• « In Albania tutti trattenuti. Così si violano le norme Ue »

    Per i giudici di Palermo la detenzione è legittima solo come extrema ratio, da valutare caso per caso. «Ma a #Shengjin e #Gjader si presuppone che la reclusione sarà generalizzata: verrebbe a mancare la logica graduale prevista dalle direttive europee», afferma l’esperta di diritto dell’Unione #Daniela_Vitiello

    «Nei centri in Albania viene a mancare la logica graduale della direttiva Ue che prevede il trattenimento dei richiedenti asilo solo come extrema ratio», afferma Daniela Vitiello. Ricercatrice di diritto dell’Unione europea presso l’università degli studi della Tuscia e responsabile di un’unità di ricerca del centro di eccellenza Jean Monnet sull’integrazione dei migranti in Europa, con il manifesto commenta le recenti decisioni del tribunale di Palermo sulla detenzione dei richiedenti asilo a Porto Empedocle. Confermata in un caso, non convalidata negli altri cinque.

    Queste decisioni dicono qualcosa anche sul progetto dei centri in Albania?
    Le decisioni di non convalida dei trattenimenti, ma anche la prima di convalida, vanno nella direzione indicata dalle Sezioni unite della Cassazione nell’ordinanza di rinvio alla Corte di giustizia, dopo i ricorsi contro gli analoghi provvedimenti dello scorso autunno del tribunale di Catania. La Cassazione dà un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina italiana sulla garanzia finanziaria, evidenziando che la garanzia costituisce una causa generale di esclusione del trattenimento e non una «misura alternativa» ai fini della verifica dei presupposti per l’ingresso e il soggiorno, secondo quanto previsto dalla «direttiva accoglienza» dell’Ue. In pratica il diritto Ue prevede che il trattenimento sia in ogni caso l’extrema ratio, oggetto di una valutazione caso per caso, nel rispetto dei principi di necessità e proporzionalità. Lo Stato membro ha comunque l’obbligo di prevedere misure meno afflittive. Per questo il giudice di Palermo sottolinea la natura facoltativa del trattenimento e che le misure qualificate come «alternative» nel diritto italiano (consegna del passaporto e prestazione della cauzione) sono in realtà di natura diversa. Ciò è rilevante rispetto ai centri in Albania perché il protocollo del 6 novembre 2023 individua solo un’area per l’arrivo dei migranti (Shengjin) e un’area per il loro trattenimento durante la verifica dei requisiti e per il rimpatrio (Gjader); per cui si presuppone che il trattenimento generalizzato debba essere la regola in queste procedure extraterritoriali. Senza alternative. Verrebbe così a mancare la logica graduale della detenzione amministrativa prevista come ultima ratio.

    È l’unico problema?
    No. Per giungere nei centri ci sarà un trasferimento forzato a bordo di navi militari italiane, che costituiscono territorio della Repubblica. Soccorsi, se così vogliamo definirli, di questo tipo non possono essere qualificati come operazioni di ricerca e soccorso (Sar) perché ciò implicherebbe lo sbarco in un luogo sicuro (place of safety). È difficile credere che strutture di trattenimento in cui le persone sono soggette a un regime di isolamento e privazione della libertà di movimento (se non addirittura della libertà personale) possano essere qualificate come tali. Questo tipo di regime detentivo generalizzato potrebbe porsi in contrasto con il diritto alla libertà e alla sicurezza dei migranti, ponendo problemi rispetto al diritto costituzionale, dell’Ue e alla Convezione europea dei diritti dell’uomo.

    Altre criticità sono state sollevate in merito al diritto di difesa.
    Sì, perché il contatto con i legali rischia di essere vanificato, soprattutto a causa della extraterritorialità dei centri. Probabilmente sarà offerto ai migranti un elenco di avvocati per il gratuito patrocinio, ma non è detto che questi abbiano competenze specifiche in materia migratoria e d’asilo. Inoltre, è verosimile che le comunicazioni con gli assistiti avvengano attraverso posta elettronica: l’intermediario sarebbe un responsabile della pubblica amministrazione, cioè la controparte, con una sostanziale compressione del diritto di difesa e la possibile conseguenza di convalide a catena e conseguenti espulsioni collettive.

    A giugno 2026 entra in vigore il Patto Ue su immigrazione e asilo. Cosa cambia per il trattenimento dei richiedenti asilo?
    L’approccio hotspot, già attivo in Italia da anni per una prima identificazione e incanalamento nelle procedure corrette, si accompagna al trattenimento generalizzato ai fini dello screening, che dura tra le 24 e le 48 ore per rispettare l’articolo 13 della Costituzione. Il nuovo Patto istituzionalizza l’approccio hotspot e collega ancor più strettamente la fase dell’accertamento (screening) con le successive procedure di asilo e rimpatrio alla frontiera, rendendo il trattenimento la regola e ponendo una serie di interrogativi di sostenibilità amministrativa e legittimità giuridica, sia rispetto al diritto interno, che europeo e internazionale.

    https://ilmanifesto.it/in-albania-tutti-trattenuti-cosi-si-violano-le-norme-ue
    #Albanie #détention #Italie #accord #rétention #extrema_ratio #nécessité #proportionnalité #rétention_généralisée #externalisation #droit #screening #approche_hotspot

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...

    https://seenthis.net/messages/1043873

  • Un nouveau #contrat_écologique

    Alors que notre époque est marquée par l’urgence climatique, la #transition_écologique peine à s’enclencher. Il existe bien d’autres #urgences économiques et sociales plus immédiates, bien d’autres aspirations et préoccupations. Comment concilier nos buts ? Régler ce qui nous divise ? Comment consolider notre unité dans l’action ?

    À travers une analyse profonde et percutante, l’ouvrage examine les échecs du passé et identifie une même mécanique : l’#approche_technocratique traditionnellement suivie mène à l’impasse, comme dans le cas emblématique de la #taxe_carbone.

    La focalisation excessive sur les #mesures_techniques empêche de prendre à bras le corps le véritable défi : la nécessité de revoir et de redéfinir le #contrat_social. La transition écologique nécessite une approche #politique et démocratique pour gérer les #conflits, les #désaccords et les #aspirations_divergentes au sein de la société.

    L’ouvrage plaide pour concerter la transition écologique et engager l’ensemble de la société dans la construction d’un #avenir_commun. Semblable à un processus constituant, ce changement d’approche vise à construire un nouveau contrat écologique, un compromis de société qui décloisonne les questions sociales, économiques et écologiques.

    https://www.puf.com/un-nouveau-contrat-ecologique

    #livre

  • Giorgia Meloni de retour à Tunis pour consolider son projet de coopération migratoire
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/18/giorgia-meloni-de-retour-a-tunis-pour-consolider-son-projet-de-cooperation-m

    Giorgia Meloni de retour à Tunis pour consolider son projet de coopération migratoire
    Cette quatrième visite de la présidente du conseil italien en moins d’un an consacre le président Kaïs Saïed comme son premier partenaire africain dans lutte contre les arrivées irrégulières dans la péninsule.
    Par Nissim Gasteli (Tunis) et Allan Kaval (Rome, correspondant)
    La Tunisie continue d’occuper une place à part dans la politique étrangère de Giorgia Meloni. Pour la quatrième fois en moins d’un an, la présidente du conseil italien s’est rendue à Tunis, mercredi 17 avril, pour rencontrer son homologue, le président Kaïs Saïed.
    Accompagnée d’une large délégation ministérielle, Mme Meloni n’est restée que quelques heures dans la capitale tunisienne, avant de s’envoler pour la réunion du Conseil européen à Bruxelles. Elle en a profité pour annoncer plusieurs protocoles de coopération : un soutien direct d’une valeur de 50 millions d’euros au budget de l’Etat tunisien en faveur de « l’efficacité énergétique et des énergies renouvelables », une ligne de crédit de 55 millions d’euros pour soutenir les petites et moyennes entreprises tunisiennes et un accord-cadre permettant de poser les bases d’une collaboration dans le domaine universitaire.
    Lors de sa « déclaration à la presse » – à laquelle les journalistes n’étaient pas conviés –, Giorgia Meloni a mis en avant, à travers ces accords, une approche « complètement nouvelle », « égalitaire », basée sur « l’intérêt mutuel » des nations, qui s’inscrit dans son ambitieuse politique africaine, placée au cœur de sa diplomatie et désormais inséparable d’une stratégie migratoire centrée sur l’objectif de mettre un terme aux arrivées irrégulières sur le territoire italien. « Nous ne pouvons plus traiter la question migratoire de manière isolée avec nos partenaires africains, explique une source diplomatique italienne haut placée. Elle doit être incluse dans une approche globale et prendre pour base les exigences des pays de départs et de transit. »
    La vision de Giorgia Meloni, qui relève d’abord d’un récit et d’un discours mais qui se construit progressivement de visites officielles en accords divers, intègre son concept de « plan Mattei pour l’Afrique ». Lancé lors du sommet Italie-Afrique, les 28 et 29 janvier, celui-ci doit impliquer tout son gouvernement ainsi que les différents acteurs de l’économie italienne. « Cette nouvelle visite de Giorgia Meloni en Tunisie a pour objet de montrer que ce plan commence à avoir des applications concrètes et à projeter l’image d’une diplomatie en action en direction ses partenaires internationaux comme à son électorat », explique Maria Fantappie, directrice du département Méditerranée, Moyen-Orient et Afrique à l’Istituto Affari Internazionali, un influent centre de réflexion romain, précisant que « la Tunisie est le pays où la politique africaine du gouvernement italien a été testée pour la première fois grâce à la relation personnelle entre la présidente du conseil et Kaïs Saïed. »
    Le président tunisien, qui a multiplié au cours des derniers jours les mises en garde, répétant que son pays ne traiterait avec les autres nations que « sur un pied d’égalité » semble apprécier la rhétorique de Giorgia Meloni, seule dirigeante européenne avec laquelle il entretient un dialogue aussi régulier, qui évite soigneusement d’aborder sa dérive autoritaire. Au cours de la visite, M. Saïed a salué cette collaboration et exprimé son souhait de « renforcer et diversifier les liens de coopération et de partenariat entre les deux pays amis ».
    Une volonté partagée par Rome pour qui la Tunisie représente de nombreux intérêts. Dans le domaine énergétique, dans lequel l’Italie ambitionne de devenir un « hub » entre les deux rives de la Méditerranée, les réseaux électriques des deux pays devraient, d’ici à 2025, être interconnectés par le câble sous-marin El Med ouvrant la voie à l’exploitation du vaste potentiel du sud tunisien dans la production d’énergies solaires et éoliennes. Le territoire tunisien sert aussi de plateforme de transit du gaz algérien vers la péninsule italienne. La Tunisie est enfin un important débouché pour près de 900 entreprises de la péninsule, présentes sur son territoire.
    Sur le plan migratoire, alors que le printemps apporte des conditions climatiques favorables aux traversées de la Méditerranée et que les élections européennes de juin approchent, Giorgia Meloni mise en effet sur la coopération de la Tunisie pour éviter que la campagne ne soit affectée par des pics d’arrivées dont les effets seraient politiquement désastreux. Les images de septembre 2023 montrant un afflux exceptionnel de plus de 10 000 migrants partis des rivages de la Tunisie pour débarquer sur l’île de Lampedusa avaient produit un vent de panique parmi les gouvernements européens et remis en cause la pertinence des premiers efforts de la présidente du conseil italien sur le front tunisien.Depuis cet épisode, les autorités tunisiennes ont soigneusement réaffirmé leur contrôle sur la frontière maritime tout en renforçant, sur terre, la répression des exilés, multipliant les campagnes d’expulsion vers les frontières de l’Algérie et de la Libye. Si celles-ci s’étaient faites au prix de nombreuses violations de droits humains, Giorgia Meloni n’a pas manqué lors de son discours de « remercier encore une fois les autorités tunisiennes » pour le travail effectué et de se féliciter des résultats de l’accord de « partenariat stratégique complet » signé, sous ses auspices, par l’Union européenne et la Tunisie, le 16 juillet 2023.
    Au-delà de cette satisfaction affichée, sa visite intervient dans un contexte d’augmentation des arrivées de migrants sur le rivage italien en provenance des côtes tunisiennes, au cours des dernières semaines. Si cette tendance reste à relativiser car elles ont diminué de moitié au cours des quatre premiers mois de l’année 2024 par rapport à la précédente, elle montre toutefois la volatilité du contrôle migratoire tunisien. Le président Kaïs Saïed a ainsi rappelé, une fois de plus, son refus catégorique que son pays soit « une destination ou un point de passage pour les migrants irréguliers ». A El Amra, région côtière du centre-est de la Tunisie, située à plus d’une centaine de kilomètres de Lampedusa, ils sont pourtant des milliers à attendre, dans des conditions extrêmement précaires, de pouvoir traverser la Méditerranée. Le contrôle migratoire délégué à la Tunisie par le mémorandum de juillet 2023, présenté par Giorgia Meloni lors de sa signature comme « un modèle pour l’établissement de nouvelles relations avec l’Afrique du Nord » et depuis dupliqué avec l’Egypte et prochainement la Mauritanie, paraît aujourd’hui fragile

    #covid-19#migrant#migration#italie#tunisie#lampedusa#afriquedunord#mediterranee#traversee#migrationirreguliere#approcheglobale#partenariat#sante

  • Media Lens sur
    https://twitter.com/medialens/status/1637759377925890048

    #BBC ’balance’ means not pointing out that:

    – the 2003 US-UK invasion of Iraq was a ’war of aggression’

    – by the standards of Nuremberg, it was the supreme international crime

    – the UN sanctions against Iraq were described as ’genocidal’ by Denis Halliday & Hans von Sponeck

    #approche_équilibrée #MSM

  • #Podcast et reportage photo : les camps d’#enfermement des #îles grecques de #Kos et #Leros

    Les conséquences de « l’#approche_hotspot » sur les droits fondamentaux des exilé∙e∙s

    La mise en place de « l’approche #hotspot » par l‘Union européenne (UE) en 2015, et la signature de l’accord migratoire UE-Turquie en 2016 ont bloqué jusqu’à 40 000 personnes en 2020 aux portes de l’Europe, sur les îles grecques de la mer Égée, dans des camps insalubres aux conditions de vie extrêmement difficiles.

    Le Gisti a organisé une première mission d’observation en 2016 sur les îles de Lesbos et Chios pour constater que l’approche hotspot engendrait un système déshumanisant où la violation des droits fondamentaux, à commencer par celui d’accéder à une demande de protection internationale, est la règle.

    Trois ans plus tard, une seconde mission du Gisti et de Migreurop, conduite dans l’île de Samos au mois d’octobre 2019, confirmait que les hotspots, loin d’être des « centres d’accueil et de prise en charge des personnes en fonction de leurs besoins », étaient en réalité des camps de détention et de tri, parfois à ciel ouvert, installés par l’Union européenne à ses frontières maritimes orientales pour interdire aux exilé.es l’accès au continent.

    Une troisième mission, organisée par ces deux associations en octobre 2021, cette fois dans les îles de Kos et Leros, peu médiatisées, a permis de compléter ce sombre tableau, alors que de nouveaux camps d’enfermement high-tech, financés par l’Union européenne, voyaient le jour sur ces 5 îles grecques.

    Ces îles et le système de confinement mis en place contribuent à la stratégie d’invisibilisation et de maltraitance des exilé∙e∙s qui arrivent aux portes de l’UE.

    Au moment de la mission, peu de personnes exilées se trouvaient sur les îles de Kos et Leros. Cette faible présence est la conséquence de la pandémie de Covid-19, ayant rendu la circulation encore plus difficile, mais aussi de la pratique illégale des pushbacks consistant à refouler les personnes vers la Turquie, sans enregistrer leur demande d’asile, et enfin des transferts des personnes les plus vulnérables vers le continent. Quant aux personnes qui auraient réussi à traverser la mer, ils et elles ont quasiment tou⋅te⋅s été immédiatement placé⋅es en détention, et leur demande d’asile la plupart du temps rejetée.

    Ce podcast en 7 épisodes, réalisé avec le "studio son" de la Parole errante demain dans les îles grecques de Kos et Leros, donne la parole aux exilé∙e⋅s bloqué∙e⋅s sur ces îles, ainsi qu’aux personnes qui travaillent ou militent à leurs côtés, afin de mettre en lumière et dénoncer l’approche hotspot dont le principal objectif est de trier, enfermer et expulser les exilé∙e⋅s.

    https://migreurop.org/article3156.html?lang_article=fr
    #encampement #camps #camps_de_réfugiés #Grèce #hotspots #migrations #asile #réfugiés

  • https://afriquexxi.info/article4919.html

    Aux origines coloniales de Barkhane (4)
    Maréchal (Lyautey), nous voilà !

    Rémi Carayol, 7 février 2022

    Figure de la conquête coloniale, le maréchal Hubert Lyautey, célèbre notamment pour avoir fait en sorte de « gagner les cœurs et les esprits » en Afrique du Nord, est aujourd’hui cité comme une référence par les officiers français. Ses méthodes, soi-disant humanistes, inspirent les stratèges qui élaborent les doctrines contre-insurrectionnelles et sont recyclées par les commandants de la force Barkhane au Sahel. Un héritage contestable, pourtant totalement assumé par les militaires.

    La franchise n’était pas la moindre des qualités du général François Lecointre lorsqu’il était encore en fonction. À plusieurs reprises au cours des quatre années qu’il a passées à la tête de l’armée française, de juillet 2017 à juillet 2021, ses interlocuteurs ont pu s’en rendre compte – et notamment les parlementaires, qui l’ont régulièrement auditionné. Ainsi, le 6 novembre 2019, c’est en toute simplicité que François Lecointre confie, devant les membres de la commission des affaires étrangères de l’Assemblée nationale, que la doctrine de l’armée française, dans cette région où elle se bat depuis 2013, est en grande partie basée sur un logiciel certes actualisé, mais vieux de plus d’un siècle, et que l’une de ses références, en la matière, a pour nom Hubert Lyautey, une figure de la conquête coloniale, célèbre pour s’être battu en Indochine, à Madagascar et en Algérie, mais aussi pour avoir administré le Maroc et organisé la fameuse exposition coloniale de Paris en 1931.

    Il est un peu moins de 17 heures, ce mercredi, quand le général tire les choses au clair devant les députés : « Je décrirai notre vision de l’“approche globale” comme une stratégie de gestion de crise centrée sur les populations et sur leur perception du développement de la crise. Ce concept est hérité de notre aventure coloniale. Dans la manière dont les militaires français, de [Joseph] Gallieni à Lyautey, ont pensé l’établissement d’un empire colonial, il y avait d’abord une vision humaniste [sic] de la gestion de crise et de la guerre ». Le général marche sur des œufs. Il prend donc soin d’apporter cette précision : « Ne voyez pas dans mon propos un jugement, positif ou négatif, sur l’époque coloniale ». Pas d’ode à la colonisation donc. Pas de condamnation non plus. Mais ce constat : « J’observe simplement que ce qui fait le savoir-faire français dans la gestion de crise, c’est aussi cet héritage : nous entretenons depuis très longtemps la conception d’une approche globale et d’une victoire qui doit essentiellement être remportée dans les cœurs et les esprits
    des populations au secours desquelles nous venons dans les régions que nous cherchons à stabiliser. »

    (...)

    #Maroc #impérialisme #opérations_extérieures #Lyautey #armée_française #héritage_colonial

  • Les migrants sont-ils acteurs de leur trajectoire ?

    L’exil est souvent perçu comme un temps arrêté dans le cours de la vie car ceux qui migrent doivent faire face à de nombreux #obstacles et à de longues situations d’#attente. En s’appuyant sur le cas des migrants afghans, #Alessandro_Monsutti, grand spécialiste de l’Afghanistan et des pays limitrophes, nous explique que partir de chez soi pour rejoindre un autre pays implique d’être pleinement (et souvent durement) acteur de sa propre trajectoire.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=4xWCrcpE7ik&feature=emb_logo


    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2021/11/29/defacto-029-02

    #autonomie #migrations #asile #réfugiés #autonomie_des_migrations #Afghanistan #réfugiés_afghans #approche_transnationale #appartenances_multiples #itinéraires_migratoires #complexité #stratégie #circulations #échelles #agentivité #capacité_d'action #famille #agency #structuralisme #structure #aspirations #immobilisation

    #vidéo

    ping @isskein @karine4

  • Women, Peace, and Security. Feminist Perspectives on International Security

    Greater participation by women in peace negotiations, policy-making, and legal decision-making would have a lasting impact on conflict resolution, development, and the maintenance of peace in post-conflict zones. Women, Peace, and Security lays the groundwork for this enhanced participation, drawing from insightful research by women scholars and applying a feminist lens to contemporary security issues.

    This timely collection of essays promotes the adoption of a feminist framework for international security issues and presents the voices of some of the most inspiring thinkers in feminist international relations in Canada. Women, Peace, and Security provides insightful recommendations to researchers conducting fieldwork, as well as methodological insights on how to develop feminist research design in international relations and how to adopt feminist ethical considerations. Contributions include gender-based analyses of the challenges faced by the Canadian military and by families of serving members. From Canada’s Famous Five to the women’s marches of 2017, lessons are drawn to inform new generations of women activists, concluding with a clarion call for greater allyship with Indigenous women and girls to support decolonization efforts in Canada.

    Offering a unique range of perspectives, narratives, and contributions to international relations and international law, this volume brings women’s voices to the forefront of vital conversations about fundamental peace and security challenges.

    https://www.mqup.ca/women--peace--and-security-products-9780228006169.php
    #approche_féministe #féminisme #relations_internationales #paix #sécurité #livre #femmes

  • #Abécédaire des #féminismes_présents

    « Plutôt que de réduire le #féminisme à des revendications faites à l’État, au patron, au chef ou à papa, pour plus de lois, plus de « sécurité », à n’être que le porte-drapeau ou le cache-misère du capitalisme, de tel ou tel gouvernement nationaliste, ces histoires des féminismes présents rappellent et font résonner ensemble nos vies féministes. Ce livre fonctionne comme un abécédaire, un #manuel, une #boîte_à_outils, un dictionnaire amoureux, dans lequel échanger des idées, affûter des armes, écouter des voix, partager des expériences et des pratiques, vibrer pour des luttes présentes. Il s’adresse à tous·tes : il contient à la fois des ressources et foisonne de références utiles, de notions, mais il est fabriqué par des plumes et des voix, des points de vue situés sur des retours d’expériences collectives, des itinéraires politiques et intimes, des réflexions et des rétrospections sur des parcours, des engagements, des révoltes et des espoirs. En pluralisant les styles, en se situant à la fois du côté de la théorie et de la pratique, de la création, des écritures au « nous » et au « je », il témoigne de la force d’une #approche_féministe de l’histoire intellectuelle et politique. Il est dédié à toutes les #résistantes anonymes au quotidien des violences les plus crasses, à celles qui embrasent les tribunaux, cassent des genoux et brisent les vitrines, à celles qui inventent mille tactiques imperceptibles pour survivre et se mettre à l’abri, à la mémoire de celles dont les noms recouvrent les murs de nos villes la nuit, à la puissance des collectifs qui se font, à ceux qui se sont défaits, qui se sont (re)constitués ailleurs ou autrement, à ce qui nous lie. »

    https://editionslibertalia.com/catalogue/hors-collection/feu-abecedaire-des-feminismes-presents

    #livre #féminismes #résistance

    ping @isskein @_kg_

  • Academic freedom is in crisis ; free speech is not

    In August 2020, the UK think tank The Policy Exchange produced a report on Academic Freedom in the UK (https://policyexchange.org.uk/publication/academic-freedom-in-the-uk-2), alleging a chilling effect for staff and students expressing conservative opinions, particularly pro-Brexit or ‘gender critical’ ideas. This is an issue that was examined by a 2018 parliamentary committee on Human Rights which found a lack of evidence for serious infringements of free speech (https://publications.parliament.uk/pa/jt201719/jtselect/jtrights/1279/127904.htm). In a university context, freedom of speech is protected under the Human Rights Act 1998 as long as the speech is lawful and does not contravene other university regulations on issues like harassment, bullying or inclusion. Some of these controversies have been firmly rebutted by Chris Parr (https://www.linkedin.com/pulse/free-speech-crisis-uk-universities-chris-parr) and others who describe how the incidents have been over-hyped.

    Despite this, the government seems keen to appoint a free speech champion for universities (https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/feb/15/tories-war-on-the-woke-ministers-statues-protests) which continues a campaign started by #Sam_Gyimah (https://academicirregularities.wordpress.com/2018/07/06/sams-on-campus-but-is-the-campus-onto-sam) when he was minister for universities in 2018, and has been interpreted by some commentators as a ‘war on woke’. In the current climate of threats to university autonomy, many vice chancellors wonder whether this might be followed by heavy fines or reduced funding for those institutions deemed to fall on the wrong side of the culture wars.

    While public concern has been directed to an imagined crisis of free speech, there are more significant questions to answer on the separate but related issue of academic freedom. Most university statutes echo legislation and guarantee academics ‘freedom within the law to question and test received wisdom, and to put forward new ideas and controversial and unpopular opinions, without placing themselves in jeopardy of losing their jobs or privileges they may have at their institutions.’ [Section 202 of the Education Reform Act 1988]. In reality, these freedoms are surrendered to the greater claims of academic capitalism, government policy, legislation, managers’ responses to the pandemic and more dirigiste approaches to academics’ work.

    Nevertheless, this government is ploughing ahead with policies designed to protect the freedom of speech that is already protected, while doing little to hold university managers to account for their very demonstrable violations of academic freedom. The government is suspicious of courses which declare a sympathy with social justice or which manifest a ‘progressive’ approach. This hostility also extends to critical race theory and black studies. Indeed, the New York Times has identified a right wing ‘Campaign to Cancel Wokeness’ (https://www.nytimes.com/2021/02/26/opinion/speech-racism-academia.html) on both sides of the Atlantic, citing a speech by the UK Equalities Minister, Kemi Badenoch, in which she said, “We do not want teachers to teach their white pupils about white privilege and inherited racial guilt…Any school which teaches these elements of critical race theory, or which promotes partisan political views such as defunding the police without offering a balanced treatment of opposing views, is breaking the law.”

    This has now set a tone for ideological oversight which some university leaders seem keen to embrace. Universities will always wish to review their offerings to ensure they reflect academic currency and student choice. However, operating under the cover of emergency pandemic planning, some are now seeking to dismantle what they see as politically troublesome subject areas.

    Let’s start with the most egregious and transparent attack on academic freedom. The University of Leicester Business School, known primarily for its disdain of management orthodoxy, has announced it will no longer support research in critical management studies (https://www.uculeicester.org.uk/redundancy-briefing) and political economy, and the university has put all researchers who identify with this field, or who at some time might have published in CMS, at risk of redundancy. Among the numerous responses circulating on Twitter, nearly all point to the fact that the critical orientation made Leicester Business School distinctive and attractive to scholars wishing to study and teach there. Among those threatened with redundancy is the distinguished former dean, Professor Gibson Burrell. The sheer volume of protest at this anomaly must be an embarrassment to Leicester management. We should remember that academic freedom means that, as a scholar of proven expertise, you have the freedom to teach and research according to your own judgement. When those in a field critical of structures of power have their academic freedom removed, this is, unarguably, a breach of that expectation. Such a violation should be of concern to the new freedom of speech champion and to the regulator, the Office for Students.

    If the devastation in the School of Business were not enough humiliation for Leicester, in the department of English, there are plans to cancel scholarship and teaching in Medieval and Early Modern literature. The thoughtless stripping out of key areas that give context and coherence within a subject is not unique to Leicester – similar moves have taken place in English at University of Portsmouth. At Leicester, management have offered the justification that this realignment will allow them to put resources towards the study of gender and sexuality. After all, the Vice Chancellor, Nishan Canagarajah, offered the keynote speech at the Advance HE conference in Equality, Diversity and Inclusion on 19th March (https://www.advance-he.ac.uk/programmes-events/conferences/EDIConf20#Keynotes) and has signalled that he supports decolonising the curriculum. This might have had more credibility if he was not equally committed to extinguishing critical scholarship in the Business School. The two positions are incompatible and reveal an opportunistic attempt to reduce costs and remove signs of critical scholarship which might attract government disapproval.

    At the University of Birmingham, the response to the difficulties of maintaining teaching during the pandemic has been to issue a ruling that three academic staff must be able to teach each module. The explanation for this apparent reversal of the ‘lean’ principle of staffing efficiency, is to make modules more resilient in the face of challenges like the pandemic – or perhaps strike action. There is a consequence for academic freedom though – only the most familiar, established courses can be taught. Courses that might have been offered, which arise from the current research of the academic staff, will have to be cancelled if the material is not already familiar to other colleagues in the department. It is a way of designing innovation and advancement out of courses at the University of Birmingham.

    Still at Birmingham, UCU is contesting a proposal for a new ‘career framework’ (https://www.timeshighereducation.com/news/strike-warning-over-birminghams-or-out-probation-plan) by management characterised as ‘up or out’. It will require newly appointed lecturers to achieve promotion to senior lecturer within five years or face the sort of performance management procedures that could lead to termination of their appointment. The junior academics who enter on these conditions are unlikely to gamble their careers on academic risk-taking or pursue a challenge to an established paradigm. We can only speculate how this apprenticeship in organisational obedience might restrain the pursuit of discovery, let alone achieve the management’s stated aim to “develop and maintain an academic culture of intellectual stimulation and high achievement”.

    Meanwhile at the University of Liverpool, Vice Chancellor Janet Beer is attempting to apply research metrics and measures of research income over a five-year period to select academics for redundancy in the Faculty of Life Sciences. Staff have been threatened with sacking and replacement by those felt to hold more promise. It will be an unwise scholar who chooses a niche field of research which will not elicit prime citations. Astoundingly, university mangers claim that their criteria are not in breach of their status as a signatory to the San Fransisco Declaration on Research Assessment (https://news.liverpool.ac.uk/2021/03/08/project-shape-update). That is correct insofar as selection for redundancy by grant income is clearly such dishonorable practice as to have been placed beyond contemplation by the international board of DORA.

    It seems we are reaching a pivotal moment for academic freedom for higher education systems across the world. In #Arkansas and some other states in the #USA, there are efforts to prohibit the teaching of social justice (https://www.chronicle.com/article/no-social-justice-in-the-classroom-new-state-scrutiny-of-speech-at-public).

    In #France, the education minister has blamed American critical race theory (https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2020/11/france-about-become-less-free/617195) for undermining France’s self-professed race-blindness and for causing the rise of “islamo-gauchisme”, a term which has been cynically deployed to blunt any critique of structural racism.

    In Greece, universities are now bound by law to ensure policing and surveillance of university campuses (https://www.crimetalk.org.uk/index.php/library/section-list/1012-exiting-democracy-entering-authoritarianism) by ‘squads for the protection of universities’ in order to suppress dissent with the Orwellian announcement that the creation of these squads and the extensive surveillance of public Universities are “a means of closing the door to violence and opening the way to freedom” and an assertion that “it is not the police who enter universities, but democracy”.

    Conclusion

    It occurs to me that those public figures who feel deprived of a platform to express controversial views may well be outnumbered by the scholars whose universities allow their work to be suppressed by targeted intellectual purges, academic totalitarianism and metric surveillance. It is telling that assaults on academic freedom in the UK have not attracted comment or action from the organisations which might be well placed to defend this defining and essential principle of universities. I hereby call on Universities UK, the Office for Students and the freedom of speech champion to insist on an independent audit of academic freedom and autonomy for each higher education institution.

    We now know where intervention into the rights of academics to teach and research autonomously may lead. We also know that many of the candidates targeted for redundancy are UCU trade union officials; this has happened at University of East London and the University of Hull. Make no mistake, this is a PATCO moment (https://www.politico.com/story/2017/08/05/reagan-fires-11-000-striking-air-traffic-controllers-aug-5-1981-241252) for higher education in the UK as management teams try to break union support and solidarity in order to exact greater control in the future.

    Universities are the canary down the mine in an era of right-wing authoritarianism. We must ensure that they can maintain their unique responsibility to protect against the rise of populism and the dismantling of democracy. We must be assertive in protecting the rights of academics whose lawful and reasoned opinions are increasingly subject to some very sinister threats. Academic freedom needs to be fought for, just like the right to protest and the right to roam. That leaves a heavy responsibility for academics if the abolition of autonomy and academic freedom is not to be complete.

    http://cdbu.org.uk/academic-freedom-is-in-crisis-free-speech-is-not
    #liberté_académique #liberté_d'expression #UK #Angleterre #université #facs #justice_sociale #black_studies #races #race #approches_critiques #études_critiques #privilège_blanc #économie_politique #Leicester_Business_School #pandémie #crise_sanitaire #Birmingham #Liverpool #Janet_Beer #concurrence #Grèce #Etats-Unis #métrique #attaques #éducation_supérieure #populisme #démocratie #autonomie #canari_dans_la_mine

    ping @isskein @cede

    • The Campaign to Cancel Wokeness. How the right is trying to censor critical race theory.

      It’s something of a truism, particularly on the right, that conservatives have claimed the mantle of free speech from an intolerant left that is afraid to engage with uncomfortable ideas. Every embarrassing example of woke overreach — each ill-considered school board decision or high-profile campus meltdown — fuels this perception.

      Yet when it comes to outright government censorship, it is the right that’s on the offense. Critical race theory, the intellectual tradition undergirding concepts like white privilege and microaggressions, is often blamed for fomenting what critics call cancel culture. And so, around America and even overseas, people who don’t like cancel culture are on an ironic quest to cancel the promotion of critical race theory in public forums.

      In September, Donald Trump’s Office of Management and Budget ordered federal agencies to “begin to identify all contracts or other agency spending related to any training on ‘critical race theory,’” which it described as “un-American propaganda.”

      A month later, the conservative government in Britain declared some uses of critical race theory in education illegal. “We do not want teachers to teach their white pupils about white privilege and inherited racial guilt,” said the Tory equalities minister, Kemi Badenoch. “Any school which teaches these elements of critical race theory, or which promotes partisan political views such as defunding the police without offering a balanced treatment of opposing views, is breaking the law.”

      Some in France took up the fight as well. “French politicians, high-profile intellectuals and journalists are warning that progressive American ideas — specifically on race, gender, post-colonialism — are undermining their society,” Norimitsu Onishi reported in The New York Times. (This is quite a reversal from the days when American conservatives warned darkly about subversive French theory.)

      Once Joe Biden became president, he undid Trump’s critical race theory ban, but lawmakers in several states have proposed their own prohibitions. An Arkansas legislator introduced a pair of bills, one banning the teaching of The Times’s 1619 Project curriculum, and the other nixing classes, events and activities that encourage “division between, resentment of, or social justice for” specific groups of people. “What is not appropriate is being able to theorize, use, specifically, critical race theory,” the bills’ sponsor told The Arkansas Democrat Gazette.

      Republicans in West Virginia and Oklahoma have introduced bills banning schools and, in West Virginia’s case, state contractors from promoting “divisive concepts,” including claims that “the United States is fundamentally racist or sexist.” A New Hampshire Republican also proposed a “divisive concepts” ban, saying in a hearing, “This bill addresses something called critical race theory.”

      Kimberlé Crenshaw, a pioneering legal scholar who teaches at both U.C.L.A. and Columbia, has watched with alarm the attempts to suppress an entire intellectual movement. It was Crenshaw who came up with the name “critical race theory” when organizing a workshop in 1989. (She also coined the term “intersectionality.”) “The commitment to free speech seems to dissipate when the people who are being gagged are folks who are demanding racial justice,” she told me.

      Many of the intellectual currents that would become critical race theory emerged in the 1970s out of disappointment with the incomplete work of the civil rights movement, and cohered among radical law professors in the 1980s.
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      The movement was ahead of its time; one of its central insights, that racism is structural rather than just a matter of interpersonal bigotry, is now conventional wisdom, at least on the left. It had concrete practical applications, leading, for example, to legal arguments that housing laws or employment criteria could be racist in practice even if they weren’t racist in intent.

      Parts of the critical race theory tradition are in tension with liberalism, particularly when it comes to issues like free speech. Richard Delgado, a key figure in the movement, has argued that people should be able to sue those who utter racist slurs. Others have played a large role in crafting campus speech codes.

      There’s plenty here for people committed to broad free speech protections to dispute. I’m persuaded by the essay Henry Louis Gates Jr. wrote in the 1990s challenging the movement’s stance on the first amendment. “To remove the very formation of our identities from the messy realm of contestation and debate is an elemental, not incidental, truncation of the ideal of public discourse,” he wrote.

      Disagreeing with certain ideas, however, is very different from anathematizing the collective work of a host of paradigm-shifting thinkers. Gates’s article was effective because he took the scholarly work he engaged with seriously. “The critical race theorists must be credited with helping to reinvigorate the debate about freedom of expression; even if not ultimately persuaded to join them, the civil libertarian will be much further along for having listened to their arguments and examples,” he wrote.

      But the right, for all its chest-beating about the value of entertaining dangerous notions, is rarely interested in debating the tenets of critical race theory. It wants to eradicate them from public institutions.

      “Critical race theory is a grave threat to the American way of life,” Christopher Rufo, director of the Center on Wealth and Poverty at the Discovery Institute, a conservative think tank once known for pushing an updated form of creationism in public schools, wrote in January.

      Rufo’s been leading the conservative charge against critical race theory. Last year, during an appearance on Tucker Carlson’s Fox News show, he called on Trump to issue an executive order abolishing “critical race theory trainings from the federal government.” The next day, he told me, the White House chief of staff, Mark Meadows, called him and asked for his help putting an order together.

      Last month, Rufo announced a “new coalition of legal foundations and private attorneys that will wage relentless legal warfare against race theory in America’s institutions.” A number of House and Senate offices, he told me, are working on their own anti-critical race theory bills, though none are likely to go anywhere as long as Biden is president.

      As Rufo sees it, critical race theory is a revolutionary program that replaces the Marxist categories of the bourgeois and the proletariat with racial groups, justifying discrimination against those deemed racial oppressors. His goal, ultimately, is to get the Supreme Court to rule that school and workplace trainings based on the doctrines of critical race theory violate the 1964 Civil Rights Act.

      This inversion, casting anti-racist activists as the real racists, is familiar to Ian Haney López, a law professor at the University of California, Berkeley, who specializes in critical race theory. “There’s a rhetoric of reaction which seeks to claim that it’s defending these higher values, which, perversely, often are the very values it’s traducing,” he said. “Whether that’s ‘In the name of free speech we’re going to persecute, we’re going to launch investigations into particular forms of speech’ or — and I think this is equally perverse — ‘In the name of fighting racism, we’re going to launch investigations into those scholars who are most serious about studying the complex forms that racism takes.’”

      Rufo insists there are no free speech implications to what he’s trying to do. “You have the freedom of speech as an individual, of course, but you don’t have the kind of entitlement to perpetuate that speech through public agencies,” he said.

      This sounds, ironically, a lot like the arguments people on the left make about de-platforming right-wingers. To Crenshaw, attempts to ban critical race theory vindicate some of the movement’s skepticism about free speech orthodoxy, showing that there were never transcendent principles at play.

      When people defend offensive speech, she said, they’re often really defending “the substance of what the speech is — because if it was really about free speech, then this censorship, people would be howling to the high heavens.” If it was really about free speech, they should be.

      https://www.nytimes.com/2021/02/26/opinion/speech-racism-academia.html

      #droite #gauche #censure #cancel_culture #micro-agressions #Trump #Donald_Trump #Kemi_Badenoch #division #critical_race_theory #racisme #sexisme #Kimberlé_Crenshaw #Crenshaw #racisme_structurel #libéralisme #Richard_Delgado #Christopher_Rufo #Ian_Haney_López

    • No ‘Social Justice’ in the Classroom: Statehouses Renew Scrutiny of Speech at Public Colleges

      Blocking professors from teaching social-justice issues. Asking universities how they talk about privilege. Analyzing students’ freedom of expression through regular reports. Meet the new campus-speech issues emerging in Republican-led statehouses across the country, indicating potential new frontiers for politicians to shape campus affairs.

      (paywall)
      https://www.chronicle.com/article/no-social-justice-in-the-classroom-new-state-scrutiny-of-speech-at-public

  • Les formations transformatrices – Quelles capacités viser ? Quels exemples ?

    L’#université_internationale_Terre_Citoyenne développe une « pédagogie de la résilience et du changement” qui s’appuie sur différents apports, démarches : des méthodes d’éducation populaire, la pédagogie de l’opprimé de #Paolo_Freire, la #Théorie_U d’#Otto_Sharmer, l’#Art_of_Hosting, l’approche des situations conflictuelles et complexes d’#Adam_Kahane, l’#Approche_et_la_Transformation_Constructives_des_Conflits (#ATCC) d’#Hervé_Ott et #Karl_Heinz_Bitll, le #Community_Organizing de #Saul_Alinsky, le #Process-Work/#Démocrati_ Profonde d’#Arnold_Mindell

    L’#UITC avec ses organisations associées cherchent à former de nouveaux #leaders_citoyens et sociaux mais aussi des #étudiants, des responsables locaux ou nationaux capables d’accompagner les changements profonds et systémiques et de transformer des situations difficiles. En ce sens, certaines capacités nous apparaissent centrales à acquèrir : celles de faire face aux situations complexes, interculturelles, celles aussi de pouvoir transformer de manière constructive les #conflits au niveau individuel et collectif.

    A partir de situations et de problématiques concrètes et variées, les organisations associées UITC et l’ensemble UITC cherchent à développer, en particulier, les capacités individuelles et collectives suivantes :

    - Développer de la #résilience dans des situations de #crise/ d’#effondrement

    – Créer des conditions de #dialogues générateurs de #changement

    – Créer une #confiance_collective

    – Créer des conditions pour favoriser l’émergence de l’intention personnelle ou collective

    – » #Relier toujours relier » des évènements, des idées, des symboles, des actions, des personnes, des organisations…

    – Créer des conditions favorables afin de pouvoir percevoir le futur en émergence dans une situation complexe et difficile

    - Prendre conscience des différents rôles dans les conflits (victime, agresseur, garant) et de la phase du conflit dans laquelle nous nous trouvons.

    - Transformer de manière constructive des conflits

    - Savoir agir dans des situations qui impliquent des acteurs qui sont en conflits (processus multi acteurs)

    #Agir pour se donner confiance et créer de la #connaissance

    – Sentir dans un moment de vie, de processus, les différentes situations (polarités, émotions,Identifier les limites et les passages de frontières, les ambiances qui agissent sur le groupe…)

    - Sentir les processus de diffusion des émotions, de rang, de désirs mimétiques, de bouc émissaire……..

    - Savoir agir de manière pragmatique (lier la main, le coeur et l’esprit dans un même mouvement) lorsque l’on découvre une nouvelle vision, un nouveau projet

    - Savoir sentir le tout, suivre son intention « traverser la rivière » et « sentir chaque pierre avec ses pieds »

    – Savoir prototyper, tester, modifier et retester, remodifier

    - Savoir déployer individuellement ou collectivement son action.

    Si vous souhaitez connaitre les expériences de formations transformatrices reliées ou impliquées dans le réseau UITC veuillez les contacter directement (voir la liste et des contacts ci-joints) . Si vous voulez participer participer à une session de formation, contactez les personnes indiquées ou le secrétariat de l’UItC. Si vous êtes intéressées de monter des formations, faites de même. Contactez -nous !

    Dans le réseau de l’Université Internationale terre Citoyenne (UITC), nous nous appuyons sur un groupe d’expériences de formation qui, pour nous, ont un caractère transformateur des personnes impliquées mais aussi des réalités auxquelles ces personnes sont confrontées. Quand nous parlons de caractère transformateur, nous pensons au fait que les personnes sortent de ces formations avec une vision du monde différente, transformée, avec des capacités qui leur permettent d’agir avec plus de pertinence et d’efficacité afin de faire face aux situations chaotiques et conflictuelles, aux crises, aux effondrements possibles. Ces compétences doivent leur permettre d’affronter ces réalités mais aussi de tenter de les transformer dans le sens de sociétés plus durables.

    En 2015, nous avions édité un catalogue de 47 formations réalisées par des organisations associées UITC https://issuu.com/almedio/docs/maqueta_catalogo_18sept15

    Aujourd’hui, nous mettons en lumière une liste d’une quinzaine de formations qui ont pour nous un caractère transformateur et avec lesquelles nous sommes engagés dans une processus de valorisation, d’échanges à distance (visioconférences) . Elles sont aussi partie prenante pour une partie d’entre elles à une recherche/ action autour des démarches, des méthodes transformatrices des personnes, des situations, des sociétés. (Pédagogie de la résilience et du changement)

    https://uitc.earth/les-formations-transformatrices

    #transformativité #formation #éducation #transformation #formations_transformatrices

  • Budget européen pour la migration : plus de contrôles aux frontières, moins de respect pour les droits humains

    Le 17 juillet 2020, le Conseil européen examinera le #cadre_financier_pluriannuel (#CFP) pour la période #2021-2027. À cette occasion, les dirigeants de l’UE discuteront des aspects tant internes qu’externes du budget alloué aux migrations et à l’#asile.

    En l’état actuel, la #Commission_européenne propose une #enveloppe_budgétaire totale de 40,62 milliards d’euros pour les programmes portant sur la migration et l’asile, répartis comme suit : 31,12 milliards d’euros pour la dimension interne et environ 10 milliards d’euros pour la dimension externe. Il s’agit d’une augmentation de 441% en valeur monétaire par rapport à la proposition faite en 2014 pour le budget 2014-2020 et d’une augmentation de 78% par rapport à la révision budgétaire de 2015 pour ce même budget.

    Une réalité déguisée

    Est-ce une bonne nouvelle qui permettra d’assurer dignement le bien-être de milliers de migrant.e.s et de réfugié.e.s actuellement abandonné.e.s à la rue ou bloqué.e.s dans des centres d’accueil surpeuplés de certains pays européens ? En réalité, cette augmentation est principalement destinée à renforcer l’#approche_sécuritaire : dans la proposition actuelle, environ 75% du budget de l’UE consacré à la migration et à l’asile serait alloué aux #retours, à la #gestion_des_frontières et à l’#externalisation des contrôles. Ceci s’effectue au détriment des programmes d’asile et d’#intégration dans les États membres ; programmes qui se voient attribuer 25% du budget global.

    Le budget 2014 ne comprenait pas de dimension extérieure. Cette variable n’a été introduite qu’en 2015 avec la création du #Fonds_fiduciaire_de_l’UE_pour_l’Afrique (4,7 milliards d’euros) et une enveloppe financière destinée à soutenir la mise en œuvre de la #déclaration_UE-Turquie de mars 2016 (6 milliards d’euros), qui a été tant décriée. Ces deux lignes budgétaires s’inscrivent dans la dangereuse logique de #conditionnalité entre migration et #développement : l’#aide_au_développement est liée à l’acceptation, par les pays tiers concernés, de #contrôles_migratoires ou d’autres tâches liées aux migrations. En outre, au moins 10% du budget prévu pour l’Instrument de voisinage, de développement et de coopération internationale (#NDICI) est réservé pour des projets de gestion des migrations dans les pays d’origine et de transit. Ces projets ont rarement un rapport avec les activités de développement.

    Au-delà des chiffres, des violations des #droits_humains

    L’augmentation inquiétante de la dimension sécuritaire du budget de l’UE correspond, sur le terrain, à une hausse des violations des #droits_fondamentaux. Par exemple, plus les fonds alloués aux « #gardes-côtes_libyens » sont importants, plus on observe de #refoulements sur la route de la Méditerranée centrale. Depuis 2014, le nombre de refoulements vers la #Libye s’élève à 62 474 personnes, soit plus de 60 000 personnes qui ont tenté d’échapper à des violences bien documentées en Libye et qui ont mis leur vie en danger mais ont été ramenées dans des centres de détention indignes, indirectement financés par l’UE.

    En #Turquie, autre partenaire à long terme de l’UE en matière d’externalisation des contrôles, les autorités n’hésitent pas à jouer avec la vie des migrant.e.s et des réfugié.e.s, en ouvrant et en fermant les frontières, pour négocier le versement de fonds, comme en témoigne l’exemple récent à la frontière gréco-turque.

    Un budget opaque

    « EuroMed Droits s’inquiète de l’#opacité des allocations de fonds dans le budget courant et demande à l’Union européenne de garantir des mécanismes de responsabilité et de transparence sur l’utilisation des fonds, en particulier lorsqu’il s’agit de pays où la corruption est endémique et qui violent régulièrement les droits des personnes migrantes et réfugiées, mais aussi les droits de leurs propres citoyen.ne.s », a déclaré Wadih Al-Asmar, président d’EuroMed Droits.

    « Alors que les dirigeants européens se réunissent à Bruxelles pour discuter du prochain cadre financier pluriannuel, EuroMed Droits demande qu’une approche plus humaine et basée sur les droits soit adoptée envers les migrant.e.s et les réfugié.e.s, afin que les appels à l’empathie et à l’action résolue de la Présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen ne restent pas lettre morte ».

    https://euromedrights.org/fr/publication/budget-europeen-pour-la-migration-plus-de-controles-aux-frontieres-mo


    https://twitter.com/EuroMedRights/status/1283759540740096001

    #budget #migrations #EU #UE #Union_européenne #frontières #Fonds_fiduciaire_pour_l’Afrique #Fonds_fiduciaire #sécurité #réfugiés #accord_UE-Turquie #chiffres #infographie #renvois #expulsions #Neighbourhood_Development_and_International_Cooperation_Instrument

    Ajouté à la métaliste sur la #conditionnalité_de_l'aide_au_développement :
    https://seenthis.net/messages/733358#message768701

    Et à la métaliste sur l’externalisation des contrôles frontaliers :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765319

    ping @karine4 @rhoumour @reka @_kg_

  • Nouvelle forme de #confinement aux portes de l’Union européenne. Actes de la conférence de Madrid (2019)

    Depuis la mise en place de « l’#approche_hotspot », en 2015, par l’Union européenne (UE), Migreurop décrypte ses conséquences et dérives dans ses publications et à l’occasion de diverses rencontres internationales (Calais 2015, Rabat 2016). Le but de ce dispositif, qui n’a rien de nouveau, est en d’empêcher les arrivées et de criminaliser la migration, ce qui s’accompagne d’une montée de la #violence et d’atteintes aux droits des migrant·e·s dans le cadre d’une politique du tout sécuritaire. Cinq ans après, qu’en est-il en Europe et au-delà ?

    Pour faire le point, Migreurop a organisé le 8 juin 2019 à Madrid une #conférence sur les nouvelles formes de confinement aux portes de l’UE, qui a permis de mettre à jour les connaissances sur les situations de #détention dans divers pays de la zone géographique couverte par le réseau.

    Grâce à nos membres et invité.e.s, ont ainsi été abordées la situation dans les hotspots grecs et italiens – véritables « #oubliettes_modernes » et indignes –, ainsi que dans les « centres de séjour temporaires pour immigrés » (#CETI) dans les enclaves de #Ceuta et #Melilla, véritables lieux de #tri et d’#attente à l’entrée de l’Europe ; les pratiques de #non-accueil à #Malte et en #Espagne et également les politiques d’#externalisation, intrinsèquement liées à « l’approche hotspot », avec les cas marocain, égyptien et libyen. Finalement, dans les hotspots, ou lieux affiliés, les exilé.e.s sont cantonné.e.s dans des espaces qui ne sont pas destinés à accueillir, mais en réalité au service de la gestion des frontières fermées.

    http://www.migreurop.org/article2976.html

    –—

    En anglais : http://www.migreurop.org/article2977.html

    #hotspot #hotspots #Europe #EU #UE #migrations #asile #réfugiés #frontières #frontières_extérieures #Maroc #Italie #Grèce #Egypte #Libye #contrôles_frontaliers #fermeture_des_frontières

    ping @karine4 @_kg_

  • Vidéo hotspots

    #Migreurop lance aujourd’hui une vidéo pour dénoncer les politiques migratoires européennes mortifères, et en particulier les #hotspots en Grèce et en Italie. Au vu de la situation sanitaire actuelle, cette vidéo est accompagnée d’un communiqué (FR/EN/ES), auquel les membres du réseau ont eu l’occasion de contribuer, pour exiger que tous les camps d’étranger.e.s soient vidés et que ces dernier.e.s aient également le droit d’être protégé.e.s.

    La vidéo :
    https://vimeo.com/402154419


    (elle existe en français, anglais et espagnol)

    #vidéo #migrations #réfugiés #asile #hotspot #Grèce #Italie #militarisation_des_frontières #fermeture_des_frontières #Règlement_Dublin #Dublin #approche_hotspot #tri #catégorisation #migrants_économiques #relocalisation #ressources_pédagogiques #renvois #expulsions #renvois_forcés #décès #morts #indifférence #politiques_migratoires

    Le communiqué :
    https://seenthis.net/messages/838573

    ping @karine4 @_kg_

  • Pour limiter les pandémies, les humains doivent « décoloniser le monde »

    Lorène Lavocat (Reporterre)

    La destruction des écosystèmes est une des causes de la pandémie de Covid-19. Sans changement radical de notre rapport à la planète,
    d’autres drames sanitaires sont à prévoir. Mais, dans la perspective
    de la catastrophe économique à venir, les décideurs sauront-ils
    prendre conscience de ce qu’il se passe en écoutant et respectant les
    citoyens ?

    (…)

    Nous détruisons les milieux naturels à un rythme accéléré : 100
    millions d’hectares de forêt tropicale coupés entre 1980 et 2000 ;
    plus de 85 % des zones humides supprimées depuis le début de l’époque industrielle. Ce faisant, nous mettons en contact des populations humaines, souvent en état de santé précaire, avec de nouveaux agents pathogènes. Les réservoirs de ces pathogènes sont des animaux sauvages habituellement cantonnés aux milieux dans lesquels l’espèce humaine est quasiment absente ou en petites populations isolées. Du fait de la destruction des forêts, les villageois installés en lisière de déboisement chassent et envoient de la viande contaminée vers des grandes villes.

    Avant le Covid-19, d’autres virus et bactéries se sont déjà propagées
    d’animaux sauvages vers les humains : Ebola en Afrique, le Sars de
    Chine, le Nipah de Malaisie, la fièvre de Lassa au Nigeria, Zika… Sans
    compter la multiplication des épizooties, les pandémies animales,
    comme la peste porcine ou la fièvre catarrhale ovine. Cependant, face
    à cette recrudescence des maladies infectieuses, « nos réponses sont
    toujours des réponses contre la nature, contre le vivant, regrette M.
    Morand. Lors de la grippe aviaire en 2005 en Thaïlande, les autorités
    ont ciblé le petit élevage de basse-cour, et poussé pour l’abattage
    massif et l’interdiction des races locales au profit de races
    industrialisées ». Certains chercheurs craignent que les
    chauves-souris et les pangolins, désignés comme hôtes originels du
    coronavirus, ne fassent ainsi les frais de la pandémie. « Les
    chauves-souris ont un rôle essentiel dans les écosystèmes, notamment parce qu’elles participent à la pollinisation, insiste Jean-François Guégan. On tire sur les chauves-souris et les pangolins pour ne pas répondre à la cause réelle qu’est la destruction des habitats par notre système économique. »

    Autrement dit, ne nous trompons pas de responsables. Mais ne nous
    trompons pas non plus de grille de lecture, estime la philosophe
    Virginie Maris : « Il y a d’abord beaucoup d’enseignements à tirer sur
    notre société, l’effondrement de l’État-providence et l’explosion des
    inégalités qui la caractérisent et qui sont mises à nues par cette
    crise sanitaire, souligne-t-elle. Cet épisode contribue aussi à
    déconstruire l’idée que la nature serait foncièrement bonne et que la
    solution à la crise écologique actuelle serait d’“accepter les lois de
    la nature” ou de “nous réconcilier” avec elle. » Pour Mme Maris, « 
    rétablir l’harmonie rompue entre humains et autres qu’humains », est une illusion, un fantasme « qui prend racine dans le mythe du jardin d’Éden et qui se renouvelle sans cesse, avec la figure du bon sauvage et la diversité des formes qu’elle a prise dans l’histoire ».

    Lire la suite :

    https://reporterre.net/Pour-limiter-les-pandemies-les-humains-doivent-decoloniser-le-monde

    • « Si nous ne changeons pas nos modes de vie, nous subirons des monstres autrement plus violents que ce coronavirus » entretien avec , Claire Legros, 17 avril 2020 (à quelle vitesse Le Monde suit-il ?)

      Jean-François Guégan, directeur de recherche à l’Inrae, travaille sur les relations entre santé et environnement. Dans un entretien au « Monde », il estime que l’épidémie de Covid-19 doit nous obliger à repenser notre relation au monde vivant.

      Entretien. Ancien membre du Haut Conseil de la santé publique (HCSP), Jean-François Guégan a fait partie du comité d’experts qui a conseillé la ministre de la santé Roselyne Bachelot lors de l’épidémie de grippe A (H1N1), en 2009. Directeur de recherche à l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (Inrae) et professeur à l’Ecole des hautes études en santé publique, il estime que l’épidémie de Covid-19 doit nous obliger à repenser notre relation aux systèmes naturels, car l’émergence de nouvelles maladies infectieuses est étroitement liée à l’impact des sociétés humaines sur l’environnement et la biodiversité.

      Vous avez fait partie des experts qui ont conseillé d’acheter des masques et des vaccins en grand nombre lors de la pandémie provoquée par le virus H1N1. Comment analysez-vous la situation en France, dix ans plus tard ?

      Comme beaucoup de mes collègues, j’ai été très surpris de l’état d’impréparation de la France à l’épidémie de Covid-19. Les expériences passées avaient pourtant mis en évidence la nécessité d’anticiper et de préparer l’arrivée de pandémies. Au sein du HCSP, nous avions préconisé l’achat des fameux vaccins, mais aussi la constitution d’une réserve de près de 1 milliard de masques, pour protéger la population française en cas de risque majeur, à renouveler régulièrement car ils se périment vite. Nous avions alors réussi à sensibiliser les décideurs de plusieurs ministères sur cette nécessaire anticipation. Je pensais que nous étions prêts. Au ministère de la santé, Xavier Bertrand a reconduit l’achat des masques, mais, ensuite, il y a eu un changement de stratégie. Il semble que l’économétrie ait prévalu sur la santé publique.

      Comment expliquer cette difficulté à cultiver, sur le long terme, une approche préventive ?

      Les départements affectés aux #maladies_infectieuses ont été, ces dernières années, désinvestis, car beaucoup, y compris dans le milieu médical, estimaient que ces maladies étaient vaincues. Et c’est vrai que le nombre de décès qu’elles occasionnent a diminué dans les sociétés développées. En revanche, elles sont toujours responsables de plus de 40 % des décès dans les pays les plus démunis, et on observe aussi une augmentation de la fréquence des épidémies ces trente dernières années.

      Nous n’avons cessé d’alerter sur leur retour en force depuis quinze ans, sans succès. On a vu les crédits attribués à la médecine tropicale s’effondrer, des connaissances se perdre, faute d’être enseignées, même si elles perdurent encore chez les médecins du service de santé des armées, dans les services d’infectiologie et les grandes ONG humanitaires.

      Quelle est la place de la santé publique dans la culture médicale en France ?

      La médecine, en France, a toujours privilégié l’#approche_curative. On laisse le feu partir, et on essaie ensuite de l’éteindre à coups de vaccins. De fait, il existe aujourd’hui une hiérarchie entre les différentes disciplines : certaines sont considérées comme majeures, parce que personnalisées, technologiques, curatives. C’est le cas, par exemple, de la médecine nucléaire ou de la cardiologie. D’autres sont délaissées, comme la santé publique et l’infectiologie, discipline de terrain et de connaissances des populations.

      Que sait-on aujourd’hui des interactions entre environnement et santé, et en particulier du rôle de la biodiversité dans la survenue de nouvelles épidémies ?

      Depuis les débuts de notre civilisation, l’origine des agents infectieux n’a pas varié. Les premières contagions sont apparues au néolithique, vers 10 000 à 8 000 av. J.-C., en Mésopotamie inférieure – aujourd’hui l’Irak –, lorsqu’on a construit des #villes dont les plus grandes pouvaient atteindre vingt mille habitants. On a ainsi offert de nouveaux #habitats aux animaux commensaux de l’homme, ceux qui partagent sa nourriture, comme les arthropodes, les mouches, les cafards, les rats, qui peuvent lui transmettre des agents.

      Pour nourrir les habitants des villes, il a fallu aussi développer l’agriculture et l’élevage en capturant des animaux sauvages, créant ainsi les conditions de proximité pour le passage vers l’humain de virus et de bactéries présents chez ces animaux ou abrités dans les sols ou les plantes et leurs systèmes racinaires. Les bactéries responsables du tétanos, de la tuberculose ou de la lèpre sont originaires du sol.

      La #déforestation est mise en cause dans l’augmentation du nombre de maladies infectieuses émergentes ces dernières années. De quelle façon ?

      Sa pratique massive a amplifié le phénomène depuis cinquante ans, en particulier dans les zones intertropicales, au Brésil, en Indonésie ou en Afrique centrale pour la plantation du palmier à huile ou du soja. Elle met l’humain directement en contact avec des systèmes naturels jusque-là peu accessibles, riches d’agents microbiens.

      Ainsi, le virus du sida le plus distribué, VIH-1, est issu d’un rétrovirus naturellement présent chez le chimpanzé en Afrique centrale. Le virus Nipah, responsable d’encéphalites en Malaisie, en 1998, a pour hôte naturel une espèce de chauve-souris frugivore qui vit habituellement dans les forêts d’Indonésie. La déforestation dans cette région a entraîné son déplacement vers la Malaisie, puis le Bangladesh, où les chauves-souris se sont approchées des villages pour se nourrir dans les vergers. Des porcs ont joué le rôle de réacteurs et contribué à l’amplification du virus.

      Il ne fait aucun doute qu’en supprimant les #forêts_primaires nous sommes en train de débusquer des monstres puissants, d’ouvrir une boîte de Pandore qui a toujours existé, mais qui laisse aujourd’hui s’échapper un fluide en micro-organismes encore plus volumineux.

      Depuis trente ans, l’urbanisation s’étend aux régions intertropicales. Quel rôle joue-t-elle dans cette transmission ?

      Dans ces régions, une vingtaine de villes comptent désormais plus de 7 millions d’habitants, qui accumulent à la fois richesse et extrême pauvreté, avec une population très sensible aux infections. Le scénario du néolithique se reproduit, mais de manière amplifiée par la biodiversité tropicale.

      L’agriculture qui s’y organise dans les zones périurbaines favorise la création de gîtes pour les micro-organismes présents dans l’eau, comme les bactéries responsables du choléra, ou les moustiques, vecteurs de paludisme. Des élevages de poulets ou de porcs y jouxtent les grands domaines forestiers tropicaux. Il suffit de faire une cartographie de Manaus [Brésil] ou de Bangkok pour visualiser comment ces pratiques favorisent les ponts entre des mondes hier bien séparés.

      Peut-on dire que la pandémie de Covid-19 est liée à des phénomènes de même nature ?

      Les origines du virus sont discutées, il faut rester prudent. Les scientifiques s’accordent néanmoins sur une transmission de l’animal à l’humain. Dans sa composition moléculaire, le coronavirus responsable du Covid-19 ressemble en partie à un virus présent chez les chauves-souris du groupe des rhinolophes, et en partie à un virus qui circule chez une espèce de pangolin d’Asie du Sud-Est.

      Si le coronavirus a été transmis par la chauve-souris, il est possible que la déforestation intensive soit en cause. Si le scénario du pangolin est vérifié, la cause est à rechercher du côté de l’exploitation illégale de ressources forestières menacées. En Chine, le pangolin est un mets de choix, et on utilise aussi ses écailles et ses os pour la pharmacopée. La nette diminution des rhinocéros en Afrique a peut-être joué un rôle, avec un report sur le pangolin à un moment où l’importation en Chine de cornes de rhinocéros est rendue plus difficile.

      Certains sont tentés de supprimer les animaux soupçonnés d’être les réservoirs du virus…

      Cette hypothèse n’est ni réaliste ni souhaitable. Et d’ailleurs a-t-on vraiment envie de vivre dans ce monde-là ? De tout temps, les épidémies ont suscité des boucs émissaires. Les chauves-souris sont également accusées d’être les réservoirs d’Ebola – une théorie qui n’est pour l’heure pas démontrée – et souvent associées dans les imaginaires à une représentation diabolique. On oublie au passage qu’il s’agit d’animaux extrêmement utiles pour la pollinisation de très nombreuses plantes, ou comme prédateurs d’insectes.

      N’oublions pas non plus que la vie sur Terre est organisée autour des micro-organismes. Cette biodiversité est par exemple essentielle chez l’humain pour le développement du microbiome intestinal, c’est-à-dire l’ensemble des bactéries abritées dans notre système digestif, qui détermine dans les premiers âges de la vie notre système immunitaire.

      Peut-on faire un lien direct entre l’augmentation des épidémies et la crise climatique ?

      C’est un paramètre sur lequel on manque d’arguments. Les crises environnementales dans leur ensemble provoquent des phénomènes non linéaires, en cascade, des successions d’événements que l’on ne peut pas appréhender par la voie expérimentale. On peut réaliser des expériences en mésocosme, c’est-à-dire dans des lieux confinés où l’on fait varier les paramètres – sol, hygrométrie, température. Mais d’autres variables, telles que la pauvreté, la nutrition ou les mouvements de personnes, ne sont pas considérées par ces études, alors qu’elles peuvent jouer un rôle très important dans la transmission des infections. Quoi qu’il en soit, le changement climatique viendra exacerber des situations déjà existantes.

      Une approche pluridisciplinaire est donc indispensable pour comprendre les épidémies ?

      L’approche cartésienne pour démontrer les relations de cause à effet n’est plus adaptée face à ces nouvelles menaces. Toutes les problématiques planétaires nécessitent de développer des recherches intégratives et transversales, qui doivent prendre en compte les sciences humaines, l’anthropologie, la sociologie, les sciences politiques, l’économie…

      Il est possible de développer des analyses de scénarios, ainsi que des analyses statistiques. Or, ces approches sont souvent déconsidérées au profit des sciences expérimentales. D’un point de vue épistémologique, il est temps d’en finir avec cette distinction entre sciences majeures et mineures, pour reconstruire une pensée scientifique adaptée aux nouveaux enjeux. Cela demande que chaque discipline se mette à l’écoute des autres. Mais ce n’est pas le plus facile !

      Faut-il envisager la permanence d’un risque pandémique ?

      Nous sommes à l’ère des #syndémies (de « syn » qui veut dire « avec »), c’est-à-dire des épidémies qui franchissent les barrières des espèces, et circulent chez l’humain, l’animal ou le végétal. Si elles ont des étiologies différentes (des virus de familles différentes par exemple), elles ont quasiment toutes les mêmes causes principales.

      Cette épidémie est terrible, mais d’autres, demain, pourraient être bien plus létales. Il s’agit d’un coup de semonce qui peut être une chance si nous savons réagir. En revanche, si nous ne changeons pas nos modes de vie et nos organisations, nous subirons de nouveaux épisodes, avec des monstres autrement plus violents que ce coronavirus.

      Comment faire pour se protéger ?

      On ne réglera pas le problème sans en traiter la cause, c’est-à-dire les perturbations que notre monde globalisé exerce sur les environnements naturels et la diversité biologique. Nous avons lancé un boomerang qui est en train de nous revenir en pleine face. Il nous faut repenser nos façons d’habiter l’espace, de concevoir les villes, de produire et d’échanger les biens vitaux.

      L’humain est un omnivore devenu un superprédateur, dégradant chaque année l’équivalent de la moitié de l’Union européenne de terres cultivables. Pour lutter contre les épidémies, les changements nécessaires sont civilisationnels.
      Comme dans la symbolique du yin et du yang, nous devons accepter la double nature de ce qui nous entoure. Il nous faut complètement repenser notre relation au monde vivant, aux écosystèmes naturels et à leur diversité biologique, à la fois garants des grands équilibres et source de nombreux dangers. La balle n’est plus dans le camp des chercheurs qui alertent depuis vingt ans, mais dans celui des politiques.

      #cartésianisme #transversalité

  • What Really Doomed America’s Coronavirus Response - The Atlantic
    https://www.theatlantic.com/technology/archive/2020/03/what-really-doomed-americas-coronavirus-response/608596

    par Zeynep Tufekci

    Many will be tempted to see the tragic coronavirus pandemic through a solely partisan lens: The Trump administration spectacularly failed in its response, by cutting funding from essential health services and research before the crisis, and later by denying its existence and its severity. Those are both true, but they don’t fully explain the current global crisis that has engulfed countries of varying political persuasions.

    As it turns out, the reality-based, science-friendly communities and information sources many of us depend on also largely failed. We had time to prepare for this pandemic at the state, local, and household level, even if the government was terribly lagging, but we squandered it because of widespread asystemic thinking: the inability to think about complex systems and their dynamics. We faltered because of our failure to consider risk in its full context, especially when dealing with coupled risk—when multiple things can go wrong together. We were hampered by our inability to think about second- and third-order effects and by our susceptibility to scientism—the false comfort of assuming that numbers and percentages give us a solid empirical basis. We failed to understand that complex systems defy simplistic reductionism.

    These pieces were neither exceptional nor exceptionally bad. In fact, they were routine examples of the common sentiment among mainstream media. There was coverage of the coronavirus, but we did not have what we desperately needed: the clear and loud warning that a tsunami was about to land on our shores, and that we needed to start getting ready, immediately. The appropriate message for a tsunami headed our way isn’t that it’s not a threat “for now” or that we should worry about falling in the tub instead. A massive reaction would not have been an overreaction at all; it would have been appropriate. If nothing else, that China’s efficient top-down regime, which highly values its own survival, was willing to take such drastic steps was a sign that the coronavirus was a profound threat.

    This complacency went on until about early March, when the severity of the crisis finally sunk in, seemingly only after Italy started suffering the same kind of crisis that had hit Wuhan months earlier.

    Many pieces with these flu comparisons usually included discussions of R0 and case-fatality rate, but numbers alone do not make science or sensible risk calculation in complex systems. We needed instead to think about these numbers and measurements in the context of the global system, including how epidemics and the health-care infrastructure work, and consider the trade-offs between resilience, efficiency, and redundancy within the system, and how the second- and third-order impacts can reverberate.

    Health systems are prone to nonlinear dynamics exactly because hospitals are resource-limited entities that necessarily strive for efficiency. Hospitals in wealthy nations have some slack built in for surge capacity, but not that much. As a result, they can treat only so many people at once, and they have particular bottlenecks for their most expensive parts, such as ventilators and ICUs. The flu season may be tragic for its victims; however, an additional, unexpected viral illness in the same season isn’t merely twice as tragic as the flu, even if it has a similar R0 or CFR: It is potentially catastrophic.

    Worse, COVID-19 wasn’t even just another flu-like illness. By January 29, it was clear that COVID-19 caused severe primary pneumonia in its victims, unlike the flu, which tends to leave patients susceptible to opportunistic, secondary pneumonia. That’s like the difference between a disease that drops you in the dangerous part of town late at night and one that does the mugging itself. COVID-19’s characteristics made it clear that the patients would need a lot of intensive, expensive resources, as severe pneumonia patients do: ICU beds, ventilators, negative-pressure rooms, critical-care nurses.

    This is why the case-fatality rate for COVID-19 was never a sufficient indicator of its threat. If emergency rooms and ICUs are overloaded from COVID-19, we will see more deaths from everything else: from traffic accidents, heart attacks, infections, seasonal influenza, falls and traumas—basically anything that requires an emergency-room response to survive. If COVID-19 causes a shortage of masks for emergency-room workers, hospitals will stop everything that looks “elective” or nonurgent to fight that fire, but that means people will then suffer and die from things that those surgeries were intended to treat or improve. An angioplasty may not be urgent that week, but it is still a lifesaving intervention without which more people will die. This is true for even seemingly optional health interventions: If people can’t get knee-replacement surgeries, for example, they will be less active, which will increase their health risks.

    The phrase flatten the curve is an example of systems thinking. It calls for isolation and distancing not because one is necessarily at great risk from COVID-19, but because we need to not overwhelm hospitals with infections in the aggregate. Also, R0 is not a fixed number: If we isolate ourselves, infectiousness decreases. If we keep traveling and congregating, it increases. Flattening the curve is a system’s response to try to avoid a cascading failure, by decreasing R0 as well as the case-fatality rate by understanding how systems work.

    #Zeynep_Tufekci #Coronavirus #Approche_systémique

  • Une coalition contre les violences aux frontières

    Nous déposerons plainte contre la Grèce et l’UE pour les violations des droits des personnes migrantes et réfugiées fuyant la Turquie

    Ces derniers jours, les #violations des droits des migrant·e·s et réfugié·e·s qui cherchent à accéder au territoire européen via la Grèce ont pris une tournure dramatique. Si les #violences contre les exilé·e·s atteignent aujourd’hui un niveau inouï, les conditions de cette #escalade ont été posées par les dirigeants européens depuis plusieurs années. En 2015, l’Union européenne (UE) a introduit son « #approche_hotspot », obligeant l’Italie et la Grèce à trier les migrant·e·s et réfugié·e·s arrivant sur leurs côtes. En mars 2016, l’UE a signé un arrangement avec la Turquie qui, pour un temps, a permis de contenir de nouvelles arrivées. Sans surprise, ces dispositifs ont transformé les îles grecques en prisons à ciel ouvert et exacerbé la catastrophe humanitaire aux frontières grecques. La coopération avec la Turquie – largement dénoncée par la société civile –, s’effondre aujourd’hui, alors que les autorités turques, cherchant à faire pression sur l’UE, poussent les personnes migrantes et réfugiées en sa direction.

    Pour empêcher l’arrivée d’un plus grand nombre d’exilé·e·s – principalement Syrien⋅ne·s – fuyant la guerre et maintenant les menaces turques, les agents grecs ont déployé un niveau de #violence inédit, rejoints par une partie de la population. En mer, les garde-côtes coupent la route aux bateaux des migrant·e·s et réfugié·e·s, tirant en l’air et blessant certain·e·s passager·e·s. [1] Un enfant s’est noyé durant la traversée [2] Sur terre, les refoulements à la rivière #Evros ont continué. Une vidéo - qualifiée de « fake news » par les autorités grecques [3] mais vérifiée par #Forensic_Architecture - montre un réfugié syrien tué par balle alors qu’il tentait de traverser la rivière. [4] Par ailleurs, les militant⋅e·s, agissant en solidarité avec les personnes migrantes et réfugiées sont criminalisé⋅e·s et attaqué⋅e·s par des groupes d’extrême droite. [5] Des violations graves sont en cours et les principes de base du droit d’asile sont foulés au pied.

    Cette violence vise à envoyer un message simple aux migrant·e·s et réfugié·e·s potentiel·le·s, celui que le ministère des Affaires Étrangères a exprimé via Twitter : « Personne ne peut traverser les frontières grecques ». [6] Cette politique grecque de fermeture des frontières [7] est soutenue par l’UE. Charles Michel, président du Conseil européen, a ainsi encensé les efforts des Grecs pour « protéger les frontières de l’Europe » [8]. Ursula von der Leyen, présidente de la Commission européenne, a qualifié la Grèce de « bouclier européen » - suggérant ainsi que les personnes migrantes et réfugiées constituent une menace physique pour l’Europe. [9] Enfin, l’agence européenne Frontex va déployer une intervention rapide dans la zone. [10] La Grèce et l’UE sont ainsi prêtes à recourir à tous les moyens pour tenter de dissuader les migrant·e·s et réfugié·e·s et empêcher la répétition des arrivées en grand nombre de 2015 – et la crise politique qu’elles ont générée à travers l’Europe.

    Nous condamnons fermement l’instrumentalisation des migrant·e·s et réfugié·e·s par la Turquie et par l’UE. Aucun objectif politique ne peut justifier de telles exactions. Il est révoltant que des personnes fuyant la violence se trouvent exposées à de nouvelles violences commises par les États européens dont le cynisme et l’hypocrisie culminent. Nos organisations s’engagent à joindre leurs efforts pour forcer les États à rendre compte de leurs crimes. Nous documenterons ainsi les violations des droits des migrant·e·s et réfugié·e·s et déposerons plainte contre ceux qui en sont responsables. Nous soutenons également celles et ceux qui sont de plus en plus criminalisé·e·s pour leur solidarité.

    Nos efforts visent à utiliser tous les outils d’#investigation et du #droit pour faire cesser la #violence_d’État, en finir avec la multiplication et la #banalisation des pratiques de #refoulement en Grèce, et ailleurs aux frontières de l’Europe. Les migrant·e·s et réfugié·e·s ne sont pas une menace face à laquelle l’Europe doit ériger un bouclier, mais sont eux même menacés par la violence des États tout au long de leurs trajectoires précaires. Nous utiliserons les outils du droit pour tenter de les protéger contre cette #brutalité.


    https://www.gisti.org/spip.php?article6320
    #plainte #justice #frontières #migrations #asile #réfugiés #Grèce #Turquie #mourir_aux_frontières #morts #décès #îles #mer_Egée #push-back #push-backs #refoulements

  • Israël interdit les exportations agricoles palestiniennes via la Jordanie
    https://www.zonebourse.com/actualite-bourse/Israel-interdit-les-exportations-agricoles-palestiniennes-via-la-Jordani

    RAMALLAH, Cisjordanie, 8 février (Reuters) - Israël a intensifié la guerre commerciale avec les Palestiniens en mettant un coup d’arrêt à leurs exportations agricoles via la Jordanie, a annoncé samedi le ministre palestinien de l’Agriculture, Riyad al-Attari.

    « Hier, le directeur des passages israéliens a informé tous les exportateurs et toutes les parties concernées que tous les produits agricoles palestiniens seraient interdits d’exportation vers les marchés mondiaux via le point de passage jordanien à partir de dimanche », a-t-il déclaré.

    Les responsables israéliens et jordaniens n’ont pas fait de commentaire à ce sujet dans l’immédiat.

    Selon le ministre palestinien, une soixantaine de produits agricoles palestiniens sont exportés vers une centaine de marchés à travers le monde. La nouvelle interdiction concerne l’huile d’olive, les dattes et les herbes médicinales, d’après des exportateurs palestiniens.

  • Le Niger, #nouvelle frontière de l’Europe et #laboratoire de l’asile

    Les politiques migratoires européennes, toujours plus restrictives, se tournent vers le Sahel, et notamment vers le Niger – espace de transit entre le nord et le sud du Sahara. Devenu « frontière » de l’Europe, environné par des pays en conflit, le Niger accueille un nombre important de réfugiés sur son sol et renvoie ceux qui n’ont pas le droit à cette protection. Il ne le fait pas seul. La présence de l’Union européenne et des organisations internationales est visible dans le pays ; des opérations militaires y sont menées par des armées étrangères, notamment pour lutter contre la pression terroriste à ses frontières... au risque de brouiller les cartes entre enjeux sécuritaires et enjeux humanitaires.

    On confond souvent son nom avec celui de son voisin anglophone, le Nigéria, et peu de gens savent le placer sur une carte. Pourtant, le Niger est un des grands pays du Sahel, cette bande désertique qui court de l’Atlantique à la mer Rouge, et l’un des rares pays stables d’Afrique de l’Ouest qui offrent encore une possibilité de transit vers la Libye et la Méditerranée. Environné par des pays en conflit ou touchés par le terrorisme de Boko Haram et d’autres groupes, le Niger accueille les populations qui fuient le Mali et la région du lac Tchad et celles évacuées de Libye.

    « Dans ce contexte d’instabilité régionale et de contrôle accru des déplacements, la distinction entre l’approche sécuritaire et l’approche humanitaire s’est brouillée », explique la chercheuse Florence Boyer, fellow de l’Institut Convergences Migrations, actuellement accueillie au Niger à l’Université Abdou Moumouni de Niamey. Géographe et anthropologue (affiliée à l’Urmis au sein de l’IRD, l’Institut de recherche pour le Développement), elle connaît bien le Niger, où elle se rend régulièrement depuis vingt ans pour étudier les migrations internes et externes des Nigériens vers l’Algérie ou la Libye voisines, au nord, et les pays du Golfe de Guinée, au sud et à l’ouest. Sa recherche porte actuellement sur le rôle que le Niger a accepté d’endosser dans la gestion des migrations depuis 2014, à la demande de plusieurs membres de l’Union européenne (UE) pris dans la crise de l’accueil des migrants.
    De la libre circulation au contrôle des frontières

    « Jusqu’à 2015, le Niger est resté cet espace traversé par des milliers d’Africains de l’Ouest et de Nigériens remontant vers la Libye sans qu’il y ait aucune entrave à la circulation ou presque », raconte la chercheuse. La plupart venaient y travailler. Peu tentaient la traversée vers l’Europe, mais dès le début des années 2000, l’UE, Italie en tête, cherche à freiner ce mouvement en négociant avec Kadhafi, déplaçant ainsi la frontière de l’Europe de l’autre côté de la Méditerranée. La chute du dictateur libyen, dans le contexte des révolutions arabes de 2011, bouleverse la donne. Déchirée par une guerre civile, la Libye peine à retenir les migrants qui cherchent une issue vers l’Europe. Par sa position géographique et sa relative stabilité, le Niger s’impose progressivement comme un partenaire de la politique migratoire de l’UE.

    « Le Niger est la nouvelle frontière de l’Italie. »

    Marco Prencipe, ambassadeur d’Italie à Niamey

    Le rôle croissant du Niger dans la gestion des flux migratoires de l’Afrique vers l’Europe a modifié les parcours des migrants, notamment pour ceux qui passent par Agadez, dernière ville du nord avant la traversée du Sahara. Membre du Groupe d’études et de recherches Migrations internationales, Espaces, Sociétés (Germes) à Niamey, Florence Boyer observe ces mouvements et constate la présence grandissante dans la capitale nigérienne du Haut-Commissariat des Nations-Unies pour les réfugiés (HCR) et de l’Organisation internationale des migrations (OIM) chargée, entre autres missions, d’assister les retours de migrants dans leur pays.

    https://www.youtube.com/watch?v=dlIwqYKrw7c

    « L’île de Lampedusa se trouve aussi loin du Nord de l’Italie que de la frontière nigérienne, note Marco Prencipe, l’ambassadeur d’Italie à Niamey, le Niger est la nouvelle frontière de l’Italie. » Une affirmation reprise par plusieurs fonctionnaires de la délégation de l’UE au Niger rencontrés par Florence Boyer et Pascaline Chappart. La chercheuse, sur le terrain à Niamey, effectue une étude comparée sur des mécanismes d’externalisation de la frontière au Niger et au Mexique. « Depuis plusieurs années, la politique extérieure des migrations de l’UE vise à délocaliser les contrôles et à les placer de plus en plus au sud du territoire européen, explique la postdoctorante à l’IRD, le mécanisme est complexe : les enjeux pour l’Europe sont à la fois communautaires et nationaux, chaque État membre ayant sa propre politique ».

    En novembre 2015, lors du sommet euro-africain de La Valette sur la migration, les autorités européennes lancent le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique « en faveur de la stabilité et de la lutte contre les causes profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique ». Doté à ce jour de 4,2 milliards d’euros, le FFUA finance plusieurs types de projets, associant le développement à la sécurité, la gestion des migrations à la protection humanitaire.

    Le président nigérien considère que son pays, un des plus pauvres de la planète, occupe une position privilégiée pour contrôler les migrations dans la région. Le Niger est désormais le premier bénéficiaire du Fonds fiduciaire, devant des pays de départ comme la Somalie, le Nigéria et surtout l’Érythrée d’où vient le plus grand nombre de demandeurs d’asile en Europe.

    « Le Niger s’y retrouve dans ce mélange des genres entre lutte contre le terrorisme et lutte contre l’immigration “irrégulière”. »

    Florence Boyer, géographe et anthropologue

    Pour l’anthropologue Julien Brachet, « le Niger est peu à peu devenu un pays cobaye des politiques anti-migrations de l’Union européenne, (...) les moyens financiers et matériels pour lutter contre l’immigration irrégulière étant décuplés ». Ainsi, la mission européenne EUCAP Sahel Niger a ouvert une antenne permanente à Agadez en 2016 dans le but d’« assister les autorités nigériennes locales et nationales, ainsi que les forces de sécurité, dans le développement de politiques, de techniques et de procédures permettant d’améliorer le contrôle et la lutte contre les migrations irrégulières ».

    « Tout cela ne serait pas possible sans l’aval du Niger, qui est aussi à la table des négociations, rappelle Florence Boyer. Il ne faut pas oublier qu’il doit faire face à la pression de Boko Haram et d’autres groupes terroristes à ses frontières. Il a donc intérêt à se doter d’instruments et de personnels mieux formés. Le Niger s’y retrouve dans ce mélange des genres entre la lutte contre le terrorisme et la lutte contre l’immigration "irrégulière". »

    Peu avant le sommet de La Valette en 2015, le Niger promulgue la loi n°2015-36 sur « le trafic illicite de migrants ». Elle pénalise l’hébergement et le transport des migrants ayant l’intention de franchir illégalement la frontière. Ceux que l’on qualifiait jusque-là de « chauffeurs » ou de « transporteurs » au volant de « voitures taliban » (des 4x4 pick-up transportant entre 20 et 30 personnes) deviennent des « passeurs ». Une centaine d’arrestations et de saisies de véhicules mettent fin à ce qui était de longue date une source légale de revenus au nord du Niger. « Le but reste de bloquer la route qui mène vers la Libye, explique Pascaline Chappart. L’appui qu’apportent l’UE et certains pays européens en coopérant avec la police, les douanes et la justice nigérienne, particulièrement en les formant et les équipant, a pour but de rendre l’État présent sur l’ensemble de son territoire. »

    Des voix s’élèvent contre ces contrôles installés aux frontières du Niger sous la pression de l’Europe. Pour Hamidou Nabara de l’ONG nigérienne JMED (Jeunesse-Enfance-Migration-Développement), qui lutte contre la pauvreté pour retenir les jeunes désireux de quitter le pays, ces dispositifs violent le principe de la liberté de circulation adopté par les pays d’Afrique de l’Ouest dans le cadre de la Cedeao. « La situation des migrants s’est détériorée, dénonce-t-il, car si la migration s’est tarie, elle continue sous des voies différentes et plus dangereuses ». La traversée du Sahara est plus périlleuse que jamais, confirme Florence Boyer : « Le nombre de routes s’est multiplié loin des contrôles, mais aussi des points d’eau et des secours. À ce jour, nous ne disposons pas d’estimations solides sur le nombre de morts dans le désert, contrairement à ce qui se passe en Méditerranée ».

    Partenaire de la politique migratoire de l’Union européenne, le Niger a également développé une politique de l’asile. Il accepte de recevoir des populations en fuite, expulsées ou évacuées des pays voisins : les expulsés d’Algérie recueillis à la frontière, les rapatriés nigériens dont l’État prend en charge le retour de Libye, les réfugiés en lien avec les conflits de la zone, notamment au Mali et dans la région du lac Tchad, et enfin les personnes évacuées de Libye par le HCR. Le Niger octroie le statut de réfugié à ceux installés sur son sol qui y ont droit. Certains, particulièrement vulnérables selon le HCR, pourront être réinstallés en Europe ou en Amérique du Nord dans des pays volontaires.
    Une plateforme pour la « réinstallation »
    en Europe et en Amérique

    Cette procédure de réinstallation à partir du Niger n’a rien d’exceptionnel. Les Syriens réfugiés au Liban, par exemple, bénéficient aussi de l’action du HCR qui les sélectionne pour déposer une demande d’asile dans un pays dit « sûr ». La particularité du Niger est de servir de plateforme pour la réinstallation de personnes évacuées de Libye. « Le Niger est devenu une sorte de laboratoire de l’asile, raconte Florence Boyer, notamment par la mise en place de l’Emergency Transit Mechanism (ETM). »

    L’ETM, proposé par le HCR, est lancé en août 2017 à Paris par l’Allemagne, l’Espagne, la France et l’Italie — côté UE — et le Niger, le Tchad et la Libye — côté africain. Ils publient une déclaration conjointe sur les « missions de protection en vue de la réinstallation de réfugiés en Europe ». Ce dispositif se présente comme le pendant humanitaire de la politique de lutte contre « les réseaux d’immigration économique irrégulière » et les « retours volontaires » des migrants irréguliers dans leur pays effectués par l’OIM. Le processus s’accélère en novembre de la même année, suite à un reportage de CNN sur des cas d’esclavagisme de migrants en Libye. Fin 2017, 3 800 places sont promises par les pays occidentaux qui participent, à des degrés divers, à ce programme d’urgence. Le HCR annonce 6 606 places aujourd’hui, proposées par 14 pays européens et américains1.

    Trois catégories de personnes peuvent bénéficier de la réinstallation grâce à ce programme : évacués d’urgence depuis la Libye, demandeurs d’asile au sein d’un flux dit « mixte » mêlant migrants et réfugiés et personnes fuyant les conflits du Mali ou du Nigéria. Seule une minorité aura la possibilité d’être réinstallée depuis le Niger vers un pays occidental. Le profiling (selon le vocabulaire du HCR) de ceux qui pourront bénéficier de cette protection s’effectue dès les camps de détention libyens. Il consiste à repérer les plus vulnérables qui pourront prétendre au statut de réfugié et à la réinstallation.

    Une fois évacuées de Libye, ces personnes bénéficient d’une procédure accélérée pour l’obtention du statut de réfugié au Niger. Elles ne posent pas de problème au HCR, qui juge leur récit limpide. La Commission nationale d’éligibilité au statut des réfugiés (CNE), qui est l’administration de l’asile au Niger, accepte de valider la sélection de l’organisation onusienne. Les réfugiés sont pris en charge dans le camp du HCR à Hamdallaye, construit récemment à une vingtaine de kilomètres de la capitale nigérienne, le temps que le HCR prépare la demande de réinstallation dans un pays occidental, multipliant les entretiens avec les réfugiés concernés. Certains pays, comme le Canada ou la Suède, ne mandatent pas leurs services sur place, déléguant au HCR la sélection. D’autres, comme la France, envoient leurs agents pour un nouvel entretien (voir ce reportage sur la visite de l’Ofpra à Niamey fin 2018).

    Parmi les évacués de Libye, moins des deux tiers sont éligibles à une réinstallation dans un pays dit « sûr ».

    Depuis deux ans, près de 4 000 personnes ont été évacuées de Libye dans le but d’être réinstallées, selon le HCR (5 300 autres ont été prises en charge par l’OIM et « retournées » dans leur pays). Un millier ont été évacuées directement vers l’Europe et le Canada et près de 3 000 vers le Niger. C’est peu par rapport aux 50 800 réfugiés et demandeurs d’asile enregistrés auprès de l’organisation onusienne en Libye au 12 août 2019. Et très peu sur l’ensemble des 663 400 migrants qui s’y trouvent selon l’OIM. La guerre civile qui déchire le pays rend la situation encore plus urgente.

    Parmi les personnes évacuées de Libye vers le Niger, moins des deux tiers sont éligibles à une réinstallation dans un pays volontaire, selon le HCR. À ce jour, moins de la moitié ont été effectivement réinstallés, notamment en France (voir notre article sur l’accueil de réfugiés dans les communes rurales françaises).

    Malgré la publicité faite autour du programme de réinstallation, le HCR déplore la lenteur du processus pour répondre à cette situation d’urgence. « Le problème est que les pays de réinstallation n’offrent pas de places assez vite, regrette Fatou Ndiaye, en charge du programme ETM au Niger, alors que notre pays hôte a négocié un maximum de 1 500 évacués sur son sol au même moment. » Le programme coordonné du Niger ne fait pas exception : le HCR rappelait en février 2019 que, sur les 19,9 millions de réfugiés relevant de sa compétence à travers le monde, moins d’1 % sont réinstallés dans un pays sûr.

    Le dispositif ETM, que le HCR du Niger qualifie de « couloir de l’espoir », concerne seulement ceux qui se trouvent dans un camp accessible par l’organisation en Libye (l’un d’eux a été bombardé en juillet dernier) et uniquement sept nationalités considérées par les autorités libyennes (qui n’ont pas signé la convention de Genève) comme pouvant relever du droit d’asile (Éthiopiens Oromo, Érythréens, Iraquiens, Somaliens, Syriens, Palestiniens et Soudanais du Darfour).

    « Si les portes étaient ouvertes dès les pays d’origine, les gens ne paieraient pas des sommes astronomiques pour traverser des routes dangereuses. »

    Pascaline Chappart, socio-anthropologue

    En décembre 2018, des Soudanais manifestaient devant les bureaux d’ETM à Niamey pour dénoncer « un traitement discriminatoire (...) par rapport aux Éthiopiens et Somaliens » favorisés, selon eux, par le programme. La représentante du HCR au Niger a répondu à une radio locale que « la plupart de ces Soudanais [venaient] du Tchad où ils ont déjà été reconnus comme réfugiés et que, techniquement, c’est le Tchad qui les protège et fait la réinstallation ». C’est effectivement la règle en matière de droit humanitaire mais, remarque Florence Boyer, « comment demander à des réfugiés qui ont quitté les camps tchadiens, pour beaucoup en raison de l’insécurité, d’y retourner sans avoir aucune garantie ? ».

    La position de la France

    La question du respect des règles en matière de droit d’asile se pose pour les personnes qui bénéficient du programme d’urgence. En France, par exemple, pas de recours possible auprès de l’Ofpra en cas de refus du statut de réfugié. Pour Pascaline Chappart, qui achève deux ans d’enquêtes au Niger et au Mexique, il y a là une part d’hypocrisie : « Si les portes étaient ouvertes dès les pays d’origine, les gens ne paieraient pas des sommes astronomiques pour traverser des routes dangereuses par la mer ou le désert ». « Il est quasiment impossible dans le pays de départ de se présenter aux consulats des pays “sûrs” pour une demande d’asile », renchérit Florence Boyer. Elle donne l’exemple de Centre-Africains qui ont échappé aux combats dans leur pays, puis à la traite et aux violences au Nigéria, en Algérie puis en Libye, avant de redescendre au Niger : « Ils auraient dû avoir la possibilité de déposer une demande d’asile dès Bangui ! Le cadre législatif les y autorise. »

    En ce matin brûlant d’avril, dans le camp du HCR à Hamdallaye, Mebratu2, un jeune Érythréen de 26 ans, affiche un large sourire. À l’ombre de la tente qu’il partage et a décorée avec d’autres jeunes de son pays, il annonce qu’il s’envolera le 9 mai pour Paris. Comme tant d’autres, il a fui le service militaire à vie imposé par la dictature du président Issayas Afeworki. Mebratu était convaincu que l’Europe lui offrirait la liberté, mais il a dû croupir deux ans dans les prisons libyennes. S’il ne connaît pas sa destination finale en France, il sait d’où il vient : « Je ne pensais pas que je serais vivant aujourd’hui. En Libye, on pouvait mourir pour une plaisanterie. Merci la France. »

    Mebratu a pris un vol pour Paris en mai dernier, financé par l’Union européenne et opéré par l’#OIM. En France, la Délégation interministérielle à l’hébergement et à l’accès au logement (Dihal) confie la prise en charge de ces réinstallés à 24 opérateurs, associations nationales ou locales, pendant un an. Plusieurs départements et localités françaises ont accepté d’accueillir ces réfugiés particulièrement vulnérables après des années d’errance et de violences.

    Pour le deuxième article de notre numéro spécial de rentrée, nous nous rendons en Dordogne dans des communes rurales qui accueillent ces « réinstallés » arrivés via le Niger.

    http://icmigrations.fr/2019/08/30/defacto-10
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    co-écrit par @pascaline

    ping @karine4 @_kg_ @isskein

    Ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765325

  • #Fatou_Diome : « La rengaine sur la #colonisation et l’#esclavage est devenue un fonds de commerce »

    L’écrivaine franco-sénégalaise s’exprime sans filtre sur son enfance, l’immigration, le féminisme, ou la pensée « décoloniale » qui a le don de l’irriter…

    Fatou Diome écrit comme elle parle, avec fougue et sensibilité. Que ce soit dans ses romans ou dans ses prises de paroles publiques, l’auteure franco-sénégalaise use avec habileté de cette langue piquante qui frôle parfois la satire. Dans son premier roman à succès, Le Ventre de l’Atlantique (éd. Anne Carrière, 2003), elle donnait la parole à cette jeunesse sénégalaise piégée dans le désir d’Europe et ses mirages tragiques. Les œuvres de Fatou Diome offrent aussi une voix aux femmes, héroïnes du quotidien quand les maris migrent (Celles qui attendent, éd. Flammarion, 2010) ou disparaissent tragiquement, comme dans son nouveau roman, Les Veilleurs de Sangomar (éd. Albin Michel), en librairie le 22 août.

    Installée à Strasbourg depuis vingt-cinq ans, Fatou Diome observe et critique sa société d’origine et son pays d’accueil. En vingt ans de carrière, elle a publié une dizaine de romans, de nouvelles et un essai remarqué en 2017, Marianne porte plainte ! (éd. Flammarion), véritable pamphlet contre les discours identitaires, racistes, sexistes et islamophobes. Dans cet entretien, Fatou Diome s’exprime sans filtre sur son enfance aux marges, l’immigration, le féminisme, ou la pensée « décoloniale » qui a le don de l’irriter…
    D’où vient votre nom, Diome ?

    Fatou Diome Au Saloum, région située sur la côte sud du Sénégal, les Diome sont des Sérères-Niominkas, des Guelwaar. Il est dit que ce peuple était viscéralement attaché à sa liberté.
    Pourtant, écrivez-vous dans Le Ventre de l’Atlantique, votre nom suscitait la gêne à Niodior, votre village natal…

    Oui, car je suis née hors mariage d’un amour d’adolescents. A cette époque, j’étais la seule de l’île à porter ce nom car mon père est d’un autre village. Enfant, je ne comprenais pas pourquoi la simple prononciation de mon nom suscitait le mépris. J’ai compris plus tard que ce sentiment de gêne diffuse que je ressentais autour de moi venait du fait que j’étais supposée être « l’enfant du péché ».

    Cette ostracisation était d’autant plus injuste que l’idée « d’enfant illégitime » n’existait pas chez les Sérères animistes jusqu’au milieu du XIXe siècle et la domination des religions monothéistes. Jusque-là, au contraire, avoir un enfant des fiancés avant le mariage était le meilleur moyen de s’assurer que le prétendant était fertile. C’était même une tradition dans l’aristocratie sérère notamment, où la lignée était matrilinéaire. « Domou Djitlé », qui signifie « enfant illégitime », est une expression wolof, qui n’existe pas en sérère.
    Comment enfant affrontiez-vous cette marginalisation ?

    En renonçant à ceux qui me calomniaient. Cette indépendance m’est venue des conseils de mon grand-père maternel, un marin qui, dans l’Atlantique, devait sans cesse trouver des solutions. Je l’accompagnais souvent en mer. Quand le vent soufflait trop fort et que je pleurais, il me lançait : « Tu crois que tes pleurs vont nous ramener plus vite au village ? Allez, rame ! » C’est une leçon que j’ai retenue : les jérémiades ne sauvent de rien.
    A quel moment vous êtes-vous réappropriée votre nom ?

    A l’école. L’instituteur, qui était lui-même marginalisé car étranger, m’a expliqué le sens du diome : la dignité. C’était énorme ! La « bâtarde du village » était donc la seule à s’appeler dignité ! (Rires)

    Et puis un jour, j’ai rencontré mon père. C’était un homme adorable, un sculptural champion de lutte ! Ma mère avait eu de la chance d’aimer cet athlète magnifique ! Porter son nom est une fierté. Je suis le fruit d’un amour absolu, un amour souverain qui n’a demandé nulle permission aux faux dévots.
    Etre une enfant illégitime, c’était aussi risquer de ne pas survivre à la naissance…

    Oui et je dois la vie sauve à ma grand-mère maternelle, qui m’a accueillie au monde, dans tous les sens du terme. C’est elle qui a fait la sage-femme. Elle aurait pu m’étouffer à la naissance comme le voulait la tradition, mais elle a décidé de me laisser vivre et de m’élever. Elle me disait souvent que je n’étais pas illégitime mais légitimement vivante, comme tout enfant.
    Cette jeune grand-mère vous a allaitée. Quelle fut votre relation avec elle ?

    Très forte. Elle était et restera ma mamie-maman. Jusqu’à sa mort, je l’appelais Maman. Enfant, je dormais avec elle. Plus tard, j’insistais pour faire la sieste avec elle lors de mes visites. Comme un bébé, je gardais une main sur sa poitrine. Ma grand-mère, j’en suis convaincue, était la meilleure mère possible pour moi. Pardon pour l’autre dame…
    Votre mère…

    Oui. Avec elle, j’avais étrangement une relation de grande sœur. Et plus tard, je l’ai prise sous mon aile car j’étais plus combative et plus indépendante qu’elle. J’ai choisi ma vie, elle non. Et c’est pour cette raison que j’ai dit dans Le Ventre de l’Atlantique que « j’écris, pour dire et faire tout ce que ma mère n’a pas osé dire et faire ». Elle a par exemple subi la polygamie, une maladie que je n’attraperai jamais.
    Qu’aviez-vous à dire quand vous avez commencé à écrire à 13 ans ?

    Ecrire était une nécessité. Il me fallait comprendre pourquoi, par exemple, telle tante me câline devant mes grands-parents puis me traite de « bâtarde » en leur absence. L’écriture s’est imposée à l’âge de 13 ans, lorsque j’ai quitté le village pour poursuivre mes études en ville. Pour combler ma solitude, je noircissais des cahiers. Une fois, j’ai même réécrit Une si longue lettre de Mariama Bâ. Dans ma version vitaminée, les femmes n’étaient plus victimes de leur sort, mais bien plus combatives. J’aime celles qui dansent avec leur destin, sans renoncer à lui imposer leur tempo.

    Vous épousez ensuite un Alsacien et vous vous installez à Strasbourg. En France, vous découvrez une autre forme de violence, le racisme. Comment y avez-vous survécu ?

    En m’appropriant ce que je suis. J’ai appris à aimer ma peau telle qu’elle est : la couleur de l’épiderme n’est ni une tare ni une compétence. Je sais qui je suis. Donc les attaques des idiots racistes ne me blessent plus.
    Etre une auteure reconnue, cela protège-t-il du racisme ?

    Reconnue ? Non, car la réussite aussi peut déchaîner la haine. On tente parfois de m’humilier. C’est par exemple ce policier des frontières suspicieux qui me fait rater mon vol car il trouve douteux les nombreux tampons sur mon passeport, pourtant parfaitement en règle. Ou ce journaliste parisien qui me demande si j’écris seule mes livres vus leur structure qu’il trouve trop complexe pour une personne qui n’a pas le français comme langue maternelle. Ou encore cette femme qui, dans un hôtel, me demande de lui apporter une plus grande serviette et un Perrier… Le délit de faciès reste la croix des personnes non caucasiennes.
    La France que vous découvrez à votre arrivée est alors bien éloignée de celle de vos auteurs préférés, Yourcenar, Montesquieu, Voltaire…

    Cette France brillante, je l’ai bien trouvée mais on n’arrête pas de la trahir ! Il faut toujours s’y référer, la rappeler aux mémoires courtes. Cette France, elle est bien là. Seulement, les sectaires font plus de bruit. Il est temps que les beaux esprits reprennent la main !
    Qui la trahit, cette France ?

    Ceux qui lui font raconter le contraire de ce qu’elle a voulu défendre. Pour bien aimer la France, il faut se rappeler qu’elle a fait l’esclavage et la colonisation, mais qu’elle a aussi été capable de faire la révolution française, de mettre les droits de l’homme à l’honneur et de les disperser à travers le monde. Aimer la France, c’est lui rappeler son idéal humaniste. Quand elle n’agit pas pour les migrants et les exploite éhontément, je le dis. Quand des Africains se dédouanent sur elle et que des dirigeants pillent leur propre peuple, je le dis aussi. Mon cœur restera toujours attaché à la France, et ce même si cela m’est reproché par certains Africains revanchards.

    Vous vivez en France depuis 1994. Les statistiques officielles démontrent la persistance de discriminations en matière de logement ou de travail contre notamment des Français d’origine africaine dans les quartiers populaires. Que dites-vous à ces jeunes Noirs ?

    Qu’ils prennent leur place ! Vous savez, au Sénégal, un jeune né en province aura moins de chance de réussir que celui issu d’une famille aisée de la capitale. La différence, c’est qu’en France, cette inégalité se trouve aggravée par la couleur. Ici, être noir est une épreuve et cela vous condamne à l’excellence. Alors, courage et persévérance, même en réclamant plus de justice.
    Cette course à l’excellence peut être épuisante quand il faut en faire toujours plus…

    Si c’est la seule solution pour s’en sortir, il faut le faire. Partout, la dignité a son prix. On se reposera plus tard, des millénaires de sommeil nous attendent.

    Vous avez suivi une formation en lettres et philosophie à l’université de Strasbourg avec un intérêt particulier pour le XVIIIe siècle. Que pensez-vous des critiques portées par le courant de pensée « décoloniale » à l’égard de certains philosophes des Lumières ?

    Peut-on éradiquer l’apport des philosophes des Lumières dans l’histoire humaine ? Qui veut renoncer aujourd’hui à L’Esprit des lois de Montesquieu ? Personne. Les Lumières ont puisé dans la Renaissance, qui s’est elle-même nourrie des textes d’Averroès, un Arabe, un Africain. C’est donc un faux débat ! Au XVIIIe siècle, la norme était plutôt raciste. Or Kant, Montesquieu ou Voltaire étaient ouverts sur le monde. Ils poussaient déjà l’utopie des droits de l’homme. On me cite souvent Le Nègre du Surinam pour démontrer un supposé racisme de Voltaire. Quel contresens ! Ce texte est une ironie caustique. Voltaire dit à ses concitoyens : « C’est au prix de l’exploitation du nègre que vous mangez du sucre ! »

    Par ailleurs, chez tous les grands penseurs, il y a souvent des choses à jeter. Prenez l’exemple de Senghor. Sa plus grande erreur d’emphase et de poésie fut cette phrase : « L’émotion est nègre, la raison hellène. » Cheikh Anta Diop, bien qu’Africain, était un grand scientifique quand Einstein était doté d’une grande sensibilité. Cette citation est donc bête à mourir, mais devons-nous jeter Senghor aux orties ?

    On constate tout de même une domination des penseurs occidentaux dans le champ de la philosophie par exemple…

    Certaines choses sont universelles. Avec Le Vieil Homme et la mer, Hemingway m’a fait découvrir la condition humaine de mon grand-père pêcheur. Nous Africains, ne perdons pas de temps à définir quel savoir vient de chez nous ou non. Pendant ce temps, les autres n’hésitent pas à prendre chez nous ce qui les intéresse pour le transformer. Regardez les toiles de Picasso, vous y remarquerez l’influence des masques africains…
    Vous estimez donc que le mouvement de la décolonisation de la pensée et des savoirs, porté par un certain nombre d’intellectuels africains et de la diaspora, n’est pas une urgence ?

    C’est une urgence pour ceux qui ne savent pas encore qu’ils sont libres. Je ne me considère pas colonisée, donc ce baratin ne m’intéresse pas. La rengaine sur la colonisation et l’esclavage est devenue un fonds de commerce. Par ailleurs, la décolonisation de la pensée a déjà été faite par des penseurs tels que Cheikh Anta Diop, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor ou encore Frantz Fanon. Avançons, en traitant les urgences problématiques de notre époque.
    A l’échelle de la longue histoire entre l’Afrique et l’Occident, ce travail de décolonisation de la pensée, débuté il y a quelques décennies, n’est peut-être pas achevé ?

    Je pense, comme Senghor, que nous sommes à l’ère de la troisième voie. Nous, Africains, ne marchons pas seulement vers les Européens ; eux ne marchent pas que vers nous. Nous convergeons vers la même voie, la possible conciliation de nos mondes. La peur de vaciller au contact des autres ne peut vous atteindre quand vous êtes sûr de votre identité. Me concernant, ce troisième millénaire favorise la rencontre. Je sais qui je suis, je ne peux pas me perdre en Europe car, non seulement je récite mon arbre généalogique, mais je séjourne régulièrement dans mon village.

    Après tous les efforts de Senghor, Césaire, Fanon, en sommes-nous encore à nous demander comment nous libérer de l’esclavage et de la colonisation ? Pendant ce temps, où nous stagnons, les Européens envoient Philae dans l’espace… L’esclavage et la colonisation sont indéniablement des crimes contre l’humanité. Aujourd’hui, il faut pacifier les mémoires, faire la paix avec nous-mêmes et les autres, en finir avec la littérature de la réactivité comme le dit si bien l’historienne Sophie Bessis.
    Cette histoire dramatique, loin d’être un chapitre clos, continue pourtant de marquer le présent des Africains et les relations avec d’anciennes puissances coloniales…

    Pour moi, il y a plus urgent. La priorité, c’est l’économie. Faisons en sorte que la libre circulation s’applique dans les deux sens. Aujourd’hui, depuis l’Europe, on peut aller dîner à Dakar, sans visa. Le contraire est impossible ou alors le visa vous coûtera le salaire local d’un ouvrier. Pourquoi attendre une forme de réparation de l’Europe, comme un câlin de sa mère ? Pourquoi se positionner toujours en fonction de l’Occident ? Il nous faut valoriser, consommer et, surtout, transformer nos produits sur place. C’est cela l’anticolonisation qui changera la vie des Africains et non pas la complainte rance autour de propos tenus par un de Gaulle ou un Sarkozy.
    On sent que ce mouvement vous irrite…

    Je trouve qu’il y a une forme d’arrogance dans cette injonction et cette façon de s’autoproclamer décolonisateur de la pensée des autres. C’est se proclamer gourou du « nègre » qui ne saurait pas où il va. Je choisis mes combats, l’époque de la thématique unique de la négritude est bien révolue.
    Votre roman Le Ventre de l’Atlantique (2003) a été l’un des premiers à aborder le thème de la migration vers l’Europe. Que dites-vous à cette jeunesse qui continue de risquer sa vie pour rejoindre d’autres continents ?

    Je leur dirai de rester et d’étudier car, en Europe aussi, des jeunes de leur âge vivotent avec des petits boulots. Quand je suis arrivée en France, j’ai fait des ménages pour m’en sortir, après mon divorce. J’ai persévéré malgré les humiliations quotidiennes et les moqueries au pays.

    Si je suis écrivain, c’est parce que j’ai usé mes yeux et mes fesses à la bibliothèque. J’ai toujours écrit avec la même rigueur que je nettoyais les vitres. Aux jeunes, je dirai que l’école a changé ma vie, elle m’a rendue libre.
    La tentation est grande de partir vu le manque d’infrastructures dans de nombreux pays africains. Comment rester quand le système éducatif est si défaillant ?

    La responsabilité revient aux dirigeants. Ils doivent miser sur l’éducation et la formation pour garder les jeunes, leur donner un avenir. Il faudrait que les chefs d’Etat respectent plus leur peuple. Il n’y a qu’à voir le silence de l’Union africaine face au drame des migrants. Quand les dirigeants baissent la tête, le peuple rampe.
    Quel regard portez-vous sur le durcissement de la politique migratoire européenne ? Dernier acte en date, le décret antimigrants adopté par l’Italie qui criminalise les sauvetages en mer…

    L’Europe renforce sa forteresse. Mais qui ne surveillerait pas sa maison ? Les pays africains doivent sortir de leur inaction. Pourquoi n’y a-t-il pas, par exemple, de ministères de l’immigration dans nos pays ? C’est pourtant un problème majeur qui touche à l’économie, la diplomatie, la santé, la culture. Si l’Afrique ne gère pas la situation, d’autres la géreront contre elle. Elle ne peut plus se contenter de déplorer ce que l’Europe fait à ses enfants migrants.

    Vous avez écrit sur la condition féminine, le rapport au corps de la femme au Sénégal et la fétichisation dont vous avez été victime en France en tant que femme noire. Vous sentez-vous concernée par le mouvement #metoo ?

    Je comprends ce combat, mais je considère qu’Internet n’est pas un tribunal. Les femmes doivent habiter leur corps et leur vie de manière plus souveraine dans l’espace social et public. Il faut apprendre aux jeunes filles à s’armer psychologiquement face aux violences, par exemple le harcèlement de rue. Il faut cesser de se penser fragiles et porter plainte immédiatement en cas d’agression.
    La lutte contre les violences faites aux femmes revient aussi aux hommes…

    En apprenant aux femmes à habiter leur corps, à mettre des limites, on leur apprend aussi à éduquer des fils et des hommes au respect. Le féminisme, c’est aussi apprendre aux garçons qu’ils peuvent être fragiles, l’agressivité n’étant pas une preuve de virilité, bien au contraire. Me concernant, malgré la marginalisation à laquelle j’ai été confrontée, je ne me suis jamais vécue comme une femme fragile, ni otage de mon sexe, mes grands-parents m’ayant toujours traitée à égalité avec les garçons.
    Vous sentez-vous plus proche du féminisme dit universaliste ou intersectionnel ?

    Je me bats pour un humanisme intégral dont fait partie le féminisme. Mon féminisme défend les femmes où qu’elles soient. Ce qui me révolte, c’est le relativisme culturel. Il est dangereux d’accepter l’intolérable quand cela se passe ailleurs. Le cas d’une Japonaise victime de violences conjugales n’est pas différent de celui d’une habitante de Niodior ou des beaux quartiers parisiens brutalisée. Lutter pour les droits humains est plus sensé que d’essayer de trouver la nuance qui dissocie. Mais gare à la tentation d’imposer sa propre vision à toutes les femmes. L’essentiel, c’est de défendre la liberté de chacune.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2019/08/25/fatou-diome-la-rengaine-sur-la-colonisation-et-l-esclavage-est-devenue-un-fo

    #interview #féminisme #racisme #approche_décoloniale #post-colonialisme #décolonialisme #pensée_décoloniale #xénophobie #migrations #émigration #discrimination #décolonisation_de_la_pensée #Afrique #Senghor #Césaire #Fanon #libre_circulation #anticolonisation #féminisme #humanisme_#intégral #relativisme_culturel #droits_humains #liberté

    • Quelques perles quand même:

      L’Europe renforce sa forteresse. Mais qui ne surveillerait pas sa maison ?

      Il faut apprendre aux jeunes filles à s’armer psychologiquement face aux violences, par exemple le harcèlement de rue. Il faut cesser de se penser fragiles et porter plainte immédiatement en cas d’agression.

      déçu...

    • @sinehebdo, j’ajouterais :

      C’est une urgence pour ceux qui ne savent pas encore qu’ils sont libres. Je ne me considère pas colonisée, donc ce baratin ne m’intéresse pas. La rengaine sur la colonisation et l’esclavage est devenue un fonds de commerce. Par ailleurs, la décolonisation de la pensée a déjà été faite par des penseurs tels que Cheikh Anta Diop, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor ou encore Frantz Fanon. Avançons, en traitant les urgences problématiques de notre époque.

      Mais celle-ci par contre est selon moi au coeur des politiques xénophobes que l’Europe et les pays qui la composent mettent en oeuvre :

      La #peur de vaciller au contact des autres ne peut vous atteindre quand vous êtes sûr de votre #identité.

  • Mann (21) tiltalt for forsettlig drap etter frontkollisjon på E18 – NRK Vestfold – Lokale nyheter, TV og radio

    https://www.nrk.no/vestfold/mann-_21_-tiltalt-for-forsettlig-drap-etter-frontkollisjon-pa-e18-1.14155717

    En Norvège, un automobiliste est jugé cette semaine pour avoir intentionnellement provoqué un accident de voiture au cours duquel un père de famille avait été tué (le 1er janvier 2018) : le tribunal retient le motif de « meurtre intentionnel », [avec préméditation] ce qui est très rare pour les accidents de la circulation. Après une enquête de plusieurs mois, la police et le tribunal ont établi que le jeune homme de 21 ans - actuellement incarcéré - a prémédité son acte. Ivre au moment de l’accident, le tribunal considère qu’il ne pouvait pas ignorer le danger qu’il représentait.

    Pour mémoire, il y a trente ans, le meurtier d’Anne Cellier (l’automobiliste complètement ivre qui avait percuté la voiture de la jeune fille sur l’autoroute de l’ouest en 1986) est resorti libre du tribunal de Versailles.

    Frontkolliderte

    Tiltalte kommer fra Bergen, men bor i Skien. Ifølge tiltalen krysset han en sperring for å komme seg over i motgående kjørefelt i forkant av kollisjonen.

    Han skal ha kjørt i motsatt kjøreretning i flere kilometer på E18 mellom Larvik og Langangen før han frontkolliderte med en annen bil. Politiet mener han gjorde dette med vilje.

    Mor, far og tre barn var på vei hjem til Skien da bilen med 21-åringen bak rattet krasjet inn dem. Frontkollisjonen førte til at familiefaren, 47 år gamle Azad Hamam, døde 1. januar.

    #sécurité_routière #justice #approche_juridique #anne_cellier

    • Vu que l’alcool est la drogue autorisée pour les galériens, la société s’est mise d’accord d’accepter une partie de la responsabilité pour leurs actes manqués après consommation du sédatif essentiel pour le bon focntionnement des relations de classe.

      Ces changement d’attitude reflètent l’abandon rampant non pas de la responsabilité collective mais du principe de finalité des mesures ( Finalprinzip = ce qui compte c’est le résultat) afin d’introduire à tous les niveaux de la société le principe de causalité (qui à causé les dommages directement).

      L’abandon de l’intoxication comme circonstance atténuante constitue une tendance à double tranchant. D’un côté il confort notre sentiment de justice de l’autre côté il renforce les tendances antisociales de la société néolibérale.

      #droit #drogues #alcool