• Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

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    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

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    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

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    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

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    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

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    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • Otto Bauer’s Theory of Nationalism Is One of Marxism’s Lost Treasures
    https://jacobin.com/2023/11/otto-bauer-austro-marxism-nationalism-theory-history

    26.11.2023 by Ronaldo Munck - If we look around the world today, we can see the critical importance of nationalism, whether ethnic or cultural, from Spain to Nagorno-Karabakh, the Uyghur question in China, or the unwinding of the formerly United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland.

    One might have expected Marxism, as the self-proclaimed “science of history,” to play a major role in analyzing — if not intervening in — such situations, which are bound to multiply as globalization unravels and its contradictions increase. Yet Marxists seem to be torn between Eric Hobsbawm’s admonition not to “paint nationalism red” and the somewhat wooden and not exactly operational Leninist principle of “the right of nations to self-determination.”

    Could Otto Bauer’s forgotten work The Question of Nationalities and Social Democracy — written in German in 1907, translated into English in 2000, and then promptly ignored — help us develop a theory of nationalism?

    Bauer’s understanding of nationalism was subtle and sophisticated, and fully deserves to be rescued from obscurity. But we can only make sense of Bauer’s contribution by setting it within its complex historical context, instead of seeing it as disembodied political theory.
    Austro-Marxism

    Otto Bauer was born in Vienna, in 1881, to a wealthy Jewish factory-owning merchant family in a rapidly industrializing Austria. This was a multicultural and multiethnic environment with a thriving labor and socialist movement, made famous in the Red Vienna period of 1918–34. Bauer became active in the framework of that movement, representing the Social Democratic Workers’ Party (SDAP) in the imperial parliament and editing its monthly magazine, The Struggle.

    When the Habsburg empire joined the Central Powers during World War I, Bauer served as an Austrian army officer and became a prisoner of war in Russia before he was allowed to return home in 1917. Before and after the war, he was a leading figure in the political current known as Austro-Marxism. In the wake of the October Revolution, the Austro-Marxists sought to develop a “third way” between the Communist International launched by the Bolsheviks and social democracy.

    Bauer’s stint as Austria’s foreign minister in 1918–19 after the collapse of the Habsburg Empire, with his SDAP colleague Karl Renner as chancellor, was followed by a period of futile compromise with the rising forces of reaction. His life ended in political defeat. The rise of Austro-Fascism and the outbreak of civil war in 1933–34 prompted him to leave Austria, and he died in Parisian exile in 1938.

    While the counterrevolution won out in Austria in the 1930s, Bauer’s theory and practice is a fragment of the history of Marxism that should not be ignored. It remains a fundamental part of the Marxist legacy that warrants attention today.

    Although it is sometimes compared to the Frankfurt School, Austro-Marxism was a philosophy of practice, not one of contemplation. It included major figures in Marxist economics (Rudolf Hilferding), philosophy (Max Adler), and law (Karl Renner), as well as Bauer himself. Bauer’s own definition of Austro-Marxism saw it as a synthesis between day-to-day realpolitik and the revolutionary will to attain the ultimate goal: the seizure of power by the working class.
    The National Question

    The context in which Bauer wrote The Question of Nationalities and Social Democracy, which was originally his PhD thesis, was the outbreak of national questions and conflicts throughout the Austro-Hungarian Empire. Towards the end of the nineteenth century, the development of capitalism had generated great social turmoil. The population of Vienna quadrupled due to internal migration in the fifty years leading up to 1917, with a multinational working class emerging.

    The burgeoning SDAP and the trade unions affiliated to it were in danger of being torn apart between their dominant German-speaking core and members from the peripheral nations. We should recall that before its breakup after 1918, the empire contained fifteen nationalities in a territory the size of the Iberian Peninsula.

    Faced with this situation, Bauer sought to develop a complex and sophisticated theory of nationalism — one that was not at all colored by sympathy towards his subject, we might add. For Bauer, modern nations can be understood as communities of character (Charakter gemeinschaften) that have emerged out of communities of fate (Schicksals gemeinschaften).

    This is a much more subtle and nonreductionist approach when compared to the orthodox Marxist theory of nationalism, as codified by Joseph Stalin and propagated throughout the world by the pro-Soviet communist movement. Stalin defined a nation as “a historically constituted, stable community of people, formed on the basis of a common language, territory, economic life, and psychological make-up manifested in a common culture.” This does not help us in a multinational context.

    Bauer saw the main strength of his work as being its description of the derivation of nationalism from the process of economic development, changes in the social structure, and the articulation of classes in society. However, much of his work and the debates to which it gave rise centered on his definition of a “nation” as the totality of human beings bound together through a common destiny into a community of character.

    Bauer viewed the nation as a “community of fate” whose character resulted from the long history of the conditions under which people labored to survive and divided the products of their work through the social division of labor. Before dismissing this conception of the nation as merely a form of idealism, as many critics have, we should note that Bauer repeatedly criticized forms of “national spiritualism” that depicted the nation as “a mysterious spirit of the people.” He also explicitly rejected psychological theories of the nation.
    A Product of History

    Bauer’s working definition of the nation was a methodological postulate that posed “the task of understanding the phenomenon of the nation” as

    explaining on the basis of the uniqueness of its history all that constitutes the peculiarity, the individuality of each nation, and which differentiates it from other nations, that is, showing the nationality of each individual as the historical with respect to him, and the historical within him.

    For Bauer, it was only by pursuing this task of uncovering the national components that we could dissolve the false appearance of the nation’s substantiality, to which nationalist conceptions of history always succumb.

    In Bauer’s perspective, the nation is above all a product of history. This is true in two respects: firstly, “in terms of its material content it is a historical phenomenon, since the living national character which operates in every one of its members is the residue of a historical development.” Secondly, “from the point of view of its formal structure it is a historical phenomenon, because diverse broad circles are bound together in a nation by different means and in different ways at the various stages of historical development.”

    In short, the ways in which the “community of character” is engendered are historically conditioned. It follows that this “community of character” is not a timeless abstraction but is continually modified over time. For Bauer, the different forms of “national character” are specific to a particular period and thus cannot be traced back to the origins of time, as nationalist mythology might suggest.

    He does not see national character as an explanation in itself, but rather as something that needs to be explained. In this framework, we cannot simply take internationalism for granted as a given, nor can we ignore national characteristics in the name of such internationalism. We must rather show how those characteristics are the result of historical processes.

    While Bauer’s theory of nationalism suffers from almost total oblivion today, even — or perhaps especially — amongst Marxists, in its day it was the subject of intense polemics. His thinking was rejected by both the Second (social-democratic) and the Third (communist) Internationals between which the Austro-Marxists fell.
    The End of Non-History

    One of Bauer’s major innovations was to openly reject the view of Frederick Engels that Slavic nations like the Czechs were “non-historic,” in contrast with what he saw as the great “historic” nations such as Germany, Poland, and France. For Engels, the “non-historic” nations were incapable of forming a state of their own and could only serve as tools of counterrevolution if they attempted to do so.

    Bauer agreed that there were peoples in Central and Eastern Europe who one might refer to as “non-historic,” but he disagreed with Engels on the question of their future prospects:

    The nations without history are revolutionary, they also struggle for constitutional rights and for their independence, for peasant emancipation: the revolution of 1848 is also their revolution.

    For Bauer, the category of “nations without history” did not refer to a structural incapacity of the nation to develop. Rather, it referred to a particular situation in which a people that had lost its ruling class in a previous phase had therefore not experienced its own cultural and historical development.

    He showed in detail how the “awakening of the nations without history” was one of the major revolutionary changes at the turn of the century. According to Bauer, it was one of the progressive features of capitalist development to have reawakened the national self-consciousness of these peoples and confronted the state with the “national question.”

    At the beginning of the twentieth century, he saw peoples such as the Czechs going through a process of capitalist and state development, which in turn led to the emergence of a cultural community, in which the ties of a once omnipotent traditional society were broken. The masses were thus being called on to collaborate in the transformation of the national culture.

    Bauer also carried out a detailed consideration of the relationship between class struggle and nationalism. In a striking phrase, he wrote that “nationalist hatred is a transformed class hatred.” He was referring specifically in this context to the reactions of the petty bourgeoisie in an oppressed nation as it was affected by shifts in population and other convulsions engendered by capitalist development. But the point is a more general one, and Bauer shows clearly how class and national struggles are intertwined.

    He gave the following example in the case of the Czech worker:

    The state which enslaved him [or her] was German; German too were the courts which protected property owners and threw the dispossessed into jail; each death sentence was written in German; and orders in the army sent against each strike of the hungry and defenceless workers were given in German.

    According to Bauer, the workers of the “non-historic” nations adopted in the first instance a “naive nationalism” to match the “naive cosmopolitanism” of the proletariat of larger nations. Only gradually in such cases does a genuinely internationalist policy develop that overcomes both “deviations” and recognizes the particularity of the proletarians of all nations.

    Although Bauer preached the need for working-class autonomy in the struggle for socialism as the best means for seizing power, he argued that “within capitalist society, national autonomy is the necessary demand of a working class that is compelled to carry out its class struggle within a multinational state.” This was not merely a “state-preserving” response, he argued, but rather a necessary aim for a proletariat that sought to make the whole people into a nation.
    Bauer in Our Time

    Bauer’s work represents a major break with economic determinism. In his interpretation, politics and ideology no longer appear as mere “reflections” of rigid economic processes. The very context in which Austrian social democracy operated made it particularly sensitive to cultural diversity and to the complex social processes of economic development.

    Bauer’s treatise on the national question implicitly rejected the economic determinism and basic evolutionism of Second International Marxism. In terms of its substantial contribution, Bauer advanced a concept of the nation as historical process, in pages of rich and subtle historical analysis. The nation was no longer seen as a natural phenomenon, but as a relative and historical one.

    This allowed Bauer to break decisively with the Engels position on “non-historic” nations. As with Antonio Gramsci’s much more influential work on the national-popular, we can find in Bauer’s work a welcome move beyond the (mis)understanding of the nation and of nationalism as “problems” — and not just an integral element of social organization — that has characterized so much Marxist theorizing on the subject.

    A modern-day reader of Bauer’s book might find some of its case studies obscure and its language archaic. However, critical engagement with Bauer can help us develop a more adequate Marxist theoretical practice with regard to nationalism. Can we really sustain the idea, as many Marxists did in Bauer’s time, that the advent of socialism will resolve the national question?

    Does Bauer’s rejection of the Bolshevik path to power make him simply a failed reformist or does it situate him, like Gramsci, as a theorist of revolution in the Western democracies? Can his “constructivist” theory of the nation provide us with a starting point for understanding the national question in the era of late globalization?

    Today, Bauer’s work is immediately relevant to our thinking on multiculturalism, of which it can be seen as a precursor. To be clear, Bauer’s central argument is to reject any essentialist principle in the conceptualization of the national question. For Bauer, we cannot think of modern nations in terms of “metaphysical theories” (such as notions of national spiritualism) or “voluntaristic theories” (as in Ernest Renan’s theory of the nation as a “daily plebiscite”). National identities are not “naturally given” and invariable but are rather culturally changeable.

    However, Bauer’s approach to the nation-state is very different from the dominant liberal one today. In the liberal nation-state, it is the cultural practice of the dominant national group that prevails. Multiculturalism is thus always limited by this hegemony and multicultural states cannot easily be constructed. Any commitment to cultural pluralism can amount to little more than a token commitment to diversity within overwhelmingly assimilationist structures.

    Bauer criticized the attitude of the early 1900s “German Austrian” workers’ movement as a “naïve cosmopolitanism” which rejected national struggles as diversionary and advocated a humanistic world citizenship as its alternative. There were clear echoes of this attitude in the promotion of “global cosmopolitanism” during the early 2000s. In that sense, we very much need a Bauer 2.0 to move beyond such naïve and complacent indifference to the national question today.

    Bauer fundamentally disagreed with the idea that the national movements were simply an obstacle for the class struggle and that internationalism was the only way forward. He was convinced that it was only the working class that could create the conditions for the development of a nation, proclaiming that “the international struggle is the means that we must use to realize our national ideal.”

    In his view, it was socialism that would consolidate a national culture for the benefit of all. In brief — and I realize this is a controversial statement — working-class consciousness has a class character but also, at the same time, a national character.

    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Otto_Bauer

    Otto Bauer, Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (1907)
    https://www.marxists.org/deutsch/archiv/bauer/1907/nationalitaet/index.html

    Verlag der Wiener Volksbuchhandlung Ignaz Brand, Wien 1907.
    Sonderausgabe aus dem II. Bande der Marx-Studien – herausgegeben von Dr. Max Adler und Dr. Rudolf Hilferding.
    Die Rechtschreibung wurde weitgehend der neuen Orthografie angepasst.
    Transkription u. HTML-Markierung: Einde O’Callaghan für das Marxists’ Internet Archive.

    #austromarxisme #socialdémocratie #Autriche #histoire #socialisme

  • Gig Economy Project - UK Supreme Court finds Deliveroo riders have no rights to collective bargaining because they aren’t workers
    https://braveneweurope.com/gig-economy-project-uk-supreme-court-finds-deliveroo-riders-have-no-

    Großbritannien kennt keine gesetzliche Definition der Scheinselbständigkeit. So können Richter im Rahmen ihrer common-law-Privilegien Recht setzen und die gewerkschaftliche Vertretung von Scheinselbstândigen umtersagen.

    Das ist wahrer Liberalismus im Geist von Thatcher und Reagan. TSS: Die Richter und Staatsanwâlte, für wen sind sie da? Für die Kapitalisten und für ihren Staat.

    21.11.2023 by Ben Wray - The IWGB union say they are considering their options “under international law” after “disappointing” defeat.

    The Gig Economy Project is a BRAVE NEW EUROPE media network for gig workers in Europe. Click here to find out more and click here to get the weekly newsletter.

    In a significant legal judgement for the UK’s gig economy, the country’s highest court has found that Deliveroo riders are not workers and therefore do not have collective bargaining rights.

    The Independent Workers Union of Great Britain (IWGB) had sought to open collective bargaining negotiations for its members in Deliveroo all the way back in 2016. When the British food delivery platform refused, the IWGB took the case to the Central Arbitration Committee (CAC), which has the power to order an employer to recognise and negotiate with a union.

    CAC rejected the IWGB’s argument that Deliveroo’s riders have the statutory right to collective bargaining under the 1992 Trade Union Act, and an additional argument that Deliveroo were breaching article 11 of the European Convention on Human Rights (EHCR) which guarantees freedom of peaceful assembly and association. IWGB’s appeals against CAC’s judgement has brought the case all the way up to the Supreme Court, which unanimously rejected the union’s case.

    The Supreme Court found that article 11 of EHCR was only applicable in the case of an employment relationship and that CAC was right to find that they are not employees. This is primarily because Deliveroo operates a substitution clause, which gives a rider the right to let someone else use their account and carry out the work on their behalf.

    “This right, on its face, is totally inconsistent with there being an employment relationship,” the press summary of the judgement states. “The CAC found that Deliveroo did not police a rider’s decision to use a substitute and riders would not be criticised or sanctioned for doing so.”

    Additional reasons included that riders did not have their accounts terminated for failing to accept a certain number of orders and that they could work for another platform at the same time as Deliveroo.

    The judgement puts the UK at odds with the majority of courts across Europe, which have tended to find that riders are employees, including the Dutch Supreme Court last year in relation to Deliveroo specifically. It also opens up a division within UK case law between riders and ridehail drivers, as the Supreme Court found in 2021 that Uber drivers are employees.

    Responding to the judgement, the IWGB said they were considering taking the case to an international court.

    “The Supreme Court’s ruling comes as a disappointment after years spent fighting a legal battle to secure riders’ bare minimum employment rights. As a union we cannot accept that thousands of riders should be working without key protections like the right to collective bargaining, and we will continue to make that case using all avenues available to us, including considering our options under international law,” the union said.

    They added: “Deliveroo, the ‘most protested platform in the world’, is known for some of the most extreme exploitation of workers in the gig economy. A pay review conducted in 2021 found that some riders were being paid as little as £2 per hour. Now, Deliveroo is denying riders basic employment rights due to their ability to substitute accounts.

    “Flexibility, including the option for account substitution, is no reason to strip workers of basic entitlements like fair pay and collective bargaining rights. This dangerous false dichotomy between rights and flexibility is one that Deliveroo and other gig economy giants rely heavily upon in efforts to legitimise their exploitative business models.

    “We know that the consequences of this irresponsible neglect of workers are grave. Just last week another Deliveroo rider lost their life whilst at work for the company – this is not the first worker who has been tragically affected by Deliveroo’s willful negligence and lack of responsibility. Low pay and a lack of protections are putting couriers at constant risk, and without change these unsafe working conditions will only lead to the needless deaths of more vulnerable gig economy workers.”

    A Deliveroo spokesperson was quoted by the BBC stating that the UK had “repeatedly and at every level” found their riders were self-employed.

    “This is a positive judgment for Deliveroo riders, who value the flexibility that self-employed work offers,” Deliveroo added.

    Substitution clause

    The substitution clause was only introduced by the company in May 2017, after IWGB had first brought the legal case forward. CAC commented on this fact in its initial judgement, stating that “even if [the company introduced the clause] in order to defeat this claim and in order to prevent the riders from being classified as ‘workers’, then that too was permissible.”

    Commenting on the ruling, labour law academic and platform work expert Antonio Aloisi said: “Substitution clauses strike again. The imbalance of power at work is far from reduced, legally or practically, because of a faulty idea that ‘carefully choreographed’ solutions must be tolerated as waivers of collective bargaining rights in platform work.”

    Aloisi published a paper in 2019 on the Deliveroo collective bargaining legal case, finding that the ruling in Deliveroo’s favour was “naïve”.

    He added: “In Pimlico Plumbers, the UK Supreme Court stated that a similar substitution clause, drafted in a highly problematic way, could not defeat worker status, in part because the profile of the substitute was restricted under the relevant contract, thus wiping out the right to substitution. Similarly, in light of the ‘dominant features’ of the contract, Deliveroo cyclists could have been classified as workers with respect to trade union rights.”

    The ruling comes just one week after a BBC investigation had revealed that the substitution clause is used for a black-market in rented Deliveroo accounts. While riders who sign-up to the app have to pass background checks, there is no such obligation for substitutes, making it easy for the account to be rented to those who do not have the legal right to work, including undocumented migrants and children.

    In response to the investigation, Home Office Minister Robert Jenrick called for Deliveroo to change its substitution clause policy so that substitutes also had to pass background checks, stating the current policy was “perpetuating and enabling illegal working in our country”.

    However, Yvonne Gallagher, partner at law firm Harbottle & Lewis, stated following the Supreme Court judgement that Deliveroo’s substitution clause may become the model for other gig platforms to avoid worker status.

    “In establishing that the substitution clause works as a proof that riders cannot be considered workers, the Supreme Court ruling may give rise to other gig economy companies following the Deliveroo employment approach — where it fits their commercial model,” she said.

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    #Großbritannien #Gigworker #Scheinselbständigkeit #Ausbeutung #Gewerkschaft

  • L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/11/24/l-asile-climatique-propose-par-l-australie-aux-habitants-des-tuvalu-suscite-

    L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    Par Isabelle Dellerba(Sydney, correspondance)
    Publié hier à 08h00, modifié hier à 17h06
    Ce pacte aurait pu représenter un modèle de bon voisinage. Vendredi 10 novembre, l’Australie et l’Etat du Tuvalu, dans le Pacifique Sud, ont dévoilé les termes d’un accord historique qui prévoit que Canberra s’engage à offrir l’asile climatique aux 11 000 citoyens du petit archipel à fleur d’eau, menacé d’être englouti par les flots avant la fin du siècle. Mais le texte, qui doit encore être ratifié par les deux parties pour entrer en vigueur, suscite des controverses dans cette région du monde où la crise climatique représente une menace existentielle pour tous les Etats insulaires de faible altitude.
    Son volet migratoire ne pose pas particulièrement question. L’accord prévoit que, chaque année, 280 citoyens tuvaluans se verront offrir un visa spécial qui leur permettra de « vivre, étudier et travailler » en Australie, mais aussi d’« accéder aux systèmes éducatifs, de santé et aux principaux dispositifs de soutien aux revenus et à la famille dès leur arrivée ». Le gouvernement travailliste dirigé par Anthony Albanese a ainsi répondu à la demande de l’Etat polynésien. « Nous voulons négocier des accords d’amitié avec des pays partageant nos valeurs, tels que les Fidji, la Nouvelle-Zélande et l’Australie, pour que nos citoyens puissent y vivre sans renoncer à leur nationalité et y bénéficier des mêmes avantages socio-économiques que le reste de la population », expliquait récemment au Monde le ministre des finances et du changement climatique des Tuvalu, Seve Paeniu.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Kioa, une île refuge pour les habitants des Tuvalu menacés par la montée des eaux
    Il s’agit du premier accord bilatéral conclu spécifiquement axé sur la mobilité climatique. Il a été salué par le chef du gouvernement de l’archipel, Kausea Natano, comme « une véritable lueur d’espoir » pour son pays, composé de récifs coralliens et d’atolls d’une hauteur moyenne de deux mètres au-dessus de la mer et déjà fréquemment inondés par des vagues-submersion. « Pour les Tuvaluans, ce pacte, c’est un peu comme un masque à oxygène dans un avion. Vous espérez qu’il ne tombe jamais, mais si vous en avez besoin, vous êtes très content qu’il soit là », abonde Jane McAdam, directrice du Centre Kaldor pour le droit international des réfugiés, qui évoque un texte « fondateur ».
    Le problème réside dans l’autre volet de l’accord. Après l’article 3, consacré à « la mobilité humaine dans la dignité », l’article 4 porte sur les questions de sécurité. Si l’Australie s’y engage à venir en aide aux îles Tuvalu en cas d’agression militaire, de catastrophe naturelle ou encore de pandémie, elle obtient aussi son mot à dire sur « tout partenariat, accord ou engagement » que l’archipel voudrait conclure avec d’autres Etats ou entités sur les sujets de sécurité et de défense. « Ces questions comprennent, mais ne se limitent pas à, la défense, la police, la protection des frontières, la cybersécurité et les infrastructures critiques, y compris les ports, les télécommunications et les infrastructures énergétiques », énonce le texte.« En échange de ces 280 places par an, l’Australie a obtenu un pouvoir de veto sur nos priorités de sécurité. Elle a abusé de sa position de force, c’est injuste. Et notre population n’a même pas été consultée », déplore notamment Maina Talia, un militant pour le climat tuvaluan reconnu sur la scène régionale. Les pays occidentaux « traitent les nations insulaires comme des pions pour contrer l’influence de la Chine », a dénoncé le Global Times, un quotidien proche du pouvoir chinois, le 14 novembre.
    Dans ce Pacifique Sud, où Pékin et Washington se livrent une lutte d’influence sans merci, Canberra a donné l’impression d’être davantage motivé par ses intérêts stratégiques que par une volonté sincère de soutenir son minuscule voisin rongé par l’océan. Cet accord est d’autant plus critiqué que l’Australie, troisième plus grand exportateur de combustibles fossiles au monde, n’a rien du bon élève en matière de lutte contre les émissions de gaz à effet de serre. « Le nouveau pacte signé par l’Australie avec Tuvalu n’est qu’une solution de fortune qui n’aborde en rien la crise climatique alimentée par les combustibles fossiles », a dénoncé Lagi Seru, membre du bureau régional de Greenpeace, dans un communiqué publié le 11 novembre. Les Etats insulaires demandent à l’Australie, qui souhaite organiser la COP31, de renoncer à accorder de nouvelles licences pour l’exploitation du charbon, du pétrole et du gaz.
    Si ce pacte n’est pas perçu comme un modèle, il n’en demeure pas moins précieux pour le gouvernement des Tuvalu qui, face au risque de disparition, explore toutes les pistes possibles pour assurer l’avenir de sa population. Afin qu’elle puisse rester chez elle, il a élaboré un plan d’adaptation à long terme destiné à créer une terre, élevée et sûre, de 3,6 kilomètres carrés – l’Australie s’est engagée à l’aider sur ce projet. Le gouvernement des Tuvalu a également entrepris des démarches pour que l’ensemble de l’archipel soit reconnu comme un site du patrimoine mondial de l’Unesco et mieux protégé.
    Etant parfaitement conscient que ces efforts pourraient s’avérer insuffisants, il prépare aussi un futur sans terres émergées. Offrir un refuge à ses habitants était l’une de ses priorités. D’autre part, il a engagé des actions, au niveau juridique, pour que son Etat conserve, quoi qu’il arrive, une existence légale et sa souveraineté sur l’ensemble du territoire, y compris maritime. Enfin, il planche sur la création d’un Etat déterritorialisé, dans le monde virtuel, pour sauvegarder ses archives comme son patrimoine culturel, mais aussi pour que ses ressortissants, même s’ils sont dispersés dans des pays tiers, puissent continuer à bénéficier de services étatiques et restent des citoyens tuvaluans à part entière.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#ilestuvalu#refugieclimatique#asileclimatique#etat#droit#souverainete

  • Henry Laurens : « On est sur la voie d’un processus de destruction de masse » à Gaza, entretien avec Rachida El Azzouzi (19 novembre 2023).

    Pour l’historien, spécialiste de la Palestine, professeur au collège de France, « l’effondrement des conditions sanitaires et l’absence de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse » dans la bande de Gaza.

    L’historien et universitaire Henry Laurens est l’un des plus grands spécialistes du #Moyen-Orient. Professeur au Collège de France où il est titulaire de la chaire d’histoire contemporaine du #monde_arabe, il a mis la question palestinienne au cœur de son travail. Il est l’auteur de très nombreux livres dont cinq tomes sans équivalent publiés entre 1999 et 2015, consacrés à La question de Palestine (Fayard).
    Dans un entretien à Mediapart, il éclaire de sa connaissance l’exceptionnalité du conflit israélo-palestinien et le « corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer » dans lesquels les deux peuples sont pris depuis des décennies. Il dit son pessimisme quant à la résolution du conflit qui peut durer « des siècles » : « Vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. Aujourd’hui, ils sont 500 000 dont quelques dizaines de milliers qui sont des colons ultrareligieux et armés. »

    Plus d’une vingtaine de rapporteurs de l’organisation des Nations unies (ONU) s’inquiètent d’« un génocide en cours » à Gaza. Est-ce que vous employez ce terme ?

    Il y a deux sens au terme de « génocide ». Il y a le #génocide tel que défini par l’avocat polonais Raphael Lemkin en 1948, la seule définition juridique existante, aujourd’hui intégrée au protocole de Rome créant la #CPI [Cour pénale internationale – ndlr]. Lemkin a été obligé, pour que ce soit voté par les Soviétiques et par le bloc de l’Est, d’éliminer les causes politiques du génocide – massacrer des gens dans le but de détruire une classe sociale –, parce qu’il aurait fallu reconnaître le massacre des koulaks par les Soviétiques.

    La définition de Lemkin implique que ceux qui commettent un génocide appartiennent à un autre peuple que celui des victimes. D’où le problème aussi qu’on a eu avec le #Cambodge, qu’on ne pouvait pas appeler un génocide parce que c’étaient des Cambodgiens qui avaient tué des Cambodgiens. Là, on est dans une définition étroite. C’était le prix à payer pour obtenir un accord entre les deux Blocs dans le contexte du début de la #guerre_froide.

    Vous avez ensuite une définition plus large du terme, celui d’une destruction massive et intentionnelle de populations quelles qu’en soient les motivations.

    Il existe donc deux choses distinctes : la première, ce sont les actes, et la seconde, c’est l’intention qui est derrière ces actes. Ainsi le tribunal international pour l’ex-Yougoslavie a posé la différence entre les nettoyages ethniques dont la motivation n’est pas génocidaire parce que l’#extermination n’était pas recherchée, même si le nombre de victimes était important, et les actes de génocide comme celui de Srebrenica, où l’intention était claire.

    On voit ainsi que le nombre de victimes est secondaire. Pour Srebrenica, il est de l’ordre de 8 000 personnes.

    L’inconvénient de cette #logique_judiciaire est de conduire à une casuistique de l’intentionnalité, ce qui ne change rien pour les victimes. 

    Au moment où nous parlons, le nombre de victimes dans la bande de #Gaza est supérieur à celui de Srebrenica. On a, semble-t-il, dépassé la proportion de 0,5 % de la population totale. Si on compare avec la France, cela donnerait 350 000 morts.

    Le discours israélien évoque des victimes collatérales et des boucliers humains. Mais de nombreux responsables israéliens tiennent des discours qui peuvent être qualifiés de génocidaires. L’effondrement des conditions sanitaires et l’absence même de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse avec des controverses à n’en plus finir sur les intentionnalités. 

    La solution à deux États n’est plus possible.

    La crainte d’une seconde « #Nakba » (catastrophe), en référence à l’exil massif et forcé à l’issue de la guerre israélo-arabe de 1948, hante les #Palestiniens. Peut-on faire le parallèle avec cette période ?

    La Nakba peut être considérée comme un #nettoyage_ethnique, en particulier dans les régions autour de l’actuelle bande de Gaza où l’#intentionnalité d’expulsion est certaine. Des responsables israéliens appellent aujourd’hui à une #expulsion de masse. C’est d’ailleurs pour cela que l’Égypte et la Jordanie ont fermé leurs frontières.

    Dans l’affaire actuelle, les démons du passé hantent les acteurs. Les juifs voient dans le 7 octobre une réitération de la Shoah et les Palestiniens dans les événements suivants celle de la Nakba.

    Faut-il craindre une annexion de la bande de Gaza par Israël avec des militaires mais aussi des colons ?

    En fait, personne ne connaît la suite des événements. On ne voit personne de volontaire pour prendre la gestion de la bande de Gaza. Certains responsables israéliens parlent de « dénazification » et il y a une dimension de vengeance dans les actes israéliens actuels. Mais les vengeances n’engendrent que des cycles permanents de violence.

    Quelle est votre analyse des atrocités commises le 7 octobre 2023 par le Hamas ?

    Elles constituent un changement considérable, parce que la position de l’État d’Israël est profondément modifiée au moins sur deux plans : premièrement, le pays a subi une invasion pour quelques heures de son territoire, ce qui n’est pas arrivé depuis sa création ; deuxièmement, le 7 octobre marque l’échec du projet sioniste tel qu’il a été institué après la Seconde Guerre mondiale, un endroit dans le monde où les juifs seraient en position de sécurité. Aujourd’hui, non seulement l’État d’Israël est en danger, mais il met en danger les diasporas qui, dans le monde occidental, se trouvent menacées ou, en tout cas, éprouvent un sentiment de peur.

    Le dernier tome de votre série consacrée à « La question de Palestine » (Fayard) était intitulé « La paix impossible » et courait sur la période 1982-2001. Vous étiez déjà très pessimiste quant à la résolution de ce conflit, mais aussi concernant l’avenir de la région, comme si elle était condamnée à demeurer cette poudrière. Est-ce que vous êtes encore plus pessimiste aujourd’hui ? Ou est-ce que le #conflit_israélo-palestinien vous apparaît soluble, et si oui, quelle issue apercevez-vous ?

    La réelle solution théorique serait d’arriver à un système de gestion commune et équitable de l’ensemble du territoire. Mais un État unitaire est difficile à concevoir puisque les deux peuples ont maintenant plus d’un siècle d’affrontements.

    Qu’en est-il de la solution à deux États, dont le principe a été adopté en 1947 par l’ONU, après la fin du mandat britannique ? Est-elle possible ?

    La solution à deux États n’est plus possible dès lors que vous avez 500 000 colons, dont quelques dizaines de milliers qui sont des #colons ultrareligieux et armés. Vous avez une violence quotidienne en #Cisjordanie. La sécurité des colons ne peut se fonder que sur l’insécurité des Palestiniens. Et l’insécurité des Palestiniens provoque la violence qui engendre l’insécurité des colons.

    C’est un cercle vicieux et vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette #décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. On pouvait, sans trop de dégâts, faire une décolonisation de la Cisjordanie et de la bande de Gaza. 

    Aujourd’hui, nous sommes dans une position de domination, et cette solution peut prendre des siècles parce qu’il y a l’exceptionnalité juive qui crée une exceptionnalité israélienne qui elle-même crée une exceptionnalité palestinienne. C’est-à-dire que sans être péjoratif, les Palestiniens deviennent des juifs bis.

    Qu’entendez-vous par là ?

    Nous sommes depuis le 7 octobre devant un grand nombre de victimes. Mais ces dernières années, nous en avons eu bien plus en Irak, en Syrie, au Soudan et en Éthiopie. Cela n’a pas provoqué l’émoi mondial que nous connaissons aujourd’hui. L’émotion a été suscitée parce que les victimes étaient juives, puis elle s’est déplacée sur les victimes palestiniennes. Les deux peuples sont dans un corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer.

    Les années 1990 ont été marquées par les accords d’Oslo en 1993. Relèvent-ils du mirage aujourd’hui ?
     
    Non, on pouvait gérer une décolonisation. Mais déjà à la fin des accords d’Oslo, il n’y a pas eu décolonisation mais doublement de la #colonisation sous le gouvernement socialiste et ensuite sous le premier gouvernement Nétanyahou. Ce sont l’occupation, la colonisation, qui ont amené l’échec des processus. Il n’existe pas d’occupation, de colonisation pacifique et démocratique.

    Aujourd’hui, c’est infiniment plus difficile à l’aune de la violence, des passions, des derniers événements, des chocs identitaires, de la #haine tout simplement. Qui plus est, depuis une trentaine d’années, vous avez une évolution commune vers une vision religieuse et extrémiste, aussi bien chez les juifs que chez les Palestiniens.

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre.

    Vous voulez dire que le conflit territorial est devenu un conflit religieux ?

    Il a toujours été religieux. Dès l’origine, le mouvement sioniste ne pouvait fonctionner qu’en utilisant des références religieuses, même si ses patrons étaient laïcs. La blague de l’époque disait que les sionistes ne croyaient pas en Dieu mais croyaient que Dieu leur avait promis la Terre promise.

    Le projet sioniste, même s’il se présentait comme un mouvement de sauvetage du peuple juif, ne pouvait fonctionner qu’en manipulant les affects. Il était de nature religieuse puisqu’il renvoyait à la Terre sainte. Vous avez une myriade d’endroits qui sont des #symboles_religieux, mais qui sont aussi des #symboles_nationaux, aussi bien pour les #juifs que pour les #musulmans : l’esplanade des Mosquées, le tombeau des Patriarches, le mur des Lamentations. Et puis il y a les gens qui se sentent mandatés par Dieu.

    De même, les musulmans ont cherché des alliés en jouant sur la solidarité islamique. Dès les années 1930, la défense de la mosquée Al-Aqsa est devenue un thème fédérateur.

    Pourquoi est-il devenu difficile d’invoquer une lecture coloniale du conflit depuis les massacres du Hamas du 7 octobre ?

    Le sionisme est à l’origine un corps étranger dans la région. Pour arriver à ses fins, il a eu besoin d’un soutien européen avant 1914, puis britannique et finalement américain. Israël s’est posé comme citadelle de l’#Occident dans la région et conserve le #discours_colonial de la supériorité civilisatrice et démocratique. Cet anachronisme est douloureusement ressenti par les autres parties prenantes.

    Jusqu’à la Seconde Guerre mondiale, les responsables sionistes n’hésitaient pas à se comparer à la colonisation britannique en Afrique noire avec la nécessité de mater les protestations indigènes. 

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre. La constitution de l’État juif impliquait un « transfert » de la population arabe à l’extérieur, terme poli pour « expulsion ». La #confiscation des #terres détenues par les Arabes en est le corollaire. Les régions où ont eu lieu les atrocités du 7 octobre étaient peuplées d’Arabes qui ont été expulsés en 1948-1950.

    Dire cela, c’est se faire accuser de trouver des excuses au terrorisme. Dès que vous essayez de donner des éléments de compréhension, vous vous confrontez à l’accusation : « Comprendre, c’est excuser. » Il faut bien admettre que le #Hamas dans la bande de Gaza recrute majoritairement chez les descendants des expulsés. Cela ne veut pas dire approuver ce qui s’est passé.

    Le slogan « From the river to the sea, Palestine will be free » (« De la rivière à la mer, la Palestine sera libre ») utilisé par les soutiens de la Palestine fait polémique. Est-ce vouloir rayer de la carte Israël ou une revendication légitime d’un État palestinien ?

    Il a été utilisé par les deux parties et dans le même sens. Les mouvements sionistes, en particulier la droite sioniste, ont toujours dit que cette terre devait être juive et israélienne au moins jusqu’au fleuve. Le parti de l’ancêtre du Likoud voulait même annexer l’ensemble de la Jordanie.

    Chez certains Palestiniens, on a une vision soft qui consiste à dire que « si nous réclamons un État palestinien réunissant la bande de Gaza et la Cisjordanie, nous considérons l’ensemble de la terre comme la Palestine historique, comme partie de notre histoire, mais nous ne la revendiquons pas dans sa totalité ».

    Israël depuis sa fondation n’a pas de #frontières définies internationalement. Il a toujours revendiqué la totalité de la Palestine mandataire, voire plus. Il a ainsi rejeté l’avis de la Cour internationale de justice qui faisait des lignes d’armistice de 1949 ses frontières permanentes.

    Cette indétermination se retrouve de l’autre côté. La libération de la Palestine renvoie à la totalité du territoire. D’autres exigeaient la carte du plan de partage de 1947. Pour l’Organisation de libération de la Palestine (#OLP), faire l’#État_palestinien sur les territoires occupés en 1968 était la concession ultime.

    Les Arabes en général ont reçu sans grand problème les réfugiés arméniens durant la Grande Guerre et les années suivantes. Ces Arméniens ont pu conserver l’essentiel de leur culture. Mais il n’y avait pas de question politique. Il n’était pas question de créer un État arménien au Levant.

    Dès le départ, les Arabes de Palestine ont vu dans le projet sioniste une menace de dépossession et d’expulsion. On ne peut pas dire qu’ils ont eu tort…

    Le mouvement islamiste palestinien, le Hamas, classé #terroriste par l’Union européenne et les États-Unis, est aujourd’hui le principal acteur de la guerre avec Israël…

    Définir l’ennemi comme terroriste, c’est le placer hors la loi. Bien des épisodes de décolonisation ont vu des « terroristes » devenir du jour au lendemain des interlocuteurs valables. 

    Bien sûr, il existe des actes terroristes et les atrocités du 7 octobre le sont. Mais c’est plus une méthodologie qu’une idéologie. C’est une forme de guerre qui s’en prend aux civils selon les définitions les plus courantes. Jamais un terroriste ne s’est défini comme tel. Il se voit comme un combattant légitime et généralement son but est d’être considéré comme tel. Avec l’État islamique et le 7 octobre, on se trouve clairement devant un usage volontaire de la cruauté.

    La rhétorique habituelle est de dire que l’on fait la guerre à un régime politique et non à un peuple. Mais si on n’offre pas une perspective politique à ce peuple, il a le sentiment que c’est lui que l’on a mis hors la loi. Il le voit bien quand on dit « les Israéliens ont le droit de se défendre », mais apparemment pas quand il s’agit de Palestiniens.

    D’aucuns expliquent qu’Israël a favorisé l’ascension du Hamas pour qu’un vrai État palestinien indépendant ne voie jamais le jour au détriment de l’#autorité_palestinienne qui n’administre aujourd’hui plus que la Cisjordanie. Est-ce que le Hamas est le meilleur ennemi des Palestiniens ? 

    Incontestablement, les Israéliens ont favorisé les #Frères_musulmans de la bande de Gaza dans les années 1970 et 1980 pour contrer les activités du #Fatah. De même, après 2007, ils voulaient faire du Hamas un #sous-traitant chargé de la bande de Gaza, comme l’Autorité palestinienne l’est pour la Cisjordanie. 

    Le meilleur moyen de contrer le Hamas est d’offrir aux Palestiniens une vraie perspective politique et non de bonnes paroles et quelques aides économiques qui sont des emplâtres sur des jambes de bois. 

    Quel peut être l’avenir de l’Autorité palestinienne, aujourd’hui déconsidérée ? Et du Fatah, le parti du président Mahmoud Abbas, pressé par la base de renouer avec la lutte armée et le Hamas ?

    Le seul acquis de l’Autorité palestinienne, ou plus précisément de l’OLP, c’est sa légitimité diplomatique. Sur le terrain, elle est perçue comme un sous-traitant de l’occupation israélienne incapable de contrer un régime d’occupation de plus en plus dur. Elle est dans l’incapacité de protéger ses administrés. Le risque majeur pour elle est tout simplement de s’effondrer.

    Le Hamas appelle les Palestiniens de Cisjordanie à se soulever. Un soulèvement généralisé des Palestiniens peut-il advenir ?

    En Cisjordanie, on a surtout de petits groupes de jeunes armés totalement désorganisés. Mais la violence et la répression sont devenues quotidiennes et les violences permanentes. À l’extérieur, l’Occident apparaît complice de l’occupation et de la répression israéliennes. L’Iran, la Chine et la Russie en profitent.

    Le premier tome de votre monumentale « Question de Palestine » s’ouvre sur 1799, lorsque l’armée de Napoléon Bonaparte entre en Palestine, il court jusqu’en 1922. Avec cette accroche : l’invention de la Terre sainte. En quoi cette année est-elle fondatrice ?

    En 1799, l’armée de Bonaparte parcourt le littoral palestinien jusqu’à Tyr. En Europe, certains y voient la possibilité de créer un État juif en Palestine. Mais l’ouverture de la Terre sainte aux Occidentaux est aussi l’occasion d’une lutte d’influences entre puissances chrétiennes. 

    Dans le tome 4, « Le rameau d’olivier et le fusil du combattant » (1967-1982), vous revenez sur ce qui a été un conflit israélo-arabe, puis un conflit israélo-palestinien. Est-ce que cela peut le redevenir ?

    Jusqu’en 1948, c’est un conflit israélo-palestinien avant tout. En 1948, cela devient un #conflit_israélo-arabe avec une dimension palestinienne. À partir de la fin des années 1970, la dimension palestinienne redevient essentielle.

    Ben Gourion disait que la victoire du sionisme était d’avoir transformé la question juive en problème arabe. Les derniers événements semblent montrer que le #problème_arabe est en train de redevenir une #question_juive.

    Le rôle des États-Unis a toujours été déterminant dans ce conflit. Que nous dit leur position aujourd’hui ? 

    La question de Palestine est en même temps une question intérieure pour les pays occidentaux du fait de l’histoire de la Shoah et de la colonisation. Il s’y ajoute aux États-Unis une dimension religieuse du fait du biblisme protestant et du « pionniérisme ». Les Palestiniens leur semblent être quelque part entre les Indiens et les Mexicains…

    La « République impériale » vient encore de montrer son impressionnante capacité de projection militaire dans la région, mais aussi son incapacité à obtenir un règlement politique satisfaisant.

    Pourquoi ce conflit déclenche-t-il autant de passions et clive-t-il autant dans le monde entier, où comme en France, le président appelle à « ne pas importer le conflit » ?

    C’est un conflit gorgé d’histoire. La Terre sainte est celle des trois religions monothéistes. Le conflit lui-même porte avec lui la mémoire de la Shoah et de la colonisation, d’où l’extraordinaire position d’exceptionnalité des acteurs.

    Vous avez écrit cinq tomes sur la question de Palestine. Après l’ultime « La Paix impossible », quel pourrait être le sixième ?
     
    Peut-être le retour de la question juive, mais c’est loin d’être une perspective encourageante.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/191123/henry-laurens-est-sur-la-voie-d-un-processus-de-destruction-de-masse-gaza

    #discours_génocidaire #religion (s) #sionisme

  • Mine de lithium dans l’Allier : le rapport qui dévoile une bombe toxique
    https://disclose.ngo/fr/article/mine-de-lithium-dans-lallier-le-rapport-qui-devoile-une-bombe-toxique

    Il y a un an, le gouvernement a annoncé l’ouverture, dans l’Allier, de la plus grande mine de lithium d’Europe. D’après un rapport inédit dévoilé par Disclose et Investigate Europe, le secteur, fortement contaminé à l’arsenic et au plomb, présente « un risque significatif pour l’environnement et la santé humaine ». Une véritable bombe à retardement passée sous silence par les autorités. Lire l’article

  • Schlechte Arbeitsbedingungen in Tesla-Fabriken
    https://www.heise.de/news/Bericht-Schlechte-Arbeitsbedingungen-in-Tesla-Fabriken-9535729.html

    Im Tesla Werk Grünheide ist die Zahl der meldepflichtigen Arbeitsunfälle vier Mal so hoch wie in vergleichbaren Fabriken der Branche. Der Konzern entlohnt dabei seine Arbeiter deutlich schlechter als die Konkurrenz. Das Unternehmen folgt in Deutschland seiner Politik in den USA, sich einen Konkurrenzvorteil durch verschärfte Ausbeutung, Bekämpfung von Gerwerkschaften und Tarifflucht zu verschaffen.

    22.11.2023 von Marie-Claire Koch - Ein neuer Medienbericht deutet auf erschreckende Arbeitsbedingungen in Teslas Gigafactory in Texas hin.

    In Elon Musks Gigafactory in Austin, Texas, sollen sich laut einem Bericht vom Investigativmagazin The Information verschiedene Vorfälle ereignet haben, die auf erhebliche Gefahren am Arbeitsplatz hindeuten. Unter anderem seien Stahlträger, Metallgitter und andere Baumaterialien in der Nähe der Arbeiter zu Boden gestürzt.

    Teilweise stammen die Informationen aus Berichten über die Anzahl und Folgen von Arbeitsunfällen, die Tesla The Verge zufolge an die Occupational Safety and Health Administration (OSHA) übermittelt hatte – einer US-Bundesbehörde zur Durchsetzung des Bundesarbeitssicherheitsgesetzes. Demnach sei im Jahr 2022 jeder 21. Arbeiter verletzt worden.

    Laut Augenzeugenberichten wurde 2021 auch ein Ingenieur verletzt, der sich einem vermeintlich abgeschalteten Roboterarm näherte. Die Maschine habe ihre Bewegungen ausgeführt und den Mitarbeiter gekrallt und an die Wand gedrückt. Danach habe der Ingenieur an Rücken und Armen geblutet.
    Arbeitsunfälle führten zu Verletzungen

    Aus einem Verletzungsbericht geht zwar hervor, dass es einen Vorfall mit Robotern gegeben habe, diese stimmen aber nicht eindeutig mit den Zeugenaussagen überein. Außerdem sei es bei der Person in dem offiziellen Bericht nicht zu Fehlzeiten gekommen. Bei davon unabhängigen Vorfällen im August 2022 wurde der Knöchel eines Arbeiters unter einem Wagen eingeklemmt, was ihn für 127 Tage arbeitsunfähig machte. Tage später erlitt ein anderer Arbeiter eine Kopfverletzung, die ihn für 85 Tage außer Gefecht setzte.

    Aus jüngeren Berichten über Arbeitsunfälle geht hervor, dass mindestens ein Mitarbeiter eine Gehirnerschütterung erlitten habe, nachdem er durch einer Explosion im Metallgussbereich weggeschleudert worden war. Die Explosion habe angeblich Wasser ausgelöst, das in eine Verarbeitungsmaschine für geschmolzenes Aluminium gelangte. Dazu sei auch ein Überwachungsvideo vorhanden. Ob Tesla den Fall der OSHA gemeldet habe, sei unklar. Nachdem ein Arbeiter Mängel bei der Arbeitssicherheit beheben wollte, wurde ihm geantwortet, dass eine Abschaltung die Produktionsleistung verlangsamen würde.
    „Mangelnde Schutzausrüstung“

    Darüber hinaus stürzten Mitarbeiter einer beauftragten Firma, die in der Fabrik Metallgitter für erhöhte Gehwege installieren sollten, aufgrund mangelnder Schutzausrüstung zu Boden, was für Brüche und Verletzungen an der Lunge führten. Diesen Fall untersucht die OSHA nach Angaben von The Verge. In einer weiteren Tesla-Fabrik im kalifornischen Fremont sei es ebenfalls zu schweren Verletzungen von Arbeitern gekommen. Dabei wird Tesla auch vorgeworfen, eine zu geringe Anzahl an Verletzungen offiziell gemeldet zu haben. Kritik gibt es ebenfalls an Tesla-Chef Elon Musk, der sich in der Vergangenheit gegen die Bemühungen seiner Mitarbeiter stellte, sich gewerkschaftlich zu organisieren.

    Hierzulande gibt es ähnliche Beschwerden. Erst kürzlich hatte Brandenburgs Wirtschaftsminister Jörg Steinbach (SPD) einen Tariflohn für Tesla-Mitarbeiter gefordert. Zudem beklagten Tesla-Mitarbeiter in Grünheide immer wieder die Arbeitsbedingungen und überzogene Produktionsziele. Ende September 2023 wurden zudem auffallend viele Arbeitsunfälle in Grünheide bekannt. 190 meldepflichtige Fälle zwischen Juni und November 2022 habe Tesla angegeben. Laut der Berufsgenossenschaft Holz und Metall traten 2022 bei Autoherstellern und Zulieferern 16 meldepflichtige Unfälle je 1000 Beschäftigte auf. Für Tesla wären daher 64 meldepflichtige Unfälle normal.

    #Arbeit #Elektromobilität #Ausbeutumg #Unfall

  • La sortie de la crise du Covid-19 s’est traduite par une hausse de la pauvreté et des inégalités
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/11/14/la-sortie-de-la-crise-du-covid-19-s-est-traduite-par-une-hausse-de-la-pauvre

    Les indicateurs de niveaux de vie pour l’année 2021, publiés mardi 14 novembre par l’Insee, montrent que 550 000 personnes ont basculé dans la pauvreté, tandis que les ménages les plus aisés ont vu leur niveau de vie augmenter.
    (...) Cette hausse de la pauvreté s’est accompagnée d’un creusement des inégalités. La moitié de la population la moins aisée a vu reculer son niveau de vie en euros constants (c’est-à-dire en tenant compte de l’inflation), après une hausse en 2020. Ce recul est plus marqué pour les 20 % les plus pauvres. A l’inverse, la moitié de la population la plus aisée a vu son niveau de vie augmenter, avec une hausse plus forte pour les 20 % les plus riches.

    https://archive.ph/tFriA

    9,1 millions de personnes, 14,5 % de la population sous le seuil de pauvreté en 2021

    En 2021, les inégalités et la pauvreté augmentent
    https://www.insee.fr/fr/statistiques/7710966

    Titre-restaurant : le gouvernement « étudie » une prolongation de leur utilisation pour les courses alimentaires
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/11/14/titre-restaurant-le-gouvernement-etudie-une-prolongation-de-leur-utilisation

    Depuis août 2022, l’utilisation des titres-restaurant a été étendue à tous les produits alimentaires, même s’ils ne sont pas consommables directement sans cuisson ou préparation (farine, pâtes, riz, œufs, poisson, viande…). Mais cette dérogation devait prendre fin le 1er janvier 2024. « Est-ce que c’est simple à faire ? », s’est interrogé le ministre au sujet d’une éventuelle prolongation de la dérogation. « Non, car il faut une disposition législative », a-t-il relevé.

    « Nous sommes en train d’étudier les possibilités législatives qui permettraient d’étendre au-delà du 31 décembre 2023 cette faculté d’utilisation », a-t-il enchaîné. « Au moment où je vous parle, je n’ai pas la solution législative. Je vous le dis très simplement, mais je suis favorable à cette extension », a insisté le numéro deux du gouvernement.
    Jusqu’à la dérogation, les titres-restaurant servaient à régler uniquement des repas, plats cuisinés, salades préparées, sandwichs (servis sur place ou à emporter) ainsi que les fruits et légumes ou les produits laitiers.

    #pauvreté #inflation #alimentation

    • « Au moment où je vous parle, je n’ai pas la solution législative. Je vous le dis très simplement, mais je suis favorable à cette extension »,

      C’est dommage qu’il y ai pas de 49.3 pour cette extension à laquelle il est si favorable ! ils ont tous été utilisé par leur Bête Morne pour faire les poches du peuple et envoyer l’assistance publique à équarrissage.


      On dirait le porc napoléon qui envoie Malabar à la « retraite »...

    • merci @mad_meg c’est corrigé et puis cette involontaire tentative de concaténation d’autorité et d’austérité restait bancale
      est-ce nazie que tu voulais écrire ? si tel était le cas, tout ce qui est rigide, rigoureux ou strict n’est pas nazi. ne dépouillons pas les entreprises humaines de leurs spécificités (l’ignominie est elle-aussi multiple), l’histoire de son relief, on y pigerait plus grand chose il me semble.

      sinon, c’est une minable rustine, je soulignais qu’ils l’enlevaient, ils la maintiennent ? tout continue... c’est réservé aux salariés en poste, les indépendants, les retraités, les étudiants, celleux qui chôment peu ou prou, ponctuellement ou davantage auront moins ou rien.
      pendant ce temps - même france cul le disait hier, en termes moins tranchés- on balance des milliards pour l’assistance aux entreprises (CICE, exonérations) mais ni la prime d’activité ni les minima, ni les allocs chômage ou les bourses ou les retraites, ne sont substantiellement augmentées (sabrées ou retardées, ça oui, ça arrive), alors même qu’une autre rustine, les restos du coeur, pleure misère et réduit son périmètre pour limiter la demande en triant plus qu’auparavant ses « bénéficiaires »...

      "ceux qui ne sont rien" c’était pas juste un maladroit signe de mépris mais aussi - en même temps !- un lapsus significatif qui (re)dit "c’est notre) projet !"

      "nous ne sommes rien..." pointait une vieille chanson. une nouvelle prolétarisation nous y ramène. programme politique transpartidaire. et pour « accepter » d’en être de ce rien, quoi de mieux que de savoir qu’il y a des moins que rien (étrangers, ultra précaires, etc), produits comme tels à cette fin.
      à descendre cette pente, on aura non seulement la préférence nationale, la stigmatisation des assistés (incapables de se libérer du besoin par le travail, êtres de pur besoin, animaux eux-aussi) et l’autoritarisme mais aussi -combien arriveront à voter Philippe, Darmanin ou Attal pour le moins pire ? - le RN .

      sauf si, puisque l’achat de plus d’armes que jamais pour le maintien de l’ordre annonce sans doute de nouvelles « réformes », comme lors de la mobilisation contre celle des retraites, le RN est de nouveau contraint de faire tapisserie, et mieux encore, que d’autres valeurs que celles d’une réaction omniprésente viennent occuper l’espace politique, pour ne plus en laisser à la fascisation.

      #économie

  • L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/10/l-australie-offre-l-asile-climatique-aux-citoyens-de-tuvalu_6199315_3210.htm

    L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux.
    Canberra a annoncé offrir aux habitants de Tuvalu, un archipel du Pacifique particulièrement menacé par la montée des eaux, des droits « spéciaux » pour s’installer et travailler en Australie, dans un traité rendu public par les deux pays vendredi 10 novembre. « Nous croyons que le peuple de Tuvalu mérite d’avoir le choix de vivre, étudier et travailler ailleurs, alors que le changement climatique empire », ont déclaré, dans un communiqué conjoint, le premier ministre australien, Anthony Albanese, et son homologue de Tuvalu, Kausea Natano.
    Le traité prévoit des droits « spéciaux » pour les arrivants, mais aussi des volets consacrés à la défense, engageant l’Australie à venir en aide à Tuvalu en cas d’invasion ou de catastrophe naturelle. Les Tuvalais pourront bénéficier d’un « accès aux services australiens, qui leur permettront une mobilité dans la dignité », précise le texte.
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux. Deux de ses neuf atolls ont déjà été largement submergés et des spécialistes estiment que Tuvalu sera complètement inhabitable d’ici à quatre-vingts ans. En octobre, M. Natano a déclaré à l’Agence France-Presse (AFP) que l’archipel risquait de « disparaître de la surface de la Terre » si aucune mesure drastique n’était prise. Le traité dévoilé veut aussi permettre aux Tuvalais de « conserver les liens ancestraux profonds » qui les unissent à leur terre et à la mer. Toutefois, il reconnaît que le passage à l’action arrive tardivement.
    La dépendance commerciale de l’Australie au charbon et aux exportations de gaz, des postes économiques polluants, sont depuis longtemps une pierre d’achoppement avec ses voisins du Pacifique, qui subissent déjà de plein fouet les conséquences du changement climatique, dont la montée des eaux et une météo plus extrême.
    Ce traité peut être perçu comme une victoire stratégique pour Canberra, qui entend étendre son influence dans l’océan face à la présence grandissante de la Chine. Kiribati et les îles Salomon se sont, par exemple, tournés vers Pékin ces dernières années. Tuvalu y reste opposé en continuant de reconnaître diplomatiquement Taïwan. M. Natano a affirmé que le traité représentait un « espoir » et un « grand pas en avant » pour la stabilité régionale. Il doit cependant encore être ratifié par les deux pays pour devenir effectif.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#tuvalu#asileclimatique#emigration#pacifique

  • Comment l’austérité paralyse l’université

    [Rentrée sous tension à la fac] Pour dénoncer leur manque de #reconnaissance, des enseignants démissionnent de leurs #tâches_administratives, alors que le projet de loi de finances 2024 risque d’aggraver les difficultés financières de l’université.

    Les présidents d’université l’ont mauvaise. La raison ? Le #projet_de_loi_de_finances (#PLF) 2024, qui n’est pas à la hauteur des besoins de leurs établissements. Déjà fortement impactées par la hausse des prix en général et des coûts de l’énergie en particulier, les universités vont en effet devoir financer pour 2023 et 2024 une partie de la hausse des #salaires décidée en juin par le ministre de la Fonction publique Stanislas Guérini. « Une très mauvaise nouvelle », a réagi France Universités dans un communiqué du 19 octobre :

    « Pour les universités, cela signifie qu’elles devront financer 120 millions d’euros [sur un coût total d’environ 400 millions d’euros, NDLR], soit par prélèvement sur leurs fonds de roulement, soit par réduction de leur campagne d’emplois. Cela équivaut à 1 500 #emplois de maîtres de conférences en moins, non ouverts au recrutement, dénonce l’association, qui fédère l’ensemble des présidents d’universités. Encore une fois, les universités font les frais de la #politique_budgétaire du gouvernement qui considère l’#enseignement_supérieur et la #recherche comme une variable d’ajustement et non comme un investissement en faveur de la jeunesse », ajoute le communiqué.

    La situation est, il est vrai, particulièrement difficile, avec de nombreuses universités au #budget_déficitaire ou en passe de le devenir. Et un gouvernement qui n’entend rien leur concéder.

    Chute de la dépense par étudiant

    Début septembre, #Emmanuel_Macron expliquait, dans un échange avec le Youtubeur Hugo Travers, qu’il n’y avait « pas de problème de moyens » dans l’enseignement supérieur public, dénonçant une forme de « #gâchis_collectif » puisque, à ses yeux, il y aurait « des formations qui ne diplôment pas depuis des années » et d’autres qui se maintiennent « simplement pour préserver des postes d’enseignants ».

    Dans la foulée, la ministre #Sylvie_Retailleau, exigeait de libérer leurs #fonds_de_roulement – cet « argent public qui dort » d’après elle – estimés à un milliard d’euros, et qui permettrait de financer une partie des mesures en faveur du pouvoir d’achat des #fonctionnaires décidées cet été. Seulement, arguent les chefs d’établissements, ces fonds sont destinés aux rénovations énergétiques des bâtiments ou aux équipements de laboratoires de recherches.

    Déjà peu élevée par rapport aux autres pays d’Europe, la #dépense_par_étudiant décroche en réalité nettement depuis 2010. À l’université, le nombre d’inscrits a augmenté de 25 %, et le budget d’à peine 10 %. Le nombre d’enseignants a, lui, baissé de 2 %.

    « Pour retrouver les #taux_d’encadrement de 2010, il faudrait créer 11 000 postes dans les universités », a calculé Julien Gossa, maître de conférences en sciences informatiques à l’université de Strasbourg et fin observateur des questions liées à l’enseignement supérieur.

    Dans le détail, ces chiffres masquent des #inégalités : tous les établissements ne sont pas dotés de la même manière. Difficile d’obtenir des données officielles à ce sujet, mais celles produites par Julien Gossa révèlent des écarts allant parfois du simple au double.

    A L’université de Créteil, qui a vu ses effectifs exploser ces dernières années et devrait atteindre un #déficit de 10 millions d’euros cette année, l’Etat débourse en moyenne 6 750 euros par étudiant. À Aix-Marseille, le montant s’élève à 10 000 euros. À la Sorbonne, celui-ci est de 13 000 euros, soit presque deux fois plus qu’à Nantes (7 540 euros). Et largement plus qu’à Nîmes (5 000 euros). « Ces grandes différences ne peuvent s’expliquer uniquement par des frais de structures », souligne Hervé Christofol, membre du bureau national du Snesup-FSU.

    La #concurrence s’est aggravée en 2007 avec la loi relative aux libertés et responsabilités des universités (#LRU). Réforme majeure du quinquennat de #Nicolas_Sarkozy, elle a transféré aux établissements universitaires la maîtrise de leurs budgets, et de leurs #ressources_humaines, qui revenait jusqu’ici à l’Etat.

    « On nous a vendu l’idée selon laquelle les universités seraient plus libres de faire leurs propres choix en s’adaptant à leur territoire. Mais en réalité, le gouvernement s’est tout simplement déresponsabilisé », tance Julien Gossa.

    Manque de profs titulaires

    Concrètement, pour fonctionner à moyens constants, les présidents d’universités sont contraints de mener des politiques d’austérité. Conséquences : les #recrutements d’#enseignants_titulaires sont gelés dans plusieurs universités, comme à Créteil, et celles et ceux en poste accumulent les #heures_supplémentaires.

    En 2022, le nombre d’ouvertures de postes de maîtres de conférences a augmenté de 16 %, mais cela ne suffit pas à rattraper la stagnation des dernières années. Le Snesup-FSU, syndicat majoritaire, avait d’ailleurs identifié la date du 26 janvier comme le « #jour_du_dépassement_universitaire », autrement dit le jour à compter duquel les titulaires ont épuisé les heures correspondant à leurs obligations de service pour l’année en cours.

    Au-delà, tous les enseignements sont assurés en heures supplémentaires, ou bien par le recrutement de #contractuels ou #vacataires – des #contrats_précaires qui interviennent de façon ponctuelle, sans que l’université ne soit leur activité principale. Les syndicats estiment qu’ils sont entre 100 000 et 130 000. Leur #rémunération : à peine 40 euros bruts de l’heure, contre environ 120 euros bruts pour un titulaire.

    Les problématiques de rémunération ont d’ailleurs créé la pagaille lors de la rentrée dans un certain nombre d’universités. À Paris-Est-Créteil, les étudiants de première année de la filière sciences et techniques des activités physiques et sportives (Staps) ont vu leur rentrée décalée de deux semaines. Puis les cours ont démarré, mais dans une situation pour le moins dantesque : pas préparés en amont, les groupes de TD ont été créés dans la panique par des agents administratifs déjà débordés… Sans tenir compte des options souhaitées par les étudiants.

    Une quinzaine d’enseignants ont en effet démissionné d’une partie de leurs responsabilités : ils continuent d’assurer leurs cours, mais refusent d’effectuer leurs tâches administratives ou pédagogiques non statutaires pour dénoncer ce qu’ils qualifient d’un « manque de reconnaissance » de l’État. À Rouen, ils sont 57 à en avoir fait de même. Même son de cloche à l’IUT Sciences de gestion de l’Université de Bordeaux, ou à celui de Chimie d’Aix-Marseille.

    « Cela impacte tout le monde, insiste Gabriel Evanno, représentant du bureau des élèves de Staps à Créteil. Pour l’instant, nous ne savons même pas si les partiels de cet hiver pourront avoir lieu puisqu’il n’y a plus de surveillants d’examens. Nous ne savons pas non plus qui sera en mesure de signer nos conventions de stages étant donné que les enseignants qui étaient en mesure de le faire n’y sont plus habilités depuis leurs démissions de ces tâches. »

    L’étudiant soutient, malgré tout, la protestation des enseignants.

    Mobilisations des « ESAS »

    Ces #démissions_massives sont le fruit d’une #mobilisation démarrée il y a un an à l’initiative du collectif 384 regroupant près de 2 000 enseignants au statut particulier, les #enseignants_du_secondaire_affectés_dans_le_supérieur (#ESAS) : des professeurs agrégés, d’autres certifiés, d’autres issus de lycées professionnels. Au nombre de 13 000, ces enseignants se trouvent majoritairement dans les instituts universitaires de technologie (IUT), les filières Staps ou les instituts nationaux supérieurs du professorat et de l’éducation (Inspé).

    Toutes et tous assurent 384 heures de cours par an, soit deux fois plus que les enseignants-chercheurs, sans compter le suivi des étudiants.

    Or, début 2022, un nouveau système de #primes pouvant atteindre d’ici 2027 6 400 euros par an a été mis en place, pour inciter à prendre en charge des tâches administratives et pédagogiques. Le problème, c’est qu’il a été réservé aux enseignants-chercheurs, alors même que les ESAS remplissent tout autant ce genre de missions.

    « En plus de nos heures de cours, nous assurons depuis longtemps des missions non statutaires, parfois délaissées par les enseignants-chercheurs : le suivi des stages, le recrutement des étudiants, ou encore l’élaboration des emplois du temps, énumère Nicolas Domergue, porte-parole du collectif et enseignant à l’IUT du Puy-en-Velay. Le tout pour la somme ridicule de 600 euros par an. On est surinvestis, et pourtant oubliés au moment des réformes. »

    Pour Guillaume Dietsch, enseignant en Staps de l’Université de Paris-Est-Créteil et « démissionnaire », cette exclusion des primes a été « la goutte d’eau de trop. Cette injustice a été perçue de façon symbolique comme un manque de reconnaissance plus large de notre travail. »

    Le Ministère de l’enseignement supérieur avait d’abord justifié cette différence de traitement par l’absence de mission de recherche des enseignants issus du second degré, avant de chercher un moyen de stopper la vague des démissions. Pour calmer la grogne, début septembre, le Ministère a débloqué 50 millions d’euros afin de revaloriser la prime des ESAS qui passera à 4 200 euros en 2027. Ce qui fait toujours 2 200 euros de moins que celle accordée aux enseignants-chercheurs.

    « Contrairement à ce que ce procédé laisse entendre, nous pensons que la formation des futurs actifs doit être reconnue au même niveau que la recherche », rétorque Nicolas Domergue.

    Au-delà de cette question de prime, se joue une autre bataille : celle de l’évolution de carrière. De par leur statut hybride, ces enseignants sont pris en étau entre deux ministères, celui de l’enseignement supérieur et de la recherche et celui de l’éducation nationale.

    « Notre carrière est quasiment à l’arrêt dès que l’on quitte le secondaire, regrette Céline Courvoisier, membre du collectif 384 et professeure agrégée de physique à l’IUT d’Aix-Marseille. Nous ne sommes plus évalués par le rectorat au motif que nous travaillons dans le supérieur. »

    Ces enseignants sont, de fait, exclus des primes dont peuvent bénéficier leurs collègues dans les collèges ou les lycées. Pour eux, c’est la double peine quand les effets de l’austérité budgétaire s’ajoutent à leur insuffisante reconnaissance salariale. Ainsi, depuis 2021, les IUT se font désormais en trois ans au lieu de deux auparavant.

    « Nous avons dû monter une troisième année à coûts constants alors que cela nécessite nécessairement des embauches, des salles… Comment est-ce possible ? », interroge Céline Courvoisier.

    Surtout, a-t-on envie de se demander, combien de temps cette situation va-t-elle pouvoir durer ?

    https://www.alternatives-economiques.fr/lausterite-paralyse-luniversite/00108494

    #austérité #université #ERS #France #facs #démission

  • „Da hat jemand Gott gespielt“ : Arzt der Berliner Charité schweigt nach Tod zweier Patienten vor Gericht
    https://www.tagesspiegel.de/berlin/da-hat-jemand-gott-gespielt-arzt-der-berliner-charite-schweigt-nach-tod

    Doctor Death a encore frappé. Un médecin berlinois a tué par injection de sédatifs au lieu d’essayer de sauver la vie vie de patients agés qu’il jugeait voués à la mort

    La profession médicale produit systématiquement des fonctionnaires et practiciens qui jugent d’inutile la vie des patients qu’ils tuent ensuite. Sans contrôle démocratique de la profession médicale les plus radicaux parmi les médecins accèdent à de brillantes carrières et se muent en constructeurs d’usines de la mort comme Auschwitz et le camps japonais de l’Unité 731 (731部隊, Nana-san-ichi butai).

    Afin de pouvoir comprendre la signification des crimes contre les patients il faudrait continuer à analyser la professeion médicale, son pouvoir et sa relation aux patients. La cour de justice à Berlin n’y contribuera pas, mais on peut espérer que les accusés se prononcent sur leur relation aux patients et les structures de pouvoir au sein de leur profession.

    17.10.2023 von Kerstin Gehrke - Ein Facharzt der Berliner Charité sitzt fünf Monate nach seiner Verhaftung auf der Anklagebank. Mitangeklagt ist eine 39-jährige Krankenschwester. Beide schweigen zunächst.

    Bei dem Facharzt schienen Patienten in den besten Händen zu sein. Doch der Mann soll als Oberarzt auf einer kardiologischen Intensivstation zwei Patienten umgebracht haben. Die Staatsanwaltschaft wirft dem 56-jährigen Gunther S. vor, im November 2021 einen 73-jährigen Patienten und im Juli 2022 eine 73-jährige Patientin mit überdosierten Medikamenten getötet zu haben. Mitangeklagt vor dem Berliner Landgericht ist eine 39-jährige Krankenschwester.

    Nach fünfmonatiger Untersuchungshaft wurde der Facharzt für Innere Medizin, der jahrelang am Charité-Campus Virchow-Klinikum tätig war, am Dienstag in den Gerichtssaal geführt. Schweigend reagierten er und die Mitangeklagte auf die Vorwürfe. Beide wollen sich allerdings zu einem späteren Zeitpunkt äußern.

    Gegen den Herzmediziner wird wegen Totschlags in zwei Fällen verhandelt, bei der Krankenschwester geht es um Beihilfe oder auch der Täterschaft in einem Fall. Eine Nebenklage-Anwältin sagte am Rande, nachdem sie die Akte gelesen hatte, sei sie erschrocken gewesen – „nach meinem Eindruck hat da jemand Gott gespielt“.

    Keine Mordmerkmale erkennbar

    S. wurde im August 2022 suspendiert, im Mai dieses Jahres dann festgenommen. Die Staatsanwaltschaft ging bei ihrer Anklage von Mord aus. Der Mediziner habe in beiden Fällen gehandelt, „um seine Vorstellungen zum Sterben und Zeitpunkt des Lebensendes der Patienten zu verwirklichen“, heißt es in der Anklage. Er habe sich „als Herr über Leben und Tod“ aufgeführt.

    Das Landgericht bewertete den Fall jedoch bei der Eröffnung des Hauptverfahrens anders: Nach Aktenlage bestehe lediglich ein hinreichender Tatverdacht für den Straftatbestand des Totschlags, Mordmerkmale seien nicht erkennbar. Beiden Angeklagten droht nach Gerichtsangaben im Fall einer Verurteilung auch ein Berufsverbot.

    Im ersten Fall soll S. angewiesen haben, die laufende und zunächst erfolgreiche Reanimation eines Schwerkranken einzustellen. Der Arzt habe dann laut Anklage die Mitangeklagte angewiesen, dem Patienten eine – wie ihm bewusst gewesen sei – tödliche Dosis eines Sedierungsmittels zu geben.

    „Zögerlich“ soll sie gespritzt haben. Weil es wider Erwarten weiterhin Vitalzeichen gab, habe der Arzt dem Patienten eine weitere Propofol-Dosis verabreicht. Im zweiten Fall soll der Arzt einer bewusstlosen und beatmeten Patientin das Sedierungsmittel ohne medizinischen Grund gespritzt haben.

    Die Charité hatte nach eigenen Angaben im Sommer 2022 über eine Art Whistleblower-System einen Hinweis von einer Zeugin bekommen und die Ermittlungsbehörden eingeschaltet. S. sei umgehend freigestellt worden. Das System war nach einer Tötungsserie durch eine 2007 zu lebenslanger Haft verurteilte Charité-Krankenschwester eingerichtet worden. Der Prozess geht am 7. November weiter.

    A propos de la signification du procès contre les assassins en blouse blanche

    La relation entre patients et médecins est essentielle pour la constitution du pouvoir dans les sociétés modernes. C’est dans cette relation que confluent la violence et toutes les formes d’exploitation.

    Il arrive alors que même dans les hôpitaux des sociétés démocratiques les surhommes en blouse blanche n’arrivent pas à se retenir et se livrent à des actes qui ne passent pas inaperçus. Lors de ces occasions on découvre l’idée que se font ces spécimens meutriers de leur rôle de médecin.

    Dans le procès à Berlin on se prépare à accorder avec des arguments bien connus l’impunité aux accusés en mettant en cause leur mauvaises intentions lors des actes commis : La tâche du médecin étant la réduction de la souffrance humaine ils n’auraient commis qu’une erreur sur la forme de donner la mort. Il leur manqait un papier avant de pouvour passer à l’acte de tuer légalement. C’est ce qu’on voudra nous faire croire.

    La notion de patient utilisé dans cet article comprend tout. être humain soumis au pouvoir médical / des médecins. Ses autres qualités, par exemple de prisonnier de guerre, de riche ou de pauvre, d’homme ou de femme, disparaissent derrière cette relation au sur-homme capable de décider sur la vie ou la mort, de la liberté d’un condamné, de l’incarcération d’innocents, de l’attribution d’allocations sociales, de soins, de postes de travail, d’un logement ou de l’exemption de sanctions imposées par d’autres institutions et lois.

    Le pouvoir médical sur les hommes est l’unique phénomène de société moderne qui mérite qu’on l"appelle totalitaire . Face aux médecins chacun demeure patient jusqu’à ce qu’il se rebelle.

    Retournons aux événements constitutifs de la recherche et pratique médicale actuelle. Pendant la deuxième guerre mondiale la médecine moderne a trouvé dans les camps sa forme la plus pure comme l’industrie lourde l’a accompli dans les orages d’acier de la première . Les centres de recherche médicale en temps de guerre et leurs médecins profitent de la disponibilité d’un grand nombre de patients-victimes que les médecins declarent comme vies superflues.

    A travers l’énorme quantité de leurs victimes l’ingénieur et le médecin ont procédé vers une nouvelle qualité essentielle. On ne peut identifier et décrire cette qualité qu’une fois le choc et le silence entourant les crimes dépassés. On nous avertit de l’ingénieur comme demiurge créateur de l’industrialiisme conduisant l’humanité au bord de sa propre extinction. Pour arriver à l’identifier dans ce rôle a fallu deux guerres mondiales et l’explosion de la production mondiale après 1945.

    Il a fallu quelques décennies et une deuxième guerre mondiale supplémentaire pour faire évoluer le médecin soignant à la façon des shamanes vers le généticien et neurologue créateur de l’homme augmenté d’aujourd’hui.

    L’déologie raciste et eugénique comme fond de réflexion de la profession médicale suivent toujours la même logique même si on admet aujourd’hui que les différences génétiques entres les hommes du monde entier n’ont qu’une signification cosmétique.

    Nous nous trouvons alors face à une profession médicale qui suit une image arrièrée-biologiste et utopiste techno-sociale à la fois. Les Frankenstein-Mengele des camps marquent le moment clé inhumain de cette mutation professionnelle. Les professeurs occupants les chaires universitaires et leurs collègues dans l’industrie pharmaceutique se montrent en dignes successeurs de leurs ancêtres nazis et shintos. On les rencontre quand on regarde l’imposition de tel vaccin contre le covid au dépens de tel autre, l’absence de toute consultation des peuples pendant la lutte contre l’épidémie et l’investiture de nouveaux super-riches PDG-médecins-chercheurs.

    Cependant la mondialisation, les laboratoires microbiologiques et la repartition de plus en plus injuste des richesses du monde rendent inutiles les camps pour la recherche médicale. Nous constatons qu’il est devenu difficile pour les populations concernées de faire la différence entre campagnes de vaccination honnêtes, test pharmaceutiques illicites et fausses campagnes initiées par les services secretes. Toute l’Afrique et une bonne partie de l’Asie sont la cible pour les tests pharmaceutiques illégales en Europe. Aujourd’hui l’ l’Unité 731 est partout

    L’image la plus marquante de ce côté de la médecine est la rampe d’Auschwitz où les médecins SS triaient les arrivants en séparant ceux voués à la mort immédiate des autres qu’on allait utiliser jusqu’à leur mort pour le travail aux fournaux et comme victime des expériences médicales. Depuis on observe que la sélection d’êtres humains dans toutes sortes de situations se fait sous les ordres ou en collaboration avec les médecins.

    A Auschwitz les médecins allemands sélectionnaient leurs victimes selon la définition médicale de lebensunwertes Leben , les médecins japonais considéraient comme sous-hommes les prisonniers de guerre chinois et les utilisaient dans leurs recherches meurtrières. Les médecins japonais ont assassiné jusqu’à 480.000 patients dans le contexte de leurs recherches. Les victimes des projets de recherche monstrueux du docteur Mengele sont beaucoup moins nombreux, mais on peut considérer les juifs assassinés comme victimes des définitions raciales élaborées sur fond de l’idéologie raciste partagée et développée par de nombreux médecins de l’époque.

    Il était prévu par les médecins allemand et japonais de tuer tous leurs patients sans exception pendant les expériences. Dans l’antichambre des salles de vivisection japonaises il y a eu des révoltes d’hommes qui luttaient contre le sort de patient comme Franciszka Mann qui en refusant le statut de lebensunwertes Leben a tué des SS à l’entrée des chambres de gaz d’Auschwitz . Malgré les efforts des meurtriers médecins et SS il y a eu que quelques survivants qui ont témoigné de ces actes de bravoure et d’humanité.

    Unité 731
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Unit%C3%A9_731

    Le triage à Auschwitz
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Auschwitz

    À peine sortis du train, les prisonniers subissent la Selektion. D’un côté, on fait ranger les faibles, les personnes âgées, les malades, les femmes enceintes, les enfants pour les conduire vers ce qu’on leur laisse croire être des installations sanitaires, des douches, mais en fait des chambres à gaz. D’un autre côté, on parque les adultes (en théorie à partir de 15 ans) jugés les plus valides par les SS et destinés a priori au travail forcé. Souvent, le docteur Josef Mengele ou ses "assistants" opèrent en complément une sélection parmi les nouveaux venus pour conduire des « expériences médicales ».

    Franciszka Mann
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Franciszka_Mann

    Franciszka Mann, auch Franziska Mann, Franceska Mann, Franciszka Mannówna, Künstlername Lola Horowitz (* 4. Februar 1917; † 23. Oktober 1943

    #médecine #iatrocratie #Auschwitz

  • Australia & the Voice referendum : The noes have it
    https://www.focaldata.com/blog/bi-focal-9-australia-and-the-voice-referendum

    On 14 October, Australian voters will cast their ballots in a historic referendum, known as ‘The Voice’. We forecast a “No” result.

    une analyse extrêmement détaillée du (catastrophique) résultat du référendum australien sur la “voix” des peuples autochtones (note : analyse faite avant le vote, à partir de sondages… mais la réalité n’a pas été différente)

    #colonialisme #australie #peuples_autochtones #réparations

  • Loi « plein-emploi » : « La régression sociale attendue est sans précédent depuis des décennies », Jean-Claude Barbier

    Il faut savoir repérer un tournant politique radical quand il est pris. C’est le moment, avec l’adoption de la loi dite « plein-emploi », le 10 octobre. Elle porte une double promesse de sévérité et d’#austérité.
    D’un côté, la loi augmente la discrimination des personnes #pauvres en les stigmatisant comme paresseuses (c’est le discours de la droite classique et des macronistes, comme le député Karl Olive). C’est même en réalité son but principal, politique.

    Les moyens de l’insertion sociale et professionnelle annoncée ne sont en fait pas déployés en contrepartie de l’augmentation radicale des #sanctions et punitions d’un autre âge. De l’autre, le gouvernement déploie des coupes plus ou moins discrètes dans toutes les dépenses sociales. Cette loi est grosse d’effets dévastateurs, bien supérieurs à ceux de la brutale économie sur les allocations logement qui a augmenté la pauvreté en France dès le premier quinquennat Macron (baisse des 5 euros, puis réforme du calcul).

    La régression sociale attendue est sans précédent depuis des décennies, au moment où les effets de la réforme de l’#assurance-chômage affectent, depuis août 2023, de plus en plus d’assurés. Il y a trente-cinq ans, en 1988, un tournant majeur en matière de protection sociale fut l’innovation du RMI [revenu minimum d’insertion]. Ce projet d’insertion républicaine solidaire était porté par un Parlement unanime et s’opposait à la politique punitive britannique, dont le président français Emmanuel Macron s’était d’ailleurs distancié lors de son premier plan contre la pauvreté, en 2018, avec l’aide de son secrétaire d’Etat Olivier Noblecourt.

    Les jeunes et les titulaires des minima sociaux

    Certes, l’idéologie des #coupes_budgétaires est bien ancrée chez le président. L’essentiel de la loi, déjà votée en juillet au Sénat, se situe dans sa disposition phare, les « quinze heures d’activités hebdomadaires », empruntée à Valérie Pécresse ; il s’agit d’économiser en radiant des #allocataires.
    En l’absence de financement des besoins de formation et d’aide à l’insertion, dont les départements ne disposent pas (comme l’indique le rapport de la Cour des comptes de janvier 2022), ce qui reste en exergue, à des fins de communication politique, ce sont les sanctions, et l’inscription obligatoire à Pôle emploi, renommé France Travail.

    Deux populations hétérogènes sont ainsi transformées artificiellement en « demandeurs d’emploi » : les jeunes et les titulaires des minima sociaux, ajoutés aux demandeurs d’emploi classiques. Où les conseillers emploi et les travailleurs sociaux vont-ils trouver les millions d’« heures d’activités hebdomadaires » sans financement autre que la poignée de milliards prévus avec l’instauration de France Travail ? Nul ne le sait. Le ministre, interrogé, n’a pas répondu.

    L’équivalent du « #workfare » américain de Clinton

    Or, plus d’un tiers des personnes pauvres en France sont en emploi… C’est donc que l’essentiel, pour le président de la République, tient en deux choses : adopter une loi faisant des personnes pauvres des boucs émissaires pour consolider son entente avec les Républicains, d’une part ; d’autre part, poursuivre et accélérer la diminution des dépenses sociales, dans la suite de la réforme des #retraites. Ce deuxième but vient de loin.

    Le président l’a énoncé dans son livre Révolution (XO, 2016) avant d’être élu et réaffirmé avec force dans le rapport CAP 2022 qu’il a commandé à son arrivée à l’Elysée et dont l’une des premières applications a été la brutale diminution des allocations logement. Des promesses vides ont été faites : ainsi la lutte contre le non-recours, dont les pouvoirs publics estiment la part à plus de 30 % des ayants droit du #RSA [revenu de solidarité active].

    C’est le triomphe, enfin obtenu, de l’équivalent du workfare américain de Clinton : le travail imposé aux Américains pauvres dans les parcs et jardins pour une allocation de misère, travail forcé que même les travaillistes de Blair refusaient en défendant, avec l’appui des syndicats britanniques, un welfare-to-work plus humain.

    Remis en question par la Défenseure des droits

    Ce tournant s’accompagne de multiples mesures d’économie dans le domaine social. Ainsi d’un nouvel essai d’étrangler, dans une troisième étape, l’assurance-chômage, encore aujourd’hui l’un des fleurons du paritarisme. Ainsi de l’absence de financement de l’#insertion, prévue par la réforme de #Pôle_emploi.
    Pour autant, le gouvernement n’échappera pas à ses responsabilités légales. Il faudra bien répondre à ce que la Défenseure des droits, Claire Hédon, a nommé, le 6 juillet 2023, dans son avis sur la loi, l’« obligation d’insertion sociale et professionnelle qui pèse sur les pouvoirs publics », autrement dit l’obligation constitutionnelle de fournir aux personnes pauvres des ressources d’insertion et des « moyens convenables d’existence », au titre de l’alinéa 11 du préambule de la Constitution.

    Cette obligation ne pourra pas être remplie si la logique de la diminution des dépenses sociales est poursuivie. Le jeu des sanctions et radiations et les quinze heures de prétendues « activités » (non définies par la loi) ne feront pas longtemps illusion face à la question du « reste à vivre » des personnes.

    Boucs émissaires

    D’autant que les nuages continuent de s’amonceler sur les ménages pauvres et modestes, comme le souligne une note du 29 septembre 2023 de la Fondation Jean Jaurès : crise du logement et poursuite des mesures d’économie ; menace d’augmentation du chômage et éloignement de l’objectif de 5 % fixé par le gouvernement – alors que le taux actuel est déjà supérieur à 7 % ; divers rabotages sur le marché du travail (par exemple sur les emplois aidés) ; économies sur les dépenses de santé, etc.

    L’immense majorité des allocataires des minima sociaux, malgré leurs problèmes de santé et de freins à l’emploi (reconnus même par le ministre), voudraient travailler, et ils souffrent de l’inflation. Il n’est pas digne d’en faire des boucs émissaires.

    Lire aussi « Fractures françaises » : malgré les contraintes budgétaires, la critique de l’« assistanat » diminue

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/12/loi-plein-emploi-la-regression-sociale-attendue-est-sans-precedent-depuis-de

    • « Fractures françaises » : malgré les contraintes budgétaires, la critique de l’« assistanat » diminue
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/10/09/fractures-francaises-malgre-les-contraintes-budgetaires-la-critique-de-l-ass.

      (...) ils sont moins nombreux qu’auparavant à estimer que « les chômeurs pourraient retrouver du travail s’ils le voulaient vraiment ». Ils sont 65 % à le penser en 2023 (soit 2 points de moins qu’en 2022), une première baisse depuis six ans. De même, le sentiment plus large qu’« il y a trop d’#assistanat en France » atteint un niveau historiquement bas : 56 % des Français partagent cette opinion, contre 63 % en 2022. A l’inverse, près de 44 % des sondés estiment désormais qu’il n’y a pas assez de #solidarité envers les gens qui en ont besoin, soit le plus haut niveau depuis près de dix ans. Données précieuses à l’heure où les débats parlementaires s’intensifient sur le projet de loi « plein-emploi » et sa mesure visant à « accompagner » les allocataires du revenu de solidarité active à travers de quinze à vingt heures hebdomadaires d’activité.

      un signe d’épuisement du sarko-macronisme, toujours bon à prendre

  • UPEC en faillite : quel avenir pour une université en banlieue ? | Academia
    https://academia.hypotheses.org/52073

    Academia est alertée depuis plusieurs mois sur la situation désastreuse de l’UPEC Université Paris-Est Créteil, qui, de grande université de banlieue, pluridisciplinaire et reconnue, est en passe de devenir un symbole particulièrement spectaculaire de l’écroulement du service public universitaire, sous les coups conjugués d’un ministère darwinien et d’une présidence d’université notoirement incompétente, qui feint de croire qu’elle pourra encore amadouer l’État en exécutant ses plus basses œuvres. Dernière mesure en date décidée unilatéralement par le président : le gel de 80 à 100% des recrutements d’enseignant.es-chercheur.ses cette année.Un plan social qui ne dit pas son nom.

  • Comprendre l’extermination à Auschwitz : histoire d’un témoignage miraculé
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/comprendre-l-extermination-a-auschwitz-histoire-d-un-temoignage-miracule

    ... cette publication est surtout un événement dans la mesure où plus de trente-cinq ans ont été nécessaires pour que ce #texte nous soit pleinement accessible. Et c’est cet intervalle qui leste le double legs de Nadjary d’une dimension supplémentaire, et vient en souligner l’importance. Car ce délai ne vient pas seulement éclairer la difficulté à rendre déchiffrable un texte fragile qui aura miraculeusement résisté parce qu’il avait été enfoui dans le sol d’#Auschwitz, plié en douze petits feuillets miniatures, et roulé dans un thermos. Entre sa découverte, à l’automne 1980, neuf années après la mort de Nadjary, et la toute première publication sous forme de récit, en 1991 et en Grèce, onze années s’étaient écoulées. Mais le progrès technique n’avançait pas à la même cadence, et seuls 10% du manuscrit étaient en réalité déchiffrables à l’époque : le papier avait été grignoté par l’humidité, et l’encre bleue délavée semblait avoir inondé les pages arrachées à un cahier. C’est seulement après sa dissémination à l’international, et parce qu’une édition en russe, notamment, avait vu le jour, qu’un expert informatique russe, rompu à l’imagerie high tech, se manifestera, pour proposer ses services et déchiffrer le reste du manuscrit. Il avait entendu parler du texte tandis qu’il écoutait une émission de radio, et pensait que l’#imagerie dernier cri saurait faire des miracles. Il avait raison.

    ... Contrairement à l’image qui est longtemps restée, les #Sonderkommandos n’ont joué aucun rôle direct dans l’assassinat des #Juifs_déportés : tenace, ce lieu commun n’a aucune prise avec la réalité historique. Pour la bonne raison, explique encore Tal Brutmann, que ces déportés-là aussi étaient destinés à être assassinés, le moment venu : “Les nazis n’ont jamais confié les moyens d’assassiner à des Juifs puisque les Sonderkommandos aussi devaient mourir, parce qu’eux aussi était juifs.” En octobre 1944, près de six cents membres des Sonderkommandos seront assassinés, après qu’un groupe, composé notamment de Grecs, ait entrepris de se révolter. La moitié seront tués à titre de représailles. Pas #Marcel_Nadjary, qui survivra à la défaite nazie et témoignera en 1947 à nouveau.

    Téléphone arabe

    Son témoignage, écrit en grec mais ponctué de ce qu’on appelle "la #langue_des_camps", n’avait jamais été traduit en français, mais seulement en anglais, en russe et en polonais. Or en France, l’idée était restée, dans un sillage tenace, que les Sonderkommandos avaient bénéficié de privilèges au bénéfice de leur rôle au premier rang de la machine d’#extermination nazie. Au point que les #témoignages des Sonderkommandos ont longtemps suscité de la méfiance, et pendant les années qui suivirent la Libération, ces récits ont d’abord été accueillis avec méfiance par les #historiens. S’ils avaient témoigné, n’était-ce pas qu’ils avaient mieux survécu ? C’était en réalité oublier que, comme celui de Nadjary, ces témoignages avaient traversé le temps à la faveur d’un enfouissement précaire dans le sol, ou encore que l’immense majorité de ces travailleurs préposés à des tâches qu’ils n’avaient pas choisies n’étaient pas consentants, et massivement liquidés précisément parce que les nazis entendaient maintenir le #secret le plus durable sur le processus d’extermination. C’est en particulier le récit de Primo Levi qui, auprès du lectorat français et bientôt de l’opinion publique, a contribué à prolonger le doute sur la fiabilité d’un témoignage comme celui de Marcel Nadjary. Si les Sonderkommandos n’étaient pas responsables de ce qu’ils avaient dû faire, n’avaient-ils pas été un rouage de la machine de mise à mort nazie ? Un véritable exemple de “téléphone arabe”, analyse en fait a distance Tal Brutmann, qui explique Primo Levi se trouvait en réalité détenu dans une toute autre zone du camp d’Auschwitz, où l’information circulait mal et où des rumeurs pouvaient se frayer un chemin, à la faveur de mauvaises informations, ou de l’angoisse.

    Or le témoignage de Marcel Nadjary est au contraire décisif pour accéder à un savoir plus empirique sur l’histoire des #chambres_à_gaz. Lui qui croit qu’il va mourir, au moment où il s’adresse par écrit à ses amis à la manière d’un geste de testament, se donne pour tâche de décrire avec précision le mécanisme de l’extermination. Il inclut à son texte des informations précises, techniques, mais aussi chiffrées : comme le souligne Serge Klarsfeld, qui préface cette édition française de Nadjary qui paraît chez Signes et balises, c’est lui qui parvient à s’approcher, plus que bien d’autres, du chiffre le plus proche du nombre des victimes juives à Auschwitz. Nadjary, bien sûr, se trompe, lui qui n’a passé que six mois au seuil du Crématoire III : il évoque 1 400 000 #Juifs assassinés, là où le nombre exact sera de 1 052 000 pour le seul camp d’Auschwitz. Mais davantage que bien des statisticiens qui s’efforceront de prendre la mesure de l’assassinat de masse durant cinquante ans, c’est lui qui collera le plus près à la réalité. C’est aussi lui qui décrira des comportements, des façons de faire, qui permettent aujourd’hui d’approcher au plus proche de ce que fut le tri des déportés sur la rampe à la descente du train, ou encore la manière dont le gaz était utilisé : libéré ensuite par des trappes, nous apprend son manuscrit, le #gaz était transporté jusqu’au crématoire dans un véhicule de la Croix rouge allemande affrété par deux soldats SS.

    “Les rouleaux d’Auschwitz”

    Né en 1917 à Thessalonique, Nadjary finira sa vie à New-York, où il est mort en 1971, vingt ans après avoir émigré. Son manuscrit, des six témoignages laissés par les Sonderkommandos qui aient pu être retrouvés à ce jour, est le seul qu’on doive à un #Grec. Or en Grèce, cette mémoire de la Shoah est longtemps restée un territoire méconnu, en même temps qu’une trace largement enfouie, bien que des historiens comme Raul Hilberg, par exemple, aient pu estimer que 85% de la population juive de Grèce ait péri dans la Shoah. “Un taux comparable à la Pologne”....

    #nazisme #camps_d'extermination #histoire #radio #livre

    edit le témoignage de Nadjary est utilisé au théâtre dans C’était un samedi https://seenthis.net/messages/1015526

  • Communiqué de rentrée de la CGT Paris 8 : Retailleau, taille-toi !
    https://academia.hypotheses.org/51849

    Vendredi 8 septembre, dernier jour de la semaine de rentrée, le gouvernement choisit d’annoncer la forme que va prendre la poursuite de sa destruction méthodique de l’université pour la saison 2023–2024. Mettre les universités financièrement toujours plus à genoux Nous … Continuer la lecture →

    #Expression_syndicale #Opinions,_motions,_propositions,_expression_syndicale #austérité #Sylvie_Retailleau #Université_Paris_8

  • #Université_Grenoble_Alpes : “Cher président, l’heure est à la reconnaissance d’un plan d’urgence”
    https://academia.hypotheses.org/51534

    Le 30 août 2023, le président de l’Université Grenoble Alpes s’est adressé à ses “chères et chers collègues” pour leur souhaiter “une bonne rentrée et une bonne année universitaire”, mais également pour “marque[r] la concrétisation de nombreux succès obtenus par … Continuer la lecture →

    ##ResistESR #Billets #Enseignement #Pratiques_de_l'emploi #Santé_au_travail #austérité #santé_au_travail

  • Quand l’obligation du #casque #Vélo est mauvaise pour la santé
    http://carfree.fr/index.php/2023/09/04/quand-lobligation-du-casque-velo-est-mauvaise-pour-la-sante

    Périodiquement, la question du port du casque vélo obligatoire pour les #cyclistes revient dans le débat public, en général via des hommes politiques qui n’y connaissent rien en matière de Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Insécurité_routière #australie #sécurité_routière

    • une récente réanalyse de toutes les grandes études portant sur l’efficacité des casques a mis en évidence un important biais de publication dans les évaluations précédentes. La plupart des casques réduisent le risque de blessure à la tête de 15 % s’ils sont portés correctement.

      Les #casques offrent donc une certaine protection, mais l’environnement routier est bien plus important.

      Le principal écueil de la législation sur le port du casque est qu’elle décourage les gens de faire du #vélo.

      En termes de sécurité, il existe un phénomène appelé « sécurité du nombre ». Plus il y a de cyclistes, plus nos routes sont sûres pour eux. Les conducteurs s’habituent à voir des cyclistes et adaptent leur comportement, et les infrastructures ont tendance à être améliorées pour mieux répondre aux besoins des cyclistes. Même si les cyclistes portent un casque, ils sont moins en sécurité s’il y a moins de cyclistes sur la route que s’il y en a plus.

      [...]

      Les avantages de l’activité physique pour la santé sont particulièrement importants. Une vaste étude menée au Danemark a montré que la pratique du vélo pendant seulement trois heures par semaine pour se rendre au travail réduisait de 39 % le nombre de décès (toutes causes confondues, y compris les maladies cardiaques) par rapport aux non cyclistes, en tenant compte d’autres activités physiques de loisir et d’autres facteurs explicatifs.

      Une analyse récente a comparé les risques et les avantages qu’il y a à laisser sa voiture à la maison et à se déplacer à vélo. Elle a révélé que l’espérance de vie gagnée grâce à l’activité physique était bien plus élevée que les risques de pollution et de blessure liés à l’utilisation du vélo.

      #santé

  • « Replacer les disparus parmi les vivants » - Les mots sont importants (lmsi.net)

    Un bel entretien avec l’amie Irène Bonnaud

    https://lmsi.net/Replacer-les-disparus-parmi-les-vivants

    Du 9 au 30 septembre, le Théâtre du soleil accueille, pour le spectacle C’était un samedi, le KET, un très important lieu de création artistique et de résistance politique fondé et animé par Dimitris Alexakis et Fotini Banou à Athènes. C’est au KET qu’a été monté ce spectacle consacré à l’histoire et à la déportation de la communauté romaniote de Ioannina, l’une des plus anciennes communautés juives d’Europe : « Conçue et mise en scène par la traductrice et metteure en scène Irène Bonnaud, la partition interprétée par l’artiste grecque exhume avec délicatesse la tragédie d’hier pour replacer les disparus parmi les vivants », écrit Anaïs Heluin. « Et tout cela au travers d’un simple monologue », écrit quant à lui George Sarigiannis : « la sensationnelle Fotini Banou, parmi onze petites sculptures expressives de Clio Makris, suscite des frissons d’émotion », tout au long d’un spectacle « ponctué de chants qu’elle interprète d’une voix cristalline, a cappella — romaniotes, séfarades, chants de l’Épire, rébétiko — et qui décuplent l’émotion ». « Ce "petit" spectacle », conclut George Sarigiannis, est un événement. Il faut absolument le voir ! J’espère qu’il sera repris et qu’il voyagera. » En guise d’introduction à ce spectacle que nous avions vu lors d’une précédente tournée l’an dernier, et que nous recommandons vivement nous aussi, nous reproduisons un entretien donné par la metteuse en scène Irène Bonnaud.

    #théâtre

    • C’était un samedi, entretien

      Les archéologues peuvent attester d’une présence juive en Grèce dès le troisième siècle avant l’ère chrétienne. On a trouvé des restes de synagogue sur l’île de Delos. Il y avait sûrement des communautés importantes dès l’époque hellénistique. Mais la légende locale à #Ioannina veut que ce soit Titus qui ait embarqué des Juifs de Palestine pour les vendre comme esclaves : le bateau aurait fait naufrage sur les côtes d’Epire et ces captifs juifs auraient fondé la ville. La plupart des historiens pensent qu’en vérité, ce sont des communautés installés plus au Sud de l’Epire, à Nikopolis par exemple, vers Preveza, ou Arta, qui se sont réfugiées à Ioannina pendant les guerres qui agitaient le Haut-Empire byzantin.

      C’est pour ça que la communauté de Ioannina est appelée « #romaniote », romaine : ça veut dire qu’elle était sujette de l’Empire romain d’Orient, qu’elle était byzantine, de langue grecque.

      Peut-être parce que Ioannina est une ville difficile d’accès, entourée par les hautes montagnes de l’Epire, peut-être par conservatisme provincial, son particularisme est resté fort alors que la plupart des communautés juives en Grèce avaient depuis longtemps adopté les rites séfarades. Avec l’arrivée dans les Balkans des Juifs chassés d’Espagne, puis du Portugal à partir du quinzième siècle, les petites communautés juives de Grèce se sont mises à parler judéo-espagnol, mais à quelques endroits, les rites romaniotes, et une #langue_judéo- grecque, du grec écrit en caractères hébreux, se sont maintenus : à Ioannina, à Chania en Crète, en Eubée, dans d’autres villes d’Epire comme Arta ou Preveza.

      [...] Les historiens estiment que 85% de la communauté juive grecque a été déportée et tuée. Bien sûr, c’est un petit pays, mais on parle d’une proportion de disparus aussi terrible qu’en Pologne ou en Lituanie.

      #histoire #extermination #chant #juifs

    • si vous êtes ou passez dans le coin de Paris, c’est « à ne pas manquer »

      Entourée de figurines en terre cuite réalisées par l’artiste d’origine grecque Clio Makris, Fotini Banou commence par chanter. Elle chantera souvent dans C’était un samedi, des morceaux de la communauté romaniote aux sonorités byzantines et d’autres en judéo-espagnol. À la manière d’une conteuse, elle porte aussi dans la première partie de la pièce une nouvelle de Dimitris Hadzis (1913-1981), un « communiste mélancolique » qu’Irène Bonnaud considère comme le plus grand écrivain grec. Le texte, qui décrit l’amitié de deux hommes de Ioannina, où vivaient les Romaniotes, prend vie au contact des sculptures. Il laisse bientôt place à des témoignages recueillis par Irène Bonnaud, parmi des rescapés rencontrés en Grèce, aux États-Unis et en Israël. En ramenant parmi nous une tragédie passée, C’était un samedi fait puissamment écho à la situation de la Grèce d’aujourd’hui.


      https://www.journal-laterrasse.fr/cetait-un-samedi-mis-en-scene-par-irene-bonnaud-nous-parle-des-ro

      #Dimitris_Hadzis #Marcel_Nadjary, #romaniotes #Auschwitz-Birkenau

    • C’était un samedi - Ressusciter la mémoire romaniote, un entretien filmé avec Irène Bonnaud

      "il ont quand même réussi à détruire un crématoire à Birkenau"
      https://akadem.org/magazine/magazine-culturel-2022-2023/ressusciter-la-memoire-romaniote/46863.php
      #audio #vidéo

      edit 30.9/2023 « Depuis Yom Kipour, le site Akadem fait face à une attaque massive.
      Cette agression d’une violence sans précédent a été lancée durant ce jour solennel ; une parfaite maîtrise du calendrier juif qui ne laisse aucun doute sur les motivations de ses auteurs.
      Toutes nos équipes sont actuellement mobilisées afin de rétablir au plus vite notre plateforme et l’ensemble de ses contenus.
      Akadem ne se laisse pas intimider : cette attaque immonde renforce notre détermination à mener à bien notre mission éditoriale. »

      l’entretien avec Irène Bonaud
      https://www.youtube.com/watch?v=XQMsO1Inw2Q

    • « C’était un samedi », plongée dans le massacre des juifs grecs durant la Shoah
      https://www.lemonde.fr/culture/article/2023/09/12/c-etait-un-samedi-plongee-dans-le-massacre-des-juifs-grecs-durant-la-shoah_6

      Irène Bonnaud met en scène, au Théâtre du Soleil, à Paris, l’occupation de la Grèce par les nazis, la déportation de la communauté juive et ses actions de résistance.Par Joëlle Gayot

      On ne perd jamais son temps au théâtre lorsqu’on y apprend des faits qu’on ne connaissait pas ou mal. C’était un samedi, que met en scène Irène Bonnaud au Théâtre du Soleil, à Paris, ravive un pan majeur de l’histoire du XXe siècle : l’extermination des juifs grecs par les nazis. Quatre-vingt-cinq pour cent de la communauté ont péri dans les camps. Ce sont pourtant ces déportés du Sonderkommando (unité de prisonniers forcés à participer au processus d’extermination) d’Auschwitz-Birkenau (Pologne) qui, le 7 octobre 1944, se révoltaient et détruisaient un four crématoire avec des outils de fortune.

      Ce que Primo Levi (1919-1987), détenu au même moment à Auschwitz III, commentait en ces termes : « Quelques centaines d’hommes, esclaves sans défense et sans force comme nous, ont trouvé en eux-mêmes l’énergie nécessaire pour agir. » Et c’est à l’un d’entre eux, Alberto Errera (1913-1944), que l’on doit l’existence de quatre photographies prises clandestinement à l’intérieur du camp. Ces gestes de résistance et de courage viennent conclure la représentation, comme le rappel d’une révolte possible même lorsqu’elle est suicidaire. Comme s’il s’agissait, pour Irène Bonnaud, de tordre le cou au tragique.

      Son spectacle est conçu en deux temps. D’abord un prologue avec le récit de l’écrivain grec Dimitris Hatzis (1913-1981), qui raconte la vie d’avant la Shoah, à Ioannina, dans la région de l’Epire (Grèce). Un quotidien bien ordonné, où juifs et chrétiens cohabitent mais où, déjà, l’inquiétude gagne. La nouvelle s’achève par la rupture entre Joseph Eliyia, un jeune poète communiste [qui organise, à Ionannina ! un hommage à Rosa Luxembourg !], et Sabethaï Kabilis, son « mentor ». Ce responsable autoproclamé du quartier juif chasse son élève plutôt que de le voir propager des mots qui menaceraient l’équilibre des siens.

      Témoignages conservés

      Disposées sur la scène, les marionnettes, conçues par l’artiste Clio Makris, ne bougent pas. Mais le sol, sous elles, s’affole littéralement. On distingue les images en noir et blanc d’une guerre qui se prépare : vision de soldats allemands défilant au pas cadencé, visage d’Adolf Hitler (1889-1945) haranguant les foules. Fotini Banou, l’actrice grecque qui porte le spectacle (surtitré), fait alors silence. Une autre séquence de jeu l’attend. Elle est écrite par Irène Bonnaud, partie en chasse des témoignages conservés des derniers survivants de la Shoah.

      Alors commence une sarabande infernale où les événements s’enchaînent avec une précision d’horloger : l’arrivée de l’armée allemande dans la ville d’Ioannina ; l’occupation de Thessalonique (Grèce) ; le début des humiliations (qui avaient souvent lieu le jour du shabbat, d’où le titre C’était un samedi) ; la résistance des jeunes, celle des communistes, l’aveuglement des notables, qui tentent de négocier avec les nazis, les réquisitions des maisons, la déportation et l’extermination.

      Ponctuée de chansons interprétées par Fotini Banou, la représentation se lance à pleine vitesse dans l’énoncé du pire. Elle le fait brutalement, en s’arc-boutant sur des dates, des chiffres et des noms. Il ne s’en dégage aucune émotion. Juste l’urgence de faire entendre les faits, pour que le drame ne tombe pas dans l’oubli. C’est cette nécessité et sa mise en œuvre rageuse que l’on retient avant tout de ce spectacle mémoriel où le théâtre pèche souvent par maladresse, quand le propos a, pour sa part, le tranchant d’une lame affûtée.

  • Sozialen Kahlschlag stoppen ! - Der Paritätische - Spitzenverband der Freien Wohlfahrtspflege
    https://www.der-paritaetische.de/stoppt-sozialkahlschlag
    Ca y est, les coupures du budget social au profit de la guerre sont officielles. Les pauvres et défavorisés seront massivement privés de soutiens pour se sortir de leur misère et le gouvernement Scholz pourra acheter des missiles et chars sans limites.

    Haushalt 2024: Drastische Sozialkürzungen

    Am 5. Juli hat die Bundesregierung den Haushalt für das kommende Jahr und damit drastische Kürzungen für soziale und zivilgesellschaftliche Organisationen beschlossen. Die Pläne zwingen zu massiven Einschnitten bei sozialen Angeboten: von Freiwilligendiensten über die psychosoziale Versorgung Geflüchteter bis hin zur Unterstützung Arbeitsuchender.

    Eine weitere massive Gefährdung der sozialen Infrastruktur vor Ort droht durch die Ausfälle, insbesondere bei den Gewerbesteuern, die das von Bundesfinanzminister Lindner vorgelegte Wachstumschancengesetz bewirken würde. Neben den gravierenden Steuerausfällen bei Bund und Land wären gerade die Kommunen von Steuerausfällen durch dieses Gesetz betroffen. Auf etwa 1,9 Milliarden Euro jährlich können sich die Einnahmeausfälle der Kommunen in den nächsten Jahren summieren, wird geschätzt. Würde das Gesetz beschlossen, könnten aber noch größere Steuerausfälle die Folge sein. Der Entwurf des Gesetzes liegt bereits vor, er soll bereits am 16. August 2023 im Bundeskabinett beschlossen werden. Das gilt es zu verhindern: Die Ausgaben für die Sozialpolitik vor Ort zählen zu den grundlegenden Bedarfen, um den sozialen Zusammenhalt zu sichern. Städte und Gemeinden sind vor allem Lebensorte, nicht nur Wirtschaftsstandorte.

    Im September beraten Bundestag und Bundesrat über die Pläne. Wir appellieren an alle Abgeordneten: Stoppen Sie den sozialen Kahlschlag!

    Es steht viel auf dem Spiel!
    Schreiben auch Sie an Ihre*n Bundestagsabgeordnete*n, um die Kürzungspläne noch zu stoppen! Nutzen Sie dazu unseren Musterbrief!

    Auf dem Bild ist rechts der Hauptgeschäftsführer des Paritätischen Gesamtverbandes, Ulrich Schneider, zu sehen und links in weißer Schrift vor blauem Hintergrund das folgende Zitat von ihm: „Wir können nicht schweigend dabei zusehen, wie eine rückschrittliche Austeritätspolitik soziale Infrastruktur schreddert.“

    Der im Bundeskabinett beschlossene Entwurf des Bundeshaushaltes 2024 enthält drastische Kürzungen für soziale und zivilgesellschaftliche Organisationen und zwingt zu massiven Einschnitten bei den Hilfen für besonders unterstützungsbedürftige Menschen. Bestehende Infrastruktur, die in Krisenzeiten eine kurzfristige Ausweitung der Kapazitäten ermöglicht, droht nachhaltig beschädigt zu werden oder gleich ganz verloren zu gehen. Würden die Pläne umgesetzt, wäre das verheerend: für die soziale Infrastruktur, für freiwilliges Engagement und das partnerschaftliche Miteinander - vor allem aber für unser Gemeinwesen und all jene Menschen, die in schwieriger Lebenslage auf Hilfe, Beratung, Unterstützung und einen stabilen Sozialstaat angewiesen sind. Das machen die folgenden Beispiele deutlich:

    Freiwilligendienste ermöglichen wichtige zusätzliche Hilfen in Kitas und Schulen, in Pflege, Naturschutz und Sport. In der Koalitionsvereinbarung der Bundesregierung ist deshalb u.a. das Versprechen formuliert, die Freiwilligendienste nachfragegerecht auszubauen, das Taschengeld zu erhöhen, den Internationalen Freiwilligendienst zu stärken und das „FSJ digital“ weiter auszubauen (S. 78). Tatsächlich plant das Bundesministerium für Familien, Frauen, Senioren und Jugend (BMFSFJ) im nächsten Jahr eine Kürzung dieser Angebote um 78 Millionen Euro. Das entspricht einem Viertel der bisherigen Förderung und würde zum Verlust von 25.000 bis 30.000 Plätzen führen.

    In ihrer Koalitionsvereinbarung betonen die Regierungsparteien, es sei „erforderlich, die psychosoziale Hilfe für geflüchtete Menschen zu verstetigen“ (S. 111). Tatsächlich wäre eine Ausweitung der Angebote notwendig, denn neben den aus der Ukraine flüchtenden Menschen, die keinen Asylantrag benötigen, hat sich auch die Zahl der Antragstellenden im Juni 2023 gegenüber dem Vorjahr um 88 Prozent erhöht. Ungeachtet dessen plant das BMFSFJ, die Hilfen um zehn Millionen Euro, etwa 60 Prozent der bisherigen Förderung, zu kürzen. Diese drastischen Kürzungen bedeuten, dass unterstützungsbedürftige Menschen keine Hilfen bekämen, dass bestehende Therapien abgebrochen werden und Angebote dauerhaft geschlossen werden müssten.

    An gleicher Stelle betonten die Regierungsparteien, dass sie die Migrationsberatung des Bundes künftig „angemessen
    fördern“ und „Berufssprachkurse stärker fördern und die Mittel verstetigen“ werden. Tatsächlich plant das Bundesministerium des Inneren, die Mittel im nächsten Jahr von 81 Millionen auf 57 Millionen Euro um annähernd 30 Prozent zu reduzieren. Das steht im direkten Widerspruch zu der in diesem Jahr erfolgten Erweiterung der Zielgruppe auf alle Geflüchteten aus der Ukraine, alle Asylbewerber*innen und Menschen, die nach dem jüngst beschlossenen Fachkräfteeinwanderungsgesetz nach Deutschland kommen.

    Die Koalitionsvereinbarung enthält die Zusage, „eine flächendeckende, behördenunabhängige Asylverfahrensberatung“ (S. 111) einzuführen. Die Antragsmöglichkeit für die Finanzierung solcher Angebote durch die Freie Wohlfahrtspflege und andere zivilgesellschaftliche Organisationen wurde gerade erst im Jahr 2023 geschaffen. Jetzt plant die Bundesregierung, die für das nächste Jahr vorgesehenen Mittel zu halbieren. Die Organisationen, die sich um die Umsetzung der politischen Ziele bemühen, würden damit gezwungen, gerade erst geschaffene Angebote zu reduzieren oder ganz zu streichen. Der unabhängigen Asylverfahrensberatung, noch am Anfang stehend, droht bereits wieder das Ende.

    Ähnlich verhält es sich mit der Einführung des Bürgergeldes. Kaum sind am 1. Juli 2023 Neuregelungen in Kraft getreten, werden die Mittel zur Umsetzung der erklärten Ziele gekürzt oder gestrichen. Die Regierungsparteien hatten in ihrer Koalitionsvereinbarung (S. 60 f.) zugesagt, die Förderung der Weiterbildung und Qualifizierung zu stärken und den Eingliederungs- und Verwaltungstitel so auszustatten, dass eine „passgenaue und ganzheitliche Unterstützung“ mit einem „ausreichend dimensionierten Betreuungsschlüssel“ erfolgt. Seitdem sind die Berechtigtenzahlen zwischen Mai 2022 und Juni 2023 um 600.000 Menschen gewachsen. Die Chefin der Bundesagentur für Arbeit, Andrea Nahles, beziffert das
    Volumen der aus den Haushaltsplanungen folgenden Einschnitte auf 700 Millionen Euro. Da die verbleibenden Mittel vorrangig für die Verwaltungskosten der Jobcenter verausgabt werden, fehlt das Geld vor allem bei den Hilfen für die Betroffenen. Unter den Umständen ist zu erwarten, dass insbesondere die qualitativ hochwertigen Maßnahmen der gemeinnützigen Träger keine Zukunft mehr hätten. Die dadurch verloren gehenden Strukturen würden künftig dauerhaft fehlen.

    Das BMFSFJ und die Bundesarbeitsgemeinschaft der Freien Wohlfahrtspflege sind eine strategische Partnerschaft zur sozialen Gestaltung der digitalen Gesellschaft als wichtigen Beitrag zur Umsetzung der digitalen Agenda des BMFSFJ eingegangen. Auch die Regierungsparteien formulieren in ihrer Koalitionsvereinbarung, dass die Wohlfahrtsverbände „wichtige Partner bei der Förderung des gesellschaftlichen Engagements und Zusammenhalts“ (S. 61) sind. Trotz der ausgezeichneten Ergebnisse der externen Evaluation sollen die dafür vorgesehenen Fördermittel zum Jahreswechsel vollständig gestrichen werden.

    Der Widerspruch zwischen getroffenen Zusagen und erklärten Zielen der Regierungsparteien einerseits und den künftigen Haushaltsplanungen andererseits treffen zivilgesellschaftliche und gemeinnützige Organisationen in einer besonders schwierigen Situation. Sie leiden noch heute unter den Folgen von Pandemie und Inflation, darüber hinaus berücksichtigen die bestehenden Finanzierungen die berechtigten Tarifsteigerungen noch nicht. Die Effekte der geplanten Kürzungen würden dadurch nochmal verstärkt. Angebotseinschränkungen und Betriebsschließungen wären die
    Folge. Die Bundesregierung betont in der Koalitionsvereinbarung: „Die gemeinnützigen Wohlfahrtsverbände sind eine wichtige Stütze der
    Daseinsvorsorge, wir wollen für sie weiterhin verlässliche Partner sein“ (S. 81). Die vorliegenden Pläne sind das Gegenteil einer verlässlichen Partnerschaft.

    Der Paritätische Gesamtverband bittet die Abgeordneten der Bundestagsfraktionen von Bündnis 90/Die Grünen, CDU/CSU, FDP, Die Linke und SPD, Ihren Einfluss zu nutzen, um die geplanten Kürzungen abzuwenden und die drohenden Einschnitte zu verhindern. Angesichts der gewachsenen sozialen Ungleichheiten und der immer schärfer werdenden politischen Konfliktlinien hätten die geplanten Einschnitte fatale Folgen. Dazu darf es nicht kommen.

    #Allemagne #guerre #austérité

  • Progetto Zinco Gorno

    La vidéo commence avec la voix-off d’un vieux monsieur (#Sergio_Fezzioli, ex mineur), qui dit comment c’était beau quand la minière était ouverte. Et que depuis qu’elle est fermée, il n’y a maintenant qu’un « silence profond ».
    « J’ai beaucoup cru dans la minière », dit-il, et il ne pensait pas qu’un jour ils allaient les ré-ouvrir...

    Le maire de Oltre il Colle, Valerio Carrara, dit que la municipalité est née « sur les minières », jusqu’à il y a 30-40 où elles fonctionnaient encore « parfaitement ». A l’époque, Oltre il Colle avait environ 2000 habitants, puis depuis la fermeture des mines (1984), la commune a connu un dépeuplement.

    #Giampiero_Calegari, maire de Gorno :


    Il explique que Gorno est jumelée (depuis 2003) avec la commune de #Kalgoorlie (#Kalgoorlie-Boulder), en #Australie, ville minière :
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Kalgoorlie

    Le jumelage a été fait car par le passé beaucoup d’habitants du Gorno ont émigré en Australie pour travailler dans les minières d’or.
    Le maire dit que quand ils ont été en Australie pour le jumelage, en 2003, « nous ne pensions pas à ce futur industriel à Gorno ». « Cela semble un signe du destin que nous sommes allés en Australie pour se souvenir de nos mineurs qui ont travaillé dans les minière d’or et maintenant l’Australie vient à Gorno pour faire quelque chose d’intéressant », dit le maire. « Nous avons le passé, le présent et le futur. Pour le futur nous avions un gros point d’interrogation et aujourd’hui on essaie d’interpréter ce point d’interrogation, de le transformer en une proposition. Nous sommes convaincus que ça apportera des bénéfices à notre petite commune ».

    Selon le maire de Oltre il Colle, la population a perçu le projet de manière positive, car depuis 2 ans qu’ils sont en train de préparer la réouverture des mines « ils ont apporté des retombées économiques importantes »

    #Marcello_de_Angelis, #Energia_Minerals_Italia


    de Angelis dit que Energia Minerals ont été « complètement adoptés par les gens du lieu », car ils sont « très très cordiaux » et car « ils voient les possibilités de développement de ces vallées ».
    A Gorno « on fait quelque chose qui est très compatible avec l’#environnement ». Il vante des technologies « éco-compatibles ».

    Le directeur des « opérations », l’ingénieur #Graeme_Collins


    Collins explique qu’il est difficile de trouver des collaborateurs italiens, car cela fait longtemps que les minières ont été fermées en Italie. Et que pour l’heure ils comptent sur du personnel qui vient notamment d’Angleterre et d’Allemagne, mais que dans le futur c’est leur intention de « monter une opération qui sera gérée totalement par du personnel italien ».

    #Simone_Zanin :

    Le maire de Oltre il Colle explique comment la rencontre avec tous (il souligne le « tous ») les dirigeants de Energia Minerals a été positive : des gens très sérieux, très déterminés, très pragmatiques. « Ils sont entrés en syntonie avec notre manière de vivre ». Et l’administration a vu immédiatement les potentialités : les places de travail.

    https://vimeo.com/202730506

    La vidéo existe aussi en anglais :
    https://vimeo.com/202722268

    #Oltre_il_Colle #mines #extractivisme #Italie #Alpes #montagne #Gorno #zinc #Valerio_Carrara #Lombardie #histoire #tradition #Energia_Minerals #Zorzone #technologie #impact_environnemental #plomb

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Außenministerin war auf Weg nach Australien : Baerbock sitzt nach Flugzeugpanne in Abu Dhabi fest
    https://www.tagesspiegel.de/politik/aussenministerin-auf-weg-nach-australien-gestrandet-baerbock-sitzt-nach

    Quand on s’intéresse à la politique on rencontre parfois des chiffres impressionnants qui frôlent l’absurde. Ici c’est la maniére de dépenser de l’argent pour la mise en scène du personnage de notre ministre des affaires extérieures connue pour sa sagesse qui bat Chuck Norris à tous les niveaux.

    D’abord on la fait voyager dans un Airbus assemblé avec amour par les petites mains habiles d’ouvre:ièr:e:s toulousain:e:s. Cela aurait été un bon plan s’il n’y avait pas eu l’entretien de l’engin par les spécialistes de la Bundeswehr connus pour avoir augmenté ces dernières années la disponibilité de nos Eurofighters prèsque neufs à 70 pour cent. Autrement dit on peut compter avec trois interruptions de voyage de notre brillante ministre sur dix décollages.

    Passon sur les dizaines de milliers que la ministre facture chaque année au contribuable pour ses coiffeu:ses:rs et visagistes. Son voyage chez les assassins de Ned Kelly et leurs voisins pulverise des sommes nettement plus intéressantes. En bonne hypocrite verte elle ne partage pas les fauteuils étroits de première classe avec son équipe sur un vol de ligne mais elle profite de son Airbus personnel. Il faut bien dépenser les milliards d’Euros que son gouvernement a emprunté pour mener des guerres pendant qu’il soumet les enfants et retraités du pays aux mesures d’austérité systématiques digne d’une Margaret Thatcher.

    On pourrait continuer encore longtemps à dénoncer et ridiculiser la bêtise inhumaine de ce gouvernement. Sans exception chaque décision qu’il prend nuit aux intérêts des gens ordinaires et profite au capital transatlantique.Il faudrait arrêter de s’en moquer. Il faudrait commencer à terminer ce foutage de geule.

    14.9.2023 - Baerbock sitzt nach Flugzeugpanne in Abu Dhabi fest

    Wegen eines Defekts der Landeklappen ist die Außenministerin in Abu Dhabi gestrandet. Ihr Reiseplan ist durcheinandergewirbelt. Es ist nicht die erste Panne bei einem Regierungsflieger.

    Erneute Flugzeugpanne für Außenministerin Annalena Baerbock: Nach einer Zwischenlandung zum Auftanken in Abu Dhabi in den Vereinigten Arabischen Emiraten musste die Grünen-Politikerin am frühen Montagmorgen ihren Flug zu einer einwöchigen Reise nach Australien, Neuseeland und Fidschi abbrechen.

    Ein Sprecher des Auswärtigen Amts hatte zuvor an Bord erklärt: „Wegen eines mechanischen Problems müssen wir aus Sicherheitsgründen nach Abu Dhabi zurückkehren.“ Das Flugzeug landete um 5.33 Uhr Ortszeit (3.33 Uhr MESZ) wieder sicher in Abu Dhabi.

    Im Laufe des Tages soll entschieden werden, wann Baerbock ihre Reise in die Pazifik-Region fortsetzen kann. Unter anderem wegen der gesetzlich vorgeschriebenen Ruhezeiten der Flugzeugbesatzung wurde bei dem erzwungenen Zwischenstopp nicht damit gerechnet, dass sie noch im Laufe des Montags mit der Flugbereitschaft der Bundeswehr weiterfliegen kann.

    Auf dem Flughafen von Abu Dhabi prüften mitgereiste Techniker, ob der Defekt mit Bordmitteln zu beheben ist, Ersatzteile beschafft werden müssen oder ob eine Ersatzmaschine von Köln/Bonn, dem Standort der Flugbereitschaft, zum Golf-Emirat geflogen werden muss.

    Die Regierungsmaschine, ein Airbus A340-300, steht auf dem Flughafen von Abu Dhabi.
    Die Regierungsmaschine, ein Airbus A340-300, steht auf dem Flughafen von Abu Dhabi.

    Denkbar war auch, dass Baerbock mit einem kleinen Teil der Delegation einen Linienflug nimmt und der Rest der Mitreisenden mit einer Regierungsmaschine nachkommt.. Allerdings starten Linienflüge erst am Montagabend nach Australien.

    Das Flugzeug war nach einer Zwischenlandung zum Auftanken in Abu Dhabi um 3.33 Uhr Ortszeit wieder gestartet. Drei Minuten später wurde das Problem in der Luft bemerkt und der Flieger musste aus Sicherheitsgründen zurückkehren.

    Der Flugkapitän hatte zuvor über den Bordlautsprecher darüber informiert, dass es Probleme beim Einfahren der Landeklappen gebe.

    Um sicher in Abu Dhabi landen zu können, musste zunächst Treibstoff abgelassen werden. Der Airbus war für die lange Strecke mit 110 Tonnen Kerosin betankt. Davon mussten 80 abgelassen werden.

    Das Flugzeug war mit einem maximalen Startgewicht von 271 Tonnen gestartet. Für die Landung musste es auf ein Gewicht von unter 190 Tonnen kommen.

    Hintere Landeklappen defekt

    Nach der Landung begleitete die Flughafenfeuerwehr den Airbus. Der Flugkapitän sprach von einer normalen Landung, die für eine solche Situation im Simulator geübt werde. Er habe die Begleitung durch die Feuerwehr nicht beantragt.

    Der Kapitän sagte, er sei seit 35 Jahren Pilot und seit 30 Jahren bei der Flugbereitschaft. Ein solcher Fehler sei in der ganzen Zeit noch nicht aufgetreten.

    Den Angaben zufolge war eine der beiden hinteren Landeklappen defekt. Aus diesem Grund konnten diese nicht symmetrisch eingefahren werden. Dies erhöhte den Kerosinverbrauch. Zudem konnten weder die Reiseflughöhe noch die normale Reisegeschwindigkeit erreicht werden.

    Baerbocks Flugplan verschiebt sich deutlich

    Baerbock selbst wollte sich zunächst nicht öffentlich zu dem Vorfall äußern. Es wurde aber davon ausgegangen, dass sie die Reise fortsetzen will.

    Ursprünglich wollte die Außenministerin am Dienstagabend von der australischen Hauptstadt Canberra nach Sydney weiterfliegen. Am Donnerstagmorgen Ortszeit war der Weiterflug nach Neuseeland geplant. Noch am Donnerstagabend sollte es nach Fidschi weitergehen. Baerbock war am Sonntag zu einer einwöchigen Reise in die Pazifikregion aufgebrochen.

    Es ist nicht das erste Mal, dass die Außenministerin auf ihren Reisen aufgehalten wird. Erst Mitte Mai war Baerbock wegen eines Reifenschadens an ihrem Regierungsairbus in Doha im Wüsten-Emirat Katar gestrandet und musste ihre Reise in die Golfregion unfreiwillig verlängern.
    Bereits mehrere Pannen bei Regierungsfliegern

    Doch auch andere Regierungsmitglieder mussten bereits wegen Pannen an einer Maschine der Flugbereitschaft der Bundeswehr unplanmäßige Aufenthalte in Kauf nehmen.

    Beispielsweise musste der Luftwaffen-Airbus „Konrad Adenauer“ im November 2018 mit der damaligen Kanzlerin Angela Merkel (CDU) und dem damaligen Finanzminister Olaf Scholz (SPD) an Bord auf dem Weg zum G20-Gipfel in Buenos Aires umkehren. Unter anderem war das Funksystem lahmgelegt. Beide flogen Linie nach Argentinien.

    Im Oktober 2018 knabberten zudem Nagetiere bei einem Stopp in Indonesien wichtige Kabel der „Adenauer“ an. Scholz kehrte damals per Linienflug von der Tagung des Internationalen Währungsfonds zurück.

    Im Dezember 2016 strandete die damalige Verteidigungsministerin Ursula von der Leyen (CDU) auf dem Weg nach Mali. Wegen eines Computerproblems bei ihrem A340 in der nigerianischen Hauptstadt Abuja musste sie dort übernachten.

    Baerbocks jüngster Flug nach Australien war ursprünglich mit der Schwestermaschine der früheren „Konrad Adenauer“ geplant, einer nahezu baugleichen A340-300. Diese war jedoch ebenfalls kaputt. (dpa)

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    • Defekte am Regierungsflieger Baerbock bricht Pannenreise nach Australien ab
      https://www.spiegel.de/politik/deutschland/annalena-baerbock-bricht-pannen-reise-nach-australien-ab-a-0dfee713-b344-410
      C’est la fin. Même notre super-intelligente ministre des affaires extérieures ne peut rien y changer. Vol de ligne.
      https://www.youtube.com/watch?v=6FMGYycBAMU&pp=ygUNZG9vcnMgdGhlIGVuZA%3D%3D

      15.08.2023, 06.34 Uhr
      - Es geht nicht weiter: Nach zwei Pannen an der Regierungsmaschine hat Annalena Baerbock ihre geplante Reise nach Australien abgesagt. Die in Abu Dhabi gestrandete Außenministerin kehrt nun nach Berlin zurück – per Linienflug.

      Nach den wiederholten Pannen mit ihrem Regierungsflugzeug bricht Außenministerin Annalena Baerbock ihre geplante Reise zu einem einwöchigen Besuch in der Pazifik-Region ab. »Wir haben bis zuletzt geprüft und geplant, aber leider war es nicht mehr möglich, die geplanten Reisestationen der Indo-Pazifik-Reise nach dem Ausfall des Flugzeugs der Flugbereitschaft mit den noch verfügbaren Optionen logistisch darzustellen«, sagte ein Sprecher des Auswärtigen Amts am Dienstagmorgen.

      Da die Landeklappen nicht wie nötig vollständig und synchron eingefahren werden konnten, konnte das Flugzeug die normale Reiseflughöhe und -geschwindigkeit nicht erreichen – der Kerosinverbrauch auf der langen Strecke nach Australien wäre deutlich gestiegen. Da das Flugzeug für den knapp 14-stündigen Flug vollgetankt war, musste das Gewicht für die Landung stark reduziert werden.

      Ein zweiter Versuch scheiterte in der Nacht. Der Flieger war nach dem Start um 1.00 Ortszeit (23.00 Uhr MESZ) in Abu Dhabi zu Anfang zwar gestiegen, nahm aber kein Tempo auf. 15 Minuten nach dem Abheben drehte der Airbus vom Typ A340-300 dann erneut vom Kurs ab und flog zurück in Richtung des Wüstenemirats, wo er schließlich um 2.57 Uhr Ortszeit wieder landete.

      Laut Angaben aus ihrer Delegation hätte Baerbock wegen der defekten Luftwaffen-Maschine eigentlich am Vormittag von der Hauptstadt der Vereinigten Arabischen Emirate, Abu Dhabi, mit ihrem Tross per Linienflug direkt zur australischen Metropole Sydney aufbrechen sollen. Doch das erwies sich offenkundig als nicht praktikabel.
      Schwere Entscheidung

      Noch in der Nacht waren Baerbocks Delegation und die mitreisenden Journalisten gebeten worden, sich zur Abfahrt zum Flughafen um 08.00 Uhr in der Lobby des Hotels zu treffen. Die zu diesem Zeitpunkt völlig überraschende Entscheidung zum Abbruch der Reise fiel erst, als der gesamte Tross bereits abfahrbereit in der Lobby stand.

      Aus der Delegation war von einer am Ende schweren Entscheidung die Rede. »Das ist alles sehr misslich«, hieß es. In den kommenden Monaten werde es darauf ankommen, den entstandenen Schaden wieder gutzumachen. So müssten voraussichtlich hochrangige Beamte nach Australien, Neuseeland und Fidschi zu Gesprächen und wichtigen Terminen reisen. Die abgebrochene Reise müsse nachgearbeitet werden. Der Indo-Pazifik bleibe Schwerpunkt für die Bundesregierung.

      Baerbock war am Sonntag zu einer einwöchigen Reise nach Australien, Neuseeland und Fidschi aufgebrochen. Auch bei der Golfreise der Außenministerin im Mai hatte es technische Probleme mit der Regierungsmaschine gegeben . Damals musste Baerbock ihren Aufenthalt im Emirat Katar um einen Tag verlängern, weil der Luftwaffen-Airbus wegen eines platten Reifens nicht wie geplant den Rückflug antreten konnte.