• Firenze, lettera al questore: «Ridurre drasticamente i tempi di attesa del permesso di soggiorno»
    https://www.meltingpot.org/2024/03/firenze-lettera-al-questore-ridurre-drasticamente-i-tempi-di-attesa-del-

    I tempi di attesa per il rilascio del permesso di soggiorno sono un problema scandaloso e strutturale, uno dei tanti emblemi che ci spiegano il modo in cui le istituzioni considerano le persone straniere, ossia lavoratori e lavoratrici che stanno garantendo al sistema economico italiano di non collassare e che, in termini di diritti, tutele e salario, tornano a loro a malapena le briciole. A Firenze, città in cui dopo la strage lavorativa del 16 febbraio scorso si è parlato, spesso a sproposito, del nesso tra lavoro, regolarità del soggiorno e sicurezza, 21 organizzazioni del territorio provinciale hanno indirizzato (...)

    #Approfondimenti #Rapporti_e_dossier #Oiza_Q._Obasuyi

  • Ferrara, manifestazione regionale contro l’apertura del CPR
    https://www.meltingpot.org/2024/02/ferrara-manifestazione-regionale-contro-lapertura-del-cpr

    Manifestazione regionale a Ferrara contro i C.P.R. promossa per sabato 2 marzo alle ore 15 da una variegata rete di oltre 50 associazioni e organizzazioni della società civile ferrarese che in questi mesi si sono mobilitate contro l’ipotesi di apertura di un nuovo Centro di Permanenza per il Rimpatrio, chiedendo nel contempo la chiusura di quelli esistenti. Una protesta a cui hanno aderito realtà sociali da tutta l’Emilia-Romagna che stanno condividendo un percorso regionale “No CPR” che, partito lo scorso ottobre con la manifestazione di Bologna, ha promosso diversi appuntamenti di mobilitazione e approfondimento. Ferrara, guidata dal leghista Alan (...)

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • #Radio_Melting_Pot: i nuovi episodi on line dal 26 febbraio
    https://www.meltingpot.org/2024/02/radio-melting-pot-i-nuovi-episodi-on-line-dal-26-febbraio

    Per partire con la nuova stagione 2024/2025 del progetto di #Radio_Melting_Pot abbiamo scelto una data simbolica: il 26 febbraio infatti sarà passato un anno da quella maledetta notte della strage di Cutro. Partiremo dunque da qui, da quei luoghi da cui in realtà non ce ne siamo mai andati: quel pezzo di spiaggia sferzata dal vento, quel palazzetto dello sport trasformato in una grande camera mortuaria a Crotone. Luoghi di dolore, di rabbia e di resistenza. Questa nuova stagione prevede la realizzazione di 8 episodi, due dei quali racconteranno due luoghi di frontiera. La prima call pubblica, che

    #Approfondimenti #Interviste

  • «Siamo vite sotto minaccia»
    https://www.meltingpot.org/2024/02/siamo-vite-sotto-minaccia

    di Monica Serrano Sul ciglio della strada lungo via Casilina, nel quartiere di Torpignattara, si sentono rumori laboriosi. È in corso la ristrutturazione dell’Associazione Dhuumcatu, in bengalese “Stella cometa” – un gruppo di persone straniere attive da più di un decennio in questo quartiere periferico di Roma, prima all’Esquilino e ancor prima ad Anagnina. Una lunga storia che tocca le zone della città più abitate dalle persone migranti e dove la ricerca di lavoro, il diritto alla casa e alla vita famigliare si uniscono alla lotta per un pezzo di carta che fa la differenza, il permesso di soggiorno. (...)

    #Approfondimenti #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • Il processo ai capitani di Napoli: criminalizzazione delle migrazioni e della solidarietà
    https://www.meltingpot.org/2024/02/il-processo-ai-capitani-di-napoli-criminalizzazione-delle-migrazioni-e-d

    Nell’ultimo decennio, l’Italia ha fermato migliaia di persone solamente per aver guidato una barca che ha attraversato il Mar mediterraneo: i cosiddetti ‘scafisti’. Sono state arrestate più di 3.200 persone, 1.000 di queste sono ancora in carcere. In questo comunicato congiunto di Legal Clinic Roma 3, Arci Porco Rosso, ASGI, Antigone Campania, Mem.Med – Memoria Mediterranea, la denuncia dell’apertura di un nuovo processo a Napoli contro 3 capitani, in un’escalation di criminalizzazione nei confronti delle persone migranti che diventano i perfetti capri espiatori. Il 14 febbraio ha preso avvio, davanti al Tribunale di Napoli, il processo a tre giovani (...)

    #Approfondimenti #Rapporti_e_dossier #In_mare #Rossella_Marvulli

  • Solidarietà con le persone rinchiuse nel CPR di Macomer in Sardegna
    https://www.meltingpot.org/2024/02/solidarieta-con-le-persone-rinchiuse-nel-cpr-di-macomer-in-sardegna

    Nei giorni scorsi un incendio all’interno della struttura ha reso inagibile un settore del centro. Macomer diventa CPR nel gennaio 2020. È l’unico in Italia a nascere come carcere di massima sicurezza, con spazi particolarmente costrittivi e opprimenti. La struttura è gestita attualmente dalla Ekene Onlus Cooperativa Sociale». Ekene con sede in Veneto è l’attuale ente gestore del CPR di Gradisca e diretta emanazione della coop. Edeco (ex Ecofficina).Con la nuova legge di bilancio al CPR di Macomer sono destinati circa 6,5 milioni di euro, ma questi soldi non riguardano in alcun modo l’erogazione dei servizi alle persone recluse, (...)

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Redazione

  • Cronache di resistenza a Milano
    https://www.meltingpot.org/2024/02/cronache-di-resistenza-a-milano

    di Luna Selimovic e Sofia Mele Nel pomeriggio di giovedì 8 febbraio il grido dellə attivistə della città di Milano si è unito al coro delle proteste indette a Roma a seguito del suicidio di Ousmane Sylla nel CPR di Ponte Galeria. Numerose sono state le persone solidali accorse alla chiamata del presidio indetto dalla Rete Mai più Lager – No ai CPR per esprimere la rabbia e il dolore e rileggere ancora una volta insieme le parole di Ousmane scritte sul muro del CPR. Dopo la notizia dell’ennesima morte, il presidio sostiene ancora più fermamente l’importanza di denunciare la

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • ​​Tra le macerie del CPR di Milo: voci da un’indegna reclusione, mentre la CEDU condanna l’Italia
    https://www.meltingpot.org/2024/02/tra-le-macerie-del-cpr-di-milo-voci-da-unindegna-reclusione-mentre-la-ce

    Un testo congiunto di ARCI, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Borderline Europe, Campagna LasciateCIEntrare, Maldusa, Mem.Med – Memoria Mediterranea: “La Corte Europea dei Diritti Umani ha ordinato al Governo italiano l’immediato trasferimento dal CPR di Trapani di una persona trattenuta in condizioni materiali degradanti. Una sentenza che riguarda quanto accaduto al CPR di Milo nell’ultima settimana di gennaio e che riteniamo indispensabile ricostruire e condividere grazie alle voci delle persone trattenute”. Un cittadino tunisino richiedente asilo, insieme a numerose altre persone, a seguito dell’incendio del 22 gennaio, era trattenuto in condizioni degradate e totalmente inadeguate, senza alcuna (...)

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • #Pénuries : des grains de sable dans la machine

    Depuis le 17 janvier, on trouve dans toutes les bonnes librairies le dernier #livre de notre contributeur #Renaud_Duterme. #Mondialisation, réseaux d’#approvisionnement, goulots d’étranglement… Voici, en quelques paragraphes, un aperçu du contenu de « Pénuries. Quand tout vient à manquer » (éd. Payot).

    Pénurie. Un mot que l’on croyait appartenir au passé. Mais que plusieurs événements (pandémie de Covid-19, blocage du canal de Suez, guerre en Ukraine) ont fait revenir sur le devant de l’actualité. Énergie, matières premières, denrées alimentaires, médicaments, matériaux de construction, pièces automobiles, puces électroniques, main d’œuvre, aucun secteur ne semble épargné par cette tendance préoccupante.

    Un approvisionnement sous tension

    La quasi-totalité des biens que nous achetons et utilisons nous parviennent via des #chaînes_d’approvisionnement aussi longues que complexes. Elles sont composées de multiples maillons, allant de l’extraction de matières premières (minerais, produits agricoles, énergie) et leur transformation, jusqu’à l’acheminement vers les rayons des supermarchés, en passant par la fabrication, l’entreposage et, bien sûr, le transport. Le tout fonctionnant en #flux_tendu (la logique de stock ayant laissé la place à un acheminement quotidien), principalement grâce au développement de la #conteneurisation et du #transport routier. Le maître mot de cette #logistique est la #fluidité. Le moindre grain de sable peut gripper toute la machine, a fortiori s’il n’est pas résorbé rapidement.

    Car mondialisation capitaliste oblige, les différentes étapes de ces chaînes d’approvisionnement ont été de plus en plus éloignées les unes des autres, augmentant les risques de #perturbations par #effet_domino. Conflits, catastrophes naturelles, aléas climatiques, grèves, attentats, cyber-attaques, épidémies, autant d’événements pouvant « gripper » un maillon de la chaîne (voire plusieurs) et par là provoquer des goulots d’étranglement remettant en question le fonctionnement même de l’#économie. Ces #goulots semblent se multiplier depuis quelques années et il est fort probable que cela ne soit qu’un début, tant de nombreuses ruptures se dessinent, causées par des limites géophysiques (épuisement des ressources), des dérèglements climatiques (sécheresses et inondations), la chute des rendements agricoles, des tensions socio-économiques (mouvements sociaux, grèves, manque de main d’œuvre, vieillissement de la population, montée des replis identitaires) ou encore géopolitiques (guerres et conflits divers).

    Rien que ces derniers mois, on peut évoquer l’assèchement du canal de Panama engendrant une réduction du nombre de navires pouvant l’emprunter quotidiennement ; les attaques des Houthis en mer Rouge contre des navires commerciaux, ce qui a contraint de nombreux armateurs à faire contourner l’Afrique à leurs navires ; ou encore les grèves et les blocages émanant du monde agricole qui, s’ils accentuaient, pourraient priver certains territoires d’approvisionnement divers. Rappelons que les cent premières villes de France ont seulement trois jours d’autonomie alimentaire, avec 98% de leur nourriture importée[1].

    Jusqu’ici, les tensions ont été en partie surmontées et n’ont pas débouché sur des ruptures majeures, matérialisées par des pénuries durables. Mais leur multiplication est un phénomène inquiétant et l’analyse objective des risques laisse supposer une aggravation et surtout une interconnexion entre des phénomènes a priori distincts les uns des autres. C’est d’autant plus vrai qu’un couac peut engendrer des perturbations bien plus longues que le problème en tant que tel, les retards s’accumulant à chaque étape, le redémarrage de la machine pouvant mettre plusieurs mois, voire années, pour retrouver la fluidité qui fait sa raison d’être.

    Ironie du sort, ces tensions impactent de nombreux éléments sans lesquels la logistique elle-même serait impossible. Les palettes, conserves, conteneurs, véhicules, emballages et cartons sont aussi fabriqués de façon industrielle et nécessitent des composants ou des matières souvent issus de pays lointains et dont le transport et les procédés de fabrication impliquent de grandes quantités d’énergie et de ressources (métaux, bois, eau, etc.).

    Idem pour la main d’œuvre nécessaire au bon fonctionnement des infrastructures qui nous entourent. La colère des agriculteurs est là pour nous rappeler que ces dernières dépendent in fine de travailleurs agricoles, de chauffeurs (deux professions qui ont bien du mal à trouver une relève auprès des jeunes générations), mais aussi d’employés de supermarché, d’exploitants forestiers, d’ouvriers du bâtiment, de magasiniers d’entrepôts logistiques, etc.

    Le ver était dans le fruit

    Ces #vulnérabilités sont loin d’être une fatalité et découlent d’une vision de la mondialisation au sein de laquelle les forces du marché jouissent d’une liberté quasi-totale, ce qui a engendré une multinationalisation des entreprises, la création de zones de libre-échange de plus en plus grandes et la mainmise de la finance sur les grands processus productifs. Des principes se sont peu à peu imposés tels que la spécialisation des territoires dans une ou quelques productions (particulièrement visible en ce qui concerne l’agriculture) ; la standardisation à outrance permettant des économies d’échelles ; la liberté des mouvements de capitaux, engendrant des phénomènes spéculatifs à l’origine de la volatilité des prix de nombreuses matières premières ; la mise en concurrence de l’ensemble des territoires et des travailleurs ; et bien sûr l’interdépendance mutuelle.

    Ces principes entrainent des conséquences dramatiques chez un nombre croissant de personnes, entraînant une perte de légitimité du système en place, ce qui risque également d’alimenter des tensions sociales et géopolitiques déjà existantes, perturbant un peu plus ces chaînes logistiques. À titre d’exemple, les politiques de fermeture des frontières prônées par de plus en plus de gouvernements national-populistes priveraient les pays qui les appliquent de milliers de travailleurs, conduisant à des pénuries de main d’œuvre dans de nombreux secteurs.

    Démondialiser les risques

    En outre, avoir un regard global sur nos systèmes d’approvisionnement permet de (re)mettre certaines réalités au cœur des analyses. Il en est ainsi de cycles de production concernant les différents objets qui nous entourent. De l’origine des composants nécessaires à leur fabrication. Des impacts écologiques et sociaux présents à toutes les étapes de ces cycles. Des limites du recyclage. De la fable que constitue le découplage[2], cette idée selon laquelle il serait possible de croître économiquement tout en baissant les impacts environnementaux. Des limites physiques et sociales auxquelles va se heurter la poursuite de notre consommation.

    Pour ce faire, il importe de populariser de nombreux concepts tels que l’#empreinte_matière (qui tente de calculer l’ensemble des ressources nécessaires à la fabrication d’un bien), l’#énergie_grise et l’#eau_virtuelle (respectivement l’énergie et l’eau entrant dans les cycles d’extraction et de fabrication d’un produit), le #métabolisme (qui envisage toute activité humaine à travers le prisme d’un organisme nécessitant des ressources et rejetant des déchets), la #dette_écologique (qui inclut le pillage des autres pays dans notre développement économique) ou encore l’#extractivisme (qui conçoit l’exploitation de la nature d’une façon comptable).

    Et par là aller vers plus d’#autonomie_territoriale, en particulier dans les domaines les plus élémentaires tels que l’#agriculture, l’#énergie ou la #santé (rappelons qu’environ 80% des principes actifs indispensables à la plupart des médicaments sont produits en Chine et en Inde)[3].

    Dans le cas contraire, l’#anthropocène, avec ses promesses d’abondance, porte en lui les futures pénuries. Le monde ne vaut-il pas mieux qu’un horizon à la Mad Max ?

    https://blogs.mediapart.fr/geographies-en-mouvement/blog/300124/penuries-des-grains-de-sable-dans-la-machine

    #pénurie #mondialisation #globalisation

    • Pénuries. Quand tout vient à manquer

      Comment s’adapter aux ruptures qui nous attendent dans un monde en contraction

      Saviez-vous que la plupart des villes ne survivraient que deux à trois jours sans apport extérieur de nourriture ? Qu’un smartphone nécessite des métaux rares issus des quatre coins du monde ? Et que 80% des principes actifs nécessaires à la fabrication de nos médicaments sont produits en Chine et en Inde ? La quasi-totalité des biens que nous achetons parviennent jusqu’à nous via des chaînes d’approvisionnement aussi complexes que lointaines, de l’extraction et la transformation de matières premières (minerais, produits agricoles, énergie) à l’acheminement de produits finis vers nos supermarchés. Ce qui, mondialisation capitaliste oblige, augmente les risques de vulnérabilité de ces chaînes par effet domino.
      Nous expérimentons déjà ces pénuries que nous vivons mal, habitués à une société de flux ininterrompu. Or elles vont s’aggraver du fait de l’épuisement des ressources, des dérèglements climatiques, des tensions socio-économiques et géopolitiques. Demain, nous allons manquer de riz, de cuivre, de pétrole... Il est donc urgent de nous y préparer et d’envisager un autre système économique afin de rendre nos villes et nos vies plus autonomes et résilientes.

      https://www.payot-rivages.fr/payot/livre/p%C3%A9nuries-9782228934930

  • L’appello alla mobilitazione della Rete 26 febbraio
    https://www.meltingpot.org/2024/01/lappello-alla-mobilitazione-della-rete-26-febbraio

    La rete nata nei giorni dopo il naufragio del 26 febbraio 2023 lancia una mobilitazione a fianco delle famiglie migranti per chiedere canali legali di ingresso, contro le politiche europee dei respingimenti. Sono 2.571 (duemila cinquecento settantuno) le persone morte in mare solo nel 2023, secondo i dati di Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni, e Medici senza frontiere. Tra queste le 94 vittime accertate, uomini, donne, bambini morti e decine di dispersi nel naufragio di Steccato di Cutro del 26 febbraio 2023. Vengono ancora i brividi a ricordare quei giorni di grande rabbia e dolore, mentre dal mare crotonese (...)

    #Approfondimenti #Radio_Melting_Pot

  • Nuovo patto UE: schedare e rimpatriare
    https://www.meltingpot.org/2024/01/nuovo-patto-ue-schedare-e-rimpatriare

    A fine dicembre i ventisei Stati membri dell’Ue hanno concluso un accordo in cinque punti che stravolge la concezione e l’applicazione del diritto europeo: è il nuovo Patto UE sulla migrazione e l’asilo le cui ripercussioni saranno molte e già si potranno percepire gli effetti nel breve termine. Uno dei punti più dolenti è quello inerente i minori stranieri: le impronte digitali, precedentemente da rilevare solo ai minorenni non inferiori all’età di quattordici anni, verranno prese ai bambini a partire dai sei anni di età. Ci sono dei provvedimenti che sono la metafora del modus operandi del governante e questo è (...)

    #Approfondimenti #Liliya_Chorna

  • Spagna condannata per il rimpatrio illegale di minori migranti
    https://www.meltingpot.org/2024/01/spagna-condannata-per-il-rimpatrio-illegale-di-minori-migranti

    La Corte suprema ha stabilito che questi rimpatri devono essere conformi alla legislazione spagnola e alle sue garanzie e non possono basarsi esclusivamente sull’accordo spagnolo-marocchino per il rimpatrio concertato dei minori. Sottolinea inoltre che si è trattato anche di un’espulsione collettiva di stranieri vietata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ceuta. La Camera amministrativa della Corte Suprema spagnola ha condannato la Spagna per il rimpatrio di otto minori migranti non accompagnati avvenuto nell’agosto 2021 . Ciò ha fatto seguito alla crisi migratoria del maggio dello stesso anno, in cui circa 12.000 persone, tra cui più di 1.500 minori, hanno (...)

    #Approfondimenti #Alessandra_Pelliccia #Antonio_Sempere_foto_ #Notizie

  • La CPME se félicite de voir le vol à l’étalage désormais sanctionnable d’une amende forfaitaire de 300 euros
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/09/05/la-cpme-se-felicite-de-voir-le-vol-a-l-etalage-desormais-sanctionnable-d-une


    Le président de la Confédération des petites et moyennes entreprises (CPME), François Asselin (à gauche), et le vice-président de la CPME chargé des affaires sociales (sic), Eric Chevee, à Paris, le 12 juillet 2023. BERTRAND GUAY / AFP

    Une circulaire du ministère de la #justice, publiée le 6 juillet, étend le champ d’application de la procédure de l’amende forfaitaire délictuelle en sanctionnant le vol simple « d’une chose dont la valeur n’excède pas 300 euros » .
    Par Aline Leclerc, 05 septembre 2023

    Publiée le 6 juillet, la circulaire du ministre de la justice était un peu passée inaperçue, jusqu’au coup de projecteur donné en cette rentrée par la Confédération des petites et moyennes #entreprises (#CPME) qui, dans un communiqué de presse, le 30 août, s’est réjouie d’avoir obtenu « gain de cause » sur la création d’une amende forfaitaire délictuelle de 300 euros pour sanctionner le vol « d’une chose dont la valeur n’excède pas 300 euros ».

    Le « #vol simple » – l’expression « #vol_à_l’étalage » n’existe pas en tant que telle dans le code pénal – est puni de trois ans d’emprisonnement et de 45 000 euros d’amende.

    L’#amende_forfaitaire_délictuelle (AFD) ouvre désormais la possibilité d’une procédure simplifiée, permettant au policier ou au gendarme qui constate l’infraction (après que le voleur a été attrapé par un vigile ou identifié par la vidéosurveillance) de prononcer directement une sanction pénale, sans juge ni procès, y compris en cas de récidive. Un peu comme la contravention délivrée à l’automobiliste qui vient de brûler un feu.

    Ceci, à condition que le voleur reconnaisse les faits et qu’il ait restitué la « chose » volée à la victime ou au commerçant s’il s’agit d’un vol à l’étalage.

    « Une mesure que nous demandions depuis longtemps »

    « C’est une mesure que nous demandions depuis longtemps, se félicite Xavier Douais, vice-président de la CPME, en charge du #commerce. Car dans les faits, on ne condamne pas à la prison pour un vol de tee-shirt ! Cela se termine souvent en simple rappel à la loi. Donc les commerçants sont découragés de porter plainte [il y en a eu tout de même 41 000 en 2022]. Maintenant, le voleur, même s’il restitue le bien, sera tout de même bien identifié par la #police. Cela me semble dissuasif. »

    Pour lui, c’est la hausse de 14,7 % des vols à l’étalage en 2022 par rapport à 2021, selon les chiffres du ministère de l’intérieur, qui a fini par convaincre le ministère de la justice. Certains y voyant un lien direct avec l’inflation et les difficultés de pouvoir d’achat. Un chiffre cependant en baisse de 17 % si l’on compare avec 2019, période pré-Covid-19 et pré-inflation, rappelait La Croix en mars.

    « L’objectif poursuivi est d’apporter une réponse pénale ferme et rapide au phénomène délinquant du vol à l’étalage, contentieux de masse, qui reçoit aujourd’hui une réponse pénale insatisfaisante », précise la doctrine d’emploi de la circulaire. Qui indique que les procureurs de la République peuvent définir « en fonction des spécificités locales » des seuils ou des objets à exclure du recours à l’amende forfaitaire délictuelle, comme « les denrées alimentaires ».

    La procédure de l’amende forfaitaire délictuelle voit donc son champ d’application étendu, alors que le 30 mai, dans une décision cadre, la Défenseure des droits demandait au contraire de « mettre fin » à son utilisation. Saisie « de nombreuses réclamations », elle dénonçait notamment « les risques d’arbitraire » et l’atteinte à des principes fondamentaux de la procédure pénale, comme « le droit de la #défense » et « l’individualisation des peines ».

    edit cet énième succès patronal aurait pu passer inaperçu si il n’avait pas été fièrement revendiqué.

    #économie #appropriation #délinquance_de_masse #alimentation #commerçants #droit_de_la_défense #guerre_aux_pauvres

  • Minori non accompagnati: senza tutele e diritti, abbandonati in hotspot e grandi centri
    https://www.meltingpot.org/2024/01/minori-non-accompagnati-senza-tutele-e-diritti-abbandonati-in-hotspot-e-

    Da queste pagine, in diversi articoli, abbiamo descritto le modifiche normative varate dal governo Meloni nel corso del 2023 e le prassi che ostacolano il diritto di asilo e l’accesso al sistema di accoglienza. In evidente affanno nel mantenere promesse ideologiche e propagandistiche di “blocco navale”, i vari decreti-legge emanati d’urgenza sono stati utilizzati soprattutto per dare l’impressione che la situazione fosse comunque sotto controllo e che qualcosa si stava pur facendo. Il risultato si può definire senza mezzi termini un disastro normativo, i cui effetti stanno producendo gravi problematicità: per il cosiddetto decreto Cutro sono visibili soprattutto nel (...)

    #Approfondimenti #Guida_legislativa #CPR,_Hotspot,_CPA

  • #Violences et fabrique de la #subalternité_foncière à #Sihanoukville, Cambodge

    Depuis le milieu des années 2010, la ville de Sihanoukville au Cambodge, principal #port du pays et petit centre de villégiature, fait l’objet d’un #développement_urbain éclair porté par la construction de nouvelles infrastructures de transport et de zones logistiques, de casinos (plus de 150 nouveaux casinos depuis 2015) et la mise en place de #mégaprojets_immobiliers à vocation touristique qui nourrissent une #spéculation_foncière galopante. Ces transformations territoriales sont notamment le fruit d’une coopération technique, politique et économique entre le Cambodge et la #Chine au nom de la #Belt_and_Road_Initiative, la nouvelle politique étrangère globale chinoise lancée en 2013 par #Xi_Jinping. Pour le gouvernement cambodgien, Sihanoukville et sa région doivent devenir, au cours de la prochaine décennie, la seconde plateforme économique, logistique et industrielle du pays après Phnom Penh, la capitale (Royal Government of Cambodia, 2015). Ce développement urbain très rapide a entraîné une évolution concomitante des logiques d’échange et de valorisation des #ressources_foncières. Comme le relève régulièrement la presse internationale, il nourrit d’importants #conflits_fonciers, souvent violents, dont pâtissent en premier lieu les habitants les plus pauvres.

    Cette recherche veut comprendre la place et le rôle de la violence dans le déploiement des mécanismes d’#exclusion_foncière à Sihanoukville. Pour reprendre les mots de Fernand Braudel (2013 [1963]), alors que ces #conflits_fonciers semblent surgir de manière « précipitée », notre recherche montre qu’ils s’inscrivent aussi dans les « pas lents » des relations foncières et de la fabrique du territoire urbain. Dans ce contexte, le jaillissement des tensions foncières convoque des temporalités et des échelles variées dont la prise en compte permet de mieux penser le rôle de la violence dans la production de l’espace.

    Les processus d’exclusion foncière au Cambodge s’inscrivent dans une trajectoire historique particulière. Le #génocide et l’#urbicide [1] #khmers_rouges entre 1975 et 1979, l’abolition de la #propriété_privée entre 1975 et 1989 et la #libéralisation très rapide de l’économie du pays à partir des années 1990 ont posé les jalons de rapports fonciers particulièrement conflictuels, tant dans les espaces ruraux qu’urbains (Blot, 2013 ; Fauveaud, 2015 ; Loughlin et Milne, 2021). Ainsi, l’#appropriation, l’#accaparement et la #valorisation des ressources foncières au Cambodge, et en Asie du Sud-Est en général, s’accompagnent d’une importante « #violence_foncière » tant physique (évictions et répression) que sociale (précarisation des plus pauvres, exclusion sociale), politique (criminalisation et dépossession des droits juridiques) et économique (dépossession des biens fonciers et précarisation).

    Cet article souhaite ainsi proposer une lecture transversale de la violence associée aux enjeux fonciers. Si la notion de violence traverse la littérature académique portant sur les logiques d’exclusion foncière en Asie du Sud-Est (Hall, Hirsch et Li, 2011 ; Harms, 2016) ou dans le Sud global plus généralement (Peluso et Lund, 2011 ; Zoomers, 2010), peu de recherches la placent au cœur de leurs analyses, malgré quelques exceptions (sur le Cambodge, voir notamment Springer, 2015). Par ailleurs, la violence est souvent étudiée en fonction d’ancrages théoriques fragmentés. Ceux-ci restent très divisés entre : 1) des travaux centrés sur le rôle de l’État et des systèmes de régulation (notamment économiques) dans le déploiement de la violence foncière (Hall, 2011 ; Springer, 2013) ; 2) des analyses politico-économiques des formes de dépossession liées aux modes de privatisation du foncier, à la propriété et à l’accumulation du capital, parfois resituées dans une lecture historique des sociétés coloniales et postcoloniales (voir par exemple Rhoads, 2018) ; 3) des approches considérant la violence comme stratégie ou outil mobilisés dans la réalisation de l’accaparement foncier et la répression des mouvements sociaux (voir par exemple Leitner and Sheppard, 2018) ; 4) des analyses plus ontologiques explorant les processus corporels, émotionnels et identitaires (comme le genre) qui découlent des violences foncières ou conditionnent les mobilisations sociales (voir par exemple Brickell, 2014 ; Schoenberger et Beban, 2018).

    Malgré la diversité de ces approches, la notion de violence reste principalement attachée au processus de #dépossession_foncière, tout en étant analysée à une échelle temporelle courte, centrée sur le moment de l’#éviction proprement dit. Dans cet article et à la suite de Marina Kolovou Kouri et al. (2021), nous défendons au contraire une approche multidimensionnelle des violences foncières analysées à des échelles temporelles et spatiales variées. Une telle transversalité semble indispensable pour mieux saisir les différentes forces qui participent de la construction des violences et de l’exclusion foncières. En effet, si les conflits fonciers sont traversés par diverses formes de violences, celles-ci ne découlent pas automatiquement d’eux et sont également déterminées par le contexte social, économique et politique qui leur sert de moule. Ces violences restent ainsi attachées aux différents #rapports_de_domination qui organisent les #rapports_sociaux en général (Bourdieu, 2018 [1972]), tout en représentant une forme d’#oppression à part entière participant des #inégalités et #injustices sociales sur le temps long (Young, 2011).

    Nous voyons, dans cet article, comment des formes de violence variées structurent les rapports de pouvoir qui se jouent dans l’appropriation et la valorisation des ressources foncières, ainsi que dans la régulation des rapports fonciers. Nous montrons que ces violences servent non seulement d’instrument d’oppression envers certains groupes de populations considérés comme « indésirables », mais aussi qu’elles les maintiennent dans ce que nous nommons une « subalternité foncière ». En prenant appui sur Chakravorty Spivak Gayatri (2005) et Ananya Roy (2011), nous définissons cette dernière comme la mise en place, sur le temps long et par la violence, d’une oppression systémique des citadins les plus pauvres par leur #invisibilisation, leur #criminalisation et l’#informalisation constante de leurs modes d’occupations de l’espace. La #subalternité foncière représente en ce sens une forme d’oppression dont la violence est l’un des dispositifs centraux.

    Cet article s’appuie sur des recherches ethnographiques menées à Phnom Penh et à Sihanoukville, entre 2019 et 2021. Elles comprennent un important travail d’observation, la collecte et l’analyse de documents officiels, de rapports techniques, d’articles de presse et de discours politiques, ainsi que la réalisation de près de soixante-dix entretiens semi-directifs (effectués en khmer principalement, parfois en mandarin, et retranscrits en anglais) auprès d’habitants de Sihanoukville, de représentants territoriaux locaux, d’experts et de membres de groupes criminels. Dans ce texte, le codage des entretiens suit la dénomination suivante : « OF » désigne les employés publics, « EX » des experts ayant une connaissance privilégiée du sujet, « RE » les résidents des zones d’habitat précaire et « F » les acteurs de la criminalité ; le numéro qui suit la lettre est aléatoire et sert à distinguer les personnes ayant répondu à l’enquête ; vient ensuite l’année de réalisation de l’entretien. De nombreux entretiens avec les habitants ont été conduits en groupe.

    https://www.jssj.org/article/violences-et-fabrique-de-la-subalternite-fonciere

    #foncier #Cambodge #Chine #violence

  • Spagna, costa meridionale: gettati #In_mare in una brutale azione di traffico di essere umani
    https://www.meltingpot.org/2023/12/spagna-costa-meridionale-gettati-in-mare-in-una-brutale-azione-di-traffi

    Cádiz, 1 dicembre – Tragica vicenda nella crisi migratoria al confine meridionale dell’Europa: quattro persone migranti hanno perso la vita e altre tre sono state ricoverate in ospedale dopo essere state gettate in mare al largo delle spiagge di San Fernando e Chiclana, in Andalusia. Secondo alcune fonti a conoscenza del caso, i migranti, insieme ad altri 23, sono stati costretti a saltare da un “narco-gommone” sotto la minaccia di un coltello da trafficanti senza scrupoli. Il primo di questi “narco-gommoni”, con 27 persone migranti a bordo, si è avvicinato alla spiaggia di Camposoto, vicino a Punta del Boquerón. (...)

    #Approfondimenti #Albertina_Sanchioni

  • Le #Logement_d'abord saisi par ses destinataires

    « Le Logement d’abord saisi par ses destinataires » est une recherche en sciences sociales engagée en 2019 par l’équipe de la Chaire PUBLICS des politiques sociales (laboratoire de sciences sociales Pacte, Université Grenoble Alpes) : https://cpublics.hypotheses.org. Elle a suivi, par des entretiens répétés, des personnes accompagnées dans le cadre de dispositifs et actions développées dans le cadre de la mise en œuvre accélérée du Logement d’abord sur les métropoles de Grenoble et Lyon. De manière originale, elle éclaire les expériences et donne à entendre les points de vue des destinataires de cette nouvelle orientation de l’action publique à destination des personnes sans domicile.

    Pour télécharger le rapport :
    https://cpublics.hypotheses.org/files/2023/05/Rapport_LDAdestinataires_VF.pdf

    https://ldadestinataires.sciencesconf.org
    #logement #rapport #recherche #Grenoble #Lyon #housing_first #accès_au_logement #sans-abris #sans-abrisme #logement_à_soi #habitat #bailleurs #meubles #accompagnement #appropriation #tranquillité #solitude #SDF #habitat_précaire #système_d'habitat_précaire #débrouille #abris_de_fortune

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • « Le #bien-être est toxique, transformons-le »

    Chaque mois de septembre, nous sommes des millions à nous inscrire dans des cours de fitness ou de relaxation. Prof de yoga et militante, #Camille_Teste imagine un « #bien-être_révolutionnaire ».

    Reporterre — À chaque rentrée, nous sommes nombreuses et nombreux à nous ruer sur les cours de yoga, fitness et autres coachings. Dans votre livre, vous épinglez ce marché du bien-être, « devenu poule aux œufs d’or du #capitalisme ». En quoi le bien-être est-il le « meilleur ami du #néolibéralisme » ?

    Camille Teste — Le système néolibéral nous considère comme des entreprises individuelles à faire fructifier. On nous enjoint donc de nous « auto-optimiser », afin de devenir « la meilleure version de nous-mêmes », via des pratiques de bien-être. Il s’agit d’être en bonne santé, le plus beau et le plus musclé possible, mais aussi — surtout depuis le Covid — le plus spirituellement développé.

    Cette « #auto-optimisation » a deux intérêts : nous pousser à consommer — le #marché du bien-être générerait près de 5 000 milliards de chiffre d’affaires chaque année dans le monde [1] — et nous enfermer dans une forme d’#illusion. Car derrière cette #idéologie, il y a la promesse du #bonheur. Il suffirait de faire du sport, de la méditation et de bien se nourrir pour être heureux. Or résumer le bonheur à une question d’#effort_individuel relève de l’arnaque. La société capitaliste n’est pas structurée pour notre #épanouissement. On peut faire tout le vélo d’appartement qu’on veut, rien n’y fera, nous ne serons pas heureux.

    Vous écrivez : « Face à la planète qui brûle, nous ne savons que faire. Alors, à défaut de changer l’ordre du monde, nous tentons de nous changer nous-mêmes. » Autrement dit, le néolibéralisme se servirait du bien-être pour évacuer la crise climatique.

    Tout à fait. Le monde est en train de s’écrouler : croire qu’on va régler les grands problèmes du XXIe siècle à coups de pratiques de développement personnel, c’est faux et dangereux. Surtout, ça nous détourne de l’#engagement et de l’#organisation_collective.

    « Un bien-être révolutionnaire favorise les #luttes »

    C’est pour ça que les milieux de gauche et militants regardent avec une très grande méfiance les pratiques de bien-être. Je trouve ça dommage, il me semble qu’elles pourraient nous apporter beaucoup, si elles étaient faites autrement. Le bien-être est ringard, inefficace et toxique ? Transformons-le !

    Ne jetons pas le bébé avec l’eau du bain…

    Oui, les pratiques de bien-être ont tout un tas de #vertus dont il serait dommage de se passer dans la construction d’un autre monde. Elles sont avant tout des pratiques de « #care » [#prendre_soin], et permettent de créer des espaces de douceur, d’attention à l’autre, de soin, où l’on accueille les vulnérabilités. Ce sont aussi des espaces où l’on se sent légitimes à déposer les armes, à se reposer, à ne rien faire, à cultiver le non agir.

    À quoi pourrait ressembler un bien-être révolutionnaire ?

    Ce serait un bien-être qui favorise l’#émancipation_individuelle. Pas juste pour maigrir, être efficace au travail ou pour nous faire accepter la crise climatique. Les pratiques de bien-être peuvent nous libérer, nous faire ressentir plus de #plaisir, plus de puissance dans nos corps…

    Un bien-être révolutionnaire favorise aussi les luttes. Comment faire dans un cours de fitness pour sortir des discours individualisant, pour avoir un discours plus collectif, politique ? Par exemple, plutôt que de rappeler, à l’approche de l’été, l’importance de « se donner à fond pour passer l’épreuve du maillot », on pourrait parler patriarcat et injonction à la minceur.

    Que peuvent apporter les pratiques de bien-être aux luttes ?

    Dans les milieux militants, on s’épuise vite et on reste dans une forme d’#hyperproductivisme chère au capitalisme. Le #burn-out_militant est une réalité : on ne peut pas passer tout son temps à lutter ! Quand un ou une athlète prépare les Jeux olympiques, elle ne fait pas que courir et s’entraîner. Il faut aussi dormir, se relâcher. De la même manière, il est essentiel dans nos luttes d’avoir des espaces de #repos. Toutes les pratiques qui visent la pause, le silence, le non agir — comme le yoga, la méditation, la retraite silencieuse, la sieste, la marche — me semble ainsi intéressantes à explorer.

    Les pratiques de bien-être créent aussi du #commun, du #lien : s’entraider, prendre plaisir à être en groupe, être attentif aux autres, apprendre à communiquer ses besoins, expliciter ses limites. Tous ces outils sont utiles pour des milieux militants qui peuvent être toxiques, où l’on peut vite s’écraser, ne pas s’écouter.

    Certaines #pratiques_corporelles permettent aussi de développer l’intelligence du corps. Ce sont des pratiques de #puissance. Personnellement, depuis que mon corps est assez fort, je ne marche plus devant un groupe de mecs de la même manière ; je me sens davantage capable d’aller en manif, de faire en sorte que mon #corps se frotte aux difficultés. Attention, ça ne veut pas dire que si on fait tous de la muscu, on pourra faire un énorme blocage d’autoroute ! Mais ça peut aider.

    Enfin, il y a aussi une question de #projet_politique. Comment donner envie aux gens de nous rejoindre, d’adhérer ? Un projet à la dure ne va pas convaincre les gens : le côté sacrificiel du #militantisme, ça ne donne pas envie. Il faut une place pour la #joie, le soin.

    Le bien-être, tel qu’il est transmis actuellement, est fait pour les classes dominantes (blanches, riches, valides). Peut-on le rendre plus accessible ?

    Le bien-être est aujourd’hui un produit, une #marchandise, que l’on vend en particulier aux classes moyennes et supérieures. Pourtant, nombre de choses qui nous font du bien ne sont pas forcément des choses chères : faire des siestes, être en famille, mettre de la musique dans son salon pour danser ou marcher dehors.

    Les espaces de bien-être sont très normés du point de vue du corps, avec des conséquences très directes : il est par exemple difficile pour les personnes se sentant grosses de venir dans ces lieux où elles peuvent se sentir jugées. On peut y remédier, en formant les praticiens, en adaptant les espaces : les salles de yoga où l’on considère qu’un mètre carré par personne suffit ne sont pas adéquates. Des flyers montrant des femmes blondes minces dans des positions acrobatiques peuvent être excluants.

    Il s’agit aussi de penser la question de l’#appropriation_culturelle : les pratiques de bien-être piochent souvent dans tout plein de rites culturels sans les comprendre. Il faudrait interroger et comprendre le sens de ce qu’on fait, et les conséquences que cela peut avoir. La diffusion à grande échelle de la cérémonie de l’ayahuasca [une infusion à des fins de guérison] a par exemple profondément transformé ce rite en Amérique latine.

    Vous expliquez que les pratiques de bien-être pourraient nous aider à « décoloniser nos corps » du capitalisme. Comment ?

    Le capitalisme ne nous valorise que dans l’hyperaction, dans l’hyperactivité. Cela crée des réflexes en nous : restez une demi-journée sans rien faire dans votre canapé, et sentez monter l’angoisse ou la culpabilité ! De la même manière, le système patriarcal crée des réflexes chez les femmes, comme celui de rentrer notre ventre pour avoir l’air plus mince par exemple.

    Observer nos pensées, nos angoisses, nos réactions, ralentir ou ne rien faire… sont autant de méthodes qui peuvent nous aider à décoloniser nos corps. Prendre conscience des fonctionnements induits par le système pour ensuite pouvoir choisir de les changer. Ça aussi, c’est révolutionnaire !

    https://reporterre.net/Le-bien-etre-est-toxique-transformons-le
    #développement_personnel #business

  • Gynécologue accusé de transphobie à Pau : l’affaire devant le Conseil de l’ordre des médecins
    https://www.sudouest.fr/pyrenees-atlantiques/pau/gynecologue-accuse-de-transphobie-a-pau-l-affaire-devant-le-conseil-de-l-or

    L’affaire sera étudiée lors d’une audience le 22 novembre. En cas d’échec de cette conciliation, elle pourrait filer au Conseil de l’ordre régional et prendre un tour juridique…

    L’affaire avait éclaté début septembre, quand un gynécologue expérimenté de la polyclinique Pau Pyrénées avait posté sur Internet un message courroucé expliquant qu’il n’était pas compétent pour prendre en charge les personnes transgenres. « MONSIEUR, écrivait-il alors. Je m’occupe des vraies femmes. […] Je n’ai aucune compétence pour m’occuper des hommes, même s’ils se sont rasé la barbe et viennent dire à ma secrétaire qu’ils sont devenus femmes. » Le médecin avait précisé qu’il répondait ici à la colère du compagnon de la patiente.

    Deux mois plus tard, on apprend que la patiente éconduite a déposé plainte auprès du Conseil de l’ordre départemental des médecins. Une audience est programmée le 22 novembre prochain à Pau. Le professionnel répondra de « non-respect de ses obligations déontologiques ». Ce premier rendez-vous aura pour mission de trouver une conciliation entre les deux parties. Si tel n’était pas le cas, une deuxième étape devant le conseil de discipline pourrait être nécessaire. Le professionnel s’exposerait alors à des sanctions juridiques.

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    https://rmc.bfmtv.com/actualites/societe/sante/gynecologue-accuse-de-transphobie-on-n-a-pas-ete-forme-a-cette-problemati

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    L’article ne fournis pas l’aimable message que le MONSIEUR, compagnon de cette personne trans, a écrit sur internet.

    Je me pose beaucoup de question avec cette histoire :

    Si j’ai 54 ans mais que je me ressent en avoir 6 ans ou que je m’auto-identifie en avoir 6 pour des raisons identitaires agistes ou a cause d’un alzeimer precoce, ou d’un syndrome de peter pan ou de choix militants anti agiste ou un fétichisme sexuel, ou un autre raison individuel et singulières, est ce que les pédiatres ont l’obligation de me recevoir en consultation et si ils refusent doivent ils être condamnés par l’ordre ?

    Est-ce que les pediatres doivent etre formé à la gériatrie pour ménager la suceptibilité des patients qui ne supportent pas l’idée de vieillir ?

    Est-ce que j’ai le droit de poursuivre un cardiologue si il refuse de me soigner pour mes problèmes gastriques ?

    Si mon cardiologue se trompe lors de son diagnostique et de ses soins gastro-entérologiques est ce que j’ai le droit de le poursuivre aussi ?

    Est-ce que les femmes de la région de Pau doivent renoncer à leurs soins médicaux gynecologique au prétexte de la suceptibilité d’un mâle qui s’auto-proclame etre une femme sur la base de son ressenti personnel ?

    Est-ce que la gynecologie doit etre interdite par la loi pour transphobie vu qu’elle ne soigne pas les prostates qui s’auto-identifient a des utérus ?

    #sexisme #psychiatrie #gynécologie #inversion_patriarcale #appropriation

    • Il y a cinquante ans c’était le médecin de famille qui faisait les suivis gynéco frottis, contraception, grossesse ...Et puis peu à peu la mode c’était la spécialisation ! Fallait avoir une ou un gynéco pour être bien suivie ( ? ) . Les généralistes ne font plus de frottis ou alors rarement et iels font payer un supplément. J’aime pas trop être réduite à un organe...J’aimais bien lorsque ma, mon généraliste me considérait comme une personne .

    • Merci pour ta réponse. Lorsque tu as un problème cardique est-ce que tu va chez le dentiste au pretexte que finallement c’est dommage de te réduir à un organe et que tu reste une personne que tu aille chez le dentiste ou chez le cardiologue ? Est-ce que tu pense que les gynecologues ne considèrent pas leurs patientes comme des personnes au prétexte qu’ils ont choisis une spécialisation ?
      J’ai du mal à voire la spécialisation comme une mode. La médecine a fait un peu de chemin depuis les 50 dernières années, et il y a des medecins qui font le choix de prendre une spécialisation, est-ce que tu es contre ce droit des medecins à choisir une spécialisation ?

      Peut-être que cette personne trans aurais du allé chez le généraliste au lieu de faire des problèmes à un medecin dont la spécialité n’est pas celle qui lui conviens. Si c’est ce que tu veux dire avec ton exemple personnel je suis d’accord avec toi.

    • Non non ! Je suis pour la spécialisation bien évidemment ! Le généraliste peut pas tout faire ! Je vais chez la dentiste et le cardiologue ( because je suis âgée ) . Je pensais à la personne trans dans ce cas précis. Me semble que les généralistes sont plus adapté‧es, ouvert‧es . Je peux me tromper. Le généraliste est la personne à qui tu vas dire plus facilement tes problèmes genre addictions, problèmes au travail dans la famille...Après si le médecin généraliste se sent pas capable de t’aider il t’envoie ailleurs ! Chez le spécialiste, quel qu’il soit ! Un‧e spécialiste de même peut t’envoyer chez un‧e autre. Dans l’exemple que tu donnes y’a eu embrouille et ou mauvaise volonté.

    • La jeune femme qui souffrait de douleurs à la poitrine, avait d’abord cherché à prendre rendez-vous avec un gynécologue spécialisé dans un premier temps. Ne trouvant pas de personne qualifiée à moins de trois heures de chez elle, cette dernière a alors pris rendez-vous avec le docteur Acharian sur Doctolib, « un peu au hasard », indique-t-elle au Parisien.
      « Scientifiquement, un homme est un homme... »

      S’il reconnaît s’être emporté et assure être désolé, le spécialiste, joint par nos confrères, réfute toute accusation d’homophobie et de transphobie. Mais précise : « c’est juste que je serai incapable d’examiner une personne trans, de la conseiller, je n’ai pas cette compétence [...] Scientifiquement, un homme est un homme, une femme est une femme. Même s’il se considère comme une femme, je dis que c’est un homme. »

      Le praticien n’exclut pas de porter plainte pour agression verbale et diffamation. De son côté, la jeune femme envisage également une action en justice. « Cela me fait doucement sourire qu’il dise qu’il n’est pas transphobe, alors que ses propos montrent le contraire, c’est trop facile. La transphobie n’est pas un avis, c’est un délit. »

      https://www.ladepeche.fr/2023/09/12/je-nai-aucune-competence-pour-moccuper-des-hommes-un-gynecologue-refuse-un

      A lire cette personne trans il est interdit de se spécialisé sur le corps des femelles de l’espèce humaine, et ce n’est pas un avis, c’est un délit ! Si c’est pas beau le privilège sexuel des mâles, un seul d’entre eux sur le simple critère de son ressenti peu te pulverisé une discipline médicale avec un seul commentaire sur google advice.

      Voici ce que disent les juristes ;

      Pour un gynécologue, pas forcément. Il est précisément tenu à des obligations de compétence, qui peuvent lui manquer pour la prise en charge de patientes transgenres. Les règles déontologiques interdisent toujours au médecin d’intervenir dans des « domaines qui dépassent ses connaissances, son expérience et les moyens dont il dispose » (art. R4127-70). Un gynécologue qui expliquerait que son refus est fondé sur la transidentité de la patiente ne s’inscrirait donc pas nécessairement en violation de ses obligations légales et déontologiques. Même chose pour un urologue qui refuserait de prendre en charge un patient transgenre. La connaissance, par ces spécialistes, de l’appareil génital féminin ou masculin, des fonctions sexuelles et des fonctions reproductives, n’implique pas nécessairement une compétence pour les corps en transition, ou après transition.

      En revanche, tout professionnel de santé qui refuserait de prendre en charge un patient en raison de sa transidentité, alors même que la situation médicale est sans lien avec celle-ci, s’expose à ce que ce refus soit qualifié de discriminatoire. De même, un gynécologue qui exprimerait une franche hostilité à l’égard d’une patiente en raison de sa transidentité s’inscrirait dans une attitude discriminatoire proscrite. Le fait, pour un gynécologue, de refuser une consultation sans s’interroger sur la raison de la demande de rendez-vous pourrait également être qualifié de refus discriminatoire (un problème mammaire, par exemple, est le même pour une femme cis ou une femme trans).
      La médecine doit-elle faire sa transition ?

      On imagine mal une obligation de se former aux corps trans dans le contexte d’une pénurie généralisée de gynécologues, où les refus de soins sont avant tout fondés sur l’absence de créneau. Mais on peut le recommander. Il convient de noter que les parcours de transition sont pris en charge depuis peu de temps, et que de nombreux gynécologues accueillent évidemment des patientes transgenres. Des difficultés sont encore à résorber. Par exemple, le changement de numéro NIR par la sécurité sociale est dépendant de l’état civil, et les numéros commençant par un 1 posent encore des difficultés pour le remboursement des actes. Par exemple, et alors que la chose est admise pour les gynécologiques, les sages-femmes ont toujours interdiction de prendre en charge des « 1 ». Une réflexion est clairement à l’œuvre pour acculturer le monde médical (v. Rapport relatif à la santé et aux parcours de soins des personnes trans, janv. 2022), et des recommandations de bonnes pratiques de la Haute autorité de santé sont attendues à l’automne 2023.

      https://www.leclubdesjuristes.com/societe/un-gynecologue-peut-il-legalement-refuser-lexamen-dune-femme-tran

      La personne trans n’était pas sans soins ni sans recours, son spécialiste était à 3h de route, ce qui est certes contraignant, mais aussi assez compréhensible vu la spécificité de sa situation et la rareté des medecins d’une manière générale et probablement dans la région de Pau.

      Le nom du médecin a été diffusé par la press, ainsi que la clinique ou il exerce et il est accusé de transphobie et d’homophobie (!?) et poursuivie par SOS Homophobie (histoire qui n’as strictement rien à voire avec l’homophobie à moins d’être transphobe...). Il est menacé de poursuite par l’ordre si il ne trouve pas un compromis avec cette personne qui exige qu’un spécialiste dont ce n’est pas la spécialité le prenne en charge.

      Pour le mégenrage, ce n’est pas un délit en France et encore moins un crime et ce n’est pas considéré comme de la discrimination basée sur l’identification de genre contrairement à ce que prétendent de nombreux miliant·es trans. C’est par contre le cas au Canada, mais je ne trouve aucune trace d’un tel délit en droit français et wikipédia n’en fait pas état non plus
      https://fr.wikipedia.org/wiki/M%C3%A9genrage

    • Est ce que c’est un mauvais gynecologue ?

      J’ai été voir les commentaires sur son compte google, les patientes sont généralement satisfaites dans les commentaires (j’ai regardé pour cela les messages de plus de 6 mois d’ancienneté) et depuis septembre il y a des messages de femmes qui le remercient pour son engagement pour les femmes (qui sont des réponses au contexte). Lorsqu’il y a des avis défavorables les réponses ne sont pas très délicates et il y a un message tout à la fin d’une personne qui a effacé son avis et auquel il répond déja qu’il ne prend pas en charge les hommes. J’imagine que c’etait le même problème qui se posait il y a 2 ans avec une autre personne trans.

  • Accordo #Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo
    https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in #Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel #Mediterraneo_centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi (...)

    #Accordi_e_trattati_internazionali #Approfondimenti #Diritto_di_asilo #Operazioni_SAR #Redazione #Trattenimento_-_detenzione

  • Confine Serbia-Ungheria: aumenta la militarizzazione e la violenza della polizia
    https://www.meltingpot.org/2023/11/confine-serbia-ungheria-aumenta-la-militarizzazione-e-la-violenza-della-

    La zona di confine tra la Serbia e l’Ungheria è da molti anni un luogo di sosta forzata e di transito delle persone migranti. E’ qui, tra la cittadina ungherese di Röszke e quella serba di Horgos, che nell’autunno del 2015 venne costruita da Orban la prima barriera “anti-rifugiati” che divenne in poco tempo uno dei simboli della politica dell’Unione europea, replicata poi in molteplici forme. Questo territorio al nord della Serbia rimane oggi uno dei punti più caldi delle rotte balcaniche settentrionali, essendo – al pari del confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – uno snodo fondamentale per l’accesso (...)

    #Approfondimenti #Confini_e_frontiere

  • Mediterranea denuncia il Governo: «Ci ordinarono di deportare le persone in Libia»
    https://www.meltingpot.org/2023/11/mediterranea-denuncia-il-governo-ci-ordinarono-di-deportare-le-persone-i

    Illegittima fu la pretesa del Governo Italiano di consegnare alle “autorità libiche” le 69 persone soccorse a bordo e illegittime sono la sanzione e il fermo che ha colpito la Mare Jonio. È stato depositato venerdì 3 novembre al Tribunale di Trapani il ricorso contro i ministeri degli Interni, delle Infrastrutture e Trasporti, e dell’Economia e Finanze finalizzato a ottenere la cancellazione del verbale di “fermo amministrativo nave”, notificato al Comandante e all’armatore della Mare Jonio lo scorso 18 ottobre. Lo comunica Mediterranea Saving Humans che illustra i motivi del ricorso redatto dalle avvocate Cristina Laura Cecchini, Giulia Crescini (...)

    #Notizie #In_mare #Redazione #Approfondimenti #Francesca_Reppucci

  • #Propriété_collective des #terres : « Des espaces de résistance face à l’agriculture industrielle et capitaliste »

    basta ! : Dans le secteur agricole, on compte seulement une installation pour deux à trois cessations d’activité, alors qu’un agriculteur sur quatre doit partir à la retraite d’ici 2030. L’accès à la terre est-il le frein principal à l’activité agricole en France ?

    Tanguy Martin : L’accès à la terre est clairement un frein, économique d’abord. La terre, selon les régions, peut coûter assez cher. S’y ajoutent les coûts des bâtiments, du cheptel, des machines, dans un contexte où les fermes n’ont cessé de grandir en taille depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale.

    Il y a aussi un principe de défiance : c’est plus facile de vendre ses terres, ou de les louer à son voisin qu’on connaît depuis très longtemps, qu’à quelqu’un qu’on ne connaît pas, qui peut vouloir faire différemment, non issu du territoire... Or, 60 % des gens qui veulent s’installer aujourd’hui ne sont pas issus du milieu agricole. Les freins administratifs se combinent à ce parcours du combattant.

    Aujourd’hui l’accès à la terre se fait par le marché : les terres sont allouées aux gens capables de rentabiliser une ressource, et pas forcément aux gens capables de nourrir un territoire ou de préserver un environnement.

    À partir de quel moment la terre agricole est-elle devenue une marchandise ?

    Jusqu’à la fin de la Seconde Guerre mondiale, la terre est restée un bien de prestige et de pouvoir à travers lequel on maîtrise la subsistance de la population. Mais après 1945, l’agriculture est entrée dans le capitalisme : on commence à faire plus de profit avec la terre et la production de nourriture, voire à spéculer sur le prix de la terre.

    La terre est même depuis devenue un actif financier. Aujourd’hui, les sociétés dites à capitaux ouverts (financiarisées), dont le contrôle peut être pris par des non-agriculteurs, ont fait main basse sur 14 % de la surface agricole utile française. C’est plus d’une ferme sur dix en France [1]. Le phénomène a doublé en 20 ans !

    Peut-on vraiment parler de spéculation sur les terres en France alors même que le prix stagne en moyenne à 6000 euros par hectare depuis plusieurs années ? Il est quand même de 90 000 euros par hectare aux Pays-Bas !

    Depuis quelques années, le prix de la terre stagne et on pourrait en conclure qu’il n’y a pas de spéculation. En réalité, le prix de la terre a globalement augmenté en France sur les 20 dernières années.

    Actuellement, ce prix augmente dans certaines régions et baisse dans d’autres. Les endroits où l’on peut spéculer sur la terre sont globalement ceux où l’agriculture s’est industrialisée : les zones céréalières dans le centre de la France, de betteraves en Picardie, de maïs dans le Sud-Ouest... Là, le prix de la terre continue à augmenter.

    En revanche, il y a des endroits en déprise, notamment les zones d’élevage comme le Limousin, où le prix de la terre peut baisser. Les prix augmentent aussi à proximité des villes et des zones touristiques, où la terre risque de devenir constructible.

    En France, ce sont les Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural (Safer) qui sont en charge de réguler le marché des ventes des terres agricoles. Elles sont très critiquées. Que faut-il faire de ces organisations ?

    Les Safer ont participé à limiter les inégalités d’accès à la terre et un prix de la terre relativement bas en France. C’est vrai, même s’il y a d’autres explications aussi, comme la plus faible valeur ajoutée produite par hectare en France.

    Pour autant, les Safer doivent encore évoluer pour pouvoir répondre aux enjeux alimentaires et agricoles du 21e siècle, il faut arriver à démocratiser leur gouvernance. Celles-ci restent aujourd’hui très liées aux décisions du syndicalisme majoritaire (de la FNSEA, ndlr). Les Safer doivent aussi devenir plus transparentes. Actuellement, les réunions de décision se tiennent à huis clos : c’est censé protéger les gens qui prennent les décisions pour qu’ils soient éloignés de certaines pressions, mais cela crée une opacité très délétère pour l’institution.

    Un autre élément à revoir, c’est la façon dont on fixe les objectifs politiques des Safer. Ces dernières, quand elles achètent une terre, doivent la revendre à la personne qui répond aux objectifs politiques qui sont notamment fixés dans des documents nommés « schémas directeurs régionaux des exploitations agricoles ».

    Ces documents, écrits par l’État et validés par arrêté préfectoral, décrivent quel type d’agriculture vont viser les Safer et d’autres instances de régulation foncière. Or, ces documents, du fait que le syndicat majoritaire est largement consulté, défendent plutôt la prolongation de l’agriculture vers son industrialisation. Il y a donc un enjeu à ce que ces documents soient écrits pour défendre une agriculture du 21e siècle qui défend l’agroécologie, et des paysannes et paysans nombreux sur les territoires. À ces conditions-là, il n’y a pas de raison de vouloir se passer des Safer.

    Le fait que nous ayons un système qui alloue la terre, non pas en fonction de l’offre et de la demande, mais en vertu d’un projet politique censé répondre à l’intérêt général, est un trésor inestimable en France qu’il faut absolument garder.

    En creux de votre ouvrage se pose la question du rapport à la propriété. Est-il possible de dépasser le modèle du paysan propriétaire ?

    Sur le principe, rien ne justifie le fait qu’à un moment, une personne ait pu dire « cette terre m’appartient ». La terre étant à la fois un lieu d’accueil du vivant et le lieu où l’on produit la nourriture, on peut estimer que la propriété de la terre doit être abolie. Sauf que, dans une société très attachée à la propriété privée, cela paraît utopique.

    Prenons donc le problème d’une autre façon, et voyons ce qu’on peut déjà faire à court terme. Il faut avoir en tête que les agriculteurs ne sont pas majoritairement propriétaires des terres qu’ils travaillent : 60 % de cette surface est louée dans le cadre du fermage. Il y a même des paysan·nes qui décident parfois de ne pas acheter la terre et préfèrent la louer pour éviter de s’endetter.

    D’autre part, on dispose d’une régulation foncière selon laquelle la terre n’est pas une marchandise comme les autres et ne doit pas être uniquement dirigée par le marché. Ces mécanismes juridiques permettent à l’État, aux collectivités locales et aux syndicats agricoles, de définir ensemble qui va accéder à la terre indépendamment du fait que ces personnes soient riches ou pas.

    On a là un embryon qui pourrait faire imaginer un droit de l’accès à la terre en France institué en commun. Il faut renforcer et orienter ces mécanismes – qui ont plein d’écueils ! – vers des enjeux d’alimentation, d’emploi, d’environnement... Chercher à démocratiser la question de l’accès à la terre et « le gouvernement des terres », c’est à la fois une capacité à se prémunir des effets mortifères du capitalisme, et cela permet de penser comment on pourrait gérer les terres autrement.

    Le capitalisme n’est pas une fatalité : il y a d’autres manières d’être au monde, de produire de l’alimentation, de vivre, de sortir d’un monde où le but n’est que la recherche du profit. C’est comme quand on milite pour la sécurité sociale de l’alimentation : la Sécurité sociale en 1946 n’a pas renversé le capitalisme, mais elle a créé des espaces de répits face au capitalisme, extrêmement importants pour que les gens vivent bien et envisagent de transformer la société.

    Le livre dresse un panorama des organisations qui travaillent au rachat des terres pour les mettre à disposition de paysan·nes répondant à des critères socio-environnementaux, avec des règles transparentes d’attribution de l’accès au foncier. Les surfaces acquises restent toutefois modestes. Peut-on uniquement compter sur ce type d’initiatives ?

    Les gens qui s’intéressent à la terre aujourd’hui ont bien compris qu’on n’allait pas abolir la propriété privée demain. Ils ont aussi compris que s’ils voulaient expérimenter d’autres manières de faire de l’agriculture et de l’alimentation, il fallait accéder à la propriété des terres.

    L’idée de la propriété collective, ce n’est pas l’abolition de la propriété privée, mais que des gens se mettent ensemble pour acheter de la terre. C’est ce que fait Terre de Liens en louant ensuite la terre à des paysan·nes qui mettent en œuvre des projets répondant aux enjeux de société, d’emploi, d’environnement, d’entretien du territoire... Mais c’est aussi ce que font d’autres structures de propriété foncière – la Société civile des terres du Larzac, la Terre en commun sur la Zad de Notre-Dame des Landes, Lurzaindia dans le Pays basque, la foncière Antidote, et bien d’autres.

    Tout un tas de gens essaient d’acheter des terres pour en faire des espaces de résistance face à l’agriculture industrielle et capitaliste. Cela permet d’imaginer d’autres rapports à la propriété. Ce sont des lieux d’expérimentation très importants pour susciter de nouveaux imaginaires, apprendre à faire autrement, créer de nouvelles manières d’être au monde.

    Le problème de ces lieux-là, c’est qu’ils ne peuvent pas permettre un changement d’échelle. Cela ne peut pas être la solution de sortie des terres du capitalisme. Comme elles n’abolissent pas la propriété, s’il fallait racheter toutes les terres, cela coûterait des centaines de milliards d’euros.

    Par ailleurs, ces terres ne sont pas à vendre à court terme – une terre se vend en moyenne tous les 75 ans. D’où la nécessité de faire à la fois des expérimentations de propriété collective, tout en ravivant la question de la régulation foncière pour sortir l’agriculture du capitalisme.

    En quoi la lutte de Notre-Dame des Landes, victorieuse en 2018, a reconfiguré les luttes, notamment anticapitalistes, autour des terres ?

    La question agricole et foncière, en France et même en Europe, était très peu investie par les milieux anticapitalistes. L’activisme des gens qui vont s’installer dans la Zad, les coopérations menées avec des syndicats agricoles comme la Confédération paysanne, ont – non sans débats houleux et conflits internes – mené à une lutte assez exemplaire sur un territoire.

    La répression peut être énorme, mais la capacité de résistance aussi. Cette lutte a produit des façons de faire sur le territoire – en termes d’habitat, d’agriculture collective, de vivre ensemble – inspirantes pour toute une génération militant contre le néolibéralisme et le capitalisme. Beaucoup de milieux politiques aujourd’hui parlent de subsistance, d’alimentation, de terres.

    Notre-Dame des Landes marque aussi le fait qu’avec de moins en moins d’agriculteurs dans la société (2,5 % des gens sont des travailleurs de la terre dont 1,9 % sont des agriculteurs au sens légal), les enjeux agricoles ne peuvent être uniquement du ressort des luttes paysannes. La centralité de ces luttes doit être partagée avec d’autres types d’acteurs politiques, notamment des gens qui habitent le territoire sans être forcément paysans.

    La dynamique des Soulèvements de la Terre est-elle un prolongement de Notre-Dame des Landes ?

    En effet, il me semble que Notre-Dame-des-Landes est une inspiration forte de la pensée qui s’agrège autour des Soulèvements, mouvement riche de sa pluralité. Les Soulèvements montrent que les espoirs nés de l’expérimentation à Notre-Dame-des-Landes sont possibles partout et qu’il va falloir faire différemment dans tous les territoires – chaque endroit ayant ses spécificités.

    Les questions de rapport à la terre ont aussi émergé dans l’espace politique des années 1990, avec les luttes au Chiapas, au Mexique, qui continuent d’inspirer les milieux politiques en Europe et en France. Cette circulation des imaginaires de luttes permet de penser des mondes différemment. Les Soulèvements arrivent à fédérer de manière assez importante et repolitisent très clairement ces questions de la terre. Ils portent ces questions sur tous les territoires qui ont envie de s’en emparer en disant : « C’est possible aussi chez vous ».

    Peut-on sortir l’agriculture du capitalisme ? Pour Tanguy Martin, auteur de Cultiver les communs, il faut combiner les expérimentations de propriété collective tout en s’attachant à la régulation foncière.

    https://basta.media/Propriete-collective-des-terres-des-espaces-de-resistance-face-a-l-agricult
    #agriculture #résistance #capitalisme #accès_à_la_terre #terre #financiarisation #spéculation #Sociétés_d’aménagement_foncier_et-d’établissement_rural (#Safer)

  • Coop ou pas coop de trouver une alternative à la grande distribution ?

    Un #magasin sans client, sans salarié, sans marge, sans contrôle, sans espace de pouvoir où la confiance règne vous y croyez ? Difficile, tant le modèle et les valeurs de la grande distribution, et plus largement capitalistes et bourgeoises ont façonnés nos habitus. Néanmoins, parmi nous certains cherchent l’alternative : supermarchés coopératifs, collaboratifs, épiceries participatives, citoyennes, etc. Des alternatives qui pourtant reprennent nombre des promesses de la grande distribution et de ses valeurs. Les épiceries “autogérées”, “libres” ou encore en “gestion directe” tranchent dans ce paysage. Lieux d’apprentissage de nouvelles habitudes, de remise en cause frontale du pouvoir pyramidal et pseudo-horizontal. Ce modèle sera évidemment à dépasser après la révolution, mais d’ici-là il fait figure de favori pour une #émancipation collective et individuelle.

    Le supermarché : une #utopie_capitaliste désirable pour les tenants de la croyance au mérite

    Le supermarché est le modèle hégémonique de #distribution_alimentaire. #Modèle apparu seulement en 1961 en région parisienne il s’est imposé en quelques décennies en colonisant nos vies, nos corps, nos désirs et nos paysages. Cette utopie capitaliste est devenue réalité à coup de #propagande mais également d’adhésion résonnant toujours avec les promesses de l’époque : travaille, obéis, consomme ; triptyque infernal où le 3e pilier permet l’acceptation voire l’adhésion aux deux autres à la mesure du mérite individuel fantasmé.

    Malgré le succès et l’hégémonie de ce modèle, il a parallèlement toujours suscité du rejet : son ambiance aseptisée et criarde, industrielle et déshumanisante, la relation de prédation sur les fournisseurs et les délocalisations qui en découlent, sa privatisation par les bourgeois, la volonté de manipuler pour faire acheter plus ou plus différenciant et cher, le greenwashing (le fait de servir de l’écologie de manière opportuniste pour des raisons commerciales), etc., tout ceci alimente les critiques et le rejet chez une frange de la population pour qui la recherche d’alternative devient motrice.

    C’est donc contre ce modèle que se (re)créent des #alternatives se réclamant d’une démarche plus démocratique, plus inclusive, ou de réappropriation par le citoyen… Or, ces alternatives se réalisent en partant du #modèle_dominant, jouent sur son terrain selon ses règles et finalement tendent à reproduire souvent coûte que coûte, parfois inconsciemment, les promesses et les côtés désirables du supermarché.
    Comme le dit Alain Accardo dans De Notre Servitude Involontaire “ce qu’il faut se résoudre à remettre en question – et c’est sans doute la pire difficulté dans la lutte contre le système capitaliste -, c’est l’#art_de_vivre qu’il a rendu possible et désirable aux yeux du plus grand nombre.”
    Le supermarché “coopératif”, l’épicerie participative : des pseudo alternatives au discours trompeur

    Un supermarché dit “coopératif” est… un supermarché ! Le projet est de reproduire la promesse mais en supprimant la part dévolue habituellement aux bourgeois : l’appellation “coopératif” fait référence à la structure juridique où les #salariés ont le #pouvoir et ne reversent pas de dividende à des actionnaires. Mais les salariés ont tendance à se comporter collectivement comme un bourgeois propriétaire d’un “moyen de production” et le recrutement est souvent affinitaire : un bourgeois à plusieurs. La valeur captée sur le #travail_bénévole est redistribuée essentiellement à quelques salariés. Dans ce type de supermarché, les consommateurs doivent être sociétaires et “donner” du temps pour faire tourner la boutique, en plus du travail salarié qui y a lieu. Cette “#coopération” ou “#participation” ou “#collaboration” c’est 3h de travail obligatoire tous les mois sous peine de sanctions (contrôles à l’entrée du magasin pour éventuellement vous en interdire l’accès). Ces heures obligatoires sont cyniquement là pour créer un attachement des #bénévoles au supermarché, comme l’explique aux futurs lanceurs de projet le fondateur de Park Slope Food le supermarché New-Yorkais qui a inspiré tous les autres. Dans le documentaire FoodCoop réalisé par le fondateur de la Louve pour promouvoir ce modèle :”Si vous demandez à quelqu’un l’une des choses les plus précieuses de sa vie, c’est-à-dire un peu de son temps sur terre (…), la connexion est établie.”

    L’autre spécificité de ce modèle est l’#assemblée_générale annuelle pour la #démocratie, guère mobilisatrice et non propice à la délibération collective. Pour information, La Louve en 2021 obtient, par voie électronique 449 participations à son AG pour plus de 4000 membres, soit 11%. Presque trois fois moins avant la mise en place de cette solution, en 2019 : 188 présents et représentés soit 4,7%. À Scopeli l’AG se tiendra en 2022 avec 208 sur 2600 membres, soit 8% et enfin à la Cagette sur 3200 membres actifs il y aura 143 présents et 119 représentés soit 8,2%

    Pour le reste, vous ne serez pas dépaysés, votre parcours ressemblera à celui dans un supermarché traditionnel. Bien loin des promesses de solidarité, de convivialité, de résistance qui n’ont su aboutir. Les militants voient de plus en plus clairement les impasses de ce modèle mais il fleurit néanmoins dans de nouvelles grandes villes, souvent récupéré comme plan de carrière par des entrepreneurs de l’#ESS qui y voient l’occasion de se créer un poste à terme ou de développer un business model autour de la vente de logiciel de gestion d’épicerie en utilisant ce souhait de milliers de gens de trouver une alternative à la grande distribution.

    #La_Louve, le premier supermarché de ce genre, a ouvert à Paris en 2016. Plus de 4000 membres, pour plus d’1,5 million d’euros d’investissement au départ, 3 années de lancement et 7,7 millions de chiffre d’affaires en 2021. À la création il revendiquait des produits moins chers, de fonctionner ensemble autrement, ne pas verser de dividende et de choisir ses produits. Cette dernière est toujours mise en avant sur la page d’accueil de leur site web : “Nous n’étions pas satisfaits de l’offre alimentaire qui nous était proposée, alors nous avons décidé de créer notre propre supermarché.” L’ambition est faible et le bilan moins flatteur encore : vous retrouverez la plupart des produits présents dans les grandes enseignes (loin derrière la spécificité d’une Biocoop, c’est pour dire…), à des #prix toujours relativement élevés (application d’un taux de 20% de marge).

    À plus petite échelle existent les épiceries “participatives”. La filiation avec le #supermarché_collaboratif est directe, avec d’une cinquantaine à quelques centaines de personnes. Elles ne peuvent généralement pas soutenir de #salariat et amènent des relations moins impersonnelles grâce à leur taille “plus humaine”. Pour autant, certaines épiceries sont des tremplins vers le modèle de supermarché et de création d’emploi pour les initiateurs. Il en existe donc avec salariés. Les marges, selon la motivation à la croissance varient entre 0 et 30%.

    #MonEpi, startup et marque leader sur un segment de marché qu’ils s’efforcent de créer, souhaite faire tourner son “modèle économique” en margeant sur les producteurs (marges arrières de 3% sur les producteurs qui font annuellement plus de 10 000 euros via la plateforme). Ce modèle très conforme aux idées du moment est largement subventionné et soutenu par des collectivités rurales ou d’autres acteurs de l’ESS et de la start-up nation comme Bouge ton Coq qui propose de partager vos données avec Airbnb lorsque vous souhaitez en savoir plus sur les épiceries, surfant sur la “transition” ou la “résilience”.

    Pour attirer le citoyen dynamique, on utilise un discours confus voire trompeur. Le fondateur de MonEpi vante volontiers un modèle “autogéré”, sans #hiérarchie, sans chef : “On a enlevé le pouvoir et le profit” . L’informatique serait, en plus d’être incontournable (“pour faire ce que l’on ne saurait pas faire autrement”), salvatrice car elle réduit les espaces de pouvoir en prenant les décisions complexes à la place des humains. Pourtant cette gestion informatisée met toutes les fonctions dans les mains de quelques sachant, le tout centralisé par la SAS MonEpi. De surcroit, ces épiceries se dotent généralement (et sont incitées à le faire via les modèles de statut fournis par MonEpi) d’une #organisation pyramidale où le simple membre “participe” obligatoirement à 2-3h de travail par mois tandis que la plupart des décisions sont prises par un bureau ou autre “comité de pilotage”, secondé par des commissions permanentes sur des sujets précis (hygiène, choix des produits, accès au local, etc.). Dans certains collectifs, le fait de participer à ces prises de décision dispense du travail obligatoire d’intendance qui incombe aux simples membres…

    Pour finir, nous pouvons nous demander si ces initiatives ne produisent pas des effets plus insidieux encore, comme la possibilité pour la sous-bourgeoisie qui se pense de gauche de se différencier à bon compte : un lieu d’entre-soi privilégié où on te vend, en plus de tes produits, de l’engagement citoyen bas de gamme, une sorte d’ubérisation de la BA citoyenne, où beaucoup semblent se satisfaire d’un énième avatar de la consom’action en se persuadant de lutter contre la grande distribution. De plus, bien que cela soit inconscient ou de bonne foi chez certains, nous observons dans les discours de nombre de ces initiatives ce que l’on pourrait appeler de l’#autogestion-washing, où les #inégalités_de_pouvoir sont masqués derrière des mots-clés et des slogans (Cf. “Le test de l’Autogestion” en fin d’article).

    L’enfer est souvent pavé de bonnes intentions. Et on pourrait s’en contenter et même y adhérer faute de mieux. Mais ne peut-on pas s’interroger sur les raisons de poursuivre dans des voies qui ont clairement démontré leurs limites alors même qu’un modèle semble apporter des réponses ?

    L’épicerie autogérée et autogouvernée / libre : une #utopie_libertaire qui a fait ses preuves

    Parfois nommé épicerie autogérée, #coopérative_alimentaire_autogérée, #épicerie_libre ou encore #épicerie_en_gestion_directe, ce modèle de #commun rompt nettement avec nombre des logiques décrites précédemment. Il est hélas largement invisibilisé par la communication des modèles sus-nommés et paradoxalement par son caractère incroyable au sens premier du terme : ça n’est pas croyable, ça remet en question trop de pratiques culturelles, il est difficile d’en tirer un bénéfice personnel, c’est trop beau pour être vrai…Car de loin, cela ressemble à une épicerie, il y a bien des produits en rayon mais ce n’est pas un commerce, c’est un commun basé sur l’#égalité et la #confiance. L’autogestion dont il est question ici se rapproche de sa définition : la suppression de toute distinction entre dirigeants et dirigés.

    Mais commençons par du concret ? À #Cocoricoop , épicerie autogérée à Villers-Cotterêts (02), toute personne qui le souhaite peut devenir membre, moyennant une participation libre aux frais annuels (en moyenne 45€ par foyer couvrant loyer, assurance, banque, électricité) et le pré-paiement de ses futures courses (le 1er versement est en général compris entre 50€ et 150€, montant qui est reporté au crédit d’une fiche individuelle de compte). À partir de là, chacun.e a accès aux clés, au local 24h/24 et 7 jours/7, à la trésorerie et peut passer commande seul ou à plusieurs. Les 120 foyers membres actuels peuvent venir faire leurs courses pendant et hors des permanences. Ces permanences sont tenues par d’autres membres, bénévolement, sans obligation. Sur place, des étagères de diverses formes et tailles, de récup ou construites sur place sont alignées contre les murs et plus ou moins généreusement remplies de produits. On y fait ses courses, pèse ses aliments si besoin puis on se dirige vers la caisse… Pour constater qu’il n’y en a pas. Il faut sortir une calculatrice et calculer soi-même le montant de ses courses. Puis, ouvrir le classeur contenant sa fiche personnelle de suivi et déduire ce montant de son solde (somme des pré-paiements moins somme des achats). Personne ne surveille par dessus son épaule, la confiance règne.

    Côté “courses”, c’est aussi simple que cela, mais on peut y ajouter tout un tas d’étapes, comme discuter, accueillir un nouveau membre, récupérer une débroussailleuse, participer à un atelier banderoles pour la prochaine manif (etc.). Qu’en est-il de l’organisation et l’approvisionnement ?

    Ce modèle de #commun dont la forme épicerie est le prétexte, cherche avant tout, à instituer fondamentalement et structurellement au sein d’un collectif les règles établissant une égalité politique réelle. Toutes les personnes ont le droit de décider et prendre toutes les initiatives qu’elles souhaitent. “#Chez_Louise” dans le Périgord (Les Salles-Lavauguyon, 87) ou encore à #Dionycoop (St-Denis, 93), comme dans toutes les épiceries libres, tout le monde peut, sans consultation ou délibération, décider d’une permanence, réorganiser le local, organiser une soirée, etc. Mieux encore, toute personne est de la même manière légitime pour passer commande au nom du collectif en engageant les fonds disponibles dans la trésorerie commune auprès de tout fournisseur ou distributeur de son choix. La trésorerie est constituée de la somme des dépôts de chaque membre. Les membres sont incités à laisser immobilisé sur leur fiche individuelle une partie de leurs dépôts. Au #Champ_Libre (Preuilly-Sur-Claise, 37), 85 membres disposent de dépôts moyens de 40-50€ permettant de remplir les étagères de 3500€ selon l’adage, “les dépôts font les stocks”. La personne qui passe la commande s’assure que les produits arrivent à bon port et peut faire appel pour cela au collectif.

    D’une manière générale, les décisions n’ont pas à être prises collectivement mais chacun.e peut solliciter des avis.

    Côté finances, à #Haricocoop (Soissons, 02), quelques règles de bonne gestion ont été instituées. Une #créditomancienne (personne qui lit dans les comptes bancaires) vérifie que le compte est toujours en positif et un “arroseur” paye les factures. La “crédito” n’a aucun droit de regard sur les prises de décision individuelle, elle peut seulement mettre en attente une commande si la trésorerie est insuffisante. Il n’y a pas de bon ou de mauvais arroseur : il voit une facture, il paye. Une autre personne enfin vérifie que chacun a payé une participation annuelle aux frais, sans juger du montant. Ces rôles et d’une manière générale, toute tâche, tournent, par tirage au sort, tous les ans afin d’éviter l’effet “fonction” et impliquer de nouvelles personnes.

    Tout repose donc sur les libres initiatives des membres, sans obligations : “ce qui sera fait sera fait, ce qui ne sera pas fait ne sera pas fait”. Ainsi, si des besoins apparaissent, toute personne peut se saisir de la chose et tenter d’y apporter une réponse. Le corolaire étant que si personne ne décide d’agir alors rien ne sera fait et les rayons pourraient être vides, le local fermé, les produits dans les cartons, (etc.). Il devient naturel d’accepter ces ‘manques’ s’il se produisent, comme conséquence de notre inaction collective et individuelle ou l’émanation de notre niveau d’exigence du moment.

    Toute personne peut décider et faire, mais… osera-t-elle ? L’épicerie libre ne cherche pas à proposer de beaux rayons, tous les produits, un maximum de membres et de chiffre d’affaires, contrairement à ce qui peut être mis en avant par d’autres initiatives. Certes cela peut se produire mais comme une simple conséquence, si la gestion directe et le commun sont bien institués ou que cela correspond au niveau d’exigence du groupe. C’est à l’aune du sentiment de #légitimité, que chacun s’empare du pouvoir de décider, de faire, d’expérimenter ou non, que se mesure selon nous, le succès d’une épicerie de ce type. La pierre angulaire de ces initiatives d’épiceries libres et autogouvernées repose sur la conscience et la volonté d’instituer un commun en le soulageant de tous les espaces de pouvoir que l’on rencontre habituellement, sans lequel l’émancipation s’avèrera mensongère ou élitiste. Une méfiance vis-à-vis de certains de nos réflexes culturels est de mise afin de “s’affranchir de deux fléaux également abominables : l’habitude d’obéir et le désir de commander.” (Manuel Gonzáles Prada) .

    L’autogestion, l’#autogouvernement, la gestion directe, est une pratique humaine qui a l’air utopique parce que marginalisée ou réprimée dans notre société : nous apprenons pendant toute notre vie à fonctionner de manière autoritaire, individualiste et capitaliste. Aussi, l’autogestion de l’épicerie ne pourra que bénéficier d’une vigilance de chaque instant de chacun et chacune et d’une modestie vis-à-vis de cette pratique collective et individuelle. Autrement, parce que les habitudes culturelles de domination/soumission reviennent au galop, le modèle risque de basculer vers l’épicerie participative par exemple. Il convient donc de se poser la question de “qu’est-ce qui en moi/nous a déjà été “acheté”, approprié par le système, et fait de moi/nous un complice qui s’ignore ?” ^9 (ACCARDO) et qui pourrait mettre à mal ce bien commun.

    S’affranchir de nos habitus capitalistes ne vient pas sans effort. Ce modèle-là ne fait pas mine de les ignorer, ni d’ignorer le pouvoir qu’ont les structures et les institutions pour conditionner nos comportements. C’est ainsi qu’il institue des “règles du jeu” particulières pour nous soutenir dans notre quête de #confiance_mutuelle et d’#égalité_politique. Elles se résument ainsi :

    Ce modèle d’épicerie libre diffère ainsi très largement des modèles que nous avons pu voir plus tôt. Là où la Louve cherche l’attachement via la contrainte, les épiceries autogérées cherchent l’#appropriation et l’émancipation par ses membres en leur donnant toutes les cartes. Nous soulignons ci-dessous quelques unes de ces différences majeures :

    Peut-on trouver une alternative vraiment anticapitaliste de distribution alimentaire ?

    Reste que quelque soit le modèle, il s’insère parfaitement dans la #société_de_consommation, parlementant avec les distributeurs et fournisseurs. Il ne remet pas en cause frontalement la logique de l’#économie_libérale qui a crée une séparation entre #consommateur et #producteur, qui donne une valeur comptable aux personnes et justifie les inégalités d’accès aux ressources sur l’échelle de la croyance au mérite. Il ne règle pas non plus par magie les oppressions systémiques.

    Ainsi, tout libertaire qu’il soit, ce modèle d’épicerie libre pourrait quand même n’être qu’un énième moyen de distinction sociale petit-bourgeois et ce, même si une épicerie de ce type a ouvert dans un des quartiers les plus défavorisés du département de l’Aisne (réservée aux personnes du quartier qui s’autogouvernent) et que ce modèle génère très peu de barrière à l’entrée (peu d’administratif, peu d’informatique,…).

    On pourrait aussi légitimement se poser la question de la priorité à créer ce type d’épicerie par rapport à toutes les choses militantes que l’on a besoin de mettre en place ou des luttes quotidiennes à mener. Mais nous avons besoin de lieux d’émancipation qui ne recréent pas sans cesse notre soumission aux logiques bourgeoises et à leurs intérêts et institutions. Une telle épicerie permet d’apprendre à mieux s’organiser collectivement en diminuant notre dépendance aux magasins capitalistes pour s’approvisionner (y compris sur le non alimentaire). C’est d’autant plus valable en période de grève puisqu’on a tendance à enrichir le supermarché à chaque barbecue ou pour approvisionner nos cantines et nos moyens de lutte.

    Au-delà de l’intérêt organisationnel, c’est un modèle de commun qui remet en question concrètement et quotidiennement les promesses et les croyances liées à la grande distribution. C’est très simple et très rapide à monter. Aucune raison de s’en priver d’ici la révolution !
    Le Test de l’Autogestion : un outil rapide et puissant pour tester les organisations qui s’en réclament

    À la manière du test de Bechdel qui permet en trois critères de mettre en lumière la sous-représentation des femmes et la sur-représentation des hommes dans des films, nous vous proposons un nouvel outil pour dénicher les embuscades tendues par l’autogestion-washing, en toute simplicité : “le test de l’Autogestion” :

    Les critères sont :

    - Pas d’AGs ;

    - Pas de salarié ;

    - Pas de gestion informatisée.

    Ces 3 critères ne sont pas respectés ? Le collectif ou l’organisme n’est pas autogéré.

    Il les coche tous ? C’est prometteur, vous tenez peut être là une initiative sans donneur d’ordre individuel ni collectif, humain comme machine ! Attention, le test de l’autogestion permet d’éliminer la plupart des faux prétendants au titre, mais il n’est pas une garantie à 100% d’un modèle autogéré, il faudra pousser l’analyse plus loin. Comme le test de Bechdel ne vous garantit pas un film respectant l’égalité femme-homme.

    Il faut parfois adapter les termes, peut être le collectif testé n’a pas d’Assemblée Générale mais est doté de Réunions de pilotage, n’a pas de salarié mais des services civiques, n’a pas de bureau mais des commissions/groupe de travail permanents, n’a pas de logiciel informatique de gestion mais les documents de gestion ne sont pas accessibles sur place ?
    Pour aller plus loin :

    Le collectif Cooplib fait un travail de documentation de ce modèle de commun et d’autogestion. Ses membres accompagnent de manière militante les personnes ou collectifs qui veulent se lancer (= gratuit).

    Sur Cooplib.fr, vous trouverez des informations et des documents plus détaillés :

    – La brochure Cocoricoop

    – Un modèle de Statuts associatif adapté à l’autogestion

    – La carte des épiceries autogérées

    – Le Référentiel (règles du jeu détaillées)

    – Le manuel d’autogestion appliqué aux épiceries est en cours d’édition et en précommande sur Hello Asso

    Ces outils sont adaptés à la situation particulière des épiceries mais ils sont transposables au moins en partie à la plupart de nos autres projets militants qui se voudraient vraiment autogérés (bar, librairie, laverie, cantine, camping,…). Pour des expérimentations plus techniques (ex : garage, ferme, festival,…), une montée en compétence des membres semble nécessaire.

    D’autres ressources :

    – Quelques capsules vidéos : http://fede-coop.org/faq-en-videos

    – “Les consommateurs ouvrent leur épiceries, quel modèle choisir pour votre ville ou votre village ?”, les éditions libertaires.

    https://www.frustrationmagazine.fr/coop-grande-distribution
    #alternative #grande_distribution #supermarchés #capitalisme #épiceries #auto-gestion #autogestion #gestion_directe #distribution_alimentaire

    sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/1014023