#Sajid_Hussain, 14.06.2019
COMUNICATO PER LA MORTE DI SAJID HUSSAIN
Sajid Hussain aveva 30 anni ed era originario del Parachinar, in Pakistan. Era arrivato in Europa qualche anno fa. Dalla Germania, dove aveva chiesto l’asilo politico e aveva vissuto alcuni anni, si era poi spostato in Italia, come molti suoi connazionali: tuttavia la sua richiesta d’asilo in Italia si era arenata in quanto il Paese di competenza – secondo il regolamento di Dublino II (2003/343/CE) – era la Germania, dove però le persone originarie del Parachinar difficilmente ricevono la protezione, al contrario di quanto avviene nel resto dell’Unione europea. In Italia, era entrato nel sistema di accoglienza a Staranzano (GO): era stato seguito dal Centro di Salute Mentale di Monfalcone. A seguito del cosiddetto Decreto Sicurezza e del conseguente smantellamento del sistema SPRAR di accoglienza diffusa, era stato trasferito, insieme ai suoi compagni, nel CARA di Gradisca d’Isonzo, gestito dalla cooperativa Minerva.
Otto mesi fa, aveva chiesto di avviare la procedura per il cosiddetto rimpatrio volontario assistito, gestito dall’agenzia dell’ONU per le migrazioni (IOM/OIM): il rimpatrio volontario è una misura di controllo e contrasto all’immigrazione, attraverso la quale uno Stato (o un’organizzazione internazionale) danno un sostegno economico alle persone che decidono di rientrare nel loro Paese di provenienza. Il processo di rimpatrio assistito di Sajid Hussain era bloccato per mancanza di fondi, come è stato per mesi per tutti quelli gestiti da IOM/OIM. Sajid chiedeva insistentemente di essere rimpatriato o rimandato in Germania: per dimostrare questo suo desiderio, circa quattro mesi fa aveva stracciato i suoi documenti.
Sajid si è annegato nell’Isonzo a Gorizia il 14 giugno, dopo essere stato in Questura a chiedere se si fosse sbloccata la sua procedura di rimpatrio.
La vita di Sajid Hussain interseca in più punti l’insostenibilità del governo europeo delle migrazioni: un sistema che l’ha costretto a un ingresso pericoloso e illegale; che l’ha inserito in un database di sorveglianza (Eurodac); che gli ha vietato di scegliere il Paese dove vivere e l’ha costretto a tentare la procedura di asilo in Italia; che l’ha sottoposto a un processo per la richiesta d’asilo lungo e precarizzante; che lo ha costretto a vivere in una struttura affollata e non adatta alla vita delle persone; che non l’ha tutelato per i suoi problemi psichici; che non gli ha permesso di scegliere di tornare indietro, ingabbiandolo in una strada senza uscita. Il suicidio di Sajid è anche una conseguenza diretta di questo sistema: è la scelta di una persona senza possibilità di scelta; è la scelta di una persona che, come tante altre, viveva le condizioni materiali di invisibilità e disumanizzazione alle quali è sottoposta/o chi entra in Europa illegalmente. Il suicidio di Sajid è una morte di Stato.
Se il Decreto sicurezza, con lo smantellamento del sistema SPRAR e l’eliminazione della protezione umanitaria, ha reso la vita in Italia dei/lle richiedenti asilo ancora più dura, è anche vero che in Italia l’immigrazione è sempre stata gestita come un fenomeno da controllare, incanalare e reprimere, secondo le necessità del mercato del lavoro. In questo razzismo istituzionale, che fonda lo Stato italiano come è oggi, sta l’origine dello sfruttamento delle migrazioni e dell’accettabilità dell’idea stessa che le persone richiedenti asilo possano essere ammassate in una struttura come il CARA di Gradisca, isolate, infantilizzate e costrette a un’attesa lunga mesi. A fianco a quel luogo, il CARA, dovrebbe essere presto aperta una prigione per persone irregolari: il Centro Permanente per il Rimpatrio (CPR), voluto dal Decreto Minniti-Orlando. L’apertura del CPR – di fatto un lager per le persone rinchiuse – porterebbe anche a un aumento del controllo poliziesco sulle vite delle persone che vivono nel CARA, oltre a essere per loro una minaccia visibile di espulsione e rimpatrio.
Il suicidio di Sajid, morto di Stato, segue (almeno) altri quattro suicidi che sono avvenuti negli ultimi due anni tra i richiedenti asilo in Friuli-Venezia Giulia. Questa invisibilità che si fa visibile per un giorno come notizia di cronaca nera è un richiamo potente all’evidenza della brutalità del sistema delle frontiere, che crea una gerarchia mortale tra gli abitanti del mondo. La lotta per la distruzione di tutti i confini è una lotta per la libertà di tutt*.
▻https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2019/06/20/comunicato-per-la-morte-di-sajid-hussain
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Storia di Sajid, che voleva ritornare a casa
Si chiamava Sajid Hussain il migrante pakistano annegato nel fiume Isonzo, a Gorizia, lo scorso 14 giugno. Sajid aveva trent’anni, proveniva dalla regione del Parachinar, dove aveva tre figli piccoli. Era in Europa da tre anni, prima in Germania e poi in Italia, da poco meno di un anno e mezzo. Nel nostro paese la sua richiesta di protezione si era però arenata a causa del trattato di Dublino. Lo stato competente, che per primo aveva identificato e ricevuto la domanda d’asilo di Sajid, era infatti la Germania.
Sajid era ospitato da qualche tempo nel Centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, in seguito alla chiusura dei progetti di accoglienza diffusa dello Sprar, per effetto del decreto Salvini. Prima divideva con alcuni connazionali un alloggio nel vicino paese di Staranzano.
Sajid però non è morto per un incidente, nell’Isonzo si è gettato volontariamente. Aveva deciso di tornare a casa, in Pakistan, o intanto in Germania, per poi partire da lì. Per questo aveva chiesto il rimpatrio, ma anche quella procedura era ferma da otto mesi, bloccata per la mancanza di fondi. Il rimpatrio volontario assistito è gestito dai governi con l’aiuto di organizzazioni internazionali come l’IOM (International Organization for Migration), o da ong come l’italiana Cefa. Il rimpatrio assistito prevede che il migrante riceva una somma, oltre i costi del viaggio, per aiutarlo a reinserirsi nel suo paese d’origine, trovare un lavoro o avviare un’attività. Questa soluzione è meno costosa per lo stato del rimpatrio coatto. L’Italia però ci investe meno di altri paesi europei come Francia e Germania.
Come Sajid, chiedono il rimpatrio volontario molti migranti che non vedono nessuna prospettiva nel paese in cui si trovano. Per lui, però, il limbo in cui era finito era diventato insostenibile: quattro mesi fa aveva perfino strappato i suoi documenti per protesta. Negli ultimi mesi si era chiuso nel silenzio e chi lo conosceva bene è sicuro soffrisse di depressione. Sajid si è buttato nell’Isonzo dopo un’ultima visita alla questura di Gorizia. Era andato a controllare se la sua situazione si fosse sbloccata.
Il suicidio di Sajid non è purtroppo un fatto isolato. Solo nelle strutture di accoglienza del Friuli-Venezia Giulia si sono registrati altri quattro casi negli ultimi anni. Sintomo di un sistema che funziona male, con strutture affollate e sempre meno tutele per la salute, anche psicologica, dei migranti.
Per fare in modo che almeno la salma di Sajid possa tornare in Pakistan, amici e familiari si sono già mobilitati, promuovendo una raccolta fondi su internet.
▻http://www.coopforwords.it/works/view/5647
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