzle we know least about is the background and motivation of the Italian planners and architects who came to Eritrea. This is frustrating when it comes to trying to understand fully their work, their portfolios and how their work in Eritrea shaped their future careers. Were they waving the flag for colonialism or were they running away from Mussolini? One building that brings this debate into focus is the futurist Fiat Tagliero petrol station. Futurism was very popular in the 1910s, but fell out of favour under Mussolini. Yet the Fiat Tagliero was built in 1938.

      6. The municipal architectural archives in Asmara are invaluable for what they tell us about what was conceived of but never built – including what would have been Africa’s first multi-storey car-park. They shed light on the aspirations and ideas that shaped the evolution of the city. In doing so they help us to understand the thought processes of the planners and architects and the lifestyles they envisioned for its residents.

      7. Efforts to preserve Asmara’s architecture have involved citizens as well as government. Proposals from German developers in the 1990s to knock down Caserma Mussolini – a former prison and now the Bank of Eritrea – and replace it with high-rise modern developments were blocked by individuals who had been incarcerated there during the Italian period. This sort of threat still exists, but the municipality has enforced a moratorium on building (in place now for ten years) in the historic zone of the city while it updates building regulations dating from 1938, and the country passes its first Heritage laws – an essential requirement for the UNESCO bid. The momentum provided in the 2000s by the World Bank-funded Cultural Assets Rehabilitation Project has been revived and maintained.

      8. The coastal city of Massawa is much more ancient than Asmara but the state it is currently in will make a restoration hugely difficult and costly. Efforts have been made, not least under the Cultural Heritage Rehabilitation Project. However, it is hoped that the UNESCO bid will help build capacity within Eritrea and attract support internationally to carry out further work to preserve cultural heritage across the country in sites of great importance such as Massawa, Nakfa, Adulis and Qohaito.

      9. Ensuring the engagement and interaction with younger Eritreans both within the country and in the diaspora is crucial. Raising public awareness will be a key part of the AHP once the bid has been submitted. In 2003 a project, funded by the British Council, encouraged school children from across Eritrea to describe what they liked most about their built environment through poems, pictures and stories. These contributions form part of a travelling exhibition that has raised awareness about Asmara’s heritage globally by appearing in cities across Africa, Europe and the Middle East. It is hoped that with support from the international community, this exhibition can travel to Asmara and one day become a permanent exhibit in the city.

      10. Four villages were brought together on the plateau to form what became Asmara. It is a deeply historical symbol of unity. During the independence struggle, Asmara was interpreted and referred to through song, dance, education; a cultural heritage that extends beyond architecture. The city was an important reference point for Eritreans outside Asmara and played a crucial role in the struggle for national self-determination. Its unifying features remain important as Eritrea continues to try and build peace and stability.

      https://www.africaresearchinstitute.org/newsite/event/9-september-event-modernist-architecture-in-asmara-eritrea
      #modernisme #architecture_moderniste #photographie

      via @olivier_aubert

    • Architecture in Asmara. Colonial Origin and Postcolonial Experiences

      The ancient city of Asmara is the capital of Eritrea and its largest settlement. Its beautiful architecture was rediscovered by outsiders in the early 1990s. In this book, the authors offer an original analysis of the colonial city, providing a history not only of the physical and visible urban reality, but also of a second, invisible city as it exists in the imagination. The colonial city becomes a fantastical set of cities where each one reflects the others as if in a kaleidoscope.

      Architecture in Asmara. Colonial Origin and Postcolonial Experiences breaks new ground and moves us a little further along in the attempt to decipher Asmara in terms of contemporary theory. This title of the Basics series brings together scholars from a multiplicity of disciplines who have shown the ways in which colonial and postcolonial criticism has served as a platform for new, diversified readings of Asmara.

      https://dom-publishers.com/products/architecture-in-asmara
      #livre
      via @olivier_aubert

  • Anna Göldi Museum

    Das moderne und gänzlich neu konzipierte Museum ist dem tragischen Schicksal der 1782 durch das Schwert hingerichteten Magd Anna Göldi gewidmet und zeichnet die Stationen ihres Lebens nach. Im Zentrum der Ausstellung steht der unvergleichlich gut dokumentierte Prozess, namentlich die ausführlichen Gerichtsprotokolle. Ausgehend von diesen werden die Besucherinnen und Besucher von einer Themeninsel zur anderen geführt: Hexenwahn, Netzwerk der Macht, Aufklärung, Publizistik, Erinnerungskultur, Rehabilitierung.

    Le musée est situé à #Ennenda, dans le canton #Glaris

    https://www.annagoeldimuseum.ch/index.php/de

    #Suisse #sorcières #musée #Anna_Göldi #Anna_Göldin #histoire #mémoire

  • De l’Asie à l’Amérique
    Histoire de l’immigration asiatique aux États-Unis
    https://www.arte.tv/fr/videos/RC-022232/de-l-asie-a-l-amerique

    L’histoire de l’immigration asiatique aux États-Unis. Cette série documentaire en cinq épisodes, nourrie de captivantes archives et interviews, retrace la difficile intégration des Asio-américains. Ce sont cent cinquante ans de lutte, et de bonne volonté, pour, peut-être enfin, être reconnus comme de bons américains et dans l’espoir d’une meilleure destinée. Retour sur une part trop souvent ignorée de la tumultueuse histoire des États-Unis.

    Je n’ai vu que l’épisode 1 pour le moment mais c’est passionnant pour quelqu’un comme moi qui connaît mal ce sujet.

    Je découvre #Anna_May_Wong par exemple.
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Anna_May_Wong

  • La #goutte_de_poison , par #Anna_Colin_Lebedev sur twitter

    La goutte de poison. J’avoue être épuisée de devoir encore et encore, pour la millième fois depuis 2014, faire le point sur l’extrême-droite et les "néonazis" en Ukraine. Des dizaines d’articles et d’interventions de multiples chercheurs. Et il faut recommencer.
    Le régime russe excelle dans la tâche de susciter notre indignation et notre doute. Son arme la plus puissante est de nous emmener sur son terrain, de nous imposer son agenda et ses grilles de lecture. La récente affaire « BHL à Mariupol » a ravivé la flamme.
    Back to basics. Le discours russe sur les « néonazis ukrainiens » se développe à partir de 2014. Il tombe sur le terreau fertile de nos stéréotypes sur les Ukrainiens qui seraient intrinséquement antisémites, qui auraient collaboré avec les nazis.
    Même Boris Cyrulnik s’y colle hier sur France Inter, en parlant des Ukrainiens : « Pourtant, pendant la guerre, ils n’étaient pas très bien engagés, mais leurs enfants ne sont pas responsables des crimes de leurs parents ». Entendre ça est désespérant.
    https://www.franceinter.fr/emissions/l-invite-de-8h20-le-grand-entretien/l-invite-de-8h20-le-grand-entretien-du-jeudi-17-mars-2022
    Rappelons les faits. La très grande majorité des soldats ukrainiens ont combattu les nazis au sein de l’Armée rouge (plus de 4 millions) . Environ 200 000 ont combattu aux côtés de l’Allemagne nazie. Ça fait maximum 5% de pro-nazis parmi les combattants.
    La collaboration arrive dans le contexte particulier des politiques répressives de Moscou sur les territoires ukrainiens. Il s’agit pour bcp d’Ukrainiens de choisir le moins pire des deux maux : l’URSS et l’Allemagne. Leurs motivations sont diverses.
    https://www.jstor.org/stable/26624533
    Je ne cherche pas à justifier. Je constate simplement que notre raisonnement suit la logique de la goutte de poison qui contamine tout le liquide où elle est versée. 5% des hommes en armes ukrainiens ont combattu aux côtés des nazis -> l’Ukraine était toute entière collabo.
    Oui, lorsque l’Ukraine indépendante se constitue, il y a parmi ses symboles les personnages ambigus que sont les nationalistes du milieu du XXe. Côté pile, ils luttaient pour l’indépendance de l’Ukraine. Côté face, beaucoup ont collaboré.
    Le récit historique est porteur de cette mémoire complexe. On commémore à la fois la participation des Ukrainiens à la lutte contre le nazisme et le combat nationaliste contre l’URSS. Mais le débat intellectuel est ouvert en Ukraine, la société travaille sur son passé.
    A l’inverse, en Ru, la question de la collaboration avec les nazis est un sujet tabou. On réduit la collaboration à quelques personnages diabolisés (Vlasov), mais sans quantifier et surtout sans s’interroger sur les motivations et le lien avec les répressions staliniennes.
    La logique de la goutte de poison revient dans le récit russe, puis dans le nôtre, dès 2014. Les médias russes poussent l’idée que la révolution du Maïdan est ultra-nationaliste, en donnant pour preuve des portraits du nationaliste Stepan Bandera présents sur la place.
    Or, le Maïdan est une mobilisation inclusive, autour d’un objectif commun : le départ du président en place et le rejet du projet de société qu’il incarne. Des citoyens idéologiquement très divers se retrouvent dans ce mot d’ordre. Oui, les nationalistes sont aussi là.
    La logique de la goutte de poison fait que puisqu’on a repéré l’extrême droite dans la foule, la manifestation entière est contaminée. Comme si l’on disait : puisque Marine Le Pen était dans les manifestations « Je suis Charlie », ces manifestations sont d’extrême droite.
    Or, le Maïdan est divers, multilingue (et plutôt russophone d’ailleurs), valorisant cette pluralité. Les portraits de Bandera ne plaisent pas à tout le monde, mais on laisse faire, au nom de l’inclusion de tous et de la lutte commune.
    La logique de la goutte de poison atteint son paroxysme lorsqu’on parle des bataillons qui se sont formés à partir de 2014. 2 sont sur toutes les lèvres : Azov et Pravy Sektor. « Bataillon ultranationaliste », ça fait frémir. Le pouvoir russe utilise notre frémissement.
    Oui, le bataillon Azov et le bataillon Pravy Sektor (2 sur une trentaine) ont été formés par des groupes politiquement ultranationalistes. Mais même dans ceux-là, de nombreux combattants ne partageaient pas l’ancrage politique du bataillon.
    J’ai fait des entretiens en 2016-2017 avec plusieurs combattants de Pravy Sektor. Un bataillon très décentralisé, où chaque groupe vit un peu sa vie. Je n’ai pas détecté d’idéologie particulière ; les gens s’y engagent parce que ce bataillon est non affilié à l’Etat.
    Azov est plus idéologisé et porteur d’idées ultranationalistes, mais en 2014-2015, beaucoup de combattants se retrouvent dans Azov sans motivation idéologique. Chacun de ces bataillons compte quelques centaines de personnes. Voir mon rapport.
    https://t.co/R30AHj9Nel
    Aidar (récemment revenu dans nos radars grâce à BHL) est un bataillon sans idéologie autre que l’engagement patriotique. Un bataillon ouvert qui a accueilli des combattants sans faire trop de tri.
    https://connexion.liberation.fr/autorefresh?referer=https%3a%2f%2fwww.liberation.fr%2fchecknews
    Oui, Aidar a pu compter des membres porteurs d’idées nationalistes, conséquence logique d’un recrutement ouvert. Mais aucune idée extrémiste n’y était officiellement promue. Plusieurs Aidar ont été auteurs de crimes, mais pas de crimes motivés par la langue ou l’ethnie.
    Il est logique qu’un conflit armé attire entre autres des personnes idéologiquement radicales. Ce qu’il faut regarder, c’est le bilan. Amnesty, l’OSCE, l’OFPRA ont relevé (des deux côtés) des crimes de guerre. Mais pas d’exactions de masse ou de nettoyages ethniques.
    La logique de la goutte de poison nous fait dire que l’armée ukrainienne entière aurait été contaminée par le néo-nazisme promu par quelques membres. Que doit-on dire alors de nos propres forces de l’ordre qui votent volontiers pour l’extrême droite ?
    https://www.ouest-france.fr/politique/marine-le-pen/presidentielle-44-des-policiers-et-militaires-prets-a-voter-pour-marine
    Il n’est pas impossible d’ailleurs que je sois en train de donner une idée au Kremlin. Dans un prochain discours, Poutine pourra dire, chiffres à l’appui, que l’armée française est néo-nazie. Et par extension, que le pouvoir français est néo-nazi. Une seule goutte suffit.
    Lorsque l’Etat a intégré les bataillons volontaires (sauf Pravy Sektor, marginalisé), cela a été fait dans une logique de reprise de contrôle. Plus facile de gérer les trublions dedans que dehors. Ça n’a pas très bien marché pour Azov qui a continué à se développer.
    Mais les forces politiques ultra-nationalistes sont en constante diminution en Ukraine depuis 2014. Il n’y a pas de parlementaires d’extrême droite dans le parlement ukrainien. C’est aussi parce que le nationalisme soft, nourri par l’agression russe, est devenu mainstream.
    Ce nationalisme civique contient un fort attachement à une identité ukrainienne, plutôt européenne, et l’idée que cette identité est en permanence menacée un ennemi extérieur, l’Etat russe. Je ne vois pas comment cette vision pourrait faiblir dans un proche avenir.
    Il y a une chose qu’on ne trouve pas dans le nationalisme soft ukrainien : c’est l’antisémitisme. Ni dans la population en général, ni dans le pouvoir, ni même dans les groupes d’extrême droite. L’ennemi, c’est aujourd’hui l’envahisseur russe.
    https://www.jpost.com/diaspora/article-692443
    L’Ukraine qui a longtemps négligé l’histoire de l’Holocauste sur son territoire, a changé depuis 10-15 ans. Baby Yar, site de la Shoah par balles, est visité annuellement par chaque président ukrainien. L’Holocauste est enseignée. Les ? douloureuses sont posées.
    La Russie a bien plus de chemin à faire dans ce domaine (j’en parlais dans un billet de blog en 2012) , même si je pense que la population russe n’est pas aujourd’hui particulièrement antisémite.
    https://blogs.mediapart.fr/anna-colin-lebedev/blog/030412/regards-sur-la-russie-contemporaine-l-holocauste-une-colle
    Mais une seule goutte de poison nous a suffi pour que le soupçon pèse sur l’Ukr. Je ne le répéterai jamais assez : les blindés russes s’embourbent sur le terrain, mais le pouvoir russe sait très bien venir nous chercher, appuyer et désinformé là où ça nous fait mal.

    https://twitter.com/colinlebedev/status/1504856940568055828
    #Ukraine #extrême_droite #nazis #néo-nazis

  • #Poutine, l’#Ukraine et après ?
    #Le_Dessous_des_cartes - Spécial Ukraine | #ARTE

    L’invasion de l’Ukraine par la #Russie – Histoire et conséquences. Émission spéciale du Dessous des cartes. Cartes à l’appui, Émilie Aubry revient sur l’histoire de la relation Russie-Ukraine. Avec deux experts - #Thomas_Gomart, directeur de l’IFRI et #Anna_Colin-Lebedev, spécialiste des sociétés post-soviétiques-, elle analyse les conséquences géostratégiques de la guerre et l’évolution de l’identité européenne des Ukrainiens.

    https://www.youtube.com/watch?v=dGsnhOixB2s

    https://www.arte.tv/fr/videos/RC-014036/le-dessous-des-cartes

    • L’Ukraine : de l’indépendance à la guerre - Alexandra Goujon
      http://www.lecavalierbleu.com/livre/lukraine-de-lindependance-a-guerre

      Depuis une dizaine d’années, l’Ukraine apparaît régulièrement sur le devant de la scène internationale, que ce soit pour ses mouvements protestataires, ou à propos de l’annexion de la Crimée par la Russie et du conflit à l’est du pays, semblant constituer le théâtre d’une nouvelle guerre froide qui cristallise les tensions entre la Russie et les nations occidentales.
      Les événements récents sont aussi l’occasion de mesurer combien notre connaissance de ce pays est lacunaire, se limitant souvent aux clichés d’une Ukraine berceau de la Russie, terre des cosaques, grenier à blé de l’URSS et d’une suite de gouvernants entachés par une corruption massive.
      Partant de ces idées reçues, Alexandra Goujon dresse un portrait précis et documenté de cette Ukraine, terre de contrastes.

      Alexandra Goujon est politiste, maître de conférences à l’Université de Bourgogne et enseignante à Sciences Po Paris. Elle est membre du Centre de recherche et d’étude en droit et en science politique (Credespo)

  • Qui est Anna Cabana la nouvelle épouse de Jean-Michel Blanquer, originaire de Montpellier ?
    Publié le 18/01/2022 - midilibre.fr
    https://www.midilibre.fr/2022/01/18/qui-est-anna-cabana-la-nouvelle-epouse-de-jean-michel-blanquer-10053538.ph

    Jean-Michel Blanquer, le ministre de l’Education, a épousé Anna Cabana, le week-end dernier.

    En pleine tourmente et sous le feu des critiques, Jean-Michel Blanquer a épousé en troisième noce, la journaliste politique Anna Cabana.

    Séparé de sa deuxième épouse en 2020, avec qui il est resté marié deux ans, le ministre de l’Education nationale s’est uni à la journaliste en toute discrétion le week-end dernier.

    “““““““““““““““““““““““““““““““““““““““““““““““““““"
    Blanquer à Ibiza : la journaliste Anna Cabana anime un débat télévisé au sujet du ministre… son époux
    Publié le 19/01/2022
    https://www.midilibre.fr/2022/01/19/la-journaliste-anna-cabana-a-anime-un-debat-televise-au-sujet-de-jean-mich

    (...) Comme nous vous le rappelions ce mardi 18 janvier, Anna Cabana est la compagne de Jean Michel Blanquer. Journaliste politique, elle anime notamment l’émission Conversations sur la chaîne i24News. (...)

    Il se trouve que ce mardi soir, le thème de l’émission était sur la polémique du ministre de l’Education nationale, Jean Michel Blanquer. Anna Cabana s’est donc retrouvée à animer un débat sur son compagnon sans le moindre problème et sans propos liminaires, comme l’illustre une séquence tirée de l’émission et publiée sur Twitter.

    En vidéo c’est encore mieux… https://twitter.com/jo_redachef/status/1483721572632440834?ref_src=twsrc%5Etfw
    — Josselin HR (@jo_redachef) January 19, 2022

    Une entorse déontologique que de nombreux journalistes et internautes se sont empressés de relever. (...)

  • Un concert annulé sous la pression de catholiques intégristes à Nantes
    https://www.lemonde.fr/culture/article/2021/12/08/un-concert-annule-sous-la-pression-de-catholiques-integristes-a-nantes_61051


    L’église Notre-Dame du Bon-Port, à Nantes, en juin 2014.
    JEAN-SÉBASTIEN ÉVRARD / AFP

    Un petit groupe de radicaux a bloqué l’entrée d’une église, à Nantes, où devait se tenir mardi soir un concert programmé par le Lieu unique. Les organisateurs et plusieurs élus de la ville dénoncent une atteinte à la liberté d’expression.

    La musicienne suédoise Anna von Hausswolff devait se produire dans une église de Nantes, mardi 7 décembre au soir, mais un groupe de catholiques intégristes l’en a empêchée. Jugeant sa musique « sataniste », ces derniers se sont cadenassés dans l’église Notre-Dame du Bon-Port, bloquant ainsi l’accès aux spectateurs.

  • Fullbright co-founders Steve Gaynor accused of employee mistreatment - Polygon
    https://www.polygon.com/22610490/fullbright-steve-gaynor-controversy-stepped-down-open-roads

    Fullbright co-founder Steve Gaynor, known for his work on Gone Home and Tacoma, has stepped down from his role as creative lead on Open Roads following multiple allegations regarding his treatment of Fullbright staff.

    On dirait que le scandale d’Activision-Blizzard, ainsi que les précédents abus dans l’industrie du jeu vidéo, permettent aux langues de se délier et témoigner dans la presse des divers abus dont sont victimes les employés du secteur travaillant dans des environnements toxiques qui n’ont pas lieu d’être. Le problème semble être systémique, plutôt que limité à certaines entreprises.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #fullbright #steve_gaynor #business #ressources_humaines #environnement_toxique #discrimination #misogynie #micromanagement #jeu_vidéo_gone_home #jeu_vidéo_tacoma #jeu_vidéo_open_roads #annapurna_interactive #personal_branding #eréputation #twitter

  • L’extractivisme en récits
    https://laviedesidees.fr/L-extractivisme-en-recits.html

    À propos de : Anna Lowenhaupt Tsing, Friction : délires et faux-semblants de la globalité, La Découverte,. Pourquoi le #capitalisme est-il si chaotique ? demande Anna Tsing depuis les montagnes de Bornéo saccagées par l’exploitation. Aborder les connexions globales et les idéaux universalistes comme de puissantes mises en récit permet de comprendre et de résister.

    #International #nature #écologie
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20210714_friction.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20210714_friction.pdf

  • #SalePute

    Loin d’être un phénomène isolé, le #cyberharcèlement touche en majorité les #femmes. Une enquête édifiante sur ce déferlement de #haine virtuelle, aux conséquences bien réelles. Avec le #témoignage d’une dizaine de femmes, de tous profils et de tous pays, et de spécialistes de la question, qui en décryptent les dimensions sociologiques, juridiques et sociétales.

    Les femmes sont vingt-sept fois plus susceptibles que les hommes d’être harcelées via #Internet et les #réseaux_sociaux. Ce constat, dressé par l’European Women’s Lobby en 2017, prouve que les #cyberviolences envers les femmes ne sont pas une addition d’actes isolés, mais un fléau systémique. Plusieurs études sociologiques ont montré qu’il était, en majorité, le fait d’hommes, qui, contrairement aux idées reçues, appartiendraient à des milieux plutôt socio-économiques plutôt favorisés. Se sentant protégés par le caractère virtuel de leurs actions, les auteurs de ces violences s’organisent et mènent parfois des « #raids_numériques », ou #harcèlement_en_meute, aux conséquences, à la fois personnelles et professionnelles, terribles pour les victimes. Celles-ci, lorsqu’elles portent plainte, n’obtiennent que rarement #justice puisqu’elles font face à une administration peu formée sur le sujet, à une législation inadaptée et à une jurisprudence quasi inexistante. Les plates-formes numériques, quant à elles, sont encore très peu régulées et luttent insuffisamment contre le harcèlement. Pour Anna-Lena von Hodenberg, directrice d’une association allemande d’aide aux victimes de cyberharcèlement, le phénomène est une menace directe à la #démocratie : « Si nous continuons de tolérer que beaucoup de voix se fassent écarter de cet #espace_public [Internet, NDLR] et disparaissent, alors nous n’aurons plus de #débat_démocratique, il ne restera plus que les gens qui crient le plus fort ».

    Acharnement haineux
    #Florence_Hainaut et #Myriam_Leroy, deux journalistes belges cyberharcelées, recueillent les témoignages d’une dizaine de femmes, de tous profils et de tous pays, (dont la chroniqueuse de 28 minutes #Nadia_Daam, l’humoriste #Florence_Mendez ou encore l’auteure #Pauline_Harmange), elles aussi insultées et menacées sur le Net. En partant des messages malveillants reçus par ces dernières, le duo de réalisatrices enquête sur la prolifération de la haine en ligne auprès de différents spécialistes de la question, qui décryptent les aspects sociologiques, juridiques ou encore sociétaux du cyberharcèlement.

    https://www.arte.tv/fr/videos/098404-000-A/salepute

    –-> déjà signalé sur seenthis (https://seenthis.net/messages/919957 et https://seenthis.net/messages/920100), mais je voulais y ajouter des mots-clé et citations...

    #Renaud_Maes, sociologue (à partir de la min 16’30)

    « Généralement c’est plutôt des hommes qui agressent sur internet et c’est plutôt des gens qui viennent de milieux socio-économiques plus favorisés (...), des gens qui viennent de la classe moyenne, voire de la classe moyenne supérieure. Cela permet de révéler quelque chose qu’on croit relativement absent : il existe une violence structurelle dans nos société, il existe une domination structurelle et on s’en est pas débarrassés. Clairement, encore aujourd’hui, c’est pas facile d’être un homosexuel, c’est pas facile d’être une femme, c’est pas facile d’être une personne racisée, c’est encore moins facile si on commence à avoir plusieurs attributs au même temps. C’est quelque chose qui parfait ne transparaît pas dans le monde social, parce qu’on a plus de self-control. Avec internet on voit bien que le problème est bien là et que dès qu’on a eu l’occasion d’enlever un peu de #contrôle_social, d’avoir, ne fut-ce que l’illusion, car ce n’est pas forcément vrai, moins de conséquences immédiatement les choses sont mises à nu. Et on voit qu’il y a de la violence, il y a du #rejet des personnes homosexuelles, il y a de la misogynie, il y a du racisme. »

    #Ketsia_Mutombo, co-fondatrice du collectif « Féministes contre le harcèlement » (à partir de la min 22’30) :

    « On est encore dans des sociétés où la parole publique ou l’espace public n’est pas fait pour les femmes, n’est pas fait pour les groupes minorés. On est pensé comme des personnes qui doivent rester dans l’espace domestique, s’acquitter du travail domestique, familial, relationnel, mais ne pas prendre la place. »

    #Laurence_Rosier, linguiste (à partir de la min 22’45) :

    "Les femmes qui s’expriment, elles s’expriment dans la place publique. (...) Et à partir du moment où ’elles l’ouvrent’, elles se mettent en #danger parce qu’elles vont en général tenir une parole qui n’est pas la parole nécessairement attendue. C’est quoi une parole attendue depuis des lustres ? C’est que la femme au départ elle doit respecter les #convenances, donc elle doit être polie, c’est elle qui fait l’éducation à la politesse des enfants, elle doit être mesurée, en retenue, pas violente. Et dès qu’elle adopte un ton qui n’est pas celui-là, qui est véhément, qui est agressif, qui est trivial, sexuel... et bien, on va lui faire sentir que justement elle sort des codes établis et elle va être punie

    #Lauren_Bastide (à partir de la minute 22’18) :

    « Je trouve que le cyberhacèlement a beaucoup de résonance avec le #viol et la #culture_du_viol, qu’il y a ce continuum de la simple interpellation dans la rue au viol. Pour moi c’est pareil, il y a le petit mot écrit, le petit commentaire un peu haineux sous ta photo et puis le raid qui fout ta vie par terre. Il y a cette espèce de #tolérance de la société pour ça... ’c’est le tarif en fait... il ne fallait pas sortir la nuit, il ne fallait pas te mettre en jupe’. ’Bhein, oui, c’est le tarif, t’avais qu’à pas avoir d’opinion politique, t’avais qu’à pas avoir un métier visible. Les conséquences qu’il peut y avoir c’est que les femmes sont moins prêtes à parler, c’est plus difficile pour elles. Prendre la parole dans l’espace public quand on est une femme c’est l’#enfer. Il faut vraiment être très blindée, très sure de soi pour avoir la force d’y aller. Surtout quand on va exprimer une opinion politique »

    #Anna-Lena_von_Hodenberg, Hate aid (à partir de la minute 33’48) :

    « Nous devons réaliser qu’internet c’est l’espace public au même titre que la vie physique. »

    #Emma_Jane, autrice du livre Misogyny Online (à partir de la minute 35’30), en se référant au fait que le sujet n’est pas vraiment traité sérieusement...

    "La plupart des politiciens sont de vieux hommes blancs, ils ne reçoivent pas d’insulte raciste, ils ne reçoivent pas d’insultes sexistes, ils n’ont pas grandi avec internet.

    #Renate_Künast, députée écologiste allemande (à partir de la minute 39’20) :

    « Ce qui est choquant ce n’est pas seulement la haine dont j’ai été la cible, mais le fait que beaucoup de femmes sont visées par ce type de violence sexualisée. (...) On se sent personnellement visé, mais il s’agit d’un problème systémique, c’est caractéristique de l’extrême droite qui ne supporte pas que les femmes soient autre chose que des femmes au foyer et qu’elles jouent un rôle actif dans la société. (...) Il ne s’agissait pas d’une phrase, mais de milliers de messages qui ne disparaîtraient jamais. Pour toutes ces raisons j’ai porté plainte. Et j’ai été stupéfaite quand la réponse, se basant selon moi sur une mauvaise interprétation de la jurisprudence a été qu’en tant que femme politique je devais accepter ce genre de messages. (...) ’Détritus de chatte’, pour les juges en Allemagne, c’était de la liberté d’expression’. »

    #Laurence_Rosier (à partir de la minute 41’35) :

    « La liberté d’expression est invoquée aujourd’hui, pas dans tous les cas, mais dans beaucoup de cas, pour justifier des discours de haine. Et les discours de haine c’est pas soudain que la haine sort, c’est parce que ça a été permis et favorisé par ’oh, une petite blague sexiste, une petite tape sur l’épaule, un petit mot d’abord gentil’ et que progressivement on libère le niveau du caniveau. »

    #Florence_Mendez, humoriste (à partir de la minute 43’01) :

    « Le sexisme que même pour moi était acceptable avant, parce qu’on a toutes nagé dans cette mer en ce disant ’ça va, l’eau n’est pas si salée, je peux en boire encore un peu !’... On a toutes laissé passé ça. Et maintenant il y a des choses qui sont juste insupportables. (...) Je ne laisse plus rien passer du tout, rien passer du tout dans ma vie de tous les jours. »

    #Renate_Künast, députée écologiste allemande (à partir de la minute 43’25) :

    « ça me rappelle ce slogan des mouvements féministes des années 1970 : ’Le pouvoir des hommes est la patience des femmes’. Il faut juste qu’on arrête d’être patientes. »

    Anna-Lena von Hodenberg (à partir de la minute 47’32) :

    « Si on laisse courir les choses, sans régulation, sans poursuites judiciaires, si en tant que société on continue à rester des témoins passifs, alors ça aura des conséquences massives sur nos démocraties. Nous voyons déjà maintenant aux Etats-Unis : la polarisation. Nous l’avons vu en Grande-Bretagne pendant le Brexit. Et ça, c’est juste un avant-goût. Le net est l’espace public le plus important que nous avons, si nous continuons de tolérer que beaucoup de voix se font écarter de cet espace public, qu’elles disparaissent, alors nous n’avons plus de débat démocratique, alors il ne restera plus que les gens qui crient le plus fort et par conséquent, dans le débat public, régnera la loi du plus fort. Et ça, dans nos cultures démocratiques, nous ne pouvons pas l’accepter. »

    Voix off (à partir de la minute 52’40) :

    « ’Fermer sa gueule’, c’est déserter les réseaux, c’est changer de métier, adopter un ton très polissé, c’est refuser des opportunités quand elles sont trop exposées. Et serrer les dents quand on est attaqué, ne surtout pas donner l’impression de se plaindre. »

    #Florence_Mendez (à partir de la minute 53’40) :

    «C’est la fin de la tranquillité.»

    #fait_de_société #cyber-harcèlement #menaces #santé_mentale #violence_structurelle #domination_structurelle #misogynie #racisme #sexisme #intersectionnalité #insulte #espace_numérique #punition #code_établi #plainte #impunité #extrême_droite #fachosphère #liberté_d'expression #polarisation #démocratie #invisibilisation #silenciation #principe_de_la_nasse #nasse
    #documentaire #film_documentaire

    ping @isskein @_kg_ @karine4 @cede

  • #Résurgence holocénique contre plantation anthropocénique

    La « soutenabilité » est le rêve de transmettre une #terre_habitable aux générations futures, humaines et non-humaines. Cet article soutient qu’une soutenabilité digne de ce nom exige la #résurgence d’un modèle multi-espèces, en résistance aux tendances de la #colonisation_capitaliste qui transforme tout en #plantations de #monoculture. Pour affronter les défis de l’Anthropocène, nous devons faire davantage attention aux #socialités qui se trament entre les espèces, socialités dont nous dépendons tous. Aussi longtemps que nous maintenons une séparation imperméable entre nous et tout ce qui n’est pas humain, nous faisons de la soutenabilité un concept cruel relevant de l’#esprit_de_clocher. Nous perdons de vue le tramage commun qui rend possible la vie sur Terre des #humains avec les #non-humains. De toutes façons, maintenir cette #séparation ne fonctionne pas : les efforts des investisseurs pour réduire tous les autres êtres au statut d’actifs ont généré de terrifiantes écologies, que je qualifie ici de #proliférations_anthropocéniques.

    https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-3-page-77.htm
    #soutenabilité #anthropocène #humain #non-humain #Anna_Tsing #écologie #extinction #prédation #matsutake

  • Anna Muzychuk est la championne du monde d’échecs, elle est dans l’actualité pour avoir refusé de jouer en Arabie saoudite malgré la perte de ses deux titres mondiaux pour cette décision, elle a déclaré qu’elle allait défendre ses principes et n’a pas l’intention de jouer dans un endroit où elle doit porter un hijab et ne peut sortir qu’avec quelqu’un d’autre.

    Elle a déclaré dans une interview que le plus décevant de tous est que personne ne s’en soucie, là vous vous trompez, bien sûr c’est important et beaucoup de femmes apprécient votre geste, c’est le féminisme, la fraternité et la lutte pour l’égalité, MERCI.

    Source : https://www.facebook.com/groups/batiamourtsou/permalink/10159095736771125

    #Femme #Arabie_saoudite #international #Anna_Muzychuk #Echecs #hijab #féminisme #Luttes

    • https://fr.wikipedia.org/wiki/Anna_Mouzytchouk

      c’était en 2017

      [...]

      Boycott du championnat du monde de parties rapides et blitz 2017

      Fin décembre 2017, Anna Mouzytchouk annonce son refus de participer au championnat du monde de parties rapides et blitz « King Salman World Blitz & Rapid Championships 2017 » organisé à Riyad en Arabie Saoudite du 26 au 30 décembre 20175,6, au nom de ses principes : « J’ai décidé de ne pas aller en Arabie saoudite, (...) de ne pas porter une abaya [vêtement qui couvre les autres vêtements], de ne pas devoir sortir accompagnée et de ne pas me sentir comme une créature inférieure », a-t-elle expliqué, perdant par la même occasion les deux titres mondiaux féminins qu’elle possédait en parties rapides et blitz7,8, obtenus en 2016.

      La Fédération internationale des échecs (FIDE) avait pourtant annoncé avant le début de la compétition qu’elle était « parvenue à un accord avec les organisateurs selon lequel le code vestimentaire de l’événement sera le bleu foncé ou le noir, avec une chemise blanche, à col ouvert ou avec une cravate, pour les hommes, et un pantalon bleu foncé ou noir, avec un chemisier blanc à col haut pour les femmes. Il ne sera pas nécessaire de porter un hijab ou une abaya pendant les parties, ce qui sera une première pour tout événement sportif en Arabie Saoudite6. »

      Au mois de novembre 2017, le site d’information i24 News annonçait que 150 joueurs avaient l’intention de boycotter la compétition

      [/]

    • Weltmeisterin gibt lieber Titel als Prinzipien auf Veröffentlicht am 27.12.2017

      https://www.welt.de/sport/article171931937/Schach-WM-2017-Anna-Muzychuk-gibt-Titel-auf-Kein-Mensch-2-Klasse.html

      [...]

      Sie sei bereit, „für meine Prinzipien einzustehen und die Veranstaltung sausen zu lassen, wo zu erwarten gewesen wäre, dass ich in fünf Tagen mehr verdient hätte als in einem Dutzend von Veranstaltungen zusammen. All das nervt, aber das Ärgerlichste ist, dass es fast niemanden wirklich interessiert. Das ist ein wirklich bitteres Gefühl, aber ich bin deswegen noch lange nicht diejenige, die ihre Meinung und ihre Prinzipien ändert.“ Schon die WM im vergangenen Jahr in Teheran, wo Frauen sich auch großen Restriktionen ausgesetzt sehen, sei für sie eine Zumutung gewesen.

      [...]

  • How China Lends: A Rare Look into 100 Debt Contracts with Foreign Governments

    Date Published

    Mar 31, 2021

    Authors

    #AnnaGelpern , #SebastianHorn , #ScottMorris, #BradParks, #ChristophTrebesch

    Citation

    Gelpern, A., Horn, S., Morris, S., Parks, B., & Trebesch, C. (2021). How China Lends: A Rare Look into 100 Debt Contracts with Foreign Governments. Peterson Institute for International Economics, Kiel Institute for the World Economy, Center for Global Development, and AidData at William & Mary.

    China is the world’s largest official creditor, but we lack basic facts about the terms and conditions of its lending. Very few contracts between Chinese lenders and their government borrowers have ever been published or studied. This paper is the first systematic analysis of the legal terms of China’s foreign lending. We collect and analyze 100 contracts between Chinese state-owned entities and government borrowers in 24 developing countries in Africa, Asia, Eastern Europe, Latin America, and Oceania, and compare them with those of other bilateral, multilateral, and commercial creditors. Three main insights emerge. First, the Chinese contracts contain unusual confidentiality clauses that bar borrowers from revealing the terms or even the existence of the debt. Second, Chinese lenders seek advantage over other creditors, using collateral arrangements such as lender-controlled revenue accounts and promises to keep the debt out of collective restructuring (“no Paris Club” clauses). Third, cancellation, acceleration, and stabilization clauses in Chinese contracts potentially allow the lenders to influence debtors’ domestic and foreign policies. Even if these terms were unenforceable in court, the mix of confidentiality, seniority, and policy influence could limit the sovereign debtor’s crisis management options and complicate debt renegotiation. Overall, the contracts use creative design to manage credit risks and overcome enforcement hurdles, presenting #China as a muscular and commercially-savvy lender to the developing world.

    The report:
    https://docs.aiddata.org/ad4/pdfs/How_China_Lends__A_Rare_Look_into_100_Debt_Contracts_with_Foreign_Gove


    https://www.aiddata.org/publications/how-china-lends

    #Chine #grand_créancier #commerce #prêts #economie_globale

  • Le modèle #Sciences_Po dans la tourmente avec les #polémiques sur la « #culture_du_viol » et l’« #islamophobie »

    Quelque chose serait-il cassé, dans le monde feutré des #instituts_d'études_politiques (#IEP) ? Depuis la déflagration qui a touché début janvier le vaisseau amiral Sciences Po Paris, entraînant la démission à un mois d’intervalle des deux têtes dirigeantes de l’école le directeur, #Frédéric_Mion, a menti en assurant ne pas connaître les accusations d’#inceste visant le président, #Olivier_Duhamel , pas une semaine ne s’écoule sans que « la maison », composée de dix établissements, ne fasse parler d’elle.

    Dernier épisode en date, lundi 22 mars, le collectif féministe de l’IEP de Lyon Pamplemousse et le syndicat Solidaires-Etudiants ont demandé l’exclusion de la #Ligue_internationale_contre_le_racisme_et_l'antisémitisme (#Licra) d’un partenariat noué par leur école. En cause : les « nombreuses ambiguïtés vis-à-vis de son rapport à l’islamophobie, ainsi qu’à la #laïcité » que la Licra aurait manifestées lors d’un débat dans un lycée de Besançon en décembre, donnant lieu à une requête de parents d’élèves et d’enseignants auprès du recteur. « Nous estimons que la lutte contre l’islamophobie, l’#antisémitisme, la #négrophobie ou toute autre forme de #racisme doit être une priorité et qu’à ce titre, les institutions comme Sciences Po Lyon doivent s’entourer de collectifs et associations dont le travail se montre à la hauteur de la lutte. La Licra n’en fait pas partie », soutiennent ces étudiants dans leur communiqué.

    Le 18 mars, à Strasbourg cette fois, le syndicat étudiant UNI a pris à partie la direction de l’IEP qui aurait, selon le syndicat, interdit d’attribuer « #Samuel_Paty » comme nom de promotion, au motif qu’il fallait alterner chaque année entre un homme et une femme. « Ce procédé est révélateur de ce qui se passe à #Sciences_Po_Strasbourg depuis des années. L’#idéologie et les #militants d’#extrême_gauche font la loi et n’hésitent plus à fouler du pied la mémoire d’un martyr de la liberté », affirme François Blumenroeder, président de l’UNI Strasbourg.

    Ces épisodes font suite à deux autres événements à très haute tension : la vague #sciencesporcs, lancée le 7 février par une ancienne élève de l’IEP de Toulouse, la blogueuse féministe #Anna_Toumazoff, pour dénoncer « la culture du viol » dont se rendraient « complices » les directions des IEP en ne sanctionnant pas systématiquement les auteurs de #violences_sexistes et sexuelles. Enfin, le 4 mars, le placardage des noms de deux professeurs d’allemand et de science politique sur les murs de l’IEP de Grenoble, accusés de « fascisme » et d’ « islamophobie », après avoir signifié, avec véhémence parfois, leur opposition à une collègue sociologue sur la notion d’islamophobie. Le syndicat étudiant US a appelé à suspendre un cours d’un de ces enseignants dans le cas où son appel à témoignages lancé sur Facebook permettrait d’établir le caractère islamophobe de certains contenus.

    Cette escalade subite de #tensions s’enracine dans la communauté des étudiants de Sciences Po, lauréats d’un concours aussi sélectif que prestigieux. L’attractivité des instituts, fondés entre 1945 et 1956 puis en 1991 pour les deux derniers (Lille et Rennes), ne s’est jamais démentie et atteint même des sommets depuis leur entrée sur la plate-forme d’affectation dans l’enseignement supérieur Parcoursup en 2020. « Tout ce qui nous est tombé sur la figure depuis janvier a eu pour conséquence 54 % d’augmentation du nombre de candidats », ironise Pierre Mathiot, directeur de Sciences Po Lille, à propos du concours commun des sept instituts de région qui attire cette année 17 000 candidats pour un total de 1 150 places. Hors concours commun, Sciences Po Bordeaux enregistre aussi une poussée sur deux ans, passant de 2 800 à 6 000 candidatures pour 275 places, quand Paris en comptabilise 19 000 pour 1 500 places, en hausse de 50 % sur un an.

    Evolution de la #politisation

    Ces histoires révèlent surtout que la politisation des étudiants, constante, voit ses formes et expressions considérablement évo luer, les IEP se faisant le miroir de la société. « Je vois se former de véritables militants dont les objectifs ont changé. C’est un marqueur générationnel qui n’est pas propre à notre formation », analyse Jean-Philippe Heurtin, directeur de l’IEP de Strasbourg. C’en est fini ou presque de l’engagement dans les partis ou syndicats traditionnels, note Anthonin Minier, étudiant en première année à Sciences Po Paris et représentant des écologistes. « Je pensais arriver dans une école où tout le monde serait encarté ! En fait, il y en a 5 % au plus qui se disent proches d’un parti », rapporte-t-il. Les #discriminations sociales, et plus encore sexuelles et raciales, focalisent l’attention de ceux qui bénéficient la plupart du temps d’enseignements sur les études de genre et sur l’#intersectionnalité, ce qui place les IEP parmi les suspects de militantisme « islamo-gauchiste » dont la ministre de l’enseignement supérieur, Frédérique Vidal, cherche à établir une liste. « Les IEP ne sont plus des boys’clubs et #Parcoursup n’a fait qu’accentuer le changement, avec des promotions composées à 70 % ou 75 % de filles, relève Vincent Tiberj, professeur à Sciences Po Bordeaux. Le #genre est désormais quelque chose d’important et nos instituts tels qu’ils fonctionnent n’ont peut-être pas bougé assez vite face à des étudiantes qui intègrent complètement ces problématiques. #sciencesporcs raconte aussi cela. » « Le type de débat en classe est différent d’il y a quelques années, et il faut se battre contre des habitudes qui ont été développées par les réseaux sociaux, mais cela ne touche vraiment pas que Sciences Po », relativise Anne Boring, qui dirige la chaire pour l’entrepreneuriat des femmes à Sciences Po Paris.

    L’#année_à_l'étranger, obligatoire depuis le début des années 2000, explique en partie ces nouveaux comportements, note Francis Vérillaud qui a dirigé pendant vingt-cinq ans les relations internationales de l’institut parisien. « Sciences Po est challengé depuis longtemps par ses propres #étudiants parce qu’ils sont très internationalisés. Quand ils rentrent d’un an au Canada, aux Etats-Unis, aux Pays-Bas ou en Allemagne, où les sujets des violences sexuelles et sexistes sont traités dans les universités, ils viennent avec un apport. Je me souviens de discussions compliquées, car ce n’était pas évident dans la #culture_française. »

    Les IEP ont bien changé depuis leur création, précisément lors du passage de la scolarité de trois à cinq ans pour se conformer aux standards internationaux, à partir de l’an 2000. Les fondamentaux demeurent, autour des cours d’histoire, de sociologie, de science politique et de droit, mais il a fallu revoir les maquettes, notamment en master, là où les étudiants se spécialisent, chaque école proposant des dizaines de voies différentes. « Penser qu’on fait Sciences Po uniquement pour passer le concours de l’Ecole nationale d’administration est une image d’Epinal, relève Yves Déloye, directeur de l’IEP de Bordeaux. Les concours administratifs, qui étaient au coeur de la création des instituts après la guerre, n’attirent qu’un tiers de nos étudiants. Les autres aspirent à des carrières de plus en plus diversifiées en entreprise, dans des ONG, dans l’économie sociale et solidaire. »

    Enseignement passe-temps

    Le profil des enseignants a lui aussi évolué, les instituts cherchant à « s’académiser » en recrutant davantage d’enseignants-chercheurs que de personnalités politiques et économiques vacataires, qui prenaient comme un passe-temps le fait d’enseigner à Sciences Po. « Je me souviens du grand cours d’économie de deuxième année fait par Michel Pébereau [président de la Banque nationale de Paris qui deviendra BNP Paribas], sourit Vincent Tiberj, ex-étudiant de l’IEP parisien. Il distribuait un polycopié qui datait de 1986. Or nous étions en 1993 et entre-temps, il y avait eu la chute du mur de Berlin, mais dans ce monde élitaire classique, le temps était suspendu. » Ce décalage entre l’élite dirigeante et l’apport en temps réel des #recherches en #sciences_sociales fonde l’#incompréhension actuelle autour des accusations d’ « islamo-gauchisme . Les #gender_studies se banalisent, Sciences Po Toulouse ayant même constitué un master dédié tandis que presque tous les autres IEP en font des modules ou des thématiques abordés en cours de sociologie. « Ces questions sont analysées au même titre que d’autres formes de discriminations, ce qui est tout à fait légitime », appuie Jean-Philippe Heurtin, à Strasbourg.

    Le débat est pourtant loin d’être clos parmi les étudiants : « Se présenter en fonction de son sexe, de sa position sociale et de sa couleur est une pratique en vogue dans ce type d’enseignement, ce que je trouve ahurissant, lâche Quentin Coton, étudiant de Sciences Po Paris et membre de l’UNI. Ce sont des questions que les gens ne se posaient même plus dans la société française et qui reviennent à Sciences Po. Elle n’est pas là, la déconnexion de notre école ? » L’objet des débats politiques change, mais le ton reste vif.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/03/31/polemiques-sur-la-culture-du-viol-l-islamophobie-le-modele-sciences-po-dans-

    Et cette phrase prononcée par un étudiant... au demeurant, évidemment, (certainement) un homme (très probablement) blanc et (probablement) d’origine sociale pas vraiment modeste...

    « Se présenter en fonction de son sexe, de sa position sociale et de sa couleur est une pratique en vogue dans ce type d’enseignement, ce que je trouve ahurissant, lâche Quentin Coton, étudiant de Sciences Po Paris et membre de l’UNI. Ce sont des questions que les gens ne se posaient même plus dans la société française et qui reviennent à Sciences Po. Elle n’est pas là, la déconnexion de notre école ? ».

    #déni

    Ajouté à ce fil de discussion sur les événements qui ont eu lieu à #Sciences_Po_Grenoble :
    https://seenthis.net/messages/905509

    ping @karine4 @cede

  • L’instrumentalisation de ce professeur par la droite extrémiste est inquiétante

    Le but : Dire que l’islamophobie n’existe pas

    C’est ce que pense ce professeur qui refusait le mot « islamophobie » dans un groupe de travail et qui a harcelé une collègue pour l’enlever.

    https://twitter.com/CNEWS/status/1369201573595844611

    Dans un premier mail au ton assez hallucinant, il refuse le mot dans « Racisme, islamophobie, antisémitisme »

    Il se demande même si le mot à un sens, et s’il n’est pas "l’arme de propagande d’extrêmistes plus intelligents que nous".

    L’argument est plutôt complotiste d’ailleurs.

    Une collègue lui répond simplement que si l’islamophobie est actuellement contesté dans le champ politique, il ne l’est pas dans le champ scientifique, et qu’il n’y a aucune raison de ne pas employer ce terme.

    Kinzler répond avec un long mail très agressif, et conclut que les persécutions des musulmans sont imaginaires, que l’islamophobie n’a rien à faire aux côté de « l’antisémitisme millénaire », que le nom du groupe est une « réécriture de l’histoire qui fait honte à l’établissement »

    On voit déjà le profil de Kinzler. La violence des tournures de phrase, l’insistance, les formes de langages et la longueur des mails montrent l’agressivité des échanges.

    Il fait ensuite une confidence : Il déteste l’islam et préfère le Christ « Qui pardonne la femme adultère »

    Puis on retrouve les arguments de l’extrême droite « pourquoi n’y a-t-il pas des millions de musulmans dans les rues après chaque attentat ? »
    Il avoue que l’islam « lui fait franchement peur » mais il « en connaît de nombreux » donc il n’est pas islamophobe.

    L’échange de mail termine par un mail d’excuse de Kinzler envers sa collègue, qui reconnaît son agressivité, et se justifie en disant avoir été énervé par « l’arrogance d’une jeune enseignante-chercheuse »

    On peut donc rajouter la misogynie au tableau de chasse.

    Vous remarquerez aussi dans ce mail qu’il menace de "quitter le groupe" si le nom n’est pas changé.

    Il prétendra dans d’autres écrits avoir été "exclu du groupe".

    https://twitter.com/Babar_le_Rhino/status/1369277304740982784

    #Klaus_Kinzler #Kinzler #islamophobie

    • Chronologie des faits, rétablis par la directrice du labo PACTE :

      En préambule il semble essentiel d’affirmer que Pacte, comme les trois tutelles dont le laboratoire dépend (Science Po, Univ Grenoble Alpes, CNRS), dénonce absolument les collages sur les murs de l’IEP qui mettent en cause deux collègues -dont un membre du laboratoire, et demande que l’enquête puisse éclaircir toutes les responsabilités en la matière.
      Mais il faut ensuite comprendre que la mise en cause médiatique du laboratoire repose sur une confusion entre deux communiqués.
      – Nous avons bien, en date du 7/12/2020, établi un communiqué interne, envoyé à l’ensemble des membres du groupe de travail alors appelé « Racisme, antisémitisme, islamophobie » - dont 4 étudiants de l’IEP, et à la directrice de l’IEP. Celui-ci ne dénonçait personne à titre nominatif. La notion de harcèlement qui y était mentionnée portait sur le dysfonctionnement des échanges ayant eu lieu par mail, dans leur tonalité notamment. Il disait : « Nier, au nom d’une opinion personnelle, la validité des résultats scientifiques d’une collègue et de tout le champ auquel elle appartient, constitue une forme de harcèlement et une atteinte morale violente ». Des excuses ont par la suite été rédigées par la personne mise en cause. Une autre phrase importante de ce texte était : « L’instrumentalisation politique de l’Islam et la progression des opinions racistes dans notre société légitiment la mobilisation du terme "islamophobie" dans le débat scientifique et public ». Le terme a par ailleurs été retiré du titre du débat qui a eu lieu en janvier. La justification de ce communiqué est un débat dans lequel on me demande de ne pas entrer ici.
      – À la suite de cela, notre collègue attaquée a saisi le Défenseur des Droits qui a confirmé notre interprétation des faits par un courrier officiel envoyé à l’IEP en janvier 2021.
      Puis le laboratoire n’a plus jamais entendu parler de cette affaire jusqu’aux collages du 6 mars 2021.
      – Notre deuxième communiqué a été rédigé le 3 mars 2021 par le conseil d’unité et le directoire. Il était lui tout à fait public, publié sur le site web du labo, traduit en anglais, etc.. Suite aux déclarations de la ministre Mme Vidal, la direction du laboratoire et le conseil d’unité ont en effet pris une position contre la façon dont la croisade contre l’islamo-gauchisme permettait de nier la scientificité des SHS dans leur ensemble, voire de tout le champ scientifique. C’est le seul communiqué visible à ce jour sur notre site. Il n’avait rien à voir avec la situation inter-personnelle qui avait justifié le premier
      Nous n’avons donc jamais traité quiconque d’islamophobe.
      La gravité des faits entraîne une double enquête, à la fois de l’Inspection Générale du Ministère et du Parquet.
      Les deux collègues dont les noms ont été affichés sur les murs de l’IEP, mais aussi celle dont le nom a été exposé contre sa volonté dans la presse, les étudiants concernés et moi-même sommes actuellement sous protection judiciaire.

      https://www.facebook.com/annelaure.amilhatszary/posts/3702745506474976

    • Mediapart : Accusations d’islamophobie : la direction de Sciences Po Grenoble a laissé le conflit s’envenimer

      Une violente polémique agite Sciences Po Grenoble depuis que l’Unef a relayé des affiches accusant de manière nominative deux professeurs d’« islamophobie ». Des enseignants et étudiants dénoncent pourtant l’« instrumentalisation de cette affaire » et un « traitement médiatique biaisé ». Depuis décembre, d’après nos informations, de nombreuses instances avaient été alertées sans entraîner de réaction de la direction.

    • Accusations d’islamophobie : la direction de Sciences Po Grenoble a laissé le conflit s’envenimer

      Une violente polémique agite #Sciences_Po_Grenoble depuis que l’Unef a relayé des affiches accusant de manière nominative deux professeurs d’« islamophobie ». Des enseignants et étudiants dénoncent pourtant l’« instrumentalisation de cette affaire » et un « traitement médiatique biaisé ». Depuis décembre, d’après nos informations, de nombreuses instances avaient été alertées sans entraîner de réaction de la direction.

      Il est midi mardi 9 mars lorsqu’une vingtaine d’étudiants de l’#Institut_d’études_politiques (#IEP) de Grenoble déploient une banderole au pied de l’#université. « Islam ≠ Terrorisme », peut-on lire en plus de deux autres inscriptions affichées sur des cartons pour rappeler que le « racisme est un délit » et pour dire « stop à l’islamophobie ». En face, quelques journalistes attendent de pouvoir interroger les étudiants. Le climat est tendu. Les jeunes se méfient de la presse accusée de « manquer de rigueur » depuis le début de cette polémique. Un étudiant prend la parole.

      La presse s’attend à des excuses publiques. Les étudiants en réalité reviennent à la charge et accusent de nouveau deux professeurs « d’islamophobie », témoignages à l’appui. « Vous vous rendez compte que vous assassinez entre guillemets votre prof ? », lâche un confrère, qui n’a plus envie de cacher sa colère. « Je n’aurais pas dû prendre la parole. Je ne me suis pas fait comprendre », regrette plus tard l’étudiant pris à partie.

      Quelques jours avant, ce sont d’autres affiches qui avaient été placardées sur ces mêmes murs de l’IEP avec les noms de deux enseignants de l’IEP. « Des fascistes dans nos amphis Vincent T. [...] et Klaus K. démission. L’islamophobie tue. » Si ces pancartes ont rapidement été retirées, l’Unef les avait relayées sur les réseaux sociaux avant de se raviser. Marianne et Le Figaro ont ensuite embrayé avant qu’une enquête pour « injures publiques » et « dégradation » ne soit ouverte par le parquet de Grenoble.

      De manière unanime, la classe politique a dénoncé cette action, représentant selon elle une véritable mise en danger pour les deux enseignants. « Je condamne fermement que six mois après l’assassinat, même pas, de Samuel Paty, des noms soient ainsi jetés en pâture. La liberté d’opinion est constitutionnelle pour les enseignants chercheurs… », a déclaré le maire EELV de Grenoble Éric Piolle. Même condamnation pour la ministre de l’enseignement supérieur Frédérique Vidal, qui a diligenté une enquête administrative et rappelé que « les tentatives de pression » et « l’instauration d’une pensée unique » n’avaient « pas leur place à l’université ».

      Sur le parvis de Sciences Po mardi, les étudiants sont aussi unanimes : « Ces collages, c’était une vraie connerie et une mise en danger pour ces deux profs. L’Unef n’aurait jamais dû les relayer non plus », explique un étudiant en troisième année. « Notre communication était clairement maladroite », reconnaît Emma, la présidente de l’Unef Grenoble. « On ne tolère pas que des affiches puissent mettre la vie de profs en danger », renchérit Maxime Jacquier de l’Union syndicale de l’IEP. Tous en revanche disent ne pas savoir qui a collé ces pancartes.

      « Depuis que tout ça a éclaté, les médias comparent cette affaire à ce qui est arrivé à Samuel Paty. On parle de terrorisme intellectuel, d’entrisme islamo-gauchiste ou de fatwa. Mais il y a un décalage magistral entre la réalité de ce qui se passe à l’IEP et la récupération qu’en font les politiques », regrette Thibault, étudiant en master : « C’est une affaire bien plus complexe qui a démarré bien avant. »

      Visé par ces collages, #Klaus_Kinzler, professeur d’allemand, enchaîne les médias depuis, pour témoigner et livrer sa version de la genèse de l’affaire. Cette « cabale » serait née simplement parce qu’il contestait le choix d’utiliser le terme « islamophobie » lors d’une semaine de l’égalité. D’après lui, « la liberté d’expression n’existe plus à Sciences Po ». « Ils voulaient nous faire la peau à moi et mon collègue », dit-il aussi dans Le Point en évoquant une partie des étudiants de l’institution.

      Auprès de Mediapart, ce prof de 61 ans, « 35 ans d’enseignement », introduit la conversation en se félicitant que les médias soient « si nombreux à en parler ». « C’est un vrai marathon, mais le plus intéressant était CNews. Il y a des extraits de l’émission qui sont vus plus de 100 000 fois sur les réseaux », se réjouit l’enseignant qui dit vouloir désormais se concentrer sur le volet judiciaire. « Grâce à l’essayiste Caroline Fourest, j’ai pris l’avocat Patrick Klugman pour préparer ma riposte », explique le prof qui accuse ses collègues de l’avoir complètement lâché.

      Il explique avoir été exclu d’un groupe de travail pour avoir voulu débattre de l’utilisation du terme « islamophobie ». Il dit avoir été accusé de harcèlement pour avoir simplement remis en cause les arguments de Claire M., sa collègue également membre de ce groupe. Il accuse même sa directrice de lui avoir fait fermer une page de son site internet pour le punir d’avoir été se répandre médiatiquement. Il dénonce enfin la pression constante des étudiants qui n’hésiteraient plus à entraver la « liberté d’expression » et la « liberté académique » des enseignants.

      « Le problème, c’est qu’il y a beaucoup d’erreurs et de mensonges dans son récit », regrette l’un de ses collègues de l’IEP qui rappelle qu’il a été immédiatement soutenu par ses pairs. « On est scandalisé par les propos qu’il a tenus sur CNews. Il regrette ne pas avoir de soutien alors qu’il y a eu une boucle de mails dans la foulée des collages. Notre soutien a été unanime et immédiat et la condamnation de ces affiches a été très ferme », rectifie Florent Gougou, maître de conférences à l’IEP. Une motion, votée mardi par le conseil d’administration de Sciences Po, condamne d’ailleurs « fermement cet affichage qui relève de l’injure et de l’intimidation ».

      Mais ce texte rappelle aussi l’importance « du devoir de réserve » et du respect des « règles établies et légitimes de l’échange académique ». Un élément clé de toute cette affaire que ni les enseignants visés, ni Marianne et Le Figaro n’ont évoqué jusqu’à présent. Sur la base de nombreux témoignages d’étudiants, de professeurs et de la direction mais aussi en s’appuyant sur l’intégralité des mails et échanges en cause, Mediapart a tenté de retracer les raisons de cette affaire débutée fin novembre. Et qui, de l’aveu de tous, « n’aurait jamais dû prendre cette tournure nationale ».

      Fin novembre donc, sept étudiants et une autre enseignante, Claire M., planchent ensemble dans un groupe de travail pour préparer la « semaine de l’égalité et contre les discriminations » qui se tient annuellement depuis 2017. Ce groupe a pour intitulé « Racisme, islamophobie, antisémitisme ». Klaus Kinzler le rejoint alors qu’il est déjà constitué et remet immédiatement en cause l’intitulé.

      « Bonsoir à tout le monde, concernant notre groupe thématique “Racisme, islamophobie, antisémitisme”, je suis assez intrigué par l’alignement révélateur de ces trois concepts dont l’un ne devrait certainement pas y figurer (on peut même discuter si ce terme a un vrai sens ou s’il n’est pas simplement l’arme de propagande d’extrémistes plus intelligents que nous) », écrit d’emblée le professeur d’allemand qui livre la véritable raison de sa présence dans ce groupe : « Je ne vous cache pas que c’est en vertu de ce contresens évident dans le nom de notre groupe thématique que je l’ai choisi. »

      Claire M., l’enseignante en question, répond le lendemain pour défendre le choix de l’intitulé qui n’est d’ailleurs pas de son fait. Ce dernier a été décidé après un sondage en ligne lancé par l’administration et a été validé par un comité de pilotage. « La notion d’islamophobie est effectivement contestée et prise à partie dans le champ politique et partisan. Ce n’est pas le cas dans le champ scientifique », défend la maîtresse de conférences qui cite des arguments scientifiques pour se justifier. Elle précise aussi « qu’utiliser un concept ne dispense pas d’en questionner la pertinence, de se demander s’il est opérant ».

      Quelques heures plus tard, Klaus Kinzler répond de manière plus virulente. Les étudiants du groupe de travail, eux, sont toujours en copie. « Affirmer péremptoirement, comme le fait Claire, que la notion d’islamophobie ne serait “pas contestée dans le champ académique” me paraît une imposture », estime l’enseignant qui conteste les références utilisées par Claire qui mettait en avant « le champ académique ». « Ou alors soyons francs et reconnaissons tout de suite ceci : ce “champ académique” dont (Claire) parle et dont elle est un exemple parfait, est lui-même, du moins dans certaines sciences sociales (qu’à l’INP on appelle “sciences molles”), devenu partisan et militant depuis longtemps », poursuit-il.

      Il ajoute : « Contrairement à ce que Claire affirme ex cathedra, le débat académique sur la notion hautement problématique de l’“islamophobie” n’est absolument pas clos… » Il enchaîne pour évoquer une notion « fourre-tout », « inventée de toutes pièces comme arme idéologique dans une guerre mondiale menée par des “Fous de Dieu” (au sens littéral) contre les peuples “impies”, notion qui semble avoir envahi de nombreux cerveaux, y compris dans notre vénérable institut ». « C’est pour cela que je refuse catégoriquement de laisser suggérer que la persécution (imaginaire) des extrémistes musulmans (et autres musulmans égarés) d’aujourd’hui ait vraiment sa place à côté de l’antisémitisme millénaire et quasi universel ou du racisme dont notre propre civilisation occidentale (tout comme la civilisation musulmane d’ailleurs) est passée championne du monde au fil des siècles... »

      Il dénonce ensuite « le véritable scandale » que représente selon lui le nom de ce groupe de travail, « une réécriture de l’histoire » qui ferait « honte » à l’IEP de Grenoble. « J’ai décidé que, au cas où le groupe déciderait de maintenir ce nom absurde et insultant pour les victimes du racisme et de l’antisémitisme, je le quitterai immédiatement (c’est déjà presque fait, d’ailleurs) », annonce-t-il en guise de conclusion.

      Juste après ce mail, Vincent T., maître de conférences en sciences politiques – que Klaus Kinzler avait laissé en copie caché dans l’échange – intervient alors qu’il ne fait pas partie du groupe de travail. Il défend son collègue et cible directement Claire M. en disant découvrir « avec effarement à quel point des universitaires sont enfoncés dans le militantisme et l’idéologie ». « Associer l’IEP de Grenoble au combat mené par des islamistes, en France et dans le monde, et de surcroît au moment où le gouvernement vient de dissoudre le CCIF, mais vous devenez fous ou quoi ? », interroge Vincent T.

      Claire M. répond et poursuit son argumentation en produisant plusieurs publications scientifiques pour expliquer pourquoi l’usage du terme « islamophobie » n’est pas problématique selon elle. Les choses s’enveniment lorsque Vincent T. rétorque en mettant cette fois-ci la direction de l’IEP en copie. Il évoque Charlie Hebdo « accusé d’islamophobie », « Samuel Paty accusé d’être islamophobe » et dit ne pas pouvoir imaginer « un instant que l’IEP de Grenoble se retrouve dans ce camp » et invite la direction à réagir.

      En réponse, Klaus Kinzler poursuit sa dénonciation dans un mail fleuve, notamment d’une « partie grandissante des chercheurs en sciences sociales ». « Tous les jours, les départements en “gender studies”, “race studies” et autres “études postcoloniales” (liste loin d’être exhaustive !) des universités les plus prestigieuses du monde sortent leur production de nouveaux livres et articles “scientifiques” dont les conclusions sont strictement hallucinantes (pour des personnes normalement constituées) », poursuit le professeur d’allemand avant de déplorer « la cancel culture » qui serait à l’œuvre. Il continue de dénigrer les sciences sociales qui produiraient « un tas de choses invraisemblables » et qui seraient bien moins légitimes que « les sciences dures ». Il se fait ensuite plus intransigeant : « Je vais être clair : je refuse absolument d’accepter qu’on puisse continuer, comme Claire le propose au groupe, de conserver l’intitulé de la journée prévue. »

      Le prof d’allemand qui revendique auprès de Mediapart son côté « provoc’ » a en tout cas une réputation « sulfureuse » au sein de l’IEP. « Lui et Vincent sont les deux profs réputés à droite quoi et parfois très militants », contextualise un enseignant. L’argumentation de Klaus Kinzler déployée dans ses mails le prouve.

      « Les musulmans ont-ils été des esclaves et vendus comme tels pendant des siècles, comme l’ont été les Noirs (qui aujourd’hui encore sont nombreux à souffrir d’un racisme réel) ? Non, historiquement, les musulmans ont été longtemps de grands esclavagistes eux-mêmes ! Et il y a parmi eux, encore aujourd’hui, au moins autant de racisme contre les Noirs que parmi les Blancs », peut-on lire. Il poursuit sa mise en cause des musulmans en expliquant qu’ils n’ont pas jamais été « persécutés », « tués » ou « exterminés » comme l’ont été les juifs et qu’au contraire, on compterait parmi eux « un très grand nombre d’antisémites virulents ».

      Il en profite pour expliquer qu’il n’a « aucune sympathie » pour l’islam « en tant que religion » et préfère même « largement le Christ qui, lui, pardonne fameusement à la femme adultère ». Il précise toutefois n’avoir aucune « antipathie » à l’égard des musulmans, mais reprend à son compte la théorie qui veut que ces derniers soient a priori solidaires des terroristes : « Pourquoi n’y a-t-il pas des millions de musulmans dans la rue pour le crier haut et fort, immédiatement, après chaque attentat, pourquoi ? » Il termine enfin son mail en proposant un nouvel intitulé qui serait « Racisme, antisémitisme et discrimination contemporaine » pour englober « l’homophobie, l’islamophobie et la misogynie ».
      Le Défenseur des droits défend l’enseignante

      « Après ces échanges, Claire M. a considéré être victime d’une agression et même d’un harcèlement », explique l’un de ses collègues. Elle aurait reproché à Klaus Kinzler de se contenter de livrer ses opinions personnelles face à des arguments scientifiques. Mais aussi de la dénigrer, la qualifiant d’« extrémiste ». Il aurait ainsi clairement dépassé son devoir de réserve et bafoué le principe de laïcité en faisant l’éloge du Christ. L’enseignante sollicite l’intervention de la direction qui refuse de rappeler à l’ordre Klaus Kinzler mettant en avant la liberté d’expression. « Nous l’avons accompagnée dans ces démarches car nous avons considéré que la direction se devait de réagir. On a remarqué au passage qu’aucun registre de santé et de sécurité ni de CHST n’existait », explique un membre de la CGT de l’université de Grenoble. « On a même fait une alerte pour danger grave et imminent », ajoute-t-il.

      De son côté pourtant, Klaus Kinzler affirme qu’il a été lâché par sa direction. « J’ai même été exclu du groupe de travail », assure l’enseignant qui estime « ne pas avoir dépassé le cadre de la politesse » dans ses mails. « En réalité, Klaus n’a jamais été exclu. C’est lui-même qui a annoncé son départ », nuance une étudiante membre du groupe de travail et elle aussi destinataire des courriers. « On ne comprenait pas pourquoi il prenait à partie notre enseignante alors que l’intitulé du groupe avait été voté et validé en amont. Il y avait un tel manque de professionnalisme de sa part qu’on a choisi de ne pas répondre », explique-t-elle.

      Contrairement à ce que le prof répète dans les médias, les étudiants à ce moment-là de l’affaire ne réagissent pas. « On a demandé à sortir de cette boucle de mails, on a sollicité la direction qui n’a pas souhaité réagir. Du coup, on a fait remonter que dans ces conditions, on ne voulait plus travailler avec lui. Son agressivité et ses propos anti-islam nous ont mis mal à l’aise mais il n’y a pas eu de volonté de le faire taire ou de l’exclure », poursuit-elle : « Ses mails s’en prenant de cette manière à l’islam ou aux musulmans étaient difficiles à vivre pour certains étudiants. »

      En révélant cette affaire, Le Figaro affirme que les échanges en question ne contenaient aucune « trace d’invectives personnelles ». Dans des échanges consultés par Mediapart pourtant, Klaus Kinzler reconnaît lui-même sa violence. « Je viens de relire notre échange. De ton côté, un ton parfaitement modéré et poli ; de mon côté, je l’admets, je n’ai pas eu la même maîtrise du langage et, dans le feu de l’action, je me suis par moments laissé emporter. Je le regrette », écrit-il le 4 décembre tout en précisant que sur le fond, il « maintient tout à 100 % ». « Je me suis excusé pour calmer les choses, c’était diplomatique, mais je maintiens qu’il n’y avait pas de problème dans mes mails », corrige-t-il finalement à Mediapart.

      D’après son entourage, Claire M. vit mal « l’inertie de la direction » et est même mise en arrêt maladie du 7 au 11 décembre. Juste avant, elle alerte Pacte, le labo de recherches de l’université dont elle dépend. Ce labo rattaché au CNRS publie dans la foulée un communiqué interne pour affirmer « son plein soutien » à l’enseignante « attaquée personnellement ». Sans jamais nommer Klaus Kinzler, il lui reproche de nier ses résultats scientifiques (elle travaille depuis de longues années sur les questions autour de l’islam et des musulmans et est largement reconnue alors que lui n’est pas chercheur) et dénonce une forme de « harcèlement ». Il rappelle enfin que le débat scientifique nécessite « liberté, sérénité et respect ».

      « On ne voulait pas attaquer la direction », explique un membre de ce labo, « mais on ne pouvait pas laisser un prof dénigrer les SHS de cette manière, mettre en copie un prof qui n’a rien à voir avec ce groupe de travail, et les laisser s’en prendre à une collègue aussi violemment par mail devant ses étudiants. C’était un rappel à l’ordre sur la forme puisque la direction refusait d’intervenir ».

      D’après l’étudiante du groupe de travail, l’affaire aurait dû s’arrêter là. D’autant que Klaus Kinzler oublie de dire qu’il a obtenu gain de cause puisque la semaine de l’égalité a été rebaptisée. « Féminismes et antiracisme » a remplacé l’autre intitulé d’après les documents obtenus par Mediapart. « On a d’ailleurs pris le soin de ne pas évoquer ses mails publiquement. C’est Klaus en réalité qui en fait le premier la publicité », explique-t-elle. Un point aussi crucial que le prof d’allemand n’évoquera jamais lors de ses différentes sorties médiatiques.

      En effet, l’enseignant est furieux, voit dans la réaction de Pacte « une punition » et envoie de nombreux mails à la communauté éducative pour exposer ce litige et se plaindre de Claire M. Il va jusqu’à publier sur son site internet les échanges sans l’accord de l’enseignante. « Il a même utilisé les échanges de mails et la réponse du labo comme matériel pédagogique pour évoquer avec ses étudiants “la cancel culture” dont il se dit victime », témoigne l’une de ses collègues : « Claire M. n’avait rien demandé et c’est d’abord son nom qui a été jeté en pâture. Il se garde bien de dire qu’il est allé aussi loin. » Comme l’a constaté Mediapart, Klaus Kinzler a en effet utilisé cet incident lors de conférences de méthode de langue allemande de 3e année consacrés à la « cancel culture ».

      Interrogé, Klaus Kinzler confirme avoir été le premier à publier tous ces échanges sur son site internet mais assure que s’il l’a fait, c’est parce que le labo Pacte avait « rendu public son communiqué ». En réalité, le courrier de Pacte a seulement été envoyé par mail aux personnes concernées et à la direction. « Jamais il n’a été rendu public sur notre site », précise l’un de ses membres qui admet toutefois qu’il n’aurait pas dû intituler ce courrier « communiqué ».

      Reprenant les arguments de Klaus Kinzler, Marianne indique ainsi que le collectif Sciences Po Grenoble, relayé par l’Union syndicale, a donc publié le 7 janvier des extraits des courriels pour dénoncer son discours « ancré à l’extrême droite ». C’est exact. Mais les mails repris par les étudiants, qui ne nomment jamais le professeur, ont été piochés sur le site de l’enseignant qui les avait lui seul rendus publics.

      « Je ne regrette pas de les avoir fait circuler car c’était mon seul moyen pour me défendre », justifie aujourd’hui Klaus Kinzler. Rétrospectivement, il reconnaît une erreur, celle d’avoir rendu public le nom de Claire M. « J’aurais dû retirer son nom mais j’avais d’autres colères à gérer », rétorque l’enseignant qui explique l’avoir finalement fait il y a quelques jours, lorsque la polémique a éclaté médiatiquement. « Mais je ne comprends pas trop qu’on fasse tout un fromage du risque de sécurité pour ma collègue », nuance-t-il. Comme lui et Vincent T. pourtant, Claire M. bénéficie d’une protection policière depuis samedi 6 mars. « Elle a d’ailleurs reçu un mail haineux en début de semaine », ajoute la CGT.

      Face à l’inaction de la direction, Claire M. avait également saisi le Défenseur des droits en décembre. D’après nos informations, l’institution via sa cellule grenobloise a envoyé un courrier le 11 janvier à Sabine Saurugger, la directrice de l’IEP. Dans cette lettre, le Défenseur des droits précise qu’il n’a pas à se positionner sur le fond du débat mais rappelle que le respect entre collègues est un élément fondamental. Surtout, il estime que Vincent T. et Klaus Kinzler ont bafoué le droit au respect de Claire M. et que cette dernière n’a pas bénéficié du soutien de la direction.

      Sollicitée par Mediapart, la directrice, qui n’avait pas répondu au Défenseur des droits à l’époque, conteste toute inertie. « Ces événements avaient donné lieu à une action très ferme de la direction qui a d’ailleurs mené à la rédaction d’excuses de Klaus Kinzler », explique-t-elle. Le 16 décembre en effet, l’enseignant s’était une nouvelle fois excusé. Mais au même moment, il exposait sur son site les échanges mails avec l’enseignante et revendiquait sa démarche dans un courrier adressé au labo Pacte en réponse à leur communiqué.

      Malgré le constat du Défenseur des droits, la direction l’assure : « Il est incorrect de dire que nous n’avons pas réagi, mais on a tenté d’avoir un dialogue constructif », explique Sabine Saurugger.

      Étudiants et syndicats avaient aussi alerté la direction

      Contrairement à ce qui a pu être dit jusqu’à présent, la plupart des instances internes ont donc été sollicitées avant que les fameuses affiches soient collées sur les murs de l’IEP. L’Union syndicale, par exemple, avait aussi dénoncé l’inaction de la direction et demandé par courrier qu’elle condamne les propos tenus par le professeur. « L’islamophobie n’a pas sa place dans notre institut tout comme les autres discriminations que peuvent être le racisme et l’antisémitisme », peut-on lire dans un échange daté du 9 janvier. Le syndicat en profitait pour apporter son soutien à l’enseignante et demander la suppression du cours sur l’islam de Vincent T. qu’ils accusent d’islamophobie.

      En réponse, la directrice temporise. Sabine Saurugger rappelle l’importance de la liberté d’expression des enseignants mais aussi des principes de « tolérance et d’objectivité » exigés par les « traditions universitaires et le code de l’éducation ». Le 13 janvier, les étudiants insistent et demandent que l’IEP « ne se cache pas derrière la liberté pédagogique pour défendre l’islamophobie ». Ils veulent aussi que soit mise à l’ordre du jour du prochain conseil d’administration la suppression du cours de Vincent T. baptisé « Islam et musulmans dans la France contemporaine ». Le 22 février enfin, l’Union syndicale lance un appel à témoignage sur Facebook et demande aux étudiants de faire remonter d’éventuels propos islamophobes tenus par Vincent T. dans ses cours.

      « On avait eu plusieurs remontées problématiques », justifie un membre de ce syndicat. Les étudiants évoquent notamment les prises de position de ce maître de conférences, par ailleurs membre de l’Observatoire du décolonialisme (il a signé une tribune en janvier dans Le Point « contre le “décolonialisme” et les obsessions identitaires »). Il est aussi un contributeur régulier du site Atlantico. « Ses tribunes sont d’ailleurs toutes reprises par la revue de presse officielle de l’IEP », remarque l’un de ses collègues pour démontrer qu’on est loin d’une « université minée par l’islamo-gauchisme ».

      « Les idéologies islamo-gauchistes et décoloniales sont devenues tellement puissantes que les instances officielles cherchent à les protéger », écrivait Vincent T. par exemple en septembre. « Nos meilleurs étudiants sont aujourd’hui conditionnés pour réagir de manière stéréotypée aux grands problèmes de société. Ils sont par exemple persuadés que la société française est raciste, sexiste et discriminatoire, que les immigrés ont été amenés de force en France pour être exploités et parqués dans des ghettos, que Napoléon était une sorte de fasciste ou que la colonisation était synonyme de génocide », fustigeait-il en février.

      « Vincent est connu pour être à droite de la sociologie. Après, il n’y a aucun élément aujourd’hui permettant de prouver qu’il a tenu des propos islamophobes dans ses cours », nuance toutefois un professeur de l’IEP. « Ce qui est certain, c’est qu’il en fait une obsession. Mais il y a aussi une grande frayeur chez lui », ajoute son collègue.

      Après la mort de Samuel Paty par exemple, Vincent T. avait vivement réagi dans un mail envoyé à la présidence de l’université en octobre. « Les caricatures publiées par Charlie Hebdo sont devenues la ligne de démarcation entre la civilisation et la barbarie, entre nous et nos ennemis. Soit nous acceptons ces caricatures, soit nous les refusons : à chacun de choisir son camp », écrivait-il avant de demander à l’université de placarder les caricatures.

      « Dans le cadre de mes enseignements, il m’arrive, comme sûrement à d’autres collègues, de présenter ces dessins lorsque j’aborde l’affaire des caricatures. Pour cette raison, ma vie est donc potentiellement en danger. Elle cessera de l’être si toute l’université assume sa solidarité en placardant ces caricatures partout où elle le peut », ajoutait-il avant de conclure : « En l’absence d’une telle mesure élémentaire de solidarité et de courage, vous mettrez ma vie en danger. » La direction avait alors évoqué la possibilité de signaler des éléments à la police s’il en ressentait le besoin.

      Pour cette raison, certains professeurs et étudiants jugent le post Facebook de l’Union syndicale maladroit : « Cet appel à témoignage, même s’il ne mentionnait pas son nom, aurait dû rester sur des boucles internes et ne pas être affiché sur le réseau social. Vincent était trop identifiable. » Après avoir découvert ce post, l’enseignant envoie un mail aux étudiants : « Pour des raisons que je ne peux expliquer par mail, je demande à tous les étudiants qui appartiennent au syndicat dit “Union syndicale” de quitter immédiatement mes cours et de ne jamais y remettre les pieds. » « Je suis Charlie et je le resterai », conclut-il avant de revenir sur ses propos quelques jours plus tard.

      Le même jour, Klaus Kinzler envoie un autre mail présenté comme étant humoristique aux étudiants, mais aussi à la direction. « Bonjour surtout à nos petit.e.s Ayatollahs en germe (c’est quoi déjà l’écriture inclusive d’Ayatollah ?) ! », entame-t-il : « Je vois que ça commence à être une habitude chez vous, de lancer des fatwas contre vos profs. » En cause, une réunion assez houleuse entre ces profs, Kinzler et d’autres professeurs. L’enseignant d’allemand s’était permis de boire de l’alcool « pour supporter cette réunion » où il était de nouveau question de débattre de « l’islamophobie ».

      « Cela vous choque donc tellement, vous les “Gardien.n.e.s des bonnes mœurs” auto-proclamé.e.s, que, après quatre heures interminables passés avec vous, […] j’aie eu besoin de me verser quelques canons derrière la cravate pour ne pas péter un plomb ? », interroge Klaus Kinzler avant de réitérer son soutien à son collègue Vincent T. « Un enseignant “en lutte”, nazi de par ses gènes, islamophobe multirécidiviste », écrit-il en guise de signature.

      « C’est une succession de fautes, il est allé trop loin », estime l’un de ses collègues. Encore une fois, les étudiants avertissent immédiatement la direction qui ne réagit pas. L’Union syndicale se tourne aussi vers la justice et porte plainte (elle sera finalement classée), pour « diffamation et discrimination à raison des activités syndicales ». Quatre jours plus tard, les noms des deux enseignants étaient placardés sur les murs de l’IEP.

      Si, depuis, tout le personnel enseignant condamne sans réserve ce collage, certains reçoivent difficilement le discours que Klaus Kinzler va défendre à la télévision. Et ses accusations contre ses collègues, la direction, les étudiants et le labo de recherches Pacte. « Je condamne très fermement ces affichages mais conteste toute responsabilité du labo dans les accusations faites à l’encontre de ces deux professeurs dont l’un est aussi membre de Pacte », soutient Anne-Laure Amilhat-Szary, directrice du laboratoire.

      Tous les enseignants, Klaus Kinzler compris, tombent d’accord sur un point. La situation épidémique qui a donné lieu à ces innombrables échanges de courriels a clairement pu aggraver la situation. « Les réactions timides de la direction aussi », regrette un enseignant. Simon Persico, professeur à l’IEP, résume : « On a soutenu ces deux enseignants, condamné ces collages, mais l’affaire qui est relatée dans les médias prend une tournure présentant la communauté pédagogique comme des islamo-gauchistes inconséquents. C’est faux. Il faut apaiser ce débat qui a pris une ampleur inédite, aggravé par une situation de confinement très lourde pour les étudiants et qui empêche toute discussion sereine et respectueuse. »

      Pendant que deux inspecteurs généraux missionnés par Frédérique Vidal auditionnent les différents acteurs de cette affaire, Klaus Kinzler, lui, poursuivait son marathon médiatique. Il s’interroge aussi sur la suite. « Juste après l’émission que j’ai faite sur CNews, j’ai discuté vingt minutes avec Serge Nedjar, le patron de la chaîne, qui voulait que je vienne plus régulièrement. Ça m’a flatté », révèle-t-il avant de conclure : « Je vais y réfléchir. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/110321/accusations-d-islamophobie-la-direction-de-sciences-po-grenoble-laisse-le-

      –---

      Traduction de l’article en anglais :
      How ‘Islamophobia’ row erupted at French political sciences school
      https://www.mediapart.fr/en/journal/france/220321/how-islamophobia-row-erupted-french-political-sciences-school?_locale=en&o

      L’article complet :
      https://seenthis.net/messages/907329#message907675

      #affaire_de_Grenoble

    • Islamophobie à Sciences Po Grenoble : les faits alternatifs de Frédérique Vidal

      En pleine polémique après que les noms de deux professeurs accusés d’islamophobie aient été placardés sur les murs de l’IEP, la ministre de l’Enseignement supérieur y a vu une aubaine pour poursuivre sa croisade contre l’« islamo-gauchiste ». Quitte à, une fois de plus, mutiler les faits.

      Frédérique Vidal a donc récidivé en affairisme islamo-gauchiste. C’est en effet, comme aurait pu le dire Emmanuel Macron lui même (https://www.lesinrocks.com/2020/06/11/actualite/societe/macron-juge-le-monde-universitaire-coupable-davoir-casse-la-republique-e), un « bon filon » politique.

      Le 4 mars 2021, deux collages nominatifs, dénonçant l’islamophobie de deux enseignants, sont placardés sur les murs de l’Institut d’Etudes Politique de Grenoble (plus familièrement, Sciences Po Grenoble). Dans un contexte tendu, qui fait suite à l’assassinat de Samuel Paty le 16 octobre 2020, la direction de Sciences Po Grenoble signale ces faits à la justice le 5 mars. Enfin le 6 mars, le parquet de Grenoble ouvre une enquête pour « injure » et « dégradation publique ».

      L’affaire aurait pu en rester là si, le 8 mars, la ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche, Frédérique Vidal, ne s’était aussitôt saisie de cette affaire. Et n’avait diligenté une mission de l’#inspection_générale_de_l’éducation (https://www.enseignementsup-recherche.gouv.fr/cid157360/i.e.p.-grenoble-frederique-vidal-condamne-fermement-l), chargée d’évaluer dans quelle mesure il aurait, au sein de Science-Po Grenoble, été porté atteinte aux « libertés académiques » et au « pluralisme de la recherche ». Frédérique Vidal entendait sans doute ainsi poursuivre sa croisade contre la présence supposée d’un courant « islamo-gauchiste » dans l’enceinte de l’université française. Et ce, en dépit des réserves (https://www.uvsq.fr/communique-de-la-conference-des-presidents-duniversite) et protestations (https://www.cnrs.fr/fr/l-islamogauchisme-nest-pas-une-realite-scientifique) déjà pourtant exprimées, cet hiver, par la Conférence des présidents d’Université et le CNRS ; des inquiétudes (https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/03/04/islamo-gauchisme-nous-ne-pouvons-manquer-de-souligner-la-resonance-avec-les-) manifestées par de prestigieux chercheurs internationaux ; enfin, d’une pétition (https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/02/20/islamo-gauchisme-nous-universitaires-et-chercheurs-demandons-avec-force-la-d) d’universitaires français emmenée par Thomas Piketty, et appelant la ministre à démissionner.

      Las, la ministre avait, une fois de plus, mutilé les faits. Il est en effet apparu, après quelques jours de bruit médiatico-politique, que l’affaire était plus complexe qu’il n’y paraissait. Interrogée mercredi soir sur BFM (https://www.bfmtv.com/replay-emissions/120-pourcent-news/frederique-vidal-les-methodes-d-intimidation-n-ont-pas-leur-place-dans-les-un), Frédérique Vidal, semblait en effet découvrir, avec stupeur, le communiqué (https://www.europe1.fr/societe/sciences-po-grenoble-les-propos-dun-professeur-etaient-extremement-problemat) de la directrice de Science Po Grenoble, Sabine Saurugger. Celle-ci s’inquiétait, bien sûr, des répercussions des collages nominatifs, notamment pour la sécurité des deux enseignants mis en cause. Mais Sabine Saurugger rappelait, également, qu’un des deux enseignants en question avait auparavant fait l’objet d’un « rappel à l’ordre », dans le cadre d’une controverse interne à l’institut d’études politiques.

      Il semble donc qu’il faille, dans la compréhension de ce qui s’est passé à Sciences Po Grenoble — et avant de se précipiter pour intenter des procès en islamo-gauchisme, comme l’ont à nouveau fait la ministre, des éditorialistes et les réseaux sociaux — faire preuve de patience dans l’établissement des faits. Et surtout, d’un peu de probité dans la compréhension de ce qui s’est réellement joué. Aussi faut-il d’abord, selon les mots d’une enseignante de Grenoble, également mise en cause dans cette affaire, « rétablir l’ordre des choses ».
      L’ordre et la connexion des faits

      En décembre 2020, ces deux enseignants s’en étaient en effet vivement pris, par mails interposés, à une enseignante de Pacte, l’un des laboratoires de sciences sociales rattaché à l’IEP de Grenoble. Dans ces mails que nous avons pu consulter, l’un des enseignants écrit en effet, sans détour, qu’il « n’aime pas beaucoup cette religion [l’islam, ndlr] », qu’elle lui fait parfois « franchement peur », « comme elle fait peur à beaucoup de Français ». C’est dans ce contexte que cet enseignant et son collègue se sentent alors autorisés à contester l’existence d’un atelier d’un groupe de travail intitulé « Racisme, islamophobie, antisémitisme ». À contester de manière très véhémente, ensuite, les droits d’une enseignante à animer ce groupe de travail, en mélangeant à peu près tout : « Associer l’IEP de Grenoble au combat mené par des islamistes, en France et dans le monde, et de surcroît au moment où le gouvernement vient de dissoudre le CCIF, mais vous devenez fous ou quoi ? » Enfin, autorisés à remettre en question les titres et travaux de la directrice du laboratoire Pacte elle-même.

      Un communiqué du laboratoire Pacte, daté du 7 décembre 2020 et adressé à la direction et quatre étudiants, s’inquiète de ces mails et de leur véhémence et, sans nommer leurs auteurs, manifeste une inquiétude au regard du respect des libertés académiques : « Nier, au nom d’une opinion personnelle, la validité des résultats scientifiques d’une collègue et de tout le champ auquel elle appartient, constitue une forme de harcèlement et une atteinte morale violente ». Suite à quoi l’enseignante incriminée saisira le Défenseur des Droits, qui confirmera l’interprétation des faits, par un courrier officiel envoyé à l’IEP de Grenoble en janvier 2021.

      S’il s’est certes depuis excusé auprès de ses paires grenobloises, l’un des enseignants n’en est, à vrai dire, pas à son coup d’essai en matière de provocation intellectuelle et politique. Sur la foi d’autres mails, non moins embarrassants et diffusés dans le cadre d’une liste de diffusion de sciences politiques réputée, certains politistes et sociologues considèrent désormais que l’enseignant ne « respecte pas la déontologie minimale qu’on peut attendre d’un universitaire, en diffusant régulièrement des messages électroniques à connotation xénophobe et islamophobe sous des formes pseudo-humoristiques ».

      D’autres indiquent encore que certains de ses articles sur la socialisation politique des jeunes musulmans, sans doute publiés dans des revues de référence, se fondent sur des données et des échantillons trop étroits pour être tout à fait fiables. Ces sociologues et politistes reconnus, tout comme des enseignants grenoblois, nous ont dit préférer rester anonymes. En effet, depuis la médiatisation (https://www.lci.fr/societe/video-le-parti-pris-de-caroline-fourest-grenoble-aux-origines-de-l-intolerance-2) à grand bruit de cette affaire intra-universitaire par des éditorialistes coutumiers de ce genre de coup d’éclat, les deux enseignants qui courent à leur tour les plateaux de télévision pour crier au loup islamo-gauchiste et l’intervention de la ministre, le contexte s’est très fortement tendu. Non seulement, le nom et la photographie de la directrice du laboratoire Pacte sont jetés en pâture à la fachosphère sur Twitter. Mais celle-ci, tenue au silence par un droit de réserve suite à l’enquête judiciaire et l’enquête diligentée par la ministre, fait également, avec d’autres enseignants et étudiants, l’objet d’une protection judiciaire.

      Si la pratique des collages nominatifs est condamnable (et les communiqués (http://www.sciencespo-grenoble.fr/accusations-dislamophobie-aupres-de-deux-enseignants-de-sciences) de la direction de Sciences Po Grenoble, mais aussi du laboratoire (https://www.pacte-grenoble.fr/actualites/accusations-d-islamophobie-aupres-de-deux-enseignants-de-sciences-po- de sciences sociales, l’affirment nettement, sans équivoque aucune), il faut donc non moins rappeler, au nom du même principe — celui du respect inconditionnel de la liberté académique dont se réclame Frédérique Vidal —, l’ordre et la connexion des faits. Et qui a fait, en première instance, l’objet d’une forme d’intimidation intellectuelle et politique.

      L’affaire est grave. Elle n’est, en effet, pas réductible à un ou des conflits inter-personnels, ou même intérieurs au monde universitaire. Elle est politique, et met directement en cause le climat inflammable, et la stratégie de tension qu’ont, depuis des mois, et dans ce domaine comme dans d’autres, instauré le président de la République (https://www.lemonde.fr/politique/article/2021/02/22/emmanuel-macron-empetre-dans-le-debat-sur-l-islamo-gauchisme_6070756_823448.), ses ministres (https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/10/23/polemique-apres-les-propos-de-jean-michel-blanquer-sur-l-islamo-gauchisme-a-), sa majorité (https://www.mediapart.fr/journal/france/230221/le-rappeur-medine-porte-plainte-contre-la-deputee-lrem-aurore-berge?onglet) et leurs relais (https://twitter.com/WeillClaude/status/1369975398919004163) médiatiques. Il serait évidement inconsidéré de comparer Emmanuel Macron à Donald Trump (http://www.regards.fr/politique/article/2022-pourquoi-macron-ferait-mieux-de-ne-pas-la-jouer-comme-clinton). Mais il faut bien admettre que les méthodes de communication employées par la macronie, ainsi que celles de certains médias, s’apparentent de plus en plus à celles du trumpisme et de Fox News.

      http://www.regards.fr/politique/societe/article/islamophobie-a-sciences-po-grenoble-les-faits-alternatifs-de-frederique-vida

    • Sciences-Po Grenoble : une semaine de tempête médiatique sur fond d’« islamo-gauchisme »

      L’#institut_d’études_politiques peine à émerger des polémiques alimentées par deux de ses professeurs sur fond de débat national sur la prétendue incursion d’« islamo-gauchisme » dans l’enseignement supérieur et la recherche.

      Sciences-Po Grenoble pensait avoir touché le fond après l’affichage non revendiqué, le 4 mars sur ses murs, des noms de deux de ses enseignants accusés d’être des « fascistes » aux penchants islamophobes. Si les auteurs de l’affiche restent inconnus jusqu’ici, la situation a tourné cette semaine au lynchage médiatique pour cet institut d’études politiques (IEP). Sans que sa communauté étudiante et enseignante, tétanisée, ne soit en mesure de calmer la tempête.

      L’affiche accusatrice a suscité un tollé national, d’autant que des syndicats étudiants locaux ont relayé momentanément et très « maladroitement » comme l’a reconnu l’Unef, une photo du collage. En plein week-end, le 6 mars, la justice lance une enquête pour « #injure_publique » et « #dégradation » ; des élus de tous bords et des membres du gouvernement s’émeuvent ; les directions de l’IEP et de l’Université Grenoble-Alpes (UGA) condamnent l’affichage tandis que le ministre de l’Intérieur place sous #protection_policière les enseignants visés.

      L’un d’eux, #Klaus_Kinzler, agrégé d’allemand, s’indigne à visage découvert : la #liberté_d’expression, en particulier au sujet de l’islam, est selon lui menacée au sein de l’IEP, explique-t-il dans plusieurs interviews aux médias nationaux durant le week-end. Rares sont les professeurs à répondre, et ils le font anonymement : la direction les a exhortés à la plus grande retenue. Lundi, après une AG, ils publient tout de même un communiqué prudent : s’ils condamnent « fortement et fermement » le collage, ils rappellent que les débats « doivent se tenir dans le respect des principes de modération, de respect mutuel, de tolérance et de laïcité ».

      « Grandes gueules »

      Cette réponse voilée à Klaus Kinzler fait référence à son rejet virulent, en décembre, du concept d’islamophobie au sein d’un groupe de travail réunissant des étudiants et l’une de ses collègues, maîtresse de conférences spécialiste du Maghreb colonial et membre du prestigieux Institut Universitaire de France. Lors de cette querelle et de ses suites, le prof d’allemand a franchi plusieurs lignes blanches, sur le fond comme sur la forme, et a été notamment recadré par la direction de Pacte, le labo de recherche en sciences sociales CNRS /Sciences-Po Grenoble /UGA.

      Klaus Kinzler intensifie encore sa campagne, enchaînant les interviews « en guerrier », non sans gourmandise. Sur CNews mardi, il dénonce les enseignants-chercheurs incapables de le soutenir alors qu’il « risque sa peau », « des grandes gueules enfermées dans leur tour d’ivoire, qui ne comprennent rien ». Le même jour, un collectif de syndicats grenoblois, dont la CGT Université, Solidaires étudiant·e·s, SUD éducation ou l’Unef, prend position contre ce « recours irraisonné aux médias » et demande à Sciences-Po « de condamner les propos » de l’enseignant.

      Le conseil d’administration de l’IEP franchit le pas dans la journée, enjoignant Klaus Kinzler à respecter « son devoir de réserve ». Le CA estime qu’il a « transgressé […] les règles établies et légitimes de l’échange académique » et tacle aussi le second enseignant visé par le collage, au nom de la « #liberté_syndicale ». Ce maître de conférences en science politique, T., soutien de Klaus Kinzler, engagé dans l’#Observatoire_du_décolonialisme et chroniqueur à #Atlantico, a tenté d’exclure de ses enseignements les syndicalistes étudiants qui cherchaient à vérifier s’il ne développait pas d’idées islamophobes dans l’un de ses cours, afin d’en demander la suppression le cas échéant. La directrice de l’IEP, #Sabine_Saurugger, professeure de sciences politiques, précise ce « rappel à l’ordre » à l’issue du CA : elle mentionne, sans détailler, « le ton extrêmement problématique » de Klaus Kinzler et la décision « clairement discriminatoire » de T..

      Inquiétude des étudiants

      Tout cela reste trop sibyllin face au germaniste survolté. Sur France 5 mercredi, il fustige « une nouvelle génération de maîtres de conférences et de professeurs bourrés d’#idéologie » qui « mélangent #militantisme et #science ». « Il est en roue libre, lâche Simon Persico, professeur de sciences politiques à l’IEP, le premier à s’exprimer publiquement. Il ment sans vergogne car il a d’abord reçu notre soutien, massif, face à cet affichage odieux. Sa stratégie de communication hyperviolente offre une vision mensongère de notre institut où l’on respecte le pluralisme. C’est gravissime. » Et de tenter d’expliquer la paralysie de l’institution : « Il est difficile de contrer ce récit journalistique dominant et consensuel, dans lequel notre collègue est présenté comme une victime de “l’islamo-gauchisme”… »

      Gilles Bastin, professeur de sociologie de l’IEP, complète : « Beaucoup parmi nous sont soucieux de ne pas souffler sur les braises : il y a une peur évidente que tout cela finisse mal. » Il a pourtant lui aussi décidé de rompre le silence : « Klaus Kinzler n’a jamais été censuré : c’est au contraire lui qui a imposé le retrait du terme “islamophobie” de la conférence du 26 janvier [celle qui était préparée par le groupe de travail de décembre au centre du conflit, ndlr], pour des raisons idéologiques et au moyen de pressions inacceptables. » Pour l’enseignant-chercheur, son collègue « s’inscrit dans la stratégie du gouvernement qui martèle que les sciences sociales sont “gangrénées” par un prétendu “islamo-gauchisme” ». Il dénonce « la gravité de cette attaque » qui vise « à en finir avec la liberté de la recherche ».

      Certains étudiants se disent, eux, « effarés » : « On voudrait tous que ça se calme et que cela soit réglé en interne », résume Chloé, en troisième année. Dans un texte publié par Mediapart, sept étudiants, après avoir disqualifié Klaus Kinzler pour ses propos « indignes » et T. pour son action « intolérable », dénoncent « l’absence de discussion » au sein de l’Institut et « une récupération du débat par des politiques et des médias ». Ces étudiants, engagés dans le combat contre les violences sexistes et sexuelles à Sciences-Po, exigent « d’être entendus et pris au sérieux », insiste Chloé. « Les promos sont de plus en plus résolues, poursuit Alex, lui aussi en troisième année. Les propos misogynes ou discriminatoires ne sont plus tolérés. Face à cette exigence, Kinzler et T. tombent de haut, tandis que la direction et l’administration sont à la rue. »

      Deux inspecteurs généraux, dépêchés par la ministre de l’Enseignement supérieur, Frédérique Vidal, sont au travail à Grenoble depuis mercredi pour tenter d’établir les responsabilités des uns et des autres. Réunis en AG ce vendredi, les enseignants et personnels de l’IEP ont voté à l’unanimité une motion de soutien à leur directrice et son équipe.

      https://www.liberation.fr/societe/sciences-po-grenoble-une-semaine-de-tempete-mediatique-sur-fond-dislamo-g
      #IEP

    • A propos de l’affaire de Grenoble : la science soumise aux passions ?

      Depuis le meurtre de Samuel Paty victime d’une campagne de délation, les tensions se multiplient dans l’enseignement et la recherche. À Grenoble, ce sont des étudiants de Sciences Po qui ont récemment dénoncé publiquement deux de leurs professeurs comme « fascistes » et « islamophobes ».

      Après Stéphane Dorin à Limoges, après Kevin Bossuet à Saint-Denis, après Didier Lemaire à Trappes, voici donc Klaus Kintzler à Grenoble. Klaus Kintzler est ce professeur d’allemand de l’université de Grenoble qui, après un différent avec l’une de ses collègues sur la scientificité du terme islamophobie, a vu son nom outé, avec celui de l’un de ses collègues, par un tag anonyme sur un mur de l’université de Grenoble, les accusant l’un et l’autre de fascisme et d’islamophobie.

      Depuis, les deux professeurs sont placés sous surveillance policière, l’enseignante qui avait échangé avec Kintzler s’est dite victime de harcèlement de sa part et a du être mise en maladie, et le laboratoire de recherche qui la soutient croule sous les injures voire les menaces.

      Dans le contexte de l’après Paty, et en plein débat autour de l’islamogauchsime, cette nouvelle affaire se révèle particulièrement complexe, et peut-être justement pour cela particulièrement révélatrice. Les tensions y sont à leur comble, y compris d’ailleurs lors de la préparation de cette émission. En jeu pourtant au départ, un simple intitulé scientifique pour une journée autour de l’égalité. Mais la Raison a besoin de la raison pour penser, c’est là sa limite. Quand les passions l’emportent, la science est-elle seulement possible ?

      https://www.franceculture.fr/emissions/signes-des-temps/nous-sommes-embarques

    • #Blanquer dans Le Parisien : le #maccarthysme_inversé

      Des professeurs sont accusés d’islamophobie, par exemple à l’IEP de Grenoble... Quel regard portez-vous sur cette affaire ?

      J’ai condamné avec fermeté ces logiques de fatwa. Toutes les idéologies, qui définissent des personnes par rapport à leurs appartenances, qu’elles soient raciales ou religieuses, avant de considérer leur appartenance à la République, mènent à des logiques de fragmentation. Ce n’est pas la société dont on a envie.

      Vous faites notamment référence à l’islamo-gauchisme, que vous avez récemment dénoncé ?

      Oui, mais pas seulement. J’ai dénoncé cela l’an dernier.Il y a aussi d’autres courants dans les sciences sociales qui ont beaucoup de mal à laisser vivre tous les courants de pensée. J’appelle cela du « #maccarthysme_inversé », qui consiste à exclure celui qui ne pense pas comme vous.

      https://www.leparisien.fr/politique/jean-michel-blanquer-on-ne-peut-fermer-l-ecole-que-lorsque-l-on-a-tout-es

      #Jean-Michel_Blanquer

    • "L’accusation d’islamophobie tue"

      Tweet officiel du Secrétariat général du #Comité_interministériel_de_prévention_de_la_délinquance_et_de_la_radicalisation (#SG-CIPDR) :

      Dans cette affaire, le terroriste est passé à l’acte pour tuer un enseignant après que ce dernier a été traité d’« islamophobe » par des militants islamistes.C’est l’accusation d’#islamophobie qui a poussé ce terroriste à assassiner #Samuel_Paty : l’accusation d’islamophobie tue.

      https://twitter.com/SG_CIPDR/status/1371504152308760582

      signalé ici sur seenthis :
      https://seenthis.net/messages/906546

    • merci pour la recension. cette histoire est tellement révélatrice des mécanismes en place, mais aussi, et ça c’est beaucoup trop gommé, de la retenue et tolérance des gens de « gauche » vis-à-vis des types comme lui...
      20 ans qu’il a semé sa petite terreur sans que rien ne bouge avant, c’est incroyable. J’avais relayé ce témoignage de Nicolas Haeringer qui l’avait comme prof y’a 20 ans et déjà... https://twitter.com/nicohaeringer/status/1368518279015370754
      Deux jours plus tard le témoignage de La Nébuleuse https://twitter.com/i_nebuleuse/status/1369204681742950406 venait enfoncer le clou...

    • Merci @val_k, je vais reprendre leurs témoignages ici, pour ne pas les perdre au cas où ils seraient supprimés.

      Témoignage 1 de @nicohaeringer, 07.03.2021 :

      Il y a 20 ans, j’ai eu (pendant trois ans) l’un des profs au cœur de la polémique sur l’islamophobie à l’IEP de Grenoble.
      Polémique dans laquelle certains s’engouffrent pour demander la #dissolutionUnef.
      Cet enseignant était assez unique. J’adorais l’allemand, et ses cours étaient géniaux : rigueur bien sûr, mais grande liberté de parole et de discussion.

      Il m’a souvent dit que s’il notait mes idées, il me mettrait 0, mais qu’il n’était là que pour noter mon allemand.
      On discutait, on s’engueulait en classe. Ça passait avec certains élèves, qui parlaient bien l’allemand et pouvaient prendre part aux discussions.
      Ça passait mal avec d’autres, qui ne pouvaient pas répondre à ses outrances verbales et ne savaient du coup pas comment se situer.
      Eux se faisaient rembarrer tant pour leurs idées que pour leur allemand et le prof ne voyait pas le malaise que ça créait.
      Il était sans filtre, jamais avare d’une exagération ou d’une provocation, parfois franchement borderline.
      Mais en même temps très proche des étudiant.e.s : on dînait chez lui, chaque année pour clore les cours, et les échanges se poursuivaient jusqu’au petit matin. Mais c’était pareil : tout le monde n’était de fait pas à l’aise.
      Par ailleurs quand on cherche à abolir la distance entre enseignant et étudiant.e.s, on n’abolit en fait pas la relation de subordination. D’ailleurs, certain.e.s le craignaient vraiment.
      En outre, même dans un cadre censément informel, il y a des choses qu’on ne peut pas dire sans y mettre les... formes, justement, puisqu’on est enseignant face à des étudiant.e.s.
      Il s’en fichait, jouait même de son côté provoc, mais nous étions nombreuses et nombreux à penser que ses outrances finiraient par le dépasser.

      20 ans après, ça semble être le cas.
      Est-ce une raison pour le jeter en pâture ? Assurément pas.
      Mais on ne peut pas non plus faire de cette histoire un avatar de la ’cancel culture’, d’autant qu’il tenait souvent des propos démesurés, pas moins outranciers que ceux qui sont utilisés aujourd’hui contre lui.
      Le problème est là. Il aurait dû être rappelé à l’ordre avant par sa hiérarchie, pour lui signifier qu’un enseignant, aussi brillant soit-il ne peut pas tout dire & ne peut pas publiquement dénigrer sans argument les travaux de ses collègues.
      Qu’il n’est pas possible de provoquer autant ses propres étudiants, sans tenir compte de ce que ça... provoque chez elles et eux. Pour moi, le vrai problème est là.
      Et parmi ses provocations régulières, il s’en prenait effectivement vertement à l’islam, en particulier après le 11 septembre 2001 (je l’ai eu en 98, 99 et 2001).
      Ça n’a pas eu de conséquences à l’époque, ça ne passe plus aujourd’hui - tant mieux.
      Il ne s’en est pas rendu compte, et personne visiblement dans la hiérarchie de l’IEP ne lui a jamais rien dit.
      L’UNEF n’y est pour rien, strictement rien et appeler à sa dissolution (a fortiori dans le contexte actuel pour les étudiant.e.s) est totalement à côté de la plaque.
      Mais c’est ce à quoi le gouvernement a ouvert la porte, en mettant sur un même plan le CCIF et génération identitaire et en fantasmant sur l’islamogauchisme à l’université.
      Dans l’affaire de Grenoble, on a un prof qui provoque, franchit les lignes rouges.
      Cette affaire devrait se régler en interne, et la direction aurait dû réagir bien avant.
      Evidemment, ça ne signifie pas qu’il soit acceptable de s’en prendre à lui & de le jeter ainsi en pâture. Mais là encore : la responsabilité n’est pas celle pointée par Marianne et cie.
      Bon et moi ça me tiraille, évidemment : j’avais beaucoup d’affection pour ce prof, malgré tout.
      Sans doute car à l’époque, je n’avais pas conscience que derrière les outrances et la provoc il n’y a pas que des idées sans conséquences mais des formes d’oppression et de domination.
      Je doute que s’il était mon prof aujourd’hui, j’aurais pu ressentir la même affection pour lui. Et oui, les temps changent et certains choses qui pouvaient « passer » il y a 20 ans ne « passent » plus aujourd’hui.
      Ça n’est pas la « cancel culture ».
      C’est simplement que certains mécanismes par lesquels s’exercent cette domination et cette oppression sont remis en cause. Tant mieux.
      La question, c’est : que fait-on de celles et ceux qui ne savent pas, ne veulent pas, ne peuvent pas en tenir compte ?
      Et la réponse ne peut pas être et ne pourra plus jamais être « on se tait, on les laisse dire et faire » - même s’il faut, évidemment, que chacun.e puisse continuer à exprimer ses opinions.

      https://twitter.com/nicohaeringer/status/1368518279015370754

      –---

      Témoignage 2 de @i_nebuleuse, 09.03.2021

      Des étudiant·es d’il y a 20 ans témoignent, moi j’aurais pu écrire plus ou moins la même chose pour des cours et propos tenus il y a un peu moins de 10 ans... et surtout j’ai même pas eu besoin de vérifier les noms des profs accusés, je savais très bien qui c’était.
      Difficile de croire que les directions successives l’ignorait, alors que les étudiant-es de toutes les promo en discutaient régulièrement. C’est la conscience et la volonté de se mobiliser qui a changé côté étudiant·es (pour ça comme pour les violences sexuelles)
      Et à un moment on ne peut pas demander de dénoncer mais pas trop fort, de se mobiliser mais surtout sans donner de noms, et d’agir « en interne » quand les directions savent très bien nous entourlouper (on est à sciences po hein) et n’agissent pas depuis 20 ans.
      Bref soutien à l ’@unefgrenoble et aux étudiant·es mobilisées dans les IEP et dans toutes les Universités. On a l’impression que ça bouge bien trop lentement et c’est vrai, mais un énorme pas a été franchi en 10 ans.
      Ah et évidemment des gens se demandent si on peut accuser à base de propos isolés ou je ne sais quoi. Non hein on parle de 20 ans de propos islamophobes tenus pas seulement en situation de débat mais dans une salle de cours devant des étudiant·es.
      Avec cette idée que la salle de classe est, justement, un espace de débat etc (comme si y’avait pas d’ascendant dans ce contexte...). Je comprends le thread que j’ai partagé, c’était aussi un prof apprécié, évidemment davantage par des personnes blanches pas visées par les propos.
      Mais bref le rapport de force s’est un peu inversé, ce qui prend de cours l’IEP c’est que dans le fond tout le monde devait être convaincu que ça resterait au chaud entre les murs de l’établissement. Hé non, c’est fini.

      https://twitter.com/i_nebuleuse/status/1369204681742950406

    • Impostures médiatiques ou postures politiques ? À propos de l’affaire Sciences Po Grenoble, d’un article de Mediapart et du Sénat

      Mediapart publie un article retraçant et analysant les événements qui ont eu lieu, à partir de novembre 2020, à Sciences Po Grenoble, quand un groupe de travail intitulé « Racisme, islamophobie, antisémitisme » a été mis au programme de la semaine de l’égalité et très durement critiqué par un enseignant du même institut. Le Défenseur des droits, interpellé, a estimé que le droit au respect de l’enseignante, membre du groupe de travail et attaquée par son collègue, a été bafoué. Le 6 mars 2021, des collages, nominatifs, sont affichés sur les murs de Sciences Po, et la nouvelle s’invite dans les médias nationaux. « Un traitement médiatique biaisé » dénoncent des enseignant·es et étudiant·es. Médiapart fait le point sur la suite des événements, à plusieurs voix.

      Pour Academia, cette relation, importante, illustre de façon exemplaire la #cancelculture — mieux dénommée « harcèlement » — que subissent les personnes minoritaires dans l’institution universitaire : les femmes, en particulier les maîtresses de conférences, et les étudiant·es. Cette culture du harcèlement repose à la fois sur le dénigrement public des personnes, mais aussi sur l’absence de réactions des institutions responsables de la protection des étudiant·es et des agent·es. On a eu tout récemment l’exemple avec l’ENS de Lyon, en dépit d’une couverture médiatique accablante, établissant comme l’établissement participe pleinement de la culture du viol dénoncée par le mouvement #MeToo. Les universités doivent cesser d’ignorer leur participation à la maltraitance active, par défaut d’action et l’omerta qu’elles organisent, de leurs personnels et des étudiant·es.

      L’ « affaire » de Sciences po est particulièrement grave, car la version des harceleurs a immédiatement été instrumentalisée par les médias qui montent la sauce « islamo-gauchiste » depuis janvier. « Il est logique de voir CNews, liée aux opérations africaines de Bolloré, militer contre l’étude des séquelles du colonialisme », écrivait Philippe Bernard dans Le Monde du 6 mars 2021. La chaîne a renchéri hier, avec l’intervention de son présentateur-vedette, qui a donné le nom d’une directrice de laboratoire, engageant aussitôt une campagne d’injures et de diffamation par les activistes d’extrême droite sur les réseaux sociaux1. L’inaction — par paresse ou par déni — des institutions explique pour l’essentiel la persistance de pratiques qui mettent en danger la santé et la sécurité des personnes victimes. Mais l’absence de lutte contre les pratiques anti-démocratiques au sein des universités met en danger les institutions elles-mêmes désormais.

      La médiatisation à outrance de l’affaire Sciences Po Grenoble a lieu dans un moment politique particulier, sur lequel Academia est déjà longuement intervenu : l’examen de la loi « confortant le respect des principes de la République » par la Commission de la Culture du Sénat, qui doit donner son « avis » sur le texte pour les sujets qui la concernent : la culture, l’éducation, l’enseignement supérieur et la recherche2.

      Or, depuis mercredi 10 mars 2020, en raison du traitement médiatique organisé par les grands groupes de presse aux puissants intérêts industriels dans l’extraction néo-coloniale et dans la vente d’armes, les attaques parlementaires se multiplient à toute vitesse, et même les organisations syndicales sont désormais visées. Ainsi, à l’Assemblée, alors que les étudiant·es connaissent la plus grave crise sociale et sanitaire depuis des dizaines d’années, une députée — Virginie Duby-Muller, première vice-présidente du parti Les Républicains, formant avec les députés Damien Abad et Julien Aubert, ainsi qu’avec le Ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin, les « cadets Bourbons » de la précédente mandature — a ainsi été jusqu’à demander la dissolution de l’UNEF. Du côté du Sénat qu’Academia craint comme la peste brune, Nathalie Delattre, apparentée à gauche, co-secrétaire du Mouvement radical et sénatrice de la Gironde, vient de reprendre à son compte la demande des députés Damien Abbad et de Julien Aubert du 25 novembre dernier et exige « une commission d’enquête sur la laïcité à l’université ». Pire, sur la base des fausses informations et d’une méconnaissance ignominieuse de l’affaire de Grenoble, des amendements attaquant directement les franchises universitaires des étudiant·es – car les étudiants sont aussi protégés par les franchises, ce que certain·es semblent avoir oublié – viennent d’être déposés par le sénateur Piednoir, d’après nos informations (ces amendements ne sont pas encore publiés).

      Et pourtant, la grande orchestratrice de l’attaque contre les universitaires et les étudiant·es, Frédérique Vidal, est encore en poste.

      Cibler les universitaires dans leur ensemble : tel est l’objet de cette puissante attaque médiatique commencée il y a plus de deux mois. L’affaire Sciences Po Grenoble se trouve ainsi fallacieusement médiatisée à outrance, dans un contexte où tout est bon pour cibler individuellement ou collectivement les universitaires qui contestent la politique du gouvernement, ou mettent en cause, par leurs travaux, l’ordre patriarcal et capitaliste. C’est le cas de l’extrême droite qui recourt à ses méthodes habituelles pour stigmatiser des personnes, à l’instar de la récente « liste des 600 gauchistes complices de l’islam radicale [sic] qui pourrissent l’université et la France » par laquelle Philippe Boyer, un jardinier de Nancy aux opinions très droitières, a lié les noms de centaines de collègues ayant demandé la démission de Frédérique Vidal à leurs pages professionnelles.

      Mais qui est responsable de tout cela ? Après ce qui vient de se passer concernant les deux enseignants de Sciences Po Grenoble, le rôle des grands groupes médiatiques est évident, mais aussi celui de la ministre elle-même. Philippe Boyer lui-même ne s’y est d’ailleurs pas trompé — du moins quand les instances universitaires ont entrepris de défendre leurs agents. S’il doit être poursuivi pour diffamation ou injure, il faut également porter plainte contre la Ministre, a-t-il rétorqué.

      Toujours soutenue par Jean Castex et Emmanuel Macron, « la ministre Frédérique Vidal est entièrement responsable de la situation« . Pour la CGT FercSup, la ministre

      a créé les conditions pour que le travail, la recherche universitaires soient stigmatisés, pour que des personnels de son ministère soient montrés du doigt, dénoncés et leurs noms jetés en pâture sur la place publique. Par ses propos et déclarations, par ses attaques publiques, elle a mis en danger des personnels de son ministère, malgré les alertes et les courriers.

      « Elle a ainsi engagé sa responsabilité pénale. Elle pourra ensuite démissionner. »

      –-----

      Note 3 du billet :

      NDLR. Vincent T. est un actif contributeur à la liste Vigilance Universités qu’Academia a évoquée à plusieurs reprises. Voici les propositions qu’il fait pour l’avenir des SHS dans un courriel du 7 février 2021, à 21h43, dans un fil de discussions intitulé « Note sur la pénétration des idéologies identitaristes dans l’ESR – Re : questions en vue de l’audition » : « Le texte de présentation me paraît très bien, mais il manque un aspect essentiel : que propose Vigilance universités ? C’est très bien d’alerter, mais il faut aussi faire avancer le schmilblick.
      Pour aller droit au but, je suggère quatre pistes dont voici leurs grandes lignes :
      1/ interdire toutes les manifestations religieuses dans les locaux des universités, ce qui inclut évidemment les signes d’appartenance, mais aussi le prosélytisme direct ou indirect.
      2/ renforcer l’apprentissage de l’esprit rationnel dans les programmes des universités, ce qui inclut le développement d’une approche critique des religions, des fausses croyances et autres fadaises qui ont abouti à faire croire que le voile ou le mariage précoce sont des instruments de l’émancipation féminine
      3/ arrêter le financement des projets qui sont portés par les nouvelles idéologies décoloniales, indigénistes, néoféministes et tutti quanti
      4/ empêcher les recrutements correspondant aux sus-dites idéologies.
      Il s’agit certes d’un programme ambitieux, et sans doute un peu brutal, je le conçois, mais je pense qu’il faut désormais taper du poing sur la table. Et puis vous savez bien que dans une négociation, il faut demander beaucoup pour obtenir peu. L’interdiction de l’écriture inclusive et des signes religieux, ce serait déjà top. »

      https://academia.hypotheses.org/31564

      #Vincent_T

    • C’était en 2014, un collègue de Vicent T, Pierre Mercklé, lui répond :

      Les chiffres de l’islamophobie

      Vincent Tournier, un « collègue » grenoblois, a posté aujourd’hui un message assez déconcertant sur la liste de diffusion des sociologues de l’enseignement supérieur. En réaction à l’annonce de la conférence-débat que nous organisons le 11 avril prochain à l’occasion de la parution du prochain numéro de Sociologie, consacré à la « sociologie de l’islamophobie », voici ce que Vincent Tournier a écrit, et que je reproduis ici dans son intégralité :

      Voilà qui nous change un peu des journées d’études sur le genre. Cela dit, pour information, voici les statistiques sur les atteintes aux lieux de culte en France (source : CNCDH, rapport 2013), en prévision du numéro que vous ne manquerez pas de consacrer, j’imagine, à la sociologie de la christianophobie.

      Cordialement,

      Vincent Tournier

      –---

      Evidemment, quand il y a des chiffres, à l’appui d’un argument, je suis peut-être un peu plus attentif… Ce qu’on remarque d’abord, c’est qu’il y a des chiffres, mais qu’il manque l’argument. C’est probablement que les chiffres sont censés parler d’eux-mêmes : « voici les chiffres »… Alors qu’est-ce que Vincent Tournier veut leur faire dire ? Vue l’allusion à la « christianophobie » juste avant le tableau, j’imagine que le tableau est censé montrer une augmentation des atteintes aux lieux de culte chrétiens, qui sont bien plus nombreuses que les atteintes aux liens de culte musulmans et israélistes, ce qu’occulterait la focalisation sur une prétendue montée de « l’islamophobie ». Et de fait, le nombre d’atteintes semble bien avoir doublé entre 2008 et 2012…

      Sauf que… mon « collègue » (j’insiste sur les guillemets) lit très mal ces chiffres. Il y a au moins deux choses à en dire, qu’auraient sans doute immédiatement remarquées n’importe lequel de mes étudiants de Master…

      Premièrement, si le nombre d’atteintes aux lieux de culte chrétiens a été multiplié par 2 entre 2008 et 2012, pour les lieux de culte musulmans il a dans le même temps été multiplié… par 7 (84 divisé par 14, au cas où mon « collègue » ne saurait plus comment calculer un rapport) !

      Et deuxièmement, même pour une seule année donnée, par exemple pour 2012, la comparaison du nombre d’atteintes aux différents lieux de culte n’a aucun sens si elle n’est pas rapportée au nombre total de lieux de culte de chaque obédience, pour mesurer ce qu’on appelle une « prévalence ». En 2011, selon Wikipedia, il y avait en France 280 lieux de prière israélites, 2400 lieux de prière musulmans et 48000 lieux de prière chrétiens (catholiques et protestants). Autrement dit, le taux d’atteintes est de 143 pour 1000 pour les lieux de prière israélites, de 35 pour 1000 pour les lieux de prière musulmans, et de 11 pour 1000 pour les lieux de prière chrétiens. On pourrait même être encore plus rigoureux, en rapportant au nombre de lieux de prière non pas la totalité des atteintes, mais seulement les atteintes aux lieux de prière. Cela revient à retirer du calcul les atteintes aux cimetières, ce qui se justifie par le fait d’une part que 99,6% des atteintes aux cimetières chrétiens ne sont pas identifiées comme des atteintes racistes (les 0,4% restants sont associés à des inscriptions satanistes ou néo-nazies, selon le rapport 2012 de la CNCDH, pp. 132-133 : www.cncdh.fr/sites/default/files/cncdh_racisme_2012_basse_def.pdf), et d’autre part que l’islamophobie n’y trouve pas non plus une voix d’expression, puisqu’il n’y a qu’un seul cimetière musulman en France (à Bobigny). Il reste alors, en 2012, 100 atteintes pour 1000 lieux de prière israélites, 35 atteintes pour 1000 lieux de prière musulmans, et 7 atteintes pour 1000 lieux de prière chrétiens. Autrement dit, un lieu de prière musulman a 5 fois plus de risques d’être atteint qu’un lieu de prière chrétien… On se fera une idée plus complète de la réalité statistique de l’islamophobie, cela dit, en se reportant justement aux chapitres « Chiffrer l’islamophobie » et « Des opinions négatives aux actes discriminatoire » du récent livre d’Abdellali Hajjat et Marwan Mohammed (Islamophobie, La Découverte, 2013, voir le compte rendu de Damien Simonin dans Lectures : https://journals.openedition.org/lectures/12827), justement invités de notre débat du 11 avril : https://journals.openedition.org/sociologie/2121.

      La question est du coup la suivante : mon « collègue » est-il nul en statistiques, ou bien est-il de mauvaise foi ? Dans cet article de la Revue française de sociologie paru 2011 (https://www.cairn.info/resume.php?ID_ARTICLE=RFS_522_0311), il utilisait également des données quantitatives pour démontrer que « les conditions actuelles de la socialisation des jeunes musulmans favorisent un ensemble de valeurs et de représentations spécifiques susceptibles de provoquer des tensions avec les institutions tout en donnant un certain sens à la violence ». La manipulation y était plus habile : je penche donc pour la seconde hypothèse. Mais dans un cas comme dans l’autre, il est permis de s’interroger sur la porosité persistante des critères de la science dans notre discipline.

      https://pierremerckle.fr/2014/03/les-chiffres-de-lislamophobie

    • Professeurs accusés d’islamophobie : « Cette affaire est une illustration des pressions politiques et économiques qui s’exercent sur l’université »

      Un collectif d’enseignants de l’Institut d’études politiques de Grenoble s’alarme, dans une tribune au « Monde », de l’#instrumentalisation après le collage sauvage d’affiches mettant en cause deux enseignants.

      –------

      Depuis plusieurs jours, l’Institut d’études politiques de Grenoble et le laboratoire Pacte sont au centre de l’attention médiatique et de campagnes haineuses et calomnieuses sur les réseaux sociaux à la suite du collage sauvage d’affiches mettant en cause très violemment deux enseignants accusés d’islamophobie et de fascisme.

      Les enseignants, chercheurs, étudiants, personnels et responsables de ces deux institutions ont apporté aux deux enseignants attaqués un soutien très clair en condamnant fermement l’injure et l’intimidation dont ils ont été victimes dans un contexte particulièrement inquiétant. Ce collage, qui a fait l’objet d’une saisine du procureur de la République par la directrice de l’Institut d’études politiques, est odieux. Il met en danger non seulement les deux enseignants cités mais aussi l’ensemble des personnels et des étudiants qui forment notre communauté et sur lesquels pèse aujourd’hui un poids trop lourd à porter.

      Incendie médiatique hors de contrôle

      En dépit de ce soutien, nous assistons à la propagation d’un incendie médiatique apparemment hors de contrôle dans lequel se sont associées des forces qui dépassent largement le cadre auquel aurait dû se limiter ce collage, y compris pour assurer la sécurité des personnes citées. Cet incendie est attisé depuis plus d’une semaine par les commentaires de ceux qui, tout en ignorant généralement les circonstances de cette affaire, s’en emparent pour stigmatiser la prétendue faillite de l’université et la conversion supposée de ses enseignants, particulièrement dans les sciences sociales, à l’« islamo-gauchisme ».

      Les circonstances qui ont conduit aux collages commencent à être connues. Parmi elles, les pressions inacceptables exercées en novembre et décembre 2020 pour faire supprimer le mot « islamophobie » d’une conférence organisée par l’Institut ont joué un rôle déterminant. Il appartient désormais aux différentes instances qui sont saisies des faits de rétablir la vérité qui a été tordue et abîmée sur les plateaux de télévision et les réseaux sociaux.

      Il nous revient en revanche, comme enseignants et comme chercheurs, d’alerter sur la gravité de ce qui est en train de se passer depuis ces collages. Nous assistons en effet à la mise en branle dans les médias d’un programme de remise en cause inédite des libertés académiques – en matière de recherche comme d’enseignement – ainsi que des valeurs du débat intellectuel à l’université.

      Les principes du débat d’idées

      La première liberté qui a été bafouée dans cette affaire n’est pas, en effet, la #liberté_d'expression ou d’opinion, comme le prétendent de nombreux commentateurs mal informés brandissant à contresens l’argument de la #cancel_culture. Les deux enseignants visés par les collages ont en effet eu tout loisir de s’exprimer pendant cette affaire.

      Ce qui est en jeu, et qu’ils ont délibérément refusé de respecter, ce sont les principes du #débat_d'idées dans le cadre régi par l’université. Au premier rang de ces principes figure la nécessité de faire reposer son enseignement et ses recherches sur l’analyse des faits et de les séparer clairement de l’expression de valeurs, de la manifestation de préjugés et de l’invective.

      Cette affaire est une illustration des pressions politiques et économiques qui s’exercent aujourd’hui sur l’université dans son ensemble en France. Comment ne pas voir dans les tensions qu’a connues notre établissement ces derniers mois, un des effets de la misère psychique et matérielle imposée à toute la communauté académique – particulièrement aux étudiants – par la pandémie et la fermeture des campus.

      Dans ce contexte, où chacun frôle et certains dépassent l’épuisement, invoquer seulement la « radicalisation gauchiste » des syndicats étudiants, c’est alimenter une polémique dont l’agenda politique est assez évident au vu des acteurs qui ont porté cet argument.

      Parole violemment hostile aux sciences sociales

      Comment ne pas voir non plus derrière la libération généralisée d’une parole violemment hostile aux sciences sociales sur les plateaux de télévision l’effet d’une stratégie politique navrante du gouvernement depuis des mois.

      Celle-ci a culminé, il y a quelques semaines, avec le projet d’une enquête sur la prétendue « #gangrène » de l’« islamo-gauchisme » dans nos disciplines. Il est difficile de trouver des raisons autres que purement électorales aux chimères « islamo-gauchistes » du gouvernement, lesquelles ont soulevé de très vives protestations dans toutes les parties de l’espace académique. Il nous paraît aussi évident qu’en soufflant sur les braises depuis des mois le gouvernement a inspiré l’offensive contre les sciences sociales à laquelle nous assistons aujourd’hui.

      Le sentiment qui nous envahit est un mélange de #colère et de #tristesse. La tristesse de voir triompher ceux qui pratiquent la #censure et piétinent la tradition d’#ouverture et d’#argumentation_rationnelle du #débat_intellectuel, préférant manier l’#outrance, le #mépris et l’#ironie. La tristesse de les voir préférer le soutien des défenseurs les plus extrêmes de la pensée réactionnaire à la critique de leurs pairs. La colère de constater les ravages causés par leurs propos sur tous nos étudiants et sur notre communauté.

      La colère encore de voir le nom de Samuel Paty [professeur d’histoire-géographie assassiné, à Conflans-Sainte-Honorine (Yvelines), le 16 octobre 2020] entraîné dans une polémique idéologique à laquelle il est étranger et instrumentalisé pour organiser des campagnes haineuses à l’encontre d’enseignants, de chercheurs en sciences sociales, d’étudiants et de membres du personnel administratif des universités.

      Il nous reste heureusement la possibilité de retourner à notre travail. Celui que nous faisons toutes et tous depuis des années en délivrant des cours et en animant des débats argumentés sur des enjeux non moins sensibles que l’islam, comme la colonisation, les génocides et les crimes contre l’humanité, le terrorisme, la place de la science dans la société, les pratiques policières, les politiques migratoires, le populisme, le racisme, la domination masculine, le genre et la sexualité, les crises écologiques ou encore les inégalités. Pour combien de temps encore ?

      Liste complète des signataires (tous enseignent à Sciences Po Grenoble) :

      Stéphanie Abrial, ingénieure de recherche en science politique

      Marie-Charlotte Allam, enseignante-chercheure en science politique

      Chloë Alexandre, enseignante-chercheure en science politique

      Amélie Artis, m aîtresse de conférences en économie

      Gilles Bastin, professeur de sociologie

      Renaud Bécot, m aître de conférences en histoire

      Céline Belot, chargée de recherches en science politique

      Marine Bourgeois, m aîtresse de conférences en science politique

      Arnaud Buchs, maître de conférences en économie

      Hélène Caune, maîtresse de conférences en science politique

      Laura Chazel, enseignante-chercheure en science politique

      Camille Duthy, enseignante-chercheure en sociologie

      Frédéric Gonthier, professeur de science politique

      Florent Gougou, maître de conférences en science politique

      Martine Kaluszynski, directrice de recherche en science politique

      Séverine Louvel, maîtresse de conférences en sociologie

      Antoine Machut, enseignant-chercheur en sociologie

      Raul Magni-Berton, professeur de science politique

      Sophie Panel, maîtresse de conférences en économie

      Franck Petiteville, professeur de science politique

      Simon Persico, professeur de science politique

      Catherine Puig, professeure agrégée d’espagnol

      Sébastian Roché, directeur de recherches en science politique

      Guilaume Roux, chargé de recherches en science politique

      Simon Varaine, enseignant-chercheur en science politique

      Robin Waddle, professeur agrégé d’anglais

      Sonja Zmerli, professeure de science politique

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/03/17/professeurs-accuses-d-islamophobie-cette-affaire-est-une-illustration-des-pr

    • Zwei Professoren müssen um ihr Leben fürchten

      Wegen angeblicher Islamophobie haben Studenten in Grenoble zwei Hochschullehrer angeprangert. Die Politik verurteilt den „Versuch der Einschüchterung“. Der Fall weckt Erinnerungen an den enthaupteten Lehrer Samuel Paty.

      Zwei Universitätsprofessoren in Grenoble müssen um ihr Leben fürchten, weil Studenten ihre Namen in großen Lettern an das Unigebäude plakatiert und sie der Islamophobie bezichtigt haben. „Faschisten in unseren Hörsälen! Professor K. Entlassung! Die Islamophobie tötet!“, stand an der Fassade. Auch in den sozialen Netzwerken hielten die von der Studentengewerkschaft Unef unterstützten Aktivisten den beiden Professoren islamfeindliche Haltungen vor. Knapp fünf Monate nach der Ermordung des Geschichtslehrers Samuel Paty durch einen Islamisten hat die neue Affäre Frankreich aufgeschreckt.

      (paywall)

      https://www.faz.net/aktuell/politik/ausland/islamophobie-in-grenoble-professoren-muessen-um-ihr-leben-fuerchten-17233557.ht

      –-> ce qui se dit en Allemagne : 2 profs ont peur pour leur vie...

    • Hochschullehrer in Gefahr wegen angeblicher „islamophober“ Einstellungen

      An der Universität von Grenoble lehnte ein Professor die Gleichsetzung von Antisemitismus mit „Islamophobie“ ab. Damit trat er eine gewaltige Welle der Entrüstung los. Aktivistische Studentengruppen brandmarkten ihn und seine Unterstützer als „Faschisten“ und warfen ihnen vor, selbst „islamophob“ zu sein. Die beigeordnete Innenministerin Marlène Schiappa kritisiert die Vorwürfe der Aktivisten scharf und sieht deutliche Parallelen zum Fall Samuel Paty.

      Professor Klaus Kinzler von der Universität in Grenoble steht neuerdings im Licht der Öffentlichkeit, seit er von einer Kampagne der Studentengewerkschaft UNEF (Union nationale des étudiants de France) medial als Rechtsextremer und Islamhasser diffamiert wird. Studenten hatten zusätzlich zu ihrer Rufmordkampagne in großen Lettern an das Universitätsgebäude „Faschisten in unseren Hörsälen! Professor Kinzler Entlassung! Die Islamophobie tötet!“ plakatiert, wie die FAZ berichtete.
      Was war geschehen?

      Kinzler, der als Professor für deutsche Sprache und Kultur am Institut des Sciences Po bereits seit 25 Jahren angestellt ist, äußerte in einem Mailverlauf mit einer Kollegin Ende 2020 Kritik an den Inhalten und dem Titel eines Universitätsseminars, welches Antisemitismus, Rassismus und Islamophobie gleichwertig nebeneinander behandeln sollte: „Ich habe mich beispielsweise dagegen gewehrt, dass Rassismus, Antisemitismus und Islamophobie in einem Atemzug genannt werden“, erklärte Kinzler. „Die Diskriminierung von Arabern fällt in meinen Augen unter die Kategorie Rassismus und hat nichts mit Islamophobie zu tun. Die ersten beiden sind im Übrigen Straftatbestände, die Islamophobie ist es nicht. Der Begriff ist einfach zu schwammig“, rechtfertigte der Professor sich für seine Kritik. Für ihn seien Rassismus, welcher der Sklaverei zugrunde liege, oder Antisemitismus für etliche Tote verantwortlich, während es keine bekannten Todesopfer von Islamophobie gebe. Er zweifle nicht daran, dass es auch Anfeindungen gegen Muslime gebe, jedoch sei es nicht rechtfertigbar, diese auf die gleiche Stufe wie Antisemitismus und Rassismus zu stellen.

      Er selbst zeigte sich offen für eine Diskussion über den Begriff der Islamophobie, welcher durchaus begründbar auch als „Propagandawaffe von Extremisten“ bezeichnet werden kann. Daraufhin wurde Klaus Kinzler jedoch aus der Arbeitsgruppe zum Seminarinhalt ausgeschlossen. Vincent T., ebenfalls Politikprofessor, sprang seinem Kollegen in Folge zur Seite und geriet auf Facebook ebenfalls ins Visier der Studentengewerkschaft UNEF. Eine Kollegin aus Kinzlers Institut zeigte sich über dessen Aussagen so empört, dass sie sich kurzerhand eine Woche krankschreiben ließ. Die Affäre zog laut Kinzler im Anschluss ohne sein weiteres Zutun immer weitere Kreise und erreichte nun sogar die politische Bühne.

      So verteidigte die beigeordnete Innenministerin Marlène Schiappa das Recht des Professors, seine Einschätzung zu dem Begriff der Islamophobie kundzutun und kritisierte die Kampagne der studentischen Aktivisten scharf: „Nach der Enthauptung Samuel Patys ist das eine besonders widerliche Tat, denn er war genauso den sozialen Netzwerken zum Fraß vorgeworfen worden“, erklärte Schiappa im Fernsehsender BFM-TV. „UNEF hat in Kauf genommen, die beiden Professoren in Lebensgefahr zu bringen“, zeigte sich die Politikerin empört und bezeichnete es als verstörend, dass die Studentengewerkschaft in den sozialen Netzwerken zu einer beleidigenden Hasskampagne gegen die Professoren mobil gemacht habe. Der lokale Verantwortliche der Gewerkschaft Thomas M. weigerte sich, ebenfalls auf BFM-TV, die Aktion zu verurteilen und sprach sich für das Recht der Studierenden aus, die „islamophobe Haltung“ ihrer Professoren zu kritisieren.

      Auch Marine Le Pen griff die Debatte dankend auf und sah sich darin bestätigt, dass es an Universitäten eine „abstoßende, sektiererische Islamo-Linke gibt, die keine Grenzen kennt“. Das Verhalten der Aktivisten spielt somit auch der rechtspopulistischen Partei Frankreichs Rassemblement National in die Hände, der Marine Le Pen vorsteht.
      „Intellektueller Terrorismus“

      Mittlerweile hat sich auch die Staatsanwaltschaft in Grenoble wegen öffentlicher Beleidigung und Sachbeschädigung eingeschaltet. Die Hochschulministerin Frédérique Vidal verurteilte den „Versuch der Einschüchterung“ von Universitätsprofessoren, der nicht toleriert werden könne. Sie ordnete eine interne Untersuchung am Institut d’études politiques von Grenoble zu dem Fall an. Eine ihrer Vorgängerinnen im Hochschulministerium, die Regionalratspräsidentin der Hauptstadtregion Valérie Pécresse, nannte die Vorkommnisse an der Universität sogar „intellektuellen Terrorismus“.

      Beinahe ironisch mutet die Diffamierungskampagne gegen Kinzler an, wenn man die Tatsache berücksichtigt, dass der gebürtige Schwabe mit einer Muslimin verheiratet ist. „Ich habe wirklich keinen Kreuzzug gegen den Islam geplant. Ich wollte nur das Konzept der Islamophobie kritisch hinterfragen“, rechtfertigte sich der Professor und kündigte an, sich nach der unfreiwilligen Öffentlichkeit, die ihm zuteil wurde, nun eine Auszeit zu gönnen.

      Als Märtyrer will Klaus Kinzler sich nicht bezeichnen, auch will er sich nicht mit dem ermordeten Samuel Paty gleichsetzen, jedoch sieht er eine Gefahr in der Dynamik der Debattenkultur: „Wenn es so weitergeht, dann können wir unsere Uni eigentlich zusperren, das Gebäude verkaufen und einen Supermarkt daraus machen. Wozu dann noch ein Institut d’études politiques, wenn man jeden schützen müsse vor Argumenten, die ihm nicht gefallen würden?“, warnt der Professor vor einer im eigenen „Safe Space“ dauerempörten Studentenschaft.

      Solche Fälle, in denen an Universitäten Dozenten für meist vernünftig begründbare Meinungen und Aussagen von aktivistischen Gruppen heftiger, diffamierender Kritik ausgesetzt sind, stellen leider mittlerweile keine Einzelfälle mehr dar. In Deutschland wurde etwa Susanne Schröter für ihre Kritik am Politischen Islam zur Zielscheibe von empörten Studenten und Aktivisten. Für die USA lässt sich der Biologieprofessor Bret Weinstein beispielhaft erwähnen, der für seine Kritik an der universitären Praxis des „Day of Absence“, bei dem keine weißen Personen an der Universität erscheinen sollten, schlussendlich als Rassist dargestellt wurde und seine universitäre Laufbahn beenden musste.

      Die Universitäten und ihre Vertreter knicken nur allzu oft vor lautstark empörten Aktivisten ein. Auch die Ausladung von Rednern oder das Niederbrüllen von Diskutanten reihen sich in derartige Fälle ein. Ein solches Klima an Hochschulen lässt sich an vielen Orten feststellen und könnte zur ernsthaften Gefahr für die Meinungsfreiheit und die Debattenkultur werden.

      https://hpd.de/artikel/hochschullehrer-gefahr-wegen-angeblicher-islamophober-einstellungen-19081

    • Wegen Kritik an Islamophobie-Begriff: Hochschullehrer in Frankreich als Faschist beschimpft

      Der deutsche Hochschullehrer in Frankreich Klaus Kinzler hat den Begriff „Islamophobie“ kritisiert und wird seitdem von Kollegen und Studenten als „Faschist“ angefeindet. In einem Interview mit der „Welt“ erklärte er, was es damit auf sich hat und wie es in Frankreich um die Debattenkultur bestellt ist.
      In den sozialen Medien sei er im Rahmen einer Kampagne der Studentengewerkschaft durch den Schmutz gezogen worden. Dort habe man ihn als Rechtsextremisten und Islamophoben dargestellt, erzählt der 61-Jährige. Später hätten Studenten seinen Namen mit dem Slogan „Islamophobie tötet“ an den Wänden plakatiert. Nach seiner Ansicht rührt diese Feindseligkeit von einer mangelnden Diskussionsbereitschaft.

      „Debattiert oder gestritten wird nicht mehr, weil sich Leute verletzt fühlen könnten. Das ist es, was sich in den letzten Jahren verändert hat: Es gibt einen politischen Aktivismus, der sich als Wissenschaft verkleidet. Es gibt eine Sensibilität und Verletzlichkeit, das, was Caroline Fourest die ‚Generation Beleidigt‘ nennt“, eklärt er gegenüber der Welt.

      Klaus Kinzler unterrichtet seit 25 Jahren deutsche Sprache und Kultur an dem Institut des Sciences Po, einer privaten Elitehochschule in Grenoble. Seitdem er in einem E-Mailaustausch mit einer Kollegin den Begriff „Islamophobie“ kritisiert hat, ist er mit Anfeindungen konfrontiert. Nach seinen Worten wurde er sogar zusammen mit einem anderen Kollegen als „Faschist“ gebrandmarkt. Das will er sich nicht gefallen lassen und setzt sich mit Argumenten zur Wehr.

      An Begriff „Islamophobie“ Streit entfacht
      Von Frankreich hätten viele das Bild, dass es ein laizistisches Land sei, in dem die Religion kritisiert werden dürfe. Aber es gebe Tabus, an die man nicht rühren dürfe, so der Hochschullehrer weiter.

      „Ich habe mich beispielsweise dagegen gewehrt, dass Rassismus, Antisemitismus und Islamophobie in einem Atemzug genannt werden“, erklärte Kinzler. „Die Diskriminierung von Arabern fällt in meinen Augen unter die Kategorie Rassismus und hat nichts mit Islamophobie zu tun. Die ersten beiden sind im Übrigen Straftatbestände, die Islamophobie ist es nicht. Der Begriff ist einfach zu schwammig.“

      Eine Gleichsetzung des Begriffs mit Antisemitismus lehnt der Hochschullehrer ebenfalls ab. Letzterer habe Millionen Tote zur Folge gehabt, Genozide ohne Ende. Dann gebe es Rassismus, Sklaverei. Auch das habe in der Geschichte zu zig Millionen Toten geführt. „Aber wo seien die Millionen Toten der Islamophobie?“

      „Ich bestreite nicht, dass Menschen muslimischen Glaubens diskriminiert werden. Ich weigere mich nur, das auf die gleiche Stufe zu stellen. Ich halte das für ein absurdes Täuschungsmanöver.“
      Angst vor Auseinandersetzungen an Unis
      Dass ihn die Studenten zur Zielscheibe von Anfeindungen gemacht hätten, findet Kinzler mit Blick auf die Debatte um die Islamophobie sogar nützlich, „sonst wäre das ja wieder unter den Teppich gekehrt worden“. Er stellt auch nicht in Abrede, dass sie mit Sicherheit nichts vortäuschten und sich wirklich verletzt fühlten. In Bezug auf Studenten wiederum, welche auf umstrittene Themen sensibel reagieren würden, meint der Hochschullehrer:

      „Wer böse ist, könnte sagen: Sein Platz ist nicht an der Uni, wenn er sich durch Argumente verletzt fühlt. Aber bei uns tut man alles, damit sie nicht verletzt werden. Man erspart ihnen jede Form von Auseinandersetzung. Das ist ja das Skandalöse.“
      Wenn es so weitergehe, dann können „wir unsere Uni eigentlich zusperren“, das Gebäude verkaufen und einen Supermarkt daraus machen, kritisiert er. Wozu dann noch ein „Institut d’études politiques“, wenn man jeden schützen müsse vor Argumenten, die ihm nicht gefallen würden?
      In dem Zusammenhang spricht er von „safes spaces“, Sicherheitsblasen. Diese würden dafür geschaffen, damit die jungen Menschen nicht behelligt würden mit Dingen, mit denen man sich früher selbstverständlich auseinandergesetzt habe.
      „Wir haben hier an unserem Institut viele Lehrkräfte, die den Studenten nach dem Mund reden und die Vorurteile, die sie schon haben, bekräftigen. Einer wie ich stört. Für viele bin ich hier: ‚Klaus, der Extremist‘. 25 Jahre lang war das schlimmste Schimpfwort Liberaler oder Neo-Liberaler. Jetzt bin ich Rechtsradikaler, ein Islamophober und ein Faschist“, beklagt Kinzler.
      „Ich bin kein Märtyrer“
      Laut Kinzler schlägt ihm eine offene Feindseligkeit entgegen. Von den 50 Kollegen seien 35 gegen ihn, „sie hassen mich inzwischen“. Nur 15 stünden auf der Seite der Freiheit. Auch seine Direktorin habe sich nicht hingestellt und gesagt: „Der Kinzler ist ein Demokrat und kein Faschist.“
      Vor dem Hintergrund der islamistisch motivierten Enthauptung des Schullehrers Samuel Paty geht Kinzler auch auf die Frage ein, ob er nun Angst habe. Seine Antwort: Nein. Die Aktion der Studenten gegen ihn zeige aber, dass sie keine erwachsenen, verantwortlichen Personen seien. Er will aber auch nicht mit dem ermordeten Lehrer verglichen werden.
      „Ich fühle mich aber auch nicht als Samuel Paty. Ich bin kein Märtyrer. Ich stehe nur zu meinen Überzeugungen. Ich bin auch nicht der Opfertyp, sondern war immer ein Kämpfer. Wenn mich jemand angreift, dann wehre ich mich. Den Vergleich mit Samuel Paty finde ich eher unpassend und vielleicht sogar gefährlich.“
      Der 47-jährige Geschichtslehrer Samuel Paty war Mitte Oktober 2020 von einem 18 Jahre alten Angreifer nahe Paris ermordet worden. Das von Ermittlern als islamistisch motivierter Terrorakt eingestufte Verbrechen löste im ganzen Land Entsetzen aus. Paty hatte das Thema Meinungsfreiheit gelehrt und dabei Karikaturen des Propheten Mohammed gezeigt. Der 18-Jährige, der von der Polizei getötet wurde, hatte dies zuvor in sozialen Netzwerken als sein Tatmotiv angegeben.
      Sind Sie in den sozialen Netzwerken aktiv? Wir auch! Werden Sie SNA-Follower auf Telegram, Twitter oder Facebook! Für visuelle Inhalte abonnieren Sie SNA bei Instagram und YouTube!

      https://snanews.de/20210309/islamophobie-hochschullehrer-beschimpft-1208300.html

    • Die Sozialstruktur der Infektionen

      Im Interview mit der SZ beklagt Soziologe Oliver Nachtwey, dass es in Deutschland keine Statistiken zu sozialen Aspekten der Coronakrise gibt. Und er hat eine Vermutung, warum das so ist. In der NZZ kritisiert die Kunstsoziologin Nathalie Heinich die „Vermischung zwischen Aktivismus und Forschung“ in den Geisteswissenschaften, ebenso der Altphilologe Jonas Grethlein in der FAZ. In Grenoble solidarisieren sich Professoren mit zwei als „Islamophobe“ attackierten Kollegen... äh, nicht so wirklich.

      Wissenschaft
      In Grenoble sind zwei Professoren in sozialen Medien und über Graffiti an Uni-Gebäuden als „Islamophobe“ und Faschisten an den Pranger gestellt worden (unser Resümee). In Frankreich hat die Affäre nach dem Mord an Samuel Paty, der mit einer ähnlichen Kampagne anfing, Aufsehen erregt. Hadrien Brachet berichtet für die Zeitschrift Marianne über die Atmopshäre an der Uni Grenoble, wo sich Professoren in einem Papier äußerten: „Merklich hin- und hergerissen zwischen der Verurteilung der Graffiti und Sympathie für andere Kollegen beklagen sie in dem Kommuniqué ’gefährliche Handlungen’ und rufen zur ’Befriedung’ auf, ohne jedoch eine Unterstützung der Angegriffenen zu formulieren. Der Repräsentant des wichtigsten Studentenverbands prangert seinerseits eine ’instrumentalisierte Polemik’ an und fordert sogar Sanktionen gegen die beiden der ’Islamophobie’ bezichtigen Professoren an.“ In der Welt wird Klaus Kinzler, einer der beiden attackierten Professoren, interviewt, das Interview steht leider nicht online.

      Der „Islamogauchismus“, die Allianz zwischen linken Intellektuellen und reaktionären Islamisten, ist nicht das Hauptproblem an den französischen Universitäten, meint die Kunstsoziologin Nathalie Heinich im Interview mit der NZZ, sondern „die Vermischung zwischen Aktivismus und Forschung. ... Wenn wir so weitermachen, entwickelt sich die Uni zu dem Ort, an dem in Dauerschleife rein ideologische Arbeiten über Diskriminierung entstehen. Damit man mich richtig versteht: Gegen Diskriminierung zu kämpfen, ist absolut richtig und legitim - in der Arena der Politik. Es gibt Parteien und Assoziationen dafür. An der Uni dagegen sind wir angestellt, um Wissen zu schaffen und weiterzugeben, und nicht, um die Welt zu verändern.“

      Der klassische Philologe Jonas Grethlein erzählt auf der Geisteswissenschaften-Seite der FAZ aus Cambridge und Oxford, wo Altphilologen Sensibilisierungskurse über ihren „strukturellen Rassismus“ belegen sollen und kritisiert Bestrebungen, sein Fach nach den Kriterien der „Critical Race Theory“ um den amerikanischen Althistoriker Dan-el Peralta neu zu orientieren: „Dan-el Peralta, Professor für römische Geschichte in Princeton, hat wiederholt festgestellt, als Schwarzer und Immigrant könne er Unterdrückung und andere Phänomene in der Antike anders und besser erschließen als seine weißen Kollegen. Hier wird die Identität des Wissenschaftlers zum Grund für neue Erkenntnisse, die Identitätslogik ist mit der Erkenntnislogik verbunden. ... Altertumswissenschaftler betrachten vergangene Kulturen wie die Antike im Horizont ihrer eigenen Zeit. Aber wenn dieser Horizont so übermächtig wird, dass sie die antiken Werte und Praktiken primär als Bestätigung oder Widerspruch zu ihren eigenen Vorstellungen sehen, dann verspielen sie die Möglichkeit, neue Perspektiven auf die Gegenwart zu gewinnen.“

      https://www.perlentaucher.de/9punkt/2021-03-10.html

    • Faut écouter cette séquence avec les deux avocates de Vincent T. pour y croire :

      Prof accusé d’islamophobie : son avocate dénonce des « accusations déshonorantes qui mettent sa vie en danger »

      Début mars, des collages anonymes ont imputé à deux professeurs de Sciences Po Grenoble des propos islamophobes. L’un d’entre eux va porter plainte « contre tous ceux qui l’ont calomnié », ont affirmé ses avocates sur BFMTV.

      « On le diabolise, on le stigmatise, on le traite d’islamophobe et on le tétanise. » Depuis plusieurs jour, Vincent Tournier est au coeur d’une polémique à l’Institut d’études politiques de Grenoble. Lui et un autre professeur ont été nommément visés par des affichettes sur les murs de l’école les accusant d’islamophobie.

      « Il n’a pas compris la brutalité et l’étendue de l’agression intellectuelle dont il a fait l’objet (...) Le contenu de son enseignement est totalement détourné », le défend l’une de ses avocates, Me #Aude_Weill-Raynal, sur BFMTV ce vendredi.

      A l’origine de ces tensions, l’appel lancé par l’Union Syndicale de Sciences Po Grenoble sur Facebook demandant aux étudiants de témoigner sur d’éventuels « propos problématiques » qui auraient été tenus lors du cours de Vincent Tournier de « Méthodes des sciences sociales ». Ce dernier a alors exigé par mail que les étudiants appartenant au syndicat « quittent immédiatement (ses) cours et n’y remettent jamais les pieds ».

      Le professeur s’apprête à déposer plainte

      Dans cette escalade, le syndicat a déposé plainte pour « discrimination syndicale », finalement classée sans suite depuis. « Vincent Tournier a un cours sur l’islam. Il y a tenu des propos qui ne sont peut-être pas dans la ligne de ce que certains attendaient pour le disqualifier », commente son avocate.

      Et Me #Caroline_Valentin, son autre conseil, d’ajouter : « Cette accusation est déshonorante et met sa vie en danger, il a eu peur, il s’est senti outragé. »

      L’avocate affirme que son client - qui bénéficie désormais d’une protection mise en place par le ministère de l’Intérieur - va porter plainte « contre tous ceux qui l’ont calomnié ».

      –---

      Sur les syndicats étudiants, Me Caroline Valentin affirme que l’islamophobie est le « délit de #blasphème. L’islam c’est le blasphème musulman. » (minute 3’40)

      https://www.bfmtv.com/police-justice/prof-accuse-d-islamophobie-son-avocate-denonce-des-accusations-deshonorantes-

      –---

      Sur l’islamophobie comme « délit de blasphème », voir aussi #Zineb_El_Rhazoui, à partir de la minute 1’12 :

      "Pour moi l’accusation d’islamophobie n’est que le terme occidental pour dire blasphème. (...) Dans le monde musulman, là où l’islam a le pouvoir coercitif, on n’a pas accusé les gens d’islamophobie, on les a tout bonnement accusées de blasphème. Cette accusation n’étant pas possible ici en occident, on invente cette accusation d’islamophobie qui est un mot-valise absurde, on psychiatrise l’autre, on l’accuse d’être phobique, donc c’est quelque chose qui relève de la psychiatrie. Et naturellement doit-on blâmer les gens d’avoir peur. Doit-on blâmer les gens d’avoir peur ? Quand un enfant à peur, la réaction naturelle, c’est de le consoler, de le rassurer et non pas de le blâmer à cause de ça.


      https://twitter.com/lci/status/1371161097747726340

    • Sur la page wikipedia du laboratoire pacte, le 21.03.2021 :

      En 2021, la presse évoque le cas de deux professeurs accusés d’« islamophobie » dont les noms ont été placardés sur les murs de l’IEP suscitant des craintes pour leur sécurité. Fin 2020, l’un des enseignants avait exprimé ses doutes quant à la pertinence du concept d’islamophobie utilisé pour désigner des discriminations dont feraient l’objet des musulmans en raison de leur religion. Il refuse notamment que ce terme soit accolé à celui d’antisémitisme. Une chercheuse en désaccord après un échange de courriels se plaint alors de « harcèlement ». En décembre, dans un communiqué officiel signé par Anne-Laure Amilhat Szary, directrice du laboratoire, le PACTE avait apporté son soutien à Claire M., l’enseignante, qui s’était plainte de harcèlement6. Pour Klaus Kinzler, le professeur incriminé, c’est d’abord le laboratoire Pacte qui a publié un communiqué officiel l’accusant sans « aucun fondement de harcèlement et de violence, d’atteinte morale violente » contre sa collègue7.


      https://fr.wikipedia.org/wiki/Laboratoire_Pacte

    • De quoi la campagne contre l’«islamo-gauchisme» est-elle le nom?

      La campagne idéologique réactionnaire lancée par le gouvernement a le mérite de poser clairement les lignes de démarcation : un #fascisme rampant qui organise la chasse à courre contre les intellectuels idéologiques de l’égalité, de l’#internationalisme et de l’#émancipation. Annihiler les « islamogauchistes » c’est vouloir supprimer la #subversion de la #pensée_engagée.

      L’enquête

      Les derniers événements de l’IEP de Grenoble ont été l’objet d’une minutieuse et précise enquête de 15 pages, publiée dans Mediapart par le journaliste David Perrotin, enquête référentielle qui permet d’appréhender les différentes étapes de l’affaire. Cette enquête incarne une idée simple mais peu appliquée dans le métier journalistique et médiatique - qui n’a pas fait d’enquête n’a pas droit à la parole, une logique requise pour se forger un point de vue, au-delà des faits.

      SURTOUT se rappeler que le point de départ de cette affaire et son point central, ce sont les charges répétées, et réussies par ailleurs, d’un professeur de l’IEP pour supprimer le mot « islamophobie » lors d’une préparation à une conférence organisée par l’IEP dans la cadre de la semaine pour l’égalité intitulée « racisme, antisémitisme, islamophobie ».

      Pour l’enseignant, le mot islamophobie ne pouvait se trouver accolé au mot antisémitisme parce que cela représentait « une insulte aux victimes réelles (et non imaginaires) du racisme et de l’antisémitisme ».

      Le raisonnement

      Légitimer le statut de #victime comme seul référent catégoriel pour situer la place des musulmans des arabes et des juifs dans l’histoire réduit considérablement la visibilité du pourquoi ils sont, ou pas, désignées « #victimes ».

      Pour le professeur, en effet, les agressions et les propos anti-musulmans, les discriminations contre les populations arabes, tout cela regroupé sous le nom contemporain d’islamophobie n’existeraient pas, sinon de l’ordre de l’affabulation.

      Il s’agit selon ses mots d’effacer toute trace d’une réalité réelle en France, les faits connus, relatés par les tribunaux ou par les médias des agressions physiques et des propos antimusulmans.

      Dire que tout cela n’existe pas puisque c’est #imaginaire, c’est vouloir effacer un réel discriminatoire pour se dispenser d’en regarder les effets dévastateurs, sinon s’en dédouaner.

      À la lecture de ces propos, on peut se poser légitimement la question de savoir qui sont les affabulateurs. Ceux qui sont désignés, ou celui qui les désigne.

      Ou bien le professeur ne lit pas les journaux et ne regarde pas les médias qui relatent les incidents islamophobes, ou bien il s’agit de quelque chose de plus grave dont ses propos seraient le nom.

      Le professeur dit « ne pas avoir de sympathie pour l’islam ». C’est son droit.

      Mais si les musulmans inventent et imaginent être des victimes,

      Si, selon lui, ils n’ont pas le droit d’être positionnés à côté des victimes juives, si seuls les #juifs peuvent bénéficier du statut de victimes, ces propos installent une obscène #hiérarchie_victimaire,

      Si les victimes musulmanes sont imaginaires, il s’agit rien moins que d’invalider l’#histoire_coloniale française, celle de la #guerre_d'Algérie, entre autres, où, si on suit le raisonnement du professeur, il n’y aurait eu aucune victime. La guerre coloniale française étant sans doute, dans l’esprit des musulmans, une #affabulation.

      Enfin, il n’est pas interdit de penser, toujours selon le raisonnement du professeur, que si les musulmans sont affabulateurs de leur victimisation, ils le sont encore plus de leur propre histoire, de leur révolte anti-coloniale.

      La guerre de libération nationale algérienne contre l’empire colonial français doit être un pur fantasme musulman.

      Nous sommes bien au-delà de propos « hautement problématiques » comme le faisait remarquer la directrice de l’IEP.

      Ces propos hallucinants sont à recadrer dans un contexte plus large, celui de la campagne lancée par le gouvernement et relayée par la Ministre de l’Enseignement Supérieur, de la Recherche et l’innovation, Frédérique Vidal.

      La ministre a annoncé vouloir demander une enquête au CNRS sur « l’islamogauchisme » qui, selon elle, « gangrène la société dans son ensemble et l’université en particulier ». Retenons l’ordre, société d’abord, université ensuite.

      Sur ce terme valise et attrape-tout, la ministre, interviewée par Jean Pierre Elkabach sur CNEWS a repris à son compte l’expression proposée par le journaliste « il y a une sorte d’alliance entre Mao Tsé-toung et l’ayatollah Khomeini ».Alain Finkelkraut en 2010 dénonçait déjà l’islamogauchisme comme « l’union des gens de l’immigration et d’intellectuels progressistes ».

      Ne rions pas, la chose est dite.

      De quoi cela est-il le nom ?

      Qu’est ce qui est visé par l’expression « #gangrène_islamogauchiste » ?

      Est ciblée une idéologie progressiste, l’union possible de ceux qu’on appelle aujourd’hui les prolétaires nomades et des intellectuels, des prises de position sur l’égalité et l’internationalisme, un corpus de travaux, de publications sur l’héritage colonial dans les sociétés des anciennes puissances coloniales.

      Ces études examinent, mettent en perspective l’héritage colonial toujours actif qui se manifeste, entre autres, par un #racisme_culturel levant haut le drapeau de la « supériorité » de la chère civilisation occidentale, par une succession de lois discriminatoires et par des actes de racisme

      Travailler à démonter cet #héritage_colonial dans le contemporain est une réponse, parmi d’autres, pour contrer l’hydre identitaire qui revient en force dans le monde actuel.

      Résumons l’idéologie de la campagne.

      Islamo, signifierait altérité, autre, islamistes, ex colonisés, musulmans, bref une multitude de sens exprimant les variations contemporaines d’un racisme anti musulman et arabe ,

      gauchiste, ce qui reste- ou plutôt revient en première ligne, comme arme de pensée et de réflexion sous le substrat générique de marxisme, à savoir l’anti identitaire, l’internationalisme, l’égalité, l’émancipation.

      La #subjectivité

      C’est donc une bataille contre tous les intellectuels, penseurs et acteurs engagés de l’émancipation.

      Il y a aussi dans cet acharnement réactionnaire, une bataille contre la « subjectivité » de l’engagement, c’est-à-dire contre « le #parti_pris » d’un individu qui le transforme en sujet pensant. Les « islamo gauchistes » sont des gens qui pensent, qui ont des idées, des batailles, qui écrivent et qui s’engagent pour elles. Annihiler les « islamogauchistes » c’est vouloir supprimer la subversion de la #pensée_engagée.

      Penser, c’est violent, me disait déjà une élève.

      Penser c’est prendre parti, s’engager pour une idée et c’est bien cet #engagement_subjectif qui est visé frontalement.

      C’est donc une #bataille_idéologique et politique de grande envergure que le gouvernement a décidé de lancer. Et pour ce faire, parce qu’il la prend très au sérieux et nous aussi, il lance ses chiens, ses meutes intellectuelles, ses piqueurs de tout bord dont l’extrême droite, entre autres, pour, rien moins qu’éradiquer, supprimer cet espace subjectif et politique

      L’imposture

      L’#imposture est cependant complète. Pour expliquer sa campagne dans l’opinion, il désigne comme seuls idéologues, porteurs de « fatwah », censeurs de la liberté d’opinion et de la liberté académique, les professeurs, les enseignants chercheurs, les étudiants mobilisés, les agents administratifs,

      les désignant comme « gangrène, ceux qui se situent« entre Mao Tsé-toung et l’ayatollah Komeini » (si ce n’est pas idéologique ça), comme identitaires et communautaristes…

      S’intéresser à l’histoire coloniale de son pays équivaudrait donc à être identitaire.

      Il laisse se déchainer les réseaux sociaux qui organisent contre ces enseignants, un harcèlement mortifère.

      La directrice du Laboratoire Pacte reçoit tous les jours des menaces de mort et voit sa photo publiée sur les réseaux sociaux avec notamment pour légende « Être nostalgique des années 40 ».

      Pour ceux qui n’auraient pas encore compris ou qui feignent ne pas comprendre, ceux qui hurlent contre les islamo-gauchistes hurlent aussi contre ceux, appelés dans les années 40, « les judéo-bolchéviques ». Le même procédé est à l’œuvre : islamo versus judéo, bolchéviques versus gauchistes Mao, même gangrène. On connait la suite.

      Ceux qui organisent la campagne violente contre l’émancipation traitent leurs cibles de sectaires, de censeurs et d’idéologues. Vieux procédé de retournement que nous retournons contre eux.

      Cette #campagne_idéologique réactionnaire lancée par le gouvernement a le mérite de poser clairement les lignes de démarcation : un fascisme rampant qui organise la #chasse_à_courre contre les intellectuels idéologiques de l’égalité, de l’internationalisme et de l’émancipation.

      Propositions

      La riposte ne peut être qu’internationale.

      Renforçons les liens de solidarité avec ceux qui ont pris position dans les journaux contre cette campagne,

      échangeons par le biais d’une feuille de journal,

      une sorte de « lettre internationale » qui formerait réseau, récolterait les informations sur les différentes situations, les articles, les prises de position, les propositions à venir.

      Sol. V. Steiner

      https://blogs.mediapart.fr/sol-v-steiner/blog/190321/de-quoi-la-campagne-contre-l-islamo-gauchisme-est-elle-le-nom

    • Et cette Une de Valeurs actuelles...


      Censure, sectarisme… L’université française, le laboratoire des fous

      L’affaire de Sciences Po Grenoble révèle un enseignement supérieur soumis à la censure, au sectarisme et aux délires progressistes. Récit d’une dérive.

      Trente-cinq ans d’enseignement paisible, puis la bascule. Klaus Kinzler a eu le malheur de récuser la pertinence scientifique du terme d’"islamophobie", le voilà accusé d’islamophobie. Et, bien sûr, de fascisme. Avant lui, Sylviane Agacinski, Alain Finkielkraut, François Hollande (!) s’étaient vu refuser l’accès à l’université par des étudiants peu soucieux de se frotter à la contradiction. Pièces de théâtre annulées, conférences empêchées, professeurs placardisés... La censure n’est pas nouvelle. La décapitation de Samuel Paty aura quand même réveillé des consciences assoupies : cette fois-ci, le professeur peut compter sur quelques soutiens publics. D’autres persistent à nier.

      Jean Sévillia, lui, n’est pas franchement étonné, qui signait un livre intitulé le Terrorisme intellectuel il y a vingt et un ans... Aujourd’hui très éloigné du monde universitaire, il convoque pourtant le souvenir de ses propres années de fac : « Le variant est l’idéologie dominante, l’invariant réside dans les méthodes employées pour la défendre. » À l’époque, les affrontements physiques sont quasiment quotidiens dans le Quartier latin, et les tentatives d’ostracisme omniprésentes. « On retrouve les vieilles méthodes efficaces de l’antifascisme : mensonge, amalgame, diabolisation et stigmatisation », développe le journaliste. Stalinisme, tiers-mondisme, marxisme, antiracisme, européisme... Les sujets changent mais quiconque s’interpose est déclaré fasciste. Sévillia concède cependant une différence de taille : « À l’époque, le professeur pouvait demander à l’élève estampillé fasciste de dérouler ses arguments dans l’amphithéâtre. » Les élèves lisent alors, le débat est encore possible.

      Les nouveaux révolutionnaires ne font même plus semblant de débattre ; débattre, c’est déjà accorder le point à son adversaire.

      Un bond dans le temps et l’on se retrouve dans la très progressiste université d’Evergreen, aux États-Unis. Entre-temps, la French theory s’est exportée outre-Atlantique. C’est sur ce campus que le professeur Bret Weinstein a tenté de s’opposer à la tenue d’une journée interdite aux élèves blancs. Suffisant pour que les étudiants le poussent vers la sortie, sans autre forme de procès. L’enseignant a bien tenté de rappeler qu’il avait « toujours voulu parler du racisme, l’étudier... », les étudiants n’ont pas attendu la fin de sa phrase pour clore le débat : « On n’a pas besoin de l’étudier, on le vit. »

      Les nouveaux révolutionnaires ne font même plus semblant de débattre, ils se drapent dans une victimisation très largement fantasmée pour consacrer l’inutilité de la connaissance. Débattre, c’est déjà accorder le point à son adversaire. On pourrait se rassurer en accablant les États-Unis... puis on entend Geoffroy de Lagasnerie. Philosophe et sociologue, l’autoproclamé héritier — bien français —de Bourdieu, Deleuze et Derrida est au micro de France Inter le mercredi 30 septembre dernier, lorsqu’il expose très sereinement sa pensée : « Le but de la gauche, c’est de produire des fractures, des gens intolérables et des débats intolérables dans le monde social. [...] je suis contre le paradigme du débat », entame-t-il. Le jeune professeur insiste : « J’assume totalement le fait qu’il faille reproduire un certain nombre de censures dans l’espace public, pour rétablir un espace où les opinions justes prennent le pouvoir sur les opinions injustes. » Qui serait alors chargé de discriminer le juste et l’injuste ? Lagasnerie refuse que ce soit la loi, il préfère que ce soit « l’analyse sociologique ». De telles déclarations ne provoquent pas l’indignation des étudiants, encore moins des professeurs.

      Et pourtant, c’est bien cette "analyse sociologique" qui inquiète par son sectarisme inversement proportionnel à son exigence académique. Lorsque la ministre de l’Enseignement supérieur, Frédérique Vidal, ose évoquer la pénétration de « l’islamo-gauchisme » à l’Université, la réaction est immédiate : tribune des présidents d’université, appels à la démission, indignation du CNRS... Pourquoi ? Le manque d’assise scientifique du terme. Silence, en revanche, lorsque des chercheurs abusent des concepts d’islamophobie, de privilège blanc ou de violences de genre. Et pour cause : certains travaux universitaires s’appliquent désormais à légitimer les concepts générés par les cultural studies américaines, plus militantes qu’académiques.

      Les études scientifiques en question

      En 2017, une journaliste et deux universitaires anglo-saxons ont tenté de dénoncer le phénomène. « Soyons clairs, nous ne pensons pas que les sujets comme le genre, la race ou la sexualité ne méritent pas d’être étudiés », expliquait alors l’un des universitaires avant de poursuivre : « Le vrai problème, c’est la façon dont ces sujets sont actuellement étudiés. Une culture émerge dans laquelle seules certaines conclusions sont autorisées : comme celles qui désignent systématiquement la blancheur de peau ou la masculinité comme la cause du problème. » Ils ont donc rédigé une vingtaine d’études bidon qu’ils ont ensuite proposées à des revues universitaires dotées d’un comité de relecture par des pairs. Résultat ? Sept papiers ont été acceptés, quatre publiés.

      Il faut se pencher sur ces études pour saisir l’ampleur du malaise : l’une d’elles s’intitule "Réactions humaines face à la culture du viol et performativité queer dans les parcs à chiens urbains de Portland, Oregon", une autre affirme que les hommes peuvent combattre leur « homohystérie » par l’usage d’un sextoy, une autre encore — qui avait reçu des retours plutôt enthousiastes — préconisait de faire porter des chaînes fictives aux élèves blancs pour les confronter à la « fragilité de leurs privilèges ».

      L’expérience n’a pas été réalisée en France, mais les universitaires les plus militants abusent déjà du vocabulaire légitimé par de semblables "études". En face, des conférences sont annulées, des thèses refusées, des professeurs virés... Et la contestation s’affaiblit. C’est cet état des lieux qui poussait récemment la sociologue et philosophe Renée Fregosi à déclarer sur FigaroVox qu’« il serait plus important de garantir le pluralisme des approches théoriques et des méthodes d’analyse ». L’enjeu ? Non plus seulement protéger, mais rétablir la liberté académique. Faute de quoi seront dégainées à l’infini les accusations d’homophobie, de xénophobie, de transphobie, de racisme, de fascisme pour empêcher tout débat... et triompherait vraiment le totalitarisme de la bêtise.

      https://www.valeursactuelles.com/clubvaleurs/societe/censure-sectarisme-luniversite-francaise-le-laboratoire-des-fous-1

    • #Gilles_Bastin (sociologue du laboratoire pacte) sur twitter, 14.03.2021 :

      #IEPGrenoble Comme promis quelques remarques sur un point très important de ce qui est en train de se passer dans l’espace public autour de l’idée selon laquelle la « #liberté_d'expression » n’est plus garantie l’Université.
      C’est un thème que l’on retrouve répété à l’envi par la personne qui se présente depuis des jours sur les plateaux télé comme une victime de la censure de ses collègues. Beaucoup d’articles de presse ont commencé à parler de l’affaire sous cet angle.
      Et malheureusement j’ai entendu au cours de la semaine qui vient de s’écouler de nombreuses personnes sensées parler aussi de « liberté d’expression », de la nécessité de la garantir à toutes et tous, etc.
      Un des premiers problèmes qui se pose si l’on accepte cette lecture de l’affaire c’est qu’il se trouvera toujours un juriste pour dire que l’islamophobie n’est pas punie en tant que telle par la loi en France…
      … et que la seule limite à son expression est la #diffamation. Cela me semble problématique et complètement non pertinent ici pour trois raisons :
      1. Dans l’affaire qui a commencé avec les échanges d’e-mails mis sur la place publique, la ligne de défense de la personne qui se plaint aujourd’hui d’avoir été empêché de s’exprimer consiste à dire qu’il n’a jamais diffamé notre collègue organisatrice de la conférence.
      Mais ce n’est pas ce qui lui est reproché ! Le @Defenseurdroits qui est saisi de l’affaire le dit d’ailleurs très bien en pointant le non respect du devoir de réserve d’une part et du principe de laïcité d’autre part.
      Pour le dire autrement, la liberté d’expression est une chose, la préservation d’un espace public pacifié par le #devoir_de_réserve et la laïcité en est une autre.
      La stratégie des « guerriers » (sic) de la liberté d’expression (une version actualisée de la stratégie de la terre brulée) conduit à la disparition de tout espace possible pour que s’exerce cette liberté pour celles et ceux qui se refusent à user des mêmes armes qu’eux.
      Mais ça, le juge pénal ne peut pas s’en saisir, semble-t-il…
      2. Quelles sont les conséquences de l’incendie ? L’institution a essayé de l’éteindre sans abandonner le cadre d’analyse légal en termes de liberté d’expression. Ceci a conduit la collègue organisatrice à accepter de retirer le projet de conférence.
      La leçon : les guerriers (re-sic) de la liberté d’expression ont réussi à faire retirer un mot qui ne leur plaisait pas d’une manifestation organisée dans une Université. Cela s’appelle de la #censure ! Au nom de la liberté d’expression si l’on veut mais de la censure !
      Cela s’appelle aussi, pour utiliser un terme dont se sont délectés les plateaux télé sans comprendre qu’ironiquement il fallait l’appliquer à leur invité et pas à ses collègues « islamo-gauchistes », de la #cancel_culture (faire supprimer un mot dans une conférence…).
      3. j’ajoute un point vraiment important et qui n’a pas été soulevé jusque là : le cadre « liberté d’expression » autorise aussi dans cette affaire deux hommes blancs non musulmans à dire dans l’espace public, sans que rien ne les arrête, que l’islamophobie n’existe pas.
      Il n’est pas nécessaire d’avoir lu Goffman ou Fanon (mais ça aide) pour comprendre qu’il y a là une façon choquante de nier l’#expérience_vécue de celles et ceux qui, musulmans ou présumés tels, ont une autre perception des choses sans avoir les moyens ou l’envie de l’exprimer
      Bref, il me semble nécessaire d’abandonner la référence à la question de la liberté d’expression dans l’analyse des faits qui ont conduit à l’incendie #IEPGrenoble et de poser d’autres questions qui sont au moins aussi importantes pour l’avenir du #débat_public.

      https://twitter.com/gillesbastin/status/1371105738202959873

    • Tribune : « Oui, il y a une haine ou une peur irrationnelle des musulmans en France »

      Deux Insoumis de la région grenobloise ont réagi à la tribune de la députée de l’Isère #Emilie_Chalas consacrée aux termes “islamo-gauchisme” et “islamophobie” (https://www.placegrenet.fr/2021/03/13/tribune-emilie-chalas-islamo-gauchisme-islamophobie/457979). Julien Ailloud, co-animateur d’Eaux-Claires Mistral Insoumis Grenoble, et Amin Ben Ali, co-animateur de Tullins insoumise, tous deux signataires de l’appel du Printemps Isérois (https://www.placegrenet.fr/2021/01/07/elections-departementales-la-gauche-essaie-de-sunir-au-sein-du-printemps-iserois/425133), livrent une réplique au vitriol au point de vue de la parlementaire LREM. En novembre 2019, ils avaient déjà signé une tribune pour exprimer leur fierté concernant l’appel de la France insoumise de participer à la #marche_contre_l’islamophobie.

      Nombreux sont les intellectuels qui ont, depuis les élections présidentielles et législatives de 2017, analysé le discours des “marcheurs”. Au-delà des anglicismes, du vocabulaire type « start-up » et de la traditionnelle langue de bois, les macronistes ont une spécificité commune : celle de déstructurer la langue et le langage. La récente tribune d’Émilie Chalas ne déroge pas à cette mauvaise habitude, à la fois médiocre et cynique.

      Prenant pour prétexte l’actualité à l’IEP de Grenoble, Émilie Chalas n’analyse en rien ces évènements. Elle s’appuie sur ce fait divers pour faire le procès des tenants de l’« islamo-gauchisme », qu’elle dit minoritaires, alors que la ministre Frédérique Vidal nous parlait « d’une société gangrenée » par ce mal. La réalité, c’est que la distance entre l’extrême droite et la majorité parlementaire s’est encore réduite, cette analyse de la ministre intervenant quelques jours après que Gérald Darmanin ait trouvé Marine Le Pen insuffisamment préoccupée par l’islam, trop « molle » selon lui.

      Alors, dans le débat public, nous avons d’abord eu droit à l’utilisation du mot « #islamisme » dans son utilisation politique, mais sans savoir qui la ministre visait. En effet, à entendre les débats parlementaires sur la loi contre les séparatismes, une femme voilée est une islamiste en puissance mais, « en même temps », d’après le président de la République lui-même, manifester contre les violences policières comme en juin 2020 est une manifestation du séparatisme… De là à penser que, dans la tête de la majorité, tous les islamistes sont séparatistes et tous les séparatistes sont islamistes, il n’y a qu’un pas.

      « Un flagrant délit de contradiction » concernant le terme islamophobie

      Nous avons ici un flagrant délit de contradiction : alors que LREM et ses alliés passent leur temps à se dire « pragmatiques », ils ont en réalité les deux pieds dans l’idéologie, faute de prendre en compte le travail sérieux des chercheurs et enquêteurs, repoussant (ou ne s’intéressant pas) aux travaux universitaires et aux rapports ministériels. Ces derniers démontrent pourtant que le processus de radicalisation n’est que très peu influencé par « l’#islamisme_politique ». Il ne s’agit pas d’un déni que de le dire.

      Les recherches d’#Olivier_Roy, spécialiste renommé de l’islam, et les rapports de #Dounia_Bouzar, responsable de la déradicalisation sous le mandat de François Hollande, expliquent très clairement qu’il n’existe pas de continuum entre « islamisme » et « terrorisme ». Le terrorisme se nourrit de paramètres variés et complexes : penser que combattre l’islamisme politique suffirait à combattre le terrorisme relève soit de la naïveté, soit de l’incompétence.

      Concernant plus précisément la tribune de Mme Chalas, il est terrible d’observer qu’une députée soit aussi légère dans l’utilisation des mots et dans le maniement des concepts. Nous expliquant sans sourciller que le terme islamophobie vient de l’islam radical, elle change de version dans le même texte en disant que ce terme « a été créé en 1910 par des administrateurs-ethnologues français pour désigner “un #préjugé contre l’islam” »… mais qu’il serait instrumentalisé pas les islamistes ; et notamment « les frères musulmans » qui sont, comme tout le monde sait, si influents en France.

      Il convient ici de noter que de toute sa tribune, Mme la députée ne mentionnera pas les nombreuses organisations nationales et internationales qui prennent au sérieux le terme et le concept d’islamophobie : Commission nationale consultative des droits de l’Homme en France, Conseil de l’Europe, Conseil des droits de Homme de l’Onu, etc.

      « Face aux dominants, soutien aux dominés »

      Dans le même temps, Mme Chalas nous explique que le terme d’« islamo-gauchiste » ne souffre d’aucune #récupération_politique de l’extrême droite, en justifiant qu’il fut créé par un chercheur du CNRS au début des années 2000 pour désigner le soutien des organisations de gauche à la lutte palestinienne. À cet instant, la rigueur de notre députée ne l’interroge pas sur le fait qu’un terme inventé pour une définition précise soit utilisée pour dénoncer tout autre chose, ou encore que cette expression ait été en sommeil pendant des années, absente du débat public jusqu’à ce que les politiciens et médias d’extrême droite ne la remettent en circulation. C’est au mieux un manque de précision et, au pire, une #manipulation_politique grossière…

      Bien entendu, il ne sera fait aucune mention du fait que la Conférence des présidents d’université (CPU) a refusé l’emploi de ce terme, tout comme le CNRS lui-même dans un communiqué intitulé « L”“islamo-gauchisme”n’est pas une réalité scientifique ».

      Il n’est pas nécessaire d’être députée pour saisir que la prise de position d’une institution pèse plus lourd qu’un seul de ses chercheurs dont le terme a été galvaudé depuis sa création.

      Cette tribune d’Émilie Chalas aura au moins permis quelques avancées. Nous savons maintenant qu’en plus de pervertir les mots, les macronistes souffrent d’un défaut conséquent de rigueur scientifique et méthodologique, dévoilant au grand jour leur absence de colonne vertébrale intellectuelle. Et alors que le monde entier commémore les deux ans de l’attentat de Christchurch contre deux mosquées, Mme Chalas choisit cette séquence pour nier l’islamophobie, malgré 51 victimes causées par Brenton Tarrant, par ailleurs donateur et « membre bienfaiteur » de l’association récemment dissoute Génération identitaire.

      En ce qui nous concerne, une chose est certaine : oui, il y a une #haine et/ou une #peur_irrationnelle des musulmans et des musulmanes en France, quel que soit le terme pour l’exprimer. Le fait que plusieurs médias et membres du personnel politique les pointent régulièrement pour cible n’y est pas étranger. Il ne s’agit pas d’« islamo-gauchisme » que de le dire, mais simplement de rendre compte des tensions qui traversent notre société, comme l’a récemment rappelé un sondage dont 43 % des répondants trouvent qu’il y a trop de musulmans en France. Et face à ce constat, nous nous tenons à la ligne que notre famille politique à toujours tenue : face aux dominants, soutien aux dominés !

      Julien Ailloud & Amin Ben Ali

      https://www.placegrenet.fr/2021/03/20/tribune-oui-il-y-a-une-haine-ou-une-peur-irrationnelle-des-musulmans-en-france/464663

      signalé par @cede ici :
      https://seenthis.net/messages/907660

      Tribune d’Emilie Chalas ci-dessous dans le fil de discussion.

    • Émilie Chalas : « Islamo-gauchisme, islamophobie, de quoi parle-t-on à travers ces mots ? »

      Suite à l’affaire des collages nominatifs contre deux professeurs de Sciences Po Grenoble accusés d’islamophobie, Émilie Chalas, députée LREM de l’Isère et conseillère municipale d’opposition de Grenoble a tenu à réagir. Elle appelle ainsi à « la nécessaire clarification des lignes des uns et des autres » sur les termes “laïcité”, “islam politique”, et “islamo-gauchisme”.

      Les récentes actualités obligent à ce que les lignes des uns et des autres soient clarifiées.

      A Trappes, nous avons eu affaire au témoignage d’un professeur qui en dit long sur la #radicalisation_islamiste d’une minorité en France qui exerce une pression agressive et grandissante. Cette pression, construite autour d’arguments qui esquivent les vraies questions, est un réel danger pour la laïcité, pour l’égalité entre les femmes et les hommes, pour la République.

      A Sciences Po Grenoble, on accuse et on jette en pâture des professeurs au nom d’une « islamophobie » présumée. Ces enseignants témoignent ouvertement d’un climat hostile, qui devient parfois insoutenable dans nos universités. Ce qui se passe tragiquement à Grenoble est l’exemple de faits qui s’enchaînent, et qui provoque la surenchère et l’exacerbation de ceux qui font de la propagande politique avec un outil à la mode : le mot « islamophobie ».

      Déni et surenchère

      Dès qu’il est question de radicalisation islamiste, quelle que soit la ville et quel que soit l’événement, surgissent deux postures anti-républicaines et déconnectées de la réalité. Le déni d’un côté, et la surenchère de l’autre.

      La France subit une montée en puissance de l’islamisme politique, portée par une minorité anti-républicaine qui n’a d’autre objectif que de détruire nos valeurs de liberté, d’égalité, et de fraternité. C’est un fait. Une autre minorité estime que ces faits sont faux et que tout cela n’est pas si grave, que ces sujets seraient « montés en épingle » par les médias et les politiques, ces derniers qu’elle qualifie bien sûr d’extrême-droite, quelle que soit leur sensibilité.

      On arrive même à entendre des discours de #victimisation qui renverse la responsabilité victime/bourreau. C’est le #déni.

      De l’autre côté, il y a la surenchère d’une troisième minorité, celle-ci d’extrême droite, qui porte des discours racistes et anti-musulmans et affirme que tous les musulmans sont radicalisés.
      Sortir de ce clivage des extrêmes et prendre de la hauteur permet de poser quelques réalités et quelques bases d’un débat un peu plus sain pour répondre aux questionnements qui sont aujourd’hui présents en France.

      Le problème de l’islamisme existe bel et bien en France

      Contre le déni et la surenchère, il faut l’affirmer et le réaffirmer haut et fort : oui, le problème de l’islamisme existe bel et bien en France. Et non, ce problème d’islamisme n’est pas insurmontable. Non, la bataille n’est pas perdue. Non, la situation n’est pas irréversible. C’est justement notre cause.

      Dans certaines villes, comme à Grenoble, certains élus surfent sans sourciller dans le déni en affirmant qu’il n’y a aucun véritable problème et que tous ceux qui en perçoivent sont des fascistes ou, à minima, des anti-musulmans. Ce qui est faux bien évidement.

      Certains jouent d’ambiguïté avec l’islamo-gauchisme.

      De quoi parle-t-on alors à travers ce mot ?

      La définition pourrait être la suivante : l’islamo-gauchisme est l’idéologie gauchiste de l’indulgence et de l’excuse à l’égard de l’islamisme radical pouvant aller jusqu’à la minimisation, voire la dénégation de sa dangerosité, car l’#idéologie_gauchiste voit dans l’islamisme radical un allié dans sa lutte contre le capitalisme et dans sa stratégie de convergence des luttes de tous les opprimés.

      « Islamo-gauchisme », un terme qui émane du CNRS…

      Selon l’islamo-gauchisme, c’est parce les musulmans sont aujourd’hui les nouvelles classes populaires et qu’elles sont par conséquent les nouvelles victimes du capitalisme, par l’exploitation, la domination, la discrimination et la ghettoïsation, que l’islamisme radical est né et s’est développé pour précisément défendre ces nouvelles classes populaires musulmanes et mener une lutte révolutionnaire contre le capitalisme.

      Et c’est là, selon l’islamo-gauchisme, la raison politiquement nécessaire et donc suffisante pour laquelle il faudrait faire preuve d’une certaine indulgence et d’une bonne dose d’excuses à l’égard de l’islamisme radical, et en faire un allié.

      Par ailleurs, soyons bien vigilants : le terme “islamo-gauchisme” n’est pas un terme d’extrême droite, ni un terme inventé par l’extrême droite. C’est un terme relatif à des travaux de recherche sur des faits politiques concrets, travaux de recherche qui émanent du CNRS. En effet, c’est #Pierre-André_Taguieff, politologue, sociologue, historien des idées et directeur de recherche au CNRS, qui a forgé le terme d’islamo-gauchisme en 2002 en observant l’alliance idéologique et politique entre la gauche révolutionnaire et l’islamisme radical qui défilait dans les rues lors des manifestations pro-palestiniennes au début des années 2000 suite à la deuxième Intifada.

      « Islamophobie », un terme issu de l’idéologie islamiste radicale

      Alors que le terme d’islamo-gauchisme émane de recherches menées au CNRS sur la base d’observations factuelles, le terme d’islamophobie émane, lui, de l’idéologie islamiste radicale. C’est en effet un terme vieux de plus d’un siècle (il a été créé en 1910 par des administrateurs-ethnologues français pour désigner « un préjugé contre l’islam » répandu dans les populations chrétiennes) qui a été récupéré par les Frères musulmans et certains salafistes. Et ce pour condamner, non pas les préjugés chrétiens contre l’islam, mais toute critique contre l’islamisme radical, en prétendant que critiquer l’islamisme radical, c’est critiquer l’islam, et critiquer l’islam c’est se rendre coupable de racisme anti-musulman.

      L’islamo-gauchisme est par ailleurs une réalité pour bon nombre de nos concitoyens. Selon un #sondage en date du 19 février 2021, effectué par Ifop-Fliducial, 58 % des Français considèrent que « l’islamo-gauchisme est une réalité ». Un autre sondage du 23 février 2021, réalisé par Odoxa-Blackbone consulting, obtient les chiffres de 69 % des Français qui affirment qu’il y a en France « un problème avec l’islamo-gauchisme ». Selon ce même sondage Odoxa-Blackbone consulting, 66 % des Français sont « d’accord avec les propos de Frédérique Vidal sur l’islamo-gauchisme à l’université ».

      Voilà des résultats de sondages qui, pour le moins, interpellent.

      Sans aucun doute, il y a matière à débattre sans honte, sans crainte, sans reproche, et à vérifier ce qu’il se passe dans nos associations et dans nos universités pour reprendre l’actualité. Ni raciste, ni anti-musulman, ce débat doit avoir lieu sans tomber dans la surenchère, qui ferait là le lit de l’extrême droite et de l’islamisme politique.

      Ne nous laissons pas piéger : les valeurs et les principes de la République française sont notre cause.

      Émilie Chalas

      https://www.placegrenet.fr/2021/03/13/tribune-emilie-chalas-islamo-gauchisme-islamophobie/457979

    • Le modèle #Sciences_Po dans la tourmente avec les #polémiques sur la « #culture_du_viol » et l’« #islamophobie »

      Ces épisodes font suite à deux autres événements à très haute tension : la vague #sciencesporcs, lancée le 7 février par une ancienne élève de l’IEP de Toulouse, la blogueuse féministe #Anna_Toumazoff, pour dénoncer « la culture du viol » dont se rendraient « complices » les directions des IEP en ne sanctionnant pas systématiquement les auteurs de #violences_sexistes et sexuelles. Enfin, le 4 mars, le placardage des noms de deux professeurs d’allemand et de science politique sur les murs de l’IEP de Grenoble, accusés de « fascisme » et d’ « islamophobie », après avoir signifié, avec véhémence parfois, leur opposition à une collègue sociologue sur la notion d’islamophobie. Le syndicat étudiant US a appelé à suspendre un cours d’un de ces enseignants dans le cas où son appel à témoignages lancé sur Facebook permettrait d’établir le caractère islamophobe de certains contenus.

      https://seenthis.net/messages/909152

    • Sciences Po Grenoble, un repaire d’« islamogauchistes » ?

      La découverte de collages accusant deux professeurs d’être des fascistes relance l’emballement médiatique contre l’"islamogauchisme" à l’université. La gravité de l’affaire tient bien sûr à l’injure dont ces enseignants sont victimes. Elle tient aussi à la polémique que les médias fabriquent, exposant deux chercheuses à la vindicte publique et appelant à la censure des savoirs critiques. (Mars 2021)

      L’#emballement_médiatique autour de l’affaire de l’IEP de Grenoble dévoile les méthodes d’une agressive campagne de #disqualification des #savoirs_critiques à l’université. L’affaire commence le 4 mars par la découverte d’un acte aussi choquant que dangereux : juste en dessous de l’inscription « Sciences Po Grenoble », gravée au-dessus du porche d’entrée, des collages s’étalent : « Des fascistes dans nos amphis. X et Y démission. L’islamophobie tue ». Deux enseignants de l’établissement, un professeur d’allemand et un maître de conférences en science politique, sont attaqués nommément et publiquement. Les affiches sont immédiatement retirées, mais l’UNEF de Grenoble en relaie les photographies sur les réseaux sociaux, avant, deux jours plus tard et alors que la polémique enfle déjà, de les supprimer (https://twitter.com/unefgrenoble/status/1368523235101380609), de s’excuser et de condamner l’affichage.

      Le ministère de l’Enseignement et de la recherche (MRSEI) diligente une mission de l’Inspection générale de l’Éducation, le ministère public ouvre une enquête pour #injure_publique et dégradation de biens et les enseignants sont mis sous protection policière. Un mois plus tard, le déroulement des faits n’est toujours pas établi officiellement et les coupables restent inidentifiés. La gravité de l’affaire tient bien sûr à l’injure dont ces enseignants sont victimes ainsi qu’à leur exposition à de potentielles vengeances terroristes : le traumatisme né de l’assassinat de Samuel Paty continue de nous bouleverser. Mais elle tient également à la manière dont l’un d’eux a utilisé sa mise en lumière médiatique pour sacrifier d’autres collègues à la #vindicte_publique, en exploitant la fable dangereuse d’un supposé « islamogauchisme » à l’université.

      Dans les médias vrombissants, ce dont l’ « islamogauchisme » est le nom

      Dans un contexte post-traumatique, on aurait pu s’attendre à ce que les médias protègent l’identité des deux victimes et, en l’absence de coupables identifiés, soient prudents avant d’accuser. Pourtant, des chaînes de télévision, de radio, des journaux surexposent immédiatement le professeur d’allemand. Celui-ci peut dénoncer en boucle, dans un tourbillon de paroles, les résultats d’une « campagne de haine » de la part de ses collègues qu’il qualifie à l’occasion de « grandes gueules » (https://www.cnews.fr/videos/france/2021-03-09/il-y-une-majorite-de-mes-collegues-qui-me-hait-maintenant-le-temoignage-de) ou de « têtes de béton » (https://www.cnews.fr/videos/france/2021-03-09/il-y-une-majorite-de-mes-collegues-qui-me-hait-maintenant-le-temoignage-de). Sans précaution, sans enquête, sans donner la parole à d’éventuel·les contradicteur·rices, des journalistes, des éditorialistes, des chroniqueur·euses, des essayistes extrapolent à partir d’un récit qu’ils et elles ne vérifient pas.

      Alors que résonnent encore les paroles de Frédérique Vidal à l’Assemblée nationale (https://www.soundofscience.fr/2671) qui déclarait vouloir lancer une enquête contre les sciences sociales, l’affaire de l’IEP de Grenoble autorise le #procès_médiatique du concept d’islamophobie dans le champ académique. L’enjeu n’est plus même d’établir si l’université serait « gangrénée » : ce qui est asséné, c’est l’urgence de la surveiller … pour sauver la liberté de pensée.

      Tout est allé très vite, puis il y eut ce moment vertigineux où, sur le plateau de Cnews (https://www.valeursactuelles.com/societe/video-il-y-a-une-pression-a-vouloir-interdire-lislamophobie-eric-z), un éditorialiste connu pour ses idées d’extrême droite et récemment condamné pour injure et provocation à la haine contre l’islam et l’immigration a recollé les morceaux d’un discours que tant de médias essaimaient. Selon lui, l’« islamogauchisme », c’est critiquer l’islamophobie à l’œuvre dans la société française : les universitaires qui documentent et analysent les discriminations spécifiques vécues par les personnes perçues comme musulmanes expriment en réalité des opinions complices avec l’islam politique. C’est bien les maillons de cette #rhétorique qui, dès le 4 mars, capturent l’espace médiatique. Entre autres innombrables exemples, sur BFM (https://www.bfmtv.com/societe/grenoble-une-enquete-ouverte-apres-des-accusations-d-islamophobie-contre-deux), un journaliste de Marianne affirme que, à l’université, « le mot islamophobie a été imposé par des activistes » ; par trois fois, un journaliste de France culture qualifie d’« opinion » (https://www.franceculture.fr/emissions/linvitee-des-matins/liberte-dexpression-liberte-denseigner-le-casse-tete-des-professeurs-a

      ) les travaux sur les discriminations liées à l’islamophobie cités par un professeur du Collège de France qui par trois fois dément ; ou encore, sur Public Sénat (https://www.publicsenat.fr/article/parlementaire/laicite-a-l-universite-bientot-une-commission-d-enquete-au-senat-188006), une sénatrice du Rassemblement démocratique et social européen (RDSE), déclare que « les idéologies ne doivent plus pouvoir s’imposer comme elles le font au cœur de notre université » et elle dénonce à la fois la « pression de l’islamisme » et le « militantisme d’extrême gauche ».

      Plus que toute autre, cette séquence médiatique a confondu les discours et les faits, a vidé les mots de leur substance dans une cacophonie bloquant toute possibilité d’analyse. La confusion intellectuelle profitant rarement à l’information, il semble important de reprendre le chemin des faits pour comprendre leur torsion. Finalement, qui a été victime de censure à l’IEP de Grenoble ? Qui a été jeté en pâture sur les réseaux sociaux ? Qui pourrait être censuré à l’université ? Et si intention de censure il y a, quels sont les savoirs particulièrement visés ?

      Islamophobie : le mot qui censure

      Chaque année, à l’IEP de Grenoble, les étudiant·es et les enseignant·es organisent une « Semaine pour l’égalité et contre les discriminations ». À l’automne, dans le cadre de leur préparation et après un sondage en ligne, le comité de pilotage a validé un atelier intitulé « Racisme, islamophobie, antisémitisme ». Le professeur d’allemand victime des collages a reconnu s’être inscrit à cet atelier pour en contester le titre : selon lui, le terme « islamophobie » ne devait pas y figurer, car il est « l’arme de propagande d’extrémistes plus intelligents que nous ». Pandémie oblige, la préparation se déroule à distance et, dans un échange de mails, une enseignante-chercheuse en histoire rattachée au laboratoire du CNRS Pacte défend la pertinence intellectuelle de l’atelier.

      Dans les médias, le professeur d’allemand réduit l’affaire des collages à l’« islamogauchisme » de ses collègues. L’affichage serait l’ultime étape d’une « campagne de diffamation et finalement de haine de plus en plus violente » (https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/03/07/enquete-pour-injure-publique-apres-des-accusations-d-islamophobie-a-sciences) qui aurait fait suite au conflit l’ayant opposé à sa collègue historienne autour du mot « islamophobie ». Sur BFM (https://www.bfmtv.com/societe/grenoble-une-enquete-ouverte-apres-des-accusations-d-islamophobie-contre-deux), il regrette d’ailleurs amèrement n’être soutenu par aucun·e collègue de son établissement, ce que ceux et celles-ci démentiront dans une tribune du Monde (https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/03/17/professeurs-accuses-d-islamophobie-cette-affaire-est-une-illustration-des-pr). Sur Europe 1 (https://www.europe1.fr/societe/grenoble-un-professeur-accuse-dislamophobie-regrette-le-manque-de-soutien-de), il affirme que les vrais responsables ne sont pas les étudiant·es, mais ses collègues « loin à gauche et (qui) ont plutôt des sympathies pour ceux qui défendent le terme islamophobie ». Dans Le Monde (https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/03/08/sciences-po-grenoble-enquete-ouverte-apres-les-accusations-d-islamophobie-co), il confirme que ces mêmes collègues auraient voulu le « punir (…) pour avoir exprimé un avis différent de la doxa d’extrême gauche ». Sur France 5 (https://www.youtube.com/watch?v=UU2oFWzDm3s

      ), il prétend avoir été « annulé » et « exclu du groupe de travail parce que les étudiants se disaient blessés par (ses) paroles ».

      Les médias font #caisse_de_résonance. France bleu (https://www.francebleu.fr/infos/education/le-nom-de-deux-professeurs-accuses-d-islamophobie-placardes-a-l-entree-de) précise que l’enseignante-chercheuse mise en cause était rattachée au laboratoire Pacte, justement « opposé à la volonté de la ministre de l’Enseignement supérieur d’enquêter sur l’islamogauchisme ». Pour la République des Pyrénées (https://www.larepubliquedespyrenees.fr/2021/03/08/islamo-gauchisme-l-illustration-grenobloise,2796550.php), l’enseignant a fait l’objet de « harcèlement interne ». Sur le plateau de LCI (https://www.lci.fr/societe/video-le-parti-pris-de-caroline-fourest-grenoble-aux-origines-de-l-intolerance-2), un journaliste influent se demande « comment une telle volonté de faire taire est possible » et une journaliste de L’Opinion, visant les collègues du professeur, se scandalise de « ce que ces gens foutent à Sciences Po ». Dans Marianne (https://www.marianne.net/agora/les-signatures-de-marianne/iep-de-grenoble-ou-sont-les-fascistes), une journaliste titre sur les « fascistes » de l’IEP de Grenoble.

      Pourtant … Selon les dires du professeur d’allemand lui-même, il avait participé sans retenue aux discussions de préparation de l’atelier. Entre les lignes mêmes de son discours émerge un récit différent dont le murmure reste couvert par le vacarme de la polémique : « chasse à l’homme » (https://www.francebleu.fr/infos/education/le-nom-de-deux-professeurs-accuses-d-islamophobie-placardes-a-l-entree-de) selon ses propres mots, « campagne de haine », « terrorisme intellectuel » (https://www.lefigaro.fr/flash-actu/sciences-po-grenoble-pecresse-denonce-un-terrorisme-intellectuel-20210307), « chasse aux sorcières », « police de la pensée », « cancel culture », « virus mortifère » … « Affaire sordide démontrant toute la réalité d’un islamo-gauchisme répugnant » tranche Marine Le Pen (https://www.publicsenat.fr/article/parlementaire/laicite-a-l-universite-bientot-une-commission-d-enquete-au-senat-188006). Tout de même, on apprend dans Le Monde (https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/03/08/sciences-po-grenoble-enquete-ouverte-apres-les-accusations-d-islamophobie-co) que le professeur d’allemand avait en réalité gagné la partie puisque l’institution avait fini par retirer le mot « islamophobie » du titre de l’atelier sans que sa collègue ne s’oppose d’aucune manière à cette décision. Et une semaine après le début de l’affaire, le 12 mars, une enquête détaillée de David Perrotin dans Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/110321/accusations-d-islamophobie-la-direction-de-sciences-po-grenoble-laisse-le-) en délivrait finalement une toute autre version.

      Dans l’échange initial de mails qui semble avoir tout déclenché, et dont un groupe d’étudiant·es étaient en copie, l’historienne reconnaissait le droit de questionner le terme « islamophobie », mais affirmait – références bibliographiques à l’appui – la validité scientifique du concept. En réponse, le professeur d’allemand se moquait des sciences sociales qu’il qualifiait de « molles », dénonçant la position de sa collègue comme une « imposture » et accusant un champ académique « devenu partisan et militant ». On apprend également deux choses importantes : contrairement à ses affirmations, d’une part le professeur n’a jamais été exclu d’un groupe de travail qu’il a en fait quitté après avoir obtenu gain de cause ; d’autre part il n’a jamais été dénoncé par un communiqué public.

      Les révélations de Mediapart sont troublantes. Les extraits des courriels font clairement apparaître que le professeur d’allemand n’a pas été censuré et que ses propos outrepassaient les limites : saisi, le Défenseur des droits a d’ailleurs estimé qu’il avait bafoué les droits de sa collègue au titre des textes de loi encadrant l’Éducation. Pourtant, plusieurs journalistes avaient affirmé avoir lu ces échanges : par exemple, sur LCI (https://www.lci.fr/societe/video-le-parti-pris-de-caroline-fourest-grenoble-aux-origines-de-l-intolerance-2), l’une avait loué le « répondant » du professeur d’allemand, raillant l’historienne qui, selon elle, « n’avait rien à dire ». Ainsi, alors même qu’ils et elles disposaient de nombreux éléments matériels, des journalistes ont considéré que celui qui avait agressé une collègue et obtenu la suppression du mot « islamophobie » avait été victime de censure. Plus inquiétant encore que cette inversion dans les ternes du jugement, l’article de David Perrotin n’a pas suffi à fixer les faits : deux jours après sa parution, Le Point (https://www.lepoint.fr/debats/klaus-kinzler-a-l-universite-le-gauchisme-culturel-est-une-realite-10-03-202), dans une nième interview du professeur d’allemand, republiait les contrevérités que Mediapart venait de démasquer. Tout se passe donc comme si, le simple usage du mot « islamophobie » autorisait toutes les violences et les accusations en retour : paradoxalement, ceux et celles qui l’interdisent s’estiment à bon droit censuré·es.

      Accusations, dénigrement, menaces sur les réseaux sociaux : les victimes qui ne comptent pas

      Dès leur découverte, les collages nominatifs sont dénoncés par l’ensemble de la classe politique et les deux principaux syndicats étudiants locaux nient être à l’origine du délit. Pourtant, alors que les coupables ne sont pas identifiés, des journalistes (https://www.cnews.fr/france/2021-03-07/grenoble-enquete-ouverte-apres-des-accusations-dislamophobie-sciences-po-10553) et des politiques les accusent. Valérie Pécresse n’hésite pas : dans Le Figaro (https://www.lefigaro.fr/flash-actu/sciences-po-grenoble-pecresse-denonce-un-terrorisme-intellectuel-20210307), elle leur reproche « d’avoir mis une cible dans le dos des enseignants » et estime qu’« il faut que l’université porte plainte contre ces étudiants ». L’ancienne ministre qui naguère, au sujet des affaires liées à Nicolas Sarkozy (https://www.radioclassique.fr/magazine/videos/sarkozy-jai-de-la-peine-a-croire-a-cette-affaire-je-respecte-la-preso), expliquait que la présomption d’innocence l’emportait sur tout autre principe va cette fois beaucoup plus vite en besogne.

      Si « les étudiant·es » sont collectivement dénoncé·es, la presse livre le nom de l’historienne et aussi de la directrice du Pacte. Car le professeur d’allemand cible d’emblée ce laboratoire lui reprochant de l’avoir « harcelé » suite à un « entretien tout à fait anodin entre deux professeurs » puis de l’avoir « jeté en pâture » aux étudiants.

      On sait pourtant, grâce à Mediapart, que non seulement l’entretien n’était pas « anodin », mais agressif, mais plus encore que le laboratoire Pacte n’a rien diffusé : sans citer le nom du professeur, il s’est contenté d’adresser aux personnes concernées un communiqué de soutien à l’enseignante-chercheuse. Et c’est en fait le professeur lui-même qui a publié sur son blog les échanges de mails et le communiqué de Pacte, non sans l’avoir falsifié en créant un biais cognitif pour s’ériger en victime.

      Pourtant, le 9 mars, sur Cnews, un chroniqueur n’hésite pas à qualifier la directrice du Pacte, de « militante ». Or, cette professeure des universités, membre honoraire de l’Institut universitaire de France, docteure, agrégée et ancienne élève de l’ENS Fontenay n’a pas seulement réussi des concours parmi les plus difficiles de la République, mais est aussi une géographe dont les travaux sont reconnus internationalement. Sur les réseaux sociaux, son nom et sa photographie circulent. Entre deux messages antisémites, des personnes se présentant comme « patriotes », proches de « Générations identitaires » ou de « Marine » l’accusent d’avoir lancé une « fatwa » contre deux professeurs, l’insultent, l’intimident et vont jusqu’à la menacer de mort. Aucun·e des journalistes, chroniqueur·euse, éditorialiste, animateur·rice ne regrettera d’avoir jeté son nom en pâture, comme si la violence de l’extrême droite ne comptait pas.

      L’indifférence des médias à l’intégrité morale et physique d’universitaires accusés d’ « islamogauchisme » s’était déjà manifestée lorsqu’en octobre, sur les réseaux sociaux, le sociologue Éric Fassin avait été menacé de « décapitation » par un néonazi. Au moment même de l’affaire de l’IEP de Grenoble, un homme proche de l’extrême droite diffusait, sur ces mêmes réseaux sociaux, un lien vers son blog où il publiait une liste d’universitaires ciblant les « 600 gauchistes complices de l’Islam radicale [sic] qui pourrissent l’université et la France ». Aucun journaliste ne s’en est ému et deux journaux, classés à gauche, ont refusé la tribune de ces universitaires qui s’alarmaient d’être ainsi lâchés à la haine publique.

      Tout aussi grave, le silence institutionnel assourdissant. L’IEP de Grenoble soutient certes les deux collègues de Pacte mises en cause, en leur assurant la protection fonctionnelle, mais n’a pas pris publiquement leur défense. Un mois après les faits, la mission pourtant « flash » de l’inspection générale du MRSEI a peut-être rendu ses conclusions, mais rien n’en a filtré. Le ministère a laissé attaquer un laboratoire que ses propres instances d’évaluation ont pourtant considéré comme « produisant une recherche de qualité exceptionnelle » (https://www.hceres.fr/sites/default/files/media/downloads/a2021-ev-0380134p-der-pur210020925-032594-rf.pdf) sans juger utile de se manifester dans les médias. Il a laissé prendre à partie, sans aucune forme de contre-communication, sa directrice dont le Haut conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES) louait pourtant le « pilotage fondé sur la transparence et la confiance » (https://www.hceres.fr/sites/default/files/media/downloads/a2021-ev-0380134p-der-pur210020925-032594-rf.pdf).

      Quand l’opinion censure le travail scientifique

      L’affaire de l’IEP de Grenoble éclaire la #double_censure qui, selon de nombreux médias, menace aujourd’hui l’université. Pour ces journalistes, le simple fait qu’un atelier soit intitulé « Racisme, islamophobie, antisémitisme » censurerait les adversaires de l’islamophobie. De plus, lorsque l’historienne maintient que l’islamophobie est un concept reconnu dans le champ académique, elle censurerait le professeur d’allemand intuitu personae. Ainsi, lorsque sur France infos (https://www.francetvinfo.fr/faits-divers/je-pense-a-ce-qui-est-arrive-a-samuel-paty-le-nom-de-deux-professeurs-a) celui-ci affirme que « la liberté d’expression n’existe plus à Sciences Po » parce que « débattre de l’Islam (y) est devenu impossible », ses propos expriment la conviction déjà consolidée de bien des journalistes.

      Ceux et celles-là analysent l’échange de mails comme un débat d’opinion où toutes les opinions ne se vaudraient pas, et en même temps, comme une controverse scientifique tronquée puisque l’une des parties « se drape(rait) dans les atours de la science » pour porter des idées militantes. Confondant tout, ils et elles défendent la liberté de quiconque de contester des recherches dont la scientificité ne résisterait pas à la simple opinion du professeur d’allemand.

      Sur BFM (https://www.dailymotion.com/video/x7zt61o

      ), une essayiste affirme que « l’islamophobie est une idéologie pure ». Pour elle, c’est « l’opinion qui prévaut dans les sciences sociales. Ils sont en train de dire l’islamophobie ça existe parce que ce labo nous l’a dit ». Certes, le professeur d’allemand exprime également son opinion, mais elle aurait plus de valeur que celle du « laboratoire » parce qu’elle est « divergente ». La polémiste-essayiste conclut en remerciant « Frédérique Vidal qui bien fait de mettre les pieds dans le plat : les sciences sociales fabriquent de la censure ».

      Pour une journaliste de Marianne (https://www.marianne.net/agora/les-signatures-de-marianne/iep-de-grenoble-ou-sont-les-fascistes), il s’agit d’une controverse scientifique entre pair·es : en écho à l’argument du professeur d’allemand sur BFM, selon lequel « si critiquer les résultats d’une collègue est un harcèlement, c’est la fin de la science », elle interroge : « comment une enseignante peut-elle se plaindre officiellement de harcèlement parce qu’un de ses collègues, dans des courriels longs et argumentés (…) récuse une part de (ses) travaux ? ».

      Or, la discussion entre les deux collègues est très éloignée de la fameuse disputatio universitaire, car les deux collègues n’y sont pas exactement à égalité : l’historienne des sociétés colonisées du Maghreb parle depuis son champ de recherche, tandis que le professeur d’allemand polémique avec fureur. L’argumentation du professeur d’allemand entrelace ses goûts, ses dégoûts, ses opinions, l’invective ainsi qu’une série de banalités qui infusent aujourd’hui le débat et dont on oublie qu’elles sont nées à l’extrême droite : il a peu de sympathie pour l’Islam, préfère le Christ qui pardonne à la femme adultère, rappelle que les musulmans ont été de « grands esclavagistes », que beaucoup d’entre eux sont des « antisémites virulents », s’étonne de ne pas les voir par millions dans la rue se désolidariser des terroristes et tient à affirmer que le racisme vise aussi les blancs. Lorsqu’il argue que les trois concepts du titre ne devraient pas être alignés, sa collègue historienne répond qu’« utiliser un concept ne dispense pas d’en questionner la pertinence ». Le titre aurait pu être interrogé lors de l’atelier et la juxtaposition de termes peut valoir autant alignement que désalignement, engager à confronter les unes aux autres des notions qui apparemment se font écho : tout est affaire de problématisation. Certes, la « Semaine pour l’égalité et contre les discriminations » est une activité extracurriculaire proposée par Science Po Grenoble : ce n’est ni un cours ni un colloque scientifique. Cela ne veut pas dire que les professeurs volontaires pour y participer le fassent hors de leur cadre professionnel : ils interviennent là dans leur environnement de travail et doivent se conformer aux règles qui le régissent, notamment celles de « bienveillance », « objectivité » et « laïcité », trois piliers du Code de l’Éducation.

      La polémique telle que les médias la fabrique retourne donc tous les principes de la #déontologie professionnelle et de l’#éthique scientifique : l’agressivité, l’absence de collégialité, l’opinion partisane et le mépris des savoirs deviennent, par exemple sur LCI, « l’esprit critique et la raison » (https://www.lci.fr/societe/video-le-parti-pris-de-caroline-fourest-grenoble-aux-origines-de-l-intolerance-2).

      Limiter la liberté académique au nom de la liberté

      Écrits à l’automne, les mails du professeur d’allemand annoncent les propos de Frédérique Vidal cet hiver. Le premier dénonçait « les conclusions strictement hallucinantes » des « ”gender studies”, ”race studies” et autres ”études postcoloniales” (liste loin d’être exhaustive !) ». Sur Cnews et à l’Assemblée nationale, la seconde cible en février les mêmes champs d’études auxquels elle ajoute les études décoloniales et l’intersectionnalité. Et l’un comme l’autre fourrent ces différents champs d’études dans le grand sac de l’ « islamogauchisme ».

      En pleine polémique, dans un éditorial de La République des Pyrénées (https://www.larepubliquedespyrenees.fr/2021/03/08/islamo-gauchisme-l-illustration-grenobloise,2796550.php), un écrivain et journaliste note que « si ce qui s’est passé à Grenoble n’est pas la manifestation de l’islamogauchisme, cela y ressemble beaucoup ». En cohérence avec l’imaginaire de la pandémie, il fustige le « virus mortifère (…) qui se propage (…) à l’université où des minorités agissantes mènent des campagnes contre des enseignants qui ne s’inscrivent pas dans leur doxa racialiste, décoloniale, intersectionnelle et autres ».

      Sur BFM (https://atlantico.fr/article/video/le-debat-sur-l-islamo-gauchisme-est-il-possible-iep-grenoble-islamophobie-), un journaliste d’Atlantico, invité régulier de France Info, prétend que cela le « fait rire » quand il entend que « l’islamogauchisme n’existe pas (…) La complaisance d’une certaine gauche avec les arguments de l’Islam politique, ça a été étudié dans le monde entier ». Et de poursuivre, comme si le lien logique s’imposait : « c’est la même chose avec les études de genre (…) Ce qui est très grave dans une démocratie, c’est la prétention scientifique des études de genre. C’est complètement contraire à la liberté académique et c’est contraire à la liberté d’expression et cela ne correspond pas à ce que l’on peut attendre dans une démocratie ».

      Principe fondamental reconnu par les lois de la République et consacré par la décision du Conseil constitutionnel du 20 janvier 1984, la liberté académique est celle que le droit garantit aux universitaires de mener les recherches et les enseignements qu’ils et elles veulent, sans subir de pressions économiques ou politiques. Ce jour-là sur BFM, avec brutalité et sans limites, un journaliste a déclaré que des pans entiers des sciences sociales –auxquels lui-même ne connaît rien– mettent en péril la démocratie : en quelque sorte, l’usage de la liberté académique dans le champ des études de genre menace la liberté académique ; la seule solution semble alors bien de supprimer la liberté académique … pour les chercheur·es en études de genre.

      Pour certain·es journalistes, les sciences sociales usurpent donc le nom de science dès lors qu’elles troublent le sens commun : les savoirs critiques sont dangereux pour la société. Il reste un point, vérifiable, sur lequel on ne saurait leur donner raison : loin d’avoir été étudié dans « le monde entier », l’islamogauchisme semble être une obsession française. Pour objectiver sa fragilité empirique, on pourra, par exemple, consulter dans la revue Mouvements (https://mouvements.info/trois-mythes-sur-l-islamo-gauchisme-et-laltermondialisme) un récent article de Timothy Peace. La bibliothèque numérique Jstor qui archive douze millions d’articles de revues scientifiques de 160 pays dans 75 disciplines, signale trois références pour « islamo-gauchisme » et 17 pour « #islamo-leftism » ; seules quatre se réapproprient la notion tandis que les autres la déconstruisent. À titre de comparaison, le mot-clé « islamophobia » propose 5388 références : pas de doute, la « notion fourre-tout inventée de toute pièce » (https://www.europe1.fr/societe/grenoble-un-professeur-accuse-dislamophobie-regrette-le-manque-de-soutien-de) que le professeur d’allemand a dénoncée lors de sa semaine de célébrité médiatique nomme un champ de recherche. Comme tous les autres, il est traversé par la construction de controverses : celles-ci se déploient selon des méthodologies éprouvées et dont les chercheur.es doivent pouvoir rendre compte. L’opinion libre peut bien sûr questionner ces résultats à tout moment, mais ne peut les nier sans se soumettre à son tour à la rigueur qui fait la science. Le nier c’est sombrer dans un monde de post-vérité que d’aucuns appellent de leurs vœux du fait de son potentiel électoral. Le débat ouvert autour des sciences humaines et sociales doit en effet interpeler les mondes scientifiques dans toute leur diversité, c’est la seule échelle possible de riposte à la violence de l’offensive idéologique en cours.

      https://blogs.mediapart.fr/edition/fac-checking/article/140421/sciences-po-grenoble-un-repaire-d-islamogauchistes

    • Sciences Po Grenoble : « Un crash-test du débat public pour 2022 »

      En mars, la mise en cause de deux profs avait suscité un large emballement médiatique et politique. En première ligne dans cette affaire, ciblée et harcelée, la chercheuse Anne-Laure Amilhat-Szary contre-attaque. Elle s’exprime pour la première fois dans « À l’air libre ».

      https://www.youtube.com/watch?v=3S91o5G6wvk

    • #CNews, première chaîne d’#intox de France… avec le soutien de l’Élysée

      Une autre affaire montre que ce goût pour la #délation peut avoir de graves conséquences sur les personnes désignées à la furie de la fachosphère.. Jeudi soir, l’émission À l’air libre, réalisée par Mediapart, reçoit #Anne-Laure_Amilhat_Szary, directrice à Grenoble du laboratoire Pacte du CNRS. Je conseille vivement de regarder son témoignage (en accès libre) pour prendre la mesure de la gravité des agissements de M. Pascal Praud. Ce dernier a mis en cause l’universitaire lors de l’affichage des noms de deux professeurs de Sciences Po Grenoble accusés d’islamophobie. Affichage que l’intéressée a toujours vigoureusement condamné. Affichage consécutif à une controverse entre un prof militant et une chercheuse de son laboratoire qu’Anne-Laure Amilhat-Szary a défendue dans un communiqué ensuite falsifié par #Klaus_Kinzler, le prof en question.

      Pascal Praud s’est empressé d’inviter ce professeur, qui déclare alors : « Un grand chercheur directeur de laboratoire de recherche se met en dehors de la science. Il ne comprend même pas, c’est une femme d’ailleurs, elle ne comprend même pas ce que c’est, la science. — Ce laboratoire, Pacte, avec cette dame…, rebondit Pascal Praud. Je vais citer son nom, Anne-Laure Amilhat-Sza… Szaa… Szary. » La délation est un métier. « Cette dame-là, c’est la directrice du laboratoire mais cette dame, c’est une militante. — C’est une militante. C’est des gens qui ne réfléchissent même pas. — Oui mais qui se croient tout permis et qui avancent avec le sentiment d’impunité. C’est très révélateur, on voit le #terrorisme_intellectuel qui existe dans l’université à travers leur exemple. »

      https://www.telerama.fr/sites/tr_master/files/styles/simplecrop1000/public/assets/images/capture_decran_2021-05-07_a_14.02.17.png?itok=DB-qutXJ

      Sur le plateau de Mediapart, Anne-Laure Amilhat-Szary raconte la suite. « La ministre de l’Enseignement supérieur dit que c’est insensé de livrer des noms d’enseignants-chercheurs à la vindicte des réseaux sociaux, or ça a été mon cas. J’ai fait l’objet d’une campagne diffamatoire avec menaces de mort nombreuses et répétées. » Au point de devoir porter plainte pour « #cyber-harcèlement et menaces de mort ». « Comment vous avez vécu tout ça ?, demande Mathieu Magnaudeix. — Mal. Et comme la preuve que l’intersectionnalité est une bonne grille d’analyse puisque j’ai fait l’objet d’insultes islamophobes, antisémites, sexistes, avec une critique de mon physique avec mon portrait transformé… Je vous laisse imaginer le pire. » Le pire sciemment provoqué par Pascal Praud.

      https://www.telerama.fr/sites/tr_master/files/styles/simplecrop1000/public/assets/images/capture_decran_2021-05-07_a_13.42.37_0.png?itok=No7NkS6H

      « Je n’ai pas de protection judiciaire, regrette Anne-Laure Amilhat-Szary. Elle a été demandée et on n’en a plus jamais entendu parler. La ministre a défendu des personnes qui ont effectivement été mises en danger par des affichages criminels et moi, je me débrouille toute seule. » Comme se débrouillent toutes seules les journalistes #Morgan_Large et #Nadiya_Lazzouni, respectivement victimes d’#intimidations (dont un sabotage de voiture) et de menaces de mort, sans qu’elles obtiennent la #protection_policière demandée — et soutenues par de nombreuses organisations de journalistes.

      https://seenthis.net/messages/915846

    • Retour à Sciences Po Grenoble, où l’ambiance reste très dégradée trois mois après l’affaire des affiches dénonçant des professeurs

      Au cœur de vives polémiques à Grenoble et à Paris au mois de mars 2021, l’Unef a retrouvé une relative sérénité. L’affaire des réunions non mixtes a poussé le Sénat à adopter un amendement qui ne s’appliquera probablement pas au syndicat.

      « Des fascistes dans nos amphis », « L’islamophobie tue ». Le 4 mars 2021, la branche de l’Unef Grenoble relaie sur son compte Twitter des collages situés sur la façade de Sciences Po, avec le nom de deux professeurs, accusés d’islamophobie. Le syndicat retire son tweet mais la polémique prend une ampleur nationale. Quelques jours plus tard, le syndicat étudiant au niveau national est accusé de discriminations à la suite de la mise en place de réunions non-mixtes. La cellule investigation de Radio France a voulu savoir, deux mois après, ce qu’il reste de ces évènements.
      Des accusations d’islamophobie

      À Grenoble, la situation est encore tendue, et l’incompréhension demeure. Fin novembre 2020, dans le cadre de la préparation de l’édition 2021 de la Semaine de l’égalité, deux professeurs de Sciences Po Grenoble (IEPG, Institut d’études politiques de Grenoble) s’opposent à une enseignante-chercheuse membre du laboratoire de sciences sociales Pacte à propos des termes d’une table ronde intitulée « Racisme, antisémitisme et islamophobie ». Les deux professeurs, dont fait partie Klaus Kinzler, qui enseigne l’allemand au sein de l’IEPG, demandent à ce que soit retiré le mot islamophobie, considérant que ce terme ne vise pas des personnes en raison de leur race ou de leur origine, mais juste une religion.

      Le débat s’enflamme. La querelle est mise sur la place publique. Les deux professeurs deviennent des cibles sur les réseaux sociaux. « Le 22 février 2021, des étudiants de l’Union syndicale Sciences Po Grenoble [une scission de l’Unef], le syndicat majoritaire à l’IEPG, lancent sur Facebook un appel à témoignages sur d’éventuels propos problématiques qui auraient pu être tenus dans un cours qui s’appelle ’Islam et musulmans en France’, raconte Simon Persico, professeur à Sciences Po Grenoble. Cet appel à témoignages contient des accusations, même si le nom de l’enseignant n’apparaît pas. »

      Appel à témoignage lancé sur Facebook par l’Union syndicale Sciences Po Grenoble.

      Sous la pression, l’enseignante retire l’islamophobie de l’intitulé du débat. La rupture est consommée entre le laboratoire Pacte et les deux opposants. Le climat se dégrade. L’enseignante se voit prescrire un arrêt maladie, et les deux professeurs opposés au débat se disent harcelés. « Il y a eu deux étapes, explique Klaus Kinzler. L’une vient de collègues, des chercheurs qui m’accusent en public de harcèlement. Il y a ensuite une deuxième tentative par des étudiants extrémistes, qui disent que je suis un extrémiste de droite et islamophobe. »
      "Bonjour à nos ayatollahs en germe"

      Fin février, Klaus Kinzler, qui se voit reprocher d’avoir bu une bière devant son écran lors d’un conseil de vie étudiante, écrit un mail « humoristique » aux étudiants syndiqués qui commence par « Bonjour tout le monde ! Bonjour surtout à nos petit.e.s Ayatollahs en germe » (sic). Un mail qu’il conclut en signant par : « Un enseignant ’en lutte’, nazi de par ses gènes, islamophobe multirécidiviste (…) recherché intensément par la branche islamo-gauchiste d’Interpol Grenoble. » Des propos qui ne vont pas apaiser les choses.

      « J’étais extrêmement déprimé, se justifie aujourd’hui le professeur, les premiers étudiants commençaient à me dire en cours : ’Pourquoi vous n’aimez pas les musulmans ?’ Je sentais que je ne pouvais plus enseigner dans ces conditions, je me suis mis en congé maladie. »

      Cinq jours plus tard, le 4 mars, ces collages avec les noms de deux professeurs apparaissent sur la façade de Sciences Po Grenoble. Ils sont tweetés par une responsable de l’Unef Grenoble dans la foulée. « La condamnation de ces affiches a été extrêmement rapide et ferme par la direction et toutes les instances de Sciences Po, puis par tous les collègues, se souvient Simon Persico. L’Unef Grenoble va alors très vite faire marche arrière. »

      Les instances parisiennes de l’Unef interviennent en effet pour faire retirer le tweet. « Ça ne correspondait pas du tout à notre mode d’action, confirme Mélanie Luce, la présidente de l’Unef. Pour nous, quels que soient les propos tenus, ce n’est pas avec ce qu’on appelle le ’name and shame’ [nommer pour faire honte] qu’on va régler nos problèmes. Les dénonciations publiques ne sont en aucun cas une solution. »
      "Ils resteront des cibles"

      Malgré la suppression du tweet, les noms des deux professeurs se répandent, une enquête est ouverte par le parquet de Grenoble, car l’incident se produit après l’assassinat de Samuel Paty. Beaucoup redoutent les conséquences de cette exposition publique. « Ce collage ne partira jamais d’Internet, redoute Amaury Pelloux-Gervais, étudiant en droit et président de l’Uni Grenoble. Des gens penseront toujours que ces professeurs sont islamophobes. Ils resteront des cibles. »

      Le ministère de l’Intérieur envoie alors des policiers pour surveiller le domicile de cinq personnes, dont celui des professeurs concernés et du leader de l’Union syndicale de Sciences Po. « Très vite, le nom de ce dernier circule, mis en pâture sur les réseaux sociaux, critiqué comme s’il était complice de ces actes-là, se souvient encore l’universitaire Simon Persico. La collègue qui organisait la conférence sur l’islamophobie est, elle aussi, mise sous protection, ainsi que la directrice du laboratoire Pacte. »

      Tous sont devenus des cibles d’anonymes qui se déchaînent sur les réseaux sociaux. Les deux enseignants opposés au débat sur l’islamophobie, classés plutôt à droite, sont visés par une sphère de gauche, tandis qu’Anne-Laure Amilhat-Szary, directrice du labo Pacte auquel appartient l’enseignante qui voulait organiser le débat sur l’islamophobie, se sent, elle, menacée par l’extrême droite : « Je suis mise en cause par des propos diffamatoires qui ont un caractère sexiste. On me dit que je n’ai pas les capacités pour diriger un laboratoire, on s’attaque à mon apparence, on se demande si je suis ’baisable’ ou pas... On s’attache à détruire mon être intime de femme. »

      Une ambiance détestable qui ne date pas d’hier

      Plus de deux mois après ces évènements, les tensions entre certains étudiants et certains professeurs, mais aussi entre les enseignants eux-mêmes, n’est toujours pas retombée. Klaus Kinzler n’a toujours pas réintégré sa classe à Sciences Po. « On m’a déconseillé dans la situation actuelle d’être en contact avec les étudiants, déplore-t-il. L’atmosphère est encore très pourrie à l’IEPG. Des mails circulent où on nous reproche tous les maux. On est persona non grata, comme des pestiférés. »

      Un rapport du ministère de l’Enseignement supérieur indique que « le collage du 4 mars est l’aboutissement d’une crise qui naît d’une controverse entre deux enseignants, et tourne au règlement de comptes orchestré par une organisation étudiante ». Mais cette crise ne date pas d’hier. Selon Amaury Pelloux-Gervais, de l’Uni, « une capture d’écran de 2017 montrait déjà que sur un groupe Facebook d’étudiants de Sciences Po, un message de l’Unef Grenoble, aujourd’hui l’Union syndicale, demandait des témoignages d’islamophobie, de sexisme, de racisme de la part des mêmes professeurs ».
      « Ils ont fait de la surenchère »

      Outre leurs divergences politiques et idéologiques sur l’islam, il y aurait aussi une fracture générationnelle entre enseignants, selon Klaus Kinzler, qui estime que les jeunes professeurs seraient plus radicaux qu’avant : « On a assisté à un changement générationnel. Des professeurs de la vieille école, non politisés, érudits, d’une très grande culture et très respectés, ont cédé leur place à une nouvelle génération de jeunes maîtres de conférences et professeurs dans les 35 ans, qui sont extrêmement militants et politisés. »

      Les professeurs de sciences sociales, notamment ceux du laboratoire Pacte, réfutent cette analyse. Eux ont le sentiment que leurs deux collègues ont fait de la surenchère. « La campagne médiatique dans laquelle ils se sont engagés nous a blessés, regrette Simon Persico, également membre de Pacte. Cela a contribué à rendre public des noms de collègues, qui se sont fait menacer, insulter. Et cela a dressé un tableau de Sciences Po Grenoble très caricatural, comme si on était un lieu dans lequel on ne pouvait pas avoir de discussion sereine, dans lequel la liberté d’expression était bafouée alors que ce n’est pas du tout le cas. On est habitués au débat pluraliste, respectueux des opinions diverses. » Simon Persico leur reproche aussi de remettre en cause l’intérêt des sciences sociales. « En disant qu’elles ne servaient à rien, voire qu’elles n’étaient pas des sciences, cela nous a beaucoup blessés puisque c’est le cœur de notre métier, notre conviction profonde. »

      Le 4 mai 2021, le procureur de Grenoble a ouvert une enquête pour « injure, diffamation, harcèlement et cyberharcèlement ». Elle cible surtout les étudiants qui ont placardé les affiches. Le rapport de l’inspection générale de l’éducation, quant à lui, met en cause le comportement de l’Union syndicale Sciences Po Grenoble. Mais il pointe aussi des erreurs et des manquements de tous les acteurs de cette affaire, qui ont créé un climat de tension.
      Autre polémique : les réunions non-mixtes

      L’Unef a par ailleurs été dans le viseur de nombreuses personnalités politiques, pour avoir organisé des réunions non-mixtes. Le 19 mars 2021, le ministre de l’Éducation Jean-Michel Blanquer réagit sur RMC : « C’est profondément scandaleux, des gens qui se prétendent progressistes et qui distinguent les gens en fonction de la couleur de leur peau, nous mènent vers des choses qui ressemblent au fascisme. »

      L’idée de mettre en place des réunions non-mixtes n’est pas récente. En 2013, l’Unef constate que la culture dominante en son sein est très machiste. Le syndicat décide de lancer des groupes de parole réservés aux femmes. « Elles voulaient se réunir pour parler des violences qu’elles ont pu subir, et ne pas se retrouver face à quelqu’un qui aurait pu commettre ces violences, explique Mélanie Luce, l’actuelle présidente de l’Unef. Le sexisme intériorisé fait qu’une femme a beaucoup plus de difficulté à prendre la parole dans un cadre collectif qu’un homme. »

      « C’est le principe de fonctionnement des Alcooliques Anonymes, abonde Anne-Laure Amilhat-Szary, directrice du laboratoire Pacte à Grenoble. Des gens osent parler de leurs défauts, de leurs problèmes, parce qu’ils sont entre eux et qu’ils sentent que la règle est la bienveillance. Des réunions non-mixtes, il y en a à tous les étages. Les francs-maçons en sont un exemple privilégié, à l’autre extrémité du champ social. »
      Abolir la culture du sexisme

      Au sein de l’Unef, ces réunions appelée non-mixtes, mais dont la participation est libre, ont lieu une à deux fois par an. Elles réunissent des membres du bureau national et des militants des sections locales. « On ne cite pas de nom, tout est anonyme. L’objectif n’est pas la délation, assure Mélanie Luce. Il est d’identifier les problématiques globales qui émergent. Ensuite, un compte rendu est fait, dans un cadre mixte. »

      À la suite de ces réunions, le bureau national de l’Unef a lancé des procédures d’exclusion contre des cadres du syndicat. Depuis 2018, il a ainsi exclu quatre personnes, et quatre autres ont démissionné d’eux-mêmes. Le syndicat fait aussi remonter des signalements aux autorités universitaires. C’est notamment le cas à Paris-Dauphine, où un premier dossier est instruit par l’administration.
      Prise en compte de toutes les discriminations

      Le modèle de ces réunions non-mixtes contre le sexisme, a ensuite été reproduit pour les personnes LGBT+, puis aux personnes racisées, c’est-à-dire qui subissent des discriminations liées à leur apparence, leur accent, leur nom ou encore leur origine. « Les femmes ont ouvert le champ », affirme Tidian Bah, étudiante d’origine guinéenne, en première année à Sciences Po.

      Farah, qui a participé en avril 2021 à une réunion de ce type, raconte : « C’est la première fois que j’ai parlé concrètement du racisme et du sexisme que je pouvais subir dans la société. On vide son sac, et on vide aussi les émotions que l’on peut vivre au quotidien. »

      Cette récente prise en compte des discriminations raciales dans les préoccupations de l’Unef s’explique notamment par l’augmentation de la diversité au sein des universités et des instances dirigeantes. « Il y a encore dix ou vingt ans, les congrès universitaires étaient extrêmement blancs, alors que l’université été déjà investie par les enfants et les petits enfants issus de l’immigration », analyse Robi Morder, spécialiste des mouvements étudiants. La disparition progressive des associations communautaires liées au pays d’origine a aussi « forcé » les syndicats étudiant à s’approprier ces préoccupations.
      « L’Unef a perdu sa grille d’analyse des rapports sociaux traditionnels »

      Au printemps 2021, la polémique autour des réunions non-mixtes s’est focalisée sur le fait d’exclure les participants en fonction de critères raciaux. L’Unef soutient que personne n’est officiellement exclu. « Tout le monde est au courant de ces réunions. C’est à chacun de savoir où est sa place, se défend Mélanie Luce. Il n’y a pas de vigile à l’entrée pour dire à telle personne de couleur : ’Tu ne vas pas rentrer.’ Par contre, lors du compte rendu, chacun va pouvoir attentivement écouter ce qui va être dit par ces personnes sur ce qu’elles peuvent vivre au quotidien et dans l’organisation. »

      « Personne n’est en capacité d’exclure une quelconque personne à partir du moment où la militante ou le militant vient et décide de venir en réunion », confirme Maha Rejouani, ancienne vice-présidente étudiante pour l’Unef à Paris-Dauphine. Cette approche risque de rendre inopérant l’amendement « Unef » voté récemment par le Sénat, qui interdit d’exclure quiconque en fonction de sa race ou de son origine.

      Pour Theo Florens, un ancien membre du bureau national de l’Unef, ces réunions sont symptomatiques d’une évolution du positionnement politique du syndicat. La lutte contre le sexisme et les discriminations sur les campus a supplanté, selon lui, la grille historique de la « lutte des classes ». « Aujourd’hui, l’Unef trouve bien souvent plus pertinent d’analyser les conflits interpersonnels via le prisme des discriminations, des dominés/dominants, explique-t-il, ce qui n’est pas le prisme des gens qui sont moyennement ou pauvrement dotés en capital et des autres qui le sont. Quand on est pauvre, qu’on soit blanc ou racisé, on a toujours moins de chances de réussir sa vie que quand on est passé par Henri IV ou Sciences Po. » Ce faisant, le syndicat accompagne une tendance qui traverse aujourd’hui d’autres sphères de la société. Y compris des sphères officielles.

      https://www.francetvinfo.fr/societe/religion/religion-laicite/retour-a-sciences-po-grenoble-ou-lambiance-reste-tres-degradee-trois-mo

    • A Sciences Po Grenoble, « Mme D. » contre-attaque après le rapport de l’inspection générale

      Accusée par l’inspection générale d’avoir « dramatisé la polémique » entre deux professeurs, Anne-Laure Amilhat Szary s’étonne de ne bénéficier d’aucun soutien après avoir reçu des menaces de mort.

      L’apaisement est encore loin, à Sciences Po Grenoble, deux mois après la publication du rapport de l’inspection générale de l’éducation, du sport et de la recherche (Igésr), commandé par la ministre de l’enseignement supérieur, Frédérique Vidal. Après la découverte, le 4 mars, sur les murs de l’Institut d’études politiques (IEP) d’affiches accusant de « fascisme » et d’« islamophobie » deux enseignants – diffusées sur les réseaux sociaux par des étudiants –, les inspecteurs généraux ont conduit une enquête, dont les conclusions, rendues le 8 mai, ont étonné Anne-Laure Amilhat Szary, l’une des protagonistes de l’affaire, appelée « Mme D. » dans le rapport.

      Il faut revenir quelques mois en arrière pour comprendre comment on en est arrivé là. Le 7 décembre 2020, cette professeure de géographie, directrice de Pacte, un laboratoire du CNRS en sciences sociales rattaché à l’IEP et à l’université Grenoble-Alpes, publie un communiqué, tamponné du logo de l’université, pour prendre la défense d’une collègue historienne, membre de Pacte, qui est impliquée dans un violent échange de courriels avec un professeur d’allemand – dont le nom, Klaus Kinzler, sera placardé le 4 mars sur les murs de Sciences Po. En cause : le recours à la notion d’« islamophobie ». Alors que la chercheuse de Pacte justifie l’usage d’un « concept heuristique utilisé dans les sciences sociales », M. Kinzler récuse avec véhémence l’apposition du terme auprès des mots « racisme » et « antisémitisme » dans l’intitulé d’un débat prévu à l’IEP à l’occasion de la Semaine de l’égalité et de la lutte contre les discriminations.

      Dans ce communiqué, la direction du laboratoire de recherche incrimine le professeur d’allemand et estime que « nier, au nom d’une opinion personnelle, la validité des résultats scientifiques d’une collègue et de tout le champ auquel elle appartient, constitue une forme de harcèlement et une atteinte morale violente ».

      « Terrorisme intellectuel »

      L’inspection générale reproche à « Mme D. » d’avoir « dramatisé la polémique en se plaçant sur le terrain d’une mise en cause de la recherche en sciences sociales » et d’avoir mis « l’ensemble des enseignants de l’IEP en situation de devoir choisir leur camp ». Elle préconise à son encontre une convocation disciplinaire à un entretien avec ses supérieurs (le président de l’université et le président du CNRS), en présence de la directrice de l’IEP, « pour lui rappeler solennellement le rôle qui est le sien en qualité de directrice de laboratoire, lequel ne l’autorise ni à signer un communiqué par délégation du président de l’université ni à s’immiscer dans la gestion des ressources humaines de l’IEP ». En guise de sanction, une « notification écrite à l’intéressée des fautes qu’elle a commises dans cette lamentable affaire sera versée à son dossier administratif », tacle le rapport.

      Les inspecteurs ajoutent que ce « communiqué » de Pacte « a donné une dimension inespérée » à l’organisation étudiante de l’IEP, l’Union syndicale, en lui permettant « d’utiliser la renommée de ce laboratoire réputé pour développer, à partir du 9 janvier 2021, une campagne d’accusations d’islamophobie sur les réseaux sociaux » à l’encontre de Klaus Kinzler et d’un autre enseignant, Vincent Tournier, chargé d’un cours sur l’islam.

      Sur les réseaux sociaux, Anne-Laure Amilhat Szary fait face à un déferlement de haine lorsque certains médias relatent « l’affaire », voyant dans Sciences Po Grenoble une incarnation de « l’islamo-gauchisme » sur lequel Frédérique Vidal veut lancer une « enquête ». Le paroxysme est atteint sur CNews, le 9 mars, lorsque l’animateur Pascal Praud déclare voir en la chercheuse « le terrorisme intellectuel qui existe dans l’université ».

      A ses côtés en plateau, Klaus Kinzler est venu témoigner de sa vision des faits. A l’évocation d’Anne-Laure Amilhat Szary, il décrit « un grand chercheur directeur de laboratoire de recherche [qui] se met en dehors de la science ». « Il ne comprend même pas, c’est une femme d’ailleurs, elle ne comprend même pas ce que c’est, la science », lâche le professeur d’allemand. Le lendemain de l’émission, la directrice de Pacte demande à bénéficier d’une protection fonctionnelle qui lui sera aussitôt accordée par sa tutelle, le président de l’université Grenoble-Alpes.

      Le 15 avril, elle porte plainte pour « diffamation », « diffamation à caractère sexiste » contre Pascal Praud et Klaus Kinzler, « cyberharcèlement » et « menace de mort », devant le parquet de Paris. « D’aucuns n’ont pas craint de la dénoncer comme ayant été à l’origine de cette affaire. Cela est évidemment faux », affirme dans un communiqué son avocat, Me Raphaël Kempf.

      La mission d’inspection recommande aussi un rappel à leurs obligations de fonctionnaires à la professeure d’histoire et à Klaus Kinzler, tout nouveau manquement de la part de ce dernier engageant des poursuites disciplinaires. « On se retrouve avec des agressés et des agresseurs renvoyés aux mêmes types de sanctions, c’est très problématique », commente aujourd’hui Anne-Laure Amilhat Szary, qui se demande pourquoi « le rapport ne couvre aucun des faits postérieurs au 4 mars, malgré leur gravité ». Elle regrette l’absence de prise de position publique des trois tutelles responsables du laboratoire – l’université, le CNRS et l’IEP. « La ministre a publiquement manifesté son indignation et son soutien quand le nom de mes collègues a été affiché, mais n’a pas réagi quand j’ai été à mon tour dangereusement menacée », constate la chercheuse.
      « Grand silence » du CNRS

      A l’issue d’un « entretien solennel » qui a eu lieu vendredi 18 juin, le président de l’université Grenoble-Alpes, Yassine Lakhnech, n’aurait pas prévu – comme souhaité par l’Igésr – d’inscrire au dossier administratif de Mme Amilhat Szary la notification écrite qui lui a été remise. « Le président de l’université s’est engagé à ne pas verser cette lettre à son dossier administratif », précise un des délégués de la CGT de l’université ayant accompagné la directrice de Pacte. Pour le syndicaliste, le rapport d’inspection est lacunaire en ne faisant pas mention des menaces de mort et insultes qu’a subies Mme Amilhat Szary. « Je suis moi-même témoin de cette parole décomplexée, raciste, y compris dans le milieu de la recherche. Ces propos n’auraient jamais été tenus il y a deux ou trois ans », complète Pierre Giroux, secrétaire régional du syndicat CGT du CNRS. Il regrette que Mme Vidal ait pu « encourager ce mouvement en affichant une volonté autre que celle de l’apaisement ».

      Afin de clore l’affaire, plusieurs dizaines de directeurs de laboratoire ont appelé le président du CNRS à prendre publiquement position, au-delà du soutien individuel qu’il a témoigné au cours des derniers mois à Mme Amilhat Szary. « Nous sommes profondément choqués de l’absence de soutien institutionnel public, quand une directrice est menacée de mort et cible d’attaques racistes et antisémites dans l’exercice de ses fonctions », ont-ils écrit dans un communiqué lu à la tribune, le 22 juin, interpellant Antoine Petit, le président du CNRS, lors d’une réunion de l’Institut des sciences humaines et sociales du CNRS.

      « Ce grand silence est problématique, car l’institution a l’air de renvoyer dos à dos les protagonistes, s’alarme une participante. Résumer la situation à une opposition entre deux points de vue serait très grave. Il s’agit de rappeler qu’une simple opinion ne vaut pas les résultats d’une recherche. Et ça, il faut que le président du CNRS aille le dire sur les plateaux TV ! »

      Signe du caractère extrêmement sensible du sujet, ni Yassine Lakhnech, ni la directrice de l’IEP, Sabine Saurugger, ni Antoine Petit n’ont donné suite à nos sollicitations d’entretien.

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/07/02/a-sciences-po-grenoble-mme-d-contre-attaque-apres-le-rapport-de-l-inspection

  • Comment le #maquillage peut nous protéger de la #reconnaissance_faciale ?
    https://www.ladn.eu/mondes-creatifs/maquillage-camouflage-devient-une-arme-anti-surveillance

    Dans les rues de Londres, le collectif anti-surveillance The Dazzle Club milite silencieusement et à couvert. Son arme de prédilection ? Le maquillage asymétrique pour tromper les dispositifs biométriques de reconnaissance faciale. Trois de ses fondatrices, Emily Roderick, Georgina Rowlands et Anna Hart, nous racontent.

    Août 2019. Le quartier de King’s Cross à Londres prévoit de déployer un système de #caméras de #surveillance utilisant la reconnaissance faciale sans consulter les #habitants. Les masques ne font pas encore partie de leur quotidien, mais le #collectif d’artistes The #Dazzle_Club s’interroge : « peut-on encore être libres dans l’espace public ? »

    Affublées de maquillages mystérieusement graphiques, Emily Roderick, Georgina Rowlands, Anna Hart et Evie Price se mettent alors à marcher, en silence, dans les rues de la capitale. Derrière la performance artistique se cache une véritable technique de camouflage, CV Dazzle, développée en 2010 par le chercheur Adam Harvey. Le but ? Protéger nos visages des algorithmes de reconnaissance faciale.

  • Semer le trouble. #Soulèvements, #subversions, #refuges

    On étouffe. La situation n’est pas tenable. Nous courons à la catastrophe. L’effet de sidération paralyse les velléités d’action. Ce contre quoi nous avons des raisons de nous insurger semble se fondre dans un même mouvement global, une lame de fond irrépressible. Quels moyens possédons-nous pour semer le trouble dans la mécanique des rapports de domination ? Ce numéro fait appel à notre expérience collective des techniques de lutte et enquête sur les foyers de résistance qui s’élaborent et opposent aux gouvernementalités de nouvelles priorités, d’autres perspectives. Les collectifs travaillent leurs outils autant que leurs convictions ; ils suspendent le temps, par adaptation ou détournement de choses et de dispositifs. Comment la « mésentente », qui vient troubler l’idylle consensuelle de la politique, se trouve-t-elle instruite et équipée par les gestes et les instruments propres aux mouvements de lutte ?
    Ce numéro est élaboré dans le contexte de la mobilisation contre des réformes qui mettent en danger la vitalité de l’enseignement supérieur et de la recherche. Par cette matérialisation, en revue, d’un désaccord têtu, Techniques&Culture propose un répertoire non exhaustif des actions qui sèment et cultivent le trouble.

    https://journals.openedition.org/tc/14102

    Sommaire :

    Annabel Vallard, Sandrine Ruhlmann et Gil Bartholeyns
    Faire lutte

    Matthieu Duperrex et Mikaëla Le Meur
    Matières à friction et techniques de lutte [Texte intégral]
    –—
    Voies du #soulèvement

    François Jarrige
    #Sabotage, un essai d’archéologie au xixe siècle

    Maxime Boidy
    Qu’est-ce qu’un #bloc en politique ?

    Violaine Chevrier
    Occuper et marquer l’#espace. Des « #cortèges_de_tête » aux #Gilets_jaunes à #Marseille

    –—
    Fragments de lutte

    Başak Ertür
    La #barricade

    Lucille Gallardo
    Simuler et politiser la mort : le #die-in

    Claire Richard
    Les #Young_Lords et l’offensive des #poubelles

    Thomas Billet, Leny Dourado et Agnès Jeanjean
    La #colère des #blouses_blanches

    Sandra Revolon
    #Game_of_Thrones

    Magdalena Inés Pérez Balbi
    « Que le pays soit leur prison ». Les #escraches contre les génocidaires en #Argentine

    Yann Philippe Tastevin
    Le pneu au piquet

    –—

    #Arts de la subversion

    Catherine Flood
    #Disobedient_Objects. Exposition indisciplinée

    Umberto Cao
    « Résistances électriques » Le mouvement “Luz y Fuerza del Pueblo” au #Chiapas (Mexique)

    Lucie Dupré
    Faire lutte de tout arbre

    Thomas Golsenne
    Politiques de la #craftification

    –—

    Fragments de lutte

    Zoé Carle
    Affiche-action ! La longue histoire des luttes contre le #logement_indigne à Marseille

    Élisabeth Lebovici
    « Je suis… Et vous… »

    Jean-Paul Fourmentraux
    La #sous-veillance, Paolo Cirio

    Nicolas Nova et Félicien Goguey
    Le #black_fax et ses dérivés

    Pierre-Olivier Dittmar
    Du mur de post-it à l’ex-voto. Les signes publics des #émotions_politiques

    Mikaëla Le Meur
    À cause de #Macron. La #désobéissance en kit

    Georges Favraud
    Du #conflit public à la force des intériorités. Stratégies taoïstes de la lutte

    –—

    Refuges et pratiques réparatrices

    Perrine Poupin
    Prendre soin des manifestants. Les #street-medics dans le mouvement des Gilets jaunes

    Joanne Clavel et Camille Noûs
    #Planetary_Dance d’#Anna_Halprin. Étoile d’une constellation kinesthésique et écologique

    Madeleine Sallustio
    #Moissons conviviales. Chercher l’#autonomie en #collectif_néo-paysan

    Raphaële Bertho et Jürgen Nefzger
    Jürgen Nefzger, activiste visuel sur le terrain de la tradition paysagère

    –---
    Fragments de lutte
    Sandrine Ruhlmann
    Composer pour résister ou exister en #Mongolie

    Sébastien Galliot
    Plein le dos. Un réseau militant de chair et de papier

    Soheil Hajmirbaba et Le consortium Où Atterrir ?
    S’orienter dans la description de nos terrains de vie

    Irène Hirt et Caroline Desbiens
    Exister sur la mappemonde. Cartographies autochtones

    Edgar Tasia
    Le #Gamarada. Dispositif de #résilience, incubateur de #résistance

    Florent Grouazel
    Les subsistances

    #revue #résistance #lutte #luttes

    ping @karine4 @isskein

    • Techniques & Culture 74. Semer le trouble

      Si la situation n’est pas tenable, et si nous courons à la catastrophe, comment lutter contre la marche des choses ? Quels outils, quels moyens possédons-nous pour semer le trouble dans la mécanique des rapports de domination ? Ce numéro fait appel à notre expérience collective des formes de lutte, enquêtant sur les foyers de résistance, même circonscrits, même temporaires, qui s’élaborent et opposent aux gouvernementalités de nouvelles priorités, d’autres perspectives.

      https://www.youtube.com/watch?v=es7Yxc1KKQI&feature=youtu.be

  • Anthropologists Are Talking – About Capitalism, Ecology, and Apocalypse
    https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00141844.2018.1457703
    https://www.tandfonline.com/doi/cover-img/10.1080/retn20.v083.i03

    The ‘Plantationocene’ is therefore for me a more productive concept than the ‘Capitalocene’, as coined by Moore and others (Moore 2016) even though it was at some point a nice alternative to the Anthropocene. Plantationocene is productive because it refers to a certain, historically specific, way of appropriating the land, namely an appropriation of land as if land was not there. The Plantationocene is a historical ‘de-soilization’ of the Earth. And it is striking how much analytical work is now needed to re-localise, to re-territorialise and re-earth, to ‘re-ground’, basically, practice. What is needed, I think, is an inversion of materialism. For capitalism was supposed to be purely materialist but suddenly we read in it a completely idealistic idea of what the world is made of.

    #capitalisme #écologie #apocalypse #bruno_latour #isabelle_stengers #anna_tsing #plantationocene

  • #Anna_Moore : « Chaque agresseur devient plus instable » : la vérité sur la montée révoltante des meurtres par violence conjugale
    https://tradfem.wordpress.com/2020/04/30/chaque-agresseur-devient-plus-instable-la-verite-sur-la-montee-re

    Au cours des quatre premières semaines de confinement au Royaume-Uni, on considère que 13 femmes et quatre enfants ont été tuées par des hommes, la plupart alors qu’elles étaient confinées chez elles – soit le double de la moyenne (déjà hallucinante) de deux femmes par semaine. Au cours de la même période, les services de soutien aux femmes signalent des nombres records d’appels à l’aide. Les appels aux lignes d’assistance téléphonique pour les victimes de violence conjugale ont augmenté de 120 %, tandis que l’achalandage de leurs sites web a triplé. Il y a une demande sans précédent de places dans les refuges. Les enfants sont eux aussi plus vulnérables que jamais. Certains services sociaux ont signalé qu’avant les vacances de Pâques, le nombre d’« enfants à risque » qui se sont vu attribuer une place à l’école et qui s’y présentent effectivement était tombé en dessous de 10 %. Dans certaines écoles, il était passé à zéro.

    J’ai lu les rapports sur ces « meurtres de confinement » et sur des femmes qui ont désespérément besoin d’aide, et leur situation est toujours décrite comme celle de personnes qui vivent sous pression dans des circonstances extraordinaires et qui ‘pètent un câble’ », explique Mme Young, qui dirige maintenant un réseau de soutien informel pour les femmes comme elle. « Quand vous le vivez, ce n’est pas du tout comme ça. C’est à propos de comment se comportent les conjoints agresseurs en secret, lorsque tout le monde regarde ailleurs. Il s’agit de quelqu’un qui utilise chaque changement de circonstances comme un levier et qui s’adapte à chaque nouveau mode de vie en resserrant massivement son contrôle. »

    Traduction : #Tradfem
    Version originale : https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2020/apr/22/every-abuser-is-more-volatile-the-truth-behind-the-shocking-rise-of-dom
    #Covid-19 #violences_masculines #féminicide #confinement

  • #Anna_Wilkins : Les crimes haineux contre les lesbiennes sont en hausse
    https://tradfem.wordpress.com/2020/05/01/les-crimes-haineux-contre-les-lesbiennes-sont-en-hausse

    Pour la deuxième année consécutive, l’organisation française SOS Homophobie publie les chiffres des actes de harcèlement à l’encontre des femmes lesbiennes enregistrés durant un an. Et les résultats sont très inquiétants : entre 2017 et 2018, les actes haineux envers les lesbiennes ont augmenté de 42 %. Au total, 365 cas ont été enregistrés, soit en moyenne une par jour.

    Ces chiffres incluent une grande variété d’agressions, allant du rejet à la discrimination, en passant par les insultes et la violence physique. Selon les chiffres publiés par l’organisation, 28 % de ces actes ont eu lieu en ligne, 14 % dans des familles, 13 % dans des lieux publics et 10 % au travail.

    SOS Homophobie n’a pas été en mesure de déterminer si cette énorme augmentation était due à une hausse réelle des agressions contre les victimes ou si davantage de personnes ont simplement décidé d’en parler. Dans tous les cas, les agressions étaient réelles. Plusieurs victimes ont également accepté la demande de l’organisation de parler de leur expérience.

    Traduction : #Tradfem
    Version originale : https://www.gentside.co.uk/news/anti-lesbian-hate-crimes-are-on-the-rise_art3568.html
    #sos-homophobie #lesbophobie #violences_masculines