• Barbagia Rossa
    https://barbagiarossa.wordpress.com/barbagia-rossa

    Di Massimiliano Musina

    Tutti i testi sono di proprietà dell’autore e protetti da una licenza Creative Commons “Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia“.
    INDICE

    01) Introduzione
    02) Marzo 1978. La prima comparsa di Barbagia Rossa
    03) Novembre 1978. L’agguato alla stazione radar di Siamanna
    04) Gennaio 1979. Si apre la campagna contro la militarizzazione dell’isola
    05) Dicembre 1979. C’è un filo conduttore nella malavita sarda?
    06) Dicembre 1979. Il conflitto a “Sa Janna Bassa”
    07) Febbraio 1980. L’udienza sui fatti di “Sa Janna Bassa”
    08) Febbraio 1980. Il conflitto alla stazione di Cagliari
    09) Giugno 1981. La requisitoria sulla sparatoria a Cagliari
    10) Giugno 1981, L’errato attentato mortale a Natalino Zidda
    11) Agosto 1981. L’attentato mortale a Santo Lanzafame
    12) Febbraio 1982. Le confessioni di Savasta e la scomparsa di Barbagia Rossa

    01) Introduzione

    Barbagia Rossa era un’organizzazione militante di estrema sinistra che ha operato tra il 1978 e il 1982 in Sardegna.
    Si proponeva di diventare il punto di riferimento politico e militare per tutto il proletariato sardo.
    Un elemento importante della sua azione è stato quello di contrastare la forte militarizzazione dell’isola che in quegli anni vede aumentare il numero di basi militari, probabilmente anche a causa dei sempre più numerosi agguati e sequestri di persona.
    L’organizzazione instaurò anche un forte legame con le Brigate Rosse fungendo a volte da appoggio per alcune operazioni svolte dalle BR nell’isola.

    I suoi dirigenti erano Pietro Coccone, Antonio Contena, Caterina Spano, Davide Saverio Fadda.

    02) Marzo 1978. La prima comparsa di Barbagia Rossa

    La sigla Barbagia Rossa fa la sua prima apparizione il 30 dicembre del 1977, quando viene dato fuoco alla porta laterale del tribunale di Nuoro con un ordigno incendiario a innesco chimico.
    Nella rivendicazione, un volantino trovato su una cabina telefonica, i “GABR” (Gruppi Armati Barbagia Rossa) affermano di voler colpire l’istituzione carceraria nel suo complesso.

    Ma in quegli anni la cronaca cittadina ha a che fare con varie sigle e gruppi più o meno fantasiosi che rivendicano puntualmente ogni azione militante.

    GABR acquista una certa credibilità solo dopo il secondo attentato.
    Sabato 25 marzo 1978 viene dato fuoco a un cellulare adibito al trasporto detenuti.
    Anche in questo caso si fa uso di particolari sostanze presupponendo delle buone e preoccupanti conoscenze in ambito chimico.
    Questa volta la rivendicazione arriva telefonicamente lunedì 27 marzo e Barbagia Rossa, sottolineando l’intenzione di colpire l’istituzione carceraria nel suo complesso, chiede anche la liberazione di tutti i detenuti di “Badu ‘e carros”, il supercarcere di Nuoro.

    03) Novembre 1978. L’agguato alla stazione radar di Siamanna

    Dopo alcuni mesi di apparente inattività, un nuovo attentato richiama l’attenzione delle forze politiche dell’isola.
    Giovedì 2 novembre 1978, verso mezzanotte, viene assalita la stazione radar di Siamanna, in provincia di Oristano.
    La stazione, un groviglio di antenne e cavi nella pianura oristanese, è sorvegliata da quattro militari di leva (Giovanni Melis di Senorbì, Antonio Cabras di Sant’Antioco, Luigi Madeddu di Iglesias, Sebastiano Bassallu di Santulussurgiu). Uno di loro, durante la ronda notturna, viene assalito da tre malviventi a volto coperto e lo obbligano a portarli all’interno della stazione.
    I quattro militari vengono immobilizzati.

    Gli aggressori non causano nessun danno alla strumentazione, limitandosi a prelevare i quattro fucili Garand dei soldati, 150 proiettili e alcune bombe a mano.
    Prima di andare via si rivolgono ai giovani di leva dicendo “Scusateci, non ce l’abbiamo con voi ma con lo Stato. Siamo del gruppo di Barbagia Rossa”.

    Il fatto che non sia stato fatto nessun danno alla strumentazione militare evidenzia che l’aggressione ebbe come unico fine quello di prelevare le armi.
    Inoltre un dato interessante è che i fucili Garand (di fabbricazione americana) hanno un peso di circa 8 kg e una lunghezza di oltre un metro; essendo poco maneggevoli sono poco quotati nel mercato clandestino. Però sono armi di altissima precisione e lunga portata (hanno un tiro utile di circa 1200 metri) per questo si può ipotizzare un uso in campo terroristico.

    02 – La stazione radar assaltata a Siamanna (Oristano)

    04) Gennaio 1979. Si apre la campagna contro la militarizzazione dell’isola

    Dal gennaio del 1979 Barbagia Rossa porta avanti una “Campagna contro la militarizzazione del territorio” compiendo numerosi attentati a Nuoro e dintorni (Lula e Orani).

    Nei documenti di rivendicazione l’organizzazione si presenta così:
    “Barbagia Rossa, in quanto avanguardia politico-militare espressa nel territorio, si fa carico del progetto strategico della lotta armata per il comunismo:
    – cercando di superare la fase spontanea ed episodica degli attacchi;
    – mirando alla creazione di una organizzazione che sia in grado di intervenire ed operare all’interno di qualsiasi contraddizione, in ogni situazione reale del territorio;
    – proponendosi di diventare punto di riferimento politico-militare per tutto il proletariato sardo”.

    Un altro fatto interessante accade il 28 gennaio ’79.
    A Torino viene effettuata un’operazione anti terroristica per sgominare una cellula delle brigate rosse.
    Vengono scovati due covi con armi e denaro e arrestati Maria Rosaria Biondi, Nicola Valentino e Ingeborg Keiznac.
    Inoltre vengono arrestate tre persone sarde, precisamente di Orani (paese a pochi chilometri da Nuoro): le sorelle Carmela e Claudia Cadeddu e Andrea Boi.
    I “tre sardi” sono tutti emigrati che lavorano da tempo fuori dall’isola.
    Tutta la comunità di Orani non crede a un legame dei compaesani con i brigatisti, si pensa invece a un inspiegabile errore giudiziario.

    03 – I tre sardi arrestati nel corso delle indagini sui covi delle Brigate Rosse scoperti a Torino

    05) Dicembre 1979. C’è un filo conduttore nella malavita sarda?

    Il 14 dicembre viene trovato un piccolo arsenale in una campagna di Illorai, vicino al ponte “Iscra” sul fiume Tirso.
    Tra le armi, coperte da fitta vegetazione e cespugli, è presente anche un fucile automatico che era stato rubato il 23 settembre ad un cacciatore nuorese, Giovanni Loria, a cui i malviventi dissero di appartenere al movimento “Barbagia Rossa”.

    Ma si tratta solo di un piccolo avvenimento; il dicembre del ’79 è teatro di più importanti e ingarbugliate vicende.
    Le forze dell’ordine cercano di trovare un filo conduttore tra le varie azioni malavitose del banditismo sardo e i sempre più numerosi attentati a sfondo politico.

    Sono in corso i sequestri di Fabrizio De Andrè e sua moglie Dori Ghezzi (catturati il 27 agosto ’79 per poi essere liberati dopo circa quattro mesi, il 20 dicembre lei e il 22 dicembre lui) nonché il più discreto, e quindi più preoccupante, rapimento Schild.
    Per polizia e carabinieri un filo conduttore esiste e sarebbe di sfondo politico, da ricercare nelle azioni militanti dei gruppi di estrema sinistra che si sono inseriti prepotentemente nelle scene sarde.

    Il 18 dicembre ’79 a Sassari viene bloccata un auto con quattro giovani (Angelo Pascolini, Luciano Burrai, Carlo Manunta, Antonio Solinas).
    L’auto, che si trova in via Luna e Sole, zona periferica della città abitata da molte persone facoltose, aveva dato nell’occhio e giungono alcune volanti della polizia per un controllo.
    All’alt delle forze dell’ordine uno dei quattro risponde tentando di lanciare una bomba a mano, ma viene bloccato da uno degli agenti.
    Successivamente partono gli arresti per i quattro giovani.

    Durante la perquisizione si scopre che l’auto era equipaggiata con molte armi e libri di natura politica. Viene trovata una cartolina di un brigatista rinchiuso nel carcere dell’Asinara e scoperto un covo. Si trovano anche le prove di un tentativo di sequestro ai danni di un politico isolano.
    I quattro vengono accusati di associazione a fini eversivi, tentato omicidio plurimo, porto e detenzione abusiva di armi (un mitra, sei pistole, circa tremila cartucce) e tentato sequestro di persona.

    04 – Angelo Pascolini, Luciano Burrai e in basso Carlo Manunta e Antonio Solinas. I quattro giovani catturati nell’auto-arsenale alla periferia di Sassari

    05 – Angelo Pascolini, il giovane romano arrestato sull’auto trasformata in arsenale, esce dalla questura di Sassari

    06) Dicembre 1979. Il conflitto a “Sa Janna Bassa”

    Ma l’avvenimento che segna maggiormente la cronaca di questo intenso dicembre del ’79, è il sanguinoso conflitto a fuoco di “Sa Janna Bassa” a Orune.

    Il 17 dicembre il capitano dei carabinieri Enrico Barisone esce con due carabinieri al seguito per il solito giro di perlustrazione notturna.
    Quando si trovano nei pressi dell’ovile di Carmelino Coccone, vicino Orune, sono attirati da insoliti movimenti e intimano l’alt a delle persone che si trovano fuori dall’ovile, ma questi rispondono aprendo il fuoco e ferendo il capitano.
    Nasce un sanguinoso conflitto a fuoco in cui restano uccisi due pastori: Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti.

    Nel frattempo arrivano i rinforzi; alcuni malviventi scappano mentre otto vengono arrestati: Carmelino Coccone, Sebastiano e Pietro Masala, Pietro Malune, Antonio Contena, Mario Calia, Mauro Mereu e Melchiorre Deiana.
    I carabinieri sostengono di aver interrotto una specie di “summit” del banditismo isolano, una “cena di lavoro” in cui si sarebbero prese importanti decisioni.
    Si ipotizza anche di aver smantellato l’intera banda legata ai sequestri De Andrè/Ghezzi o Schild.

    Un importante fatto che caratterizza i fatti di “Sa Janna Bassa” è che in due giacche rinvenute nell’ovile teatro della sparatoria, sono stati trovati dei volantini appartenenti alle Brigate Rosse; in particolare nelle giacche di Giovanni Maria Bitti, morto durante la sparatoria, e di Pietro Coccone (nipote di Carmelino Coccone), dirigente di Barbagia Rossa riuscito a scappare durante l’agguato dei carabinieri.

    Tutti questi elementi mettono alla luce eventuali risvolti politici e collegamenti tra banditismo sardo e organizzazioni eversive.

    06 – L’ovile di Coccone teatro della sanguinosa sparatoria

    07 – I corpi dei banditi vengono trasportati a Nuoro; sullo sfondo l’ovile teatro del conflitto

    08 – Giudici, inquirenti e imputati osservano il soffitto dell’ovile

    09 – Una parte delle armi trovate addosso ai fuorilegge uccisi e nella zona dove si è svolto il conflitto a fuoco

    10 – I due banditi uccisi, Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti

    07) Febbraio 1980. L’udienza sui fatti di “Sa Janna Bassa”

    Il 2 febbraio si tiene l’udienza per il processo sui fatti di “Sa Janna Bassa”.
    I giudici della Corte d’Assise rimangono in camera di consiglio tre ore esatte, dalle 9:45 alle 12:45.
    In un’aula gremita di parenti, conoscenti e curiosi, vengono condannati Carmelino Coccone (15 anni), Pietro Malune, Mauro Mereu, Pietro e Sebastiano Masala (11 anni), il giovanissimo Melchiorre Deiana (4 anni).
    Tutti e sei sono ritenuti responsabili di concorso nel tentato omicidio del capitano Barisone, di porto e detenzione di armi comuni e da guerra, di favoreggiamento e resistenza aggravata.

    Per i giudici quella nell’ovile di Carmelino Coccone era una vera è propria banda riunita in una “cena di lavoro”, mentre Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti (uccisi) facevano la guardia all’esterno insieme ad un’altra persona che è riuscita a scappare.
    Antonio Contena e Pietro Coccone (quest’ultimo latitante), entrambi dirigenti di Barbagia Rossa, devono invece rispondere di associazione a delinquere davanti al tribunale nuorese.

    11 – Carmelo Coccone, Mauro Mereu, Melchiorre Deiana, Sebastiano e Pietro Masala e Pietro Malune in Corte d’Assise

    12 – Il capitano dei carabinieri Enrico Barisone durante il sopralluogo eseguito dalla Corte d’Assise d’appello di Cagliari a Sa Janna Bassa (Orune)

    08) Febbraio 1980. Il conflitto alla stazione di Cagliari

    Collegamenti tra Barbagia Rossa e le Brigate Rosse trovano un’ulteriore conferma il 15 febbraio 1980.

    Sono le 16:00, alla stazione ferroviaria di Cagliari due agenti della polizia, il brigadiere Fausto Goddi e la guardia Stefano Peralta, si avvicinano a un gruppo di cinque giovani chiedendo loro i documenti per un controllo; gli agenti contattano la centrale.
    A Giulio Cazzaniga e Mario Pinna, entrambi nuoresi, viene chiesto di seguirli in questura per degli accertamenti.
    Gli altri tre vengono lasciati liberi.
    Due di loro, sedicenti Camillo Nuti ed Emilia Libera, si spostano verso la sala d’attesa della stazione (sono incensurati), l’altro, Mario Francesco Mattu, si allontana in altra direzione (su di lui sussistono dei precedenti, ma non gravi in quell’occasione).

    Mentre il brigadiere e i due fermati si dirigono in auto verso la questura, viene dato ordine di tornare indietro e catturare anche gli altri.
    Vengono rintracciati vicino ai binari solo due dei tre, l’uomo e la donna.
    Questi seguono gli agenti fino all’uscita della stazione.
    A quel punto l’uomo abbraccia la sua compagna, tira fuori una pistola e inizia a sparare all’impazzata per coprirsi la fuga.
    Nasce una vera e propria sparatoria al centro di Cagliari, le pallottole ad altezza d’uomo colpiscono alcune auto posteggiate, ma per fortuna nessun passante.
    La donna in fuga viene ferita alla fronte, un poliziotto al piede.

    Nelle ore successive la città è assediata da oltre quattrocento uomini delle forze dell’ordine, ma dei due fuggitivi nessuna traccia.
    Inizialmente si pensa che la donna colpita sia Marzia Lelli, nota brigatista; dell’uomo invece non sono disponibili informazioni.

    Più tardi si scopre che Giulio Cazzaniga e Mario Pinna, fermati prima del conflitto, appartengono al gruppo di Barbagia Rossa e vengono arrestati per detenzione abusiva di arma da guerra e partecipazione ad azione sovversiva.
    Ai due si aggiunge il quinto elemento che si era allontanato dalla stazione, Mario Francesco Mattu di Bolotana.
    Anche lui appartenente a Barbagia Rossa, viene arrestato durante la notte tra il 15 e il 16 febbraio ’80 a casa della sua ragazza a Cagliari dove viene trovata anche una pistola “Luger” calibro 9.
    Vengono catturati anche cinque giovani che al momento dell’arresto di Mattu si trovano nella stessa casa (dopo alcuni mesi di carcere preventivo, verranno rilasciati perché effettivamente non esiste nessun tipo di legame diretto o indiretto con gli arrestati).

    Nei giorni seguenti continuano in maniera serrata le ricerche dei due fuggiaschi.
    Pinna e Cazzaniga si dichiarano “prigionieri politici”, Mattu viene interrogato.
    Inizialmente si pensa che i cinque della stazione stessero organizzando un attentato ai danni del capitano Enrico Barisone, ma dopo i primi accertamenti anche questa ipotesi viene scartata.

    A cinque giorni dalla sparatoria, in tutta la città si vive uno stato d’assedio.
    I grandi porti e aeroporti dell’isola vengono controllati sistematicamente per evitare eventuali spostamenti dei due banditi, ma per la polizia è certo che stiano contando su un appoggio a Cagliari.

    Intanto proseguono le indagini.
    Inizialmente si è creduto che la donna in fuga fosse Marzia Lelli, nota brigatista, ma indiscrezioni indicherebbero che si trova in Brasile.

    La polizia prende quindi un’altra strada partendo dai documenti forniti al controllo del brigadiere Goddi alla stazione.
    La carta d’identità della donna era a nome di una certa Emilia Libera, infermiera romana che la Criminalpol non riesce a rintracciare nella Capitale.
    La polizia ora sostiene che il suo documento è autentico, quindi da adesso è Emilia Libera la ricercata.
    Si tratta di un’indiziata sopra ogni sospetto poiché, oltre ad aver partecipato a un collettivo al Policlinico di Roma, Libera non è una militante conosciuta.
    I documenti forniti dall’uomo erano invece fasulli, a nome di Camillo Nuti, ingegnere romano che dopo vari interrogatori non ha avuto difficoltà a provare che non si è mai mosso dalla capitale.

    Un’ipotesi accreditata sulla visita in Sardegna di Emilia Libera e del “fasullo” Camillo Nuti (partiti da Roma a Cagliari con un aereo giovedì 14 febbraio ’80) è quella per cui fossero stati incaricati dalla direzione delle Brigate Rosse di valutare e rendersi conto dell’efficienza e del grado di preparazione alla guerriglia dei membri di Barbagia Rossa.
    Si crede in effetti che l’organizzazione sarda stia consolidando le proprie posizioni.
    Stando alle indiscrezioni, alcuni esponenti dell’organizzazione sarda (secondo la Digos una quindicina) avrebbero preso contatti con delinquenti comuni e bande legate all’anonima sequestri. Pare che si stesse anche perfezionando l’acquisto di un grosso stock di armi.
    Insomma Barbagia Rossa, sempre stando alle indiscrezioni, si preparerebbe per entrare grintosamente nel panorama del terrorismo nazionale.

    Il 21 febbraio ’80 viene identificato l’uomo in compagnia di Eliana Libera.
    Si tratta di Antonio Savasta, romano ventiquattrenne, brigatista di recentissima immatricolazione ma praticamente incensurato. Si è arrivati alla sua identificazione scavando nella vita di Eliana Libera, infatti Savasta era, fino a poco tempo fa, il suo compagno.

    I due fuggitivi hanno adesso un nome e un volto, ma risultano svaniti nel nulla.
    Dopo due settimane non c’è ancora nessuna traccia di loro.
    Si è scoperto che subito dopo la sparatoria alla stazione un’ignara signora li ha ospitati per un’ora nella sua abitazione. Si sono presentati come due ragazzi tranquilli e simpatici che avevano bisogno del bagno.
    Ora si presume che siano nascosti in barbagia, ma si tratta di ipotesi.

    13 – Gli accertamenti della Scientifica in piazza Matteotti subito dopo la sparatoria

    14 – I tre giovani arrestati subito dopo la sparatoria: Marco Pinna, Giulio Cazzaniga, Mario Francesco Mattu

    15 – Mario Francesco Mattu dopo un interrogatorio

    16 – Antonio Savasta e il suo identikit ricostruito dalla polizia

    17 – L’auto dentro la quale Savasta sparò alla stazione di Cagliari

    18 – Rinaldo Steri e Carlo Cioglia, aiutarono Savasta e Libera a scappare dopo il conflitto

    09) Giugno 1981. La requisitoria sulla sparatoria a Cagliari

    Dopo più di un anno dalla sparatoria, nessuna traccia dei brigatisti Savasta e Libera.
    Dalle indagini si è scoperto che dopo essere andati via dalla casa della signora, sono stati assistiti da Rinaldo Steri e Carlo Cioglia (entrambi cagliaritani).
    Sarebbero loro ad essersi preoccupati della ricerca di rifugi e nascondigli per scappare ai rastrellamenti.
    I banditi inizialmente furono portati in una casa cagliaritana in via San Mauro, successivamente in un’abitazione di viale Fra Ignazio, poi in un casotto al Poetto, quindi in una villetta in costruzione.
    Dopodiché sono stati trasferiti in un rifugio brigatista a Torre delle Stelle, 20 km a est di Cagliari.
    Durante la settimana di permanenza in questo rifugio, Ciogli si sarebbe preoccupato di trovare un camion che portò Savasta e Libera a Porto Torres da dove presero un traghetto per poi far perdere ogni traccia.

    Il 18 giugno ’81, dopo un anno e quattro mesi dalla sparatori di Cagliari, il pubblico ministero depone la sua requisitoria su tutta la vicenda indicando 27 persone come protagoniste delle vicende tra cui, ovviamente, Antonio Savasta, Emilia Libera, Mario Pinna, Mario Francesco Mattu, Rinaldo Steri e Carlo Cioglia. Gli altri sono studenti universitari, artigiani e vecchi sessantottini.
    Giulio Cazzaniga viene invece prosciolto dalle accuse per infermità mentale.

    19 – Riepilogo delle accuse

    10) Giugno 1981, L’errato attentato mortale a Natalino Zidda

    Ma più che per i fatti di natura giudiziaria, il giugno del 1981 verrà ricordato per un nuovo spargimento di sangue che fa riprofondare l’isola nel dolore.
    Barbagia Rossa intensifica le sue azioni contro la militarizzazione del territorio e lo fa in maniera più violenta e decisa.

    Martedì 9 giugno, Orune. Nicolino Zidda (insegnante della colonia penale di Mamone) è in compagnia del brigadiere Salvatore Zaru, sono seduti sull’uscio della casa di Zidda.
    Alle 23:00 il tipico rumore di un caricatore di arma da fuoco rompe il silenzio della notte.
    Il brigadiere, sicuramente sensibile a certi rumori, si ripara immediatamente buttandosi verso l’interno della casa.
    Immediatamente arriva la scarica rabbiosa e violenta di un mitra.

    Vengono esplosi circa 30 proiettili che uccidono Nicolino Zidda.

    La rivendicazione è di Barbagia Rossa e arriva la mattina seguente con una telefonata anonima alla redazione cagliaritana dell’Ansa.
    Viene spiegato che si è trattato di un errore, che il vero obiettivo dell’attentato non era Zidda ma il brigadiere Zaru.
    Viene altresì comunicato che è iniziata la campagna contro le forze di repressione.

    La morte di Zidda è accolta con sgomento da tutta la comunità orunese e barbaricina.

    20 – Nicolino Zidda, l’insegnante ucciso a Orune

    21 – Mesto pellegrinaggio nella casa della vittima a Orune

    22 – Il procuratore della Repubblica Francesco Marcello (a sinistra) e alti ufficiali dei carabinieri nella zona del delitto

    11) Agosto 1981. L’attentato mortale a Santo Lanzafame

    Questo è il mese che segnerà in modo significativo tutta la comunità sarda e in particolare quella barbaricina.

    Fino all’agguato di Nicolino Zidda l’organizzazione armata di Barbagia Rossa si era limitata ad azioni intimidatorie con bombe, incendi o altri attacchi di natura prettamente dimostrativa.

    Già l’agguato mortale a Zidda aveva messo in luce un evoluzione dell’organizzazione terroristica.
    Anche se la morte dell’insegnante è stato un errore, si voleva colpire a morte il brigadiere Salvatore Zaru che si è salvato solo per la sua prontezza di riflessi.

    Il 31 luglio 1981 alle ore 22:40 un’alfetta blu dei carabinieri si dirige verso il Monte Ortobene per gli usuali giri di perlustrazione.
    Al suo interno si trovano il carabiniere sassarese Baingio Gaspa (alla guida) e l’appuntato Santo Lanzafame, 40 anni di Reggio Calabria, sposato con Giovanna Piras di Lodè e padre di cinque figli (la più grande di dieci anni).

    L’auto prende la strada per il monte e, a duecento metri dalla chiesetta della Solitudine (che si trova all’uscita del centro abitato, proprio ai piedi dell’Ortobene), si appresta ad affrontare la prima curva, quella di Borbore.
    Si tratta di una curva a gomito molto ampia che nella carreggiata opposta è costeggiata da un piccolo muretto a secco al di sotto del quale si trova il sentiero che porta a Valverde.

    Proprio da dietro il muretto in pietra compare all’improvviso una figura che senza esitazione scarica una micidiale scarica di mitra verso l’alfetta blu.
    Gaspa resta fortunatamente illeso mentre Lanzafame viene colpito alla testa.
    Il malvivente scompare nel nulla lasciando sul posto l’arma.

    Le condizioni di Lanzafame appaiono da subito tragiche.
    Subisce numerosi interventi all’ospedale San Francesco di Nuoro, i medici riescono a stabilizzarlo anche se le condizioni restano molto gravi.

    I carabinieri sostengono che l’arma sia stata abbandonata come segno per far capire che, anche dopo gli arresti che ha subito il terrorismo isolano, Barbagia Rossa non è stata battuta e anzi si riorganizza e alza il tiro.
    Si tratta infatti di un potentissimo mitra inglese “Sterling”, mai usato dalla malavita sarda, con una micidiale cadenza di colpi (fino a 550 proiettili in un minuto), un’arma molto maneggevole.

    Il mattino seguente, il 1 agosto ’81, Barbagia Rossa rivendica l’attentato terroristico con una telefonata anonima fatta alla redazione locale dell’Ansa.
    Viene riferito che solo per un caso fortuito i due carabinieri non sono stati uccisi.

    Il 4 agosto ’81 i terroristi di Barbagia Rossa si fanno vivi per iscritto recapitando un ciclostilato alla redazione nuorese de L’unione Sarda.
    Nel documento si ribadisce la paternità dell’attentato a Lanzafame e Gaspa.
    Viene inoltre riconfermato che l’omicidio dell’insegnante Nicolino Zidda è stato un errore, il vero obiettivo era il brigadiere Salvatore Zaru, che si trovava in sua compagnia.

    Intanto Lanzafame subisce interventi a Nuoro e Cagliari e si prospetta la guarigione, infatti l’appuntato aveva ripreso conoscenza e riconosciuto la moglie e altre persone a lui vicine.
    Ma il 5 agosto ’81 viene ritrasferito con urgenza a Cagliari per un altro delicatissimo intervento alla testa; il liquido, non riuscendo a drenare, esercita una pericolosa pressione sulla corteccia cerebrale.
    L’intervento eseguito dal professore Francesco Napoleone riesce perfettamente, ma le condizioni del carabiniere risultano comunque molto gravi.

    Alle ore 13:00 del 6 agosto 1981 Santo Lanzafame muore all’ospedale di Cagliari dopo un ultimo e disperato intervento.

    Il finale tragico dell’attentato fa sprofondare tutta la comunità barbaricina nell’ombra.
    In effetti è la prima volta che Barbagia Rossa, l’organizzazione eversiva più importante dell’isola, porta a termine una diretta azione di morte.

    Il 7 agosto si celebra il funerale.
    La chiesa di Santa Maria della Neve a Nuoro è gremita ma c’è un irreale silenzio rotto solo dalle urla di disperazione di Giovanna Piras all’arrivo della salma del marito.
    Andrea Pau, sindaco di Nuoro, proclama il lutto cittadino chiedendo a tutti gli esercizi pubblici di restare chiusi.

    La notizia della morte di Santo Lanzafame colpisce tutti; nonostante si conoscessero le sue gravi condizioni di salute, la tragica conferma ha gettato la città e tutta l’isola in un’atmosfera preoccupante di paura, rabbia, indignazione e sconforto.

    Intanto le indagini proseguono senza nessun risultato.
    Vengono arrestati preventivamente tre giovani di Orune (in realtà non è chiara quale accusa gli viene mossa), inoltre si segue una pista che, partendo dal mitra Sterling, si perde in Liguria.

    23 – Santo Lanzafame, il carabiniere ucciso a Nuoro

    01 – Nuoro, 31 luglio 1981. L’alfetta dei carabinieri su cui si trovava l’appuntato Santo Lanzafame al momento dell’agguato mortale

    24 – Agenti della polizia e carabinieri nel luogo dell’attentato di venerdì notte presso il curvone di Borbore

    25 – Un mitra Sterling uguale a quello che è stato usato a Nuoro per l’attentato

    26 – La bara del brigadiere assassinato lascia l’istituto di medicina a Cagliari per la celebrazione del funerale a Nuoro

    12) Febbraio 1982. Le confessioni di Savasta e la scomparsa di Barbagia Rossa

    Nel 1982 viene catturato Antonio Savasta che passa nelle file del “pentitismo”.
    Le sue rivelazioni investono anche la Sardegna dove partono immediatamente nuovi arresti e indagini.
    Nei primi dieci giorni di febbraio vengono arrestate e accusate di costituzione di banda armata otto persone: Pierino Medde (27 anni, Nuoro), Roberto Campus (28 anni, Nuoro), Gianni Canu (24 anni, Nuoro), Giovanni Meloni (26 anni, Siniscola), Antonio Contena (28 anni, Orune), Mario Meloni (28 anni, Mamoiada), Mario Calia (28 anni, Lodè), Giuliano Deroma (25 anni, Porto Torres).
    Tra loro possiamo ricordare Antonio Contena, presente durante il conflitto di Sa Janna Bassa nel dicembre ’79, e Pietro Medde, già indagato per Barbagia Rossa e in libertà provvisoria.

    La confessione-fiume di Antonio Savasta continua e apre nuove indiscrezioni sui movimenti terroristici in Sardegna.
    Ora è certo che nel dicembre del ’79 a “Sa Janna Bassa”, era in corso un vertice tra alcuni esponenti delle Brigate Rosse e di Barbagia Rossa per discutere sull’eventuale costituzione di una colonna sarda delle BR.
    Inoltre, sempre grazie alle indicazioni del pentito, viene trovato tra il Montalbo e Monte Pitzinnu (nel territorio di Lula) un fornitissimo deposito di armi da guerra di proprietà delle Brigate Rosse.
    L’arsenale comprende cinque razzi di fabbricazione americana per bazooka, un missile anticarro sovietico capace di sfondare agevolmente un muro di un metro, due missili terra-aria di fabbricazione francese che possono essere lanciati a chilometri di distanza con la certezza di colpire il bersaglio, trenta chili di esplosivo al plastico, otto bombe a mano di fabbricazione americana, sei mitra inglesi “Sterling” (lo stesso usato nell’attentato dove morì Santo Lanzafame), un centinaio di cartucce per mitra.
    L’arsenale era probabilmente sotto custodia di Barbagia Rossa e forse doveva servire per un attentato al supercarcere di Badu ‘e Carros a Nuoro.
    Gli investigatori, sempre indirizzati da Savasta, provano anche che i terroristi stavano progettando dei clamorosi sequestri di persona di leader politici isolani.

    Le confessioni di Antonio Savasta seguite dagli arresti e le indagini che queste provocarono, probabilmente diedero un duro colpa all’organizzazione di Barbagia Rossa.
    L’unica cosa certa è che dopo l’attentato mortale all’appuntato Lanzafame e dopo questi ultimi avvenimenti provocati dal pentito Savasta la sigla Barbagia Rossa non fece più la sua comparsa.

    #sardegne #Br #brigate_rosse #BR #BarbagiaRossa #terrorisme #otan

    • Peut-on confondre la lutte armée avec le terrorisme ? Pas si on considère que la particularité du terrorisme est de s’en prendre à des populations civiles de manières indiscriminée par des attentats aveugles (et destinés à aveugler), des #attentats_massacres dont la collusion active de secteurs de l’extrême-droite avec les service secrets italiens a montré l’exemple en Italie dès 1969 avec l’attentat de la Piazza Fontana à Milan (1er d’une série avec 17 morts et 85 blessés, faussement attribué par la police à des anarchistes pourtant quasi inexistants en termes organisationnels à ce moment là en Italie), puis de nombreuses fois ensuite (dont les 85 morts et les centaines de blessés de la gare de Bologne en 1980).
      Certes, du côté de cette gauche extra-parlementaires, il y eu des jambisations, puis des meurtres (...), mais c’est faire un amalgame que de légitimer de quelque façon que ce soit l’expression « années de plomb » pour désigner cette période en Italie en présentant les mouvements révolutionnaires comme des criminels barbares alors que la violence politique à prétention révolutionnaire a infiniment moins tuée que celle d’un État qui faisait encore régulièrement tirer à balles sur les grévistes durant les années soixante, a sciemment mis en oeuvre la #stratégie_de_la_tension au moyen d’attentats-massacres et n’avait pas hésité à occuper militairement Bologne au moyen de blindés équipés de mitrailleuses en 1977.

      #lutte_armée_pour_le_communisme et plus on va vers le sud : #prolétariat_extra_légal

  • « Les asilés italiens ne doivent pas être extradés », Louis Joinet (Magistrat, premier avocat général honoraire à la Cour de Cassation), Irène Terrel (Avocate), Michel Tubiana (Président d’honneur de la Ligue des Droits de l’Homme)
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/03/04/les-asiles-italiens-ne-doivent-pas-etre-extrades_5430951_3232.html

    Comme Cesare Battisti, d’autres Italiens vivant en France sont menacés d’#extradition. Pourtant, leur cas n’est pas lié au mandat d’arrêt européen applicable aux affaires postérieures à 1993, rappellent les juristes Louis Joinet, Irène Terrel et Michel Tubiana, dans une tribune au « Monde ».

    Tribune. Contrairement aux affirmations de Mme Nathalie Loiseau, ministre chargée des affaires européennes, rapportées dans ces colonnes le 19 février dernier, le « sujet » des Italiens asilés en France depuis maintenant quatre décennies ne peut pas être « traité de justice à justice ». En effet la procédure applicable à cette période est régie par la Convention européenne d’extradition de 1957 et non par le #mandat_d’arrêt_européen, qui concerne les seules infractions postérieures au 1er novembre 1993 et non pas celles commises dans les années 1970-1980.

    Or la Convention de 1957 prévoit trois phases, dont deux sont explicitement politiques et selon ce texte, en première et dernière intention, la décision d’extrader ou pas revient au pouvoir politique. « […] Pendant les années 1970, il y a eu une véritable guerre civile, bien que de basse intensité. […] Aborder sans cesse une question de cette envergure, c’est-à-dire les plaies ouvertes par une guerre civile, au moyen de l’outil pénal, de l’incrimination pénale, trente, vingt ou quinze ans après les faits, cela me semble carrément une chose étrangère au sens civil d’une démocratie qui se prétende vraiment accomplie. » Ces mots sont ceux de Giovanni Pellegrino, ancien président de la commission parlementaire d’enquête sur le terrorisme en Italie.

    La « doctrine Mitterrand »

    Le problème est donc de savoir si « l’outil pénal » encore brandi quarante ans plus tard n’est pas aussi techniquement obsolète qu’humainement inadapté. Au début des années 1980, les militants italiens qui avaient choisi la violence politique sont anéantis et leur destin scellé. Ce sont des centaines de fugitifs, dont la plupart s’abritent en France, où François Mitterrand, élu président de la République, a fait figurer dans son programme qu’aucune extradition ne sera accordée pour des faits de nature politique. La seule exigence est de renoncer pour l’avenir à toute violence politique et d’abandonner la clandestinité conformément à la formule attribuée à François Mitterrand : « Ce qui importe, avec le terrorisme, n’est pas tant de savoir comment on y entre mais plutôt de savoir comment on en sort. » C’est la naissance de la « doctrine Mitterrand ».

    De plus, la chancellerie souligne les carences fréquentes des dossiers de la justice italienne. En 1992 le ministère français de la justice précise que « Rome informe de leur situation pénale [des réfugiés] sans que celle-ci soit jamais exposée de façon globale et clairement exploitable, mais fait montre en revanche d’une relative mauvaise volonté à fournir les renseignements complémentaires sollicités ».

    Régularisations progressives

    Le principe de l’#asile est acté dans l’allocution, présentée ensuite comme la « parole donnée », tenue par le président Mitterrand lors du 65e congrès de la Ligue des droits de l’homme le 21 avril 1985 : « Les #réfugiés_italiens […] qui ont participé à l’action terroriste durant des longues années […] ont rompu avec la machine infernale dans laquelle ils s’étaient engagés […] J’ai dit au gouvernement italien qu’ils étaient à l’abri de sanctions par voie d’extradition. Mais, quant à ceux qui poursuivraient des méthodes que nous condamnons, sachez bien que nous le saurons et, le sachant, nous les extraderons ! » Il n’a jamais eu à le faire. Les asilés s’intègrent peu à peu à la société française, travaillent, fondent des familles, ont des enfants, des petits enfants, et sont progressivement tous régularisés par des titres de séjour, toujours renouvelés.

    Est-il admissible de les accueillir un jour pour les rejeter quarante ans plus tard au prétexte d’une situation politicienne qui ne les concerne pas ? Ce ne sont pas seulement des dossiers, des numéros sur des listes, mais des femmes et des hommes qui ont vécu, vieilli, changé et se sont insérés pacifiquement dans notre pays. Et notre pays, c’est une réalité intangible, leur a donné asile. Car les gouvernements se succèdent, de droite comme de gauche, et le « statut » est maintenu.

    La « doctrine Mitterrand » devient celle de l’Etat français.

    En 1998, quand l’entrée en vigueur des accords de Schengen compromet l’accueil des Italiens, un courrier officiel de Lionel Jospin, alors premier ministre, confirme qu’aucune extradition de ces asilés ne sera mise en œuvre. Quelques années plus tard, lorsque la France adopte le mandat d’arrêt européen, elle précise que cette procédure s’appliquera aux seuls faits postérieurs à 1993, préservant ainsi de l’extradition les Italiens asilés dont les procédures concernent des faits s’achevant dans les années 1980. L’Etat français manifeste ainsi, y compris juridiquement, sa volonté de maintenir l’asile octroyé jadis.

    Interrogé le 5 mars 2004 par le Corriere della Sera, Robert Badinter répondait : « […] Comme juriste, et sans entrer sur le fond des débats, je répète que la position prise par un Etat, par l’intermédiaire de son plus haut représentant, ne devrait pas être contredite vingt ans après… […] L’Etat doit respecter la parole donnée. C’est une question de cohérence et de principe […] » Nous voici quinze ans plus tard et cette « doctrine Mitterrand », devenue au fil des années doctrine d’Etat, l’a emporté. Elle l’a moins emporté comme « doctrine » qu’elle ne s’est imposée comme une pratique de pacification, répondant à une situation spécifique, qu’aucun gouvernement français n’a en réalité remise en cause.

    Il est inconcevable que, quarante ans après les faits incriminés et autant d’années d’asile octroyé par la France, il puisse y avoir aujourd’hui une inversion de cette politique d’accueil de l’Etat français. Plus encore que déraisonnable, le temps judiciaire est dépassé, il doit laisser la place aux historiens… Ainsi s’exprimait déjà en 2000, et en Italie même, Giovanni Pellegrino : « […] Aujourd’hui… nous ne pouvons plus faire justice, car il est passé trop de temps. Nous pouvons seulement entreprendre une démarche de vérité. »

    #asilés

    Le long exil de l’extrême gauche italienne à Paris, Philippe Ridet et Jérôme Gautheret [ pas terrible mais là tout de suite j’ai que ça sous la main pour éclairer un tant soit peu le contexte, ndc]
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2019/02/22/a-paris-le-long-exil-de-l-extreme-gauche-italienne_5426538_4500055.html

    Dans les années 1970-1980, des centaines d’activistes italiens se sont réfugiés en France, qui les a accueillis à condition qu’ils renoncent à la #lutte_armée. Aujourd’hui, Rome demande l’extradition de certains d’entre eux.

    Commençons par un rendez-vous manqué. « J’écris en ce moment un reportage sur les années françaises des fugitifs italiens des années 1970-1980. Puis-je vous contacter ? », disait notre SMS. Demande acceptée. Comme beaucoup de ses compatriotes réfugiés, cette personne a vu les images de Cesare Battisti extradé de Bolivie après trente-sept ans de cavale au Mexique, à Paris, puis au Brésil.

    Elle a regretté cette inutile humiliation que l’Etat italien a infligée à l’ancien activiste des Prolétaires armés pour le communisme, condamné à la réclusion à perpétuité pour quatre meurtres. A la mi-janvier, on l’a fait défiler, menotté, sur le Tarmac de l’aéroport Ciampino, à Rome, devant le ministre de l’intérieur Matteo Salvini et le ministre de la justice Alfonso Bonafede comme un trophée symbolisant l’efficacité de l’alliance entre l’extrême droite de la Ligue et le populisme du Mouvement 5 étoiles (M5S). Vae victis…

    Triomphante, l’Italie a envoyé la semaine dernière à Paris des magistrats pour réclamer à la France une quinzaine d’anciens activistes des années de plomb que Matteo Salvini décrit comme « buvant du champagne sous la tour Eiffel ».
    Alors notre contact a renoncé. Peur que cette histoire-là, la sienne et celle de centaines de compatriotes ayant quitté la Péninsule plutôt qu’y purger de lourdes condamnations distribuées par une justice aussi débordée qu’expéditive, ne puisse être racontée, comprise.
    Nouveau SMS, à notre attention cette fois : « Je reviens vers vous pour décliner notre rendez-vous. Après réflexion et échange avec d’autres personnes concernées, on pense que le moment est trop délicat, glissant, en somme peu propice pour une argumentation médiatique. J’espère pouvoir compter sur votre compréhension. »

    Une vie à se faire oublier

    Cette prudence, cette peur diffuse, c’est aussi celle d’Irène Terrel. Tous les militants italiens de Paris connaissent l’adresse de son cabinet d’avocats spécialisé dans le droit d’asile, rue Lacépède, Paris 5e. Depuis la mort de son mari, Jean-Jacques de Félice, en 2008, elle continue seule le combat.
    Elle a défendu Battisti durant son séjour en France de 1990 à 2004, lorsque celui qui était d’abord le discret concierge d’un immeuble de la rue Bleue, dans le 9e arrondissement, se retrouva sous les feux de l’actualité et de la justice, grisé par sa petite notoriété d’auteur de polars. Paniqués, les derniers extrémistes encore recherchés par Rome ont appelé Irène Terrel. Que faire ? Fuir encore ? Alerter les médias ? A tous elle a conseillé de rester tapis dans leur anonymat. « C’est leur meilleure protection aujourd’hui. Ils mènent une vie normale. Ils ont passé leur vie à se faire oublier. »

    Recommencer les batailles contre l’extradition ? « Tout homme a droit à une deuxième chance, au pardon. C’est une traque sans fin. On ne va quand même pas offrir des gens de 75 ans sur l’autel politique de ce M. Salvini ! » Elle sait aussi que le contexte est moins favorable. La violence politique, qui, il y a quarante ans, dans la foulée de Mai 68, pouvait éventuellement se théoriser, n’est plus tolérable ; les terroristes ont pris d’autres visages…
    « Aujourd’hui, on confond les activistes italiens avec les djihadistes du Bataclan. » Les intellectuels se sont tus : « Quelles sont les grandes consciences qui pourraient les défendre ? », s’interroge-t-elle en nous raccompagnant.

    Comprendre les années de plomb, un peu plus de dix ans de violence et de chaos commencées avec l’attentat attribué à l’extrême droite de la piazza Fontana à Milan (16 morts, 88 blessés) le 12 décembre 1969 et terminé aux confins des années 1970-1980 ? Pas simple. Trop de sang, de sigles, de slogans.
    Imaginez un chaudron de bonne taille, dans lequel on a porté à ébullition l’air du temps : le refus de l’autorité (celle de l’Etat, des flics, des militaires, des parents), la détestation de la Démocratie chrétienne, qui régit les institutions politiques, du Parti communiste – alors le plus puissant d’Europe –, qui gouverne les rapports sociaux (syndicats, milieux culturels, associations), des nostalgiques des Chemises noires, des patrons, de la magistrature qui poursuit les contestataires.
    Ajoutez à ce brouet de haines les utopies et les combats de la décennie : la libération de la classe ouvrière, le rêve d’une vie communautaire, l’égalité des sexes et l’amour libre, les chanteurs Bob Dylan et Giorgio Gaber, l’antipsychiatrie, le désir de renouer avec la geste des partisans de 1943 qui, l’arme à la main, ont libéré le pays de Mussolini et ses nervis en sifflotant Bella ciao et Bandiera rossa.

    Ajoutez une bonne pincée de manipulations diverses des services secrets italiens et étrangers qui préféraient voir l’Italie se transformer en dictature à la perspective d’assister, impuissants, à l’arrivée au pouvoir du Parti communiste à la faveur d’une alliance avec la Démocratie chrétienne, ce fameux « compromis historique », condamné par les deux extrêmes. Enfin, épicez cette mixture en y jetant des pains d’explosifs, des armes de poing, des mitraillettes et une bonne dose d’inconscience. Bilan : plus de 360 morts attribués aux deux bords [équanimité toute partisane ! ce bilan global occulte le rôle clé des #attentats_massacres perpétrés par des fans, des barbouzes et des services..., ndc] , des milliers de blessés, 10 000 arrestations, 5 000 condamnations, des années de prison par centaines.

    La révolution asphyxiée

    Cette folie, Alessandro Stella, 63 ans, y a cru jusqu’au vertige. Pantalon de cuir noir, parka défraîchie, teint pâle de fumeur. Condamné à six ans de prison pour « association subversive constituée en bande armée », il a raconté dans un petit livre sincère, au titre provocateur (Années de rêves et de plomb, éditions Agone, 2016), sa vie de militant puis de fuyard.

    Pour nombre d’activistes, l’assassinat d’Aldo Moro, en 1978, marqua le renoncement à la lutte.
    Il a appartenu à un groupuscule affilié au mouvement #Autonomie_ouvrière jusqu’à l’assassinat, en 1978, du président du conseil démocrate-chrétien, Aldo Moro, qui, pour nombre d’activistes, marqua leur renoncement alors qu’à l’inverse les Brigades rouges (#BR), intensifièrent leur pression sur le pouvoir, transformant la lutte révolutionnaire en une guerre privée contre l’Etat.

    Alessandro Stella écrit : « Fin janvier 1981, après deux ans de vie clandestine, je décidai de quitter l’Italie. Je n’en pouvais plus de cette vie menée sous un faux nom, des faux comportements, du déguisement d’employé modèle. (…) Avoir un lit pour passer la nuit, se trouver un refuge à droite ou à gauche, était devenu mon activité principale. »
    En promettant d’importantes remises de peine aux « #repentis » qui dénonçaient leurs anciens camarades ou aux « #dissociés » qui reniaient publiquement leur ancienne foi, la justice est parvenue à assécher le vivier des extrémistes, à les couper de leurs soutiens. La révolution est asphyxiée, l’utopie est morte. Ses serviteurs ? Une armée débandée.

    Après un transit par le Luxembourg, le Pérou et le Mexique, Alessandro Stella débarque à Paris en 1982. « Une fois ici, j’ai été obligé de rebondir, raconte-t-il dans la cafétéria glaciale de l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), où il enseigne à présent. Ensuite je me suis marié (par amour, tient-il à préciser) avec une Française et j’ai obtenu la nationalité. »

    La cavale, une discipline militaire

    Gianluigi (le prénom a été changé à sa demande et les détails de son parcours qui pourraient permettre de l’identifier ont été gommés), lui, est arrivé à la fin des années 1970. Il a traversé la frontière italienne par la montagne, « en chaussures de ville », avec une quarantaine de compagnons. « Je ne me suis pas dissocié, j’ai déserté tout simplement », raconte-t-il. Cadre dans un groupe important, il est rompu à la vie clandestine.

    « Grâce à un dernier hold-up avant de partir, nous disposions d’un peu d’argent pour notre groupe. On donnait un peu plus aux couples qu’aux célibataires. A Paris, notre règle de vie est devenue militaire. Il fallait connaître parfaitement le quartier où l’on vivait pour fuir la police française et la cinquantaine de carabiniers venue leur prêter main-forte. Sortir et rentrer à des horaires réguliers. Etre courtois mais muet avec les voisins. Ne pas porter de cheveux longs ni de vêtements voyants, ne pas boire, ne pas fumer de shit, et bien fermer le gaz et l’eau avant de partir, afin de ne pas alerter les pompiers. En un an et demi, j’ai changé 54 fois de domicile. J’ai appris le français en lisant Le Monde et en écoutant France Culture. Pendant six mois, je n’ai pas prononcé un mot. C’était une solitude terrifiante. »

    Comme les sous-marins, ils sont près de 300 Italiens au début des années 1980 (certains parlent de 500 ou de 1 000) à vivre à Paris en immersion. Ils y ont des contacts, des complices, des compagnons. Dès les années 1970, des intellectuels comme Roland Barthes, Gilles Deleuze ou le psychanalyste et philosophe Félix Guattari sont solidaires des luttes italiennes. L’adresse de l’appartement de ce dernier, rue de Condé, à deux pas du Sénat, se transmet de fugitif en fugitif, tout comme celle du mouvement Emmaüs de l’abbé Pierre, lui aussi favorable à l’accueil des ex-activistes transalpins.

    Beaucoup, à gauche, les considèrent comme des victimes d’une « semi-démocratie ». Le journaliste italien Domenico Quirico s’en amusera dans La Stampa en 2007 : « Les Italiens sont accueillis à bras ouverts, choyés par une gauche française incurablement nostalgique d’une révolution qu’elle n’avait pas faite et qui s’imprégnait avec enthousiasme de celle que d’autres croyaient avoir faite. »
    Réfugiés politiques ?

    Autre point de chute des exilés fraîchement débarqués et sans ressources : dans le 18e arrondissement populaire, le 52, boulevard Ornano, où des avocats de gauche, regroupés autour d’Henri Leclerc, ont créé un cabinet collectif. Les prix sont imbattables : 30 francs la consultation. Jean-Pierre Mignard, l’un des fondateurs, explique : « Les demandes d’extradition de l’Italie étaient mal conçues. Les faits n’étaient pas toujours étayés. C’était scandaleux de la part d’un pays qui est à l’origine de l’invention du droit. Pour nous, la qualité politique de ces réfugiés ne souffrait aucun doute. »

    Malgré les efforts des avocats, à la fin du mandat de Valéry Giscard d’Estaing, une quarantaine d’extrémistes sont extradés. Départ de l’aéroport militaire de Villacoublay, en région parisienne, au petit matin, atterrissage deux heures plus tard sur celui de Pratica del Mare, au sud de Rome… Mais un espoir fait tenir ces Italo-Parisiens : la perspective de l’élection de François Mitterrand à la présidence de la République. Candidat de l’Union de la gauche, il a affirmé que la France resterait une « terre d’asile ». Le soir du 10 mai 1981, beaucoup de Transalpins en fuite sont place de la Bastille pour fêter l’élection du premier président socialiste.

    1981, c’est l’année que choisit aussi Oreste Scalzone, fondateur du mouvement Potere operaio (Pouvoir ouvrier) – qui prône l’autonomie ouvrière sans recours à la violence [ah... ndc] –, pour rejoindre la France depuis Copenhague, où il avait trouvé un premier refuge. Condamné par contumace à plus de trente ans de prison en première instance, il avait été libéré après une grève de la faim mais restait sous la surveillance de la justice. Sa fuite est une odyssée. D’abord un ferry de Civitavecchia jusqu’en Sardaigne en compagnie de l’acteur vedette Gian Maria Volontè (Pour une poignée de dollars, Enquête sur un citoyen au-dessus de tout soupçon…). Puis une voiture jusqu’à l’île de la Maddalena, où mouille le voilier du comédien. Sur sa coque est écrit ce vers de Paul Valéry : « Le vent se lève… ! il faut tenter de vivre ! »

    Scalzone raconte : « On a navigué jusqu’en Corse, où un ami de l’ancienne partisane qui m’accompagnait nous attendait. Il nous a conduits en voiture jusqu’à Bastia. De là, j’ai pris un ferry pour Toulon. J’ai traversé toutes les frontières jusqu’au Danemark sans être inquiété. J’avais de bons faux papiers, et j’étais bien maquillé. » Prof de philo en Italie, il a appris à se grimer en fréquentant le Living Theater installé sur la piazza Indipendenza de Rome.

    A partir d’août 1981, avec sa femme et leur petite fille, il est à Paris, après un passage par un village du sud de la France. « Il valait mieux se fondre dans la grande ville. Retrouver une vie sociale, des amis… Ma femme et moi n’avons pas trouvé le temps de chercher du travail, du fait de notre engagement pour faire barrage à toute extradition. Je me rappelle un 11-Novembre : sur les murs, je voyais des affiches du syndicat FO annonçant une manif à Bastille. Je croyais que Dario Fo [écrivain et homme de théâtre, prix Nobel de littérature en 1997] allait venir donner un spectacle. »

    La « doctrine Mitterrand »

    Rive droite, un bureau discret du ministère de l’intérieur, tenu par Gaston Defferre. Tous les samedis s’y réunissent, sous l’autorité de Louis Joinet, conseiller justice de François Mitterrand, des avocats, des magistrats, des juristes, des professeurs de droit, des policiers de haut rang. Ordre du jour : que faire de ces Italiens défaits, planqués dans Paris ? Comment éviter que leur précarité ne les conduise à refaire le choix de la violence ? La Fraction armée rouge, en Allemagne, et Action directe, en France, sont prêtes à les accueillir à bord de leur bateau ivre. Combien auraient aimé retrouver cette force ?

    Jean-Pierre Mignard assiste aux réunions de la Place Beauvau : « Les policiers étaient très favorables à accorder l’asile aux Italiens. Les filatures avaient démontré qu’ils ne présentaient aucun danger. Les autorités italiennes n’étaient pas hostiles non plus. Leurs prisons étaient pleines. C’est comme ça que nous avons élaboré le pacte qui deviendra la doctrine Mitterrand : l’asile pour les Italiens qui n’avaient pas commis de crime de sang en échange de la sortie de la clandestinité et du renoncement à toute forme de lutte armée des deux côtés des Alpes. »

    Rive gauche, cette fois, rue de Nanteuil, 15e arrondissement, une maison d’association. Ici, tous les samedis également, des débats véhéments ont lieu. Souhaitant peser sur leur destin, les Italiens se sont constitués en association de réfugiés. Ici aussi on discute des conditions du pacte négocié Place Beauvau. La petite amie française de l’un d’eux se souvient de leurs insultes : « Ils se traitaient de traditore (“traître”) ou de stronzo (“connard”). Accepter de sortir de la #clandestinité, c’était faire confiance à la parole de l’Etat et verbaliser la défaite. Cela n’allait pas de soi. » Gianluigi se rappelle y être allé parfois. « Il y avait trois types de réfugiés, dit-il. Les clandestins, très rigides, très méfiants ; les innocents, qui n’avaient fait que distribuer des tracts et tenir des discours ; et, enfin, les dépolitisés. Ceux-là voulaient tourner la page au plus vite. L’ambiance était infecte. Les anciens BR insultaient tout le monde. Ils dépensaient toute leur énergie à faire la guerre aux autres activistes. »

    Lanfranco Pace, lui aussi ancien fondateur du groupe Potere operaio, raconte : « Certains voulaient continuer la lutte armée. Nous leur avons expliqué fermement que la France avait un certain savoir-faire en matière de police parallèle et de barbouzerie, et que même Lénine était resté tranquille pendant ses années d’exil. »
    « C’était étrange, se souvient Alessandro Stella, on s’engueulait, mais en même temps on se donnait des combines pour un boulot ou un appart’. »

    Finalement, le pacte est adopté. Tous les avocats apportent leurs dossiers à la police. Jean-Pierre Mignard en dépose 118 à lui seul en 1982. Tous ont respecté leur contrat, excepté quelques soldats perdus. Un an plus tard, Ciro Rizzato, membre des Communistes organisés pour la libération prolétarienne, est abattu par la police à l’issue d’un hold-up dans une banque du 17e arrondissement pour le compte d’Action directe, en octobre 1983. Il avait 24 ans.

    En définitive, le plus dur commence : reprendre une vie normale, construire une existence, s’installer dans un #exil de longue durée que ne viendront plus rompre les incessants déménagements. « Ils devaient se mettre au boulot. C’était des intellos qui n’avaient rien glandé de leur vie à part rêver à la révolution depuis leur adolescence », raconte un témoin de ces années-là. Alessandro Stella témoigne : « En Italie, j’étais étudiant. A Paris. J’ai fait des chantiers. Parfois, quand je me balade, je me dis : “Là, j’ai refait les peintures, là, la salle de bains.” » Lanfranco Pace pousse la porte du quotidien Libération, au cœur de la Goutte-d’Or, dans le 18e. Avant lui, Antonio Bellavita l’a précédé, passant d’activiste sans boulot à directeur artistique. Recommandé par Jean-Marcel Bouguereau, alors spécialiste des mouvements d’extrême gauche allemands et italiens, Pace rencontre Serge July, le directeur et fondateur du journal. Embauché !

    « Je parlais très mal le français. Je confondais les mots “cuillère” et “couillon” », se souvient-il au téléphone. Il signe ses premiers papiers du pseudo qu’il gardera durant toute sa carrière en France, Edouard Mir. Mir… la paix, en russe. Bouguereau se rappelle ces collègues qui venaient le voir pour lui demander : « Mais, Edouard, il a du sang sur les mains ? » Il les rassure.
    Après Pace, ce sera au tour de Giambattista Marongiu de débarquer rue Christiani. D’abord maquettiste, puis secrétaire de rédaction, il deviendra une des plumes du cahier « Livres » sous le nom de Jean-Baptiste Marongiu. Avocat en Italie, Luigi Zezza, les retrouve un cutter à la main à monter les pages du journal. Gianluigi, lui, est devenu livreur puis déchargeur aux halles de Rungis. De cette nouvelle vie à l’air libre, il se souvient « de ses virées à Mobylette et de la soupe à l’oignon à 4 heures du matin ».

    Une « Little Italy » parisienne

    Mais l’exil est un acide ; il ronge. Comment composer avec cette part de soi restée au pays ? Les souvenirs qui parfois vous assaillent pour une odeur, une impression fugace ? Les parents que l’on ne peut plus voir et qui meurent loin de vous ?
    « Ils souffraient terriblement du mal du pays, se remémore un proche d’un des exilés. Parlaient sans cesse de leur village, de leur ville. Un jour, dans un restaurant, l’un d’eux s’est levé et s’est écrié plein de désespoir “Puglia ! Puglia !” (“Les Pouilles !”) Ils se faisaient des pâtes, disaient du mal des Français, parce que nous n’avions pas de bidet dans nos salles de bains. » « Tu te rends compte, frissonne encore un ancien membre de l’organisation Prima Linea (Première ligne), on mangeait des spaghettis au gruyère ! »

    Pour combattre la nostalgie, d’anciens activistes ouvrent les premiers vrais restaurants italiens à Paris dont la plupart ont depuis fermé ou ont changé de propriétaire : le Passepartout, à Saint-Michel, Le Sipario, dans le 12e arrondissement, L’Enoteca, à Saint-Paul, ainsi que la Tour de Babel, la librairie italienne de la rue du Roi-de-Sicile, dans le Marais.
    Une Little Italy parisienne voit le jour. Pourtant, la tentation de repasser la frontière est trop forte pour certains. « Un ami, raconte Alessandro Stella, n’a pas pu résister. Il a été tué en sortant de chez lui par la Digos, la police antiterroriste, à Trieste. » Gianluigi a bien failli retourner chez lui clandestinement pour revoir son père mourant. Son sac était prêt. Des amis l’ont dissuadé in extremis d’entreprendre ce voyage. Plus tard, il a su que les carabiniers l’attendaient à l’hôpital.

    Rentrer ou rester ? Paolo Persichetti n’a pas eu à se poser la question. Le 24 août 2002, dans un hall d’immeuble parisien, alors qu’il se rendait à un dîner, il est interpellé, conduit à la division nationale antiterroriste (DNAT) et ramené en voiture au pays pour purger le solde d’une peine de vingt-deux ans de prison pour « appartenance à une bande armée » et « complicité morale dans un homicide ».

    De cette extradition, en partie justifiée en raison des faits qui lui étaient reprochés – l’assassinat d’un général en 1987, postérieur à l’élaboration de la doctrine Mitterrand –, il garde le souvenir d’une sorte d’escamotage. « Quand nous sommes entrés dans le tunnel du Mont-Blanc j’ai eu l’impression que la montagne m’avalait. J’ai été remis aux policiers italiens à l’intérieur, sur une aire de secours, loin des regards », se souvient-il dans cette grande cafétéria impersonnelle de la périphérie de Rome, un soir de janvier.

    Rejeton tardif de l’insurrection (il avait 16 ans lors de l’assassinat d’Aldo Moro), il n’est arrivé en France qu’en 1991. Fils d’ouvriers originaires des Pouilles, il est devenu doctorant en sciences politiques, chargé de cours à l’université Paris-VIII, à Saint-Denis. « Je m’étais fait une autre vie, et c’est ça qu’on a voulu me faire expier, continue-t-il. En Italie, le discours dominant voudrait que les brigadistes exilés passent leur vie en vacances à l’étranger, à se la couler douce. Dans cette logique, tout ce que vous avez pu accomplir par la suite devient une circonstance aggravante qui sera retenue contre vous. » D’abord placé à l’isolement complet pendant quatre mois, il obtient, en 2008, au bout de six ans de détention, un régime de semi-liberté. « Quand je suis sorti, je ne reconnaissais plus ma ville. Les quartiers où j’avais grandi avaient complètement changé. Je me perdais dans Rome. Ici, ce n’est plus chez moi. »

    Retour à Gênes

    Enrico Porsia, lui, a pu de nouveau se rendre à Gênes, en juillet 2013, une fois prescrite sa condamnation à quatorze années de prison et au terme de plus de trente années d’exil en France. Il n’a jamais cherché à faire profil bas. Fin juillet 2013, à peine vingt-quatre heures après avoir débarqué d’un ferry arrivant de Corse, où il vit depuis la fin des années 1990, les journaux annonçaient « le retour du brigadiste jamais repenti » et ironisaient sur la « belle vie » qui était promise à l’enfant du pays.
    Son parcours a de quoi susciter des aigreurs. Parti à 20 ans, Enrico Porsia est devenu photographe, puis journaliste d’investigation. Pour son travail, il a sillonné la France, dont il ne pouvait pas sortir, « comme une balle de flipper ». Il a découvert l’Outre-mer, pour voir du pays, puis s’est posé en Corse, où ses reportages lui ont valu pas mal d’inimitiés – sa voiture a été plastiquée en 2009.

    « Tu vois, c’est ici qu’un groupe a enlevé l’armateur Costa, en 1977. Avec le fric de la rançon, les Brigades rouges ont pu tenir pas mal de temps. » Enrico Porsia
    Chaleureux et volubile, il joue les guides dans les rues de Gênes. « Tu vois, c’est ici qu’un groupe a enlevé l’armateur Costa, en 1977. Avec le fric de la rançon, les Brigades rouges ont pu tenir pas mal de temps. » Un peu plus tard, dans un petit restaurant où il a refait pour nous l’histoire mouvementée et détaillée de l’après-guerre italienne, un client s’est approché. Il s’est présenté comme un ancien membre du Parti communiste avant de lancer, glacial : « Le problème avec vous, les brigadistes, c’est que vous n’avez pas tué les bons. » Devenu Français par décret, en 1986, Enrico Porsia a appris il y a trois ans, « par hasard », qu’il avait perdu sa nationalité italienne. Hâbleur, il assure que cela ne lui fait ni chaud ni froid. Grave, il lâche : « L’exil est une véritable peine. Et le retour, encore plus dur ensuite. »

    Rome était méconnaissable aux yeux de Lanfranco Pace lorsqu’il y est retourné en 1994. Berlusconi était sur le point d’être élu président du Conseil. Il avait quitté un pays frileux, il en retrouvait un autre où les chaînes de télévision du « Cavaliere » diffusaient des images de filles à moitié nues, le strip-tease des ménagères : « Tout avait changé, les gens, les voitures. Mes amis soutenaient Antonio Di Pietro, le juge de l’opération “Mains propres”, qui représentait à mes yeux l’archétype du magistrat politisé que nous avions combattu toute notre jeunesse ! »
    Est-ce pour cette raison qu’il a choisi d’écrire pour Il Foglio, un quotidien financé en partie par l’ex-épouse de Berlusconi ? « Un petit journal mais une grande liberté », justifie-t-il.
    Parfois, Alessandro Stella retourne au pays, même s’il est brouillé avec son frère, Gian Antonio, un journaliste réputé. « J’apprécie les odeurs, les paysages, dit-il. Mais, pour l’historien que je suis devenu et l’ancien activiste que j’ai été, il n’y a rien de plus intéressant que la France. » Chaque samedi, il participe aux manifestations des « gilets jaunes ». Le matin seulement, avant que le rassemblement ne dégénère. A 63 ans, il fatigue un peu…

    « L’exil n’est pas une disgrâce. Je mène une vie difficile à Paris mais moins ennuyeuse que prof de philo à Terni. » Oreste Scalzone
    Quarante ans ont passé depuis les années de plomb, mais Oreste Scalzone continue de faire le fiérot. « L’exil n’est pas une disgrâce. J’ai une aversion pour la faute, les passions tristes, la victimisation. Je mène une vie difficile à Paris mais moins ennuyeuse que prof de philo à Terni [sa ville de naissance]. » Il n’est retourné en Italie qu’en 2007, vingt-six ans après son arrivée à Paris. Sa mère est morte peu après, à 102 ans. « Comme si elle m’avait attendu pour partir », dit-il. De son passé, il ne renie rien, et refuse qu’on l’y force. Question de principe.
    Son combat, c’est l’amnistie, sans conditions ni repentir, comme la France l’a fait avec les généraux putschistes de l’OAS. Il répugne à se prononcer sur la culpabilité de Cesare Battisti. Au terme d’un long raisonnement, il lâche, dans un sabir très post-soixante-huitard : « Toute justice pénale est un dispositif de production d’effets de vérité. Je voudrais pouvoir dire que, même dans la pire situation de ma vie, je resterai quelqu’un qui ne se laissera pas extorquer un aveu d’innocence. »

    « Malheur aux vaincus »

    L’Etat, l’opinion et les médias italiens ne veulent pas entendre parler de clémence, et encore moins aujourd’hui alors que les contentieux se multiplient entre Rome et Paris.
    Lanfranco Pace : « Les Italiens sont un peu dégueulasses. C’est malheur aux vaincus. Ils ne veulent pas d’amnistie collective, mais le pardon au cas par cas, ça passe. » Pour l’historien Marc Lazar, « la majorité des Transalpins considèrent qu’une amnistie est inutile car les responsables des attentats ont bien été jugés par un Etat de droit. En outre, il faudrait que ceux qui ont choisi la lutte armée expriment une contrition. » Ce passé-là ne passe pas dans ce pays paradoxal qui a plus facilement assimilé vingt ans de fascisme que ces dix années de plomb.

    Un après-midi durant, Oreste Scalzone nous a parlé dans un café proche de chez lui. Le soir, nous l’avons raccompagné. Il avait neigé, la chaussée était glissante. Il nous tenait le bras et parlait… parlait comme s’il n’allait jamais s’arrêter. Sur son pull et sa chemise, il avait passé un vieux blouson de cuir, un vieux manteau et un vieil imperméable. Il portait aussi une chapka sur la tête et de grosses chaussures fourrées. Il marchait avec une canne. « Toujours subversif », de son propre aveu, il incarne la persistance d’une utopie révolutionnaire aujourd’hui anachronique.

    Gauchiste de 72 ans, il est devenu la figure de référence sur la question des #réfugiés_politiques italiens. C’est sa raison sociale et sa raison d’être. On l’invite à des conférences des deux côtés des Alpes. Il chante L’Internationale au décès des camarades et joue Bella Ciao à l’accordéon. Il ne boit pas de champagne sous la tour Eiffel. Il habite un très modeste deux-pièces en rez-de-chaussée près des habitations à bon marché en brique rouge de la porte de Montreuil, dans le 20e arrondissement. Pour le voir, il suffit de frapper au carreau.
    Longtemps, la justice italienne a cru, avant d’abandonner cette piste, qu’il avait été l’un des cerveaux, avec le philosophe Toni Negri, de certaines violences imputées à l’extrême gauche. En regardant ce petit homme frêle comme un oiseau dans la lumière jaunâtre d’un réverbère de la rue Saint-Blaise, cette hypothèse nous a paru simplement incongrue.

    • Les années 70 en Italie et [leur] actualité - Alessandro Stella
      https://lundi.am/Les-annees-70-en-Italie-et-son-actualite-Alessandro-Stella

      (..) Car, il faut le rappeler, dans la première moitié des années 1970, c’était des ouvriers, des syndicalistes, des étudiants qui tombaient sous les balles de la police anti-émeute. Des clients de banque (Milan, 1969), des usagers de trains (Italicus, 1974), des auditeurs d’un comice syndical (Brescia, 1974) sont morts par dizaine dans des attentats qui voulaient semer la peur dans la population dans le but d’en appeler à un Etat fort, d’ordre et de discipline. Les luttes sociales, sur les lieux de travail, d’études, de vie, avaient en effet mis en crise hiérarchies et gouvernances, et la classe ouvrière était promise au paradis. (...)
      Le bilan de ces longues années de conflit entre les groupes armés d’extrême gauche et l’Etat italien comptabilise 128 morts (policiers, juges, dirigeants d’entreprise, hommes politiques, journalistes) causés par les militants révolutionnaires. De l’autre côté, il y a eu 68 militants morts, tués par des policiers ou tombé au cours d’actions. (...)

      [1] Une précision me semble devoir être apportée à ce texte, qui n’expose sans doute pas assez à quel point l’Italie des années 50-70 était une société violente. Dans l’espèce de bilan qu’il dresse qu’il met en rapport les morts tués par les organisations de lutte armée et ceux tués par la police chez les militants. Mais il conviendrait mieux, à mon sens, face aux morts du côté du pouvoir, d’aligner ceux tués dans les grèves, les mouvements paysans, les révoltes carcérales : on verrait alors que les pertes étaient infiniment plus élevées du côté des exploités en lutte que du côté des exploiteurs qui les réprimaient.

    • Un de meilleurs articles écrits en 2004, au début de « l’affaire Battisti », sur les « lois spéciales » italiennes des années 70-80.

      Wu Ming - Cesare Battisti, ce que les médias ne disent pas
      https://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/cesare_battisti_2_french.html

      1. Les lois spéciales 1974-82

      « Ce livre, je l’ai écrit avec colère. Je l’ai écrit entre 1974 et 1978 en contrepoint idéologique de la législation d’exception. Je voulais montrer à quel point il est équivoque de feindre de sauver l’État de Droit en le transformant en État Policier. » (les italiques sont de l’auteur de l’article)
      Italo Mereu, Préface de la deuxième édition de « Histoire de l’intolérance en Europe »

      Pour dire que le terrorisme fut combattu sans renoncer à la Constitution et aux droits de la défense, il faut être mal informé ou menteur. La Constitution et la civilisation juridique furent mises en lambeaux, décret après décret, instruction après instruction.
      Le décret-loi n.99 du 11-04-1974 porta à huit ans l’incarcération préventive, véritable « peine anticipée » contraire à la présomption
      d’innocence (article 27, alinéa 2, de la Constitution).
      La loi n. 497 du 14-10-1974 réintroduisit l’interrogatoire de la personne arrêtée par la police judiciaire, ce qui avait été aboli en 1969.
      La loi n. 152 du 22-05-1975 ("Loi Réale"). L’article 8 rend possible la fouille individuelle des gens sur place sans l’autorisation d’un magistrat, bien que la Constitution (article 13, alinéa 2) n’admette « aucune forme de détention, d’inspection, ou de fouille individuelle, ni aucune autre restriction à la liberté personnelle, sans un acte signé par l’autorité judiciaire et dans les seuls cas et modalités prévus par la loi. »
      Dès lors, les forces de l’ordre purent (et peuvent toujours) fouiller des personnes dont l’attitude ou la simple présence dans un lieu donné ne
      lui paraissaient « pas justifiables », même si la Constitution (article 16) précise que tout citoyen est libre de « circuler librement » où il veut.
      La « Loi Reale » contenait plusieurs autres innovations liberticides, mais ce n’est pas ici le lieu de l’examiner.
      Un décret interministériel du 04-05-1977 créa les « prisons spéciales ». Ceux qui y entraient ne bénéficiaient pas de la réforme carcérale mise en place deux ans auparavant. Le transfert dans une de ces structures était entièrement laissé à la discrétion de l’administration carcérale sans qu’elle ait besoin de demander l’avis du juge de surveillance. Il s’agissait réellement d’un durcissement du règlement pénitentiaire fasciste de 1931 : à cette époque, seul le juge de surveillance pouvait envoyer un détenu en « prison de haute surveillance ». Le réseau des prisons spéciales devint vite une zone franche, d’arbitraire et de négation des droits des détenus éloignement du lieu de résidence des familles ; visites et entretiens laissés à la discrétion de la direction ; transferts à l’improviste afin d’empêcher toute socialisation ; interdiction de posséder des timbres (prison de l’Asinara) ; isolement total en cellules insonorisées dotées chacune d’une petite cour, séparée des autres, pour prendre l’air (prison de Fossombrone) ; quatre minutes pour prendre la douche (prison de l’Asinara) ; surveillance continuelle et fouilles corporelles quotidiennes ; privation de tout contact humain et même visuels par les interphones et la totale automatisation des portes et des grilles etc.
      Tels étaient les lieux où les prévenus, selon la loi encore présumés innocents, passaient leur incarcération préventive. Pourtant la Constitution, article 27, alinéa 3, dit « Les peines infligées aux condamnés ne peuvent pas être contraires au respect humain et doivent tendre à la rééducation ».
      Vers quelle rééducation tendait le traitement décrit ci-dessus ?
      La loi n.534 du 08-08-1977, article 6, limita la possibilité pour la défense de déclarer nul un procès pour violation des droits d’un accusé et rendit encore plus expéditif le système des notifications, facilitant ainsi le début des procès par contumace (contrairement au droit de la défense et contre la Convention européenne des droits de l’homme de 1954).
      Le « décret Moro » du 21-03-1978 non seulement autorisa la garde à vue de vingt-quatre heures pour vérification d’identité, mais il supprima la limite de la durée des écoutes téléphoniques, légalisa les écoutes même sans mandat écrit, les admit comme preuves dans d’autres procès que ceux pour lesquels on les avait autorisées, enfin il permit les « écoutes téléphoniques préventives » même en l’absence du moindre délit. Inutile de rappeler que la Constitution (article 15) définit comme inviolable la correspondance et tout autre moyen de communication, sauf dans le cas d’un acte motivé émis par l’autorité judiciaire et « avec les garanties établies par la loi ».
      Le 30-08-1978 le gouvernement (en violation de l’article 77 de la Constitution) promulgua un décret secret qui ne fut pas transmis au Parlement et ne fut publié dans le « Journal Officiel » qu’un an plus tard. Ce décret donnait au général Carlo Arberto della Chiesa - sans pour autant le décharger du maintient de l’ordre dans les prisons - des pouvoirs spéciaux pour lutter contre le terrorisme.
      Le décret du 15-12-1979 (devenu ensuite la « Loi Cossiga », n. 15 du 06-02-1980), non seulement introduisit dans le code pénal le fameux article 270 bis (1), mais il autorisa aussi la police, dans le cas de délits de « conspiration politique par le biais d’associations » et de délits « d’associations de malfaiteurs », à procéder à des arrestations préventive d’une durée de 48 heures, plus quarante-huit heures supplémentaires de garde à vue afin de justifier les mesures prises. Pendant quatre longues journées un citoyen soupçonné d’être sur le point de conspirer pouvait rester à la merci de la police judiciaire sans avoir le droit d’en informer son avocat.
      Durant cette période il pouvait être interrogé et fouillé et dans de nombreux cas on a parlé de violences physiques et psychologiques (Amnesty International protesta à plusieurs reprises). Tout cela grâce à l’article 6, une mesure extraordinaire qui a durée un an.
      L’article 9 de la loi permettait les perquisitions pour « raison d’urgence » même sans mandat. La Constitution, article 14, dit : « Le domicile est inviolable. On ne peut pas y effectuer d’inspections, de perquisitions ni d’arrestations, sauf dans les cas et les modalités prévus par la loi et selon les garanties prescrites par la protection des libertés personnelles » (c’est moi qui souligne). En quoi consiste cette protection des libertés dans un système où sont légalisés l’arbitraire, les lubies du policier, la faculté de décider à vue s’il est nécessaire d’avoir ou non un mandat pour perquisitionner ?
      Dans l’article 10, la fin de l’incarcération préventive pour délits de terrorisme était prolongée d’un tiers par échelon judiciaire. De cette manière, jusqu’à la Cassation, on pouvait atteindre dix ans et huit mois de détention en attendant le jugement ! Avec l’article 11, on introduisit un grave élément de rétroactivité de la loi, permettant d’appliquer ces nouveaux délais aux procédures déjà en cours. Le but était clair : repousser les dates butoirs afin d’éviter que des centaines d’enterrés vivants attendent leur jugement à l’air libre.
      La « loi sur les repentis » (n. 304 du 29-05-1982) couronna la législation d’exception en concédant des remises de peine aux « repentis ». Le texte parlait explicitement de « repentir » [ravvedimento]. Dans un livre qui, ces derniers jours, a été souvent cité (sur le Net mais certainement pas dans les médias traditionnels), Giorgio Bocca se demandait qui pouvait bien être ce « repenti ». « Une personne qui, par convictions politiques, a adhéré à un parti armé et qui ensuite, après un revirement d’opinion, s’en est dissocié au point de le combattre, ou encore quelque aventuriste qui s’est amusé à tuer son prochain et qui, une fois capturé, essaye d’échapper à la punition en dénonçant tout et n’importe qui ? »
      Je cite le groupe musical « Elio e le storie tese » : « Je pencherais pour la seconde hypothèse / parce qu’elle exhale une odeur nauséabonde » (chanson de « Urna », 1992).

    • https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/04/20/reaffirmer-la-doctrine-mitterrand-sur-les-exiles-politiques-ne-signifie-en-a

      Tribune. Ils sont arrivés en France pour la plupart au début des années 1980, il y a plus de quarante ans. Ils ont participé à l’énorme vague de contestation politique et sociale qui a profondément marqué l’Italie pendant la décennie qui a suivi 1968. Ils venaient de groupes différents, avaient des histoires différentes, et étaient tous poursuivis par la justice italienne pour leur activité politique. Ils ont été protégés par ce que l’on a appelé la « doctrine Mitterrand » : parce que, dans certains cas, les conditions du fonctionnement de la justice italienne, dictées par la nécessité d’une réponse urgente aux dérives terroristes de la contestation sociale, laissaient paradoxalement craindre que toutes les garanties d’équité ne soient pas respectées ; parce que, plus généralement, les exilés italiens avaient publiquement déclaré qu’ils abandonnaient leur militantisme politique, qu’ils considéraient leur activité passée comme révolue, et qu’ils renonçaient à la violence.

      La doctrine Mitterrand n’est pas un texte écrit, elle n’a de valeur que comme décision politique. Mais elle se fonde sur un raisonnement qu’ont reconfirmé par la suite plusieurs gouvernements, de droite comme de gauche, et dont il nous semble qu’il vaut sans doute la peine d’être rappelé. Elle n’a jamais consisté à soustraire des coupables à une juste peine, ni à remettre en question le droit d’un Etat à faire valoir son propre système de justice. Elle a simplement mis en place, de facto, un mécanisme qui consiste à prendre la décision politique – face à la lacération douloureuse et générale de la cohésion d’un pays, et une fois que le contexte politique de cette lacération semble disparaître – de construire les conditions d’une unité et d’une paix retrouvées.

      Elle ne concerne donc pas des cas individuels mais fait face à une fracture qui s’est produite, dont elle a enregistré la violence, et qui semble désormais passée : elle se pose le problème de la recomposition de cette fracture. Elle n’efface pas les fautes et les responsabilités, elle ne nie pas l’histoire de ce qui s’est produit. Elle permet simplement au pays de recommencer à vivre ; et sans doute aussi aux historiens de pouvoir commencer à faire leur travail, c’est-à-dire de transformer la douleur lancinante en objets de savoir.
      Lire aussi L’Italie solde les années de plomb
      Dans le cas des années de plomb, une semblable possibilité a été envisagée et presque atteinte par l’Italie elle-même, à la fin des années 1990, parce qu’il fallait déclarer le chapitre clos – encore une fois non pas pour oublier, mais pour permettre au pays de se libérer d’un moment désormais révolu, et de livrer aux historiens la tâche d’en faire l’histoire.
      Cette possibilité, qui prenait la forme d’une proposition d’amnistie politique, n’a pas été saisie : elle était liée au projet d’une réforme constitutionnelle qui n’a finalement pas vu le jour.

      Aujourd’hui, les militants italiens exilés arrivés au début des années 1980 ont quarante ans de plus. Ils ont désormais largement l’âge de la retraite. Ils ont été journalistes, restaurateurs, médecins, graphistes, documentaristes, psychologues. Ils ont eu des enfants, et des petits-enfants. Ils n’ont cessé de répéter que la guerre était finie ; qu’ils étaient depuis bien longtemps étrangers à ce qu’ils avaient été sans jamais pourtant refuser d’admettre leur responsabilité. Ils avaient voulu le bien, la justice, l’égalité, le partage, la solidarité. Ils ont eu la tragédie, ils en admettent la responsabilité, mais ils ont rendu les armes depuis quatre décennies, et toute leur vie postérieure en constitue la preuve.
      C’est à ces femmes et à ces hommes, quarante ans après, que l’on demande des comptes. Non pas des comptes moraux – chacun d’entre eux a eu largement le temps d’y penser –, mais des comptes au nom d’une justice qui décrète que le pardon équivaut à l’oubli, que l’amnistie est toujours une trahison, que la réconciliation vaut moins que la réouverture des blessures. Rouvrir les blessures : faire en sorte que l’histoire ne passe pas.

      Réaffirmer la doctrine Mitterrand aujourd’hui ne signifie en aucun cas donner à l’Italie des leçons en matière de justice. Cela signifie simplement se souvenir que la politique se fait aussi, et surtout, au présent ; qu’elle se doit de construire les conditions d’un avenir partagé ; et que la conception de la justice comme pur instrument de vengeance, y compris quarante ans après, est contraire à ce que nous persistons à considérer comme un fonctionnement éclairé de la démocratie.

  • Les subjectivités réactives

    "Je voudrais en venir aux subjectivités typiques qui apparaissent dans notre conjoncture. Par « subjectivité typique » j’entends des formes psychiques, des formes de conviction et d’affect qui sont des productions du monde dont je parle. Ce n’est pas un relevé de toutes les subjectivités possibles. C’est celles que je considère comme étant induites ou produites par la structure du monde contemporain.

    Je pense qu’il y en a trois : la subjectivité occidentale, la subjectivité du désir d’Occident, qui n’est pas la même, et la subjectivité que j’appellerai « nihiliste ». Je pense que ces trois subjectivités sont des créations typiques de l’état contemporain du monde.

    La subjectivité occidentale est la subjectivité de ceux qui se partagent les 14% laissés par l’oligarchie dominante. C’est la subjectivité de la classe moyenne et elle est d’ailleurs largement concentrée dans les pays les plus développés. C’est là que des miettes peuvent être distribuées. Cette subjectivité, telle qu’on la voir fonctionner, est à mon avis travaillée par une contradiction. Un premier élément, c’est un très grand contentement de soi-même, les Occidentaux sont très contents d’eux-mêmes, ils s’apprécient beaucoup. Il y a une arrogance historique là derrière, évidemment : il n’y a pas si longtemps les Occidentaux étaient les détenteurs du monde. À l’époque, rien qu’à additionner les possessions, conquises par la pure violence, des Français et des Anglais, on avait presque la cartographie du monde extra-européen tout entier. Ce qui reste de ce pouvoir impérial direct et immense, c’est une représentation de soi-même comme étant, en quelque sorte, la représentation du monde moderne et comme inventant et défendant le mode de vie moderne.

    Mais ce n’est là qu’un versant de la chose. L’autre versant, c’est une peur constante. La peur constante de quoi ? Je dirais, usant d’un matérialisme quelque peu brutal, la peur de se voir balancer, à partir des 14% qu’on partage, du côté des 50% qui n’ont rien. Dans le monde tel qu’il est, les membres de la classe moyenne sont ce qu’on peut appeler des petits privilégiés. Et la peur constante d’un petit privilégié, c’est de perdre son privilège.

    Peut-être en effet, que, dans les tensions du capitalisme contemporain, on ne pourra plus entretenir comme avant la classe moyenne. Ce n’est pas impossible. Il n’est pas impossible, vu la rapacité grandissante de l’oligarchie et les conflits guerriers coûteux qu’elle est contrainte de mener pour défendre ses zones de profit, qu’on ne puisse plus donner à la classe moyenne ses actuels 14% des ressources disponibles, mais seulement 12% par exemple. Il y aurait alors le spectre menaçant de ce qu’on a appelé la « paupérisation des classes moyennes ».

    C’est pourquoi nous avons la relation dialectique typiquement occidentale entre un extrême contentement arrogant de soi-même et une peur constante. D’où la définition de l’art des gouvernements démocratiques aujourd’hui : l’art de diriger cette peur, qui anime leur base idéologique et électorale, la classe moyenne, non pas contre eux - les gouvernements -, mais contre tels ou tels représentants de la masse démunie. C’est une opération majeure : faire comprendre à la classe moyenne qu’en effet il y a des risques, que leur peur est légitime, mais que cette peur n’est aucunement motivée par les sages mesures du gouvernement et la gestion démocratique des affaires, car sa cause unique est l’intolérable pression exercée constamment sur la classe moyenne par l’énorme masse des démunis, et en particulier par les représentants internes à nos sociétés de cette masse : les ouvriers de provenance étrangère, leurs enfants, les réfugiés, les habitants des sombres cités, les musulmans fanatiques. Voila le bouc émissaire livré en pâture, par nos maîtres et leurs plumitifs, à la peur des classes moyennes, Ce qui est l’organisation d’une sorte de guerre civile rampante, dont nous voyons de plus en plus les sinistres effets. Tels sont les aléas subjectifs de ceux qui représentent, en un certain sens, le corps même de l’Occident.

    Considérons maintenant ceux qui ne sont ni de l’oligarchie, ni de la classe moyenne. C’est-à-dire qui ne sont ni consommateurs ni salariés, et qui de ce fait sont situés hors du marché mondial. Il faut comprendre qu’ils sont constamment exposés au spectacle de l’aisance et de l’arrogance des deux premiers groupes. Les médias de masse y pourvoient. Les médias de masse accompagnent partout l’expansion mondiale du capitalisme, et organisent le spectacle permanent de cette expansion. Nous avons là deux phénomènes absolument liés. Et d’ailleurs, les médias planétaires sont concentrés dans des firmes multinationales gigantesques, comme Apple, Google, etc.

    L’effet de cet accompagnement spectaculaire est que non seulement, le mode de vie occidental, mode dominant, n’est pas négociable, comme le dit le valeureux Bruckner, mais qu’en outre, il se montre à tout le monde comme tel. Et donc, les démunis, où qu’ils soient, ont le spectacle constant de l’aisance et de l’arrogance des autres. Et cela, en l’absence, que j’espère provisoire, d’une issue idéologique et politique d’ensemble, visant à contrarier, puis faire disparaître l’hégémonie du capitalisme ; ils voient donc, ces démunis, qu’il y a quelque part un noyau d’aisance, d’arrogance, de prétention à la civilisation, à la modernité, auquel ils n’ont aucun moyen de s’opposer réellement dans la pensée ou l’action, pas plus qu’ils n’en partagent la réalité. Et le résultat est une frustration amère, un mélange classique d’envie et de révolte.

    D’où les deux autres subjectivités typiques. Celle qui vient en premier c’est ce que j’appellerai le désir d’Occident : le désir de posséder, de partager, ce qui est représenté, et qui est partout vanté comme l’aisance occidentale. Il s’agit donc d’essayer d’adapter un comportement et une consommation de classe moyenne, sans en avoir les moyens. Alors, cela donne évidemment des phénomènes comme le flux migratoire, car la forme simple du désir d’Occident est tout simplement le désir de quitter les zones dévastées pour rejoindre ce fameux monde occidental, puisque c’est si bien là-bas, puisque tout le monde y est content et baigne dans l’aisance moderne et magnifique. Et si on ne peut pas y aller on peut s’abandonner à des aliénations locales, c’est-à-dire, des tendances à copier, avec des moyens misérables, les configurations et les modes de vie occidentaux. On pourrait parler très longtemps de ce thème du désir d’Occident, qui est fondamental aujourd’hui dans le monde et qui a des effets considérables tous désastreux.

    La dernière subjectivité, la nihiliste, est un désir de revanche et de destruction qui, évidemment, est en couplage avec le désir de départ et d’imitation aliénée. Ce violent désir de revanche et de destruction, il est naturel qu’il soit souvent exprimé, formalisé, dans des mythologies réactives, dans des traditionalismes qu’on exalte et qu’on déclare défendre, y compris les armes à la main, contre le mode de vie occidental, contre le désir d’Occident.

    Il s’agit là du nihilisme de celui dont la vie est comptée pour rien. Ce nihilisme se constitue en apparence contre le désir d’Occident, mais c’est parce que le désir d’Occident est son fantôme caché. Si le nihiliste n’activait pas la pulsion de mort, s’il ne donnait pas libre cours à son agressivité, éventuellement meurtrière, il sait très bien qu’en réalité lui aussi succomberait au désir d’Occident, déjà présent en lui.

    Il faut bien voir que ces deux subjectivités typiques - la subjectivité du désir d’Occident et la subjectivité nihiliste de revanche et de destruction - forment un couple qui gravite, version positive et version négative, autour de la fascination exercée par la domination occidentale.

    Et tout cela, dans un contexte où rien n’est proposé qui serait une levée collective affirmant et organisant la perspective d’une autre structure du monde. En sorte que ces trois subjectivités typiques sont en réalité toutes internes à la structure du monde telle que je l’ai décrite. Et c’est à partir de cette intériorité que je vais caractériser ce que j’appellerai le fascisme contemporain."

    Alain #Badiou

    http://la-bas.org/la-bas-magazine/textes-a-l-appui/alain-badiou-penser-les-meurtres-de-masse-du-13-novembre-version-texte#III-L

    • « Je rappelle, ces chiffres :
      – 1% de la population mondiale possède 46 % des ressources disponibles. 1% - 46% : c’est presque la moitié,
      – 10% de la population mondiale possède 86 % des ressources disponibles,
      – 50% de la population mondiale ne possède rien.

      Ainsi, la description objective de cette affaire, en termes de population, en termes de masse, signifie que nous avons une oligarchie planétaire qui représente à peu près 10 % de la population. Cette oligarchie détient, je le répète 86 % des ressources disponibles. 10 % de la population, ça correspond peu près à ce qu’était la noblesse dans l’Ancien Régime. C’est à peu près du même ordre. Notre monde restitue, reconfigure, une situation oligarchique qu’il a traversée et connue il y a longtemps et à laquelle, sous d’autres formes et sous d’autres aspects, il revient.

      Nous avons donc une oligarchie de 10 %, et puis nous avons une masse démunie d’à peu près la moitié de la population mondiale, c’est la masse de la population démunie, la masse africaine, asiatique dans son écrasante majorité. Le total fait à peu près 60 %. Et il reste 40 %. Ces 40 %, c’est la classe moyenne. La classe moyenne qui se partage, péniblement, 14 % des ressources mondiales.

      C’est une vision structurée assez significative : on a une masse de démunis qui fait la moitié de la population mondiale, on a une oligarchie nobiliaire, si je puis dire, du point de vue de son nombre. Et puis on a la classe moyenne, pilier de la démocratie, qui, représentant 40 % de la population, se partage 14 % des ressources mondiales.

      Cette classe moyenne est principalement concentrée dans les pays dits avancés. C’est donc une classe largement occidentale. Elle est le support de masse du pouvoir local démocratique, du pouvoir parlementarisé. Je pense qu’on peut avancer, sans vouloir insulter son existence - puisque nous en participons tous ici plus ou moins, n’est-ce pas ? - qu’un but très important de ce groupe, qui quand même n’a accès qu’à une assez faible partie des ressources mondiales, un petit 14 %, c’est de n’être pas renvoyé, identifié, à l’immense masse des démunis. Ce qui se comprend fort bien. »

  • COP21
    L’INTERDICTION DE MANIFESTATIONS EST UN ABUS DE POUVOIR

    23 nov. 2015

    Naomi Klein, journaliste canadienne, auteure, cinéaste et militante altermondialiste considère l’interdiction de manifester pendant la conférence Climat comme un révélateur des injustices politiques actuelles. « Encore une fois, un pays occidental riche place la sécurité des élites devant les intérêts de ceux qui se battent pour leur survie. Encore une fois, le message est : notre sécurité n’est pas négociable, la vôtre ne compte pas. »

    Naomi Klein, journaliste canadienne, auteure, cinéaste et militante altermondialiste considère l’interdiction de manifester pendant la conférence Climat comme un révélateur des injustices politiques actuelles. « Encore une fois, un pays occidental riche place la sécurité des élites devant les intérêts de ceux qui se battent pour leur survie. Encore une fois, le message est : notre sécurité n’est pas négociable, la vôtre ne compte pas. »
    --
    Qui protège-t-on, quand on cherche à assurer la sécurité par tous les moyens nécessaires ? Et qui est sacrifié, alors que l’on pourrait faire beaucoup mieux ? Ces questions sont au coeur de la crise climatique. Les réponses sont la raison pour laquelle les sommets du Climat finissent si souvent dans l’acrimonie.

    La décision du gouvernement français d’interdire les manifestations, marches et autres « activités en extérieur » pendant le sommet du Climat est perturbante à plusieurs niveaux. Ce qui m’inquiète le plus, c’est qu’elle reflète l’injustice fondamentale de la crise climatique elle-même, et cette question centrale : qui sont les personnes dont la sécurité est considérée importante dans notre monde asymétrique ?

    La première chose à comprendre, c’est que les personnes exposées aux pires effets du dérèglement climatique ne peuvent quasiment pas se faire entendre dans le débat public occidental, quand on se demande s’il faut agir sérieusement pour empêcher un réchauffement catastrophique. Les gigantesques sommets du climat comme celui que Paris s’apprête à accueillir sont de rares exceptions. Pendant deux petites semaines, les voix de ceux qui sont touchés, en premier et le plus fort, ont un peu de place pour se faire entendre là où des décisions majeures sont prises. C’est pour cette raison que des habitants des îles du Pacifique, des chasseurs Inuits et des personnes de couleur pauvres vivant à la Nouvelle Orléans parcourent des milliers de kilomètres pour y participer. Participer à ce sommet est une précieuse occasion pour parler du dérèglement climatique du point de vue de la morale, et de mettre des visages humains sur la catastrophe en train de se produire.

    Le deuxième point important c’est que même lors de ces rares moments, les voix de ceux qui se trouvent en « première ligne » n’ont pas assez de place dans les réunions officielles, où dominent les gouvernements et les ONG les plus riches. Les voix des gens ordinaires s’expriment surtout dans les rassemblements de base qui se tiennent parallèlement au sommet, ainsi que dans les manifestations et les moments de protestation qui attirent de cette manière l’attention médiatique. Or le gouvernement français a décidé de confisquer le plus puissant de ces porte-voix, en affirmant qu’assurer la sécurité des manifestations mettrait en péril sa capacité à garantir la sécurité de la zone du sommet officiel où les dirigeants politiques vont se rencontrer.

    Certains disent que cela se justifie dans la situation de riposte contre la terreur. Mais un sommet du climat des Nations-Unies n’est pas comme une réunion du G8 ou de l’Organisation Mondiale du Commerce, où les puissants se rencontrent et ceux qui n’ont pas de pouvoir tentent de gâcher leur fête. Les évènements concomitants de la « société civile » ne sont pas un ajout ou une distraction de l’évènement principal. Elles font intégralement partie du processus. C’est pourquoi le gouvernement français n’aurait jamais dû être autorisé à décider quelle partie du sommet il annule, et quelle partie il continue d’accueillir.

    Après les épouvantables attaques du 13 novembre, il aurait plutôt dû décider s’il avait la volonté et la capacité d’accueillir tout le sommet, avec la pleine participation de la société civile, y compris dans les rues. S’il ne le pouvait pas, il aurait dû y renoncer et demander à un autre pays de le remplacer. Pourtant, le gouvernement de François Hollande a pris une série de décisions qui reflètent une échelle de valeurs et de priorités très particulières quant à qui et quoi obtient la pleine protection de sa sécurité par l’Etat. Oui aux dirigeants du monde, aux matchs de foot et aux marchés de Noël. Non aux manifestations pour le climat et aux rassemblements qui reprochent aux négociations, compte-tenu du niveau des objectifs de réduction des gaz à effet de serre, de mettre en danger la vie et les conditions de vie de millions, si ce n’est de milliards de personnes.

    Et qui sait où cela finira ? Doit-on s’attendre à ce que l’ONU révoque arbitrairement les accréditions de la moitié des participants de la société civile ? Ceux qui semblent le plus susceptible de causer de l’agitation à l’intérieur du sommet bunkerisé ? Je n’en serais pas du tout étonnée.

    Il est important de réfléchir à ce que l’annulation des manifestations et protestations signifie en réalité et au plan symbolique. Le dérèglement climatique est une crise morale car à chaque fois que les gouvernements des pays riches échouent à agir comme il le faudrait, ils envoient le message que nous, au Nord, plaçons notre confort immédiat et notre sécurité économique devant la souffrance et la survie de certains des habitants les plus pauvres et les plus vulnérables de la planète.

    La décision d’interdire les espaces les plus importants où les voix des personnes affectées par le climat auraient pu s’exprimer, est l’expression dramatique de cet abus de pouvoir profondément non éthique. Encore une fois, un pays occidental riche place la sécurité des élites devant les intérêts de ceux qui se battent pour leur survie. Encore une fois, le message est : notre sécurité n’est pas négociable, la vôtre ne compte pas.

    Un dernier point : j’écris ces lignes depuis Stockholm, où je participe à une série d’événements publics sur le climat. Quand je suis arrivée, la presse s’excitait autour d’un tweet envoyé par la ministre de l’environnement, Asa Romson. Peu après la nouvelle des attentats de Paris, elle a tweeté sa colère et sa tristesse face à ces morts. Puis, qu’elle pensait que c’était une mauvaise nouvelle pour le sommet du climat, une pensée qui a traversé l’esprit de tous ceux que je connais, et qui ont un rapport avec le sommet du climat. Pourtant, elle a été jetée au pilori à cause de son insensibilité supposée : comment pouvait-elle penser au dérèglement climatique alors que venait de se produire un tel carnage ?

    Cette réaction est révélatrice de l’idée que le changement climatique est une question mineure, une cause sans véritables victimes, un événement futile. En particulier quand les problèmes sérieux de la guerre et du terrorisme sont au centre de l’attention. Cela m’a fait penser à ce que l’auteure Rebecca Solnit a écrit récemment : « le dérèglement climatique est une violence ».

    C’est une violence. Une partie de cette violence est infiniment lente : la montée du niveau des mers qui efface peu à peu des nations, les sécheresses qui tuent des milliers de personnes. Cette violence est aussi terriblement rapide : les tempêtes qui portent les noms de Katrina et Haiyan emportent des milliers de vies en un seul instant ravageur. Quand les gouvernements et les grandes entreprises échouent en conscience à agir pour empêcher la catastrophe du réchauffement, c’est un acte de violence. C’est une violence si grande, si mondiale, et infligée à tant de périodes temporelles à la fois (cultures anciennes, vies présentes, futur potentiel) qu’il n’existe pas encore de mot capable de décrire toute cette monstruosité. Faire preuve de violence pour réduire au silence ceux qui sont le plus vulnérables à la violence climatique est une violence de plus.

    Pour expliquer pourquoi les matchs de foot se tiendraient comme prévu, le ministre français des Sports a déclaré : « la vie doit continuer ». Oui, c’est vrai. C’est la raison pour laquelle j’ai rejoint le mouvement pour la justice climatique. Parce que quand les gouvernements et les grandes entreprises échouent à prendre en compte toutes les vies sur Terre, ils doivent être contestés.

  • Après la manifestation interdite en solidarité avec les migrants : exigeons l’arrêt de toutes les poursuites éventuelles ! Continuons à manifester et à braver l’état d’urgence. CIP-IDF
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=7932

    Dimanche 22 novembre à Paris 6 à 800 personnes ont réussi à passer outre l’interdiction de #manifester - prévue par l’#état_d’urgence instauré par le gouvernement suite aux #attentats_massacres du 13 novembre - à Paris lors d’une manifestation en solidarité avec les migrants .

    Le lendemain, la police fournissait au procureur une liste de 58 personnes présentées comme « identifiées ».

    La communication préfectorale imputait aux manifestants d’avoir « détourné les forces de sécurité ». Le procureur de Paris, François Molins, s’est empressé de donner davantage de consistance à cette accusation de « détournement » en lançant des poursuites qui se sont traduites en urgence par 58 convocations au poste de #police, avant d’annoncer au Conseil de Paris des « condamnations exemplaires ».

    Les premières convocations ont eu lieu dès mardi 24 novembre. Des personnes solidaires présentes aux abords du commissariat du bd Bourdon (Paris 4ème) où elles se déroulaient ont été arrêtées avant d’être relâchées.

    Nous apprenions dans le même temps qu’après des #perquisitions opérées en région parisienne dans divers lieux occupés, des manifestants potentiels de la mobilisation contre la COP21 avaient subi - sous prétexte de « lutte contre le terrorisme » - une perquisition mercredi 25 novembre au petit matin....

    Deux des convoqués parisiens ont été placés en garde à vue lors de leur audition au commissariat Riquet ce 25 novembre [6]. Nous avons alors rédigé un communiqué de presse exigeant leur libération immédiate et l’arrêt de toutes poursuites éventuelles.(...)

    #libertés publiques #sécuritaire

    • Une personne convoquée hier matin, 25 novembre, au commissariat Riquet, s’y est présentée et a été presque immédiatement placée en #garde_à_vue. Il était accusé, comme la plupart des autres convoqués, d’avoir participé à une #manifestation_interdite dans le cadre de l’état d’urgence et de faire parti des meneurs de cette manif. Il lui a été signifié par ailleurs qu’il y avait des enquêtes en cours sur l’accusation de « violence contre des personnes dépositaires de l’autorité publique ». Comme la plupart des convoqués il n’a répondu à aucune question. Il est sorti en début de soirée avec un « #rappel_à_la_loi ».

      Amis cameramans ou auxiliaire de police...

      La police avait apparemment peu filmé. Toute l’#accusation de « meneur » notamment reposait donc sur des #vidéos publiées sur youtube et notamment une vidéo d’une vingtaine de minutes de « line presse » intitulée « la manifestation interdite pour les migrants dégénère » ! Aucun visage n’avait
      été floutté. Et ce n’était pas la seule vidéo comme cela. Avant les flics se donnaient la peine d’arrêter les preneurs d’images sur les manifs, de confisquer leur matériel et d’exploiter leurs images. Maintenant ils se contentent de regarder youtube...

      bref, photographes et preneurs d’images en tout genre, faudra pas s’etonner si vous êtes mal reçus la prochaine fois surtout si vos objectifs sont dirigés sur nous...

      par ailleurs une autre garde à vue s’est transformée en déferrement hier soir pour un jeune accusé de la même chose et en plus de #rebellion. d’autres sont encore convoqués aujourd’hui dont une personne au moins au commissariat de Riquet alors qu’elle a déjà été auditionnée à celui de Bourdon...

      LE COPAIN DEFERE PASSE EN COMPARUTION IMMEDIATE CE Jour, 26 novembre RDV 13H AU TGI, l’audience est à 13H30 chambre 23/2.

      Mel reçu.

      #comparution_immédiate