• The new world #atlas of artificial night sky brightness

    Artificial lights raise night sky luminance, creating the most visible effect of light pollution—artificial skyglow. Despite the increasing interest among scientists in fields such as ecology, astronomy, health care, and land-use planning, light pollution lacks a current quantification of its magnitude on a global scale. To overcome this, we present the world atlas of artificial sky luminance, computed with our light pollution propagation software using new high-resolution satellite data and new precision sky brightness measurements. This atlas shows that more than 80% of the world and more than 99% of the U.S. and European populations live under light-polluted skies. The Milky Way is hidden from more than one-third of humanity, including 60% of Europeans and nearly 80% of North Americans. Moreover, 23% of the world’s land surfaces between 75°N and 60°S, 88% of Europe, and almost half of the United States experience light-polluted nights.

    https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.1600377

    #pollution_lumineuse #nuit #nuits #pollution #monde #cartographie #visualisation

    ping @visionscarto

  • Siccità in Europa: gli impatti e i rischi, alla ricerca di soluzioni per la gestione dell’acqua

    L’Atlante del rischio siccità, pubblicato dal Jrc della Commissione europea, evidenzia le vulnerabilità dell’Unione di fronte alla crescente scarsità d’acqua. Agricoltura, energia, trasporto fluviale e forniture di acqua subiranno i maggiori impatti. Come prepararsi prima che arrivi una crisi

    La siccità riguarderà sempre di più l’Europa. Anche all’inizio di quest’anno sono emersi i segni del fenomeno, causati da un inverno eccezionalmente caldo e secco, a cui si sono sommati il persistere degli effetti di un 2022 devastante. Solo dal 2011 l’Osservatorio europeo della siccità (Edo) di Copernicus, il programma europeo di osservazione della Terra, ha segnalato 21 eventi di grave siccità. E si prevede che aumenteranno ulteriormente nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici. Gli impatti riguardano diversi sistemi critici dell’Europa: l’agricoltura, le forniture di acqua potabile, l’energia, il trasporto fluviale e gli ecosistemi.

    Per prepararsi a gestire la scarsità d’acqua in futuro, la Commissione europea sta sviluppando due strumenti con gli scienziati del Jrc, il servizio scientifico della Commissione, e dei partner di Edora (Osservatorio europeo sulla siccità per la resilienza e l’adattamento). Si tratta del Database europeo degli impatti della siccità, che contiene dati dal 1977 al 2022, e l’Atlante europeo del rischio siccità, pubblicato lo scorso ottobre.

    Andrea Toreti è tra i ricercatori che hanno lavorato al progetto e primo autore della pubblicazione. L’obiettivo principale del lavoro è mostrare come la siccità sia un problema europeo: “Nonostante la zona del Mediterraneo sia quella che noi chiamiamo hotspot, il rischio siccità interessa tutto il continente”, spiega ad Altreconomia. Un esempio concreto è quanto accaduto nel 2018, quando l’Europa ha affrontato una siccità unica per le condizioni estreme, sia in primavera sia in estate, che l’hanno caratterizzata. A una primavera con scarse precipitazioni e temperature sopra la media è seguita un’estate altrettanto secca con temperature molto elevate. A subirne le peggiori conseguenze furono l’Europa centrale e settentrionale, con gravi impatti in diversi settori socioeconomici. Ciò che in quel caso permise di attenuare gli impatti della scarsità d’acqua fu una (rara) primavera più piovosa del solito che colpì l’Europa meridionale.

    “Nel 2018 -continua Toreti- la cooperazione all’interno del mercato europeo ha aiutato a far sì che gli effetti della siccità in Europa centrale e settentrionale non si propagassero. L’Europa meridionale fortunatamente aveva avuto delle condizioni climatiche che avevano permesso rese agricole ottimali. E questo ha evitato una maggiore volatilità nei picchi dei prezzi dei beni agricoli. Ma in altri studi, anche recenti, abbiamo dimostrato come i rischi nel settore agricolo, in assenza di mitigazioni a livello globale per ridurre le emissioni, diventeranno sempre maggiori”. Primo autore anche di un articolo scientifico pubblicato nel 2019 sulla rivista Earth’s Future che analizzava le anomalie del 2018, Toreti concludeva che quell’anno doveva essere considerato “un campanello d’allarme”, sottolineandone l’eccezionalità delle condizioni meteo. In futuro aumenterà l’incidenza della siccità su tutto il continente europeo, e saranno rari gli anni in cui alla scarsità d’acqua in una regione si alternerà e sarà compensata dalla piovosità in un’altra.

    L’Atlante europeo identifica le zone più a rischio di siccità per cinque diversi settori -agricoltura, energia, trasporto fluviale, forniture di acqua e ecosistemi naturali– nelle condizioni climatiche attuali, e fornisce anche indicazioni su come questi rischi potrebbero cambiare negli scenari climatici che prevedono aumenti di temperatura di +1,5°C, +2°C e +3°C, rispetto al periodo preindustriale.

    Il settore agricolo, responsabile del 46% dell’utilizzo medio annuo totale di acqua, è uno dei più colpiti dalla siccità. L’Atlante calcola che alle attuali condizioni climatiche le perdite delle rese agricole arriveranno fino al 10% e la zona del Mediterraneo (in particolare la Spagna) e la Romania saranno le più colpite. Le colture dipendenti dalle piogge, come il grano, risentiranno maggiormente delle precipitazioni insufficienti in Spagna, Romania, Italia meridionale e Cipro. Mentre per mais, orzo, riso e patate, irrigate artificialmente, la competizione per le risorse idriche con altri settori potrà rivelarsi un problema. Anche in questo caso le zone più colpite saranno quelle affacciate sul Mediterraneo (Spagna, Italia, Sud della Francia, Grecia) insieme alla Romania. Un’eccezione è rappresentata dalle patate, le cui rese diminuiranno omogeneamente in tutta Europa con picchi in Svezia, Finlandia settentrionale, Bulgaria orientale e, in certa misura, in Italia centro-meridionale.

    “Quello che bisogna arrivare a fare -continua Toreti- è avere un uso più efficiente dell’acqua ed evitare di avere picchi di domanda di acqua contemporaneamente tra diversi settori o all’interno dello stesso settore. Per esempio, si deve evitare che nella coltivazione del riso il picco della domanda di acqua arrivi nello stesso momento di quello per il mais. Questo si può fare adottando tecniche di irrigazione completamente diverse, anche attraverso tecnologie digitali come i sensori che monitorano costantemente i campi e permettono di programmare diversamente l’irrigazione dei campi”. Inoltre, aggiunge il ricercatore, un’altra strategia per l’agricoltura può essere quella di adottare varietà diverse della stessa coltura, più resistenti alle condizioni meteo-climatiche cambiate: “Uno degli strumenti di adattamento è lo sviluppo di servizi climatici che possano dare informazioni all’agricoltore per scegliere durante la semina la varietà della stessa coltura che riduce i rischi legati agli eventi estremi che potrebbero verificarsi durante la stagione di crescita”.

    In altri settori, come la fornitura di acqua pubblica, compresa quella potabile, la siccità crea problemi per quel che riguarda la quantità di risorse disponibile ma anche per la qualità dell’acqua a disposizione. Le proiezioni suggeriscono che la siccità potrebbe mettere sotto pressione anche Paesi nordici come Svezia e Finlandia, che potrebbero essere però in grado di far fronte all’aumento di prelievi di acqua. Mentre nelle regioni del Sud d’Europa, i ridotti livelli delle acque sotterranee e di superficie potrebbero portare a restrizioni che ne limitano l’uso, non solo domestico (non so se aggiungere).

    La mancanza di precipitazioni e le temperature elevate modificheranno inoltre la portate dei fiumi, portando a un abbassamento dei livelli di acqua. Le conseguenze sono significative per il settore energetico e del trasporto fluviale. Riduzioni nella produzione di energia idroelettrica sono attese in Portogallo, Cipro, Spagna, Grecia, Estonia e Bulgaria, anche se questi ultimi tre Paesi sono meno a rischio in termini assoluti. E anche Francia e Italia dovranno affrontare rischi sostanziali. Così come il riscaldamento dell’acqua dei fiumi e il loro abbassamento renderà più difficile il raffreddamento delle centrali nucleari in Svezia meridionale, nella Slovacchia occidentale e in Spagna. Ma perdite anche moderate potranno avere un grande impatto in Francia, dove la produzione di energia nucleare ha una delle quote più alte al mondo nel mix energetico. E anche la rete di quasi 40.000 chilometri di corsi d’acqua navigabili su cui può contare l’Europa -concentrata su pochi sistemi fluviali come Reno, Danubio, Elba, Rodano, Senna e Po- subirà degli impatti. Il settore della navigazione interna subirà perdite significative in Germania e, in scenari climatici più caldi, aumenterà nella regione del Danubio, con conseguenze anche per i settori industriali che dipendono da questi trasporti.

    Tra gli obiettivi dell’Atlante c’è anche quello di riuscire a valutare gli effetti a cascata della siccità, la “catena degli impatti” che da un settore possono poi svilupparsi sugli altri: “Siamo ancora agli inizi dello sviluppo di questo concetto, ma il prossimo passo è iniziare a sviluppare metodologie per quantificare queste catene di impatti e soprattutto gli shock che potrebbero produrre a livello europeo. I cambiamenti climatici ci porteranno ad avere disponibilità diverse o regimi idrici completamente diversi, l’idea è che da oggi dobbiamo iniziare ad adattarci, mentre riduciamo le emissioni ovviamente. E dobbiamo farlo tutti insieme in Europa”.

    È questa l’idea della Commissione europea che nel suo programma di lavoro per il primo trimestre del 2024 ha annunciato la presentazione di una “Water resilience initiative” come una delle sue priorità. Ne ha dato qualche anticipazione Virginijus Sinkevičius, il commissario europeo per l’Ambiente, lo scorso 17 ottobre in una discussione al Parlamento europeo, sottolineando che i settori che utilizzano più acqua, come l’industria, l’energia, i trasporti e l’agricoltura, devono fare di più per integrare l’efficienza idrica e la protezione degli ecosistemi. “Abbiamo bisogno di una trasformazione sistemica del modo in cui l’acqua viene gestita, utilizzata e valorizzata, tenendo sempre presente la necessità di proteggere la natura e gli ecosistemi. […] Ci è voluta una grande crisi per insegnarci quanto sia preziosa la nostra energia. È ora di applicare una mentalità diversa anche all’acqua. Invece di aspettare che si verifichi una crisi, dobbiamo prepararci adottando un’azione complessiva”.

    https://altreconomia.it/siccita-in-europa-gli-impatti-e-i-rischi-alla-ricerca-di-soluzioni-per-

    #sécheresse #Europe #eau #atlas #risques

    • #Drought_Risk_Atlas: heightened risk threatens the environment and the economy

      The European Drought Risk Atlas provides for the first time a comprehensive assessment and mapping of drought risks and impacts in the EU for a global warming of 1.5, 2 and 3 degrees.

      In recent years, droughts have significantly affected regions across the EU. However, accurate assessment and quantification of drought risks and their impacts had remained challenging due to the complex nature of these events. Droughts cannot be easily defined or predicted: they develop gradually, can occur outside of seasonal patterns, and may persist over extended periods.

      Thanks to an innovative approach, combining expert knowledge and machine learning, a first European Drought Risk Atlas offers a detailed and disaggregated view on the risks posed by droughts to our societies and ecosystems, as well as the underlying drivers of these risks.

      Commissioner for Innovation, Research, Culture, Education and Youth, Iliana Ivanova, responsible for the JRC, said: “Droughts affect all EU regions, with a huge impact on human life, our ecosystems, farming, jobs and transport. Mapping drought risk helps identify vulnerable areas, and anticipate and understand droughts. The Commission’s Joint Research Centre plays a major role in protecting citizens and our environment, thanks to the scientific and analytical work it continuously provides.”

      The Atlas reveals that the current levels of drought risk are significantly high, with average annual losses posing both economic and environmental threats. The Atlas aims to support the development and implementation of drought management and adaptation policies and actions across the EU.

      The increased frequency of droughts is shrinking the recovery window, leading to even more severe consequences, according to the Atlas. While climate change has already resulted in more intense and persistent meteorological droughts in southern Europe, it is expected that almost all the EU will be more affected by drought events with further global warming. More frequent and severe droughts affecting agriculture and ecosystems are projected to occur at 2 °C or above.

      The Atlas is complemented by the European droughts impacts database, which contains data on drought impacts from 1977 to 2022. It will become available to users at a later stage. Both the Atlas and the database have been developed by the JRC and the European Drought Observatory for Resilience and Adaptation (EDORA) partners, and they will be integrated into the Copernicus European Drought Observatory run by the JRC.
      A novel approach to assess drought

      The Atlas uses an innovative approach to address the complex characteristics of drought hazards, risks and impacts. JRC and EDORA-partners employed expert knowledge and machine learning techniques to assess the risks for various sectors and systems within the EU under current conditions and projected climate scenarios of +1.5°C, +2°C, +3°C as compared to the pre-industrial period.

      The assessment focuses on five sectors and systems: agricultural crop systems, public water supply, energy production, river transportation, and ecosystems. The analysis integrated findings from literature, consultations with experts, and data-driven assessments for the 27 EU countries to assess the risks associated with drought.
      What are the risks of drought across regions?

      The Mediterranean region is most at risk due to a clear trend of increasing dry conditions caused by global warming. In particular, the Iberian Peninsula is under higher drought risk under both current and projected climate conditions.

      Northern regions may face more diverse and varying effects, including wetter yet more variable weather conditions, and an expected increase in the frequency and intensity of extremes. For some sectors such as agriculture and hydropower, a lower drought risk is expected, particularly in the Baltics.

      Eastern and western Europe may experience more complex effects due to the interplay between drying/wetting dynamics and precipitation variability. Notably, Romania already experiences relatively high drought risks, and projections show increased risk across several sectors. In France, the higher drought risk in the south is expected to be found also in the north as warming levels rise. Additionally, France is particularly vulnerable in terms of both nuclear and hydropower, with risks that are projected to significantly increase.
      Adaptation measures can help mitigate the risks

      Precision agriculture and water resource diversification policies can be integrated into sustainable adaptation strategies in the agricultural sector and bring benefits. Policies like the EU Water Reuse Regulation, in application since June 2023, can promote diversification of water resources, particularly in coastal areas where water is typically wasted.

      For public water supply, adaptation efforts need to focus on both water quality and quantity with the recast of the EU Drinking Water Directive holding a crucial role, thanks to updated water quality standards.

      The implementation of dry or hybrid cooling systems can reduce vulnerability of the energy system. For river transportation, a promising potential strategy for adaptation consists of adapting vessels to low flow and supply stock management.

      Forest management practices, such as shorter rotation cycles and appropriate mixing of tree species, may enhance resilience to drought in forest ecosystems. Buffer zones around designated ecosystems can aid in the adaptation of freshwater ecosystems.
      Background

      By assessing the drought impacts on our society and ecosystems, we can investigate the likelihood of these impacts occurring again in the near and distant future. This understanding is crucial in effectively reducing, managing, and adapting to the consequences of future drought events.

      In the past decades, the EU has experienced multiple drought events: the European Drought Observatory (EDO) has reported 21 severe events since 2011. The 2022 drought was especially devastating and had a lasting impact into early 2023.

      These events have affected not only the traditionally vulnerable southern region but also central, eastern, and northern Europe. The impacts have been felt in various sectors including agriculture, water supply, forestry, energy, aquaculture, ecosystems, and public safety. Economic annual losses related to droughts in the EU and UK have been previously estimated to be around € 9 billion.

      https://joint-research-centre.ec.europa.eu/jrc-news-and-updates/drought-risk-atlas-heightened-risk-threatens-environ
      #environnement #économie #climat #changement_climatique #rapport

  • Au Maroc, « la #montagne a été trop longtemps marginalisée »

    La géographe marocaine #Fatima_Gebrati, spécialiste du Haut Atlas de Marrakech, souligne l’insuffisance de l’#aménagement_du_territoire dans les zones les plus violemment frappées par le #séisme. Une #marginalisation qui commence dès la période coloniale.

    Autour d’elle, le décor est apocalyptique. Lundi 11 septembre, la géographe marocaine Fatima Gebrati roule en direction de Talat N’Yacoub, une commune de la province d’#El-Haouz, pulvérisée par le séisme – même les bâtiments construits aux normes antisismiques. Elle y achemine de l’aide humanitaire aux victimes livrées à elles-mêmes.

    Elle est aussi l’autrice d’une thèse sur la mobilisation territoriale des acteurs du développement local dans le Haut Atlas de Marrakech, soutenue en 2004. Un travail qu’elle a poursuivi depuis, à l’université Cadi Ayyad. Dans un entretien à Mediapart, elle déplore les efforts insuffisants de l’État marocain pour aménager les territoires de montagne, particulièrement meurtris par le séisme.

    Mediapart : Quelles leçons tirez-vous du séisme survenu vendredi 8 septembre ?

    Fatima Gebrati : Il faut revoir l’aménagement du territoire au #Maroc principalement dans les #zones_de_montagne. L’État a fourni des efforts qui restent insuffisants. Ce séisme nous l’apprend encore de manière dramatique. J’espère qu’il va y avoir une prise de conscience et une vraie volonté au sein du gouvernement pour repenser les politiques publiques et l’aménagement du territoire.

    La montagne a été trop longtemps marginalisée en matière d’aménagements du territoire. Les raisons sont multiples et la première a à voir avec la #colonisation du Maroc par la #France. Bien avant l’indépendance, dès la colonisation, l’État a concentré ses efforts de développements dans les plaines. Comme la Tunisie ou l’Algérie, le Maroc a constitué un laboratoire d’#expérimentations. Des #barrages ont été créés pour alimenter la France, « le territoire mère », en matière agricole, industrielle, pas pour les beaux yeux des Marocains.

    Seul le « #Maroc_utile » et non « l’inutile » comptait pour la France, comme l’affirmait le maréchal #Lyautey [le grand artisan de la #colonisation_française – ndlr]. Ce Maroc « inutile », c’était la montagne, la #marge qui a une connotation politique. C’est dans les montagnes que la lutte contre la colonisation a été la plus farouche.

    Après l’indépendance, l’État a fait des efforts dans plusieurs domaines mais les sédiments hérités de la colonisation demeurent très lourds, jusqu’à aujourd’hui. Malgré les nombreux programmes dédiés, on n’a pas réussi à combler le vide et les failles qui existent sur ces territoires.

    Le plus grand déficit demeure l’aménagement du territoire. L’état des routes est catastrophique, il n’y a pas assez de routes, pas assez de connexions. Il faut renforcer le tissu routier, construire d’autres routes, désenclaver. Au niveau du bâti, les politiques ne sont pas à la hauteur. Des villages entiers se sont effondrés comme des châteaux de cartes.

    On ne s’est jamais posé la question au Maroc de savoir comment construire les maisons en montagne. Faut-il le faire en béton et autres matériaux modernes ou inventer un modèle qui préserve la spécificité des zones montagneuses et les protège des catastrophes naturelles ? C’est d’autant plus invraisemblable que les montagnes du Haut #Atlas de Marrakech sont un berceau de la civilisation marocaine à l’époque des Almoravides et des Almohades.

    Comment expliquez-vous que ce soit la société civile qui pallie depuis des années au Maroc, tout particulièrement dans les zones les plus marginalisées, les défaillances de l’État jusqu’à l’électrification ou l’aménagement des routes ?

    À la fin des années 1990, alors qu’émergeait la notion de développement durable, on a assisté à une certaine effervescence de la société civile, d’associations locales, et à une forte mobilisation d’ONG nationales et internationales. Elles ont commencé à intervenir dans le #Haut_Atlas. Dans certaines vallées, des développements touristiques ont vu le jour comme dans la vallée de Rheraya dans la province d’El-Haouz. Des microprojets locaux ont permis de ramener l’électricité avec un groupe électrogène, puis d’électrifier un douar [village – ndlr], comme Tachdirt, bien avant l’électrification menée par l’État.

    De nombreuses études ont été réalisées pour comprendre la réalité de la montagne et orienter l’État. Malheureusement, les universitaires marocains n’ont pas l’oreille du gouvernement. Nos travaux de recherche sont restés dans les tiroirs de nos universités. Deux programmes essentiels ont été investis par l’État à partir des années 1990 – l’électrification du monde rural et l’accès à l’eau potable, deux nécessités vitales –, puis dans un autre temps, la scolarisation. Des efforts colossaux ont été réalisés mais ils restent insuffisants.

    Ces régions rurales et montagneuses sont-elles marginalisées parce qu’elles sont #berbères ou plutôt #amazighes – « berbère » étant un terme colonial ?

    C’est très difficile de vous répondre. Je considère que la marginalisation de ces territoires est plus économique que politique. Après l’indépendance, le Maroc s’est retrouvé considérablement affaibli. L’État colonial a tout pompé, volé, les caisses étaient vides.

    Le Maroc s’est retrouvé sans ressources financières ou humaines puisque de nombreux hommes ont donné leur sang pour libérer le pays. Il fallait orienter l’#économie du Maroc. Le choix s’est porté sur l’#industrie et l’#agriculture. Ce fut un échec. Puis le Maroc a ciblé l’essor économique par le #tourisme. À la fin des années 60, les premières infrastructures ont été construites, des hôtels, des aéroports, des personnels ont été formés.

    Mais ces piliers restent fragiles, l’agriculture, par exemple, est soumise aux précipitations. Si une saison est sèche, le Maroc souffre. Quant au tourisme, on a vu la fragilité du secteur avec le tourisme quand, notamment, Marrakech est devenue une ville fantôme pendant la pandémie de Covid-19. Il faut créer d’autres pôles économiques aux alentours des pôles régionaux, créer de l’infrastructure de base, renforcer le tissu économique pour limiter le taux de chômage, insérer les jeunes. Le tourisme en fait partie mais il ne doit pas être tout.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/110923/au-maroc-la-montagne-ete-trop-longtemps-marginalisee

    • Séisme. Maroc : le silence gênant de Mohammed VI
      https://www.courrierinternational.com/article/seisme-maroc-le-silence-genant-de-mohammed-vi

      Depuis Paris, où il séjournait, Mohammed VI a tardé à s’exprimer après le terrible tremblement de terre qui a frappé son pays, s’étonne la presse internationale.

      Depuis la France, où il séjournait, le monarque marocain s’est exprimé le 9 septembre au soir, à travers une déclaration officielle dans laquelle il décrétait trois jours de deuil et ordonnait le déploiement d’un programme d’urgence pour venir en aide aux victimes.

      Mais jusqu’à la publication, détaille l’hebdomadaire espagnol, le royal silence a contraint toutes les autres autorités marocaines à adopter la même attitude. Ni le chef du gouvernement, Aziz Akhannouch, pourtant originaire de la région touchée, ni le ministre de l’Intérieur, Abdelouafi Laftit, ne se sont exprimés ni ne se sont rendus dans les endroits les plus durement touchés par le tremblement de terre. À l’échelon local, même absence de réaction et attentisme des autorités.
      Le seul membre de la famille royale à avoir dérogé à cette réserve du roi a été le prince Moulay Hicham, son cousin germain. Le “Prince rouge”, son surnom en raison de ses positions réformatrices sur la monarchie, a exprimé sa solidarité avec le peuple marocain depuis sa résidence de Boston.

  • Aqueduct | Using cutting-edge data to identify and evaluate water risks around the world
    https://www.wri.org/aqueduct?uniqueIdentifier=3DDB6081-677E-4357-A5C7-870C3EE3CB2A

    https://www.wri.org/applications/aqueduct/water-risk-atlas/#/?advanced=false&basemap=hydro&indicator=w_awr_def_tot_cat&lat=30&lng=-80&mapMod

    L’humanité souffre de plus en plus du manque d’eau. C’est ce qui ressort des travaux du #World_Resources_Institute (#WRI), qui vient de mettre à jour son #Atlas des risques liés à l’eau, nommé Aqueduct. Selon les nouvelles données du think tank américain, 25 pays sont actuellement exposés à un #stress_hydrique extrêmement élevé, soit le niveau le plus haut. Le stress hydrique correspond à une situation dans laquelle la demande en eau dépasse les #ressources disponibles. Le WRI classe un pays en risque extrêmement haut lorsque celui-ci utilise 80 % de tout l’or bleu dont il dispose, ce qui peut mener à des pénuries. Les pays dans ce cas abritent au total un quart de la population mondiale, soit 2 milliards de personnes, selon le think tank. « Le monde est confronté à une #crise_de_l’eau sans précédent, exacerbée par le changement climatique », alerte le WRI. Un avertissement d’actualité alors que plusieurs pays, dont la France, souffrent d’une canicule intense, qui aggrave la sécheresse. Si l’Hexagone n’est pas pour l’heure identifié par le WRI comme faisant partie des zones du monde les plus durement frappées, « plus de 86 communes » en connaissent un avant-goût et subissent actuellement des difficultés d’approvisionnement en eau potable, indiquait vendredi 18 août la secrétaire d’Etat chargée de la Biodiversité, Sarah El Haïry. Laquelle doit se rendre lundi dans l’Ain avec son collègue Christophe Béchu, ministre de la Transition écologique, pour présenter « la liste des quinze sites industriels pour lesquels les efforts en consommation d’eau sont les plus facilement réalisables dans un objectif de sobriété hydrique ». Histoire, peut-être, de ne pas suivre le chemin de la Belgique. Car notre voisin figure de façon surprenante parmi les huit pays, dont trois de l’Union européenne (avec Chypre et la Grèce), qui ont intégré le triste club de ceux classés en risque extrêmement haut par le WRI depuis la précédente version d’Aqueduct en 2019. « La demande industrielle, qui représente près de 90 % de tous les besoins en eau en Belgique, en est la principale cause », précise Samantha Kuzma, responsable des données d’Aqueduct. […]

    Un manque d’eau plus ponctuel, au moins un mois par an, concerne environ 4 milliards de personnes dans le monde actuellement. D’ici 2050, ce chiffre pourrait se rapprocher de 6 milliards, avertit le WRI. […]

    (Libération)

  • Atlas der Abwesenheit
    Kameruns Kulturerbe in Deutschland

    Une somme énorme de savoir sur les pillages allemands, les cruelles expéditions punitives et les « butins », etc...

    Le livre en format livre est enfin arrivé en Norvège, 520 pages en format 25 x 25. C’est en Allemand, et je sais qu’il y a des germanophones ici qui seront peut-être intéressés, j’en ai deux copies en plus que j’offre très volontiers à celles et ceux qui le demanderont ! (les premièr·es arrivés seront les premiers servis) !

  • #Cartographie. #Al-Zaatari, le #camp_de_réfugiés devenu la douzième ville de #Jordanie

    Il y a onze ans, près de la frontière syrienne, ce camp commençait à accueillir des réfugiés syriens. Aujourd’hui, il compte toujours plus de 80 000 habitants, dont près de 60 % ont moins de 18 ans. Voici le #plan de cette véritable ville, avec ses écoles et ses marchés. Un plan à retrouver dans notre hors-série “L’Atlas des migrations”, en vente chez votre marchand de journaux.

    https://www.courrierinternational.com/grand-format/cartographie-al-zaatari-le-camp-de-refugies-devenu-la-douziem

    #réfugiés #migrations #asile #villes #urban_refugees #camps_de_réfugiés #visualisation

  • La prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva

    Una ricerca ha esaminato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte. Dal Perù al Guatemala, dall’India al Sudafrica. Non solo duri impatti ma anche nuove pratiche di resistenza

    Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

    Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

    L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne ai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

    I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

    In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

    L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

    Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

    Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

    La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Maxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

    Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

    La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.

    https://altreconomia.it/la-prima-analisi-globale-dellattivismo-delle-donne-contro-lindustria-es

    #femmes #résistance #extractivisme #justice_environnementale

  • Atlas Social du Mans. Enjeux d’#aménagement et #inégalités_territoriales


    De nouvelles planches thématiques seront régulièrement proposées à la lecture. Découvrez :

    - Les Élections municipales : entre pandémie et abstention

    – Les Restructurations industrielles et le recul des effectifs de la classe ouvrière sur l’agglomération mancelle

    – Les ateliers ferroviaires : un symbole de l’évolution économique et sociologique de la ville

    – L’hégémonie de l’#automobile dans l’aire urbaine du Mans

    – La Sarthe, l’Huisne et la ville du Mans

    – L’enceinte romaine du Mans, recherches archéologiques et valorisation touristique

    – La « #bioéconomie_circulaire » peut-elle changer le Mans (Métropole) ?

    – Les #déchets : une longue histoire d’inégalités écologiques et environnementales

    – Le #zonage commercial aux portes du Mans : permanence ou fin d’un modèle ?

    https://atlas-social-du-mans.fr

    #Le_Mans #atlas #atlas_social #urban_matter

  • AGeI: Atlante Covid-19. Geografie del contagio in Italia

    L’Atlante, mediante l’impiego additivo testo-carta, prospetta il quadro epidemico della prima ondata di Covid-19 in Italia (febbraio-giugno 2020). Questo periodo, interessato dalle rigide restrizioni del lockdown, permette di esplorare la nascita dei focolai, la diffusione del contagio, la virulenza del morbo in certe parti dell’Italia in relazione agli aspetti fisico-ambientali e socio-territoriali di ogni Regione. La pandemia, infatti, ha evidenziato che i territori del contagio sono anisotropi e reagiscono all’infezione in modo differente. L’obiettivo dell’Atlante è dettagliare e problematizzare questa articolazione. La cartografia, incrociando i dati socio-territoriali con i dati inerenti il contagio, delinea situazioni ambientali molto diverse: emerge una suddivisione tripartita della Penisola, che, in questa prima ondata, si mantiene inalterata nel tempo. Si identifica così tre differenti «Italie»: quella settentrionale, in cui l’intensità del contagio è massima; quella centrale dove l’intensità è medio-alta; la meridionale infine, comprende il resto della penisola italiana, colpita in modo più lieve. Ciò suggerisce che fattori fisici e sociali intervengono nella diffusione del morbo confermando l’impostazione metodologica della ricerca.

    Pour télécharger l’atlas:
    https://www.ageiweb.it/wp-content/uploads/2022/08/Atlante-COVID-19.pdf

    https://aic-cartografia.it/2022/09/04/agei-atlante-covid-19-geografie-del-contagio-in-italia

    #atlas #covid #covid-19 #contamination #cartographie #visualisation #Italie

    ping @simplicissimus @reka @fil

  • Du jeu dans le #paysage
    https://metropolitiques.eu/Du-jeu-dans-le-paysage.html

    Avec leur #atlas des régions naturelles, dont le volume 3 vient de paraître, les artistes Éric Tabuchi et Nelly Monnier proposent, par la cartographie et la #photographie, une contre-lecture des espaces de la vie quotidienne hors des métropoles. Le projet de l’Atlas des régions naturelles est moins fou qu’il n’en a l’air ; il est même assez classique à première vue. Depuis 2017, Éric Tabuchi et Nelly Monnier se proposent de constituer une archive photographique du #territoire français, riche d’environ 25 #Commentaires

    / photographie, atlas, paysage, #France, #région_naturelle, territoire

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-gaudin8.pdf

  • Da #Melilla a #Beni_Mellal: dove sono finiti i respinti tra Spagna e Marocco

    Dopo le brutali violenze al confine con l’enclave spagnola di fine giugno, più di 200 persone sono state allontanate con la forza nel Sud del Marocco, in una zona impreparata alla loro assistenza. Ecco come ha risposto il territorio

    Le immagini dei violenti respingimenti dei migranti avvenuti il 24 giugno scorso da parte delle forze dell’ordine marocchine e spagnole alla frontiera con l’enclave spagnola di Melilla sono rimbalzate su tutte le testate europee. Quei 37 morti e le centinaia di feriti hanno suscitato sgomento e sdegno in tutta la comunità internazionale e diverse riflessioni su come ripensare alla gestione delle migrazioni ai confini dell’Unione europea. Mentre i riflettori erano puntati sul filo spinato dell’ingresso di Barrio Chino, file e file di autobus carichi di migranti partivano da Nador, dieci chilometri a Est di Melilla, e si snodavano lungo le diverse routes nationales del Marocco verso destinazioni il più possibile lontane.

    A 678 chilometri più a Sud, nel cuore della catena montuosa del Medio Atlante la città di Beni Mellal da un giorno all’altro si è trovata ad ospitare un flusso senza precedenti di migranti. Circa 210 persone si sono riparate nei pressi della stazione degli autobus, luogo di elezione dei senzatetto della zona. L’erba dei giardini di Boulevard Mohamed VI a fare da letto e i rami degli alberi a fare ombra dal sole cocente per proteggersi dai 45 gradi tipici della stagione estiva. Beni Mellal è il capoluogo di Beni Mellal-Khenifra, una regione grande come la Sicilia e la Valle d’Aosta messe insieme. A vocazione agricola e con un’intensa attività di estrazione di fosfati, è storicamente sempre stata considerata un’area di emigrazione di cittadini marocchini verso il Nord Italia, specie in Piemonte e Lombardia. Negli ultimi 15 anni però l’area è soggetta alla migrazione di ritorno e circolare. Altro fenomeno che la caratterizza è quello del transito dei migranti provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana che tentano di raggiungere l’Europa. Tuttavia, a causa della pandemia da Covid-19 e del rafforzamento dei controlli alle frontiere di Ceuta e Melilla, per alcuni, soprattutto ivoriani e ciadiani, il transito si è tramutato in uno stanziamento. Si tratta perlopiù di migranti in situazione “irregolare” che vivono in strada o in edifici in costruzione, mendicando agli incroci. L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    La richiesta d’asilo è valutata prima dall’Unhcr e poi, in caso di esito positivo, da un ufficio del governo marocchino. Nel 2020 sono state riconosciute 847 “carte del rifugiato”

    In Marocco non esiste una legge che regoli il diritto alla protezione internazionale, nonostante dal dicembre 2014 sia in vigore la Strategia nazionale di immigrazione e asilo che ha come obiettivo quello di facilitare l’accesso ai servizi, all’educazione, alla salute e all’alloggio per gli stranieri presenti sul territorio nazionale. Non essendoci un sistema di asilo consolidato nel Regno, è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che affianca il governo marocchino prendendo in carico ed esaminando le richieste di protezione internazionale. In caso di esito positivo rilascia un documento che attesta lo status di rifugiato, ma che non regolarizza la posizione sul territorio. Con tale documento è possibile rivolgersi al Bureau des réfugiés et des apatrides (Bra), istituzione dipendente dal governo marocchino, che riesamina la documentazione e in seconda battuta può confermare o rigettare lo status. Nel primo caso, il beneficiario ottiene una “carta del rifugiato” con la quale successivamente è possibile richiedere un titolo di soggiorno e quindi regolarizzare la propria presenza. Nel rapporto di bilancio del 2020 sulla politica di immigrazione e asilo si parla di 847 persone con lo stato di rifugiato riconosciute dal Bra. Le statistiche aggiornate al 31 luglio scorso raccontano di una popolazione di 18.985 persone prese in carico da Unhcr di cui 9.277 richiedenti asilo e 9.708 con un primo esito positivo.

    Dal 25 al 30 giugno 2022, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena

    A fine giugno le Organizzazioni non governative internazionali e le associazioni di Beni Mellal che si occupano di sviluppo, improvvisamente si sono trovate a gestire centinaia di persone, molte delle quali gravemente ferite, senza aver una particolare esperienza nella gestione dell’emergenza. La nazionalità più presente quella dei sudanesi, seguiti da ciadiani, etiopi, nigeriani e nigerini. Età media 23 anni. Nessuna donna. Per comunicare gli operatori internazionali si sono affidati all’intermediazione dei ciadiani che parlando sia francese sia arabo hanno fatto da traduttori per le altre nazionalità arabofone.

    A fare da capofila nella gestione dei primi soccorsi è Progettomondo, un tempo Mlal, Ong veronese attiva in Marocco e in particolare nella regione da circa 20 anni, specializzata in migrazione e sviluppo. La sede, situata nel quartiere di Hay Ghita, si è trasformata nella base operativa di coordinamento della società civile. Hanno unito le forze l’Ong italiana Cefa, partner storico di Progettomondo in Marocco specializzato in accompagnamento dei migranti, la Chiesa cattolica di Beni Mellal che si è offerta di pagare i medicinali e l’operazione per un giovane con il ginocchio in frantumi, l’associazione Cardev sempre disponibile per le attività con i migranti, la Mezzaluna Rossa che ha offerto i propri locali per fare le medicazioni e l’associazione Maroc solidarité médico sociale (MS2), attiva tra Rabat e Oujda, le cui operatrici si sono spostate eccezionalmente a Beni Mellal per mettere a disposizione risorse e competenze nell’accompagnamento medico. Costante la partecipazione degli operatori di Unhcr, attore non presente nella regione ma che proprio il giorno degli episodi di Melilla stava tenendo una formazione alle associazioni locali sul diritto all’asilo. “Nonostante l’area non sia specializzata nell’ emergenza, i vari attori avevano già in atto delle attività di assistenza” spiega Rachid Hsine, senior protection associate a Unhcr.

    “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una rete in Marocco, non c’è interesse a restare. Dati i maggiori controlli a Nord, molti si muovono verso le Isole Canarie” – Hsine

    La comunicazione, secondo Fabrizia Gandolfi, rappresentante Paese di Progettomondo in Marocco è stata la chiave di volta: “Le relazioni e la fiducia delle autorità locali e di sicurezza ci hanno permesso di portare gli aiuti. Per settimane, sono state condotte una decina di distribuzioni di viveri a beneficio di centinaia di persone con il benestare della Prefettura che collabora con Progettomondo da anni. I contatti continui con la Delegazione regionale della salute hanno facilitato l’accesso ai poliambulatori, laddove insorgesse reticenza nell’accogliere migranti irregolari. Anche le precedenti formazioni erogate al personale sanitario sull’accoglienza dei migranti nel corso dei nostri progetti hanno facilitato la ricezione”.

    Solo dal 25 al 30 giugno di quest’anno, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena. Aimée Lokake, agente di terreno dell’Ong Cefa applaude lo staff medico locale: “I primi soccorsi sono stati garantiti a decine di migranti alla volta, nonostante l’arrivo inaspettato e la diffidenza nell’accogliere persone protagoniste di atti di violenza, come riportato dei media locali”. Emblematico della collaborazione tra i diversi attori il caso di Ahmed, sudanese di 22 anni arrivato a Beni Mellal con un piede in cancrena a causa delle medicazioni frettolose e sommarie ricevute all’ospedale di Nador subito dopo gli scontri. La prima diagnosi all’ospedale di Beni Mellal aveva dato un esito nefasto: amputazione. Tuttavia, società civile e istituzioni si sono mobilitate per dare una speranza al giovane. La Delegazione regionale della salute ha fatto da intermediario con medici e assistenti sociali, Progettomondo e Cefa hanno vegliato il ragazzo in ospedale, Unhcr, MS2 e l’Association de planification familiale di Rabat hanno tenuto i contatti con l’ospedale della capitale per verificare la possibilità di trasferimento, infine Progettomondo ha assicurato la presenza di un’ambulanza privata per il trasporto e Cefa si è fatta carico delle cure. A Rabat la diagnosi è stata più clemente, il piede è stato salvato e il giovane è stato inserito nei registri di Unhcr per richiedere la protezione internazionale.

    Sono 360 i milioni di euro versati dall’Ue al Marocco negli ultimi otto anni per la gestione del fenomeno migratorio. Di questi, il 75% (270 milioni) sono stati stanziati per “proteggere” le frontiere europee. Nell’agosto 2022 è trapelata la notizia di un ulteriore finanziamento di 500 milioni di euro che lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi

    Uno dei problemi emersi è stato quello della presa in carico: “Purtroppo sono le Ong e le associazioni che devono pagare i costi delle cure accessorie. Una volta ricevute quelle di base, i migranti finiscono in strada con conseguenti problemi di igiene. Le organizzazioni si sono trovate a mobilitare fondi straordinari per trovare alloggi consoni” racconta Hsine. Secondo i dati rilasciati da Progettomondo, alla fine di agosto il numero di migranti è sceso a 100. Alcuni hanno preso la volta di Melilla, altri si sono spostati a Casablanca e a Rabat, alcuni sono riusciti ad arrivare in Spagna prendendo il mare da Sud-Ovest. “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una presenza comunitaria in Marocco, non vi è alcun interesse a restare. Dato il rafforzamento dei controlli alle frontiere a Nord del Paese, molti tentano di arrivare alle Isole Canarie attraverso Laayoune (città a circa 30 chilometri dalla costa, ndr)” evidenzia Hsine. Ad agosto la notizia trapelata da fonti comunitarie di un prossimo finanziamento di 500 milioni di euro da parte dell’Unione europea al Marocco per la gestione delle migrazioni lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi, dato che negli ultimi otto anni 270 su 360 milioni di euro ricevuti sono stati allocati alla protezione delle frontiere.

    “La situazione dei migranti bloccati in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee” – Gandolfi

    Uno dei nodi è l’utilizzo di questi fondi, considerando che le organizzazioni internazionali stimano che tra le 60 e le 80mila persone all’anno transitino irregolarmente sul territorio marocchino e solo nel 2020 sono stati 40mila i tentativi di ingressi e di uscita bloccati dalle autorità: “Le alternative sono diverse: approccio securitario, adattamento dei programmi alle popolazioni in movimento, intervento umanitario, integrazione oppure intervento nei Paesi di origine”, spiega Hsine. Secondo Gandolfi, la ricetta per far fronte a nuovi flussi massicci è andare oltre la risposta emergenziale: “Dal momento che la situazione delle persone migranti presenti irregolarmente e bloccate in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee, è necessario creare dei tavoli di coordinamento permanenti tra società civile e collettività territoriali dove elaborare risposte condivise e responsabilizzare le istituzioni sul loro ruolo di governance”. Nel frattempo gli autobus continuano a partire dal Nord verso il Sud del Paese carichi di giovani che prima o poi ritenteranno di passare il confine, sperando di essere tra i fortunati a valicare il muro di quella che ormai sembra sempre di più somigliare a una fortezza.

    https://altreconomia.it/da-melilla-a-beni-mellal-dove-sono-finiti-i-respinti-tra-spagna-e-maroc

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    #toponymie_politique:

    L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    #toponymie_migrante

    #Maroc #expulsions #renvois #déportation #migrerrance #Atlas_marocain #montagne #migrations #asile #réfugiés #Bureau des_réfugiés_et_des_apatrides (#Bra) #Progettomondo #Cefa #Mlal #Cardev #société_civile #HCR

  • Atlante Covid-19. Geografie del contagio in Italia

    L’Atlante, mediante l’impiego additivo testo-carta, prospetta il quadro epidemico della prima ondata di Covid-19 in Italia (febbraio-giugno 2020). Questo periodo, interessato dalle rigide restrizioni del lockdown, permette di esplorare la nascita dei focolai, la diffusione del contagio, la virulenza del morbo in certe parti dell’Italia in relazione agli aspetti fisico-ambientali e socio-territoriali di ogni Regione. La pandemia, infatti, ha evidenziato che i territori del contagio sono anisotropi e reagiscono all’infezione in modo differente. L’obiettivo dell’Atlante è dettagliare e problematizzare questa articolazione. La cartografia, incrociando i dati socio-territoriali con i dati inerenti il contagio, delinea situazioni ambientali molto diverse: emerge una suddivisione tripartita della Penisola, che, in questa prima ondata, si mantiene inalterata nel tempo. Si identifica così tre differenti «Italie»: quella settentrionale, in cui l’intensità del contagio è massima; quella centrale dove l’intensità è medio-alta; la meridionale infine, comprende il resto della penisola italiana, colpita in modo più lieve. Ciò suggerisce che fattori fisici e sociali intervengono nella diffusione del morbo confermando l’impostazione metodologica della ricerca.


    https://www.ageiweb.it/eventi-e-info-per-newsletter/pubblicazioni/atlante-covid-19

    pour télécharger l’atlas en pdf :
    https://www.ageiweb.it/wp-content/uploads/2022/08/Atlante_Covid-19-online.pdf
    #atlas #Italie #covid-19 #cartographie #visualisation #épidémie #statistiques #chiffres #2020

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  • The Atlas of Enslavement. Facts and figures about forced labour and exploitation
    Atlas des esclavages. Faits et chiffres sur le travail forcé

    The word “slavery” conjures up images of people in chains being forced onto ships in Africa and transported across the globe. We rarely think of slavery as having anything to do with the modern world and its living and working conditions. Slavery has indeed been abolished as a legal form of labour worldwide. Article 4 of the 1948 Universal Declaration of Human Rights states: “No one shall be held in slavery or servitude; slavery and the slave trade shall be prohibited in all their forms.”

    But it would be wrong to assume that slavery no longer exists today. Indeed, in absolute numbers, more people are enslaved now than at any time in history. The International Labour Organization of the United Nations speaks of “modern slavery” and estimates that at least 40 million people are currently subject to it.

    This atlas aims to raise awareness of this widely ignored phenomenon. We show that the persistence of this inhumane practice is a global problem. The 2020 Global Report on Trafficking in Persons by the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) concludes that people in no country in the world are immune from the crime of slavery. Based on the data collected for this Global Report, UNODC was able to document a total of 534 different routes used for human trafficking. More than 120 countries reported having detected trafficked persons from over 140 different countries of origin. In addition, national authorities probably do not recognize some routes, in part because many people are already enslaved while they are in their home countries.

    https://www.rosalux.de/en/publication/id/45336

    #esclavage #chiffres #statistiques #atlas #rapport #esclavage_moderne #néo-esclavage

    ping @reka @cede

  • L’histoire à la carte

    Fascinantes #cartes_anciennes, portulans, atlas et planisphères… Quand les Anciens abattent leurs cartes et les cartographes prennent le large, c’est une aventure, celle de la Société de Géographie ou celle des cartographes de l’#imaginaire. Allez, hissez haut !

    https://www.franceculture.fr/emissions/serie/l-histoire-a-la-carte
    #cartes #cartographie #histoire #cartographie_historique #narration

    via @karine4
    ping @visionscarto

    • Épisode 1 : Quand les Anciens abattent leurs cartes

      Imaginer le monde et se représenter la Terre n’est pas une évidence. Les cartes, #atlas ou autres #mappemondes n’ont pas toujours existé. Comment la cartographie s’est-elle développée de l’Antiquité au Moyen Âge ?

      Comment imaginait-on la Terre avant l’invention de la mappemonde ? Jusqu’au VIe siècle avant J.-C., la description de l’espace terrestre était l’affaire des textes littéraires. Dans L’Iliade, Homère l’imaginait hors de toute théogonie : « un disque plat, entouré du fleuve Océan où de puissantes colonnes supportent le ciel ». Peu à peu, l’observation des astres se développe tout comme la géométrie, l’art de mesurer la Terre. La géographie se rationalise et la Terre peut être représentée dans sa globalité.

      Claude #Ptolémée marque un tournant dans le savoir géographique. Mathématicien, astronome alexandrin du IIe siècle, sa Géographie apparaît comme une synthèse de près de huit cents ans de savoir grec. Il mêle le traité théorique, où il recense près de huit mille lieux grâce aux récits de voyageurs, à une approche mathématique. Chaque lieu se voit détaillé en fonction de ses latitude et longitude. Il propose de nouvelles méthodes de projection et de créations cartographiques qui vont constituer les fondements des sciences astronomiques et géographiques. Ses travaux se transmettent dans un cercle savant pour ensuite se diffuser plus largement à partir du XIVe siècle.

      Qu’est-ce qui motive le dessin des premières cartes dans l’#Antiquité ? Quelle est la postérité de Ptolémée ? Comment se transmet le savoir géographique et quelles en sont ses réappropriations au Moyen Âge ?

      Nous en parlons avec #Christian_Jacob et #Nathalie_Bouloux.

      Avec Christian Jacob, historien, agrégé de lettres classiques, directeur de recherche au CNRS et directeur d’études à l’EHESS, membre de l’UMR Anhima (Anthropologie et histoire des Mondes antiques), co-directeur de la mention de master « Histoire des sciences, des savoirs et des techniques » de l’EHESS.

      Et Nathalie Bouloux, historienne, maîtresse de conférences à l’université de Tours, rattachée au Centre d’études supérieures de la Renaissance.

      https://www.franceculture.fr/emissions/le-cours-de-l-histoire/le-cours-de-l-histoire-emission-du-lundi-06-septembre-2021

  • Atlas of the Invisible: using data to map the climate crisis | Climate crisis | The Guardian
    https://www.theguardian.com/environment/2021/sep/01/atlas-of-the-invisible-using-data-reveal-climate-crisis

    In a new book, Atlas of the Invisible, the geographer James Cheshire and designer Oliver Uberti redefine what an atlas can be. The following eight graphics reveal some of the causes and consequences of the climate crisis that are hard to detect with the naked eye but become clear when the data is collected and visualised.

    #cartographie #atlas #climat

    Atlas of the Invisible
    Maps & Graphics That Will Change How You See the World
    James Cheshire Oliver Uberti
    https://www.penguin.co.uk/books/307/307265/atlas-of-the-invisible/9781846149719.html

  • [Book] Atlas in a Day:migration

    En voilà une jolie expérience de cartographie collective pour produire un Atlas sur le sujet général des migrations.

    Le 5 octobre 2019, près d’une cinquantaine de cartographes situés en Amérique du Nord, au Panama et en Nouvelle-Zélande se sont réunis autour du collectif Guerrilla Cartography pour résoudre un défi : produire un atlas en 24h chrono intéressant les migrations, toutes les migrations quel que soit leur thème.

    L’Atlas in a Day:Migration ainsi produit est composé de 43 cartes réalisées sur différents supports (numériques, papier, etc.) à l’aide d’outils variés : logiciel, crayons de couleur, aquarelles, fil à broder, … Si le collectif indique avoir arbitré dans le choix des cartes en fonction de considérations sociales et philosophiques, l’ensemble dresse un panorama aussi hétéroclite qu’intéressant des migrations contemporaines...

    Lire la suite dans le carnet de recherches #Neocarto : https://neocarto.hypotheses.org

    #migration #atlas #cartographie #cartes #flux #neocarto

  • Clouds of Unknowing : Edward Quin’s Historical Atlas (1830)

    “Now when I was a little chap I had a passion for maps”, says the seafaring raconteur #Charles_Marlow in Joseph Conrad’s Heart of Darkness (1899) (https://www.gutenberg.org/files/219/219-h/219-h.htm). “At that time there were many blank spaces on the earth, and when I saw one that looked particularly inviting on a map (but they all look that) I would put my finger on it and say, ’When I grow up I will go there.’” Of course, these “blank spaces” were anything but. The no-man’s-lands that colonial explorers like #Marlow found most inviting (the Congo River basin, #Tasmania, the #Andaman_Islands) were, in fact, richly populated, and faced devastating consequences in the name of imperial expansion.

    In the same troublesome vein as Marlow, Edward Quin’s Historical Atlas painted cartographic knowledge as a candle coruscating against the void of ignorance, represented in his unique vision by a broiling mass of black cloud. Each map represents the bounds of geographical learning at a particular point in history, from a specific civilizational perspective, beginning with Eden, circa “B.C. 2348”. In the next map titled “B.C. 1491. The Exodus of the Israelites”, Armenia, Assyria, Arabia, Aram, and Egypt form an island of light, pushing back the black clouds of unknowing. As history progresses — through various Roman dynasties, the reign of Charlemagne, and the Crusades — the foul weather retreats further. In the map titled “A.D. 1498. The Discovery of America”, the transatlantic exploits of the so-called Age of Discovery force Quin to employ a shift in scale — the luminescence of his globe now extends to include Africa and most of Asia, but North America hides behind cumulus clouds, with its “unnamed” eastern shores peeking out from beneath a storm of oblivion. In the Atlas’ last map, we find a world without darkness, not a trace of cloud. Instead, unexplored territories stretch out in the pale brown of vellum parchment, demarcating “barbarous and uncivilized countries”, as if the hinterlands of Africa and Canada are awaiting colonial inscription.

    Not much is known about Edward Quin, the Oxford graduate, London barrister, and amateur cartographer whose Atlas was published two years after his death at the age of thirty-four. We learn, thanks to Walter Goffart’s research into historical atlases, that Quin’s images were more popular than his words. The well-regarded cartographer William Hughes rescaled the maps for a new edition in 1846, discarding their artist’s accompanying text. The Atlas’ enduring technical advancement, which influenced subsequent cartographers, can be found in its ingenious use of negative space. Emma Willard’s Atlas to Accompany a System of Universal History, for instance, features cloudy borders that seem very much indebted to Quin.

    Looking back from a contemporary vantage, the Historical Atlas remains memorable for what is not shown. Quin’s cartography inadvertently visualizes the ideology of empire: a geographic chauvinism that had little respect for the knowledge of those beyond imperial borders. And aside from depicting the reach of Kublai Khan, his focus remains narrowly European and Judeo-Christian. While Quin strives for accuracy, he admits to programmatic omission. “The colours we have used being generally meant to point out and distinguish one state or empire from another. . . were obviously inapplicable to deserts peopled by tribes having no settled form of government, or political existence, or known territorial limits”. Instead of representing these groups, Quin, like his clouds, has erased them from view.

    https://publicdomainreview.org/collection/edward-quin-historical-atlas
    #cartographie_historique #cartographie #connu #inconnu #géographie_du_vide #vide #histoire #Tasmanie #fleuve_Congo #colonisation #colonialisme #Edward_Quin #atlas

    ping @reka @visionscarto

    via @isskein

  • #Atlas du conflit israélo-arabe

    L’Atlas du conflit israélo-arabe de l’Institut Truman rédigé par #Shaul_Arieli est un outil qui présente le territoire disputé par les deux parties et l’histoire de la géographie de ce #conflit au travers des #cartes et des plans de partage qui depuis plus d’un siècle ont été envisagés pour le résoudre. Il montre qu’il est encore possible, si chacun accepte de renoncer à une part de ses revendications sur ce territoire disputé et de reconnaitre la légitimité de l’autre, d’arriver à un compromis pour créer deux États sur la Terre d’Israël/Palestine.


    https://fr.jcall.eu/atlas-du-conflit-israelo-arabe

    –-> signalé ici pour archivage...

    #Israël #Palestine #cartographie

    ping @reka @nepthys

  • The Uranium Atlas
    https://beyondnuclearinternational.files.wordpress.com/2020/09/uraniumatlas_2020.pdf (PDF)

    The global map of uranium that looks at where it was mined and processed; how & where it was used; and who suffered as a result. The inescapable conclusion is that this energy pathway has led to global discrimination against indigenous peoples and communities of color.

    A noter (entre autres) l’usage créatif de la projection Bertin, y compris pour positionner des pays dans un graphe sans fond de carte).

    #nucléaire #armement #atlas #datasource

  • L’enthousiasmante alchimie d’un Atlas des mondes urbains
    http://journals.openedition.org/echogeo/20652

    Beau dialogue, aussi intéressant parce que l’auteur aborde en début d’entretien la relation et la coopération auteur/cartographe

    Éric Verdeil (EV). Pour cet #atlas, il nous a semblé important d’associer les cartographes à l’élaboration scientifique à toutes les étapes de la conception, ce qui renforce la diversité des contributions et des regards, la diversité des manières de construire ce projet de livre. Il y a eu une relation plutôt équilibrée entre auteurs et cartographes par rapport à d’autres ouvrages ou d’autres atlas, où les cartographes peuvent être vus davantage comme des exécutants d’idées émises par les auteurs. Nous avons été dans une conception plus partagée des idées et de la réalisation.

    #urban_matter #cartoexperiment