• Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

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    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

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    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

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    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

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    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

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    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • El mar. El muro

    Agost del 2023, missió del vaixell Astral d’#Open_Arms al Mediterrani central. Les periodistes Mercè Folch i Anna Surinyach acompanyen voluntaris i tripulació durant una setmana intensa en què els rescats s’encavalquen els uns darrere dels altres. En pocs dies, l’ONG ha pogut salvar la vida de més d’un miler de persones. D’altres no han tingut la mateixa sort i se’ls ha perdut la pista per sempre.

    https://www.ccma.cat/3cat/proleg/audio/1188520

    #naufrage #sauvetage #audio #podcast #migrations #asile #réfugiés #Méditerranée #mer_Méditerranée

  • Le #Niger défie l’Europe sur la question migratoire

    En abrogeant une #loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.

    En abrogeant une loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.

    L’épreuve de force est engagée entre le Niger et l’Union européenne (UE) sur la question migratoire. La junte issue du coup d’Etat de juillet à Niamey a fait monter les enchères, lundi 27 novembre, en abrogeant une loi datant de 2015, pénalisant le #trafic_illicite_de_migrants.

    Ce dispositif répressif, un des grands acquis de la coopération de Bruxelles avec des Etats africains, visant à endiguer les flux migratoires vers la Méditerannée, est aujourd’hui dénoncé par le pouvoir nigérien comme ayant été adopté « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens ».

    L’annonce promet d’avoir d’autant plus d’écho à Bruxelles que le pays sahélien occupe une place stratégique sur les routes migratoires du continent africain en sa qualité de couloir de transit privilégié vers la Libye, plate-forme de projection – avec la Tunisie – vers l’Italie. Elle intervient au plus mauvais moment pour les Européens, alors qu’ils peinent à unifier leurs positions face à la nouvelle vague d’arrivées qui touche l’Italie. Du 1er janvier au 26 novembre, le nombre de migrants et réfugiés ayant débarqué sur le littoral de la Péninsule s’est élevé à 151 312, soit une augmentation de 61 % par rapport à la même période en 2022. La poussée est sans précédent depuis la crise migratoire de 2015-2016.

    Inquiétude à Bruxelles

    La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite mardi « très préoccupée » par la volte-face nigérienne. La décision semble répondre au récent durcissement de l’UE à l’égard des putschistes. Le 23 novembre, le Parlement de Strasbourg avait « fermement condamné » le coup d’Etat à Niamey, un mois après l’adoption par le Conseil européen d’un « cadre de mesures restrictives », ouvrant la voie à de futures sanctions.

    « Les dirigeants à Niamey sont dans une grande opération de #chantage envers l’UE, commente un diplomate occidental familier du Niger. Ils savent que le sujet migratoire est source de crispation au sein de l’UE et veulent ouvrir une brèche dans la position européenne, alors qu’ils sont asphyxiés par les #sanctions_économiques décidées par la Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest [Cedeao]. Il ne leur a pas échappé que l’Italie est encline à plus de souplesse à leur égard, précisément à cause de cette question migratoire. »
    Mais le #défi lancé par la junte aux pays européens pourrait être plus radical encore, jusqu’à s’approcher du point de rupture. « La décision des dirigeants de Niamey montre qu’ils ont tout simplement abandonné toute idée de négocier avec l’UE à l’avenir, souligne une autre source diplomatique occidentale. Car un retour en arrière serait extrêmement difficile après l’abrogation de la loi. Ils montrent qu’ils ont choisi leur camp. Ils vont désormais nous tourner le dos, comme l’ont fait les Maliens. Ils ont abandonné leur principal point de pression avec l’UE. »

    Si l’inquiétude monte à Bruxelles face à un verrou migratoire en train de sauter, c’est le soulagement qui prévaut au Niger, où les rigueurs de la loi de 2015 avaient été mal vécues. Des réactions de satisfaction ont été enregistrées à Agadez, la grande ville du nord et « capitale » touareg, carrefour historique des migrants se préparant à la traversée du Sahara. « Les gens affichent leur #joie, rapporte Ahmadou Atafa, rédacteur au journal en ligne Aïr Info, installé à Agadez. Ils pensent qu’ils vont pouvoir redémarrer leurs activités liées à la migration. »

    Les autorités locales, elles aussi, se réjouissent de cette perspective. « Nous ne pouvons que saluer cette abrogation, se félicite Mohamed Anako, le président du conseil régional d’#Agadez. Depuis l’adoption de la loi, l’#économie_régionale s’était fortement dégradée. »

    Il aura donc fallu huit ans pour que le paradigme des relations entre l’UE et le Niger change du tout au tout. Le #sommet_de_La_Valette, capitale de Malte, en novembre 2015, dominé par la crise migratoire à laquelle le Vieux Continent faisait alors face dans des proportions inédites, avait accéléré la politique d’externalisation des contrôles aux frontières de l’Europe. Les Etats méditerranéens et sahéliens étaient plus que jamais pressés de s’y associer. Le Niger s’était alors illustré comme un « bon élève » de l’Europe en mettant en œuvre toute une série de mesures visant à freiner l’accès à sa frontière septentrionale avec la Libye.

    Satisfaction à Agadez

    A cette fin, le grand architecte de ce plan d’endiguement, le ministre de l’intérieur de l’époque – #Mohamed_Bazoum, devenu chef d’Etat en 2021 avant d’être renversé le 26 juillet – avait décidé de mettre en œuvre, avec la plus grande sévérité, une loi de mai 2015 réprimant le trafic illicite de migrants. Du jour au lendemain, les ressortissants du Sénégal, de Côte d’Ivoire, du Mali ou du Nigeria ont fait l’objet d’entraves administratives – le plus souvent en contradiction avec les règles de #libre_circulation prévues au sein de la Cedeao – dans leurs tentatives de rallier Agadez par bus en provenance de Niamey.
    Dans la grande ville du Nord nigérien, le gouvernement s’était attaqué aux réseaux de passeurs, au risque de fragiliser les équilibres socio-économiques. L’oasis d’Agadez, par où avaient transité en 2016 près de 333 000 migrants vers l’Algérie et la Libye, a longtemps profité de ces passages. Ultime porte d’accès au désert, la ville fourmillait de prestataires de « services migratoires » – criminalisés du jour au lendemain –, guidant, logeant, nourrissant, équipant et transportant les migrants.

    Avec la loi de 2015, « l’ensemble de la chaîne de ces services à la migration s’est écroulé », se souvient M. Anako. Le coup a été d’autant plus dur pour les populations locales que, dans les années 2010, la floraison de ces activités était venue opportunément compenser l’effondrement du tourisme, victime des rébellions touareg (1990-1997 et 2007-2009), puis du djihadisme. A partir de 2017, Agadez n’était plus que l’ombre d’elle-même. Certains notables locaux se plaignaient ouvertement que l’Europe avait réussi à « imposer sa frontière méridionale à Agadez ».

    Aussi, l’abrogation de la loi de 2015 permet à la junte de Niamey de faire d’une pierre deux coups. Outre la riposte à l’Europe, elle rouvre des perspectives économiques dans une région où les partisans du président déchu, M. Bazoum, espéraient recruter des soutiens. « Il y a à l’évidence un “deal” pour que les Touareg d’Agadez prêtent allégeance à la junte », relève le diplomate occidental.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/28/le-niger-defie-l-europe-sur-la-question-migratoire_6202814_3212.html
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #abrogation #contrôles_frontaliers #coopération #arrêt #UE #EU #Union_européenne #économie #coup_d'Etat #loi_2015-36 #2015-36

    ping @karine4

    • Sur la route de l’exil, le Niger ne fera plus le « #sale_boulot » de l’Europe

      La junte au pouvoir à Niamey a annoncé l’abrogation d’une loi de 2015 qui criminalisait l’aide aux personnes migrantes. Un coup dur pour l’Union européenne, qui avait fait du Niger un partenaire central dans sa politique d’externalisation des frontières. Mais une décision saluée dans le pays.

      DepuisDepuis le coup d’État du 26 juillet au Niger, au cours duquel l’armée a arraché le pouvoir des mains de Mohamed Bazoum, qu’elle retient toujours au secret, c’était la grande crainte des responsables de l’Union européenne. Les fonctionnaires de Bruxelles attendaient avec angoisse le moment où Niamey mettrait fin à l’une des coopérations les plus avancées en matière d’externalisation des contrôles aux frontières.

      C’est désormais devenu une réalité : le 25 novembre, le régime issu du putsch a publié une ordonnance qui abroge la loi n° 2015-36 relative au « trafic illicite de migrants » et qui annule toutes les condamnations prononcées dans le cadre de cette loi.

      Le gouvernement de transition a justifié cette décision par le fait que ce texte avait été adopté en mai 2015 « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens », et qu’il entrait « en contradiction flagrante » avec les règles communautaires de la Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao).

      La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite « très préoccupée » par cette décision qui intervient alors que les relations entre l’Europe et le Niger sont tendues : le 23 octobre, le Conseil européen avait adopté un « cadre de mesures restrictives » ouvrant la voie à de possibles sanctions contre le régime putschiste, et le 23 novembre, le Parlement européen a « fermement » condamné le coup d’État.

      Pour l’UE et sa politique antimigratoire, c’est une très mauvaise nouvelle, d’autant que les arrivées en provenance du continent africain ont, selon l’agence Frontex, sensiblement augmenté en 2023. La loi 2015-36 et la coopération avec le Niger étaient au cœur de la stratégie mise en œuvre depuis plusieurs années pour endiguer les arrivées d’exilé·es sur le sol européen.

      Mais au Niger, l’abrogation a été très bien accueillie. « C’est une mesure populaire, indique depuis Niamey un activiste de la société civile qui a tenu à rester anonyme. Cette loi n’a jamais été acceptée par la population, qui ne comprenait pas pourquoi le gouvernement nigérien devait faire le sale boulot à la place des Européens. »
      Satisfaction à Agadez

      À Agadez, grande ville du Nord qui a été la plus touchée par la loi de 2015, le soulagement est grand. « Ici, c’est la joie, témoigne Musa, un habitant de la ville qui a un temps transporté des migrant·es. Les gens sont très contents. Beaucoup de monde vivait de cette activité, et beaucoup m’ont dit qu’ils allaient reprendre du service. Moi aussi peut-être, je ne sais pas encore. »

      Un élu de la municipalité d’Agadez indique lui aussi être « pleinement satisfait ». Il rappelle que c’était une revendication des élus locaux et qu’ils ont mené un intense lobbying ces dernières semaines à Niamey. Le président du conseil régional d’Agadez, Mohamed Anacko, a quant à lui salué « cette initiative très bénéfique pour [sa] région ».

      Satisfaction aussi au sein de l’ONG Alarme Phone Sahara, qui a pour mission de venir en aide aux migrant·es dans le désert. « Cette abrogation est une nouvelle surprenante et plaisante », indique Moctar Dan Yaye, un des cadres de l’ONG. Depuis plusieurs années, Alarme Phone Sahara militait en sa faveur. En 2022, elle a déposé une plainte contre l’État du Niger auprès de la Cour de justice de la Cedeao, dénonçant l’atteinte à la liberté de circulation de ses ressortissant·es. Mais elle pointe aussi les conséquences sur l’économie d’Agadez, « qui a toujours vécu des transports et de la mobilité », et surtout sur la sécurité des migrant·es, « qui ont été contraints de se cacher et de prendre des routes plus dangereuses alors qu’avant, les convois étaient sécurisés ».
      Avant que la loi ne soit appliquée en 2016 (à l’initiative de Mohamed Bazoum, alors ministre de l’intérieur), tout se passait dans la transparence. Chaque lundi, un convoi de plusieurs dizaines de véhicules chargés de personnes désireuses de rejoindre la Libye, escortés par l’armée, s’ébranlait depuis la gare routière d’Agadez.

      « Toute la ville en vivait, soulignait en 2019 Mahaman Sanoussi, un acteur de la société civile. La migration était licite. Les agences de transporteurs avaient pignon sur rue. Ils payaient leurs taxes comme tout entrepreneur. » En 2016, selon une étude de l’ONG Small Arms Survey, près de 400 000 migrant·es seraient passé·es par Agadez avant de rejoindre la Libye ou l’Algérie, puis, pour certain·es, de tenter la traversée de la Méditerranée.
      Le coup de frein de Bruxelles

      À Bruxelles, en 2015, on décide donc que c’est dans cette ville qu’il faut stopper les flux. Cette année-là, l’UE élabore l’Agenda européen sur la migration et organise le sommet de La Valette (Malte) dans le but de freiner les arrivées. Des sommes colossales (plus de 2 milliards d’euros) sont promises aux États du Sud afin de les pousser à lutter contre la migration. Un Fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique (EUTF) est mis en place. Et le Niger est au cœur de cette stratégie : entre 2016 et 2019, l’EUTF lui a alloué 266,2 millions d’euros – plus qu’à tout autre pays (et 28 millions supplémentaires entre 2019 et 2022).

      Ce fonds a notamment financé la création d’une unité d’élite en matière de lutte contre les migrations. Mais tout cela n’aurait pas été possible sans une loi criminalisant ceux qui aident, d’une manière ou d’une autre, les migrant·es. À Niamey, le pouvoir en place ne s’en cachait pas à l’époque : c’est sous la pression de l’UE, et avec la promesse d’une aide financière substantielle, qu’il a fait adopter la loi 2015-36 .

      Avec ce texte, celui qui permettait à une personne en exil d’entrer ou de sortir illégalement du territoire risquait de 5 à 10 ans de prison, et une amende pouvant aller jusqu’à 5 millions de francs CFA (7 630 euros). Celui qui l’aidait durant son séjour, en la logeant ou la nourrissant, encourait une peine de 2 à 5 ans.

      Après sa mise en œuvre, plus de 300 personnes ont été incarcérées, des passeurs pour la plupart, des centaines de véhicules ont été immobilisés et des milliers d’emplois ont été perdus. Selon plusieurs études, plus de la moitié des ménages d’Agadez vivaient de la migration, qui représentait en 2015 près de 6 000 emplois directs : passeurs, coxers (ou intermédiaires), propriétaires de « ghettos » (le nom donné sur place aux lieux d’hébergement), chauffeurs, mais aussi cuisinières, commerçant·es, etc. Ainsi la loi 2015-36 a-t-elle été perçue par nombre d’habitant·es comme « une loi contre Agadez ». « Vraiment, ça nous a fait mal, indique Mahamane Alkassoum, un ancien passeur. Du jour au lendemain, on n’a plus eu de source de revenu. Moi-même, je suis toujours au chômage à l’heure où je vous parle. »

      Cette loi a eu des effets : selon l’UE, les arrivées en Italie ont chuté de 85 % entre 2016 et 2019. Mais elle a aussi fragilisé les migrant·es. « Avant, dans les convois, quand il y avait un problème, les gens étaient secourus. Avec la loi, les passeurs prenaient des routes plus dangereuses, la nuit, et ils étaient isolés. En cas de problème, les gens étaient livrés à eux-mêmes dans le désert. Il y a eu beaucoup de morts », souligne Moctar Dan Yaye, sans pouvoir donner de chiffres précis.

      En outre, les « ghettos » sont devenus clandestins et les prix ont doublé, voire triplé… « Le manque de clarté de la loi et sa mise en œuvre en tant que mesure répressive – au lieu d’une mesure de protection – ont abouti à la criminalisation de toutes les migrations et ont poussé les migrants à se cacher, ce qui les rend plus vulnérables aux abus et aux violations des droits de l’homme », constatait en octobre 2018 le rapporteur des Nations unies sur les droits de l’homme des migrants, Felipe González Morales.

      Dans un rapport publié la même année, le think tank Clingendeal notait que « l’UE a contribué à perturber l’économie locale sans fournir d’alternative viable », ce qui « a créé frustration et déception au sein de la population ». L’UE a bien financé un programme de réinsertion pour les anciens acteurs de la migration. Mais très peu en ont bénéficié : 1 080 personnes sur 6 564 identifiées.

      Et encore, cette aide était jugée dérisoire : 1,5 million de francs CFA, « cela ne permet pas de repartir de zéro », dénonce Bachir Amma, un ancien passeur qui a essayé d’organiser le secteur. « L’Europe n’a pas tenu ses promesses, elle nous a trahis, renchérit Mahamane Alkassoum. Alors oui, si je peux, je reprendrai cette activité. Ce n’est pas par plaisir. Si on pouvait faire autre chose, on le ferait. Mais ici, il n’y a rien. »

      L’Europe doit-elle pour autant s’attendre à une nouvelle vague d’arrivées en provenance du Niger, comme le craint Bruxelles ? Si nombre d’anciens passeurs assurent qu’ils reprendront du service dès que possible, rien ne dit que les candidat·es à l’exil, de leur côté, retrouveront la route d’Agadez. « La situation a changé, souligne Moctar Dan Yaye. La frontière avec l’Algérie est quasi fermée et la situation en Libye a évolué. Beaucoup de véhicules ont été saisis aussi. » En outre, la plupart des États de la Cedeao d’où viennent les candidat·es à l’exil ont fermé leur frontière avec le Niger après le coup d’État.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/021223/sur-la-route-de-l-exil-le-niger-ne-fera-plus-le-sale-boulot-de-l-europe

    • Au Niger, la loi du 26 mai 2015 n’est plus un obstacle pour les migrants de l’Afrique subsaharienne

      Le Président du Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie (CNSP), le Général Abdourahamane Tiani, a signé le 25 novembre 2023, une ordonnance portant abrogation de la loi du 26 mai 2015 relative au trafic des migrants. La loi abrogée prescrivait des peines d’emprisonnement allant d’un (1) à trente (30) ans et des amendes de trois (3) à 30 millions de francs CFA. Elle avait permis de démanteler des réseaux de passeurs dans le nord du Niger, favorisant ainsi le recours des migrants à d’autres réseaux encore plus dangereux qui les exposent davantage aux traitements inhumains et au péril dans le désert. Dans les zones où transitent les migrants, cette loi avait conduit au chômage plusieurs milliers d’acteurs de la filière, au détriment de l’économie locale et la quiétude dans le nord nigérien. La décision du CNSP est favorablement accueillie non seulement dans les localités de transit des migrants, mais aussi au niveau des Organisations de la société civile qui qualifiaient la loi incriminant le trafic des migrants d’instrument de violation de droits humains et du principe de libre circulation des personnes. Par ailleurs, une partie de l’opinion considère l’abrogation de la loi du 26 mai 2015 comme une réplique à l’attitude de plus en plus irritante de l’Union Européenne (UE) vis-à-vis des nouvelles autorités nigériennes. Néanmoins, certains observateurs voient en cette décision du CNSP, des perspectives de gestion plus équilibrée de la migration au Niger.

      Une réponse du berger à la bergère ?

      L’abrogation de la loi du 26 mai 2015 intervient au lendemain du vote par le parlement européen d’une résolution condamnant le coup d’état du 26 juillet 2023 et appelant à la restauration du régime déchu. Ainsi, d’aucuns estiment que cette décision des autorités nigériennes est une réplique à l’attitude de l’UE envers le nouveau régime du Niger. En effet, depuis l’avènement du CNSP au pouvoir, l’Union Européenne, principale bénéficiaire de la loi du 26 Mai 2015, dénie toute légitimité aux nouveaux dirigeants nigériens. Ce déni s’est traduit par la réduction de la coopération entre l’UE et le Niger à l’appui humanitaire, une série de sanctions ciblant les nouvelles autorités nigériennes et la récente résolution du parlement européen, entre autres. Selon le Président du Réseau National de Défense de Droits Humains (RNDDH), M. Kani Abdoulaye, cette décision du CNSP peut être considérée comme une réponse ou une réplique à la position de l’Union européenne vis-à-vis des nouveaux dirigeants du Niger. « De ce point de vue, la loi sur la migration constitue une arme redoutable pour les autorités actuelles du Niger », a estimé M. Kani Abdoulaye.

      Une loi inadaptée initiée sous l’influence de l’Union Européenne

      Dans un communiqué relatif à l’abrogation de la loi du 26 Mai 2015, le Gouvernement nigérien a rappelé que ladite loi a été adoptée en 2015 sous l’influence de certaines puissances étrangères, et qu’elle érigeait et incriminait en trafic illicite certaines activités par nature régulières. Selon le Président du RNDDH, Il y avait des accords politiques entre le Niger et l’Union Européenne et un moment l’Union Européenne a octroyé des financements au Niger dans le cadre de la lutte contre le trafic des migrants.

      Pour sa part, M. Hamadou Boulama Tcherno de l’Association Alternative Espaces Citoyens (AEC), a laissé entendre que cette loi a été écrite par le gouvernement et adoptée par le parlement sous une avalanche de pressions politique et diplomatique des pays occidentaux. « En atteste le ballet ininterrompu des dirigeants européens pour encourager les autorités de l’époque à endosser la sous-traitance de la gestion des flux migratoires », a-t-il rappelé. Le responsable de l’AEC a également estimé que l’élaboration de cette loi a largement été inspirée, sinon dictée par des experts de l’UE et que son adoption est une réponse positive à l’agenda de l’UE visant à stopper les arrivées des migrants, notamment africains aux frontières de l’espace Schengen. « En effet, au fil des ans, l’UE a réussi le tour de magie de ramener ses frontières juridiques au Niger, d’abord à Agadez, et ensuite à Zinder. Depuis lors, nos Forces de Défense et de Sécurité (FDS) travaillent en étroite collaboration avec des policiers européens pour la surveillance des flux migratoires aux frontières terrestres et aériennes de notre pays », a-t-il déploré. « Cette collaboration a permis à l’Agence Frontex dont on connait le bilan accablant de la surveillance des frontières européennes, de poser ses cartons dans notre pays, à EUCAP SAHEL d’avoir un mandat étendu à la gestion des migrations », a ajouté M. Hamadou Boulama Tcherno.

      Une loi impopulaire farouchement combattue pour ses conséquences néfastes

      L’adoption de la loi du 26 Mai 2015 a eu d’importants impacts négatifs sur les migrants et les demandeurs d’asile. Aussi, sans mesures alternatives conséquentes à l’économie de migration, elle a mis fin de façon brutale aux activités de plusieurs milliers de professionnels de la migration dans les différentes localités de transit. Depuis son adoption, des associations et acteurs locaux appelaient à l’abrogation ou la révision de cette loi afin d’atténuer son impact sur l’économie locale. Selon M. Hamadou Boulama Tcherno, l’application rigide de loi contre la migration a conduit des milliers de ménages dans une situation de pauvreté. Il a rapporté qu’environ 6.500 personnes vivaient de manière directe ou indirecte des revenus liés à la migration, d’après le Conseil régional d’Agadez. « Avec la criminalisation de la loi, la majorité d’entre elles s’est retrouvée au chômage », a-t-il déploré.

      « A Alternative Espaces Citoyens, nous avons combattu cette loi avant même son adoption par le parlement nigérien », a rappelé M. Hamadou Boulama Tcherno de l’Association Alternative Espaces Citoyens. Selon lui, AEC n’a jamais fait mystère de sa farouche opposition à cette loi criminalisant la mobilité. « Avec la modestie requise, je peux dire qu’au Niger, l’association a été à la pointe du combat citoyen pour discréditer cette loi, en dénonçant régulièrement ses effets néfastes sur les économies des villes de transit et sur les droits humains », a affirmé le responsable de AEC. Dans le même ordre d’idée, depuis 2015, l’Association Alternative Espaces Citoyens a mené des actions multiformes de sensibilisation sur les droits humains des migrants, de mobilisation sociale et de plaidoyer en faveur du droit à la mobilité, selon M. Hamadou Boulama Tcherno.

      La loi du 26 Mai 2015, un instrument de violation des droits humains et du principe de libre circulation des personnes

      Dans son communiqué, le Gouvernement nigérien a notifié que la loi abrogée a été prise « en contradiction flagrante avec nos règles communautaires et ne prenait pas en compte les intérêts du Niger et de ses citoyens ». Ainsi, selon le document, « c’est en considération de tous les effets néfastes et du caractère attentatoire aux libertés publiques de cette loi que le Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie a décidé de l’abroger ». De son côté, le Président du RNDDH a rappelé que lors de l’adoption de ladite loi, d’un point de vue communautaire, les Organisations de la société civile ont relevé que l’Etat du Niger a failli à ses obligations en matière de libre circulation des personnes et des biens, un principe fondamental du protocole de la Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO). En effet, « on arrêtait les ressortissants des pays de la CEDEAO en supposant qu’ils vont aller en Europe, donc, de notre point de vue, cela faisait du Niger la première frontière de l’Union Européenne en Afrique », a expliqué M. Kani Abdoulaye. Ainsi, « nous avons toujours estimé que cela constituait pour le Niger un manquement à ses obligations au niveau de la CEDEAO », a-t-il poursuivi. Le Président du RNDDH a également estimé que l’adoption de la loi du 26 mai 2015 est une violation grave de droits de l’homme en ce que depuis la nuit des temps, les populations se déplacent. « Le Niger est aussi signataire de la Convention des Nations-Unies qui protège tous les travailleurs migrants et leurs familles », a ajouté M. Kani Abdoulaye.

      Selon M. Hamadou Boulama Tcherno, la mise en œuvre de cette loi s’est soldée par des abus des droits et une augmentation des morts dans le désert. « Décidés à poursuivre leur parcours migratoire, les migrants empruntent des routes de contournement des postes de contrôle. Malheureusement, parmi eux, certains perdent la vie, faute d’eau, après généralement la panne du véhicule de transport ou leur abandon dans le désert par des conducteurs sans foi, ni loi », a-t-il indiqué. Se basant sur des rapports élaborés par AEC, M. Hamadou Boulama Tcherno a relevé que durant les huit (8) ans de mise en œuvre de cette loi sur la migration, les personnes migrantes ont connu une violation de leurs droits et une situation de vulnérabilité sans précédent. « Cette loi adoptée officiellement dit-on pour protéger les droits des migrants a été utilisée dans la réalité comme un outil de répression des acteurs de l’économie de la migration et des migrants. Les moins chanceux ont été victimes d’arrestations arbitraires et d’emprisonnement, sans possibilités de recours », a-t-il dénoncé. De même, le responsable de AEC a affirmé que la loi du 26 Mai 2015 a favorisé l’encasernement des migrants dans les centres de transit de l’OIM et a porté un coup rude à la liberté de circulation communautaire avec les refoulements des citoyens de la CEDEAO aux portes d’entrée du Niger. Elle a même permis d’interner des nigériens dans leur propre pays, selon M. Hamadou Boulama Tcherno.

      L’abrogation de la loi du 26 Mai 2015, une ébauche de politique migratoire basée sur les droits fondamentaux ?

      Pour le responsable de AEC, l’abrogation de cette loi est une bonne nouvelle pour tous les défenseurs des droits des personnes migrantes. « C’est aussi un ouf de soulagement pour les autorités locales et les populations des régions, Agadez et Zinder en tête de peloton, fortement impactées par la lutte contre les migrations dites irrégulières », a-t-il ajouté. Aussi, « nous saluons cette abrogation, car elle offre une occasion inespérée de sortir du piège mortel de l’externalisation du contrôle de la mobilité humaine », a annoncé M. Hamadou Boulama Tcherno. Il a également espéré que l’abrogation de la loi du 26 Mai 2015 va ouvrir des perspectives heureuses pour les citoyens, notamment un changement de cap dans la gouvernance des migrations. « Notre souhait est de voir le Niger prendre l’option de se doter d’une politique migratoire centrée sur les droits fondamentaux, la solidarité et l’hospitalité africaine », a formulé le responsable de AEC.

      Quant au Président de la Plate-Forme ‘’Le Défenseur des Droits’’, M. Almoustapha Moussa, il a souligné la nécessité de convoquer des Etats généraux avec l’ensemble des parties prenantes sur le plan national et international, avec les ONG qui ont lutté pour l’abrogation de cette loi ou sa révision, pour que des mesures immédiates puissent être prises afin d’organiser une gestion équilibrée de la migration sur le territoire du Niger. En effet, tout en soulignant que le Niger ne doit pas être à la solde de l’Union Européenne, M. Almoustapha Moussa a estimé qu’en même temps, le Niger ne doit pas occulter les trafics qui se font sur son territoire, les trafics qui utilisent son territoire comme zone de transit. « Il y a des réseaux qui viennent du Nigéria, du Cameroun, du Soudan, du Tchad etc… le fait que cette loi soit abrogée ne doit pas donner l’espace pour que le trafic illicite des migrants et éventuellement la traite des êtres humains puissent se faire sur le territoire du Niger », a-t-il expliqué. « A cet effet, une loi doit être rapidement adoptée et pour cela, les différents acteurs doivent être convoqués afin qu’ils fournissent des informations utiles à l’élaboration d’une prochaine loi », a conclu le Président de la Plate-Forme ‘’Le Défenseur des Droits’’.

      Selon un document de l’Institut d’Etude de Sécurité ISS Africa, les migrations humaines depuis l’Afrique vers l’Europe sont de plus en plus présentées comme une menace pour la sécurité des États et des sociétés. D’après des estimations évoquées dans le document, un tiers des migrants qui transitent par Agadez, ville située sur l’un des principaux itinéraires migratoires reliant l’Afrique de l’Ouest, le Sahel et le Maghreb, finissent par embarquer sur la côte méditerranéenne, à bord de bateaux pneumatiques à destination de l’Europe. C’est pourquoi depuis 2015, l’Union Européenne se base sur cette ville considérée comme la porte du désert nigérien pour endiguer les migrations de l’Afrique subsaharienne vers l’Europe. Les mécanismes de contrôle qui résultent de la loi du 26 Mai 2015 ont abouti à une diminution de 75 % des flux migratoires vers le Nord via Agadez en 2017, contribuant ainsi à la baisse globale des arrivées de migrants en Europe par les différents itinéraires méditerranéens. En 2018, l’Europe a enregistré une baisse de 89% des arrivées de migrants par rapport à 2015. En 2019, la Commission européenne a annoncé la fin de la crise migratoire. Mais suite à l’abrogation de la loi sur la migration, les ressortissants de l’Afrique subsaharienne sont désormais libres de transiter par le Niger. Dans ce contexte, l’Union Européenne dispose-t-elle d’alternative pour s’éviter une reprise de la ‘’bousculades des migrants’’ à ses portes ?

      https://lematinal-niger.com/index.php/politique/item/124-migration-au-niger-la-loi-du-26-mai-2015-n-est-plus-un-obstacle

    • À Agadez, sur la route de l’exil, le « business » des migrants n’est plus un crime

      Au Niger, les militaires au pouvoir ont abrogé une loi qui criminalisait le trafic des migrants depuis 2015, fin novembre. À Agadez, aux portes du Sahara, devenue un carrefour migratoire pour des milliers de Subsahariens vers l’Europe, les habitants espèrent voir se relancer le marché de l’exil.

      Depuis un peu plus d’un mois, le Niger est redevenu la plaque tournante légale des migrants vers l’Europe. Fin novembre, la junte qui a pris le pouvoir après un coup d’État a abrogé une loi criminalisant le trafic des exilés africains à la frontière, dénonçant un texte « voté sous l’influence de puissance étrangères ».

      Adoptée en 2015, sous pression de l’Union européenne, la loi prévoyait jusqu’à trente ans de prison pour les passeurs. À Agadez, la ville du nord du Niger aux portes du Sahara, les habitants sont ravis et espèrent voir repartir le « business » d’antan.

      Reportage à Agadez, de notre correspondante Sophie Douce.

      À l’autogare d’Agadez, les pickups du désert défilent. À l’arrière, ils sont des dizaines entassés, accrochés avec un bout de bois pour ne pas tomber.

      Halilou Boubacar : « Là, présentement, nous avons plus de Nigériens, des Ghanéens, des Camerounais. On les met dans des pick up qui peuvent prendre 35 à 40 personnes, ils sont concentrés comme des sardines. »

      Lunettes noires, turban, manteau et gants. Destination : la Libye, puis l’Europe, pour les plus chanceux.

      Boubacar Halilou est « coxer », un rôle d’intermédiaire entre les chauffeurs et les migrants : « Le prix, ça se négocie toujours, ce n’est pas un prix fixe, c’est le business comme ça. »

      Comptez entre 450 à 500 euros la place. À côté, les rabatteurs haranguent la foule au milieu des vendeurs ambulants. Un bonnet, des cigarettes…De quoi tenir les deux ou trois jours de traversée jusqu’à Sebha en Libye, dernière étape avant la Méditerranée.
      « Avant, c’était pas facile, c’est comme si on te voyait avec de la drogue »

      Plus besoin de se cacher… Une « bouffée d’oxygène » pour les habitants, dont beaucoup vivaient de ce marché depuis l’effondrement du tourisme il y a dix ans :

      Boubacar Halilou : « On revit, parce que ici, à Agadez, tout le monde trouve son compte : les locations de maison, les transporteurs, les marchés, les hôtels, les taxis, on peut prendre des passagers tranquille tu peux aller là où tu veux circuler, parce que avant c’était pas facile, c’est comme si on te voyait avec de la drogue. »

      Des dizaines de passeurs ont été libérés. Mais après huit années de clandestinité, la méfiance demeure et la fraude persiste. Dans une ruelle, des pickups débordent, sans plaque d’immatriculation.
      Un homme fait signe de déguerpir…Il faut vite ranger la caméra et le micro.

      La peur de la police… Car ici certains continuent d’embarquer dans des « gares clandestines », près des « ghettos », les maisons de migrants louées par des passeurs.

      Dans le quartier « Misrata », ils sont nombreux à s’entasser dans ces dortoirs en banco, en attendant la prochaine étape.
      Dans une cour en terre, des femmes arrivées de Sierra Leone cuisinent avec leurs enfants.

      À côté, Issouf Sako, un Ivoirien de 28 ans, rêve de travailler en France ou en Italie. Son « coxer » a organisé son exil par Whatsapp.

      Issouf Sako : « C’est mon frère qui m’a mis en contact avec lui, lui aussi est en Europe, j’ai économisé un peu un peu, je prends la route maintenant, arrivé à Tripoli, le prix du bateau, ça peut être 700 000-800 000. Bon, on vient en Europe, c’est pas pour se promener, puisqu’on souffre chez nous, il n’y a pas de travail. »

      Au total, son voyage devrait lui coûter plus de 1 500 euros. Et la route est longue, dangereuse.
      L’interdiction a poussé les conducteurs à passer par des voies à haut risque pour échapper aux contrôles.

      Alors en 2016, des habitants se sont mobilisés pour aider les migrants pris au piège dans le désert, en créant un numéro vert.

      Chéhou Azizou, le coordonnateur du projet « Alarme Phone Sahara » :"Il suffit qu’un véhicule en détresse contacte le numéro et nous donne sa localisation, on prépare la mission et on part à leur secours, on ne peut pas marcher longtemps dans le désert, la mort est certaine".

      Pour cet activiste, la politique d’externationalisation des frontières de l’Union européenne est un échec :

      « Si certaines organisations humanitaires prétendent avoir contrôlé les flux migratoires, moi ça me fait rire. Nous enregistrons des expulsions en provenance de l’Algérie à hauteur de 22 à 25 000 refoulés par année. On a empêché aux passagers de suivre les voies officielles oui, mais on n’a pas réduit les flux migratoires et ça ce sont pour les refoulés, alors combien sont enterrés dans le désert ? Dieu seul sait ».

      En attendant, l’inquiétude monte à Bruxelles, face à ce verrou migratoire en train de sauter, avec la crainte de nouveaux morts dans le désert.

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-reportage-de-la-redaction/a-agadez-sur-la-route-de-l-exil-le-business-des-migrants-n-est-plus-un-c

  • La CEDU condanna l’Italia per detenzione illegale di minori stranieri nell’hotspot di Taranto
    https://www.meltingpot.org/2023/11/la-cedu-condanna-litalia-per-detenzione-illegale-di-minori-stranieri-nel

    Nuova condanna all’Italia dalla Corte europea per i Diritti umani. Oggi nell’hotspot permangono ancora 185 minori. L’ASGI chiede l’immediato collocamento in strutture adeguate e la supervisione dell’attuazione delle precedenti sentenze che, come dimostra la situazione nell’hotspot di Taranto, non hanno fatto modificare le prassi illegittime. La Corte Europea dei Diritti Umani, con la decisione del 23 novembre 2023 resa nel procedimento n. 47287/17 (caso A.T. ed altri c. Italia), ha condannato l’Italia per avere detenuto illegalmente nell’ hotspot di Taranto diversi minori stranieri non accompagnati (art. 5, parr. 1, 2 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), per avere utilizzato trattamenti (...)

    #Giurisprudenza_europea #Guida_legislativa #Speciale_Hotspot

  • Projet de loi sur l’immigration : « Les Français attendent de la représentation parlementaire responsabilité et dignité »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/11/28/projet-de-loi-sur-l-immigration-les-francais-attendent-de-la-representation-

    Projet de loi sur l’immigration : « Les Français attendent de la représentation parlementaire responsabilité et dignité »
    Tribune Pierre Henry
    président de l’association France Fraternités
    Le débat sur l’immigration et l’asile au Sénat a accouché d’un projet de loi populiste en ce sens que son objet n’est pas d’apporter des solutions à des situations concrètes, mais de permettre à quelques politiciens des droites extrêmes de prendre une posture martiale. Ce projet ne répare rien. En épousant fausses informations, clichés et autres lubies des temps présents, il aggrave en de nombreux cas une situation déjà dramatique. Ce qui fait dire à nombre d’associations et à certaines formations politiques de gauche que ce texte doit dès lors être rejeté en bloc. N’est-ce pas aller vite en besogne ?
    Il y a trois mois, une voie d’espoir transpartisane était apparue avec la publication, le 11 septembre dans le quotidien Libération, d’une tribune de trente-cinq parlementaires appelant à la régularisation par le travail dans les métiers en tension de personnes séjournant sur le sol français depuis plusieurs années. Ce sujet complexe était abordé avec nuance. Pour quelles raisons obscures, éloignées du bien commun, faudrait-il aujourd’hui abandonner cette démarche de bon sens ? Les Français attendent de la représentation parlementaire responsabilité et dignité. Cette double exigence pourrait être satisfaite à cinq conditions, constitutives d’un compromis acceptable par l’ensemble des forces de progrès et de gouvernement de l’arc républicain, laissant les droites extrêmes à leurs démons.
    La première est celle du maintien en l’état du dispositif d’aide médicale réservé aux étrangers en situation irrégulière : mécanisme de prévention, il représente un bouclier de protection pour l’ensemble des citoyens de ce pays. Il protège tout un chacun, son coût est maîtrisé et représente moins de 0,49 % du budget de l’Assurance-maladie. La fraude y est marginale, parfaitement documentée, et l’existence de ce dispositif est un sas utile pour protéger les urgences hospitalières de l’embolie qui les guette s’il venait à disparaître.
    La deuxième est d’inscrire dans la loi un processus de régularisation permettant aux personnes travaillant dans des métiers qui manquent de main-d’œuvre, résidant en France depuis plusieurs années, de s’y engager en toute confiance et transparence. La situation aujourd’hui est ubuesque à de nombreux égards. Elle oblige les personnes à avoir recours à des mécanismes de fraude (travail sous alias ou sans fiches de paie). Elle les maintient souvent dans l’assistanat à charge de la communauté nationale. Ainsi, plusieurs dizaines de milliers de personnes hébergées dans des structures d’urgence se trouvent privées de toutes perspectives raisonnables d’en sortir.
    La troisième est le rétablissement du droit du sol pour les enfants nés sur le sol français. La République est fraternelle parce qu’elle estime qu’un enfant né en France, même de parents étrangers, qui y a séjourné de manière continue et qui y a passé sa scolarité, devient français à sa majorité parce que la nationalité ne repose pas sur l’ethnie, mais sur la socialisation. Inutile, confuse et discriminatoire, la mesure voulue par le Sénat et consistant à restreindre ce droit nous renvoie au XXe siècle et à la période des ministres de l’intérieur Charles Pasqua (1986-1988 et 1993-1995) et Jean-Louis Debré (1995-1997). La compréhension du monde en marche arrière et l’utilisation de grossiers stratagèmes sont détestables pour qui prétend tenter de régler les problèmes de l’heure.
    La quatrième condition préalable à un compromis doit amener la représentation parlementaire à refuser de pénaliser a priori le séjour irrégulier d’un étranger. Il n’y a aucun motif légitime à cette pénalisation qui n’est que de posture et qui entre en contradiction avec les décisions de la Cour de justice de l’Union européenne. Elle n’aide en rien à ce que des étrangers faisant l’objet d’une mesure d’éloignement administrative ou judiciaire quittent le territoire français.
    Enfin, le projet de loi, dont l’asile n’est pas l’objet principal, entend procéder à une réforme radicale de la procédure d’examen des recours. De l’analyse de ce texte, il ressort qu’à l’aune de l’objectif recherché d’efficacité, ni l’urgence d’une telle réforme ni son bien-fondé ne seraient justifiés. L’essentiel de l’augmentation des délais de jugement constatée n’est pas imputable au fonctionnement collégial de la Cour nationale du droit d’asile (CNDA). La cinquième condition est donc le renoncement à l’instauration d’un juge unique et le maintien de cette collégialité qui contribue à la qualité de l’instruction et des décisions rendues. Elle vaut pluralité de compétences, de regards professionnels et de voix, à l’audience comme en délibéré.
    La noblesse de la politique est en toute chose la recherche d’un compromis. Sur un sujet aussi complexe que la question migratoire, certains font métier de simplisme dans une période propice à toutes les manipulations. Aux démocrates, humanistes et républicains de montrer qu’une voie raisonnable est possible sans céder aux bonimenteurs ! Pierre Henry est président de l’association France Fraternités

    #Covid-19#migrant#migration#france#loimigration#immigration#asile#AME#regularisation#debatparlementaire#CNDA#droit#droitdusol#sante

  • Aumento di arrivi alle Canarie. Dall’inizio dell’anno più di 1.000 le persone disperse

    La principale causa è la repressione delle proteste in Senegal.

    A partire dallo scorso maggio 2023 il collettivo spagnolo Caminando Fronteras ha registrato un nuovo importante aumento di sbarchi alle isole Canarie dovuto principalmente alla situazione politica in Senegal, da dove partono la maggior parte delle imbarcazioni. Come sempre accade, proporzionalmente all’aumento di approdi, aumenta anche il numero di morti e dispersi. La risposta del governo spagnolo è la promessa di maggiore controllo sulle coste africane di partenza, mentre le strutture di “accoglienza” sono al collasso e non forniscono le condizioni minime di igiene e abitabilità.

    Secondo le ricerche di Caminando Fronteras le persone scomparse sono già più di mille dall’inizio dell’anno. Solo nel mese di giugno sono scomparse 3 imbarcazioni con oltre 300 persone a bordo. La maggior parte delle imbarcazioni che stanno raggiungendo le Canarie in questi mesi partono dal Senegal, a causa di una situazione politica sempre più tesa, che vive ora una fase particolarmente acuta.

    Migliaia di persone stanno protestando per la stretta autoritaria messa in atto dall’attuale presidente Macky Sall in vista delle prossime elezioni presidenziali che si terranno a febbraio 2024. Dalla fine di maggio in particolare, la situazione è peggiorata notevolmente e diverse organizzazioni senegalesi per la protezione dei diritti umani hanno denunciato arresti di massa che stanno colpendo anche un gran numero di adolescenti.

    La repressione è molto dura, attualmente si contano circa due mila arresti e 16 persone uccise durante le proteste. Tra le persone detenute si contano anche numerosi minori, motivo per cui negli ultimi due mesi, il numero di bambini e adolescenti che viaggiano sui cayucos è aumentato, rappresentando in alcuni casi fino al 40% delle persone che scelgono di partire a bordo di queste tradizionali imbarcazioni da pesca. Anche donne e intere famiglie stanno iniziando a imbarcarsi in misura sempre maggiore.

    Le autorità spagnole concentrano la loro azione sugli arrivi, ma non sulla pericolosa rotta che divide il Senegal dalle Canarie, attualmente quella che provoca più morti. Il viaggio da Kafountine, in Senegal, al Hierro, l’isola delle Canarie più vicina, può durare anche due settimane. Si tratta di un viaggio molto lungo, in cui le persone sono esposte alle forti correnti dell’oceano, alle condizioni meteorologiche avverse e alla possibilità di imprevisti o guasti al motore. Per queste ragioni la rotta verso le Canarie continua ad affermarsi come una delle più pericolose e con il più alto tasso di mortalità.

    L’azione statale rispetto al soccorso e alla ricerca dei dispersi presenta grosse falle, dal momento che non esiste nessun protocollo per la ricerca dei dispersi in mare e che le operazioni di salvataggio risultano attraversate e ostacolate dalle politiche razziste implementate dal governo spagnolo. Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio. Molte morti si sarebbero potute evitare, per esempio, se si fossero attivati i mezzi di soccorso nel momento dell’avvistamento delle imbarcazioni invece di aspettare che queste naufragassero. Queste gravi mancanze nel soccorso e nella ricerca dei dispersi non sono un caso, bensì una precisa strategia per tentare di invisibilizzare questa situazione nel discorso pubblico e il governo la mette in atto impunemente, sulla pelle di migliaia di persone che potevano invece essere salvate, la cui vita viene considerata niente più che una moneta di scambio per le proprie esigenze politiche.

    Anche una volta arrivate le persone continuano a essere oggetto di razzismo e maltrattamento istituzionale. A El Hierro, dove sta arrivando la maggior parte di persone in questi mesi, i mezzi per gestire l’accoglienza sono scarsi. Le persone vengono trattenute sulle darsene dei porti, in spazi sovraffollati e in cui le condizioni di vita sono ridotte al minimo. Anche i lavoratori e le lavoratrici delle ONG hanno denunciato la difficile situazione, soprattutto durante le ondate di caldo, in cui le persone sono state costrette a permanere diversi giorni sedute sul cemento in attesa di essere identificate e trasferite in altre isole.

    A tutta questa situazione il governo risponde attraverso la solita retorica del bisogno di un maggiore controllo migratorio. Le misure promesse dal ministro dell’interno Marlaska, riconfermato dopo le ultime elezioni, comprenderebbero anche un aereo della Guardia Civil che sorvoli costantemente le coste africane per identificare le partenze. Questo controllo non sarebbe funzionale ad attività di soccorso, come dimostrano i numerosi casi di omissione di soccorso da parte delle autorità spagnole denunciati da Caminando Fronteras, di cui uno documentato il 20 giugno scorso dall’emittente radio CadenaSER 1.

    Una volta in più assistiamo a come le politiche di controllo, non potendo fermare le migrazioni, siano solamente un dispositivo funzionale alla criminalizzazione e al confinamento delle persone migranti, e di come si rivelino uno strumento di violenza che provoca ogni anno la morte di migliaia di persone che potevano invece essere salvate. I tentativi di insabbiamento di queste morti da parte del governo spagnolo dimostrano la disumanità con cui vengono gestite le frontiere e l’opportunismo politico con cui i governi europei rigirano a proprio favore queste tragedie, di cui sono i responsabili, per mettere in campo nuovi strumenti per la persecuzione delle persone migranti.

    1. Está dentro de la zona SAR nuestra”: la SER accede a las grabaciones de Salvamento Marítimo del último naufragio en la ruta canaria, Cadenaser (22 giugno 2022): https://cadenaser.com/nacional/2023/06/22/esta-dentro-de-la-zona-sar-nuestra-la-ser-accede-a-las-grabaciones-de-sal

    https://www.meltingpot.org/2023/11/aumento-di-arrivi-alle-canarie-dallinizio-dellanno-sono-gia-piu-di-1-000

    J’avais loupé ce protocole raciste:

    Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio.

    –-> deepl translation:

    « En effet, depuis 2018, il existe un protocole spécifique pour le sauvetage des naufragés à bord des pateras, qui diffère du protocole de sauvetage du reste des personnes en danger en mer.

    Ce protocole est gravement déficient en termes de moyens et d’action, ce qui oblige les opérateurs du Salvamento marítimo à une #différenciation_raciale dans les opérations de sauvetage. »

    #route_atlantique #asile #migrations #réfugiés #Canaries #îles_Canaries #statistiques #chiffres #Sénégal #répression #Caminando_Fronteras #Macky_Sall #cayucos #Kafountine #Hierro #mourir_en_mer #frontières #morts #décès #mortalité #secours #pateras #Salvamento_marítimo #racisme #sauvetage_différencié #contrôles_frontaliers

  • En Suède, l’extrême droite a le vent en poupe, un an après l’arrivée de la droite au pouvoir
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/26/en-suede-l-extreme-droite-a-le-vent-en-poupe-un-an-apres-l-arrivee-de-la-dro

    En Suède, l’extrême droite a le vent en poupe, un an après l’arrivée de la droite au pouvoir
    Membre de la majorité depuis octobre 2022, les Démocrates de Suède, réunis en congrès ce week-end, veulent accélérer le rythme des réformes en prônant « la politique de l’asile la plus restrictive d’Europe ».
    Par Anne-Françoise Hivert(Västeras (Suède), envoyée spéciale)
    Cheveux longs gris et lunettes cerclées de noir, Asa Wittenfelt, 64 ans, a le sourire aux lèvres. Professeure de mathématiques et de sciences dans un lycée professionnel, elle est venue de Lund, dans le sud du pays, pour participer au congrès des Démocrates de Suède (SD), qui se déroulait du jeudi 23 au dimanche 26 novembre, à Västeras, au nord-ouest de Stockholm. « Pour la première fois depuis longtemps, je ressens de l’espoir. On reconnaît enfin qu’on a été naïfs et on ose parler de tout, sans tabou », dit-elle.Asa a adhéré au parti il y a douze ans, « catastrophée » par la situation dans son école, où « les élèves, appartenant à différents clans, se battaient dans les couloirs ». A l’époque, être membre des SD, une formation nationale conservatrice aux origines néonazies, n’était pas bien vu. Elle a essuyé les critiques de ses collègues. « Aujourd’hui, beaucoup me disent qu’ils sont d’accord avec moi et même des élèves me soutiennent », affirme l’enseignante.
    Dans les couloirs du palais des congrès de Västeras, les 300 délégués, venus de tout le pays, arborent le même air de satisfaction. Ils ont de quoi : depuis octobre 2022, les SD font partie de la majorité, avec les conservateurs, les chrétiens-démocrates et les libéraux. Et, même s’ils ne siègent pas formellement au gouvernement – ils n’ont pas de portefeuilles ministériels, mais disposent d’un bureau de coordination au sein de l’administration gouvernementale et participent à presque toutes les conférences de presse des ministres –, les Suédois estiment que ce sont eux qui ont le plus d’influence sur la politique actuellement menée.
    Samedi, sans surprise, les délégués ont réélu Jimmie Akesson, 44 ans, à la tête du parti qu’il dirige depuis 2005. Paraphrasant l’ancien président américain Donald Trump, le leader de l’extrême droite, très en verve, a assuré que « maintenant que [les SD] participaient à la gouvernance » du pays, ils allaient « rendre sa grandeur à la Suède ». Au terme de la mandature, le royaume aura « la politique de l’asile la plus restrictive d’Europe », a-t-il promis, sous les applaudissements, avant de consacrer une bonne partie de son discours à dénoncer l’emprise des « islamistes » sur la société suédoise, qu’il veut combattre en « confisquant et en détruisant les mosquées » accusées de propager un discours « antidémocratique ».
    Un an après l’arrivée de la droite au pouvoir, les SD ont le vent en poupe. Crédité de 22 % des intentions de vote dans les sondages – ils avaient obtenu 20,5 % aux législatives, le 11 septembre 2022 –, ils pèsent désormais plus lourd que les trois partis du gouvernement réunis. Le contexte n’y est pas étranger : en proie à la criminalité organisée, qui a fait cinquante morts depuis le début de l’année, la Suède est aussi menacée par le terrorisme islamiste – deux supporteurs suédois ont été tués à Bruxelles, le 16 octobre, dans un attentat, commis par un Tunisien.
    Sur tous ces sujets, « nous sommes perçus comme les plus crédibles », assure Mattias Bäckström Johansson, secrétaire du parti depuis décembre 2022. A 38 ans, cet ancien opérateur de l’industrie nucléaire ne boude pas son plaisir : « Bien sûr que nous sommes très contents de ce qui a été accompli en un an, mais nous aimerions que cela aille plus vite. » Car, avant de pouvoir être votée au Parlement, toute réforme doit faire l’objet au préalable d’un examen approfondi. Malgré de nombreuses annonces, très peu de lois ont donc été adoptées.
    (...°Même empressement du côté des Ungsvenskarna SDU, les Jeunes Démocrates de Suède, la section jeunesse du parti, qui compte 2 000 adhérents. Robe vichy et vernis orange, Rebecka Rapp, 23 ans, est souvent interpellée sur TikTok : « On me demande pourquoi ça ne va pas plus vite, j’explique que c’est la politique. » Lors des dernières élections, 22 % des Suédois âgés de 18 à 21 ans ont voté pour le parti (et 26 % pour les conservateurs) : « C’est devenu cool, pour les jeunes, d’être à droite », assure la jeune femme. Etudiante en ingénierie civile à l’Institut royal de technologie royal à Stockholm (...) Le parti est dans une position idéale, observe Ann-Cathrine Jungar, professeur de sciences politiques à l’université de Södertörn : « Il a un pied dans le gouvernement et un autre en dehors, ce qui lui permet d’exercer une influence politique, tout en continuant à critiquer le gouvernement. » Jimmie Akesson ne s’en prive pas, pas plus qu’il ne rate une occasion de faire dans la surenchère, allant jusqu’à plaider pour que la police détienne des personnes sans le moindre soupçon. A Västeras, il s’en est pris à l’ensemble de la classe politique, accusée d’avoir « activement » permis à la criminalité de se développer : « Nous n’oublierons pas et nous ne pardonnerons pas », a-t-il déclaré.
    Face à ses excès ou à ceux de responsables de son parti, propageant par exemple la théorie du « grand remplacement » ou défendant les autodafés du Coran, la droite laisse faire : « Les autres partis sont mal à l’aise, mais ils ont décidé de ne pas critiquer les SD, même quand ils tiennent des propos radicaux, ce qui démontre leur influence », note le politologue Tommy Möller. Avec pour conséquence aussi de normaliser un discours qui aurait été jugé inacceptable il y a quelques années, mais qui se répand désormais dans l’espace public, alors que « l’inhibition pour voter SD ne cesse de baisser », remarque M. Möller.L’un des vétérans de la formation, l’idéologue Mattias Karlsson, y voit l’aboutissement d’un long processus mené « de façon très déterminée » par le parti, qui, « malgré les obstacles », a enfin réussi à se débarrasser de « l’image stigmatisante » qui l’a longtemps pénalisé. « Aujourd’hui, nous sommes tellement normalisés au sein de la société que nous pouvons recruter des personnes compétentes et nous professionnaliser. Nous avons atteint la dernière étape, avant d’entrer au gouvernement », assure-t-il. Jimmie Akesson ne s’en cache pas : en 2026, si la droite l’emporte, il exigera des portefeuilles ministériels, ou bien il siégera dans l’opposition. En attendant, les SD ont les yeux tournés vers les élections européennes de juin 2024. Lors du précédent scrutin, en 2019, ils étaient arrivés en troisième position, avec 15,3 % des voix. Depuis, le parti a renoncé à exiger un « Swexit », même s’il continue de considérer Bruxelles et l’UE comme « une des plus grosses menaces contre la souve#raineté » du pays, avec l’immigration. A Västeras, il n’a pas été question de la victoire du leader d’extrême droite Geert Wilders aux élections néerlandaises, pas plus que du grand rassemblement des populistes du groupe Identité et démocratie (ID) qui s’est tenu au Portugal, vendredi. Les SD font partie du groupe Conservateurs et réformistes européens et continuent de juger « problématiques » les liens de certains partis d’ID avec la Russie, comme le Rassemblement national de Marine Le Pen.

    #Covid-19#migrant#migration#suede#extremedroite#immigration#souverainte#islamisme#terrorisme#asile#politiquemigratoire

  • La grande scommessa: migrazioni e (im)mobilità globale (con #Milena_Belloni)

    Il governo Meloni in questi giorni sta discutendo di un “#piano_Africa” per “aiutarli a casa loro” che include esperti di comunicazione che informino gli aspiranti migranti dei rischi che corrono. È questo il punto, non sanno cosa rischiano?
    Ha senso parlare del “Viaggio” dei migranti come di una scommessa (evocata anche nel titolo del tuo libro)?
    Per una persona che arriva ce ne sono decine che partono. Per una persona che parte, ce ne sono migliaia che restano. È davvero una scelta del singolo imbarcarsi nel “Viaggio”?
    Succede a chiunque, in continuazione, di cominciare qualcosa senza avere un’idea precisa delle conseguenze. Nel nostro quotidiano spesso ci si può fermare in itinere, ribilanciare costi e benefici. È così anche per un migrante che intraprende “il Viaggio”?
    Che differenza fa in tutto questo essere maschio o femmina?
    Tu sei stata sul campo: Eritrea, Etiopia, Sudan, Italia. Cosa ti ha colpito di più?

    https://www.spreaker.com/user/15530479/ep-6-la-grande-scommessa-con-milena-belloni

    #migrations #risque #réfugiés #asile #risques #itinéraire_migratoire #migrerrance #immobilité #stratégie_familiale #pari
    #podcast #audio

    • The Big Gamble. The Migration of Eritreans to Europe

      Tens of thousands of Eritreans make perilous voyages across Africa and the Mediterranean Sea every year. Why do they risk their lives to reach European countries where so many more hardships await them? By visiting family homes in Eritrea and living with refugees in camps and urban peripheries across Ethiopia, Sudan, and Italy, Milena Belloni untangles the reasons behind one of the most under-researched refugee populations today. Balancing encounters with refugees and their families, smugglers, and visa officers, The Big Gamble contributes to ongoing debates about blurred boundaries between forced and voluntary migration, the complications of transnational marriages, the social matrix of smuggling, and the role of family expectations, emotions, and values in migrants’ choices of destinations.

      https://www.ucpress.edu/book/9780520298705/the-big-gamble

      #réfugiés_érythréens #livre

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

    • Le Pakistan déclenche une vague d’abus contre les Afghans

      Les nouveaux efforts déployés par les autorités pakistanaises pour « convaincre » les Afghans de retourner en Afghanistan peuvent se résumer en un mot : abus.

      La police et d’autres fonctionnaires ont procédé à des #détentions_massives, à des #raids nocturnes et à des #passages_à_tabac contre des Afghans. Ils ont #saisi_des_biens et du bétail et détruit des maisons au bulldozer. Ils ont également exigé des #pots-de-vin, confisqué des bijoux et détruit des documents d’identité. La #police pakistanaise a parfois harcelé sexuellement des femmes et des filles afghanes et les a menacées d’#agression_sexuelle.

      Cette vague de #violence vise à pousser les réfugiés et les demandeurs d’asile afghans à quitter le Pakistan. Les #déportations que nous avons précédemment évoquées ici sont maintenant plus nombreuses – quelque 20 000 personnes ont été déportées depuis la mi-septembre. Les menaces et les abus en ont chassé bien plus : environ 355 000.

      Tout cela est en totale contradiction avec les obligations internationales du Pakistan de ne pas renvoyer de force des personnes vers des pays où elles risquent clairement d’être torturées ou persécutées.

      Parmi les personnes expulsées ou contraintes de partir figurent des personnes qui risqueraient d’être persécutées en Afghanistan, notamment des femmes et des filles, des défenseurs des droits humains, des journalistes et d’anciens fonctionnaires qui ont fui l’Afghanistan après la prise de pouvoir par les talibans en août 2021.

      Certaines des personnes menacées s’étaient vu promettre une réinstallation aux États-Unis, au Royaume-Uni, en Allemagne et au Canada, mais les procédures de #réinstallation n’avancent pas assez vite. Ces gouvernements doivent agir.

      L’arrivée de centaines de milliers de personnes en Afghanistan « ne pouvait pas arriver à un pire moment », comme l’a déclaré le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés. Le pays est confronté à une crise économique durable qui a laissé les deux tiers de la population dans le besoin d’une assistance humanitaire. Et maintenant, l’hiver s’installe.

      Les nouveaux arrivants n’ont presque rien, car les autorités pakistanaises ont interdit aux Afghans de retirer plus de 50 000 roupies pakistanaises (175 dollars) chacun. Les agences humanitaires ont fait état de pénuries de tentes et d’autres services de base pour les nouveaux arrivants.

      Forcer des personnes à vivre dans des conditions qui mettent leur vie en danger en Afghanistan est inadmissible. Les autorités pakistanaises ont déclenché une vague d’#abus et mis en danger des centaines de milliers de personnes. Elles doivent faire marche arrière. Rapidement.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/11/29/le-pakistan-declenche-une-vague-dabus-contre-les-afghans
      #destruction #harcèlement

  • Dans la #Manche, les coulisses terrifiantes du sauvetage des migrants

    Il y a deux ans, au moins 27 personnes périssaient dans des eaux glaciales au large de Calais, après le naufrage de leur embarcation. Mediapart a enquêté sur les pratiques des différents acteurs missionnés pour sauver celles et ceux qui tentent de rejoindre le Royaume-Uni par la mer.

    « Parfois, ils refusent notre appel, parfois ils décrochent. Quand j’appelle le 999, ils me disent d’appeler les Français, et les Français nous disent d’appeler les Anglais. Ils se moquent de nous. » Ces quelques phrases, issues d’un échange entre un membre de l’association #Utopia_56 et un exilé se trouvant à bord d’une embarcation dans la Manche, résument à elles seules les défaillances du #secours en mer lorsque celui-ci n’est pas coordonné.

    Elles illustrent également le désarroi de celles et ceux qui tentent la traversée pour rejoindre les côtes britanniques. Le 20 novembre 2021, les membres d’Utopia 56 ont passé des heures à communiquer par messages écrits et audio avec un groupe d’exilé·es qui s’était signalé en détresse dans la Manche. « Nous avons appelé tous les numéros mais ils ne répondent pas. Je ne comprends pas quel est leur problème », leur dit un homme présent à bord. « Restez calmes, quelqu’un va venir. Appelez le 112 et on va appeler les #garde-côtes français, ok ? » peut-on lire dans les échanges consultés par Mediapart.

    « Comme ils ont pu nous contacter, on a relancé le #Cross [#Centre_régional_opérationnel_de_surveillance_et_de_sauvetage_maritimes – ndlr], qui a pu intervenir. Mais on peut se demander ce qu’il se serait passé pour eux si ça n’avait pas été le cas », commente Nikolaï, d’Utopia 56. Cet appel à l’aide désespéré a été passé seulement quatre jours avant le naufrage meurtrier du #24_novembre_2021, qui a coûté la vie à au moins vingt-sept personnes, parmi lesquelles des Afghan·es, des Kurdes d’Irak et d’Iran, des Éthiopien·nes ou encore un Vietnamien.

    Un an plus tard, Le Monde révélait comment le Cross, et en particulier l’une de ses agent·es, avait traité leur cas sans considération, voire avec mépris, alors que les personnes étaient sur le point de se noyer. Une #information_judiciaire a notamment été ouverte pour « homicides », « blessures involontaires » et « mise en danger » (aggravée par la violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité ou de prudence), menant à la mise en examen de cinq militaires pour « #non-assistance_à_personne_en_danger » au printemps 2023.

    « Ah bah t’entends pas, tu seras pas sauvé », « T’as les pieds dans l’eau ? Bah, je t’ai pas demandé de partir »… Rendue publique, la communication entre l’agente du Cross et les exilé·es en détresse en mer, en date du 24 novembre, a agi comme une déflagration dans le milieu associatif comme dans celui du secours en mer. Signe d’#inhumanité pour les uns, de #surmenage ou d’#incompétence pour les autres, cet épisode dramatique est venu jeter une lumière crue sur la réalité que subissent les migrant·es en mer, que beaucoup ignorent.

    « Urgence vitale » contre « urgence de confort »

    Entendue dans le cadre de l’#enquête_judiciaire, l’agente concernée a expliqué faire la différence entre une situation d’« #urgence_vitale » et une situation de « #détresse » : « Pour moi, la détresse c’est vraiment quand il y a une vie humaine en jeu. La plupart des migrants qui appellent sont en situation de détresse alors qu’en fait il peut s’agir d’une urgence de confort », a déroulé la militaire lors de son audition, précisant que certains cherchent « juste à être accompagnés vers les eaux britanniques ».

    Elle décrit aussi des horaires décalés, de nuit, et évoque des appels « incessants » ainsi que l’incapacité matérielle de vérifier les indicatifs de chaque numéro de téléphone. Un autre agent du Cross explique ne pas avoir souvenir d’un « gros coup de bourre » cette nuit-là. « Chaque opération migrant s’est enchaînée continuellement mais sans densité particulière. » Et de préciser : « Ce n’est pas parce qu’il n’y a pas de densité particulière que nous faisons le travail avec plus de légèreté ; aucun n’est mis de côté et chaque appel est pris au sérieux. »

    Deux sauveteurs ont accepté de se confier à Mediapart, peu après le naufrage, refusant que puisse se diffuser cette image écornée du #secours_en_mer. « C’est malheureux de dire des choses comme ça », regrette Julien*, bénévole à la #Société_nationale_de_sauvetage_en_mer (#SNSM). Il y a peut-être, poursuit-il, « des personnes avec moins de jugeote, ou qui ont décidé de se ranger d’un côté et pas de l’autre ».

    L’homme interroge cependant la surcharge de travail du Cross, sans « minimiser l’incident » de Calais. « La personne était peut-être dans le rush ou avait déjà fait un certain nombre d’appels… Ils sont obligés de trier, il peut y avoir des erreurs. Mais on ne rigole pas avec ça. »

    Lorsque des fenêtres météo favorables se présentent, sur une période d’à peine deux ou trois jours, le Cross comme les sauveteurs peuvent être amenés à gérer jusqu’à 300 départs. Les réfugié·es partent de communes de plus en plus éloignées, prenant des « #risques énormes » pour éviter les contrôles de police et les tentatives d’interception sur le rivage.

    « Cela devient de plus en plus périlleux », constate Julien, qui décrit par ailleurs les stratégies employées par les #passeurs visant à envoyer beaucoup d’exilé·es d’un seul coup pour en faire passer un maximum.

    Il y a des journées où on ne fait que ça.

    Alain*, sauveteur dans la Manche

    « En temps normal, on arrive à faire les sauvetages car nos moyens sont suffisants. Mais à un moment donné, si on se retrouve dans le rush avec de tels chiffres à gérer, on a beau être là, avoir notre #matériel et nos #techniques de sauvetage, on ne s’en sort pas. » Julien se souvient de cette terrible intervention, survenue fin 2021 au large de la Côte d’Opale, pour laquelle plusieurs nageurs de bord ont été « mis à l’eau » pour porter secours à un canot pneumatique disloqué dont le moteur avait fini à 23 heures au fond d’une eau à 7 degrés.

    Présents sur zone en une demi-heure, les nageurs récupèrent les exilé·es « par paquet de trois », essayant d’optimiser tous les moyens dont ils disposent. « On aurait peut-être eu un drame dans la Manche si on n’avait pas été efficaces et si les nageurs n’avaient pas sauté à l’eau », relate-t-il, précisant que cette opération les a épuisés. L’ensemble des personnes en détresse ce jour-là sont toutes sauvées.

    Le plus souvent, les sauveteurs font en sorte d’être au moins six, voire huit dans l’idéal, avec un patron qui pilote le bateau, un mécanicien et au moins un nageur de bord. « Le jour où on a frôlé la catastrophe, on était onze. Mais il nous est déjà arrivé de partir à quatre. »

    Alain* intervient depuis plus de cinq années dans la Manche. La surface à couvrir est « énorme », dit-il. « Il y a des journées où on ne fait que ça. » Ce qu’il vit en mer est éprouvant et, « au #drame_humain auquel nous devons faire face », se rajoute parfois « le #cynisme aussi bien des autorités françaises que des autorités anglaises ».

    On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet. Les autres ont dû attendre.

    Alain* à propos d’un sauvetage

    Il évoque ce jour de septembre 2021 où 40 personnes sont en danger sur une embarcation qui menace de se plier, avec un brouillard laissant très peu de visibilité. Ne pouvant y aller en patrouilleur, l’équipe de quatre sauveteurs se rend sur zone avec deux Zodiac, et « accompagne » l’embarcation jusqu’aux eaux anglaises. Mais celle-ci commence à se dégonfler.

    La priorité est alors de stabiliser tous les passagers et de les récupérer, un par un. « Ça hurlait dans tous les sens, mais on a réussi à les calmer », relate Alain qui, tout en livrant son récit, revit la scène. « Il ne faut surtout pas paniquer parce qu’on est les sauveteurs. Plus difficile encore, il faut se résoudre à admettre que c’est un sauvetage de masse et qu’on ne peut pas sauver tout le monde. » Alain et ses collègues parviennent à charger tous les passagers en les répartissant sur chaque Zodiac.

    Lors d’un autre sauvetage, qu’il qualifie de « critique », ses collègues et lui doivent porter secours à une quarantaine d’exilés, certains se trouvant dans l’eau, et parfois sans gilet de sauvetage. « On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet, explique-t-il. Mais les autres ont dû attendre notre retour parce qu’on manquait de place sur notre bateau. Et par chance, entre-temps, c’est la SNSM qui les a récupérés. » Ce jour-là, confie-t-il, le Cross a « vraiment eu peur qu’il y ait des morts ».

    Négociations en pleine mer

    À cela s’ajoute la « #mise_en_danger » provoquée par les tractations en pleine mer pour déterminer qui a la responsabilité de sauver les personnes concernées.

    Une fois, raconte encore Alain, le boudin d’un canot pneumatique transportant 26 personnes avait crevé. « On leur a dit de couper le moteur et on les a récupérés. Il y avait un bébé de quelques mois, c’était l’urgence absolue. » En mer se trouve aussi le bateau anglais, qui fait demi-tour lorsqu’il constate que les exilé·es sont secouru·es.

    « Les migrants se sont mis à hurler parce que leur rêve s’écroulait. C’était pour nous une mise en danger de les calmer et de faire en sorte que personne ne se jette à l’eau par désespoir. » Le bateau anglais finit par revenir après 45 minutes de discussion entre le Cross et son homologue. « Plus de 45 minutes, répète Alain, en pleine mer avec un bébé de quelques mois à bord. »

    Qu’est devenu ce nourrisson ? s’interroge Alain, qui dit n’avoir jamais été confronté à la mort. Il faut se blinder, poursuit-il. « Nous sommes confrontés à des drames. Ces personnes se mettent en danger parce qu’elles n’ont plus rien à perdre et se raccrochent à cette traversée pour vivre, seulement vivre. » Il se demande souvent ce que sont devenus les enfants qu’il a sauvés. Sur son téléphone, il retrouve la photo d’une fillette sauvée des eaux, puis sourit.

    Pour lui, il n’y aurait pas de « consignes » visant à distinguer les #eaux_françaises et les #eaux_anglaises pour le secours en mer. « On ne nous a jamais dit : “S’ils sont dans les eaux anglaises, n’intervenez pas.” Le 24 novembre a été un loupé et on ne parle plus que de ça, mais il y a quand même des gens qui prennent à cœur leur boulot et s’investissent. » Si trente bateaux doivent être secourus en une nuit, précise-t-il pour illustrer son propos, « tout le monde y va, les Français, les Anglais, les Belges ».

    Lors de ses interventions en mer, la SNSM vérifie qu’il n’y a pas d’obstacles autour de l’embarcation à secourir, comme des bancs de sable ou des courants particulièrement forts. Elle informe également le Cross, qui déclenche les sauveteurs pour partir sur zone.

    « On approche très doucement du bateau, on évalue l’état des personnes, combien ils sont, s’il y a des enfants, s’il y a des femmes, si elles sont enceintes », décrit Julien, qui revoit cet enfant handicapé, trempé, qu’il a fallu porter alors qu’il pesait près de 80 kilos. Ce nourrisson âgé de 15 jours, aussi, qui dépassait tout juste la taille de ses mains.

    Si les exilés se lèvent brutalement en les voyant arriver, ce qui arrive souvent lorsqu’ils sont en détresse, le plancher de l’embarcation craque « comme un carton rempli de bouteilles de verre » qui glisseraient toutes en même temps vers le centre. Certains exilés sont en mer depuis deux jours lorsqu’ils les retrouvent. « En short et pieds nus », souvent épuisés, affamés et désespérés.

    Des « miracles » malgré le manque de moyens

    Les sauveteurs restent profondément marqués par ces sauvetages souvent difficiles, pouvant mener à huit heures de navigation continue dans une mer agitée et troublée par des conditions météo difficiles. « L’objectif est de récupérer les gens vivants, commente Julien. Mais il peut arriver aussi qu’ils soient décédés. Et aller récupérer un noyé qui se trouve dans l’eau depuis trois jours, c’est encore autre chose. »

    En trois ans, le nombre de sauvetages a été, selon lui, multiplié par dix. Le nombre d’arrivées au Royaume-Uni a bondi, conduisant le gouvernement britannique à multiplier les annonces visant à durcir les conditions d’accueil des migrant·es, du projet d’externalisation des demandes d’asile avec le Rwanda, à l’hébergement des demandeurs et demandeuses d’asile à bord d’une barge, plus économique, et non plus dans des hôtels.

    Pour Julien, les dirigeant·es français·es comme britanniques s’égarent dans l’obsession de vouloir contenir les mouvements migratoires, au point de pousser les forces de l’ordre à des pratiques parfois discutables : comme le montrent les images des journalistes ou des vacanciers, certains CRS ou gendarmes viennent jusqu’au rivage pour stopper les tentatives de traversée, suscitant des tensions avec les exilé·es. Aujourd’hui, pour éviter des drames, ils ne sont pas autorisés à intercepter une embarcation dès lors que celle-ci est à l’eau.

    Dans le même temps, les sauveteurs font avec les moyens dont ils disposent. Un canot de sauvetage vieillissant, entretenu mais non adapté au sauvetage de migrants en surnombre, explique Julien. « On porte secours à près de 60 personnes en moyenne. Si on est trop lourd, ça déséquilibre le bateau et on doit les répartir à l’avant et au milieu, sinon l’eau s’infiltre à l’arrière. » Ses équipes ont alerté sur ce point mais « on nous a ri au nez ». Leur canot devrait être remplacé, mais par un bateau « pas plus grand », qui ne prend pas ce type d’opérations en compte dans son cahier des charges.

    En un an, près de « 50 000 personnes ont pu être sauvées », tient à préciser Alain, avant d’ajouter : « C’est un miracle, compte tenu du manque de moyens. » Il peut arriver que les bénévoles de la SNSM reçoivent une médaille des autorités pour leur action. Mais à quoi servent donc les médailles s’ils n’obtiennent pas les moyens nécessaires et si leurs requêtes restent ignorées ?, interroge-t-il.

    « La France est mauvaise sur l’immigration, elle ne sait pas gérer », déplore Alain, qui précise que rien n’a changé depuis le drame du 24 novembre 2021. Et Julien de conclure : « Les dirigeants sont dans les bureaux, à faire de la politique et du commerce, pendant que nous on est sur le terrain et on sauve des gens. S’ils nous donnent des bateaux qui ne tiennent pas la route, on ne va pas y arriver… »

    Mercredi 22 novembre, deux exilés sont morts dans un nouveau naufrage en tentant de rallier le Royaume-Uni.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/241123/dans-la-manche-les-coulisses-terrifiantes-du-sauvetage-des-migrants
    #Calais #mourir_en_mer #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #France #UK #Angleterre #GB #sauvetage #naufrage #frontières #migrations #asile #réfugiés

  • L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/11/24/l-asile-climatique-propose-par-l-australie-aux-habitants-des-tuvalu-suscite-

    L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    Par Isabelle Dellerba(Sydney, correspondance)
    Publié hier à 08h00, modifié hier à 17h06
    Ce pacte aurait pu représenter un modèle de bon voisinage. Vendredi 10 novembre, l’Australie et l’Etat du Tuvalu, dans le Pacifique Sud, ont dévoilé les termes d’un accord historique qui prévoit que Canberra s’engage à offrir l’asile climatique aux 11 000 citoyens du petit archipel à fleur d’eau, menacé d’être englouti par les flots avant la fin du siècle. Mais le texte, qui doit encore être ratifié par les deux parties pour entrer en vigueur, suscite des controverses dans cette région du monde où la crise climatique représente une menace existentielle pour tous les Etats insulaires de faible altitude.
    Son volet migratoire ne pose pas particulièrement question. L’accord prévoit que, chaque année, 280 citoyens tuvaluans se verront offrir un visa spécial qui leur permettra de « vivre, étudier et travailler » en Australie, mais aussi d’« accéder aux systèmes éducatifs, de santé et aux principaux dispositifs de soutien aux revenus et à la famille dès leur arrivée ». Le gouvernement travailliste dirigé par Anthony Albanese a ainsi répondu à la demande de l’Etat polynésien. « Nous voulons négocier des accords d’amitié avec des pays partageant nos valeurs, tels que les Fidji, la Nouvelle-Zélande et l’Australie, pour que nos citoyens puissent y vivre sans renoncer à leur nationalité et y bénéficier des mêmes avantages socio-économiques que le reste de la population », expliquait récemment au Monde le ministre des finances et du changement climatique des Tuvalu, Seve Paeniu.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Kioa, une île refuge pour les habitants des Tuvalu menacés par la montée des eaux
    Il s’agit du premier accord bilatéral conclu spécifiquement axé sur la mobilité climatique. Il a été salué par le chef du gouvernement de l’archipel, Kausea Natano, comme « une véritable lueur d’espoir » pour son pays, composé de récifs coralliens et d’atolls d’une hauteur moyenne de deux mètres au-dessus de la mer et déjà fréquemment inondés par des vagues-submersion. « Pour les Tuvaluans, ce pacte, c’est un peu comme un masque à oxygène dans un avion. Vous espérez qu’il ne tombe jamais, mais si vous en avez besoin, vous êtes très content qu’il soit là », abonde Jane McAdam, directrice du Centre Kaldor pour le droit international des réfugiés, qui évoque un texte « fondateur ».
    Le problème réside dans l’autre volet de l’accord. Après l’article 3, consacré à « la mobilité humaine dans la dignité », l’article 4 porte sur les questions de sécurité. Si l’Australie s’y engage à venir en aide aux îles Tuvalu en cas d’agression militaire, de catastrophe naturelle ou encore de pandémie, elle obtient aussi son mot à dire sur « tout partenariat, accord ou engagement » que l’archipel voudrait conclure avec d’autres Etats ou entités sur les sujets de sécurité et de défense. « Ces questions comprennent, mais ne se limitent pas à, la défense, la police, la protection des frontières, la cybersécurité et les infrastructures critiques, y compris les ports, les télécommunications et les infrastructures énergétiques », énonce le texte.« En échange de ces 280 places par an, l’Australie a obtenu un pouvoir de veto sur nos priorités de sécurité. Elle a abusé de sa position de force, c’est injuste. Et notre population n’a même pas été consultée », déplore notamment Maina Talia, un militant pour le climat tuvaluan reconnu sur la scène régionale. Les pays occidentaux « traitent les nations insulaires comme des pions pour contrer l’influence de la Chine », a dénoncé le Global Times, un quotidien proche du pouvoir chinois, le 14 novembre.
    Dans ce Pacifique Sud, où Pékin et Washington se livrent une lutte d’influence sans merci, Canberra a donné l’impression d’être davantage motivé par ses intérêts stratégiques que par une volonté sincère de soutenir son minuscule voisin rongé par l’océan. Cet accord est d’autant plus critiqué que l’Australie, troisième plus grand exportateur de combustibles fossiles au monde, n’a rien du bon élève en matière de lutte contre les émissions de gaz à effet de serre. « Le nouveau pacte signé par l’Australie avec Tuvalu n’est qu’une solution de fortune qui n’aborde en rien la crise climatique alimentée par les combustibles fossiles », a dénoncé Lagi Seru, membre du bureau régional de Greenpeace, dans un communiqué publié le 11 novembre. Les Etats insulaires demandent à l’Australie, qui souhaite organiser la COP31, de renoncer à accorder de nouvelles licences pour l’exploitation du charbon, du pétrole et du gaz.
    Si ce pacte n’est pas perçu comme un modèle, il n’en demeure pas moins précieux pour le gouvernement des Tuvalu qui, face au risque de disparition, explore toutes les pistes possibles pour assurer l’avenir de sa population. Afin qu’elle puisse rester chez elle, il a élaboré un plan d’adaptation à long terme destiné à créer une terre, élevée et sûre, de 3,6 kilomètres carrés – l’Australie s’est engagée à l’aider sur ce projet. Le gouvernement des Tuvalu a également entrepris des démarches pour que l’ensemble de l’archipel soit reconnu comme un site du patrimoine mondial de l’Unesco et mieux protégé.
    Etant parfaitement conscient que ces efforts pourraient s’avérer insuffisants, il prépare aussi un futur sans terres émergées. Offrir un refuge à ses habitants était l’une de ses priorités. D’autre part, il a engagé des actions, au niveau juridique, pour que son Etat conserve, quoi qu’il arrive, une existence légale et sa souveraineté sur l’ensemble du territoire, y compris maritime. Enfin, il planche sur la création d’un Etat déterritorialisé, dans le monde virtuel, pour sauvegarder ses archives comme son patrimoine culturel, mais aussi pour que ses ressortissants, même s’ils sont dispersés dans des pays tiers, puissent continuer à bénéficier de services étatiques et restent des citoyens tuvaluans à part entière.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#ilestuvalu#refugieclimatique#asileclimatique#etat#droit#souverainete

  • Joint declaration: Commemoration of the 24 November 2021 shipwreck


    EN et FR

    Two years after the shipwreck of 24 November 2021, as injustice and deaths at the border continue, we stand together to call for a world free from border violence.

    On 24 November 2021, at least 33 people in a dinghy tried to reach the United Kingdom from the coast of Dunkirk. The 33 people came mainly from Iraqi Kurdistan, but also from Afghanistan, Ethiopia, Iran, Egypt, Somalia, and Vietnam.

    Three hours into the Channel crossing, the boat found itself in distress. At 1:48 am, passengers managed to make contact with the Gris-Nez Regional Monitoring and Rescue Centre (“CROSS”), which coordinates rescue operations on the French side of the border. Although the boat was located in French territorial waters, the CROSS refused to send help.

    Despite repeated calls from various people on board, between 1:48am and 4:34am, neither British rescue services, nor French rescue services launched any operation to rescue them. Worse still, at 4.16am, the CROSS even went so far as to dissuade a tanker from intervening to rescue the people who were drowning. It was only 12 hours later that the inflatable boat was found by a fishing boat. At least 27 people died that night in the icy waters of the English Channel.

    A few days after the shipwreck, two survivors testified about how the rescue services had abandoned them at sea with impunity. In November 2022, Le Monde revealed the content of the unbearable exchanges between the shipwreck victims and the CROSS. The shipwrecked passengers were treated with cynicism and international laws governing rescue at sea were disregarded. A few weeks after the shipwreck, the organisation Utopia 56, with relatives of people who died, filed a complaint against French authorities for “involuntary manslaughter” and “failure to render assistance”. The nine military personnel from CROSS Gris-Nez and a French patrol boat interviewed as part of the judicial enquiry took responsibility for all the decisions taken on that terrible night, but do not believe they were at fault. Although the French government had promised an internal enquiry following the revelations in Le Monde, it never took place. On the contrary, the defendants have the support of their superiors, who tried to interfere in the judicial investigation, as revealed by telephone taps. An investigation for breach of confidentiality has been opened.

    A report published this month by the UK Department for Transport identified failings that led to the dinghy not being rescued by HM Coastguard that night: poor visibility, lack of aerial surveillance, and a lack of staff in the control room in Dover to process SOS calls… The legal team representing one of the victim’s families described the events as an “overall display of chaos”. The British government also announced an independent inquiry into the shipwreck, after the report was published. However, the report fails to explain why over 30 people were left in distress for 12 hours, while the Coastguard rescued other boats that night, nor why migrants have no other choice but to risk their lives at sea, when every other safe route to the UK is blocked to them.

    Again and again, political and military authorities refuse to take responsibility for their role in this shipwreck and are attempting to cover it up.

    Since 1999, at least 385 people have died trying to reach the UK. Hit by vehicles on the motorway, electrocuted by a live wire on the Eurotunnel site, asphyxiated in the trailers of lorries in Essex in England, died by suicide, drowned in the canal whilst trying to bathe, died due to poor living conditions in the camps, and drowned in the Channel.

    In recent years, the frequency of deaths at the border has only accelerated. Since 24 November 2021, at least 45 migrants have died at this border. The deaths continue to pile up and nothing changes. On the contrary, the French, Belgian and British authorities are stubbornly pursuing their racist and security-focused immigration approaches to make this border area ever more hostile for migrants.

    In France, the new asylum-immigration bill heralds an even more anti-migrant turn by the Macron government. On the northern coast this month, migrants’ rights organisations denounced a “catastrophic situation” for people exiled, who are not receiving shelter during storm Ciaran and the cold, nor access to water or food distributions – while police eviction operations continue. In Belgium, the government continues to deny decent accommodation to people seeking safety, leaving families and children on the streets, despite multiple convictions in court. Furthermore, since 2021, Belgium has been supporting Frontex’s Opal Coast aerial surveillance operation, whose mission is to assist the French and Belgian authorities in detecting and intercepting exiles attempting to cross the Channel to the United Kingdom. On the British side, the government has successively passed increasingly repressive measures against migrants, including a plan to deport people to Rwanda ruled unlawful by the Supreme Court, and a ban on asylum for people arriving in the UK “irregularly”. Lastly, at the last Franco-British summit on 10 March 2023, the UK announced the release of £476 million (543 million euros) over 3 years for the deployment of 500 additional officers, the purchase of new surveillance equipment and drones, helicopters and aircraft, and the opening of a new detention centre in northern France.

    The French, Belgian and British authorities have turned the shared border into a place of death. By refusing to welcome people and by militarising this border with an excessive number of repressive measures (kilometres of barriers, barbed wire, drones, multiple police patrols, Frontex aircraft), they are politically responsible for every single one of these deaths. We know that the increasing militarisation of the border does not stop people taking journeys, but simply makes these journeys more dangerous and life-threatening.

    We, Belgian, British, and French organisations, collectives, and activists, support the actions taken by victims’ relatives and families before the courts, to ensure that the truth on exactly what happened on that murderous night is exposed, and justice is achieved.

    From Dunkirk to Folkestone and from London to Zeebrugge, we stand together to call for an urgent and radical change in the policies pursued at this and other European borders. The rights of migrants must be fully respected and the values and principles of welcome and free movement must replace the racist logic of deadly border violence. We stand in solidarity with all those displaced. They should not face the further trauma of militarised and violent borders when they seek safety in Belgium, France or the UK.

    As long as the Belgian, British, and French governments continue to coordinate simultaneous violence at the shared border and as long as people need and desire to move across borders, our solidarity and work must continue to reach beyond borders. We will continue to work together in solidarity with people on the move, to ensure that their rights are respected – starting with their right to life – and that justice is done when these rights are violated.

    –-

    Deux ans après le naufrage du 24 novembre 2021, alors que l’injustice et les décès aux frontières se poursuivent, nous sommes uni·e·s pour appeler à un monde sans violence aux frontières.

    Le 24 novembre 2021, au moins 33 personnes embarquées à bord d’un zodiac ont tenté de rejoindre le Royaume-Uni, en partant des côtes Dunkerquoises. Ces 33 personnes venaient majoritairement du Kurdistan irakien, mais aussi d’Afghanistan, d’Éthiopie, d’Iran, d’Égypte, de Somalie et du Vietnam.

    Trois heures après le début de la traversée dans la Manche, l’embarcation s’est trouvée en situation de détresse. A 1h48 du matin, les passager·ère·s ont réussi à prendre contact avec le Centre régional opérationnel de surveillance et de sauvetage (CROSS) Gris-Nez, qui coordonne les opérations de secours côté français. Alors que l’embarcation est localisée dans les eaux territoriales françaises, le CROSS refuse d’envoyer des secours.

    Malgré des appels répétés de la part de différent·e·s naufragé·e·s, entre 1h48 et 4h34 du matin, ni les secours britanniques, ni les secours français ne lanceront d’opération de secours. Pire, à 4h16 du matin, le CROSS ira même jusqu’à dissuader un tanker d’intervenir pour secourir les personnes en train de se noyer. Ce n’est que 12 heures après, que l’embarcation pneumatique est retrouvée par un bateau de pêche. Au moins 27 personnes sont mortes cette nuit-là dans les eaux glacées de la Manche.

    Quelques jours après le naufrage, deux rescapés témoignent de la manière dont les secours les avaient impunément abandonnés en pleine mer. En novembre 2022, Le Monde a révélé la teneur des échanges – insoutenables – entre les naufragé·es et le CROSS. Les naufragé·es ont été traité·es avec cynisme et les lois internationales qui régissent le sauvetage en mer ont été bafouées. Quelques semaines après le naufrage, l’association Utopia 56 a déposé plainte aux côtés de membres des familles de personnes décédées, contre les autorités françaises pour « homicide involontaire » et « omission de porter secours ». Les neuf militaires du CROSS Gris-Nez et d’un patrouilleur français auditionnés dans le cadre de cette enquête judiciaire, ont assumé toutes les décisions prises lors de cette terrible nuit, mais n’estiment pas avoir commis de faute. Alors que le gouvernement français avait promis une enquête interne, suite aux révélations du journal Le Monde, celle-ci n’a jamais eu lieu. Les prévenus bénéficient au contraire du soutien de leur hiérarchie, laquelle a tenté d’interférer dans l’enquête judiciaire comme le révèlent des écoutes téléphoniques. Une enquête pour violation du secret de l’instruction est ouverte.

    Un rapport publié ce mois-ci par le Ministère des Transports britannique a identifié les défaillances qui ont empêché les garde-côtes britanniques de secourir l’embarcation cette nuit-là : mauvaise visibilité, absence de surveillance aérienne et manque de personnel dans la salle de contrôle de Douvres pour traiter les appels d’urgences… L’équipe juridique représentant l’une des familles de la victime a qualifié les événements de “chaos général”. Le gouvernement britannique a également annoncé l’ouverture d’une enquête indépendante sur le naufrage, après la publication du rapport. Toutefois, le rapport n’explique pas pourquoi plus de 30 personnes ont été laissées en détresse pendant 12 heures, alors que les garde-côtes ont secouru d’autres bateaux cette nuit-là, ni pourquoi les personnes exilées n’ont d’autre choix que de risquer leur vie en mer, alors que toutes les autres routes sûres vers le Royaume-Uni leur sont interdites.

    Encore et encore, les autorités politiques et militaires réfutent la responsabilité qui leur incombe dans ce naufrage et s’efforcent d’étouffer l’affaire.

    Depuis 1999, au moins 385 personnes sont décédées en tentant de rejoindre le Royaume-Uni. Mortes percutées par un véhicule sur l’autoroute, électrocutées par un caténaire sur le site Eurotunnel, asphyxiées dans la remorque d’un poids-lourd dans l’Essex en Angleterre, mortes par suicide, noyées dans le canal en tentant de se laver, décédées suite aux mauvaises conditions de vie sur les campements, et noyées dans la Manche.

    La fréquence des morts à cette frontière ne fait que s’accélérer ces dernières années. Depuis le 24 novembre 2021, ce ne sont pas moins de 45 nouvelles victimes qui ont été recensées. Les mort·e·s continuent de s’accumuler et rien ne change. Au contraire, les autorités françaises, belges, et britanniques s’entêtent dans leur logique raciste et sécuritaire en créant un environnement toujours plus hostile aux personnes exilées.

    En France, le nouveau projet de loi asile-immmigration annonce un tournant encore plus anti-migrant du gouvernement Macron. Sur le littoral nord, ce mois-ci, des associations ont dénoncé une “situation catastrophique” pour les personnes exilées qui ne bénéficient ni d’une mise à l’abri malgré le froid et la tempête Ciaran, ni d’accès à l’eau ou aux distributions alimentaires – alors que les opérations policières d’expulsion continuent. En Belgique, le gouvernement continue de nier le droit d’accueil aux personnes exilées, laissant familles et enfants à la rue, malgré plusieurs condamnations par la justice. De plus, depuis 2021, la Belgique soutient l’opération Opal Coast de surveillance aérienne de Frontex dont la mission est d’assister les autorités françaises et belges pour détecter et intercepter les personnes exilées qui tentent de traverser la Manche pour rejoindre le Royaume-Uni. Du côté britannique, le gouvernement déploie successivement des mesures de plus en plus répressives contre les personnes exilées, y compris un plan d’expulsion vers le Rwanda jugé illégal par la Cour suprême et l’interdiction de demander l’asile aux personnes arrivant de manière “irrégulière” au Royaume-Uni. Enfin, à l’occasion du dernier sommet franco-britannique du 10 mars 2023, le Royaume-Uni a annoncé le déblocage de 543 millions d’euros (£476 millions) sur 3 ans destinés au déploiement de 500 officiers supplémentaires, à l’achat de nouveaux équipements de surveillance et de drones, d’hélicoptères et d’aéronefs, ainsi qu’à l’ouverture d’un nouveau centre de rétention dans le nord de la France.

    Les autorités françaises, belges, et britanniques ont fait de cette frontière un espace de mort. En refusant d’accueillir les personnes exilées et en militarisant cette frontière, via une surenchère de dispositifs de répression (kilomètres de barrières, barbelés, drones, multiples patrouilles de police, avion Frontex), elles sont responsables politiquement depuis des décennies de chaque mort. Nous savons que la militarisation accrue des frontières n’empêche pas les personnes de voyager, mais rend simplement ces voyages plus dangereux et mortels.

    Nous, associations, collectifs, et militant·e·s belges, britanniques, et français·es, nous soutenons les actions menées par les proches et familles des victimes devant les tribunaux afin que la vérité éclate sur le déroulement exact de cette nuit meurtrière et que justice soit faite.

    De Dunkerque à Folkestone et de Londres à Zeebrugge, nous réclamons un changement urgent et radical quant aux politiques menées à cette frontière, ainsi qu’aux autres frontières européennes, afin que les droits des personnes en migration soient pleinement respectés et que les valeurs et principes de l’accueil et de la libre circulation remplacent la logique raciste de violences mortifères aux frontières. Nous sommes solidaires de toutes les personnes exilées. Elles ne devraient pas être confrontées au traumatisme supplémentaire de frontières militarisées et violentes lorsqu’elles cherchent la sécurité en Belgique, en France ou au Royaume-Uni.

    Tant que les gouvernements belge, britannique, et français continueront à coordonner des violences simultanées à la frontière commune et tant que les gens auront le besoin et le désir de traverser les frontières, notre solidarité et notre travail devront continuer à aller au-delà des frontières. Nous continuerons notre travail commun en solidarité avec les personnes exilées, pour le respect de leurs droits – à commencer par leur droit à la vie – et pour que justice soit rendue lorsque ces droits sont bafoués.

    Signatories / signataires:

    African Rainbow Family, United Kingdom

    After Exploitation, United Kingdom

    Alice Thiery, New Calledonia

    All African Women’s Group, London, England

    Amira Elwakil, United Kingdom

    ARACEM, Mali

    BARAC UK, United Kingdom

    Big Leaf Foundation, United Kingdom

    Birmingham City of Sanctuary, United Kingdom

    Birmingham Community Hosting Network (BIRCH), United Kingdom

    Birmingham Schools of Sanctuary, United Kingdom

    Calais Food Collective, France

    Cambridge Convoy Refugee Action Group, United Kingdom

    Camille Louis, France et Grèce

    Captain Support UK, United Kingdom

    Care4Calais, United Kingdom

    Charles Stone, Oxford, England

    Chenu Elisabeth, France

    Choose Love, United Kingdom

    CIRÉ, Belgium

    CNCD-11.11.11, Belgium

    Damien CAREME, France

    Drag Down the Borders, United Kingdom

    Eleanor Glynn, United Kingdom

    Fabienne Augié, France

    Focus on Labour Exploitation (FLEX), United Kingdom

    Freedom from Torture, United Kingdom

    GISTI (Groupe d’information et de soutien des immigré⋅es), France

    Giulia Teufel, Scotland

    Global Women Against Deportations, London, England

    Greater Manchester Immigration Aid Unit (GMIAU), United Kingdom

    Groupe montois de soutien aux sans-papiers, Mons, Belgium

    Haringey Welcome, United Kingdom

    Here for Good, United Kingdom

    Human Rights Observers (HRO), Calais and Grande-Synthe, France

    Humans for Rights Network, United Kingdom

    Inclusive Mosque Initiative, United Kingdom

    Institute of Race Relations, United Kingdon

    Joint Council for the Welfare of Immigrants (JCWI), United Kingdom

    Julie HUOU, Nîmes, France

    Kent Refugee Action Network (KRAN), Kent, United Kingdom

    Kevin Guilbert, Ham en Artois, France

    L’Auberge des Migrants, France

    La Cimade, France

    La Resistencia, United States

    Latin American Women’s Rights Service (LAWRS), United Kingdom

    Legal Action for Women, London, England

    Loraine Masiya Mponela, England

    Louis Fernier, Poitiers, France

    Lu ndu, United Kingdom

    Lucian Dee, London, United Kingdom

    Manchester Migrant Solidarity Manchester, United Kingdom

    Maria Hagan, France

    Medact, United Kingdom

    Médecins du Monde France / Programme nord littoral, France

    Merseyside Solidarity Knows No Borders, United Kingdom

    Migrant Voice, United Kingdom

    Migrants in Culture, United Kingdom

    Migrants Organise, United Kingdom

    Migrants’ Rights Network, United Kingdom

    Migrations Libres, Belgium

    Migreurop, réseau euro-africain

    Morgan Guthrie, United Kingdom

    MRAP-littoral dunkerquois, Dunkerque, France

    NANSEN, the Belgian Refugee Council, Belgium

    Ouvre Porte, France

    Oxford Against Immigration Detention, Oxford, United Kingdom

    Patricia Thiery, France

    Payday men’s network, United Kingdom and United States

    Plateforme Citoyenne de Soutien aux Réfugiés – Belrefugees, Belgium

    Play for Progress, London, United Kingdom

    Project Play, France

    Rainbow Migration, United Kingdom

    Reclaim The Sea, United Kingdom

    RefuAid, London, United Kingdom

    Refugee Action, United Kingdom

    Refugee Legal Support, London and Calais

    Refugee Support Group, Berkshire, United Kingdom

    Refugee Women’s Centre, France

    Remember & Resist, United Kingdom

    Right to Remain, UK

    Safe Passage International, United Kingdom

    Safe Passage International, France

    Social Workers Without Borders, United Kingdom

    Stand For All, United Kingdom

    Stories of Hope and Home, United Kingdom

    Student Action for Refugees (STAR), United Kingdom

    Terre d’errance Norrent-Fontes, France

    The October Club, Oxford, United Kingdom

    The Pickwell Foundation, Devon, United Kingdom

    The Refugee Buddy Project Hastings Rother & Wealden, East Sussex, UK

    The Runnymede Trust, United Kingdom

    Tina Pho, United Kingdom

    Toby Murray, London, United Kingdom

    Tugba Basaran, Cambridge, United Kingdom

    Utopia 56, France

    Valérie Osouf, France

    Vents Contraires, France

    VVIDY (Voice of Voiceless Immigration Detainees-Yorkshire), United Kingdom

    Welsh Refugee Council, Wales

    Young Roots London, United Kingdom

    https://irr.org.uk/article/joint-declaration-commemoration-of-the-24-november-2021-shipwreck

    #commémoration #asile #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #mémoire #naufrage #24_novembre_2021

    • Le #Cross_Border_Forum : espace transfrontalier d’échange et de lutte pour la #justice_migratoire

      Ce 24 novembre 2023 marque le deuxième anniversaire du plus important naufrage de personnes migrantes dans la Manche. Ce drame et d’autres précédemment, sont le résultat d’une approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques. Face à cette situation devenue structurelle, s’est constitué un réseau d’associations et de militants britanniques, français et belges : le Cross Border Forum.
      Présentation de ce forum dont le CNCD-11.11.11 est membre et de sa déclaration engagée en mémoire des victimes des violences aux frontières.

      Ce 24 novembre 2023 marque le deuxième anniversaire du plus important naufrage de personnes migrantes dans la Manche, qui s’est déroulé en 2021. Ce drame a causé la mort de 27 personnes exilées, femmes, hommes et enfants, originaires majoritairement du Kurdistan irakien, mais aussi d’Afghanistan, d’Éthiopie, d’Iran, d’Égypte, de Somalie et du Vietnam. Outre l’absence de secours malgré les appels répétés des naufragés

      , les raisons de ce drame et d’autres précédemment, sont le résultat d’une approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques. Celles-ci contraignent, non seulement les personnes exilées désireuses de se rendre aux Royaume-Uni à emprunter des voies périlleuses irrégulières faute de possibilités légales de migrations mais aussi à séjourner dans l’irrégularité faute d’accueil. Face à cette situation révoltante devenue structurelle, s’est constitué un réseau d’associations et de militants britanniques, français et belges : le Cross Border Forum. Présentation de ce forum dont le CNCD-11.11.11 est membre.
      Mobilité entravée et encampement à la frontière belgo-franco-britannique

      Les migrations internationales du sol européen vers le Royaume-Uni sont anciennes et multiples. Cependant, ces dernières décennies, à la suite du renforcement de l’approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques, les seules voies possibles de mobilité entre le continent et l’île sont, pour la plupart des personnes exilées, devenues irrégulières, au fur et à mesure que se fermaient les vois légales de migration. Effectuées par route (via le tunnel) et par mer, nécessitant souvent l’intermédiaire de passeurs, ces déplacements sont de plus en plus chers, dangereux et meurtriers. Depuis 1999, selon le Mémorial de Calais, au moins 385 personnes sont décédées en tentant de rejoindre le Royaume-Uni. Mortes percutées par un véhicule sur l’autoroute, électrocutées par un caténaire sur le site Eurotunnel, asphyxiées dans la remorque d’un poids-lourd dans l’Essex en Angleterre, noyées dans la Manche, mortes par suicide et décédées à la suite des mauvaises conditions de vie dans les camps.

      En 2022, la presse belge (RTBF) estime que près de 80.000 personnes ont tenté de passer au Royaume-Uni depuis l’Europe continentale
      . Ces déplacements se font principalement au départ de la France mais également depuis la Belgique. Néanmoins comme le signale Myria dans son rapport de 2020 intitulé La Belgique, une étape vers le Royaume-Uni : « Au vu du manque de chiffres fiables et représentatifs, il est impossible d’évaluer le nombre de migrants en transit présents (en moyenne) en Belgique. Très peu d’informations représentatives sur les caractéristiques démographiques des migrants en transit sont également disponibles

       ».

      En Belgique et en France, en amont de la traversée, de nombreux camps informels se créent et sont aussitôt démantelés par les autorités. Ils sont situés à proximité des plages de la mer du Nord et du tunnel sous la Manche. Le plus médiatisé est sans doute celui de la « jungle de Calais » . Ces zones d’attente et de transit sont localisées également dans les bois, le long des autoroutes et non loin des parkings de camions poids lourds dont la destination est l’Angleterre. Les conditions de vie dans ces camps sont inhumaines car insalubres et insécurisantes, spécialement pour les femmes et les enfants. La survie de leurs occupants est entre autres rendue possible par l’action solidaire de citoyens et associations leur permettant d’avoir un accès modeste à de la nourriture, de l’eau, des vêtements, de l’électricité et des conseils juridiques. Ces camps d’infortune sont régulièrement démantelés

      par les Etats sans aucune réelle proposition de mise à l’abri et d’hébergement durable. Les personnes migrantes y sont régulièrement contrôlées, persécutées et chassées de façon violente par les autorités sous prétexte d’insécurité, de lutte contre le trafic d’êtres humains et d’appel d’air. La criminalisation de ces personnes et de leur soutient solidaire fait partie intégrante de la stratégie répressive et dissuasive voulues par les Etats européens.
      Brexit, pacte européen et externalisation des questions migratoires

      A la différence de plusieurs traités, protocoles et accords franco-britanniques
      relatifs à la gestion de l’accueil

      et du contrôle des frontières, la Belgique n’a pas signé d’accords bilatéraux formels avec le Royaume-Uni. Cependant, elle entretient des relations diplomatiques cordiales et signe des déclarations communes avec lui, les Pays-Bas, l’Allemagne et la France au sujet du contrôle de leurs frontières communes. Depuis 2021, la Belgique soutient l’opération Opal Coast de surveillance aérienne de Frontex dont la mission est d’assister les autorités françaises et belges pour détecter et intercepter les personnes exilées qui tentent de traverser la Manche pour rejoindre le Royaume-Uni. A l’occasion du dernier sommet franco-britannique en mars 2023, le Royaume-Uni a annoncé le déblocage 543 millions d’euros sur 3 ans destinés à l’achat de nouveaux équipements de surveillance et de drones, d’hélicoptères et d’aéronefs, ainsi qu’à l’ouverture d’un nouveau centre de rétention dans le nord de la France. Rappelons qu’en collaborant avec le Royaume-Uni pour empêcher des personnes présentes sur leur territoire de rejoindre ce dernier, la France et la Belgique contreviennent à l’article 13 de la Déclaration universelle des droits de l’homme qui stipule : « Toute personne a le droit de quitter tout pays, y compris le sien. »

      Depuis le Brexit en 2018, les mesures liées aux politiques migratoires prises par un Etat membre européen avec le Royaume-Uni peuvent être considérées comme faisant partie de la stratégie d’externalisation des questions migratoires ; cela à l’image des accords entre les États européens avec des pays tiers. Le contesté pacte européen sur la migration et l’asile, qui pourrait être adopté durant la présidence belge de l’UE en 2024, a également pour axe stratégique prioritaire l’externalisation. Le Royaume-Uni n’est pas en reste. Le gouvernement actuel tente de faire passer une loi qui permettrait d’expulser au Rwanda toute personne arrivée sur le sol britannique par voie irrégulière. Ce 15 novembre, le projet a été recalé par la Cour suprême britannique, car il a été jugé illégal. Le Rwanda ne peut en effet être considéré comme un pays tiers sûr. D’autres projets ont vu également le jour sur l’île, tels l’accueil des demandeurs d’asile sur des barges flottantes et une machine à vagues ayant pour effet recherché de dissuader, refouler et donc de ne pas accueillir les personnes exilées.
      Le Cross Border Forum, ensemble, pour et avec les personnes exilées

      Le contexte des migrations et de l’accès à l’asile lié à la frontière du Royaume-Uni avec la France et la Belgique crée une situation intenable pour les personnes migrantes qui transitent par la région frontalière et, par extension, pour les organisations de soutient qui travaillent avec elles. Apporter des réponses aux défis et aux enjeux des migrations transfrontalières implique une bonne connaissance et une bonne compréhension des dynamiques et changements de politique dans les pays respectifs. L’importance d’une collaboration entre les acteurs de la société civile est souvent soulignée aux niveaux national et local, mais une collaboration entre acteurs travaillant des différents côtés de la frontière l’est tout autant. L’expérience vécue de la frontière commune et l’expertise des politiques de migrations des personnes premières concernées par les questions transfrontalières est aussi essentielle. Alors que les gouvernements des deux côtés de la Manche s’engagent dans des négociations multilatérales, la coopération entre la société civile internationale est plus que nécessaire. Cela aura pour conséquence de renforcer l’impact potentiel des efforts respectifs.

      Il existe peu d’espaces permettant d’échanger rapidement et facilement des informations et analyses, afin de répondre à court et à long termes à la situation dans l’un des trois pays. Le Cross Border Forum (CBF) est né de ce besoin. Fin 2020, il a débuté en tant qu’initiative visant à rassembler les acteurs de la société civile des deux côtés de la frontière franco-britannique. Au printemps 2021, des associations belges, dont le CNCD-11.11.11, ont rejoint le Forum

      . En 2022, une coordination basée au Royaume-Uni et hébergée par l’association JCWI a été mise en place pour faire fonctionner durablement le forum. La formalisation du forum (charte d’adhésion des membres, site, financement etc.) sera finalisée d’ici fin 2023.
      Le 24 novembre, date de commémoraction pour mettre fin aux morts aux frontières

      Ce 24 novembre 2023, le CBF publie une déclaration commune [à télécharger ci-dessous] qui rappelle : « De Dunkerque à Folkestone et de Londres à Zeebrugge, nous réclamons un changement urgent et radical quant aux politiques menées à cette frontière, ainsi qu’aux autres frontières européennes, afin que les droits des personnes en migration soient pleinement respectés et que les valeurs et principes de l’accueil et de la libre circulation remplacent la logique raciste de violences mortifères aux frontières. »

      https://twitter.com/CborderForum/status/1721947530798248075

      Au-delà de cette déclaration et de la commémoration annuelle autour de cette date symbolique, le CBF participe depuis deux ans à des rencontres publiques organisées dans les trois pays et organise en plus de ses réunions régulières d’échanges internes, des séances de formations pour ses membres sur la situation transfrontalière. Aujourd’hui, les membres du forum échangent, s’informent et se mobilisent mais certains n’excluent pas, demain, de porter des actions de plaidoyer sur leur frontière commune dans leurs pays respectifs.

      https://www.cncd.be/Le-Cross-Border-Forum-espace

  • #PortesDisparus : au Sénégal, un journaliste rend un nom et un visage à ceux qui sont partis

    Au #Sénégal, alors que chaque semaine les drames de l’émigration clandestine continuent de faire l’actualité, un journaliste, #Ayoba_Faye, a lancé un hashtag « #portés_disparus » pour aider les familles de migrants partis par la mer à avoir des informations sur leur enfant et éviter qu’ils ne tombent dans l’oubli.

    « Ousseynou Ndiaye : disparu depuis 20 jours. Point de départ inconnu », peut-on lire sur le compte X du journaliste sénégalais Ayoba Faye. Depuis une semaine, le rédacteur en chef du média en ligne PressAfrik a listé une dizaine de noms déjà de Sénégalais portés disparus après avoir tenté la traversée par la mer vers l’Espagne.

    https://twitter.com/autruicomoi/status/1727428904036762101

    Une démarche entreprise après que de nombreuses familles l’ont contacté, nous explique Ayoba Faye. « Les parents qui entrent en contact avec moi sont dans le désarroi total. Certains sont restés plus d’un mois sans avoir de nouvelles de leurs enfants. Ils n’ont aucune structure étatique vers qui se tourner. C’est alors que j’ai décidé d’utiliser le peu d’influence que j’ai sur les réseaux sociaux pour aider à mettre un visage sur chaque porté disparu parmi les centaines, voire les milliers, depuis le début des vagues migratoires de cette année 2023. Ce n’étaient pas des personnes anonymes ces jeunes qui ont disparu en mer, ils avaient une vie, ils avaient des rêves, ils avaient une histoire, qui méritent d’être connus. »

    https://twitter.com/autruicomoi/status/1725276632338801028

    À chaque nom listé par le journaliste est associée une photo. Avec ses 34 000 followers, Ayoba Faye espère ainsi aider à retrouver des personnes potentiellement décédées lors de cette traversée extrêmement dangereuse. Une façon aussi de les sortir de l’anonymat et de l’oubli alors que plusieurs acteurs de la société civile sénégalaise demandent l’instauration d’une journée de deuil national pour les migrants.

    https://www.rfi.fr/fr/afrique/20231124-portesdisparus-au-s%C3%A9n%C3%A9gal-un-journaliste-rend-un-nom-et-un-vi

    #hashtag #celleux_qui_restent #asile #migrations #missing #réfugiés #frontières #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontière #recherche

  • Aux frontières de la forteresse européenne

    Les arrivées de personnes exilées sont régulières en Europe, notamment par voie maritime. Pour toute réponse, les pays de l’Union européenne barricadent toujours plus leurs frontières avec des murs, des patrouilles constantes, des constructions de camps fermés. La journaliste #Elisa_Perrigueur en tient le récit en peintures.

    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/aux-frontieres-de-la-forteresse-europeenne
    http://perrigueur.eu/elisaperrigueur/dessins
    #dessin #frontières #peinture #art_et_politique #migrations #asile #réfugiés

    ping @isskein

  • Un anno di osservazione sul CPR di Via Corelli, Milano

    Il report-denuncia di Naga e Rete Mai più Lager - No ai CPR

    «Al di là di quella porta. Un anno di osservazione dal buco della serratura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano» è il titolo del report 1 realizzato dall’associazione Naga e della Rete Mai Più Lager – No ai CPR (di qui in avanti “Rete”).

    Il risultato di un monitoraggio multi livello 2 durato un anno che tuttavia, lascia l’impressione di aver giusto sbirciato “dal buco della serratura” di quel CPR.

    La diversità di fonti e metodi riflette infatti la difficoltà che si riscontra quando si vuole rompere il muro di oscurità che avvolge via Corelli e tutti gli altri centri d’Italia. La maggior parte delle informazioni raccolte sono infatti il frutto delle segnalazioni arrivate al centralino telefonico “SOS CPR Naga” o alle pagine social di Naga e Rete dai cellulari personali dei trattenuti.

    Un monitoraggio che solleva l’angosciante interrogativo su quanto accade negli altri Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) d’Italia.

    Il CPR di Milano infatti è l’unico, insieme a quello di Gradisca d’Isonzo, in cui, grazie a una sentenza sul ricorso ASGI del 20213, i trattenuti possono detenere i propri telefoni cellulari. Questa possibilità, a garanzia del diritto alla libera corrispondenza di fatto negata negli altri CPR, ha plausibilmente l’effetto di limitare gli abusi da parte di forze dell’”ordine” e operatorə del centro, consapevoli inoltre della presenza di associazioni e reti di solidali ben radicate sul territorio.

    Se le atrocità osservate a Milano sono il frutto di un relativo contegno che le autorità si impongono in Via Corelli, qual è invece la realtà quotidiana degli altri CPR, esclusi da un accorto e costante monitoraggio? Il titolo infatti rende perfettamente idea di quanto è nascosto agli occhi quando si cerca di osservare la totalità di una stanza dal piccolo spiraglio della serratura.
    “Accedere al CPR: una lunga storia”

    Naga accede regolarmente alle carceri ordinarie, mentre nei Centri di permanenza per i rimpatri la Prefettura nega l’autorizzazione in modo quasi sistematico e spesso senza neanche fornire una motivazione dettagliata. Eppure la possibilità di accesso è formalmente prevista dalla Direttiva Lamorgese e spesso viene fatta valere solo in seguito a un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale. Non prima, dunque, di spendere tempo, energie e risorse per fare ricorso contro il diniego.

    “La battaglia per visitare il CPR è durata oltre un anno, ha visto impegnati due avvocati e una decina tra attiviste e attivisti. Istanze, memorie, accessi agli atti, un’ordinanza e una sentenza” 4. Tutta questa fatica per due ore di sopralluogo all’interno del centro, in cui la delegazione è stata accompagnata – o, per meglio dire, scortata – lungo tutto il tragitto.
    Gli accessi civici agli atti e i dati quantitativi del report

    Un intero capitolo del dossier è dedicato a dettagliare le richieste di accesso civico generalizzato agli atti 5 che hanno spesso ottenuto dinieghi, risposte glissate, parziali, contraddittorie 6, a volte nessuna risposta affatto. Dalle risposte ottenute il rapporto riesce a ricostruire qualche dato quantitativo.

    In un anno sono state deportate da via Corelli verso il paese d’origine 7 238 persone, ovvero il 44% dei trattenuti (dove la media nazionale si attesta tra il 49 e il 50%).

    “L’82% dei rimpatriati proviene dal nord Africa. Del resto, il 65% dei trattenimenti ha riguardato persone provenienti da Egitto, Marocco e Tunisia. I dati della Prefettura confermano che sono soprattutto tunisini a popolare il CPR.” (Naga, 2023, p.137)

    In assenza di dati ufficiali sui motivi di rilascio diversi dalla deportazione nel paese di origine, Naga e Rete riportano a tal proposito i dati in loro possesso. Dei 24 casi di rilasci ottenuti grazie all’assistenza legale Naga, la maggior parte erano motivati dalle condizioni di salute dei trattenuti.

    Secondo l’ATS (Agenzia di Tutela della Salute), dal 1°marzo 2022 al 28 marzo 2023 sono stati emessi 203 codici STP. (Naga, 2023, p.167).

    A tutti i trattenuti però dovrebbe essere assegnato un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) al momento dell’ingresso. Considerando che il numero di trattenuti per lo stesso periodo è di 544, lo scarto è di ben 341 codici. Sul perché a questi individui non sia stato assegnato alcun codice STP non è dato avere spiegazione.

    Sul numero di trattenuti sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), l’ATS non ha fornito alcuna risposta. La Prefettura sostiene di non avere tale informazione e, anche avendola, non la comunicherebbe in quanto relativa a dati “sensibilissimi”. Invece il Comune di Milano, che sotto la firma del suo Sindaco Giuseppe Sala dispone i TSO, ha riferito che nel periodo di riferimento dell’istanza ci sono stati due TSO sullo stesso cittadino. Risulta poi che questi trattamenti si riferiscono a due distinti periodi di trattenimento in CPR: questo significa, ancora una volta, che nonostante i gravi problemi psichiatrici è stato dichiarato idoneo al trattenimento ed è finito poi per subire un ulteriore TSO.
    La visita d’idoneità

    Una visita medica deve accertare l’idoneità alla vita in comunità ristretta entro le 48h dall’ingresso della persona in un CPR. Secondo la normativa, la visita d’idoneità deve svolgersi all’esterno del Centro e dev’essere obiettiva. Secondo le raccomandazioni del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (di qui in avanti abbreviato “Garante Nazionale”), per essere obiettiva la visita dev’essere svolta da medici del Servizio Sanitario Pubblico in una struttura pubblica.

    Invece, sin dalla sua apertura e con l’eccezione di una sola breve parentesi, le visite di idoneità per l’ingresso nel CPR di Via Corelli sono state svolte sempre dagli stessi due medici. Non si tratta di dipendenti dell’ASL, ma di medici in libera professione vincitori di concorsi che sembrano istituiti ad-hoc per affidare loro le visite d’idoneità. Inoltre, nel primo anno di apertura del centro, questi due medici lavoravano anche privatamente per l’ente gestore dell’epoca, la R.T.I. Luna S.c.s. – Versoprobo S.c.s. (oggi a gestire il Centro di Via Corelli è Martinina S.r.l.) in evidente conflitto d’interesse.

    Alcuni trattenuti riferiscono di non essere mai stati visitati al di fuori del centro o di aver svolto la visita in Questura. Tutti ad ogni modo sono stati visitati in presenza di agenti di polizia e le visite consistono nella compilazione di un modulo a crocette, nella somministrazione di un test COVID, nella dichiarazione di assenza di sintomi da Tubercolosi, ma senza disponibilità di strumenti diagnostici né la previsione di esami di approfondimento. Dunque si è idonei solo se si è ritenuti approssimativamente e a vista d’occhio “sani”.

    “Nel periodo tra maggio 2022 e marzo 2023 sono pervenute al centralino SOS CPR del Naga diverse segnalazioni di problematiche sanitarie che potrebbero porre qualche dubbio sulle idoneità rilasciate. Ricordiamo almeno 4 casi di trattenuti affetti da epilessia, 8 con gravi problemi psichiatrici e psicologici, diverse decine di persone che praticavano autolesionismo, 9 portatori di malattie croniche, gravi o comunque difficilmente compatibili con le modalità di trattenimento (sempre che queste si possano considerare compatibili con qualsiasi essere umano)” – Naga, 2023 (p. 84)
    “Il battesimo d’ingresso”

    Una volta all’interno del CPR, i trattenuti sono sottoposti a una seconda “visita”, quella di presa in carico 8. I neo arrivati vengono portati in infermeria, denudati integralmente di fronte a medici e, anche qui, ad agenti di polizia e obbligati a fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano.

    “Un trattamento umiliante dalla dubbia utilità pratica, stigmatizzato in infinite occasioni dai tribunali perché riservato, per legge, ai soggetti più pericolosi solo in caso di estrema necessità. Questo trattamento viene risparmiato solo ai soggetti provenienti direttamente dal carcere, quindi “puliti” in ragione della loro provenienza. A volte neanche a loro.” – Naga, 2023 (p.26)

    Al termine di questa visita viene refertata una scheda medica di ingresso, senza data e con la sezione “anamnesi” quasi sempre barrata. Nessun accertamento dettagliato sulla salute psichica dei trattenuti, seppur previsto dall’offerta tecnica con la quale Martinina S.r.l. vince l’appalto.

    Finita questa umiliante prassi di sottomissione, i trattenuti vengono spogliati anche della loro stessa umanità e identità personale. Viene loro consegnato un cartellino identificativo con un codice numerico progressivo (arrivato il 28 luglio 2023 al numero 1566) che di lì in avanti sostituirà il loro nome nelle interazioni con il personale all’interno del centro.

    Uno spettro agghiacciante dei metodi nazisti, in cui la deumanizzazione degli internati era funzionale al loro soggiogamento e all’annientamento di ogni guizzo di resistenza attiva alle ingiustizie e violenze subite.
    La vita nei blocchi: squallore e “zombizzazione”

    Secondo il monitoraggio di Naga e Rete, nel CPR di Via Corelli risultano agibili solo due moduli abitativi – spesso definiti “blocchi” dai trattenuti – ciascuno per 28 persone.

    “Per ogni trattenuto il gestore percepisce, come da appalto, un compenso di 40,16 euro al giorno. A loro disposizione un “kit di ingresso” (per il quale il gestore percepisce un compenso a parte) miserrimo e un cambio di vestiti (biancheria intima compresa) già usati da altri, che nella maggioranza dei casi vengono rifiutati.” – Naga, 2023 (p. 26)

    Le squallide condizioni di vita all’interno dei CPR sono ormai largamente documentate. Le pagine social della Rete pubblicano quasi quotidianamente foto e video inviati dai trattenuti raffiguranti locali non idonei, sporcizia, degrado, sangue, violenze e sofferenza diffusa.

    Uno scenario post-apocalittico all’interno del quale gli avvocati e le avvocate Naga raccontano di una veloce degenerazione psicofisica dei loro clienti, che colloquio dopo colloquio, vedono progressivamente diventare come zombie.

    “Giovani sani e forti si trasformano in poche settimane in zombie scoloriti e disorientati dagli psicofarmaci, drogati di e per disperazione, o più semplicemente per mantenere l’ordine all’interno del centro senza alcun dispendio di forze, energie e personale: sedandoli” – Naga, 2023 (p.28)
    Mai più distante dalla realtà: il capitolato d’appalto di Martinina S.r.l. tra servizi non erogati e protocolli falsi

    Nel CPR di Milano, come negli altri CPR d’Italia, i trattenuti non hanno la possibilità di svolgere alcuna attività ricreativa. Eppure Martinina S.r.l. avrebbe ottenuto in gestione via Corelli – con un appalto di 1,2 milioni di euro! – sulla base delle “proposte migliorative” dell’offerta tecnica.

    Il rapporto di Naga e Rete documenta dettagliatamente come quanto formalmente previsto dal capitolato non corrisponde a un servizio effettivo e/o di qualità 9. Ma ancor più grave è quanto emerso dalla recente inchiesta di Luca Rondi e Lorenzo Figoni per Altraeconomia: «Inchiesta sul gestore del Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati».

    Interpellando le associazioni e Ong iscritte negli accordi che Martinina S.r.l. ha presentato in gara d’appalto hanno scoperto che questi protocolli d’intesa sono falsi. Altri ancora sono siglati con soggetti che non risultano da nessuna parte online, di cui di fatto non è possibile verificare la veridicità. Un accordo è addirittura firmato dal solo ente gestore, Martinina S.r.l. Tra questi le società che dovrebbero provvedere alla realizzazioni di attività ricreative e migliorative del tempo trascorso dai trattenuti all’interno del Centro.

    i trattenuti nei CPR non hanno nemmeno la possibilità di tenersi carta e penna. La giustificazione? La prima perché infiammabile e la seconda perché passibile di uso improprio. Il divieto di circolazione di carta tra i detenuti però inficia gravemente anche sul loro diritto all’informazione legale e di reclamo diretto al Garante Nazionale.

    Secondo l’offerta tecnica, Martinina S.r.l. fornisce consulenti legali interni che dovrebbero consegnare una “carta dei diritti dei trattenuti”, che però non può circolare nel CPR perché, appunto, di carta. Senza carta e penna é inoltre inverosimile che i trattenuti possano scrivere reclami diretti al Garante Nazionale. In occasione dell’accesso fisico la delegazione Naga ha potuto constatare inoltre che il vademecum che dovrebbe informarli sulle modalità di invio riporta informazioni errate: istruiscono per l’invio di reclami al Garante territoriale, che a Milano manca. Esiste un Garante Comunale che tuttavia non segue il CPR di Via Corelli per mancanze di risorse e personale e che consiglia di riferirsi alla Procura della Repubblica o al Garante Nazionale, per cui le modalità d’invio, tuttavia, richiedono procedure differenti. A queste mancanze cercano di sopperire Naga e Rete mandando costanti segnalazioni al Garante. Nel rapporto forniscono qualche dato sulle segnalazioni inviate.

    “Quale difesa?”

    Ai trattenuti viene sistematicamente limitato il diritto alla difesa. La nomina di unə avvocatə di fiducia è condizionata alle risorse economiche disponibili: quando sono scarse o ormai esaurite, non resta che l’avvocatə di ufficio. I detenuti dovrebbero poterne scegliere unə da una lista fornita dall’ente gestore. Questa, in quanto cartacea, non può circolare all’interno del CPR e quindi di fatto l’assegnazione avviene in maniera casuale. Anche quando un detenuto è assistito da unə avvocatə di fiducia, questə viene convocatə in ore serali, tarde o non viene convocatə affatto.

    Lə rappresentante legale spesso non conosce il caso, non ha avuto accesso al fascicolo, non ha nemmeno mai visto o parlato con il trattenuto. Se d’ufficio, poi, il suo incarico si limita a una singola udienza. Le udienze durano in media 6 minuti e sono svolte online: oltre alla pessima connessione internet, l’avvocatə deve decidere se presenziare di fronte al giudice o collegarsi online con la persona assistita, con ulteriori gravi implicazioni sulla qualità della difesa.

    L’impedimento al diritto di difesa viene esercitato anche in occasione dei colloqui individuali. A differenza del carcere ordinario, nei CPR questi avvengono alla presenza degli agenti di polizia. Il rapporto riporta un episodio particolarmente grave del 3 agosto 2023, in cui all’avv. Simona Stefanelli e all’interprete di fiducia che l’accompagnava, é stato inizialmente negato negato l’accesso al CPR, nonostante regolare nomina di incarico per diversi assistiti. È stato poi concesso alla sola avvocata di parlare con un solo assistito e per 30 minuti, dopodiché è stata fatta uscire sul pretesto che ci sarebbero stati altri appuntamenti per i quali doveva essere lasciata libera la stanza. Il direttore avrebbe inoltre sequestrato alcuni documenti dell’assistito impedendole di fatto di preparare un’adeguata difesa.
    L’interprete

    Fino a giugno 2022 l’interprete di fiducia poteva accedere al CPR, previa comunicazione del nominativo all’ente gestore, come anche presenziare alle udienze presso il Giudice di pace. Ora invece serve l’autorizzazione della Prefettura, che oppone dinieghi ostinati e strumentali anche in presenza di professionistə competenti e qualificatə.

    All’interprete che accompagnava l’avv. Stefanelli è stato opposto un diniego perché non aveva presentato documentazione atta a dimostrare la sua qualifica di mediatrice culturale. Quando questa è stata presentata, le si è opposto che la qualifica di per sé non fosse sufficiente, ma doveva dimostrare di svolgere “ordinariamente attività come traduttrice o mediatrice culturale a supporto di studi legali, o comunque in contesti peculiari come quello dei CPR” 10. Nel diniego si aggiungeva inoltre che l’interprete di fiducia risultava superfluo data la presenza di personale di mediazione professionista garantita dall’ente gestore.

    Non solo dal rapporto emerge come l’unico mediatore “professionista” di Martinina S.r.l. mai incontrato abbia candidamente ammesso di essere un autodidatta. In base ai protocolli presentati in gara d’appalto sarebbe Ala Milano Onlus a fornire servizi di mediazione linguistico-culturale nel CPR di Milano. Peccato che il suo presidente, intervistato da Luca Rondi e Lorenzo Figoni nell’ambito della già citata inchiesta su Altraeconomia, dichiara di non aver mai siglato quell’accordo.
    Il diritto alla salute e gli “scheletri nell’armadio”

    Il grosso del dossier riguarda i dati medici e parla di un vero e proprio ostruzionismo da parte di Prefettura ed ente gestore, vinto ancora una volta soltanto in sede di ricorso. L’ostruzionismo viene esercitato su voluti fraintendimenti tra le “cartelle cliniche” e i “diari clinici” dei trattenuti.

    Quando lə avvocatə chiede per iscritto “le cartelle cliniche” dell’assistito, l’ente gestore invia le cartelle cliniche refertate da ospedali qualora si siano verificati dei ricoveri, ma non quello che loro chiamano il “diario clinico”. Quest’ultimo è un fascicolo che l’ente gestore dovrebbe aggiornare lungo tutto il periodo di trattenimento, tra l’altro avvalendosi di un software gestionale online che comunicherebbe alla prefettura ogni aggiornamento su base quotidiana. Questo diario non viene rilasciato, come ricostruisce dettagliatamente il rapporto, neanche quando esplicitamente ordinato da sentenza del giudice su ricorso.

    Non è chiaro poi se questo software gestionale esista davvero: la documentazione ottenuta risulta scritta a mano, spesso in maniera illeggibile; inoltre anche il “registro degli eventi critici”, che da offerta tecnica dovrebbero essere registrati e comunicati informaticamente, è un quaderno da cartoleria ad anelli, “dal quale possono essere agilmente strappati fogli scomodi, non numerati né tanto meno vidimati” – Naga, 2023 (p.147)

    Quando si è riusciti ad ottenere la documentazione sanitaria di alcuni trattenuti sono emersi dei veri e propri “scheletri nell’armadio”. Ne è un esempio la storia di J.M., dettagliata nel rapporto.

    Lamentando gravi mal di testa, J.M. viene visitato in ospedale perché non era disponibile un medico nel centro; il suo referto medico viene sequestrato al rientro nel centro e il suo compagno di stanza chiama il centralino del Naga perché lo vede fortemente turbato. Lə attivistə di Naga e Rete riescono a risalire all’Ospedale dov’era stato ricoverato e scoprono che una TAC aveva rilevato una neoplasia cerebrale. Viene invece dimesso con diagnosi di crisi da verosimile astinenza da cocaina e riportato nel CPR come se nulla fosse. Il legale fa allora richiesta ufficiale della sua cartella clinica e soltanto allora J.M. viene rilasciato dal centro: più precisamente, viene abbandonato in mezzo alla strada, nonostante non fosse nemmeno in grado di camminare, e senza ricevere la sua cartella clinica.
    La non-assistenza psico-sociale in Via Corelli

    L’offerta tecnica di Martinina S.r.l prevede personale e locali adibiti ai colloqui psicologici, che però si svolgono in presenza degli agenti di polizia, in totale violazione della privacy necessaria. Nell’accesso fisico alla struttura, la delegazione Naga ha constatato che a tale servizio sarebbero incaricate due persone, di cui una si è presentata come coordinatrice del servizio. Interrogata su tecniche e modalità impiegate nel suo lavoro dimostrava gravi mancanze e ammetteva di non affiancarsi di personale di mediazione linguistico-culturale.

    Il suo nome é stato poi nominato da svariati trattenuti, che però la identificavano come l’operatrice che si occupa dei cartellini identificativi con il numero progressivo. Lə avvocatə che collaborano con Naga riportano inoltre che sarebbe sempre lei a rispondere alle email di nomina di legali di fiducia. Mansioni che non sembrano c’entrare nulla con l’incarico di psicologa.

    In assenza di un supporto psicologico adeguato la prassi è una diffusa somministrazione di psicofarmaci a fini sedativi 11, così che le condizioni psicofisiche dei trattenuti deteriorano progressivamente e velocemente. Uno non-luogo di abbandono e brutalizzazione costante.
    La storia di H.B.

    Nessuna legge vieta un ulteriore periodo di detenzione, rendendone i “termini massimi” stabiliti per legge meno effettivi. Dalle testimonianze delle persone che si sono rivolte al centralino “SOS CPR Naga”, è evidente poi che il trattenimento viene imposto e reiterato anche quando la deportazione non è attuabile, in completa violazione del Testo Unico Immigrazione 12. Inoltre, spesso vengono trasferite da un CPR a un altro in ottica punitiva e strumentale.

    Tutte queste dimensioni discriminanti possono verificarsi per una stessa persona con effetti devastanti, come esemplificato nella storia di H.B., dettagliata nel report di Naga e Rete.

    H.B. non è registrato all’anagrafe del paese di origine e dunque, poiché quest’ultimo non lo riconosce come proprio cittadino, non è deportabile. Per questo stesso motivo era stato rilasciato dal suo primo trattenimento nel CPT di Bologna, salvo poi venir messo dentro a Via Corelli a Milano. Da qui, salito sul tetto in atto di protesta contro la convocazione di un avvocato sconosciuto per la sua udienza 13, viene trasferito per punizione al CPR di Ponte Galeria a Roma, ma solo dopo due episodi di violenza da parte di almeno 6 agenti di polizia, che gli causano una ferita aperta in testa, perdite di sangue e siero da orecchie e bocca, vista offuscata e torsione del braccio.

    Perché a Ponte Galeria? Per recidere i suoi rapporti e contatti con lə attivistə di Milano, non potendo nel CPR di Roma tenere il suo cellulare personale. Invece lə avvocatə NAGA hanno continuato a seguirlo, e l’hanno poi fatto rilasciare da Ponte Galeria, proprio perché le gravi lesioni inflittegli in Via Corelli lo rendevano evidentemente inidoneo al trattenimento in CPR 14.

    Anche nel caso di H.B. il rilascio ha equivalso a un abbandono in mezzo alla strada. Lə attivistə NAGA perdono le sue tracce per un certo periodo e lo ritrovano nuovamente rinchiuso, questa volta al CPR di Gradisca d’Isonzo. Non sapendo che fare, era tornato a Bologna dove si era presentato in Questura per domandare protezione internazionale in ragione della sua apolidia. Qui non solo gli viene negato l’accesso alla domanda 15, ma nuovamente lo rinchiudono nel Centro nonostante l’ingessatura al braccio per la quale doveva risultare inidoneo. Nuovamente lə avvocatə NAGA ottengono il suo rilascio, questa volta sulla base del comprovato tentativo di domandare la protezione internazionale e presentano una denuncia per tortura, lesioni, omissione di soccorso e falso nei confronti di agenti, direttore e medico del CPR di Milano e Roma, di cui seguiamo con ansia gli esiti.
    Pratiche di deportazione, morti di Stato e morti invisibili

    Sulla base delle testimonianze di ex-trattenuti deportati e dell’ultima relazione del Garante Nazionale 16, le modalità di esecuzione delle deportazioni implicano regolarmente l’uso della violenza e dell’inganno.

    Le forze di polizia fanno irruzione nella stanza di notte, mentre tutti dormono; immobilizzano e prelevano di forza il deportando, se serve lo sedano contro la sua volontà o a sua insaputa. In alternativa usano la “trappola dell’infermeria” 17, la bugia del trasferimento in un altro centro, o ancora si fa loro credere che verranno portati dal console a cui in ultimo spetta la decisione, quando invece tutto è ormai definitivo.

    Lo stesso Garante Nazionale evidenzia gli abusi della forza da parte degli agenti, in media tre per ogni deportato: a prescindere dall’eventuale resistenza opposta dai deportandi, questi vengono immobilizzati con fascette di velcro o altri dispositivi “con modalità considerate eccezionali anche nell’ambito del regime penitenziario con il rischio di incidere fortemente sulla dignità delle persone straniere” (…) “In talune occasioni i monitor hanno constatato che i dispositivi non sono stati levati nemmeno per consentire la consumazione del pasto e durante la fruizione dei servizi igienici” 18.

    Di questo sistema di violenza e razzismo istituzionale, amministrativa e fisica le persone ci muoiono: nascosti negli impenetrabili CPR o lontano dagli occhi e dai confini territoriali.

    Naga ha domandato al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, che fa capo al Ministero dell’Interno, quante morti fossero avventue nei CPR d’Italia negli ultimi 5 anni: sono 14, età media di 33 anni.

    Vittime immolate in nome del culto dei confini, del razzismo, del profitto senza scrupoli che riduce le persone in corpi senza storia e senza identità, solo numeri.

    Numeri a cui Naga cerca di dare un nome, che qui riportiamo per rispetto della loro dignità, confidando che ci legge non ce ne vorrà se anche il resoconto del rapporto risulta molto lungo.

    • Donna – 46 anni – Ucraina – CPR di Ponte Galeria (Roma) il 13 novembre 2018. Di lei il Naga e la Rete Mai più Lager – No ai CPR non sanno nulla, nemmeno il suo nome.

    • Harry – 20 anni – Nigeria – CPR di Brindisi Restinco – 2 giugno 2019

    • Hossain Faisal – 31 anni – Bangladesh – CPR di Torino – 8 luglio 2019

    • Ayman Mekni – 33 anni – Tunisia – CPR di Pian del Lago – Caltanissetta – 12 gennaio 2020

    • Vakthange Enukidze – 39 anni – Georgia – CPR di Gradisca d’Isonzo – gennaio 2020

    • Orgest Turia – 29 anni – Albania – CPR di Gradisca d’Isonzo – 14 luglio 2020

    • Moussa Balde – 23 anni – Nuova Guinea – CPR di Torino – maggio 2021

    • Wissem Abdel Latif – 26 anni – Tunisia – CPR di Ponte Galeria – 28 novembre 2021

    • Ezzedine Anani – 41 anni – Marocco – CPR di Gradisca di Isonzo – 6 dicembre 2021

    • Uomo: – 36 anni – Nigeria – CPR di Brindisi Restinco – 4 agosto 2022.

    • Uomo – 34 anni – Bangladesh – CPR di Ponte Galeria – 22 agosto 2022.

    • Arshad Jahangir – 28 anni – Pakistan- CPR di Gradisca d’Isonzo – 31 agosto 2022

    • Uomo – 44 anni – Nigeria – CPR di Palazzo San Gervasio – 7 ottobre 2022.

    • Nome non trapelato – 38 anni – Marocco – CPR di Brindisi Restinco – 19 dicembre 2022 (Naga, 2023, pp.175-176)

    Di questi 14 morti di stato, 5 rimangono senza nome. Morti invisibili, o meglio invisibilizzate. Le loro morti come anche le loro vite: costrette, negate, taciute. Così nella depredazione dell’Occidente a danno dei paesi resi a basso reddito, ma in realtà di estremo valore estrattivo e umano; così nel Mar Mediterraneo, ormai stabilmente rotta migratoria più mortale sul pianeta; così anche sul territorio italiano, nei campi di sfruttamento, nelle carceri, nei CPR. E di quanti morti ancora non è dato sapere, una volta che queste persone vengono espulse e allontanate dagli occhi e dalla nostra coscienza.

    Vite di cui Naga, come le altre realtà sul territorio italiano, cercano di ricostruire l’identità, per rispetto, per dignità, ma anche per offrire un’occasione a eventuali familiari delle vittime di reclamare giustizia – se davvero così può essere chiamata – sistematicamente violata nel sistema CPR d’Italia.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/un-anno-di-osservazione-sul-cpr-di-via-corelli-milano

    #détention_administrative #rétention #asile #migrations #réfugiés #Italie #CPR #décès #morts #mourir_en_rétention #via_Corelli #Milan #rapport

    • Firme false e assistenza inesistente per i reclusi: la Procura indaga sul Cpr di Milano

      Il primo dicembre la Guardia di Finanza ha perquisito la struttura per acquisire documentazione. Il reato ipotizzato per l’ente gestore #Martinina è frode in atto pubblico. Un’inchiesta di Altreconomia aveva svelato le “false promesse” della società alla prefettura di Milano

      Servizi di mediazione e assistenza sanitaria “gravemente deficitari”, ausilio psicologico e psichiatrico “largamente insufficiente” e poi cibo “spesso maleodorante, avariato e scaduto”, mancanza di medicinali e informativa legale. Sono queste le basi su cui la Procura di Milano ha dato mandato alla Guardia di Finanza per l’ispezione dei locali del Cpr di via Corelli del primo dicembre. I reati ipotizzati per i rappresentanti della Martinina Srl, la società che si è aggiudicata l’appalto da 1,2 milioni di euro per la gestione del centro nell’ottobre 2022, sarebbero frode nelle pubbliche forniture e turbata libertà degli incanti. Le prime informazioni confermerebbero quanto emerso dalle inchieste di Altreconomia sulle presunte “false promesse” della società alla prefettura e sull’abuso di psicofarmaci.

      Sono due, infatti, i profili al vaglio degli inquirenti. Da un lato c’è la turbativa d’asta legata ai servizi promessi da Martina Srl e mai realizzati. Alessandro Forlenza, gestore del centro e Consiglia Caruso, amministratrice unica della società, avrebbero commesso “frode nell’esecuzione del contratto di appalto” ponendo in essere “espedienti maliziosi e ingannevoli idonei a far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti”. Da un lato quindi i servizi, come detto, “gravemente deficitari” riguardanti mediazione culturale e assistenza sanitaria e informativa legale e poi, in sede di aggiudicazione dell’appalto pubblicato dalla prefettura di Milano, la presenza di protocolli falsi siglati da Consiglia Caruso, all’epoca rappresentante legale della società, con organizzazioni della società civile (ignare) per migliorare l’offerta tecnica al fine di vincere la gara.

      “In concorso con persone non identificate mediante la presentazione documentazione contraffatta e apocrifa turbava la gara d’appalto”, si legge nel decreto con cui il pubblico ministero ha chiesto la possibilità di ispezionare il Corelli. I protocolli, come raccontato anche su Altreconomia, sarebbero dieci in totale. Addirittura due riguarderebbero contratti d’acquisto per distributori di tabacchi e snack. “Servizi mai resi”, sempre secondo l’accusa. Protocolli forniti ovviamente in sede di gara ed esaminati dalla Commissione giudicatrice della prefettura, la quale, nella decisione di assegnare l’appalto alla società domiciliata in provincia di Salerno, sottolineava l’importanza del “valore delle proposte migliorative dell’offerta tecnica”.

      C’è poi il capitolo sanitario. Nell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” avevamo dato conto di un acquisto spropositato di psicofarmaci destinati al Cpr di Milano. Il pubblico ministero scrive di “visite di idoneità alla vita in comunità ristretta assolutamente carenti” con ospiti trattenuti affetti da “epatite, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti, persone con tumori al cervello” a cui si aggiungono servizi di ausilio psichiatrico e psicologico “largamente insufficienti” con colloqui svolti senza i mediatori culturali. “Con le persone trattenute si capiva sulla base del feeling”, avrebbe spiegato la psicologa del centro. Sono state acquisite “copie delle cartelle cliniche e della documentazione sanitaria (attuali e passati)”.

      Martinina Srl ha attualmente altre due sedi attive: una a Palazzo San Gervasio, a Potenza, dove è arrivata seconda nella gara di assegnazione della nuova gestione del Cpr precedentemente dalla Engel, vinto da Officine Solidali nel marzo 2023, un’altra a Taranto, per la gestione del Cas Mondelli che accoglie minori stranieri non accompagnati. L’ultimo bilancio disponibile è del 31 dicembre 2021 con importi ridottissimi: appena 2.327 euro di utili “portati a nuovo”. A quella data ancora non era attivo il Cpr di via Corelli. C’è un terzo soggetto, però, nella “sfera Martinina” con ben altri risultati: si tratta della Engel Family Srl nata nell’ottobre 2020 con in “dotazione” 250mila euro derivanti da Engel Srl. Paola Cianciulli è nuovamente amministratrice e socia unica della società che si occupa di “locazione immobiliare di beni propri o in leasing” che al 31 dicembre 2021 (l’ultimo disponibile) conta un valore della produzione complessivo di poco superiore a 372mila euro.

      Anche l’avvicendamento delle società gestite dall’imprenditore Alessandro Forlenza è rilevante. Lui, nel 2012 fonda la Engel Italia Srl, ex gestore del “Corelli” di Milano e del Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: oggi quella società non esiste più perché il 20 ottobre 2023 è stata definitivamente “inglobata” nella Martinina Srl, a cui inizialmente era stato ceduto il ramo d’azienda che si occupava della detenzione amministrativa. La società è formalmente in mano a Paola Cianciulli, moglie di Forlenza, che è attualmente l’amministratrice unica dopo l’uscita di scena di Consiglia Caruso (la firmataria di tutti i protocolli d’intesa sopra citati), che il 31 agosto 2023 ha ceduto i mille euro di capitale sociale. A lei restano intestate due società con sede a Milano: l’Edil Coranimo Srl, che si occupa di costruzioni, e dal febbraio 2023 l’Allupo Srl che ha sede proprio in via Corelli, nel numero civico successivo al Centro per il rimpatrio. Una dinamica che desta interesse: l’oggetto sociale della Allupo Srl è molto diversificato e oltre alla ristorazione in diverse forme (da asporto o somministrazione diretta) è inclusa anche la possibilità di “gestione di case di riposo per anziani, case famiglia per minori, Cas, Sprar, Cara e Cpr”. Forse nel tentativo di togliere di mezzo il nome di Martinina per altri eventuali bandi.

      In questo quadro c’è poi il problematico ruolo giocato dalla prefettura. In una nota rilanciata da diverse agenzie di stampa, l’ufficio territoriale del Viminale ha fatto sapere che “aveva già avviato un procedimento amministrativo per la contestazione di condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali a seguito di alcune criticità gestionali emerse nei mesi scorsi” che si sarebbe concluso con “l’irrogazione della massima sanzione prevista”. Non è chiaro a quando risalgano queste contestazioni. Ma ci sono alcuni elementi noti. Secondo i dati consultati da Altreconomia il primo settembre 2023, tre mesi fa, quando l’indagine della Procura era presumibilmente già in corso, la stessa prefettura ha bonificato a Martinina 80mila euro come rimborso per la gestione della struttura di marzo 2023, una cifra in linea con quelle riconosciute per i mesi precedenti per un totale di quasi un milione di euro dall’inizio del contratto (943mila euro).

      Il 10 novembre poi, quattro giorni prima dell’uscita della nostra inchiesta su Martinina, la prefettura ha pubblicato tutta la documentazione relativa al contratto aggiudicato da Engel nel 2021, sempre per la gestione del Cpr, da cui emerge che già in quell’offerta alcuni dei protocolli d’intesa sono siglati con le stesse realtà che dichiarano di non aver mai avuto rapporti né con l’ente gestore né con il Cpr. Un eccesso di trasparenza -mai vista quando si tratta di Cpr (per ottenere l’attuale contratto d’appalto è stato necessario un ricorso al Tar da parte dell’associazione Naga)- che nei fatti si è tradotto in un’autodenuncia. “La prefettura ha provveduto a informare ‘immediatamente’ gli uffici della locale Procura sugli esiti della propria attività, ‘trasmettendole’ anche la relativa documentazione e fornendo la propria massima collaborazione”, hanno spiegato da corso Monforte.

      Dai verbali delle ispezioni prefettizie consultati da Altreconomia, però, non emergerebbe una verifica dettagliata di quanto avviene nella struttura. In uno di questi, per esempio, alla domanda “La fornitura degli effetti letterecci avviene regolarmente e secondo le tempistiche e modalità previste dallo Schema di Capitolato vigente?”, il funzionario della prefettura barra “Sì”. Ma nella nota integrativa sottostante, riportata in calce al verbale, si legge che “ai 25 trattenuti non viene richiesto di firmare la consegna/ritiro degli effetti letterecci”. Risultano perciò incomprensibili le basi su cui viene affermata l’effettiva consegna di questi oggetti. La condizione dei reclusi e l’assistenza inesistenti dell’ente gestore non sono certo una notizia di attualità, così come i protocolli falsi, chiusi nei cassetti della prefettura da più di un anno.

      https://altreconomia.it/firme-false-e-assistenza-inesistente-per-i-reclusi-la-procura-indaga-su
      #fraude #Alessandro_Forlenza #Consiglia_Caruso #Engel_Family #Engel #Paola_Cianciulli #Alessandro_Forlenza #Engel_Italia #business #Edil_Coranimo #Allupo

    • Il CPR di via Corelli a Milano sotto indagine della Procura

      Indagati gli amministratori di Martinina srl, Consiglia Caruso e Alessandro Forlenza

      La gestione del CPR di via Corelli è ufficialmente sotto inchiesta della Procura di Milano, che venerdì 1 dicembre ha disposto un’ispezione a sorpresa nel centro da parte degli agenti della Guardia di Finanza. Perquisita la documentazione dell’ente gestore all’interno della struttura e acquisite immagini e video delle condizioni del centro.

      Locali sporchi, “bagni in condizioni vergognose”, cibo “maleodorante, avariato, scaduto”. I servizi, pur previsti dal capitolato d’appalto con i quali la società si è aggiudicata ben 4,4 milioni di euro, risultano carenti o del tutto assenti. Mancate cure e visite specialistiche necessarie ai trattenuti “per il rifiuto del gestore di pagare”. Gli stessi dipendenti del centro hanno segnalato agli inquirenti mancati pagamenti del Tfr, dello stipendio e pagamenti tardivi. Visite di idoneità sommarie che hanno dichiarato idonei anche individui “affetti da epilessia, epatite, tumore al cervello, patologie psichiatriche, tossicodipendenti”. Assistenza psicologica inadeguata, assenza di informativa legale ai trattenuti, nessuna attività ricreativa né luoghi di culto.

      È quanto osservato dagli inquirenti e contenuto nel decreto di ispezione della Procura, che ipotizza i reati di frode nelle pubbliche forniture e turbativa d’asta. Tra gli indagati, oltre alla società stessa, Consiglia Caruso, firmataria di tutti i protocolli d’intesa scoperti falsi nell’inchiesta pubblicata da Altraeconomia 1, e il figlio, Alessandro Forlenza, gestore della struttura di via Corelli.

      Una “gestione familiare” (l’attuale amministratrice di via Corelli 28 è infatti Paola Cianciulli, moglie di Forlenza) già al centro delle denunce di giornalisti e associazioni presenti sul territorio, che adesso trovano seguito nelle verifiche della Procura.

      Quanto riportato dalla Procura descrive infatti lo stesso quadro dettagliato nel report-denuncia recentemente pubblicato dall’associazione Naga in collaborazione con la Rete Mai più lager – No ai CPR 2, che ha dedicato ampio spazio alle incongruenze tra capitolato d’appalto e servizi erogati, nonché alle grave mancanze del presidio sanitario. Contestualmente, tra la documentazione perquisita dagli inquirenti nel centro figurerebbero anche le cartelle cliniche dei trattenuti, che di fatto vengono sequestrate dall’ente gestore che rifiuta sistematicamente di consegnarle ai diretti interessati o ai loro rappresentanti legali.

      L’inchiesta della Procura sembra dunque una buona notizia, che ripaga almeno in parte gli sforzi, le energie e delle risorse impegnate in inchieste, impervie azioni di monitoraggio e denuncia. Che accende la speranza che responsabilità e colpe vengano finalmente stabilite e sanzionate, arginando l’impunità dilagante in cui si muovono gli enti gestori con beneplacito delle Prefetture.

      Come espresso dall’avvocato ASGI, Nicola Datena ai giornalisti di Altraeconomia, “Il monitoraggio da parte della società civile si conferma essere uno strumento fondamentale. Se quanto emerso verrà confermato nelle sedi opportune viene da chiedersi chi controlla i controllori”.

      La Prefettura di Milano, preso atto dell’ispezione nel centro da parte della Procura, ha tempestivamente emesso un comunicato per chiarire che “aveva avviato a carico dell’ente gestore un procedimento amministrativo per la contestazione di talune condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali”. Un tentativo di migliorare la propria posizione di fronte alle gravi irregolarità sulle quali non ha vegliato o ha soprasseduto. Irregolarità che poi si osservano da parte della Prefettura stessa, che, tra le altre, non ha ancora formalizzato alcuna proroga dell’incarico di gestione di Martinina s.r.l., nonostante l’appalto sia formalmente scaduto il 31 di ottobre.

      “Come Rete Mai più Lager – No ai CPR teniamo a ricordare che la situazione di Corelli non è isolata, e che questo tipo di controlli andrebbe fatto a tappeto in tutti i centri che purtroppo sono ancora aperti in Italia. Ma soprattutto, teniamo a ricordare che le responsabilità vanno ricercate a tutti i livelli. E quindi non solo nei disservizi causati dagli inadempimenti dei gestori, ma anche nelle Prefetture che selezionano i candidati vittoriosi dei bandi e dovrebbero monitorarne l’attività, come anche in chi, sapendo e vedendo, tace”, scrive la Rete in un comunicato pubblicato sulle sue pagine social 3.

      Quanto emerge dalle inchieste su via Corelli non può essere ridotto a un semplice caso di malagestione e oltre alle responsabilità penali vanno messe in luce anche quelle politiche. Perché non si tratta solo di illeciti amministrativi nelle gare d’appalto, ma di gravissime e sistematiche violazioni di diritti fondamentali e della dignità delle persone.

      Quanto emerge sulla gestione del CPR di Milano non riflette un caso isolato. É un esempio di quanto accade in tutti i luoghi di detenzione amministrativa in Italia, che oggi si vogliono rafforzare e ampliare sul territorio. In tutti i CPR d’Italia le persone si ammalano, si aggravano, soffrono, si intossicano, subiscono abusi e violenze indicibili. Nei CPR d’Italia le persone muoiono. Morti di Stato e morti invisibilizzate che rimangono senza giustizia.

      I CPR vanno chiusi non perché gestiti male, ma perché sono illegittime istituzioni totali che investono risorse pubbliche nella produzione di marginalizzazione, violenza e oppressione; perché sono incarnazione di una pericolosa sospensione di principi fondamentali, che mette a rischio diritti e libertà di tuttə; perché sono massima espressione di un razzismo istituzionale e di una necropolitica che si accanisce sulle persone straniere razzializzate, martoriandone corpo, spirito e dignità.
      Un sistema di violenza razziale inaccettabile, che va superato e che chiama in causa la responsabilità politica, sociale e storica dell’intera comunità.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/il-cpr-di-via-corelli-a-milano-sotto-indagine-della-procura

    • Milano: la vergogna del Cpr di via Corelli. Niente cure e cibo scaduto

      L’ispezione della Guardia di finanza al cpr di via Corelli a Milano nell’ambito dell’indagine per frode in pubblica fornitura. Sotto accusa la società salernitana La Martinina srl che gestisce il centro per conto della Prefettura di Milano e del ministero dell’Interno. L’inchiesta della Procura di Milano parte anche dalle segnalazioni dell’ex senatore De Falco che fece due ispezioni: «Il gestore del centro ha tutto l’interesse a trattenere il maggior numero di persone perché è pagato per quello. Se nessuno controlla può succedere qualsiasi cosa, e infatti succede»

      Ora si accende anche il faro della Procura sul Cpr di via Corelli a Milano. A far scattare l’indagine dei magistrati hanno contribuito le innumerevoli denunce pubbliche fatte in questi anni da attivisti antirazzisti, giornalisti e alcuni politici.

      Nelle carte infatti c’è tutto il corollario di cose dette in questi anni da coloro che si sono occupati dei centri di permanenza per il rimpatrio: trattamenti disumani, cibo scadente, abuso di farmaci, impossibilità di comunicare con l’esterno, assistenza sanitaria negata. I Cpr sono questo e ora su quello di Milano c’è anche la parola dei magistrati.

      NELL’INCHIESTA VIENE citata la visita effettuata dall’associazione Naga e dalla rete Mai Più Lager-No ai Cpr il 2 marzo 2023 e l’ispezione del 29 maggio 2022 dell’ex senatore del M5S Gregorio de Falco.

      L’indagine è dei pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari che ieri mattina hanno mandato i militari della Guardia di finanza a perquisire il centro. L’ipotesi di reato è frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta nei confronti degli amministratore della società La Martinina srl che gestisce il Cpr per conto della Prefettura di Milano e del ministero dell’Interno. A ottobre 2022 la società aveva vinto la gara d’appalto da 4,4 milioni di euro per gestire il centro per un anno dopo alcuni passaggi societari sui cui i magistrati vogliono fare chiarezza.

      A settembre 2021 il bando era stato vinto dalla Engel Italia di Salerno, il 10 ottobre 2022 era passato alla Martinina di Pontecagnano, sempre con sede a Salerno. A novembre 2022 la Engel Italia finiva in concordato e si fondeva nella Martinina srl. Le quote delle due società fanno capo alla stessa persona, Paola Cianciulli, moglie del gestore del Cpr milanese Alessandro Forlenza, figlio dell’amministratrice della Martinina srl Consiglia Caruso.

      Dall’indagine emerge che la società vincitrice del bando aveva promesso di tutto per aggiudicarsi l’appalto: dal cibo biologico ai mediatori culturali, dall’assistenza sanitaria di qualità alle attività religiose, sociali e ricreative. E invece nulla di tutto ciò è stato fatto. Nell’assenza di controlli e di occhi indipendenti, in quei luoghi di segregazione può avvenire di tutto. E avviene.

      Da oggi però sappiamo che, almeno qui a Milano, le denunce pubbliche fatte da attivisti, associazioni e da quei pochi parlamentari che ispezionano i centri non sono cadute nel vuoto.

      SCRIVONO I PM che «il presidio sanitario con medici e infermieri era assolutamente inadeguato», mancavano medicinali e visite di idoneità alla vita nel centro per chi aveva «epilessia, epatite, tumore al cervello» e altre gravi patologie. Il supporto psicologico e psichiatrico era «largamente insufficiente e fornito da personale che non conosceva la lingua» degli immigrati trattenuti. Le camere erano «sporche», i bagni «in condizioni vergognose», il cibo «maleodorante, avariato e scaduto».

      La Martinina srl avrebbe anche prodotto documenti «contraffatti». Dagli esponenti della maggioranza di governo, che vorrebbe moltiplicare e esternalizzare oltre i confini nazionali i Cpr, non sono arrivati commenti.

      SI DIRÀ CHE QUESTI gestori di via Corelli sono delle mele marce e si proverà a difendere l’indifendibile. Dal centrosinistra in tanti hanno chiesto la chiusura del centro o la riconversione in struttura d’accoglienza, dal Pd, all’Alleanza Verdi Sinistra, a Rifondazione Comunista, al Patto Civico lombardo.

      «Da tempo chiedo la chiusura del Cpr di via Corelli, come peraltro ha fatto mesi fa il consiglio comunale di Milano» ha commentato il responsabile nazionale del Pd per le politiche migratorie Pierfrancesco Majorino.

      Quando era assessore al welfare a Milano Majorino era riuscito a convincere l’allora governo a convertire il Cpr in centro d’accoglienza. Per gli attivisti e le associazioni che si oppongono ai Cpr il problema è politico e riguarda tutte le strutture aperte in Italia.

      Dice Riccardo Tromba del Naga: «Ci aspettiamo che i magistrati abbiano trovato quello che denunciamo da tempo, in quel centro non c’era nulla di quanto promesso dal gestore. Noi ci opponiamo da sempre al trattenimento dei migranti, dal 1998 quando li istituì un governo di centrosinistra».

      Per la rete Mai Più Lager-No ai Cpr «la situazione di Corelli non è isolata, questo tipo di controlli andrebbero fatti a tappeto in tutti i centri che purtroppo sono ancora aperti in Italia. Le responsabilità vanno ricercate a tutti i livelli, quindi non solo nei disservizi causati dagli inadempimenti dei gestori, ma anche nelle prefetture che selezionano i candidati vittoriosi dei bandi e dovrebbero monitorarne l’attività, come anche in chi, sapendo e vedendo, tace».

      RESPINGE LE ACCUSE la Prefettura di Milano: «Nei mesi scorsi erano emerse criticità gestionali, era quindi stato avviato a carico dell’ente gestore un procedimento amministrativo ed era stata informata la Procura».

      De Falco: «Nel cpr vidi il degrado, colpa della gestione privata e dello Stato che nasconde»

      Gregorio De Falco, quando è stato senatore del M5S nel Cpr di via Corelli ha fatto due ispezioni. L’inchiesta della Procura di Milano parte anche dalle sue segnalazioni, cos’ha pensato questa mattina?

      Finalmente. Perché fin dall’esito della prima ispezione, quella del 5-6 giugno 2021, avendo fatto un esposto alla Procura della Repubblica mi aspettavo che qualcosa succedesse. Poi c’è stata la seconda ispezione, quella del 29 maggio 2022. Era chiara la condizione di assoluto abbandono nella quale vivevano e vivono tutt’ora le persone trattenute all’interno e mi aspettavo che qualcuno avviasse indagini. Oggi quindi dico: finalmente la giustizia si muove.

      Qual era l’obbiettivo delle sue ispezioni?

      Era quello di verificare le condizioni di vita dei trattenuti e quindi se lo Stato, attraverso le sue funzioni amministrative come la Prefettura, esercitasse il trattenimento con criteri minimi di dignità e umanità. Quello che abbiamo visto è stata invece una condizione diffusa di degrado. Le persone vengono trattenute in modo brutale perché senza aver commesso reati sono costrette a stare in un centro equivalente al carcere, ma a differenza dei carcerati a loro non è concesso il diritto di difesa, non possono fare nulla. Spesso le visite mediche sono fatte da operatori pagati dalle società di gestione, non va bene. Il gestore del centro ha tutto l’interesse a trattenere il maggior numero di persone perché è pagato per quello. Se nessuno controlla può succedere qualsiasi cosa, e infatti succede. Dal cibo avariato, all’abuso di farmaci, all’impedimento a comunicare con l’esterno. E lo Stato tiene nascosto tutto ciò.

      Il controllo del lavoro delle società che vincono gli appalti di gestione dei Cpr spetterebbe al ministero dell’Interno e alle prefetture. Avviene?

      Guardi, in quegli anni ho fatto interrogazioni parlamentari all’allora ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e le risposte che ho avuto sono sempre state sconfortanti. Una volta avevo chiesto di entrare nel Cpr di Roma insieme a una mia collaboratrice. All’epoca il prefetto di Roma era Matteo Piantedosi. Bene, mi fu negato il permesso perché Piantedosi aveva fatto fare delle indagini sulla mia collaboratrice e non risultava essere la mia assistente legislativa parlamentare. Ma io avevo chiesto proprio a lei di accompagnarmi perché era una persona che parlava l’arabo e si occupava di immigrazione. E invece no, Piantedosi impiegò il suo tempo per fare indagini sulla mia collaboratrice e negarmi l’ingresso al Cpr.

      Oggi Piantedosi è ministro dell’Interno di un governo che i Cpr li vuole moltiplicare, persino fuori dai confini nazionali…

      Moltiplicare ed esternalizzare. Con l’idea di costruire Cpr fuori dal territorio nazionale vogliono evitare che i parlamentari possano esercitare la loro funzione di controllo su queste strutture. È gravissimo, ma penso che il piano del governo sia fallimentare perché ancora c’è una Costituzione che anche loro devono rispettare. Il livello di civiltà non può tornare indietro.

      https://www.osservatoriorepressione.info/milano-la-vergogna-del-cpr-via-corelli-niente-cure-cibo-sc

    • Condizioni disumane nel Cpr di Milano ma la Prefettura rinnova il contratto a Martinina

      La Procura di Milano ha chiesto il sequestro preventivo d’urgenza della struttura per il concreto rischio che i gravissimi reati ipotizzati continuino. L’ha fatto anche perché l’attuale gestore si era visto prolungare di un altro anno l’incarico dalla prefettura. Alle violazioni dei diritti umani si affianca l’opacità dell’impianto amministrativo

      “Era un vero e proprio lager, neanche i cani sono trattati così nei canili: gli psicofarmaci vengono dati come fossero caramelle, in alti dosaggi, con uno smodato uso di Rivotril. I medici erano razzisti: ‘meglio che muori, torna al tuo Paese’, dicevano. La pulizia? Erano posti pieni di piccioni, nutriti dagli stessi trattenuti e, com’è noto, i piccioni portano malattie. Vi era spazzatura ovunque, le stanze erano lorde, piene di mozziconi, le lenzuola erano sporche, fatte di tessuto non tessuto e non venivano ovviamente cambiate tutti i giorni. Durante l’estate poteva capitare che il sapone, pur presente, non veniva dato ai trattenuti per cui di fatto le docce non venivano fatte”.

      Questo era ed è il Cpr di via Corelli a Milano nelle parole di un lavoratore di Martinina Srl, società che gestisce la struttura dall’ottobre 2022 grazie a “promesse” false di servizi forniti ai reclusi, come anticipato nell’inchiesta di Altreconomia. Non è una dichiarazione isolata: leggere le 164 pagine con cui i sostituti procuratori Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, il 13 dicembre 2023, hanno argomentato la richiesta di sequestro preventivo d’urgenza del ramo d’azienda che gestisce il centro, permette di ricostruire nel dettaglio l’orrore del “Corelli”. Sono gli stessi magistrati a scrivere che i reclusi “sono ridotti in condizioni che non pare esagerato definire disumane”.

      “Secondo te questi animali meritano una visita medica? Devono tornare alla giungla”. Lo avrebbe detto un medico del centro rivolgendosi a un operatore che accompagnava in ambulatorio un recluso. Il diritto alla salute sarebbe stato calpestato su più fronti. Per la necessità del gestore di risparmiare, Abdul, nome di fantasia, “non ha potuto effettuare una gastroscopia perché il gestore non pagava il ticket”; Amin, invece, pur avendo il piede fratturato non sarebbe stato visitato “per il rifiuto del gestore di pagare”.

      C’è poi, come abbiamo già raccontato, l’abuso di psicofarmaci. “Al centro ho visto dare quantità da 75 milligrammi a 300 milligrammi per tre volte al giorno di Lyrica, c’era una persona che assumeva circa 300 milligrammi di Lyrica per tre volte al giorno, cioè quasi un grammo, dose sostanzialmente fuori dosaggio”, racconta un’operatrice. “Vi era un uso smodato di Rivotril -racconta un’altra- Alcune volte venivano somministrati ad alcuni pazienti 100 gocce, io sono arrivata a diluire la boccetta con l’acqua per evitare effetti collaterali negativi”. “L’unico modo per gestire le criticità sanitarie era o lo psicofarmaco o la chiamata al 118”, ha dichiarato agli inquirenti Nicola Cocco, medico esperto di detenzione amministrativa.

      Nel centro c’erano persone che non avrebbero potuto esserci: gli inquirenti hanno ricostruito che le visite di idoneità alla comunità ristretta sono “assolutamente carenti”. Lo dimostrano la presenza all’interno del Centro di “ospiti affetti da epilessia, epatite, tumore al cervello, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti” e, al momento della visita del primo dicembre, la presenza di una persona “cui sarebbe stata asportata la milza nel 2018”. “Vi erano numerosi malati psichiatrici all’interno”, racconta un’altra operatrice.

      Persone che vivevano in luoghi sudici. “Gli ambienti erano sporchi, c’erano anche dei topi all’interno delle diverse aree: le pulizie venivano svolte molto superficialmente, tanto che molti ospiti hanno avuto delle malattie epidermiche dovute alle scarse condizioni igieniche -racconta un dipendente-. Ci sono stati anche episodi di scabbia su più ospiti. Agli ospiti non è stato mai consegnato il kit per l’igiene personale, né saponi, né le lenzuola, dovevano arrangiarsi con quello che trovavano all’interno”. Ancora. “Gli ospiti vestivano sempre con la stessa tuta per l’intera giornata, sia di notte sia di giorno. Una volta a settimana avveniva il lavaggio della tuta e se qualcuno non aveva la possibilità di un cambio, restava seminudo fino a quando non venivano riconsegnata la tuta pulita”.

      E poi il cibo avariato: “Poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti -si legge in una delle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti-. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato”.

      Questo è il quadro, questo è il Cpr di via Corelli. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha pubblicato la scorsa settimana un dettagliato report sulle lacune nella gestione del Cpr, evidenziando anche l’immobilismo della prefettura di Milano. “Dai verbali trasmessi all’Asgi a seguito di accesso civico generalizzato riguardante i verbali delle visite di controllo effettuate dalla prefettura non emerge tuttavia alcuna verifica sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone trattenute nel Cpr, né alcun rilievo da parte dell’amministrazione riguardo della corretta erogazione dei servizi previsti in offerta tecnica”, scrive l’associazione a margine del report. Un paradosso, a cui se ne aggiunge un altro.

      La richiesta dei Pm di sequestrare la struttura arrivata a sorpresa il 13 dicembre 2023 nasce da un motivo ben preciso. Il 17 novembre 2023 la società Martinina, gestita da Alessandro Forlenza (amministratore di fatto), accusato di frode insieme alla madre Consiglia Caruso (fino al 31 agosto amministratrice unica sostituita poi dalla moglie di Forlenza, Paola Cianciulli), si è vista rinnovare il contratto siglato con la prefettura di Milano per la gestione della struttura per un altro anno. La firma di Caruso sul rinnovo è del primo dicembre, il pomeriggio di quando la Gdf ha fatto l’accesso in struttura. Il “nuovo” contratto, pubblicato sul sito della Prefettura, ricalca quello precedente. Non si menziona nessuno dei problemi di gestione da parte di Martinina.

      Un paradosso. Anche perché, dall’ufficio territoriale del Viminale, in seguito alla perquisizione della Guardia di Finanza al centro del primo dicembre, avevano fatto sapere di aver “già avviato un procedimento amministrativo per la contestazione di condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali a seguito di alcune criticità gestionali emerse nei mesi scorsi” che si sarebbe concluso con “l’irrogazione della massima sanzione prevista”. Ma il contratto è stato rinnovato, come detto, come se tutto fosse normale.

      A quali criticità potrebbe riferirsi la Prefettura? “Il verbale dell’ispezione del 18 aprile 2023 -si legge però nel report di Asgi- non viene trasmesso sostenendo di non volere compromettere le verifiche tutt’ora in corso, essendo in corso istruttoria in merito alle spese sostenute per il personale”. Una presunta “massima sanzione” quindi che potrebbe essere riferita a questo specifico punto. Anche perché il 13 novembre il contratto è stato rinnovato. Ecco perché i procuratori Storari e Cavalleri hanno sequestrato la struttura. “Gli elementi testimoniano una situazione di frode non soltanto a oggi in atto ma destinata a proseguire nel prossimo futuro -scrivono- tale situazione di illegalità non potrà prevedibilmente che protrarsi almeno per un ulteriore intero anno”.

      C’è poi un’altra stranezza: dopo che l’Asgi ha inviato il report all’Autorità nazionale anticorruzione, il 10 novembre 2023 la prefettura ha pubblicato il contratto del precedente appalto di gestione del Cpr (all’epoca la società gestita di fatto da Forlenza era la Engel Italia). Le associazioni Dianova, BeFree, l’organizzazione “Musica e Teatro” vengono citate tra i firmatari dei protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica di Engel Srl formulata il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere.

      La richiesta della Procura è quella, come detto, del sequestro del ramo d’azienda che gestisce la struttura “senza però determinare la cessazione del Cpr, con l’immissione in possesso di un amministratore”. I magistrati non stanno quindi chiedendo la chiusura del Centro -almeno per ora- ma non è chiaro che cosa succederà e come verrà gestita la struttura. Nel frattempo, venerdì 15 dicembre, si è svolta l’udienza di fronte al giudice per le indagini preliminari per decidere se Martinina potrà in futuro partecipare a bandi pubblici.

      Al di là dell’esito giudiziario della vicenda, si ha un’altra prova dell’orrore di quello che succede nel Corelli, come denunciano da anni diverse associazioni, dalla rete Mai più lager – No ai Cpr al Naga. E non solo. “Emerge il fallimento del sistema Cpr, incluso il caso di Milano -spiega Giulia Vicini, avvocata Asgi-. Si tratta di un fallimento che non riguarda solo le ormai croniche e documentate violazioni dei diritti fondamentali e l’inefficienza, ma anche l’opacità dell’impianto burocratico-amministrativo che concede in appalto la vita delle persone a società private”. “Si entra come persona -ha raccontato un’operatrice agli inquirenti-. Poi viene assegnato un tesserino di riconoscimento con un numero, e a quel punto si diventa numeri e si esce da zombie imbottiti di psicofarmaci”.

      https://altreconomia.it/la-disumanita-nel-cpr-di-milano-e-la-prefettura-rinnova-il-contratto-a-

    • Freddo, cibo scadente e nuovi ingressi. Al Cpr di Milano nulla è cambiato

      Da fine dicembre il centro di via Corelli è gestito da un amministratore giudiziario dopo l’inchiesta della Procura sui mancati servizi erogati dalla Martinina Srl. Un mese dopo manca un direttore e la condizione dei reclusi resta precaria. I nuovi ingressi, inoltre, non si fermano. Un appello chiede ai sanitari coinvolti di prendere posizione

      Riscaldamento rotto, mancanza di coperte, lenzuola di carta velina, cibo ancora scadente: il Cpr di Milano sembra essere lo stesso di sempre a un mese dalla nomina dell’amministratore giudiziario subentrato alla Martinina Srl, l’ente gestore sotto indagine della Procura per aver “promesso” servizi non erogati. “Ho constatato in prima persona che la società resta di fatto ancora alla guida della struttura -spiega Paolo Romano, consigliere regionale del Partito democratico che ha fatto visita al ‘Corelli’ il 17 gennaio- nonostante le accuse relative alla scarsa qualità del cibo, alla mancanza dei servizi psicologici e delle visite mediche. L’unica soluzione a questo punto è la chiusura”.

      Secondo diverse testimonianze raccolte da Altreconomia la situazione sarebbe ancora peggiore di prima. Gli stessi funzionari di polizia non saprebbero a chi rivolgersi quando ci sono problematiche nella struttura anche perché, fino al 17 gennaio, non era ancora stato nominato un direttore. I dipendenti operativi nella struttura sarebbero invece gli stessi. Inoltre, Martinina Srl non avrebbe liquidità per garantire i servizi basilari per le persone ristrette.

      Questa situazione non fermerebbe però i nuovi ingressi: anche perché, per le “regole di appalto”, al di sotto di un certo numero di ospiti, la gestione del centro è in perdita. Un settore della struttura rimane chiuso e di conseguenza la capienza massima è ridotta: una gestione che non vada in perdita taglierà là dove è possibile farlo. “L’affidamento del Cpr al ribasso a soggetti privati fa sì che si perdano anche i pochi servizi che dovrebbero essere garantiti e si aggravino così le violazioni dei diritti umani”, riprende il consigliere Romano.

      Il 29 dicembre 2023 la prefettura di Milano vista “l’assoluta urgenza ed ineluttabilità dell’intervento connesso alle esigenza di sicurezza ed igiene del Centro di accoglienza” ha affidato alla Sfhera Srl, azienda di Milano, lavori per più di 30mila euro destinati a “servizi di manutenzione ordinaria e obbligatoria della centrale termica, degli impianti di raffrescamento e dei presidi antincendio” per garantire “l’efficienza della struttura”. Un’urgenza tale che i lavori vengono affidati “anche nelle more dell’accreditamento dei fondi”. Ma le persone sarebbero ancora al freddo.

      Nel frattempo, l’azienda guidata dall’imprenditore Alessandro Forlenza ha fatto ricorso a inizio gennaio 2024 contro la decisione del Giudice per le indagini preliminari di metà dicembre 2023 di commissariare il Cpr, dandolo in gestione al commercialista Giovanni Falconieri e impedire così alla “sua” Martinina Srl di partecipare a bandi pubblici per un anno. Un provvedimento che si è reso necessario perché, nonostante le indagini e le gravi accuse rivolte alla “gestione” del centro, l’azienda si era vista rinnovare di un anno il contratto da parte della prefettura di Milano il 17 novembre 2023. A quel punto i pubblici ministeri titolari dell’indagine, Paolo Storari e Giovanna Cavalleri, avevano chiesto il sequestro preventivo d’urgenza, poi accolto dal gip Livio Cristofano, perché “gli elementi testimoniano una situazione di frode non soltanto a oggi in atto ma destinata a proseguire nel prossimo futuro -scrivevano- tale situazione di illegalità non potrà prevedibilmente che protrarsi almeno per un ulteriore intero anno”.

      Tra il 2021 e il 2022 in cinque mesi la spesa in psicofarmaci è superiore al 60% del totale, di cui oltre la metà ha riguardato il Rivotril (196 scatole)

      Il Cpr nelle parole delle persone sentite dalla Procura di Milano è stato descritto come “un vero e proprio lager” in cui “gli psicofarmaci vengono dati “come fossero caramelle, in alti dosaggi, con uno smodato uso di Rivotril”, come già documentato da Altreconomia nell’aprile 2023. E proprio il tema della salute resta un elemento centrale. Anche per questo motivo, a metà gennaio 2024 la Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), “Mai più lager – No ai Cpr” e l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) hanno rivolto a tutto il personale sanitario un appello per una “presa di coscienza sulle condizioni e sui rischi per la salute delle persone migranti sottoposte a detenzione amministrativa”. Soprattutto per quanto riguarda la valutazione dell’idoneità a fare ingresso nel centro: un “compito” che spetterebbe ai medici del Servizio sanitario nazionale, con diversi profili problematici.

      Da un lato, si chiede ai medici “di attestare in pochi minuti lo stato di salute di persone di cui non conoscono la vita né il percorso migratorio, per l’invio in luoghi che non conoscono, in cui la salute è gestita da enti privati e che molteplici fonti attendibili hanno ormai certificato essere patogeni e rischiosi per la salute delle persone che vi vengono detenute”. Ma non solo. Entra in gioco anche il rispetto del codice di deontologia medica rispetto su diversi profili, tra cui l’obbligo per il medico di “protezione del soggetto vulnerabile” quando ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, dignità e qualità di vita “come di fatto si può configurare il contesto dei Cpr”.

      “I Cpr rinchiudono senza diritti e senza motivazioni persone che non hanno commesso un reato con il solo risultato di togliere loro dignità e renderle vere e proprie bombe sociali. E l’attuale situazione di Milano è insostenibile” – Paolo Romano

      “Secondo te questi animali meritano una visita medica? Devono tornare alla giungla”. Lo avrebbe detto un medico del Cpr di Milano rivolgendosi a un operatore che accompagnava in ambulatorio un recluso. Il diritto alla salute sarebbe stato calpestato su più fronti. Per la necessità del gestore di risparmiare -sempre secondo le ricostruzioni delle persone sentite dalla Procura di Milano- un recluso “non ha potuto effettuare una gastroscopia perché il gestore non pagava il ticket”; un altro, invece, pur avendo il piede fratturato non sarebbe stato visitato “per il rifiuto del gestore di pagare”. Un contesto da tenere conto nel momento in cui si dà l’idoneità alla persona per far ingresso nel Cpr.

      Nel caso di Milano, come denunciato dalla rete “Mai più lager – No ai Cpr” a inizio gennaio di quest’anno, le visite sarebbero svolte da due medici che nel 2021 “comparivano non solo a libro paga di Ats ma anche operanti in questura e soprattutto collaboratori a partita Iva del gestore del Cpr”. Un altro cortocircuito. E con delibera del 29 dicembre 2023, denuncia sempre la rete di attivisti e attiviste, l’Ats di Milano ha nuovamente incaricato i due dottori fino a febbraio con un compenso di 30 euro all’ora. “Se redatta come superficiale nulla osta potrebbe essere contestata e il medico che l’ha firmato coinvolto in sede giudiziaria”, scrivono le organizzazioni nell’appello rivolto agli operatori sanitari. “In coscienza e con cognizione di causa -sottolineano- tenendo presenti i principi fondamentali dell’ordinamento e della deontologia professionale medica, nessuno può essere considerato idoneo ad esservi rinchiuso”. Invece al “Corelli” di Milano si continua ad entrare. Come se niente fosse.

      Il 29 dicembre 2023 la Prefettura di Milano ha saldato un pagamento di 170mila euro alla Martinina Srl che comprende anche un “acconto per l’amministratore giudiziario”. Non è però specificato a quanti e quali mesi di gestione si riferiscono e quindi è impossibile, ricostruire a quanto ammonta la “massima sanzione” che l’ufficio milanese del Viminale, a inizio dicembre, ha dichiarato di aver applicato per la “malagestione” del Cpr. “Va chiuso, lo ribadisco -conclude il consigliere Romano-. I Cpr rinchiudono senza diritti e senza motivazioni persone che non hanno commesso un reato con il solo risultato di togliere loro dignità e renderle vere e proprie bombe sociali. E l’attuale situazione di Milano è insostenibile”.

      https://altreconomia.it/freddo-cibo-scadente-e-nuovi-ingressi-al-cpr-di-milano-nulla-e-cambiato

    • Milano: Ancora violenze poliziesche nel cpr di via Corelli

      Ancora violenze di polizia contro i migranti reclusi nel Cpr di via Corelli, il centro permanenza e rimpatri finito sotto sequestro dopo un’inchiesta della procura di Milano che aveva certificato le condizioni disumane dei migranti all’interno. Nella serata di sabato una protesta contro le condizioni di reclusione, che nonostante il commissariamento avviato dopo l’azione della Procura non sono migliorate, ha preso vita nel cortile del centro, dove due persone si sono spogliate.

      Una volta rientrate nelle stanze è giunta la rappresaglia da parte di alcuni agenti della guardia di finanza che in assetto antisommossa, hanno punito a suon di manganellate i due migranti protagonisti della protesta che sono poi stati portati in infermeria: “uno con una gamba visibilmente rotta e l’altro, il più giovane, quasi esanime , in braccio”, afferma pubblicando un video la rete “Mai più lager – No ai Cpr” (https://www.facebook.com/watch/?v=1114485583309953). I due sono stati anche denunciati per resistenza a pubblico ufficiale.

      https://www.osservatoriorepressione.info/milano-ancora-violenze-poliziesche-nel-cpr-via-corelli

  • Violences

    Dans sa nouvelle création qui prend le titre de « Violences », Léa Drouet s’attache surtout à nous faire passer de l’autre côté des gros intitulés. Le long d’une écriture sensible qui se compose au croisement du corps, du son et de la scénographie, elle nous conduit sur le bord des images de la violence telles qu’elles sont agencées pour nous choquer et, nous sidérant, nous empêcher non seulement d’agir mais déjà de sentir.

    Résister à l’assignation à la passivité commence peut-être ici : pouvoir éprouver et expérimenter. Reprendre l’expérience de la violence non plus seulement en tant qu’elle est subie par les uns et exercée par les autres, mais en tant qu’elle nous traverse tous et chacun. La violence n’est pas que le lot d’un pouvoir qui nous rend impuissants. Elle est aussi une puissance que nous pouvons déployer pour reprendre des capacités de voir, d’agir et de vivre autrement. Seule en scène, Léa Drouet commence par suivre le parcours de sa grand-mère Mado qui, petite fille, dut traverser des champs et des routes pour échapper à la rafle du Vél d’Hiv’. À partir de là, la metteuse en scène retrace la traversée des frontières qui conduit aujourd’hui d’autres enfants à perdre la vie. Dans les interstices qui séparent les morts que l’on compte de toutes les morts qui ne comptent pas, elle tente de recomposer des mémoires ainsi que des histoires pour l’avenir. L’artiste agit sur un espace principalement composé de sables, évoquant des territoires fracturés, séparés par des frontières ou abîmés par des tours. Si le sable sait parfaitement recouvrir les traces et effacer les marques de violence, il est aussi porteur d’empreintes. Léa Drouet façonne ce paysage où le corps engagé passe du témoin à l’actrice et de l’actrice à la narratrice, comme si les lignes de rupture permettaient surtout des rencontres nouvelles. Alors émergent peu à peu d’autres positionnements, d’autres possibilités d’action et d’autres attentions au détail et au petit. Car c’est peut-être dans la fragilité des grains de sable que se distinguent les fondements, friables et solides à la fois, d’un monde capable d’assumer ses conflits autrement que sous la forme du champ de bataille et de l’État de guerre généralisé.

    -- Camille Louis, Dramaturge

    https://vimeo.com/504326442

    https://vaisseau-leadrouet.com/projet/violences

    #frontières #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #violence #art_et_politique #art #théâtre #impuissance #puissance #Léa_Drouet #mémoire #traces #sable #empreintes #conflits

  • Tra i respinti dalla Croazia. La violenza è ancora la prassi lungo le rotte balcaniche

    Ritorno sulla frontiera tra Bosnia ed Erzegovina e Unione europea, a quasi tre anni dall’incendio che distrusse il campo di #Lipa. Le persone incontrate denunciano i respingimenti illegali e le vessazioni delle polizie. Tra gennaio e ottobre 2023 i passaggi nei Balcani occidentali sono stati quasi 100mila. Il videoreportage

    È notte fonda ma la luna piena illumina tutta la valle del fiume Sava. Non è l’ideale per le persone che nell’ombra provano a passare da un confine all’altro, dal Nord della Bosnia ed Erzegovina alla Croazia. “A qualcuno la luna piena dà sicurezza -racconta un ragazzo che arriva dal Sudan- perché vedi bene la strada. Ad altri non piace, perché le guardie ti vedono lontano un miglio”.

    Bosanska Gradiška è uno degli snodi chiave per i migranti che dal Nord della Bosnia tentano di attraversare il fiume per entrare in Croazia, nell’Unione europea. In tanti sono morti nelle acque della Sava, affogati a poche bracciate dalla riva, ma i più giovani, soprattutto in estate, provano ancora a nuotare da una sponda all’altra, da un confine all’altro. I segni del passaggio sono evidenti, ci sono persino tracce di pneumatici e di trascinamento. Sembra la scia di una piccola imbarcazione. Nei villaggi lunga la Sava, da Gradiška in poi, alcuni residenti della zona “noleggiano” le loro barchette per accompagnare i migranti dall’altro lato, per 20 o 30 marchi.

    Si cammina in silenzio, tutto tace, la frontiera ufficiale, quella presidiata dalla polizia, è a pochissimi chilometri. “Ultimamente i migranti si vedono poco in giro -spiega un’attivista della zona- ma ci sono eccome. Adesso si nascondono di più ma si muovono e tanto”. I numeri confermano i “flussi” lungo le rotte negli ultimi mesi. Secondo i dati di Frontex, da gennaio a ottobre gli “attraversamenti” nei Balcani occidentali hanno superato quota 97.300, soprattutto afghani, siriani e turchi. I volontari della zona, però, registrano la presenza anche di persone provenienti dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana.

    “Tanti arrivano direttamente in Serbia con l’aereo e poi cominciano il viaggio. Altri, invece, arrivano a piedi dalla Turchia o dalla Grecia”. Il cammino, in ogni caso, è faticoso e pericoloso. Il rischio è quello di morire di freddo in inverno o di essere picchiati, di perdere anche quel poco che si ha, di rimanere bloccati per mesi. Cosa che sta accadendo di nuovo, nell’autunno del 2023, lontano dai riflettori un tempo più accesi.

    “Mi hanno spaccato uno zigomo -racconta un ventenne iraniano incontrato nei boschi bosniaci a fine ottobre- è successo l’altra sera. Adesso aspetto qualche giorno prima di ritentare. La polizia croata è la peggiore”. “I miei amici un mese fa sono passati senza problemi”, aggiunge un altro ragazzo, che non dice di dov’è. “E invece a noi ci fanno sputare sangue, letteralmente”. Qualcosa è successo. Fino a qualche settimana fa le autorità croate lasciavano “passare” con più facilità, e per i migranti era diventato relativamente semplice arrivare fino Zagabria o a Fiume, per poi proseguire verso la Slovenia. Poi, però, la protesta dei residenti di alcune cittadine sul confine hanno spinto il governo croato a cambiare ancora una volta politica. Riprendendo così i respingimenti violenti. I metodi brutali della polizia croata sono noti da tempo. I racconti raccolti in questi giorni in Bosnia ed Erzegovina confermano invece che tutte le pratiche più disumane utilizzate in questi anni sono tornare prepotentemente “di moda”.

    https://www.youtube.com/watch?v=IRgHN1sh8ZQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

    I respingimenti della polizia croata hanno avuto un immediato contraccolpo sulle presenze al campo di Lipa, a 25 chilometri da Bihać. Siamo arrivati al campo di mattina con un permesso per entrare e svolgere una visita guidata della struttura. L’unico dato di cui siamo certi è il numero delle presenze. A novembre ci sono all’incirca 1.500 persone, accampate insieme nonostante le condizioni non siano delle migliori. I ragazzi sono spesso costretti a spendere i propri soldi per comprare all’esterno sapone e dentifricio, perché raramente sono a disposizione. “Compriamo anche qualcosa da mangiare -racconta Adam, dalla Siria- perché spesso abbiamo fame, ma è anche l’occasione per fare una pausa e per uscire dal recinto”. Ci spostiamo al negozietto che è stato allestito proprio di fronte all’ingresso del campo. Prendiamo un the mentre i ragazzi si avvicinano numerosi. Due euro per un bicchierino. I prezzi sono alti. Un solo rotolo di carta igienica costa quasi un euro. “Lo compriamo perché non c’è mai nei bagni”, spiega un ragazzo con il sacchetto in mano. Le guardie del campo intanto ci osservano, non gradiscono molto che si parli con i loro “ospiti”, e allora ci spostiamo verso il bosco.

    Mentre siamo nella jungle, poco fuori Lipa, incontriamo tre ragazzi siriani che tornano verso il campo dopo essere stati respinti. Hanno l’aria stanca e affranta, anche perché a due di loro la polizia ha sequestrato e spaccato il telefono. Si fermano qualche minuto a raccontare ma poi proseguono, perché hanno bisogno di riposare, bere un po’ d’acqua, riordinare le idee. Nel pomeriggio raggiungiamo il campo Borići, dedicato alle famiglie e ai minori non accompagnati, dove ci sono poco più di 800 persone. Un numero non elevatissimo ma comunque superiore a quello della media degli ultimi mesi. Tra loro ci sono molte persone in arrivo dall’Africa sub-sahariana ma anche diverse famiglie dal Bangladesh. “A volte restano a lungo -spiega uno dei coordinatori del centro, dove abbiamo il permesso di entrare-. E infatti ai bambini facciamo anche da scuola. È un modo per insegnargli la lingua, per trascorrere del tempo sereno e magari fargli ritrovare il sorriso”. L’atmosfera qui è migliore e anche l’accoglienza è meno militaresca, più informale. Finché c’è la luce del sole il clima resta sereno, ma appena fa buio il fermento aumenta.

    Ogni sera i migranti cercano di attraversare il confine arrivando il più vicino possibile con i taxi o con gli autobus e sperano di non incontrare la polizia croata. Di recente, però, succede quasi sempre. Lo raccontano a più riprese le tantissime persone incontrate in questi giorni d’autunno. Grecia, Turchia, Bulgaria, Serbia. Tra i ragazzi che hanno il desiderio di far sapere cosa gli è successo c’è Mohammed, dal Marocco, che ha provato ad attraversare il confine croato sette volte e ha subito maltrattamenti feroci dalla polizia di Zagabria. Poi c’è Samir, 18 anni, dall’Afghanistan, in fuga dai Talebani. E poi c’è Alì, dal Ghana, che ha perso i documenti e non è riuscito a rientrare in Italia dal suo Paese. Tre storie racchiuse in questo video, anche se ci vorrebbero ore e ore di testimonianze. Ore e ore di immagini e denunce, perché quel che accade sotto i nostri occhi fa vergognare.

    https://altreconomia.it/tra-i-respinti-dalla-croazia-la-violenza-e-ancora-la-prassi-lungo-le-ro
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  • Briançon, une zone frontière à bout de souffle

    À Briançon, commune des Hautes-Alpes, près de sept ans après l’ouverture de cette voie de passage par les personnes migrantes venues d’Italie, la situation ne cesse de se détériorer. En dépit des renforts policiers et de l’arrivée des premières neiges, les exilés continuent de passer.

    Col de Montgenèvre. Il neige. Entre un télésiège à l’arrêt et un centre de vacances, deux policiers se tiennent en faction sur un promontoire qui domine la frontière franco-italienne. Ils suivent à la jumelle un groupe de cinq exilés venus d’Italie. Ils sont poursuivis par un de leurs collègues de la Police aux Frontières (PAF). Michel Rousseau, bénévole de l’association de défense des exilés Tous migrants est témoin de la scène. Il interpelle les deux gendarmes :

    « Voilà typiquement ce qu’il ne faut pas faire : poursuivre des gens dans une pente raide et enneigée avec un torrent en contrebas ! C’est comme ça que les accidents surviennent ! »

    Il s’approche des deux gendarmes, les salue tout en fouillant dans la poche latérale de son pantalon en gore tex. Il en sort deux exemplaires d’un petit livret que son association a édité à l’attention des forces de l’ordre. Les gendarmes hésitent. Michel Rousseau tente de les rassurer :

    « Ne vous inquiétez pas, ça fait plusieurs années qu’on dialogue avec les forces de l’ordre et votre hiérarchie a été informée de notre démarche. On leur a déjà distribué ce livret. Prenez-le. On l’a fait pour vous. C’est un petit document qui rappelle le droit qui s’applique à la frontière mais qui malheureusement ne correspond pas aux ordres de ce gouvernement qui vient d’être condamné par la Cour de Justice de l’Union Européenne par rapport à ce qu’il se passe à la frontière : les refoulements systématiques, les pratiques de refus d’entrée et de pseudo réadmissions, les pratiques d’enfermement sans parler de la non prise en compte des demandeurs d’asile. »

    Les deux agents acceptent finalement les fascicules qu’ils rangent rapidement dans leurs poches revolver. Et Michel Rousseau de leur rappeler qu’ils ont droit de désobéir à un ordre illégal. Pendant ce temps, les personnes migrantes qui tentaient de fuir ont été interpellées par les forces de l’ordre. Elles marchent dans la neige, en file indienne, précédées et suivies par des gendarmes mobiles qui le conduisent jusqu’à des fourgonnettes dépêchées pour les emmener dans les locaux de la Police aux frontières de Montgenèvre. Là, elles sont enfermées dans un Algeco jusqu’à leur remise à la police italienne qui les ramènera en Italie.
    10 personnes sont mortes, d’épuisement, d’hypothermie, de noyade ou de chute

    Mamadou Alpha Diallo, un jeune guinéen de 16 ans rencontré dans le refuge d’Oulx en Italie a tenté par trois fois de passer :

    « Après avoir pris le bus jusqu’à Clavières (dernier village italien avant la France), on marche dans la montagne pour éviter la police. Quand on les voit, on se cache. Des fois comme hier, ils utilisent des drones. Quand on entend le drone, on court se cacher sous un sapin et on attend, dans la neige, deux heures, trois heures parfois. Malheureusement pour moi, les semelles de mes chaussures se sont décollées et j’ai dû rejoindre la route nationale pour ne pas avoir les pieds gelés. C’est là que la police m’a arrêté alors que je touchais au but après 8h de marche. »

    Le jeune guinéen parviendra à passer le surlendemain au bout de la quatrième tentative. À quelques exceptions près, tout le monde passe au prix de plus grands risques encourus et des blessures spécifiques à l’environnement montagneux méconnu pour la plupart des exilés. Depuis près de sept ans que cette voie de passage a été ouverte, 10 personnes sont mortes, d’épuisement, d’hypothermie, de noyade ou de chute.

    Isabelle Lorre, coordinatrice de l’ONG Médecins du monde à Briançon impute ce bilan a une présence toujours plus importante des forces de l’ordre dans la montagne :

    « Le problème principal est lié au fait qu’il y ait une militarisation de la frontière. Ça affecte directement la santé des personnes et leur traversée de la frontière. Ca veut dire que les personnes vont se faire interpeller par surprise, il y a des courses poursuites dans la montagne, et toute une stratégie d’évitement des forces de l’ordre par ces personnes. Ce qui implique de passer par des chemins beaucoup plus détournés et périlleux et de se cacher. On est très vigilants sur la période hivernale, il faut savoir qu’il fait jusqu’à -20 degrés sur le col autour de Montgenèvre donc les personnes peuvent rester cachés dans la neige un certain temps avec des risques assez forts d’hypothermie et de gelures.
    On questionne aussi les risques psychiques des personnes, ça reste des traversées qui sont très éprouvantes suite à un parcours migratoire déjà compliqué en amont. »

    Dominique Dufour, préfet des Hautes-Alpes réfute ces allégations :

    « L’ensemble des policiers, des gendarmes, des dignitaires qui sont engagés dans la lutte contre l’immigration clandestine prennent particulièrement soin à ne pas intervenir sur des zones à risque. Nous savons pertinemment que nous sommes sur un terrain qui est compliqué et en plus de la dissuasion que constitue la seule présence d’un policier, les interventions ne se font que lorsque nous sommes en terrain sécurisé. Maintenant, disons les choses comme elles sont, il y a une prise de risque inconsidérée de la part des migrants qui souhaitent passer, parfois encouragés par un certain nombre d’organisations. Et donc cette prise de risque est à bannir et à proscrire et c’est le message que nous nous faisons passer en permanence ».

    Malgré les renforts en gendarmes mobiles ou militaires de l’opération sentinelle, les associations d’aide aux migrants de la région de Briançon estiment qu’entre 20 et 30 000 personnes migrantes sont parvenues à passer la frontière depuis 2016. Face à ce qui semble signer l’échec de la stratégie répressive des gouvernements successifs pour « assurer l’intégrité de la frontière » Dominique Dufour rétorque que 5 000 refoulements ont été effectués cette année à Montgenèvre sachant qu’une personne migrante peut être refoulée jusqu’à quatre, cinq voire six fois avant de parvenir à passer la frontière. Au Refuge solidaire de Briançon, on regrette que les dizaines de millions d’euros employés pour empêcher les personnes migrantes de passer la frontière ne soient pas dévolues à un accueil digne qui est à la charge, et depuis sept ans, des seuls bénévoles briançonnais. Joël Giraud, député des Hautes Alpes (PR, apparenté renaissance) assure avoir alerté le gouvernement sur la situation à Briançon sans se faire trop d’illusions :

    « Pour l’instant, je n’ai pas de réponse. Et le climat effectivement ne prête pas à une grande écoute sur ce plan-là, mais pour autant au moment où nous allons aborder le texte qui va être un énième texte sur les questions de migration, je pense que c’est le moment ou jamais de tenter d’obtenir un écho à des choses qui ne sont ni plus ni moins de demander une régulation par l’Etat et un accueil par l’Etat sur des territoires où de toute façon, de part la géomorphologie locale, il passera toujours des gens. »

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-grand-reportage/briancon-une-zone-frontiere-a-bout-de-souffle-9498707

    #Briançon #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #PAF #audio #podcast #Hautes-Alpes #Italie #France

  • La Cour suprême britannique déclare illégal le partenariat migratoire entre le Royaume-Uni et le Rwanda
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/15/la-cour-supreme-britannique-declare-illegal-le-partenariat-migratoire-entre-

    La Cour suprême britannique déclare illégal le partenariat migratoire entre le Royaume-Uni et le Rwanda
    L’accord passé avec Kigali visait à transférer les demandeurs d’asile dans le pays d’Afrique. Le gouvernement de Rishi Sunak comptait sur lui pour dissuader les migrants de traverser la Manche sur des embarcations de fortune.
    Par Cécile Ducourtieux(Londres, correspondante)
    Publié hier à 16h24, modifié à 08h44
    Nouveau coup dur pour le gouvernement de Rishi Sunak : la Cour suprême britannique a tranché, mercredi 15 novembre, en confirmant l’illégalité du partenariat migratoire conclu avec Kigali pour que les demandeurs d’asile arrivés au Royaume-Uni en « small boats » (bateaux pneumatiques) soient transférés au Rwanda et que leurs demandes soient évaluées sur place. Les cinq juges de la plus haute instance juridique du Royaume-Uni ont considéré, à l’unanimité, que le risque était « réel » pour ces personnes d’être refoulées vers leur pays d’origine par les autorités rwandaises, même si leur demande de protection était justifiée.
    Signé en avril 2022 entre le gouvernement de Boris Johnson et celui de Paul Kagame, le « partenariat Rwanda » constituait la clé de voûte de la politique migratoire britannique. Il était censé dissuader les personnes tentées par la dangereuse traversée de la Manche. Mais il n’a jusqu’à présent jamais pu être mis en œuvre, ayant presque immédiatement été mis en cause devant les tribunaux nationaux.
    Alors que 46 000 personnes sont arrivées dans des embarcations de fortune sur les côtes du Kent en 2022 et que 27 000 autres ont réussi la traversée depuis début 2023 (chiffres du Home Office arrêtés au 12 novembre), Rishi Sunak se retrouve démuni, à moins d’un an des élections générales, alors qu’il avait promis en janvier aux Britanniques de « stopper les “small boats” ». Et c’est sans compter l’ex-ministre de l’intérieur Suella Braverman, qu’il a expulsée de son cabinet lundi, et qui semble avoir la ferme intention de lui nuire, en l’accusant de « trahison » sur le dossier Rwanda… « Ce n’est pas la décision que nous espérions, a sobrement réagi Rishi Sunak dans un communiqué mercredi, mais nous avons passé ces derniers mois à nous préparer à cette éventualité et nous restons totalement engagés à stopper les “small boats” ».
    Les juges de la Cour suprême ont basé leur décision sur le principe du « non-refoulement » inscrit dans le droit britannique, mais aussi dans des traités internationaux dont le Royaume-Uni est signataire : la Convention des Nations unies sur les réfugiés et la Convention européenne sur les droits de l’homme (CEDH). Or, un rapport de l’agence pour les réfugiés de l’ONU (UNHCR) cité par les juges a « produit des preuves » des déficiences du régime d’asile rwandais et des risques de refoulement qu’il présente pour des demandeurs d’asile dont la vie est en danger dans leur pays d’origine et dont le dossier aurait de bonnes chances d’être accepté s’il était traité au Royaume-Uni. Les juges ont aussi cité un rapport du gouvernement britannique de 2021 s’alarmant des assassinats extrajudiciaires au Rwanda, du manque d’indépendance de la justice et des cas de torture dans le pays. Ils ont évoqué un accord migratoire similaire signé entre Israël et le Rwanda en 2013, dans le cadre duquel les personnes transférées d’Israël au Rwanda pour que leur demande d’asile y soit examinée étaient « régulièrement expulsées vers d’autres pays tiers ».
    Le gouvernement rwandais a protesté, mercredi, jugeant dans un communiqué que la décision judiciaire britannique « pose problème » et ajoutant que « le Rwanda et le Royaume-Uni ont travaillé ensemble pour assurer l’intégration dans [la] société [rwandaise] des demandeurs d’asile déplacés. (…) Le Rwanda est attaché à ses obligations internationales et son traitement exemplaire des réfugiés a été reconnu par l’UNHCR et d’autres instances internationales ». La décision de la Cour suprême a, en revanche, été saluée par les ONG de défense des réfugiés et par la gauche britannique.
    Le partenariat Rwanda n’est pas pour autant définitivement caduc. Les juges de la Cour suprême n’ont, en effet, pas considéré comme illégal le fait de transférer des demandeurs d’asile vers un pays tiers chargé de traiter leur dossier, puis, s’ils sont approuvés, de leur offrir l’asile. Cette tentative de « sous-traitance » de l’asile tente d’ailleurs d’autres pays européens, qui ont suivi avec intérêt la bataille judiciaire britannique. « Il y a un appétit pour ce concept, la migration illégale augmente partout en Europe, et l’Italie, l’Allemagne et l’Autriche explorent tous des modèles similaires à notre partenariat Rwanda », a assuré James Cleverly, le tout nouveau ministre de l’intérieur britannique, nommé lundi en remplacement de Suella Braverman. Rishi Sunak a évoqué, mercredi, une renégociation du partenariat avec Kigali. Le Royaume-Uni assure travailler à un nouveau traité avec le Rwanda, qui devrait être adopté au Parlement de Westminster. Il a aussi parlé d’un projet de loi, qui serait déposé en urgence par son gouvernement et qui décréterait que le Rwanda est un pays « sûr » pour les demandeurs d’asile. Mais un tel texte ne préviendrait pas les nouveaux recours en justice, invoqués au nom des autres législations nationales se basant sur la CEDH. En attendant un éventuel changement des procédures d’asile au Rwanda, les options qui se présentent au dirigeant pour limiter la migration et pour enfin tenir une des promesses fondamentales du Brexit (contrôler les frontières du pays) sont limitées. Les médias britanniques évoquent d’hypothétiques autres partenariats de sous-traitance avec la Turquie, l’Egypte ou l’Irak.
    Londres peut aussi compter sur l’accord avec Paris : en mars, les Britanniques se sont engagés à verser 500 millions de livres sterling (572,5 millions d’euros) supplémentaires sur trois ans à la France pour stopper les traversées de la Manche en « small boats ». Et Downing Street a signé quelques accords bilatéraux de retours des réfugiés, avec l’Albanie notamment. Mais aucune de ces solutions n’est suffisamment dissuasive. Et le Brexit handicape le Royaume-Uni : en quittant l’Union européenne, il s’est privé de la possibilité d’invoquer le règlement de Dublin, qui permet de renvoyer vers un autre pays européen des personnes y ayant déjà formulé une demande d’asile. La décision de la Cour suprême risque, enfin, d’accentuer les divisions au sein du Parti conservateur, ses élus les plus radicaux, dont Suella Braverman, réclamant la sortie de la Convention européenne des droits de l’homme (CEDH), qui neutraliserait, selon eux, les recours judiciaires contre le « partenariat Rwanda ». Ils ne tiennent cependant pas compte du fait que le Royaume-Uni est un des premiers pays signataires de la CEDH, et que cette dernière sert de base légale au traité de paix du Vendredi saint, signé en 1998 en Irlande du Nord… Jusqu’à présent, Rishi Sunak s’est opposé à son abandon. Les juges de la Cour suprême ont d’ailleurs souligné, mercredi, que dénoncer la Convention ne suffirait pas à infléchir leur décision, qui a aussi été prise en application des principes défendus par l’ONU et des lois britanniques (notamment le Human Rights Act de 1998).

    #Covid-19#migrant#migration#grandebretagne#rwanda#france#CEDH#UNHCR#ONU#asile#droit#accordbilateraux#refoulement#politiquemigratoire#brexit

  • Supreme court rejects Rishi Sunak’s plan to send asylum seekers to #Rwanda

    Judges uphold appeal court ruling over risk to deported refugees and deals blow to PM’s ‘stop the boats’ strategy

    Rishi Sunak’s key immigration policy has been dealt a blow after the UK’s highest court rejected the government’s plans to deport people seeking asylum to Rwanda.

    Five judges at the supreme court unanimously upheld an appeal court ruling that found there was a real risk of deported refugees having their claims in the east African country wrongly assessed or being returned to their country of origin to face persecution.

    The ruling undermines one of the prime minister’s key pledges: to “stop the boats”. The government claimed that the £140m Rwanda scheme would be a key deterrent for growing numbers of asylum seekers reaching the UK via small boats travelling across the Channel, a claim that refugee charities have rejected.

    Reading out the judgment, Lord Reed, the president of the supreme court, said the judges agreed unanimously with the court of appeal ruling that there was a real risk of claims being wrongly determined in Rwanda, resulting in asylum seekers being wrongly returned to their country of origin.

    He pointed to crucial evidence from the United Nations’ refugee agency, the UNHCR, which highlighted the failure of a similar deportation agreement between Israel and Rwanda.

    The ruling came the day after the sacked home secretary, Suella Braverman, released an incendiary letter accusing the prime minister of breaking an agreement to insert clauses into UK law that would have “blocked off” legal challenges under the European convention on human rights (ECHR) and the Human Rights Act.

    Braverman said Sunak had no “credible plan B” and added: “If we lose in the supreme court, an outcome that I have consistently argued we must be prepared for, you will have wasted a year and an act of parliament, only to arrive back at square one.”

    A meeting of hard-right Conservative MPs on Wednesday morning to consider the judgment was expected to back calls to leave the ECHR.

    Sir John Hayes, a close ally of Braverman, said on Tuesday that in the event of losing, ministers should table a narrow piece of legislation to enact the Rwanda plan before Christmas, and later include withdrawing from the ECHR in the Tory election manifesto.

    Reacting to the ruling, Sunak said the government would consider its next steps and claimed there was a “plan B”, despite Braverman’s criticisms.

    He said: “This was not the outcome we wanted, but we have spent the last few months planning for all eventualities and we remain completely committed to stopping the boats.

    “Crucially, the supreme court – like the court of appeal and the high court before it – has confirmed that the principle of sending illegal migrants to a safe third country for processing is lawful.”

    The home secretary, James Cleverly, said: “Our partnership with Rwanda, while bold and ambitious, is just one part of a vehicle of measures to stop the boats and tackle illegal migration.

    “But clearly there is an appetite for this concept. Across Europe, illegal migration is increasing and governments are following our lead: Italy, Germany and Austria are all exploring models similar to our partnership with Rwanda.”

    The judgment will raise serious questions about expenditure on the scheme. More than £140m has already been paid to the Rwandan government. The government has refused to disclose a further breakdown of costs on the scheme and on legal fees.

    A spokesperson for the Rwandan government said: “The money has been already allocated to a number of government projects.”

    Reed said the legal test in the case was whether there were substantial grounds for believing that asylum seekers sent to Rwanda would be at real risk of being sent back to the countries they came from, where they could face ill treatment.

    “In the light of the evidence which I have summarised, the court of appeal concluded that there were such grounds. We are unanimously of the view that they were entitled to reach that conclusion. Indeed, having been taken through the evidence ourselves, we agree with their conclusion,” he said.

    Enver Solomon, the chief executive of the Refugee Council, said it was a victory for men, women and children who simply wanted to be safe.

    He said: “The plan goes against who we are as a country that stands up for those less fortunate than us and for the values of compassion, fairness and humanity. The government should be focusing on creating a functioning asylum system that allows people who seek safety in the UK a fair hearing on our soil and provides safe routes so they don’t have to take dangerous journeys.”

    Toufique Hossain of Duncan Lewis solicitors, one of the lawyers representing asylum seekers who brought the legal challenge, said: “This is a victory for our brave clients who stood up to an inhumane policy. It is also a victory for the rule of law itself and the separation of powers, despite the noise. It is a timely reminder that governments must operate within the law. We hope that now our clients are able to dream of a better, safer future.”

    Sonya Sceats, the chief executive of Freedom from Torture, said: “This is a victory for reason and compassion. We are delighted that the supreme court has affirmed what caring people already knew: the UK government’s ‘cash for humans’ deal with Rwanda is not only deeply immoral, but it also flies in the face of the laws of this country.

    “The stakes of this case could not have been higher. Every day in our therapy rooms we see the terror that this scheme has inflicted on survivors of torture who have come to the UK seeking sanctuary.”

    Steve Smith, the chief executive of the refugee charity Care4Calais, a claimant in the initial legal challenge, said the judgment was “a victory for humanity”.

    He added: “This grubby, cash-for-people deal was always cruel and immoral but, most importantly, it is unlawful. Hundreds of millions of pounds have been spent on this cruel policy, and the only receipts the government has are the pain and torment inflicted on the thousands of survivors of war, torture and modern slavery they have targeted with it.

    “Today’s judgment should bring this shameful mark on the UK’s history to a close. Never again should our government seek to shirk our country’s responsibility to offer sanctuary to those caught up in horrors around the world.”

    Care4Calais continues to support claimants in the case.

    https://www.theguardian.com/uk-news/2023/nov/15/supreme-court-rejects-rishi-sunak-plan-to-deport-asylum-seekers-to-rwan

    #justice #cour_suprême #asile #migrtions #réfugiés #externalisation #UK

    –-

    ajouté à cette métaliste sur la mise en place de l’#externalisation des #procédures_d'asile au #Rwanda par l’#Angleterre
    https://seenthis.net/messages/966443

    • Supreme Court rules Rwanda asylum policy unlawful

      The government’s Rwanda asylum policy, which it says is needed to tackle small boats, is in disarray, after the UK’s highest court ruled it is unlawful.

      The Supreme Court upheld a Court of Appeal ruling, which said the policy leaves people sent to Rwanda open to human rights breaches.

      It means the policy cannot be implemented in its current form.

      Rishi Sunak said the government would work on a new treaty with Rwanda and said he was prepared to change UK laws.

      The controversial plan to fly asylum seekers to Rwanda and ban them from returning to the UK has been subject to legal challenges since it was first announced by Boris Johnson in April 2022.

      The government has already spent £140m on the scheme but flights were prevented from taking off in June last year after the Court of Appeal ruled the approach was unlawful due to a lack of human rights safeguards.

      Now that the UK’s most senior court has agreed, the policy’s chances of being realised without major revisions are effectively ended.

      But Mr Sunak told MPs at Prime Minister’s Questions that he was ready to finalise a formal treaty with Rwanda and would be “prepared to revisit our domestic legal frameworks” in a bid to revive the plan.

      A treaty - which Downing Street has said it will publish in the “coming days” - would upgrade the agreement between the UK and Rwanda from its current status as a “memorandum of understanding”, which the government believes would put the arrangement on a stronger legal footing.

      The new text would provide the necessary “reassurances” the Supreme Court has asked for, the prime minister’s official spokesman said.

      LIVE: Reaction to Supreme Court Rwanda ruling
      Chris Mason: Ruling leaves Rwanda policy in tatters
      How many people cross the Channel in small boats?
      What was the UK’s plan to send asylum seekers to Rwanda?

      Ministers have been forced to reconsider their flagship immigration policy after 10 claimants in the Supreme Court case argued that ministers had ignored clear evidence that Rwanda’s asylum system was unfair and arbitrary.

      The legal case against the policy hinges on the principle of “non-refoulement” - that a person seeking asylum should not be returned to their country of origin if doing so would put them at risk of harm - which is established under both UK and international human rights law.

      In a unanimous decision, the court’s five justices agreed with the Court of Appeal that there had not been a proper assessment of whether Rwanda was safe.

      The judgement does not ban sending migrants to another country, but it leaves the Rwanda scheme in tatters - and it is not clear which other nations are prepared to do a similar deal with the UK.

      The Supreme Court justices said there were “substantial grounds” to believe people deported to Rwanda could then be sent, by the Rwandan government, to places where they would be unsafe.

      It said the Rwandan government had entered into the agreement in “good faith” but the evidence cast doubt on its “practical ability to fulfil its assurances, at least in the short term”, to fix “deficiencies” in its asylum system and see through “the scale of the changes in procedure, understanding and culture which are required”.

      A spokesman for the Rwandan government said the policy’s legality was “ultimately a decision for the UK’s judicial system”, but added “we do take issue with the ruling that Rwanda is not a safe third country”.

      It leaves Mr Sunak - who has made tackling illegal immigration a central focus his government - looking for a way to salvage the policy.

      In a statement issued after the ruling, the prime minister said the government had been “planning for all eventualities and we remain completely committed to stopping the boats”.

      He continued: “Crucially, the Supreme Court - like the Court of Appeal and the High Court before it - has confirmed that the principle of sending illegal migrants to a safe third country for processing is lawful. This confirms the government’s clear view from the outset.”

      Mr Sunak is expected to hold a televised press conference in Downing Street at 16:45 GMT on Wednesday.

      The Supreme Court decision comes amid the political fallout from the sacking of Suella Braverman on Monday, who, as home secretary had championed the Rwanda policy.

      In a highly critical letter, published after her sacking and the day before the ruling, she said the prime minister had “failed to prepare any sort of credible Plan B” in the event the Supreme Court halts the policy.

      Newly appointed Home Secretary James Cleverly told the Commons on Wednesday the government had been “working on a plan to provide the certainty that the court demands” for “the last few months”.

      He said upgrading the agreement to a treaty “will make it absolutely clear to our courts and to Strasbourg that the risks laid out by the court today have been responded to, will be consistent with international law”.

      Lee Anderson MP, the deputy chairman of the Conservative Party, urged the government to ignore the Supreme Court and “put planes in the air” anyway.

      Natalie Elphicke, Conservative MP for Dover, the landing point for many of the small boats, said the Rwanda policy is “at an end” and “we now need to move forward”.

      “With winter coming the timing of this decision couldn’t be worse. Be in no doubt, this will embolden the people smugglers and put more lives at risk,” she continued.

      But charity Asylum Aid said the government must “abandon the idea of forcibly removing people seeking asylum to third countries”, describing the policy as “cruel and ineffective”.

      More than 100,000 people have arrived in the UK via illegal crossings since 2018, though the number appears to be falling this year.

      In 2022, 45,000 people reached the UK in small boats. The total is on course to be lower for 2023, with the total for the year so far below 28,000 as of November 12.

      https://www.bbc.com/news/uk-67423745

    • Supreme court rules Rwanda plan unlawful: a legal expert explains the judgment, and what happens next

      The UK supreme court has unanimously ruled that the government’s plan to send asylum seekers to Rwanda is unlawful.

      Upholding an earlier decision by the court of appeal, the supreme court found that asylum seekers sent to Rwanda may be at risk of refoulement – being sent back to a country where they may be persecuted, tortured or killed.

      The courts cited extensive evidence from the UN refugee agency (UNHCR) that Rwanda does not respect the principle of non-refoulement – a legal obligation. The UNHCR’s evidence questioned the ability of Rwandan authorities to fairly assess asylum claims. It also raised concerns about human rights violations by Rwandan authorities, including not respecting non-refoulement with other asylum seekers.

      It is important to note that the supreme court’s decision is not a comment on the political viability of the Rwanda plan, or on the concept of offshoring asylum processes generally. The ruling focused only on the legal principle of non-refoulement, and determined that in this respect, Rwanda is not a “safe third country” to send asylum seekers.

      The ruling is another blow to the government’s promise to “stop the boats”. And since the Rwanda plan is at the heart of its new Illegal Migration Act, the government will need to reconsider its asylum policies. This is further complicated by Conservative party infighting and the firing of home secretary Suella Braverman, just two days before the ruling.
      How did we get here?

      For years, the UK government has been seeking to reduce small boat arrivals to the UK. In April 2022, the UK and Rwanda signed an agreement making it possible for the UK to deport some people seeking asylum in Britain to Rwanda, without their cases being heard in the UK. Instead, they would have their cases decided by Rwandan authorities, to be granted (or rejected) asylum in Rwanda.

      While the Rwanda plan specifically was found to be unlawful, the government could, in theory, replicate this in other countries so long as they are considered “safe” for asylum seekers.

      The government has not yet sent anyone to Rwanda. The first flight was prevented from taking off by the European court of human rights in June 2022, which said that British courts needed to consider all human rights issues before starting deportations.

      A UK high court then decided in December 2022 that the Rwanda plan was lawful.

      Ten asylum seekers from Syria, Iraq, Iran, Vietnam, Sudan and Albania challenged the high court ruling, with the support of the charity Asylum Aid. Their claim was about whether Rwanda meets the legal threshold for being a safe country for asylum seekers.

      The court of appeal said it was not and that asylum seekers risked being sent back to their home countries (where they could face persecution), when in fact they may have a good claim for asylum.

      The government has since passed the Illegal Migration Act. The law now states that all asylum seekers arriving irregularly (for example, in small boats) must be removed to a safe third country. But now that the Rwanda deal has been ruled unlawful, there are no other countries that have said they would take asylum seekers from the UK.

      What happens next?

      It is clear that the government’s asylum policies will need rethinking. Should another country now be designated as a safe country and different arrangements put in place, these will probably be subject to further legal challenges, including in the European court of human rights and in British courts.

      This ruling is likely to revive discussion about the UK leaving the European convention on human rights (ECHR), which holds the UK to the non-refoulement obligation. Some Conservatives, including the former home secretary Suella Braverman, have argued that leaving the convention would make it easier to pass stronger immigration laws.

      But while handing down the supreme court judgment, Lord Reed emphasised that there are obligations towards asylum seekers that go beyond the ECHR. The duty of non-refoulement is part of many other international conventions, and domestic law as well. In other words, exiting the ECHR would not automatically make the Rwanda plan lawful or easier to implement.

      The prime minister, Rishi Sunak, has said that he is working on a new treaty with Rwanda and is prepared to change domestic laws to “do whatever it takes to stop the boats”.

      The UK is not the only country to attempt to off-shore asylum processing. Germany and Italy have recently been considering finding new safe third countries to accept asylum seekers as well.

      But ensuring these measures comply with human rights obligations is complicated. International law requires states to provide sanctuary to those fleeing persecution or risk to their lives. As this ruling shows, the UK is not going to find an easy way out of these obligations.

      https://theconversation.com/supreme-court-rules-rwanda-plan-unlawful-a-legal-expert-explains-th

    • La décision:
      R (on the application of AAA and others) (Respondents/Cross Appellants) v Secretary of State for the Home Department (Appellant/Cross Respondent)

      Case ID: #2023/0093
      Case summary
      Issues

      The Supreme Court is asked to decide the following legal questions:

      Did the Divisional Court apply the wrong test when determining whether removal to Rwanda would breach article 3?
      If the Divisional Court applied the right test, was the Court of Appeal entitled to interfere with its conclusion that Rwanda was a safe third country?
      If the Divisional Court applied the wrong test or there was another basis for interfering with its conclusion, was the Court of Appeal right to conclude that Rwanda was not a safe third country because asylum seekers would face a real risk of refoulement?
      Did the Home Secretary fail to discharge her procedural obligation under article 3 to undertake a thorough examination of Rwanda’s asylum procedures to determine whether they adequately protect asylum seekers against the risk of refoulement?
      Were there substantial grounds for believing that asylum seekers sent to Rwanda will face a real risk of treatment contrary to article 3 in Rwanda itself, in addition to the risk of refoulement?
      Does the Asylum Procedures Directive continue to have effect as retained EU law? This is relevant because the Directive only permits asylum seekers to be removed to a safe third country if they have some connection to it. None of the claimants has any connection to Rwanda.

      Facts

      These appeals arise out of claims brought by individual asylum seekers ("the claimants") who travelled to the UK in small boats (or, in one case, by lorry). The Home Secretary declared the claimants’ claims for asylum to be inadmissible, intending that they should be removed to Rwanda where their asylum claims would be decided by the Rwandan authorities. Her decisions were made in accordance with the Migration and Economic Development Partnership ("MEDP") between the UK and Rwanda, recorded in a Memorandum of Understanding and a series of diplomatic “Notes Verbales”.

      Under paragraphs 345A to 345D of the Immigration Rules, if the Home Secretary decides that an asylum claim is inadmissible, she is permitted to remove the person who has made the claim to any safe third country that agrees to accept the asylum claimant. On the basis of the arrangements made in the MEDP, the Home Secretary decided that Rwanda was a safe third country for these purposes. This is “the Rwanda policy”.

      The claimants (and other affected asylum seekers) challenged both the lawfulness of the Rwanda policy generally, and the Home Secretary’s decisions to remove each claimant to Rwanda. The Divisional Court held that the Rwanda policy was, in principle, lawful. However, the way in which the Home Secretary had implemented the policy in the claimants’ individual cases was procedurally flawed. Accordingly, her decisions in those cases would be quashed and remitted to her for reconsideration.

      The appeal to the Court of Appeal concerned only the challenges to the lawfulness of the Rwanda policy generally. By a majority, the Court allowed the claimants’ appeal on the ground that the deficiencies in the asylum system in Rwanda were such that there were substantial reasons for believing that there is a real risk of refoulement. That is, a real risk that persons sent to Rwanda would be returned to their home countries where they face persecution or other inhumane treatment, when, in fact, they have a good claim for asylum. In that sense Rwanda was not a safe third country. Accordingly, unless and until the deficiencies in its asylum processes are corrected, removal of asylum seekers to Rwanda will be unlawful under section 6 of the Human Rights Act 1998. This is because it would breach article 3 of the European Convention on Human Rights, which prohibits torture and inhuman or degrading treatment. The Court of Appeal unanimously rejected the claimants’ other grounds of appeal.

      The Home Secretary now appeals to the Supreme Court on issues (1) to (3) below. AAA (Syria) and others and HTN (Vietnam) cross appeal on issues (4) and (5). AS (Iran) also cross appeals on issue (4). ASM (Iraq) appeals on issue (6).

      https://www.supremecourt.uk/cases/uksc-2023-0093.html

    • Alasdair Mackenzie sur X:

      Here’s my take on the Rwanda judgment in the Supreme Court today.

      It’s a longish one, but tl;dr: it’s a disaster for the Home Office and also for the Rwandans, & surely leaves the idea of outsourcing refugee protection to other countries in tatters, perhaps permanently sunk 1/
      First up, it’s extremely interesting that the Supreme Court was keen to dispel the idea that the problem with the Rwanda policy is only that it’s contrary to the European Convention on Human Rights 2/
      The SC points out that the principle of non-refoulement (not returning people directly or indirectly to face risks of human rights abuses) is also prohibited by other international conventions & by UK law – a clear attempt to defuse criticism of the ECHR 3/
      (Whether that will stop the usual suspects from calling for the UK to leave the ECHR is of course doubtful, but they’d have said that anyway – indeed Braverman’s letter yesterday seems to have been setting herself up to do so whichever way this judgment went.) 4/
      Second, the Divisional Court (High Court) – the only court to have upheld the Rwanda policy – comes in for sharp criticism.
      It’s said to be unclear that it understood its own function properly, ie to assess risk in Rwanda, not to review the Home Office’s assessment 5/
      The High Court also failed to engage with the evidence before it of “serious and systemic defects in Rwanda’s procedures and institutions for processing asylum claims” 6/
      The High Court also took “a mistaken approach” to a key plank of the govt’s case, ie that it was for the govt itself to assess diplomatic assurances given by Rwanda – in fact it shd’ve been for the Court to do so.
      (The last sentence has a nice little barb towards ministers.) 7/
      The High Court also failed to address crucial evidence, including evidence of how asylum seekers transferred from Israel to Rwanda under an earlier deal had been treated, despite its (you might have thought) obvious implications for how those sent by the UK would fare in Rw 8/
      The High Court is particularly criticised for dealing “dismissively” with the crucial evidence of the UN High Commissioner for Refugees, which was largely uncontradicted and should have been given “particular importance” 9/
      The High Court was of course the court which primarily refused to stop the removals of people on 14 June last year, meaning that people had to apply to the European Court at the last minute. 10/
      So having disposed of the High Ct, the next Q for the Supreme Ct was whether to uphold the Court of Appeal’s decision that the Rwanda policy was unlawful.

      The SC strikingly doesn’t limit itself (as it cdve) to saying the CA’s view was lawful, but strongly agrees with it. 11/
      The SC, again strikingly, dives straight in with this devastating summary of Rwanda’s abject human rights record, including its threats to kill dissidents on the streets of the UK (the point about the first line here is to show that the Home Office knew about this very well) 12/
      The SC summarises numerous problems with Rwanda’s asylum processes (set out in more detail by the Court of Appeal), incl lack of training, “ingrained scepticism” towards some groups, lack of understanding of the Refugee Convention, lack of judicial independence etc 13/
      Why, you might ask by now, didn’t the Home Office know all this? Well, they shdve done, but it seems officials, under pressure (implicitly from ministers) did inadequate & one-sided research into Rwandan asylum processes, something which ultimately undermined the whole policy 14/
      The HO’s fallback argument was basically: “well, even if the Rwandan system is a mess, people won’t be going anywhere anyway”. The SC is as contemptuous as can be of this (to translate for non-legal folk, “somewhat surprising” is as dismissive as it gets) 15/
      Now we move to the Israel-Rwanda deal, a catastrophe for Rwanda’s credibility & thus for the HO case – and ofc a total disaster for those affected, who were routinely secretly expelled from Rwanda (some were also left without documents, effectively forced out, trafficked etc) 16/
      The HO, again, knew about this but wasn’t deflected from potentially repeating the same mistakes: its lame answer was that the Israel-Rw deal wasn’t even relevant bc the UK-Rw one was new. You might think that was also a “surprising” submission and so, it seems, did the SC 17/
      However sadly – if only because it would’ve been what we lawyers call “the ultimate banter outcome” – the Rwanda scheme is found not to be contrary to retained EU law [aspects of EU law which remain part of UK law], bc in fact the relevant provisions were abolished in 2020 18/
      It’s important to note that the SC doesn’t rule out that the Rwandan system could be improved, & it hasn’t found that the idea of a scheme like this is prohibited (it wasn’t asked to decide that). 19/
      But what are the prospects of that happening? The Court of Appeal previously pointed to a real need for thorough culture change in the Rwandan civil service & judiciary, & to an absence of any sort of roadmap for achieving it (in a state ofc uninterested in the rule of law). 20/
      For all the govt’s attempts to put a brave face on it & claim it’ll upgrade the Rwandan system, personally I don’t think flights will go soon, if ever (NB the idea that it would make a difference if there was a treaty w Rwanda is pie in the sky imho) 21/
      And whilst this decision is a disaster for Patel, Braverman, Johnson & Sunak & all else who supported the policy, it’s surely a catastrophe for Rwanda, whose record has been pored over in detail in the most public way. (I’ve never understood why they didn’t predict that.) 22/
      For the same reason I can’t personally see any other state wanting to line up to replace Rwanda, whatever ££ incentives are offered (and remember we still don’t know the full extent of these in respect of Rwanda). 23/
      Any attempt to amend or replicate this policy will almost certainly be scrutinised with great care & intensity by the courts, inspired by the example of the Court of Appeal and Supreme Court in this case.

      The government will not get an easy ride. 24/
      At the heart of this of course have been the asylum seekers left in a state of fear & anxiety by this appalling policy – principally those like our client who were actually on the June 2022 flight until the last minute – but also others directly or indirectly affected. 25/
      Let this, please, be a turning point in how we treat refugees, and the catalyst for working towards humane, non-racist immigration policies more broadly.

      Refugees welcome here, always. 26/
      Finally, tributes: the team at @Refugees
      – UNHCR – put together compelling evidence about Rwanda which formed the basis for this outcome. Its legal team presented that evidence with awesome clarity & force. 27/
      The legal team for the lead group of claimants (AAA etc) have been outstanding and although it’s invidious to single out anyone, I’m going to anyway, as no praise can be too high for the skill, dedication & humanity of the leading counsel for the AAA team, @RazaHusainQC 28/
      I was privileged to play a small part in this case, representing one of the co-claimants, “RM”, instructed by Daniel Merriman & Tim Davies of Wilsons LLP, alongside David Sellwood & Rosa Polaschek, led initially by Richard Drabble KC & in the SC by Phillippa Kaufmann KC 29/

      https://twitter.com/AlasdairMack66/status/1724776723160748310

    • La Cour suprême britannique juge illégal de renvoyer des demandeurs d’asile au Rwanda

      La Cour suprême britannique a confirmé mercredi 15 novembre l’illégalité du projet hautement controversé du gouvernement d’expulser vers le Rwanda les demandeurs d’asile, d’où qu’ils viennent, arrivés illégalement sur le sol britannique.

      Les hauts magistrats ont ainsi rejeté l’appel du gouvernement du Premier ministre Rishi Sunak et jugé que c’est à juste titre que la cour d’appel avait conclu que le Rwanda ne pouvait être considéré comme un pays tiers sûr.

      Le projet avait été rejeté par une cour d’appel britannique en juin dernier.

      La Cour suprême a rendu son jugement à l’unanimité.

      Pour justifier leur décision, les juges s’appuient sur le bilan rwandais en matière de droits de l’Homme et de traitement des demandeurs d’asile, rapporte notre correspondante à Londres, Émeline Vin. Selon eux, le Rwanda ne respecte pas ses obligations internationales, il rejette 100 % des demandes d’asile venant de Syriens, de Yéménites ou d’Afghans - qui fuient des zones de conflit.

      Ils reprochent aussi au pays de renvoyer des demandeurs voire des réfugiés dans leur pays d’origine, une pratique contraire à la Convention des Nations unies.

      Ce partenariat ferait courir des risques aux demandeurs d’asile et enfreint les lois britanniques.

      Cette décision est un coup dur pour le Premier ministre Rishi Sunak, qui doit faire face aux pressions de son parti conservateur et d’une partie de l’opinion publique sur la question de l’immigration, à moins d’un an des prochaines élections législatives.

      Même s’il avait hérité le projet de ses prédécesseurs, Rishi Sunak en avait fait le pilier de sa promesse de faire baisser l’immigration. Le gouvernement fraîchement remanié n’a pas encore dévoilé son « plan B » ; des sources ministérielles rejettent la possibilité de quitter la Convention européenne des droits de l’Homme.
      Kigali « conteste » la décision, Londres affiche vouloir poursuivre le projet

      Malgré ce revers juridique, Londres a affiché sa volonté de poursuivre le projet en question. Devant les députés, Rishi Sunak a indiqué que son gouvernement travaillait déjà à un « nouveau traité » avec Kigali. « S’il apparaît clairement que nos cadres juridiques nationaux ou nos conventions internationales continuent de nous entraver, je suis prêt à modifier nos lois et à réexaminer ces relations internationales », a-t-il ajouté, alors que certains élus de sa majorité réclament un retrait de la Cour européenne des droits de l’Homme (CEDH).

      Après l’annonce, Kigali aussi a immédiatement annoncé « contester » la décision juridique. « Nous contestons la décision selon laquelle le Rwanda n’est pas un pays tiers sûr pour les demandeurs d’asile et les réfugiés », a déclaré la porte-parole de la présidence rwandaise Yolande Makolo.

      Lors d’un entretien téléphonique, le Premier ministre britannique Rishi Sunak et le président rwandais Paul Kagame « ont réitéré leur ferme engagement à faire fonctionner (leur) partenariat en matière d’immigration et ont convenu de prendre les mesures nécessaires pour s’assurer que cette politique soit solide et légale », a indiqué Downing Street dans un communiqué.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20231115-la-cour-supr%C3%AAme-britannique-juge-ill%C3%A9gal-de-renvoyer-des-dema

    • Devant les députés, Rishi Sunak a indiqué que son gouvernement travaillait déjà à un « nouveau traité » avec Kigali. « S’il apparaît clairement que nos cadres juridiques nationaux ou nos conventions internationales continuent de nous entraver, je suis prêt à modifier nos lois et à réexaminer ces relations internationales », a-t-il ajouté, alors que certains élus de sa majorité réclament un retrait de la Cour européenne des droits de l’Homme (#CEDH).

      Darmanin, fais gaffe ! il est possible que les anglais tirent les premiers.
      Et, cela se lit le jour où l’on apprend que « Une directive en préparation sur les violences faites aux femmes prévoit de caractériser le viol par l’absence de consentement. L’objectif est de faire converger les législations européennes. Plusieurs Etats, dont la France, s’y opposent. »
      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/15/emmanuel-macron-refuse-que-bruxelles-intervienne-dans-la-definition-du-viol_

      souveraineté en crise, chauvinisme en essor.

    • Envoyer les demandeurs d’asile au Rwanda ? La Cour suprême du Royaume-Uni dit non

      Dans une décision rendue mercredi 15 novembre, la plus haute juridiction britannique s’est prononcée sur le projet du gouvernement visant à expédier les migrants au Rwanda le temps de l’examen de leur demande de protection. Il n’en sera pas question pour l’instant.

      La décision était très attendue. Voilà près de deux ans que le Royaume-Uni avait signé un accord – informel – avec le Rwanda pour y expédier ses demandeurs et demandeuses d’asile, dans un contexte où les arrivées de migrant·es par la Manche atteignaient des niveaux records

      La nouvelle s’inscrivait dans un contexte de surenchère politique nauséabonde s’agissant de l’immigration, après que le gouvernement eut envisagé les pires scénarios possible pour repousser les exilé·es en mer et les empêcher d’atteindre les côtes anglaises.

      Mercredi 15 novembre, la Cour suprême s’est enfin prononcée, plusieurs mois après avoir été saisie. Cinq juges ont estimé, à l’unanimité, que le risque d’envoyer des demandeurs et demandeuses d’asile au Rwanda était trop grand : non seulement cela pourrait créer des inégalités de traitement dans les requêtes formulées par les exilé·es, mais ces personnes pourraient être renvoyées dans leur pays d’origine en cas de rejet de leur demande, alors même qu’elles pourraient y encourir un danger.

      Une pratique qui violerait le principe de « non-refoulement », qui interdit aux États d’expulser, « de quelque manière que ce soit », un·e réfugié·e « sur les frontières des territoires où sa vie ou sa liberté seraient menacées en raison de sa race, de sa religion, de sa nationalité, de son appartenance à un certain groupe social ou de ses opinions politiques ».

      Dans sa prise de parole, le président de la Cour suprême a rappelé l’importance de la Convention de Genève relative aux réfugié·es, dont le Royaume-Uni est signataire, de même que la Convention européenne des droits de l’homme et le droit international de manière générale, qui interdit de renvoyer des personnes en quête de protection dans leur pays d’origine sans qu’un examen sérieux de leur demande n’ait été réalisé au préalable.

      Le juge, Robert Reed, a également pris soin de souligner qu’il ne s’agissait pas d’une « décision politique » mais bien d’une question de droit, relevant de ce qui est légal ou non.
      Un risque trop grand pour les réfugié·es

      « Nous avons conclu qu’il existait des raisons sérieuses de croire qu’un risque réel de refoulement existait. Un changement est nécessaire pour éliminer ce risque, mais il n’a pas été démontré qu’il était en place actuellement », a-t-il justifié, rappelant les violations de droits humains régulièrement dénoncées au Rwanda, ainsi que les effets concrets déjà observés à l’occasion d’un autre accord similaire, signé entre le Rwanda et Israël, ayant mené à des refoulements réguliers de personnes exilées.

      « Si le Rwanda ne dispose pas d’un système adéquat pour traiter les demandes d’asile, les véritables réfugiés pourraient être renvoyés dans leur pays d’origine. En d’autres termes, ils feraient l’objet d’un refoulement », a complété le juge dans son propos.

      La requête du ministère de l’intérieur, qui contestait une décision antérieure de la cour d’appel, a ainsi été rejetée. Récemment, une grande campagne de communication lancée par le premier ministre Rishi Sunak ambitionnait d’« arrêter les bateaux » (stop the boats, en anglais), en s’appuyant notamment sur ce projet d’accord avec le Rwanda, qui devait avoir un effet « dissuasif » pour les personnes migrantes aspirant à rejoindre le Royaume-Uni.

      « J’ai promis de réformer non pas seulement notre système d’asile mais aussi nos lois. Nous avons donc introduit une législation sans précédent pour faire en sorte que les personnes arrivant illégalement soient placées en détention et expulsées en quelques semaines, soit vers le pays d’origine, soit vers un pays tiers sûr comme le Rwanda », avait déclaré le premier ministre lors d’un point organisé le 5 juin.

      La décision de la Cour suprême représente donc un sérieux camouflet pour le gouvernement britannique dans ce contexte, à l’heure où celui-ci faisait de la sous-traitance de l’asile une solution miracle.

      Mercredi, Rishi Sunak n’a pas tardé à réagir sur les réseaux sociaux, rappelant que lorsqu’il avait promis d’arrêter les bateaux, il « le pensait sérieusement ». « Il faut mettre fin à ce manège. Nous travaillons sur un nouveau traité international avec le Rwanda et nous le ratifierons sans tarder. Nous fournirons une garantie légale que ceux qui seront relocalisés vers le Rwanda seront protégés d’une éventuelle expulsion », a-t-il réaffirmé.

      En juin dernier, le premier ministre vantait également la possibilité de placer les demandeurs et demandeuses d’asile sur une barge, surnommée le « Bibby Stockholm » et installée dans le port de Portland, dans le sud de l’Angleterre. Celle-ci devait permettre, selon le gouvernement, de réaliser des économies en cessant d’héberger les demandeurs et demandeuses d’asile à l’hôtel : elle a finalement fait polémique.

      À peine installé·es à bord, les occupant·es ont alerté sur les conditions d’hygiène avant d’être évacué·es à la suite de la découverte d’une bactérie sur place. Le 26 octobre, un jeune Nigérian a tenté de mettre fin à ses jours lorsqu’il a appris qu’il serait transféré sur cette barge. Selon le quotidien The Guardian, deux décès « récents » s’apparentant à des suicides ont été répertoriés dans les hôtels hébergeant des exilé·es au Royaume-Uni cette année.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/161123/envoyer-les-demandeurs-d-asile-au-rwanda-la-cour-supreme-du-royaume-uni-di

    • La Corte Suprema del Regno Unito giudica illegale l’accordo con il Ruanda

      Il Ruanda non è un paese sicuro dove trasferire i richiedenti asilo

      Mercoledì 15 novembre la più alta Corte del Regno Unito ha bloccato almeno per un periodo la volontà politica del governo di deportare i richiedenti asilo in paesi dell’Africa o in paesi extra Ue che non possono garantire per diversi motivi le tutele previste dal diritto internazionale.

      La Corte ha infatti stabilito che il Ruanda non è un Paese terzo sicuro in cui inviare i richiedenti asilo. Secondo tutte le organizzazioni che si battono per i diritti dei rifugiati e per i diritti fondamentali si tratta di un’enorme vittoria, un risultato ottenuto anche per merito della mobilitazione diffusa e che proteggerà i diritti di innumerevoli persone giunte nel Regno Unito in cerca di sicurezza e accoglienza.

      L’accordo tra Regno Unito e Ruanda era stato fortemente voluto nell’aprile del 2022 dall’allora primo ministro Boris Johnson (dimessosi poi il 9 giugno 2023 per aver mentito alla Camera dei Comuni in relazione ai festini a Downing street nel corso del lockdown). Nella pomposa conferenza stampa del 14 aprile 2022 l’ex premier disse: «Tutti coloro che raggiungono illegalmente il Regno Unito, così come coloro che sono arrivati illegalmente dal primo gennaio, possono essere trasferiti in Ruanda. […] Ciò significa che i migranti economici che approfittano del sistema d’asilo non potranno rimanere nel Regno Unito, mentre quelli che ne hanno veramente bisogno avranno […] l’opportunità di costruirsi una nuova vita in un paese dinamico».

      Quel giorno il Segretario di Stato per gli Affari Interni e il Ministro Ruandese per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale illustrarono l’accordo di cooperazione in materia di sviluppo economico e migrazioni, utilizzando la solita retorica – tanto cara anche al governo italiano – del contrasto all’immigrazione illegale, della necessità di controllare le frontiere e di reprimere le organizzazioni di trafficanti.

      Tuttavia, solo due mesi dopo, il 16 giugno 2022, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) bloccò, insieme alla proteste di diverse organizzazioni, il volo che avrebbe dovuto deportare i primi sette richiedenti asilo verso il paese africano.

      Le motivazioni alla base di quella decisione solo le stesse riprese mercoledì dalla Corte Suprema e prima ancora dalla Corte di Appello: ci sono motivi sostanziali per ritenere che i richiedenti asilo deportati in Ruanda corrano il rischio reale di essere rimpatriati nel loro Paese d’origine dove potrebbero subire trattamenti inumani e degradanti. Ciò porterebbe il Regno Unito a violare gli obblighi di non respingimento (non-refoulement) previsti dal diritto internazionale e nazionale.

      Emilie McDonnell di Human Rights Watch spiega che «la Corte Suprema ha richiamato l’attenzione sulla pessima situazione del Ruanda in materia di diritti umani, tra cui le minacce ai ruandesi che vivono nel Regno Unito, oltre alle esecuzioni extragiudiziali, alle morti in custodia, alle sparizioni forzate, alla tortura e alle restrizioni ai media e alle libertà politiche».

      L’esperta di diritti umani e diritto internazionale ricorda che nel 2022 Human Rights Watch scrisse al Ministro degli Interni del Regno Unito, chiarendo che il Ruanda non poteva essere considerato un Paese terzo sicuro, date le continue violazioni dei diritti umani. «L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha fornito prove schiaccianti dei problemi sistemici del sistema di asilo ruandese, della potenziale mancanza di indipendenza della magistratura e degli avvocati e del tasso di rifiuto del 100% per le persone provenienti da zone di conflitto, in particolare Afghanistan, Siria e Yemen, probabili Paesi di origine dei richiedenti asilo trasferiti dal Regno Unito. L’UNHCR ha inoltre presentato almeno 100 accuse di respingimento, una pratica che è continuata anche dopo la conclusione dell’accordo con il Regno Unito».

      La linea del governo inglese è stata bocciata in tutto e per tutto dalla Corte Suprema, anche nella parte relativa al monitoraggio dell’accordo: il tribunale ha dichiarato che “le intenzioni e le aspirazioni non corrispondono necessariamente alla realtà“.

      «La Corte ha ritenuto che il Ruanda non abbia la capacità pratica di determinare correttamente le richieste di asilo e di proteggere le persone dal respingimento», aggiunge Emilie McDonnell. «Questo dovrebbe essere un monito per gli altri governi che stanno pensando di esternalizzare e spostare le proprie responsabilità in materia di asilo su altri Paesi».

      Di sicuro questa sentenza metterà in difficoltà anche il governo austriaco che sta pensando di stringere un accordo simile con il Ruanda, ma anche lo stesso governo italiano che circa 10 giorni fa ha stipulato un protocollo illegale e disumano con l’Albania.

      https://www.meltingpot.org/2023/11/la-corte-suprema-del-regno-unito-giudica-illegale-laccordo-con-il-ruanda

    • L’asilo è un diritto, la Gran Bretagna deve rispettarlo: è un dovere

      La sua spregiudicata strategia di esternalizzazione ha subito un duro colpo ma molte questioni restano aperte. A partire dal tentativo del Regno Unito di disfarsi di ogni responsabilità sui rifugiati

      Con sentenza del 15 novembre 2023 la Corte Suprema del Regno Unito ha confermato “la conclusione della Corte d’Appello secondo cui la politica sul Ruanda è illegittima. Ciò in quanto ci sono motivi sostanziali per ritenere che i richiedenti asilo affronterebbero un rischio reale di maltrattamenti a causa del respingimento nel loro Paese d’origine se fossero trasferiti in Ruanda” afferma la Corte.

      Il Memorandum siglato tra il Regno Unito e il Ruanda il 6 aprile 2022 prevedeva che le domande di asilo presentate da chi arriva in modo irregolare nel Regno Unito, specie se attraverso il canale della Manica, sarebbero state tutte dichiarate inammissibili.

      Nel Memorandum si conveniva infatti di dare avvio ad un «meccanismo per la ricollocazione dei richiedenti asilo le cui richieste non sono state prese in considerazione dal Regno Unito, in Ruanda, che esaminerà le loro richieste e sistemerà o espellerà (a seconda dei casi) le persone dopo che la loro richiesta è stata decisa, in conformità con il diritto interno ruandese».

      Subito dopo si precisava altresì che «gli impegni indicati in questo Memorandum sono presi tra il Regno Unito e il Ruanda e viceversa e non creano o conferiscono alcun diritto a nessun individuo, né il rispetto di questo accordo può essere oggetto di ricorso in qualsiasi tribunale da parte di terzi o individui».

      Sarebbe stato il Regno Unito a determinare «i tempi di una richiesta di ricollocamento (in inglese il termine usato è relocation n.d.r.) di individui in base a questi accordi e il numero di richieste di ricollocazione da inoltrare» al Ruanda il quale sarebbe divenuto il solo Paese responsabile ad occuparsi della sorte dei richiedenti anche se con esso i richiedenti non hanno alcun legame.

      Anche in caso di accoglimento della loro domanda di asilo, non veniva prevista per i rifugiati alcuna possibilità di rientro verso la Gran Bretagna, nonostante si tratti del Paese al quale inizialmente avevano chiesto asilo. Nel valutare come illegale il Memorandum tra UK e il Ruanda, l’U.N.H.C.R. (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) aveva sottolineato come “Gli accordi di trasferimento non sarebbero appropriati se rappresentassero un tentativo, in tutto o in parte, da parte di uno Stato parte della Convenzione del 1951 di liberarsi dalle proprie responsabilità”.

      Le sole inquietanti parole del Memorandum laddove precisa che le misure adottate “non creano o conferiscono alcun diritto a nessun individuo” sono sufficienti a far comprendere il livello di estremismo politico che caratterizzava il Memorandum nel quale l’individuo veniva spogliato dei suoi diritti fondamentali e veniva ridotto a mero oggetto passivo del potere esecutivo.

      Già la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo aveva ritenuto, con misura di urgenza (caso N.S.K. v. Regno Unito del 14.06.22) di bloccare tutte le operazioni di trasferimento coatto dal Regno Unito al Ruanda per due principali ragioni: la prima è che il Ruanda non è in grado di garantire una effettiva applicazione della Convenzione di Ginevra e che quindi detto rinvio violerebbe l’art. 3 della CEDU che prescrive che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

      La seconda ragione riguarda l’impossibilità legale di contestare la decisione di trasferimento coatto verso il Ruanda; come sopra richiamato infatti, non solo non sarebbe stato possibile garantire alcuna effettività al ricorso, ma veniva negato alla radice lo stesso diritto di agire in giudizio.

      Nel rigettare il ricorso presentato dal premier Sunak la Corte Suprema del Regno Unito si è concentrata principalmente su due motivi di ricorso: a) il rischio di violazione del divieto di non respingimento; 2) la violazione del diritto dell’UE in materia di asilo. Sotto quest’ultimo profilo la Corte Suprema ha rigettato il ricorso correttamente evidenziando che, a seguito della Brexit, le disposizioni del diritto dell’Unione “hanno cessato di avere effetto nel diritto interno del Regno Unito quando il periodo di transizione è terminato il 31.12.2020”.

      Tanto il diritto interno che la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali (CEDU), e in particolare l’art. 3, vanno però rispettati, e ad avviso della Corte “ le prove dimostrano che ci sono motivi sostanziali per ritenere che vi sia un rischio reale che le richieste di asilo non vengano esaminate correttamente e che i richiedenti asilo rischino quindi di essere rimpatriati direttamente o indirettamente nel loro Paese d’origine”.

      In un passaggio della sentenza la Corte afferma che “i cambiamenti strutturali e il rafforzamento delle capacità necessarie per eliminare tale rischio (il rischio che i rifugiati subiscano respingimenti illegali in Ruanda ndr) possono essere realizzati in futuro” (paragrafo 105). Tale espressione rinvia a un futuro ipotetico e non rappresenta alcuna apertura di credito verso le scelte del Governo.

      Nonostante ciò il Premier Sunak, per il quale la decisione finale assunta dalla Suprema Corte rappresenta una catastrofe politica, ha cercato di piegare a suo vantaggio tale passaggio della sentenza dichiarando in Parlamento che la Suprema Corte ha chiesto in realtà solo maggiori garanzie sul rispetto dei diritti dei richiedenti asilo in Ruanda e che il governo sta già lavorando a un nuovo trattato con il Ruanda e che esso sarà finalizzato alla luce della sentenza odierna.

      Probabilmente Sunak vende fumo per prendere tempo perché sa bene che i richiesti cambiamenti strutturali non sono realizzabili. Tuttavia la politica del governo inglese, almeno al momento, non sembra avviata verso un serio ripensamento e alcuni osservatori non escludono la possibilità che vengano adottate scelte ancora più estremiste come l’uscita unilaterale del Regno Unito dal Consiglio d’Europa, cessando dunque di essere parte contraente della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (come avvenuto per la Russia nel 2022).

      Uno scenario destinato ad incidere sui diritti dei migranti come su quelli dei cittadini britannici, che può apparire degno di uno scadente romanzo di fantapolitica, ma che in realtà non può essere escluso. Come non mi stancherò mai di ricordare, le violente politiche di esternalizzazione dei confini e l’attacco al diritto d’asilo stanno causando una profonda crisi a quel sistema giuridico di tutela dei diritti umani in Europa che fino a poco tempo fa tutti ritenevano inscalfibile.

      La Corte Suprema ha precisato nella sentenza che “in questo appello, la Corte deve decidere se la politica del Ruanda è legittima”. Rimane dunque irrisolta la più generale e scottante questione della legittimità o meno della politica del Governo inglese, di potersi disfare, completamente e ogni volta che lo desidera, della responsabilità giuridica del Regno Unito di esaminare le domande di asilo che pur vengono presentate sul suo territorio, delegando a tal fine, dietro pagamento, un compiacente paese terzo (sperando di poterne trovare, prima o poi, uno che non presenti gli aspetti critici del Ruanda).

      Si tratta dell’obiettivo generale che sta alla base della recentissima controversa legge approvata dal Parlamento inglese a nel luglio 2023 (Illegal Migration Act), successivamente quindi al Memorandum con il Ruanda, che all’art. 1.1 afferma che “scopo della presente legge è prevenire e scoraggiare la migrazione illegale, in particolare la migrazione per rotte non sicure e illegali, richiedendo la rimozione (“the removal” nel testo originale) dal Regno Unito di alcune persone che entrano o arrivano nel Regno Unito in violazione del controllo dell’immigrazione”.

      In una dichiarazione congiunta resa il 18.07.23 da UNHCR e dall’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani al momento dell’approvazione della legge, entrambe le agenzie delle Nazioni Unite hanno sostenuto che la nuova legge “è in contrasto con gli obblighi del paese ai sensi della legge internazionale sui diritti umani e dei rifugiati (….) la legge estingue l’accesso all’asilo nel Regno Unito per chiunque arrivi irregolarmente, essendo passato attraverso un paese – per quanto brevemente – dove non ha affrontato persecuzioni. Gli impedisce di presentare la protezione dei rifugiati o altre rivendicazioni sui diritti umani, indipendentemente da quanto siano convincenti le loro circostanze. Inoltre, richiede la loro rimozione in un altro paese, senza alcuna garanzia che saranno necessariamente in grado di accedere alla protezione. Crea nuovi poteri di detenzione, con una limitata supervisione giudiziaria”.

      La spregiudicata strategia della esternalizzazione del diritto d’asilo condotta dal governo del Regno Unito ha subito un duro colpo con la cancellazione del Memorandum con il Ruanda, ma moltissimi scenari problematici rimangono ancora aperti.

      Nel frattempo, come messo in luce dalle associazioni inglesi che operano nel campo della protezione dei rifugiati, il sistema inglese d’asilo sta collassando a causa della paralisi amministrativa prodotto dalle continue tentate riforme, e l’arretrato nella definizione delle domande di asilo ha superato i centomila casi pendenti.

      https://www.unita.it/2023/11/17/lasilo-e-un-diritto-la-gran-bretagna-deve-rispettarlo-e-un-dovere

  • Programme de retour volontaire (?) pas si volontaire que ça

    Le #Maroc figure au Top 5 des pays hôtes accueillant les migrants en retour en 2022. Il occupe la 3ème place avec l’assistance de 2457 migrants. Il est devancé par la Libye (11.200) et le Yémen (4.080). La Tunisie et l’Algérie arrivent respectivement en 4ème et 5ème positions avec 1.607 et 1.306 migrants assistés. Le Maroc fait partie également du Top 5 des pays d’origine avec 627 migrants assistés. Le Soudan arrive en tête avec 2.539 migrants assistés, suivi de l’Irak (1907). L’Algérie occupe la 4ème place (627) devant la Tunisie (232), précise un rapport sur le retour et la réintégration, publié récemment par l’OIM.

    Hausse

    En détail, 3.552 migrants (2.097 hommes, 916 femmes, 277 garçons et 262 filles) ont demandé une #assistance au retour volontaire à partir du Maroc vers 26 pays d’origine. Le rapport annuel 2022 sur l’assistance au retour volontaire et à la réintégration (https://morocco.iom.int/sites/g/files/tmzbdl936/files/documents/2023-03/Rapport_Annuel_FR_AVRR_20230310.pdf) précise que « la cadence des retours volontaires en 2022 a augmenté légèrement par rapport à 2021, et a triplé par rapport au nombre de migrants assistés en 2020. Cette hausse est due, principalement, à l’augmentation des fonds disponibles en 2022 pour répondre aux demandes de retour volontaire et au fait de compenser le retard cumulé suite aux restrictions de mobilité décrétées par les autorités compétentes pour endiguer la propagation de la pandémie de Covid-19 ».

    La majorité des migrants ayant bénéficié du retour volontaire étaient de jeunes hommes dont l’âge variait entre 19 et 35 ans et qui sont retournés seuls dans leur pays d’origine. Tandis que le ratio femmes/hommes est resté inchangé depuis 2017 (trois bénéficiaires sur quatre étaient des hommes), en 2022, le programme a connu une augmentation de 7% du nombre de femmes voulant retourner. 61% des migrants interrogés ont déclaré qu’ils sont rentrés en raison du manque de ressources financières, les empêchant de maintenir un niveau de subsistance suffisant au Maroc, tandis que 15% ont déclaré avoir choisi de rentrer car ils n’ont pas pu poursuivre leur parcours migratoire vers leur pays de destination.
    L’année 2022 a enregistré également le retour volontaire de 639 Marocains au pays.

    Sachant que le nombre de retours a considérablement augmenté cette année-là, en raison de la crise socioéconomique en Europe suite à la pandémie de Covid-19, d’événements tels que la guerre en Ukraine et la levée des restrictions de mobilité imposées pour endiguer la propagation de ladite pandémie.

    Les tendances de retour se sont progressivement étendues au-delà des pays de l’Union européenne, notamment avec l’augmentation du nombre de demandes d’aide au retour en provenance de la Turquie (+5229%) et de la Tunisie (+25%), par rapport aux chiffres de 2021. L’OIM s’attend à ce que cette tendance à la hausse se poursuive au cours des prochaines années.

    Changement

    Sur un autre registre, le rapport de l’OIM révèle que le Moyen-Orient et l’Afrique du Nord ont dépassé l’Espace économique européen (EEE) en tant que principale région d’accueil, représentant 33% du nombre total de cas. Le Niger était le principal pays d’accueil avec un nombre total de 15.097 migrants aidés à rentrer, confirmant la tendance des années précédentes avec une augmentation des retours depuis les pays de transit dans d’autres régions d’accueil en dehors de l’Espace économique européen.

    « Cela peut s’expliquer en partie par une hausse du nombre de retours humanitaires, facilités dans le cadre des programmes de retour humanitaire volontaire de l’OIM en Libye et au Yémen, en combinaison avec le nombre croissant de parties prenantes facilitant le retour et la réintégration, en particulier dans l’EEE. Malgré ce changement, certaines tendances sont restées les mêmes. Les trois principaux pays d’accueil à partir desquels le retour volontaire a été facilité en 2022 étaient le Niger, la Libye et l’Allemagne. De même, l’Afrique de l’Ouest et l’Afrique centrale sont restées la principale région d’origine, représentant 47% du nombre total de migrants bénéficiant d’une aide au retour en 2022. Le Mali est devenu le premier pays d’origine des migrants en 2022, dépassant la Guinée, suivie de l’Ethiopie en troisième position », précise ledit rapport.

    Préoccupation

    Cependant, nombreux sont les ONG et les chercheurs qui doutent du caractère véritablement « volontaire » des programmes RVA (retour volontaire assisté). Tel est le cas de l’Ordre de Malte, qui estime qu’”en réalité, peu de personnes souhaitaient réellement repartir. Les déboutés du droit d’asile, en particulier, [ont] de multiples raisons pour ne pas vouloir rentrer (éventuelles menaces dans le pays d’origine, perte de l’accès aux soins en France, raisons économiques). Il y a aussi cette question paradoxale ou ambivalente du retour : repartir au pays d’origine est vécu comme l’échec d’un projet d’émigration (pas de régularisation, échec de projets personnels ou familiaux). Comment serait-il alors possible de transformer ce sentiment d’échec en projet de vie ?”.

    Dans son article, « Le retour volontaire assisté  : Ses implications sur les femmes et les enfants » datant de 2016, Monica Encinas affirme que « les programmes de rapatriement sont organisés en partenariat étroit avec les gouvernements nationaux qui ont un intérêt manifeste à limiter le nombre de migrants et de réfugiés qui tentent d’entrer sur leur territoire chaque année ». Elle ajoute que « certaines ONG ont le sentiment que de nombreux réfugiés participent uniquement à ces programmes parce qu’ils y sont poussés une fois que les gouvernements leur ont stratégiquement retiré l’accès aux services essentiels et les ont menacés d’expulsion ». Et « elles ne sont pas les seules à avoir cette impression », poursuivit-elle. Anne Koch, chargée de recherche, suggère que les programmes de RVA lancés par l’UNHCR et l’OIM doivent être considérés comme « provoqués par les Etats » dans la mesure où ils permettent aux gouvernements occidentaux d’externaliser l’expulsion et d’en confier la responsabilité à l’UNHCR et à l’OIM.

    Elle signale en outre que dès que « les retours forcés et les retours volontaires sont organisés de manière conjointe, la notion de volontariat n’est plus garantie ». En 2013, une autre étude a montré que des fonctionnaires gouvernementaux ont admis qu’ils utilisaient la menace de l’expulsion afin d’augmenter la participation aux programmes de RVA ».

    En outre, Monica Encinas explique que la majorité des demandeurs d’asile qui participent à des programmes de RVA retournent dans des zones où le conflit est encore actif (comme en Afghanistan et en Somalie) et où les chances de réintégration à long terme et en toute sécurité sont pratiquement inexistantes. « Un rapport de l’UNHCR datant de juillet 2013 sur l’autoévaluation de son programme de retour d’Afghans en Afghanistan – le programme le plus important de rapatriement jamais mis en œuvre par l’UNHCR – soulignait les difficultés auxquelles l’agence devait faire face en vue de parvenir à apporter un soutien à la réintégration sociale et économique en Afghanistan.

    Plus tard la même année, Human Rights Watch a recommandé à l’UNHCR et à l’OIM de cesser de se concentrer sur les programmes de RVA au vu de l’insécurité croissante et de l’incapacité des deux agences à fournir des services d’appui adéquats suite au retour des réfugiés », écrit-elle avant de noter que certaines implications juridiques, jugées potentiellement dangereuses, selon elle, accompagnent la participation à des programmes de RVA. « Tous ceux qui y participent doivent signer une « déclaration de retour volontaire ».

    Cette dernière raison suscite de vives préoccupations dans la mesure où une demande d’asile est axée sur un facteur principal : pouvoir faire la preuve d’une crainte légitime de persécution dans le pays que vous fuyez. Le fait de signer une déclaration de retour volontaire dans le cadre d’un RVA implique que vous n’avez plus de motifs de craindre des persécutions et il est probable qu’une demande subséquente – en cas de changement pour le pire des conditions dans le pays de retour – perde toute crédibilité au regard de la loi. Une nouvelle demande d’asile risque donc de se heurter à des obstacles juridiques sérieux parce que le requérant a déjà effectué un retour dans son pays par le passé », a-t-elle fait savoir.

    Disproportion

    Des considérations juridiques et humanistes qui ne semblent pas être prises en considération par les décideurs politiques à Bruxelles qui misent trop sur cette stratégie qui coûte moins cher que les expulsions. Le Conseil européen pour les réfugiés et les exilés (CERE) a déjà dénoncé une politique européenne “disproportionnément concentrée sur les retours et ne portant pas assez l’effort sur la politique d’accueil en elle-même ou sur l’amélioration du processus de traitement des demandes d’asile”. Autrement dit, l’UE s’occupe trop des conditions de retour des migrants irréguliers alors qu’elle devrait consacrer son énergie à améliorer l’accueil de ceux qui peuvent légitimement prétendre à l’asile. Pour l’UE, ces retours coûtent moins cher que les expulsions. Selon les estimations du service de recherche du Parlement européen, un retour forcé – qui nécessite bien souvent un passage en centre de rétention – coûte en moyenne 3.414 euros, contre seulement 560 pour un retour dit “volontaire”. A souligner, cependant, que les retours volontaires ne représentent que 27% des départs depuis le territoire de l’Union et sont aujourd’hui trop rarement effectifs.

    « La Commission européenne estime qu’en 2019, sur les 490.000 ordres de retour passés sur le territoire de l’Union, seuls 140.000 ont effectivement été appliqués. Soit un peu moins d’un tiers du total. Il n’est, en effet, pas rare qu’une personne ayant accepté la procédure de retour volontaire disparaisse peu avant de devoir prendre l’avion, pour différentes raisons : crainte pour son intégrité physique une fois rentrée dans son pays d’origine, honte de devoir assumer l’échec du processus migratoire aux yeux de ses proches… », observe le site Touteleurop.eu.

    Désenchantement

    Une enquête, menée en 2020 par la chaîne d’information européenne Euronews, a révélé que « des dizaines de migrants ayant participé au programme RVA ont déclaré qu’une fois rentrés chez eux, ils ne recevaient aucune aide. Et ceux qui ont reçu une aide financière ont déclaré qu’elle était insuffisante ». L’enquête a indiqué également que « nombreux sont ceux qui envisagent de tenter à nouveau de se rendre en Europe dès que l’occasion se présente ». Mais Kwaku Arhin-Sam, spécialiste des projets de développement et directeur de l’Institut d’évaluation Friedensau, estime de manière plus générale que la moitié des programmes de réintégration de l’OIM échouent.

    Les journalistes d’Euronews expliquent qu’« entre mai 2017 et février 2019, l’OIM a aidé plus de 12.000 personnes à rentrer au Nigeria. Parmi elles, 9.000 étaient "joignables" lorsqu’elles sont rentrées chez elles, 5.000 ont reçu une formation professionnelle et 4.300 ont bénéficié d’une "aide à la réintégration". Si l’on inclut l’accès aux services de conseil ou de santé, selon l’OIM Nigeria, un total de 7.000 sur 12.000 rapatriés – soit 58% – ont reçu une aide à la réintégration. Mais le nombre de personnes classées comme ayant terminé le programme d’aide à la réintégration n’était que de 1.289. De plus, les recherches de Jill Alpes, experte en migration et chercheuse associée au Centre de recherche sur les frontières de Nimègue, ont révélé que des enquêtes visant à vérifier l’efficacité de ces programmes n’ont été menées qu’auprès de 136 rapatriés ».

    Parallèlement, ajoute Euronews, une étude de Harvard sur les Nigérians de retour de Libye estime que 61,3% des personnes interrogées ne travaillaient pas après leur retour, et qu’environ 16,8% supplémentaires ne travaillaient que pendant une courte période, pas assez longue pour générer une source de revenus stable. A leur retour, la grande majorité des rapatriés, 98,3%, ne suivaient aucune forme d’enseignement régulier.

    Dans certains cas, l’argent que les migrants reçoivent est utilisé pour financer une nouvelle tentative de rejoindre l’Europe. « Dans un des cas, une douzaine de personnes qui avaient atteint l’Europe et avaient été renvoyées chez elles ont été découvertes parmi les survivants du naufrage d’un bateau en 2019 qui se dirigeait vers les Iles Canaries », rapportent les journalistes d’Euronews.

    Insuffisances

    Pour certains spécialistes, les programmes RVA renvoient à une autre problématique, celle du travail de l’OIM. Selon Loren Landau, professeur spécialiste des migrations et du développement au Département du développement international d’Oxford, interrogé par Euronews, ce travail de l’OIM souffre en plus d’un manque de supervision indépendante. "Il y a très peu de recherches indépendantes et beaucoup de rapports. Mais ce sont tous des rapports écrits par l’OIM. Ils commandent eux-mêmes leur propre évaluation, et ce depuis des années", détaille le professeur.

    Pour sa part, le Dr. Arhin-Sam, spécialiste de l’évaluation des programmes de développement, interrogé également par Euronews, remet en question la responsabilité et la redevabilité de l’ensemble de la structure, arguant que les institutions et agences locales dépendent financièrement de l’OIM. "Cela a créé un haut niveau de dépendance pour les agences nationales qui doivent évaluer le travail des agences internationales comme l’OIM : elles ne peuvent pas être critiques envers l’OIM. Alors que font-elles ? Elles continuent à dire dans leurs rapports que l’OIM fonctionne bien. De cette façon, l’OIM peut ensuite se tourner vers l’UE et dire que tout va bien".

    Pour M. Arhin-Sam, les ONG locales et les agences qui aident les rapatriés "sont dans une compétition très dangereuse entre elles" pour obtenir le plus de travail possible des agences des Nations unies et entrer dans leurs bonnes grâces. "Si l’OIM travaille avec une ONG locale, celle-ci ne peut plus travailler avec le HCR. Elle se considère alors chanceuse d’être financée par l’OIM et ne peut donc pas la critiquer", affirme-t-il. A noter, par ailleurs, que l’UE participe en tant qu’observateur aux organes de décision du HCR et de l’OIM, sans droit de vote, et tous les Etats membres de l’UE sont également membres de l’OIM. "Le principal bailleur de fonds de l’OIM est l’UE, et ils doivent se soumettre aux exigences de leur client. Cela rend le partenariat très suspect", souligne M. Arhin-Sam. Et de conclure : « [Lorsque les fonctionnaires européens] viennent évaluer les projets, ils vérifient si tout ce qui est écrit dans le contrat a été fourni. Mais que cela corresponde à la volonté des gens et aux complexités de la réalité sur le terrain, c’est une autre histoire ».

    https://www.libe.ma/Programme-de-retour-volontaire-pas-si-volontaire-que-ca_a141240.html
    #retour_volontaire #IOM #OIM #migrations #asile #réfugiés #statistiques #chiffres #réintégration

    • Quelque 900 migrants irréguliers marocains s’apprêteraient à regagner le pays

      Le Maroc s’apprête à accueillir 900 migrants marocains en situation irrégulière en Allemagne. La ministre allemande de l’Intérieur, Nancy Faeser, a obtenu, lors de sa récente visite au Maroc, l’aval des autorités marocaines concernant ce refoulement.
      Selon frankfurter allgemeine zeitung, le Royaume aurait consenti à reprendre les ressortissants marocains ayant fait l’objet de décisions d’expulsion. Une décision critiquée par l’Organisation démocratique du travail (ODT) qui rejette l’expulsion forcée des migrants marocains, sans que ces derniers ne puissent exprimer leur désir de retour volontaire dans leur pays, dans le plein respect des conditions de réintégration et d’insertion.
      En effet, nombreux sont les ONG et les chercheurs qui doutent du caractère véritablement « volontaire » des programmes de RVA (retour volontaire assisté). En réalité, peu de personnes souhaitaient réellement repartir. Les déboutés du droit d’asile, en particulier, ont de multiples raisons de ne pas vouloir rentrer (éventuelles menaces dans le pays d’origine, perte de l’accès aux soins, raisons économiques).
      Il y a aussi cette question paradoxale ou ambivalente du retour : repartir au pays d’origine est vécu comme l’échec d’un projet d’émigration (pas de régularisation, échec de projets personnels ou familiaux).
      A noter, cependant, que le Maroc figure au Top 5 des pays hôtes accueillant les migrants en retour en 2022. Il occupe la 3ème place avec l’assistance de 2.457 migrants. Il est devancé par la Libye (11.200) et le Yémen (4080). La Tunisie et l’Algérie arrivent respectivement en 4ème et 5ème positions avec 1.607 et 1.306 migrants assistés. Le Maroc fait partie également du Top 5 des pays d’origine avec 627 migrants assistés. Décryptage.

      L’Organisation démocratique du travail (ODT) dit non aux expulsions des migrants marocains en Allemagne. Elle rejette, en effet, l’expulsion forcée des migrants marocains, sans exprimer leur désir de retour volontaire dans leur pays et dans le plein respect des conditions de réintégration et d’insertion.

      Elle appelle également au respect des droits humains et fondamentaux des migrants et des réfugiés et demandeurs d’asile, à s’abstenir d’expulsions forcées et répressives pour des motifs politiques et électoralistes, et à ce que la priorité soit donnée aux solutions alternatives centrées sur les droits de l’Homme, fondées sur un règlement global de leur situation, accordant un statut légal aux immigrés marocains et mettant fin au phénomène de détention des enfants.

      Deux poids deux mesures

      Dans un communiqué publié récemment, cette organisation syndicale considère que « tous les migrants, réfugiés et demandeurs d’asile doivent être protégés et traités avec dignité, en respectant pleinement leurs droits, quels que soient leurs statuts, conformément au droit international ».

      A ce propos, l’ODT critique la décision allemande visant à renvoyer 900 immigrés marocains irréguliers dans leur pays d’origine. Selon elle, Berlin et les autres pays européens poursuivent leur politique hypocrite de migration basée sur les expulsions des migrants irréguliers et l’accueil des compétences pour lesquelles « le Royaume du Maroc dépense chaque année des millions de dirhams pour leur formation pour ensuite les livrer sur un plateau d’or à l’Allemagne ou à d’autres pays européens, au Canada, aux Etats-Unis d’Amérique... »

      Le communiqué en question précise, en outre, que « le nouveau projet d’expulsions allemand cible particulièrement les Arabes, les musulmans et les Africains en général » en expliquant que « les migrants de ces pays sont souvent expulsés d’une manière qui viole les principes des droits de l’Homme et les normes internationales interdisant l’expulsion collective et le principe de non-refoulement sans motif valable ».

      En effet, ajoute le document, les expulsions se font selon le procédé de « recourir de plus en plus à la détention des migrants et à leur renvoi dans leur pays d’origine, sur la base de justifications avancées non fondées, voire même la conclusion d’accords bilatéraux avec leurs pays d’origine, moyennant une aide financière misérable notamment avec certains pays africains, du Maghreb, la Syrie, le Soudan, le Yémen et la Libye ».

      Mettre fin aux expulsions

      Pour l’ODT, il est temps d’abandonner « tout accord visant à expulser abusivement les Marocains en situation irrégulière contre leur gré, avec l’obligation de respect des droits des migrants et de leurs familles conformément aux conventions internationales, tout en envisageant un retour volontaire et sûr dans le cadre de la réintégration dans leur pays d’origine ».

      L’Organisation démocratique du travail exige aussi de « mettre fin aux violations des droits humains des migrants réguliers et irréguliers et à toutes les formes de discrimination et d’exclusion dans tous les domaines économiques et sociaux, en respectant les instruments internationaux relatifs aux droits de l’Homme et les conventions sur la migration et en mettant en œuvre la Charte de Marrakech pour des « migrations sûres, ordonnées et régulières » ainsi que la résolution adoptée par l’Assemblée générale le 19 décembre 2018.

      « Il faut garantir l’accès aux services de base, notamment la santé, l’éducation et le soutien social, sans discrimination ; éliminer la discrimination, combattre les discours de haine et la traite des êtres humains, interdire les expulsions collectives et les refoulements de tous les migrants, et garantir que le retour soit sûr, digne et que la réintégration soit durable », a conclu le bureau exécutif de l’ODT.

      Déclaration d’intention

      A rappeler que la ministre allemande de l’Intérieur, Nancy Faeser, a obtenu, lors de sa récente visite au Maroc, l’aval des autorités marocaines concernant le refoulement des migrants illégaux. Selon frankfurter allgemeine zeitung, le Royaume aurait consenti à reprendre les ressortissants marocains ayant fait l’objet de décisions d’expulsion. Il s’agit de près d’un millier de personnes qui ont déposé des demandes d’asile. La même source a révélé qu’au cours de l’année dernière, environ un millier de Marocains ont demandé l’asile en Allemagne, en ajoutant que le taux de reconnaissance reste faible.

      Lors de cette visite, il y a eu la signature d’une déclaration d’intention commune entre les ministères de l’Intérieur des deux pays visant à renforcer la coopération dans les domaines de la sécurité, de la migration, de la protection civile et de la lutte contre les différentes formes de crime transfrontalier, sur la base de l’égalité, du traitement d’égal à égal, de l’intérêt commun et de l’estime mutuelle. La ministre allemande n’a pas caché la volonté de son gouvernement de signer un accord migratoire bilatéral plus large.

      https://www.libe.ma/Quelque-900-migrants-irreguliers-marocains-s-appreteraient-a-regagner-le-pays_a
      #Allemagne #retour_volontaire_assisté

  • Les pratiques de la France à la frontière franco-italienne jugées non conformes par Luxembourg

    Pour télécharger le communiqué : https://www.ldh-france.org/wp-content/uploads/2023/11/CP-interasso-Les-pratiques-de-la-France-a-la-frontiere-franco-italienne-

    Alors que le gouvernement soumet au Sénat son projet de loi sur l’asile et l’immigration, la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) de Luxembourg vient de rendre un arrêt, en réponse à une question préjudicielle du Conseil d’Etat, qui oblige la France à mettre ses pratiques aux frontières et notamment à la frontière franco-italienne en conformité avec le droit de l’Union européenne.

    Depuis 2015, la France a rétabli les contrôles à ses frontières intérieures, par dérogation au principe de libre circulation dans l’espace Schengen. Et depuis cette date, elle enferme dans des bâtiments de fortune et refoule des personnes étrangères à qui elle refuse l’entrée sur le territoire, notamment à la frontière franco-italienne, comme c’est le cas, en ce moment même, à Menton ou à Montgenèvre. En prévision de l’augmentation des arrivées en provenance d’Italie à la mi septembre, les dispositifs de surveillance ont été renforcés et les baraquements dits de « mise à l’abri » se sont multipliés. Pour enfermer et expulser en toute illégalité, car les constats sur le terrain démontrent que ces contrôles débouchent sur de l’enfermement et des refoulements de personnes en dehors d’un cadre juridique défini.

    À de multiples reprises, depuis plusieurs années, nos associations ont protesté contre cette situation et ont saisi, en vain, les tribunaux français pour obtenir qu’il soit mis fin à ces pratiques en conséquence desquelles, au fil des années, des milliers de personnes ont été privées de liberté et expulsées, sans pouvoir accéder à leurs droits fondamentaux (accès à une procédure, accès au droit d’asile, recours effectif). Nos associations ayant contesté la conformité au droit européen de la disposition du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (Ceseda) qui permet à l’administration de prononcer des « refus d’entrée » aux frontières intérieures sans respecter les normes prévues par la directive européenne 2008/115/CE, dite directive « Retour », le Conseil d’État a saisi la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) d’une question préjudicielle sur ce point.

    Dans sa décision du 21 septembre 2023, la CJUE a répondu à cette question en retenant le raisonnement juridique défendu par nos organisations. Elle estime que lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, les « normes et procédures prévues par cette directive » sont applicables aux personnes qui, se présentant à un point de passage frontalier situé sur son territoire, se voient opposer un refus d’entrer.

    Par cette décision, la CJUE rappelle à tous les Etats membres de l’UE leurs obligations lorsqu’ils rétablissent des contrôles à leurs frontières intérieures :
    – notifier à la personne à qui elle refuse l’entrée une décision de retour vers un pays tiers ainsi qu’une voie de recours effective (autrement dit on ne peut pas se contenter de refouler en la remettant aux autorités de l’État membre de provenance) ;
    – lui accorder un délai de départ volontaire (vers le pays tiers désigné dans la notification) ;
    – n’imposer une privation de liberté à cette personne, dans l’attente de son éloignement, que dans les cas et conditions de la rétention prévus par la directive « Retour ».

    Depuis fin septembre, nos associations organisent de manière régulière des observations des pratiques des forces de l’ordre à la gare de Menton Garavan et aux postes de la police aux frontières de Montgenèvre (Hautes-Alpes) et de Menton pont Saint-Louis (Alpes-Maritimes). Force est de constater que les pratiques à la frontière intérieure n’ont pas évolué. Les contrôles au faciès aux points de passage autorisés (PPA), ainsi que dans d’autres zones frontalières, sont quotidiens, les procédures de « refus d’entrée » sont toujours réalisées à la va-vite, sur le quai de la gare, devant le poste de police ou parfois à l’intérieur de celui-ci, sans interprète et sans examen individuel de la situation des personnes. Des majeurs comme des mineurs sont refoulés, des personnes à qui l’entrée sur le territoire est refusée sont privées de liberté, sans pouvoir demander l’asile ou contester la mesure d’enfermement à laquelle elles sont soumises, et sans accès à un avocat à ou une association.

    Interrogée par des élus qui, pour certains, se sont vu opposer des refus d’accès au locaux dits « de mise à l’abri », la police aux frontières a précisé qu’aucune directive ne lui avait été transmise depuis la décision de la CJUE.

    Parce que la France persiste dans son refus de se conformer au droit de l’UE, les pratiques illégales perdurent et des dizaines de personnes continuent, quotidiennement, à être victimes de la violation de leurs droits fondamentaux.

    Il revient désormais au Conseil d’État de tirer les enseignements de la décision de la CJUE et de mettre fin aux pratiques d’enfermement et de refoulement aux frontières, hors du cadre juridique approprié, notamment à la frontière franco-italienne.

    Organisations signataires : ADDE ; Anafé (Association nationale d’assistance pour les personnes étrangères) ; Emmaüs Roya ; Gisti ; Groupe accueil solidarité ; La Cimade ; LDH (Ligue des droits de l’Homme) ; Roya Citoyenne ; Syndicat de la Magistrature ; Syndicat des avocats de France ; Tous migrant.

    Paris, le 13 novembre 2023

    https://www.ldh-france.org/les-pratiques-de-la-france-a-la-frontiere-franco-italienne-jugees-non-co
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    • ARRÊT DE LA COUR (quatrième chambre)

      21 septembre 2023 (*)

      « Renvoi préjudiciel – Espace de liberté, de sécurité et de justice – Contrôle aux frontières, asile et immigration – Règlement (UE) 2016/399 – Article 32 – Réintroduction temporaire par un État membre du contrôle à ses frontières intérieures – Article 14 – Décision de refus d’entrée – Assimilation des frontières intérieures aux frontières extérieures – Directive 2008/115/CE – Champ d’application – Article 2, paragraphe 2, sous a) »

      Dans l’affaire C‑143/22,

      ayant pour objet une demande de décision préjudicielle au titre de l’article 267 TFUE, introduite par le Conseil d’État (France), par décision du 24 février 2022, parvenue à la Cour le 1er mars 2022, dans la procédure

      Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE),

      Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE),

      Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT),

      Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade),

      Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI),

      Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI),

      Ligue des droits de l’homme (LDH),

      Le paria,

      Syndicat des avocats de France (SAF),

      SOS – Hépatites Fédération

      contre

      Ministre de l’Intérieur,

      en présence de :

      Défenseur des droits,

      LA COUR (quatrième chambre),

      composée de M. C. Lycourgos (rapporteur), président de chambre, Mme L. S. Rossi, MM. J.‑C. Bonichot, S. Rodin et Mme O. Spineanu‑Matei, juges,

      avocat général : M. A. Rantos,

      greffier : Mme M. Krausenböck, administratrice,

      vu la procédure écrite et à la suite de l’audience du 19 janvier 2023,

      considérant les observations présentées :

      – pour l’Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE), l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE), l’Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT), le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), la Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI), le Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), la Ligue des droits de l’homme (LDH), Le paria, le Syndicat des avocats de France (SAF) et SOS – Hépatites Fédération, par Me P. Spinosi, avocat,

      – pour le Défenseur des droits, par Mme C. Hédon, Défenseure des droits, Mmes M. Cauvin et A. Guitton, conseillères, assistées de Me I. Zribi, avocate,

      – pour le gouvernement français, par Mme A.-L. Desjonquères et M. J. Illouz, en qualité d’agents,

      – pour le gouvernement polonais, par M. B. Majczyna, Mmes E. Borawska-Kędzierska et A. Siwek-Ślusarek, en qualité d’agents,

      – pour la Commission européenne, par Mmes A. Azéma, A. Katsimerou, MM. T. Lilamand et J. Tomkin, en qualité d’agents,

      ayant entendu l’avocat général en ses conclusions à l’audience du 30 mars 2023,

      rend le présent

      Arrêt

      1 La demande de décision préjudicielle porte sur l’interprétation de l’article 14 du règlement (UE) 2016/399 du Parlement européen et du Conseil, du 9 mars 2016, concernant un code de l’Union relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO 2016, L 77, p. 1, ci-après le « code frontières Schengen »), ainsi que de la directive 2008/115/CE du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier (JO 2008, L 348, p. 98).

      2 Cette demande a été présentée dans le cadre d’un litige opposant l’Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE), l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE), l’Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT), le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), la Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI), le Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), la Ligue des droits de l’homme (LDH), Le paria, le Syndicat des avocats de France (SAF) et SOS – Hépatites Fédération, au ministre de l’Intérieur (France) au sujet de la légalité de l’ordonnance no 2020-1733 du 16 décembre 2020 portant partie législative du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (JORF du 30 décembre 2020, texte no 41).

      Le cadre juridique

      Le droit de l’Union

      Le code frontières Schengen

      3 Aux termes de l’article 2 du code frontières Schengen :

      « Aux fins du présent règlement, on entend par :

      1) “frontières intérieures” :

      a) les frontières terrestres communes, y compris fluviales et lacustres, des États membres ;

      b) les aéroports des États membres pour les vols intérieurs ;

      c) les ports maritimes, fluviaux et lacustres des États membres pour les liaisons régulières intérieures par transbordeur ;

      2) “frontières extérieures” : les frontières terrestres des États membres, y compris les frontières fluviales et lacustres, les frontières maritimes, ainsi que leurs aéroports, ports fluviaux, ports maritimes et ports lacustres, pour autant qu’ils ne soient pas des frontières intérieures ;

      [...] »

      4 Le titre II de ce code, relatif aux « frontières extérieures », comprend les articles 5 à 21 de celui-ci.

      5 L’article 14 dudit code, intitulé « Refus d’entrée », prévoit :

      « 1. L’entrée sur le territoire des États membres est refusée au ressortissant de pays tiers qui ne remplit pas l’ensemble des conditions d’entrée énoncées à l’article 6, paragraphe 1, et qui n’appartient pas à l’une des catégories de personnes visées à l’article 6, paragraphe 5. Cette disposition est sans préjudice de l’application des dispositions particulières relatives au droit d’asile et à la protection internationale ou à la délivrance de visas de long séjour.

      2. L’entrée ne peut être refusée qu’au moyen d’une décision motivée indiquant les raisons précises du refus. La décision est prise par une autorité compétente habilitée à ce titre par le droit national. Elle prend effet immédiatement.

      La décision motivée indiquant les raisons précises du refus est notifiée au moyen d’un formulaire uniforme tel que celui figurant à l’annexe V, partie B, et rempli par l’autorité compétente habilitée par le droit national à refuser l’entrée. Le formulaire uniforme ainsi complété est remis au ressortissant de pays tiers concerné, qui accuse réception de la décision de refus au moyen dudit formulaire.

      Les données relatives aux ressortissants de pays tiers auxquels l’entrée pour un court séjour a été refusée sont enregistrées dans l’EES conformément à l’article 6 bis, paragraphe 2, du présent règlement et à l’article 18 du règlement (UE) 2017/2226 [du Parlement européen et du Conseil du 30 novembre 2017 portant création d’un système d’entrée/de sortie (EES) pour enregistrer les données relatives aux entrées, aux sorties et aux refus d’entrée concernant les ressortissants de pays tiers qui franchissent les frontières extérieures des États membres et portant détermination des conditions d’accès à l’EES à des fins répressives, et modifiant la convention d’application de l’accord de Schengen et les règlements (CE) no 767/2008 et (UE) no 1077/2011 (JO 2017, L 327, p. 20)].

      3. Les personnes ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée ont le droit de former un recours contre cette décision. Les recours sont formés conformément au droit national. Des indications écrites sont également mises à la disposition du ressortissant de pays tiers en ce qui concerne des points de contact en mesure de communiquer des informations sur des représentants compétents pour agir au nom du ressortissant de pays tiers conformément au droit national.

      L’introduction d’un tel recours n’a pas d’effet suspensif à l’égard de la décision de refus d’entrée.

      Sans préjudice de toute éventuelle compensation accordée conformément au droit national, le ressortissant de pays tiers concerné a le droit à la rectification des données introduites dans l’ESS ou du cachet d’entrée annulé, ou les deux, ainsi qu’à la rectification de toute autre annulation ou ajout qui ont été apportés, de la part de l’État membre qui a refusé l’entrée, si, dans le cadre du recours, la décision de refus d’entrée est déclarée non fondée.

      4. Les gardes-frontières veillent à ce qu’un ressortissant de pays tiers ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée ne pénètre pas sur le territoire de l’État membre concerné.

      5. Les États membres établissent un relevé statistique sur le nombre de personnes ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée, les motifs du refus, la nationalité des personnes auxquelles l’entrée a été refusée et le type de frontière (terrestre, aérienne, maritime) auquel l’entrée leur a été refusée, et le transmettent chaque année à la Commission (Eurostat) conformément au règlement (CE) no 862/2007 du Parlement européen et du Conseil[, du 11 juillet 2007, relatif aux statistiques communautaires sur la migration et la protection internationale, et abrogeant le règlement (CEE) no 311/76 du Conseil relatif à l’établissement de statistiques concernant les travailleurs étrangers (JO 2007, L 199, p. 23)].

      6. Les modalités du refus d’entrée sont décrites à l’annexe V, partie A. »

      6 Le titre III du code frontières Schengen, relatif aux « frontières intérieures », comprend les articles 22 à 35 de celui-ci.

      7 L’article 25 dudit code, intitulé « Cadre général pour la réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures », dispose, à son paragraphe 1 :

      « En cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure d’un État membre dans l’espace sans contrôle aux frontières intérieures, cet État membre peut exceptionnellement réintroduire le contrôle aux frontières sur tous les tronçons ou sur certains tronçons spécifiques de ses frontières intérieures pendant une période limitée d’une durée maximale de trente jours ou pour la durée prévisible de la menace grave si elle est supérieure à trente jours. La portée et la durée de la réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures ne doivent pas excéder ce qui est strictement nécessaire pour répondre à la menace grave. »

      8 L’article 32 du même code, intitulé « Dispositions s’appliquant en cas de réintroduction du contrôle aux frontières intérieures », énonce :

      « Lorsque le contrôle aux frontières intérieures est réintroduit, les dispositions pertinentes du titre II s’appliquent mutatis mutandis. »

      9 L’annexe V, partie A, du code frontières Schengen prévoit :

      « 1. En cas de refus d’entrée, le garde-frontière compétent :

      a) remplit le formulaire uniforme de refus d’entrée figurant dans la partie B. Le ressortissant de pays tiers concerné signe le formulaire et en reçoit une copie après signature. Si le ressortissant de pays tiers refuse de signer, le garde-frontière indique ce refus dans le formulaire, sous la rubrique “observations” ;

      b) en ce qui concerne les ressortissants de pays tiers dont l’entrée pour un court séjour a été refusée, enregistre dans l’EES les données relatives au refus d’entrée conformément à l’article 6 bis, paragraphe 2, du présent règlement et à l’article 18 du règlement (UE) 2017/2226 ;

      c) procède à l’annulation ou à la révocation du visa, le cas échéant, conformément aux conditions fixées à l’article 34 du règlement (CE) no 810/2009 [du Parlement européen et du Conseil, du 13 juillet 2009, établissant un code communautaire des visas (code des visas) (JO 2009, L 243, p. 1)] ;

      d) en ce qui concerne les ressortissants de pays tiers dont le refus d’entrée n’est pas enregistré dans l’EES, appose sur le passeport un cachet d’entrée, barré d’une croix à l’encre noire indélébile, et inscrit en regard, à droite, également à l’encre indélébile, la ou les lettres correspondant au(x) motif(s) du refus d’entrée, dont la liste figure dans le formulaire uniforme de refus d’entrée comme indiqué dans la partie B de la présente annexe. En outre, pour ces catégories de personnes, le garde-frontière enregistre tout refus d’entrée dans un registre ou sur une liste, qui mentionne l’identité et la nationalité du ressortissant de pays tiers concerné, les références du document autorisant le franchissement de la frontière par ce ressortissant du pays tiers, ainsi que le motif et la date de refus d’entrée.

      Les modalités pratiques de l’apposition du cachet sont décrites à l’annexe IV.

      2. Si le ressortissant de pays tiers frappé d’une décision de refus d’entrée a été acheminé à la frontière par un transporteur, l’autorité localement responsable :

      a) ordonne à ce transporteur de reprendre en charge le ressortissant de pays tiers sans tarder et de l’acheminer soit vers le pays tiers d’où il a été transporté, soit vers le pays tiers qui a délivré le document permettant le franchissement de la frontière, soit vers tout autre pays tiers dans lequel son admission est garantie, ou de trouver un moyen de réacheminement conformément à l’article 26 de la convention de Schengen et aux dispositions de la directive 2001/51/CE du Conseil[, du 28 juin 2001, visant à compléter les dispositions de l’article 26 de la convention d’application de l’accord de Schengen du 14 juin 1985 (JO 2001, L 187, p. 45)] ;

      b) en attendant le réacheminement, prend, dans le respect du droit national et compte tenu des circonstances locales, les mesures appropriées afin d’éviter l’entrée illégale des ressortissants de pays tiers frappés d’une décision de refus d’entrée.

      [...] »

      10 Aux termes de l’article 44 de ce code, intitulé « Abrogation » :

      « Le règlement (CE) no 562/2006 [du Parlement européen et du Conseil, du 15 mars 2006, établissant un code communautaire relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO 2006, L 105, p. 1)] est abrogé.

      Les références faites au règlement abrogé s’entendent comme faites au présent règlement et sont à lire selon le tableau de correspondance figurant à l’annexe X. »

      11 Conformément à ce tableau de correspondance, l’article 14 du code frontières Schengen correspond à l’article 13 du règlement no 562/2006.

      La directive 2008/115

      12 L’article 2, paragraphes 1 et 2, de la directive 2008/115 dispose :

      « 1. La présente directive s’applique aux ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre.

      2. Les États membres peuvent décider de ne pas appliquer la présente directive aux ressortissants de pays tiers :

      a) faisant l’objet d’une décision de refus d’entrée conformément à l’article 13 du [règlement no 562/2006], ou arrêtés ou interceptés par les autorités compétentes à l’occasion du franchissement irrégulier par voie terrestre, maritime ou aérienne de la frontière extérieure d’un État membre et qui n’ont pas obtenu par la suite l’autorisation ou le droit de séjourner dans ledit État membre ;

      b) faisant l’objet d’une sanction pénale prévoyant ou ayant pour conséquence leur retour, conformément au droit national, ou faisant l’objet de procédures d’extradition. »

      13 Aux termes de l’article 3 de cette directive :

      « Aux fins de la présente directive, on entend par :

      [...]

      2) “séjour irrégulier” : la présence sur le territoire d’un État membre d’un ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas, ou ne remplit plus, les conditions d’entrée énoncées à l’article 5 du [règlement no 562/2006], ou d’autres conditions d’entrée, de séjour ou de résidence dans cet État membre ;

      3) “retour” : le fait, pour le ressortissant d’un pays tiers, de rentrer – que ce soit par obtempération volontaire à une obligation de retour ou en y étant forcé – dans :

      – son pays d’origine, ou

      – un pays de transit conformément à des accords ou autres arrangements de réadmission communautaires ou bilatéraux, ou

      – un autre pays tiers dans lequel le ressortissant concerné d’un pays tiers décide de retourner volontairement et sur le territoire duquel il sera admis ;

      [...] »

      14 L’article 4, paragraphe 4, de ladite directive prévoit :

      « En ce qui concerne les ressortissants de pays tiers exclus du champ d’application de la présente directive conformément à l’article 2, paragraphe 2, point a), les États membres :

      a) veillent à ce que le traitement et le niveau de protection qui leur sont accordés ne soient pas moins favorables que ceux prévus à l’article 8, paragraphes 4 et 5 (limitations du recours aux mesures coercitives), à l’article 9, paragraphe 2, point a) (report de l’éloignement), à l’article 14, paragraphe 1, points b) et d) (soins médicaux d’urgence et prise en considération des besoins des personnes vulnérables), ainsi qu’aux articles 16 et 17 (conditions de rétention), et

      b) respectent le principe de non-refoulement. »

      15 L’article 5 de la directive 2008/115 dispose :

      « Lorsqu’ils mettent en œuvre la présente directive, les États membres tiennent dûment compte :

      a) de l’intérêt supérieur de l’enfant,

      b) de la vie familiale,

      c) de l’état de santé du ressortissant concerné d’un pays tiers,

      et respectent le principe de non-refoulement. »

      16 L’article 6 de cette directive dispose :

      « 1. Les État membres prennent une décision de retour à l’encontre de tout ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur leur territoire, sans préjudice des exceptions visées aux paragraphes 2 à 5.

      2. Les ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre et titulaires d’un titre de séjour valable ou d’une autre autorisation conférant un droit de séjour délivrés par un autre État membre sont tenus de se rendre immédiatement sur le territoire de cet autre État membre. En cas de non-respect de cette obligation par le ressortissant concerné d’un pays tiers ou lorsque le départ immédiat du ressortissant d’un pays tiers est requis pour des motifs relevant de l’ordre public ou de la sécurité nationale, le paragraphe 1 s’applique.

      3. Les État membres peuvent s’abstenir de prendre une décision de retour à l’encontre d’un ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur leur territoire si le ressortissant concerné d’un pays tiers est repris par un autre État membre en vertu d’accords ou d’arrangements bilatéraux existant à la date d’entrée en vigueur de la présente directive. Dans ce cas, l’État membre qui a repris le ressortissant concerné d’un pays tiers applique le paragraphe 1.

      [...] »

      17 L’article 7, paragraphe 1, premier alinéa, de ladite directive prévoit :

      « La décision de retour prévoit un délai approprié allant de sept à trente jours pour le départ volontaire, sans préjudice des exceptions visées aux paragraphes 2 et 4. Les États membres peuvent prévoir dans leur législation nationale que ce délai n’est accordé qu’à la suite d’une demande du ressortissant concerné d’un pays tiers. Dans ce cas, les États membres informent les ressortissants concernés de pays tiers de la possibilité de présenter une telle demande. »

      18 L’article 15, paragraphe 1, de la même directive énonce :

      « À moins que d’autres mesures suffisantes, mais moins coercitives, puissent être appliquées efficacement dans un cas particulier, les États membres peuvent uniquement placer en rétention le ressortissant d’un pays tiers qui fait l’objet de procédures de retour afin de préparer le retour et/ou de procéder à l’éloignement, en particulier lorsque :

      a) il existe un risque de fuite, ou

      b) le ressortissant concerné d’un pays tiers évite ou empêche la préparation du retour ou de la procédure d’éloignement.

      Toute rétention est aussi brève que possible et n’est maintenue qu’aussi longtemps que le dispositif d’éloignement est en cours et exécuté avec toute la diligence requise. »

      Le droit français

      19 L’article L. 213-3-1 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, dans sa version issue de la loi no 2018-778, du 10 septembre 2018, pour une immigration maîtrisée, un droit d’asile effectif et une intégration réussie (JORF du 11 septembre 2018, texte no 1) (ci-après le « Ceseda ancien »), énonçait :

      « En cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures prévue au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen], les décisions mentionnées à l’article L. 213-2 peuvent être prises à l’égard de l’étranger qui, en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention signée à Schengen le 19 juin 1990, a pénétré sur le territoire métropolitain en franchissant une frontière intérieure terrestre sans y être autorisé et a été contrôlé dans une zone comprise entre cette frontière et une ligne tracée à dix kilomètres en deçà. Les modalités de ces contrôles sont définies par décret en Conseil d’État. »

      20 L’ordonnance no 2020-1733 a procédé à la refonte de la partie législative du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile. L’article L. 332-2 de ce code ainsi modifié (ci-après le « Ceseda modifié ») dispose :

      « La décision de refus d’entrée, qui est écrite et motivée, est prise par un agent relevant d’une catégorie fixée par voie réglementaire.

      La notification de la décision de refus d’entrée mentionne le droit de l’étranger d’avertir ou de faire avertir la personne chez laquelle il a indiqué qu’il devait se rendre, son consulat ou le conseil de son choix. Elle mentionne le droit de l’étranger de refuser d’être rapatrié avant l’expiration du délai d’un jour franc dans les conditions prévues à l’article L. 333-2.

      La décision et la notification des droits qui l’accompagne lui sont communiquées dans une langue qu’il comprend.

      Une attention particulière est accordée aux personnes vulnérables, notamment aux mineurs accompagnés ou non d’un adulte. »

      21 L’article L. 332-3 du Ceseda modifié prévoit :

      « La procédure prévue à l’article L. 332-2 est applicable à la décision de refus d’entrée prise à l’encontre de l’étranger en application de l’article 6 du [code frontières Schengen]. Elle est également applicable lors de vérifications effectuées à une frontière intérieure en cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen]. »

      Le litige au principal et la question préjudicielle

      22 Les associations visées au point 2 du présent arrêt contestent devant le Conseil d’État (France), dans le cadre d’un recours en annulation de l’ordonnance no 2020‑1733, la validité de celle-ci au motif, notamment, que l’article L. 332-3 du Ceseda modifié qui en est issu méconnaît la directive 2008/115 en ce qu’il permet l’adoption de décisions de refus d’entrée aux frontières intérieures sur lesquelles des contrôles ont été réintroduits.

      23 Cette juridiction explique, en effet, que, dans son arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a. (C‑444/17, EU:C:2019:220), la Cour a jugé que l’article 2, paragraphe 2, sous a), de la directive 2008/115, lu en combinaison avec l’article 32 du code frontières Schengen, ne s’applique pas à la situation d’un ressortissant d’un pays tiers arrêté à proximité immédiate d’une frontière intérieure et en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre, même lorsque cet État membre a réintroduit, en vertu de l’article 25 de ce code, le contrôle à cette frontière en raison d’une menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure dudit État membre.

      24 Le Conseil d’État souligne que, dans sa décision no 428175 du 27 novembre 2020, il a jugé contraires à la directive 2008/115, telle qu’interprétée par la Cour, les dispositions de l’article L. 213-3-1 du Ceseda ancien, qui prévoyaient que, en cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures, l’étranger en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention d’application de l’accord de Schengen, du 14 juin 1985, entre les gouvernements des États de l’Union économique Benelux, de la République fédérale d’Allemagne et de la République française relatif à la suppression graduelle des contrôles aux frontières communes, signée à Schengen le 19 juin 1990 et entrée en vigueur le 26 mars 1995 (JO 2000, L 239, p. 19, ci-après la « convention de Schengen »), pouvait faire l’objet d’une décision de refus d’entrée dans les conditions de l’article L. 213-2 du Ceseda ancien lorsqu’il avait pénétré sur le territoire métropolitain en franchissant une frontière intérieure terrestre sans y être autorisé et avait été contrôlé dans une zone comprise entre cette frontière et une ligne tracée à dix kilomètres en deçà.

      25 Certes, selon le Conseil d’État, l’article L. 332-3 du Ceseda modifié ne reprend pas les dispositions de l’article L. 213-3-1 du Ceseda ancien. Toutefois, l’article L. 332-3 du Ceseda modifié prévoirait encore qu’une décision de refus d’entrée peut être prise à l’occasion de vérifications effectuées aux frontières intérieures, en cas de réintroduction temporaire du contrôle à ces frontières, dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du code frontières Schengen.

      26 Cette juridiction estime, dès lors, qu’il convient de déterminer si, dans un tel cas, le ressortissant d’un pays tiers, en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention de Schengen et qui se présente à un point de passage frontalier autorisé sans être en possession des documents permettant de justifier d’une autorisation d’entrée ou du droit de séjourner en France peut se voir opposer une décision de refus d’entrée, sur le fondement de l’article 14 du code frontières Schengen, sans que soit applicable la directive 2008/115.

      27 Dans ces conditions, le Conseil d’État a décidé de surseoir à statuer et de poser la question préjudicielle suivante :

      « En cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures, dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen], l’étranger en provenance directe du territoire d’un État partie à la [convention de Schengen] peut-il se voir opposer une décision de refus d’entrée, lors des vérifications effectuées à cette frontière, sur le fondement de l’article 14 de ce [code], sans que soit applicable la directive [2008/115] ? »

      Sur la question préjudicielle

      28 Par sa question préjudicielle, la juridiction de renvoi demande en substance si le code frontières Schengen et la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que, lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, au sens de l’article 14 de ce code, sans être soumis au respect de cette directive.

      29 L’article 25 du code frontières Schengen autorise, à titre exceptionnel et dans certaines conditions, un État membre à réintroduire temporairement un contrôle aux frontières sur tous les tronçons ou certains tronçons spécifiques de ses frontières intérieures en cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure de cet État membre. Selon l’article 32 de ce code, lorsqu’un contrôle aux frontières intérieures est réintroduit, les dispositions pertinentes du titre II dudit code, titre qui porte sur les frontières extérieures, s’appliquent mutatis mutandis.

      30 Tel est le cas de l’article 14 du code frontières Schengen, qui prévoit que l’entrée sur le territoire des États membres est refusée au ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas l’ensemble des conditions d’entrée énoncées à l’article 6, paragraphe 1, de ce code et qui n’appartient pas à l’une des catégories de personnes visées à l’article 6, paragraphe 5, du même code.

      31 Il importe toutefois de rappeler qu’un ressortissant d’un pays tiers qui, à la suite de son entrée irrégulière sur le territoire d’un État membre, est présent sur ce territoire sans remplir les conditions d’entrée, de séjour ou de résidence, se trouve, de ce fait, en séjour irrégulier, au sens de la directive 2008/115. Ce ressortissant relève, donc, conformément à l’article 2, paragraphe 1, de cette directive et sous réserve de l’article 2, paragraphe 2, de celle-ci, du champ d’application de ladite directive, sans que cette présence sur le territoire de l’État membre concerné soit soumise à une condition de durée minimale ou d’intention de rester sur ce territoire. Il doit donc, en principe, être soumis aux normes et aux procédures communes prévues par la même directive en vue de son éloignement et cela tant que son séjour n’a pas été, le cas échéant, régularisé (voir, en ce sens, arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, points 37 et 39 ainsi que jurisprudence citée).

      32 Il en va ainsi y compris lorsque ce ressortissant d’un pays tiers a été appréhendé à un point de passage frontalier, pour autant que ce point de passage frontalier se situe sur le territoire dudit État membre. À cet égard, il convient, en effet, de relever qu’une personne peut être entrée sur le territoire d’un État membre avant même d’avoir franchi un point de passage frontalier [voir, par analogie, arrêt du 5 février 2020, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Enrôlement des marins dans le port de Rotterdam), C‑341/18, EU:C:2020:76, point 45].

      33 Il convient encore de préciser, à titre d’exemple, que, lorsqu’il est procédé à des vérifications à bord d’un train entre le moment où ce train quitte la dernière gare, située sur le territoire d’un État membre partageant une frontière intérieure avec un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, et le moment où ledit train entre dans la première gare située sur le territoire de ce dernier État membre, le contrôle à bord de ce même train doit, sauf accord en sens contraire passé entre ces deux États membres, être considéré comme un contrôle réalisé à un point de passage frontalier situé sur le territoire de l’État membre ayant réintroduit de tels contrôles. En effet, le ressortissant d’un pays tiers ayant été contrôlé à bord de ce train séjournera nécessairement, à la suite de ce contrôle, sur le territoire de ce dernier État membre, au sens de l’article 2, paragraphe 1, de la directive 2008/115.

      34 Cela étant, il convient encore de relever que l’article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 permet aux États membres d’exclure, à titre exceptionnel et sous certaines conditions, les ressortissants de pays tiers qui séjournent irrégulièrement sur leur territoire du champ d’application de cette directive.

      35 Ainsi, d’une part, cet article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 permet, à son point a), aux États membres de ne pas appliquer cette dernière, sous réserve des prescriptions contenues à l’article 4, paragraphe 4, de celle-ci, dans deux situations particulières, à savoir celle de ressortissants de pays tiers qui font l’objet d’une décision de refus d’entrée à une frontière extérieure d’un État membre, conformément à l’article 14 du code frontières Schengen, ou celle de ressortissants de pays tiers qui sont arrêtés ou interceptés à l’occasion du franchissement irrégulier d’une telle frontière extérieure et qui n’ont pas obtenu par la suite l’autorisation ou le droit de séjourner dans ledit État membre.

      36 Cela étant, il ressort de la jurisprudence de la Cour que ces deux situations se rapportent exclusivement au franchissement d’une frontière extérieure d’un État membre, telle que définie à l’article 2 du code frontières Schengen, et ne concernent donc pas le franchissement d’une frontière commune à des États membres faisant partie de l’espace Schengen, même lorsque des contrôles ont été réintroduits à cette frontière, en vertu de l’article 25 de ce code, en raison d’une menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure de cet État membre (voir, en ce sens, arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, points 45 et 67).

      37 Il s’ensuit, comme M. l’avocat général l’a relevé au point 35 de ses conclusions, que l’article 2, paragraphe 2, sous a), de la directive 2008/115 n’autorise pas un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures à déroger aux normes et aux procédures communes prévues par cette directive afin d’éloigner le ressortissant d’un pays tiers qui a été intercepté, sans titre de séjour valable, à l’un des points de passage frontaliers situés sur le territoire de cet État membre et où s’exercent de tels contrôles.

      38 D’autre part, si l’article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 autorise, à son point b), les États membres à ne pas appliquer cette directive aux ressortissants de pays tiers faisant l’objet d’une sanction pénale prévoyant ou ayant pour conséquence leur retour, conformément au droit national, ou faisant l’objet de procédures d’extradition, force est de constater qu’un tel cas de figure n’est pas celui qui est visé par la disposition en cause dans le litige au principal.

      39 Il résulte de tout ce qui précède, d’une part, qu’un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures peut appliquer, mutatis mutandis, l’article 14 du code frontières Schengen ainsi que l’annexe V, partie A, point 1, de ce code à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui est intercepté, sans titre de séjour régulier, à un point de passage frontalier autorisé où s’exercent de tels contrôles.

      40 D’autre part, lorsque ce point de passage frontalier est situé sur le territoire de l’État membre concerné, ce dernier doit toutefois veiller à ce que les conséquences d’une telle application, mutatis mutandis, des dispositions citées au point précédent n’aboutissent pas à méconnaître les normes et les procédures communes prévues par la directive 2008/115. La circonstance que cette obligation qui pèse sur l’État membre concerné est susceptible de priver d’une large partie de son effectivité l’éventuelle adoption d’une décision de refus d’entrée à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers se présentant à l’une de ses frontières intérieures n’est pas de nature à modifier un tel constat.

      41 Concernant les dispositions pertinentes de cette directive, il convient de rappeler, notamment, qu’il résulte de l’article 6, paragraphe 1, de la directive 2008/115 que tout ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre doit, sans préjudice des exceptions prévues aux paragraphes 2 à 5 de cet article et dans le strict respect des exigences fixées à l’article 5 de cette directive, faire l’objet d’une décision de retour, laquelle doit identifier, parmi les pays tiers visés à l’article 3, point 3, de ladite directive, celui vers lequel il doit être éloigné [arrêt du 22 novembre 2022, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Éloignement – Cannabis thérapeutique), C‑69/21, EU:C:2022:913, point 53].

      42 Par ailleurs, le ressortissant d’un pays tiers qui fait l’objet d’une telle décision de retour doit encore, en principe, bénéficier, en vertu de l’article 7 de la directive 2008/115, d’un certain délai pour quitter volontairement le territoire de l’État membre concerné. L’éloignement forcé n’intervient qu’en dernier recours, conformément à l’article 8 de cette directive, et sous réserve de l’article 9 de celle-ci, qui impose aux États membres de reporter l’éloignement dans les cas qu’il énonce [arrêt du 17 décembre 2020, Commission/Hongrie (Accueil des demandeurs de protection internationale), C‑808/18, EU:C:2020:1029, point 252].

      43 En outre, il découle de l’article 15 de la directive 2008/115 que la rétention d’un ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier ne peut être imposée que dans certains cas déterminés. Cela étant, comme M. l’avocat général l’a relevé, en substance, au point 46 de ses conclusions, cet article ne s’oppose pas à ce que, lorsqu’il représente une menace réelle, actuelle et suffisamment grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure, ce ressortissant fasse l’objet d’une mesure de rétention, dans l’attente de son éloignement, pour autant que cette rétention respecte les conditions énoncées aux articles 15 à 18 de cette directive (voir, en ce sens, arrêt du 2 juillet 2020, Stadt Frankfurt am Main, C‑18/19, EU:C:2020:511, points 41 à 48).

      44 Par ailleurs, la directive 2008/115 n’exclut pas la faculté pour les États membres de réprimer d’une peine d’emprisonnement la commission de délits autres que ceux tenant à la seule circonstance d’une entrée irrégulière, y compris dans des situations où la procédure de retour établie par cette directive n’a pas encore été menée à son terme. Dès lors, ladite directive ne s’oppose pas davantage à l’arrestation ou au placement en garde à vue d’un ressortissant de pays tiers en séjour irrégulier lorsque de telles mesures sont adoptées au motif que ledit ressortissant est soupçonné d’avoir commis un délit autre que sa simple entrée irrégulière sur le territoire national, et notamment un délit susceptible de menacer l’ordre public ou la sécurité intérieure de l’État membre concerné (arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, point 66).

      45 Il s’ensuit que, contrairement à ce que le gouvernement français soutient, l’application, dans un cas tel que celui visé par la demande de décision préjudicielle, des normes et des procédures communes prévues par la directive 2008/115 n’est pas de nature à rendre impossible le maintien de l’ordre public et la sauvegarde de la sécurité intérieure, au sens de l’article 72 TFUE.

      46 En égard à l’ensemble des considérations qui précèdent, il y a lieu de répondre à la question préjudicielle que le code frontières Schengen et la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que, lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé situé sur son territoire et où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, en vertu d’une application mutatis mutandis de l’article 14 de ce code, pour autant que les normes et les procédures communes prévues par cette directive soient appliquées à ce ressortissant en vue de son éloignement.

      Sur les dépens

      47 La procédure revêtant, à l’égard des parties au principal, le caractère d’un incident soulevé devant la juridiction de renvoi, il appartient à celle-ci de statuer sur les dépens. Les frais exposés pour soumettre des observations à la Cour, autres que ceux desdites parties, ne peuvent faire l’objet d’un remboursement.

      Par ces motifs, la Cour (quatrième chambre) dit pour droit :

      Le règlement (UE) 2016/399 du Parlement européen et du Conseil, du 9 mars 2016, concernant un code de l’Union relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen), et la directive 2008/115/CE du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier,

      doivent être interprétés en ce sens que :

      lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé situé sur son territoire et où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, en vertu d’une application mutatis mutandis de l’article 14 de ce règlement, pour autant que les normes et les procédures communes prévues par cette directive soient appliquées à ce ressortissant en vue de son éloignement.

      https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=277630&doclang=FR

  • L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/10/l-australie-offre-l-asile-climatique-aux-citoyens-de-tuvalu_6199315_3210.htm

    L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux.
    Canberra a annoncé offrir aux habitants de Tuvalu, un archipel du Pacifique particulièrement menacé par la montée des eaux, des droits « spéciaux » pour s’installer et travailler en Australie, dans un traité rendu public par les deux pays vendredi 10 novembre. « Nous croyons que le peuple de Tuvalu mérite d’avoir le choix de vivre, étudier et travailler ailleurs, alors que le changement climatique empire », ont déclaré, dans un communiqué conjoint, le premier ministre australien, Anthony Albanese, et son homologue de Tuvalu, Kausea Natano.
    Le traité prévoit des droits « spéciaux » pour les arrivants, mais aussi des volets consacrés à la défense, engageant l’Australie à venir en aide à Tuvalu en cas d’invasion ou de catastrophe naturelle. Les Tuvalais pourront bénéficier d’un « accès aux services australiens, qui leur permettront une mobilité dans la dignité », précise le texte.
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux. Deux de ses neuf atolls ont déjà été largement submergés et des spécialistes estiment que Tuvalu sera complètement inhabitable d’ici à quatre-vingts ans. En octobre, M. Natano a déclaré à l’Agence France-Presse (AFP) que l’archipel risquait de « disparaître de la surface de la Terre » si aucune mesure drastique n’était prise. Le traité dévoilé veut aussi permettre aux Tuvalais de « conserver les liens ancestraux profonds » qui les unissent à leur terre et à la mer. Toutefois, il reconnaît que le passage à l’action arrive tardivement.
    La dépendance commerciale de l’Australie au charbon et aux exportations de gaz, des postes économiques polluants, sont depuis longtemps une pierre d’achoppement avec ses voisins du Pacifique, qui subissent déjà de plein fouet les conséquences du changement climatique, dont la montée des eaux et une météo plus extrême.
    Ce traité peut être perçu comme une victoire stratégique pour Canberra, qui entend étendre son influence dans l’océan face à la présence grandissante de la Chine. Kiribati et les îles Salomon se sont, par exemple, tournés vers Pékin ces dernières années. Tuvalu y reste opposé en continuant de reconnaître diplomatiquement Taïwan. M. Natano a affirmé que le traité représentait un « espoir » et un « grand pas en avant » pour la stabilité régionale. Il doit cependant encore être ratifié par les deux pays pour devenir effectif.

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