• Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

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    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

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    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

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    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

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    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

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    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/11/24/l-asile-climatique-propose-par-l-australie-aux-habitants-des-tuvalu-suscite-

    L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    Par Isabelle Dellerba(Sydney, correspondance)
    Publié hier à 08h00, modifié hier à 17h06
    Ce pacte aurait pu représenter un modèle de bon voisinage. Vendredi 10 novembre, l’Australie et l’Etat du Tuvalu, dans le Pacifique Sud, ont dévoilé les termes d’un accord historique qui prévoit que Canberra s’engage à offrir l’asile climatique aux 11 000 citoyens du petit archipel à fleur d’eau, menacé d’être englouti par les flots avant la fin du siècle. Mais le texte, qui doit encore être ratifié par les deux parties pour entrer en vigueur, suscite des controverses dans cette région du monde où la crise climatique représente une menace existentielle pour tous les Etats insulaires de faible altitude.
    Son volet migratoire ne pose pas particulièrement question. L’accord prévoit que, chaque année, 280 citoyens tuvaluans se verront offrir un visa spécial qui leur permettra de « vivre, étudier et travailler » en Australie, mais aussi d’« accéder aux systèmes éducatifs, de santé et aux principaux dispositifs de soutien aux revenus et à la famille dès leur arrivée ». Le gouvernement travailliste dirigé par Anthony Albanese a ainsi répondu à la demande de l’Etat polynésien. « Nous voulons négocier des accords d’amitié avec des pays partageant nos valeurs, tels que les Fidji, la Nouvelle-Zélande et l’Australie, pour que nos citoyens puissent y vivre sans renoncer à leur nationalité et y bénéficier des mêmes avantages socio-économiques que le reste de la population », expliquait récemment au Monde le ministre des finances et du changement climatique des Tuvalu, Seve Paeniu.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Kioa, une île refuge pour les habitants des Tuvalu menacés par la montée des eaux
    Il s’agit du premier accord bilatéral conclu spécifiquement axé sur la mobilité climatique. Il a été salué par le chef du gouvernement de l’archipel, Kausea Natano, comme « une véritable lueur d’espoir » pour son pays, composé de récifs coralliens et d’atolls d’une hauteur moyenne de deux mètres au-dessus de la mer et déjà fréquemment inondés par des vagues-submersion. « Pour les Tuvaluans, ce pacte, c’est un peu comme un masque à oxygène dans un avion. Vous espérez qu’il ne tombe jamais, mais si vous en avez besoin, vous êtes très content qu’il soit là », abonde Jane McAdam, directrice du Centre Kaldor pour le droit international des réfugiés, qui évoque un texte « fondateur ».
    Le problème réside dans l’autre volet de l’accord. Après l’article 3, consacré à « la mobilité humaine dans la dignité », l’article 4 porte sur les questions de sécurité. Si l’Australie s’y engage à venir en aide aux îles Tuvalu en cas d’agression militaire, de catastrophe naturelle ou encore de pandémie, elle obtient aussi son mot à dire sur « tout partenariat, accord ou engagement » que l’archipel voudrait conclure avec d’autres Etats ou entités sur les sujets de sécurité et de défense. « Ces questions comprennent, mais ne se limitent pas à, la défense, la police, la protection des frontières, la cybersécurité et les infrastructures critiques, y compris les ports, les télécommunications et les infrastructures énergétiques », énonce le texte.« En échange de ces 280 places par an, l’Australie a obtenu un pouvoir de veto sur nos priorités de sécurité. Elle a abusé de sa position de force, c’est injuste. Et notre population n’a même pas été consultée », déplore notamment Maina Talia, un militant pour le climat tuvaluan reconnu sur la scène régionale. Les pays occidentaux « traitent les nations insulaires comme des pions pour contrer l’influence de la Chine », a dénoncé le Global Times, un quotidien proche du pouvoir chinois, le 14 novembre.
    Dans ce Pacifique Sud, où Pékin et Washington se livrent une lutte d’influence sans merci, Canberra a donné l’impression d’être davantage motivé par ses intérêts stratégiques que par une volonté sincère de soutenir son minuscule voisin rongé par l’océan. Cet accord est d’autant plus critiqué que l’Australie, troisième plus grand exportateur de combustibles fossiles au monde, n’a rien du bon élève en matière de lutte contre les émissions de gaz à effet de serre. « Le nouveau pacte signé par l’Australie avec Tuvalu n’est qu’une solution de fortune qui n’aborde en rien la crise climatique alimentée par les combustibles fossiles », a dénoncé Lagi Seru, membre du bureau régional de Greenpeace, dans un communiqué publié le 11 novembre. Les Etats insulaires demandent à l’Australie, qui souhaite organiser la COP31, de renoncer à accorder de nouvelles licences pour l’exploitation du charbon, du pétrole et du gaz.
    Si ce pacte n’est pas perçu comme un modèle, il n’en demeure pas moins précieux pour le gouvernement des Tuvalu qui, face au risque de disparition, explore toutes les pistes possibles pour assurer l’avenir de sa population. Afin qu’elle puisse rester chez elle, il a élaboré un plan d’adaptation à long terme destiné à créer une terre, élevée et sûre, de 3,6 kilomètres carrés – l’Australie s’est engagée à l’aider sur ce projet. Le gouvernement des Tuvalu a également entrepris des démarches pour que l’ensemble de l’archipel soit reconnu comme un site du patrimoine mondial de l’Unesco et mieux protégé.
    Etant parfaitement conscient que ces efforts pourraient s’avérer insuffisants, il prépare aussi un futur sans terres émergées. Offrir un refuge à ses habitants était l’une de ses priorités. D’autre part, il a engagé des actions, au niveau juridique, pour que son Etat conserve, quoi qu’il arrive, une existence légale et sa souveraineté sur l’ensemble du territoire, y compris maritime. Enfin, il planche sur la création d’un Etat déterritorialisé, dans le monde virtuel, pour sauvegarder ses archives comme son patrimoine culturel, mais aussi pour que ses ressortissants, même s’ils sont dispersés dans des pays tiers, puissent continuer à bénéficier de services étatiques et restent des citoyens tuvaluans à part entière.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#ilestuvalu#refugieclimatique#asileclimatique#etat#droit#souverainete

  • L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/10/l-australie-offre-l-asile-climatique-aux-citoyens-de-tuvalu_6199315_3210.htm

    L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux.
    Canberra a annoncé offrir aux habitants de Tuvalu, un archipel du Pacifique particulièrement menacé par la montée des eaux, des droits « spéciaux » pour s’installer et travailler en Australie, dans un traité rendu public par les deux pays vendredi 10 novembre. « Nous croyons que le peuple de Tuvalu mérite d’avoir le choix de vivre, étudier et travailler ailleurs, alors que le changement climatique empire », ont déclaré, dans un communiqué conjoint, le premier ministre australien, Anthony Albanese, et son homologue de Tuvalu, Kausea Natano.
    Le traité prévoit des droits « spéciaux » pour les arrivants, mais aussi des volets consacrés à la défense, engageant l’Australie à venir en aide à Tuvalu en cas d’invasion ou de catastrophe naturelle. Les Tuvalais pourront bénéficier d’un « accès aux services australiens, qui leur permettront une mobilité dans la dignité », précise le texte.
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux. Deux de ses neuf atolls ont déjà été largement submergés et des spécialistes estiment que Tuvalu sera complètement inhabitable d’ici à quatre-vingts ans. En octobre, M. Natano a déclaré à l’Agence France-Presse (AFP) que l’archipel risquait de « disparaître de la surface de la Terre » si aucune mesure drastique n’était prise. Le traité dévoilé veut aussi permettre aux Tuvalais de « conserver les liens ancestraux profonds » qui les unissent à leur terre et à la mer. Toutefois, il reconnaît que le passage à l’action arrive tardivement.
    La dépendance commerciale de l’Australie au charbon et aux exportations de gaz, des postes économiques polluants, sont depuis longtemps une pierre d’achoppement avec ses voisins du Pacifique, qui subissent déjà de plein fouet les conséquences du changement climatique, dont la montée des eaux et une météo plus extrême.
    Ce traité peut être perçu comme une victoire stratégique pour Canberra, qui entend étendre son influence dans l’océan face à la présence grandissante de la Chine. Kiribati et les îles Salomon se sont, par exemple, tournés vers Pékin ces dernières années. Tuvalu y reste opposé en continuant de reconnaître diplomatiquement Taïwan. M. Natano a affirmé que le traité représentait un « espoir » et un « grand pas en avant » pour la stabilité régionale. Il doit cependant encore être ratifié par les deux pays pour devenir effectif.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#tuvalu#asileclimatique#emigration#pacifique

  • Australia & the Voice referendum : The noes have it
    https://www.focaldata.com/blog/bi-focal-9-australia-and-the-voice-referendum

    On 14 October, Australian voters will cast their ballots in a historic referendum, known as ‘The Voice’. We forecast a “No” result.

    une analyse extrêmement détaillée du (catastrophique) résultat du référendum australien sur la “voix” des peuples autochtones (note : analyse faite avant le vote, à partir de sondages… mais la réalité n’a pas été différente)

    #colonialisme #australie #peuples_autochtones #réparations

  • Quand l’obligation du #casque #Vélo est mauvaise pour la santé
    http://carfree.fr/index.php/2023/09/04/quand-lobligation-du-casque-velo-est-mauvaise-pour-la-sante

    Périodiquement, la question du port du casque vélo obligatoire pour les #cyclistes revient dans le débat public, en général via des hommes politiques qui n’y connaissent rien en matière de Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Insécurité_routière #australie #sécurité_routière

    • une récente réanalyse de toutes les grandes études portant sur l’efficacité des casques a mis en évidence un important biais de publication dans les évaluations précédentes. La plupart des casques réduisent le risque de blessure à la tête de 15 % s’ils sont portés correctement.

      Les #casques offrent donc une certaine protection, mais l’environnement routier est bien plus important.

      Le principal écueil de la législation sur le port du casque est qu’elle décourage les gens de faire du #vélo.

      En termes de sécurité, il existe un phénomène appelé « sécurité du nombre ». Plus il y a de cyclistes, plus nos routes sont sûres pour eux. Les conducteurs s’habituent à voir des cyclistes et adaptent leur comportement, et les infrastructures ont tendance à être améliorées pour mieux répondre aux besoins des cyclistes. Même si les cyclistes portent un casque, ils sont moins en sécurité s’il y a moins de cyclistes sur la route que s’il y en a plus.

      [...]

      Les avantages de l’activité physique pour la santé sont particulièrement importants. Une vaste étude menée au Danemark a montré que la pratique du vélo pendant seulement trois heures par semaine pour se rendre au travail réduisait de 39 % le nombre de décès (toutes causes confondues, y compris les maladies cardiaques) par rapport aux non cyclistes, en tenant compte d’autres activités physiques de loisir et d’autres facteurs explicatifs.

      Une analyse récente a comparé les risques et les avantages qu’il y a à laisser sa voiture à la maison et à se déplacer à vélo. Elle a révélé que l’espérance de vie gagnée grâce à l’activité physique était bien plus élevée que les risques de pollution et de blessure liés à l’utilisation du vélo.

      #santé

  • Progetto Zinco Gorno

    La vidéo commence avec la voix-off d’un vieux monsieur (#Sergio_Fezzioli, ex mineur), qui dit comment c’était beau quand la minière était ouverte. Et que depuis qu’elle est fermée, il n’y a maintenant qu’un « silence profond ».
    « J’ai beaucoup cru dans la minière », dit-il, et il ne pensait pas qu’un jour ils allaient les ré-ouvrir...

    Le maire de Oltre il Colle, Valerio Carrara, dit que la municipalité est née « sur les minières », jusqu’à il y a 30-40 où elles fonctionnaient encore « parfaitement ». A l’époque, Oltre il Colle avait environ 2000 habitants, puis depuis la fermeture des mines (1984), la commune a connu un dépeuplement.

    #Giampiero_Calegari, maire de Gorno :


    Il explique que Gorno est jumelée (depuis 2003) avec la commune de #Kalgoorlie (#Kalgoorlie-Boulder), en #Australie, ville minière :
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Kalgoorlie

    Le jumelage a été fait car par le passé beaucoup d’habitants du Gorno ont émigré en Australie pour travailler dans les minières d’or.
    Le maire dit que quand ils ont été en Australie pour le jumelage, en 2003, « nous ne pensions pas à ce futur industriel à Gorno ». « Cela semble un signe du destin que nous sommes allés en Australie pour se souvenir de nos mineurs qui ont travaillé dans les minière d’or et maintenant l’Australie vient à Gorno pour faire quelque chose d’intéressant », dit le maire. « Nous avons le passé, le présent et le futur. Pour le futur nous avions un gros point d’interrogation et aujourd’hui on essaie d’interpréter ce point d’interrogation, de le transformer en une proposition. Nous sommes convaincus que ça apportera des bénéfices à notre petite commune ».

    Selon le maire de Oltre il Colle, la population a perçu le projet de manière positive, car depuis 2 ans qu’ils sont en train de préparer la réouverture des mines « ils ont apporté des retombées économiques importantes »

    #Marcello_de_Angelis, #Energia_Minerals_Italia


    de Angelis dit que Energia Minerals ont été « complètement adoptés par les gens du lieu », car ils sont « très très cordiaux » et car « ils voient les possibilités de développement de ces vallées ».
    A Gorno « on fait quelque chose qui est très compatible avec l’#environnement ». Il vante des technologies « éco-compatibles ».

    Le directeur des « opérations », l’ingénieur #Graeme_Collins


    Collins explique qu’il est difficile de trouver des collaborateurs italiens, car cela fait longtemps que les minières ont été fermées en Italie. Et que pour l’heure ils comptent sur du personnel qui vient notamment d’Angleterre et d’Allemagne, mais que dans le futur c’est leur intention de « monter une opération qui sera gérée totalement par du personnel italien ».

    #Simone_Zanin :

    Le maire de Oltre il Colle explique comment la rencontre avec tous (il souligne le « tous ») les dirigeants de Energia Minerals a été positive : des gens très sérieux, très déterminés, très pragmatiques. « Ils sont entrés en syntonie avec notre manière de vivre ». Et l’administration a vu immédiatement les potentialités : les places de travail.

    https://vimeo.com/202730506

    La vidéo existe aussi en anglais :
    https://vimeo.com/202722268

    #Oltre_il_Colle #mines #extractivisme #Italie #Alpes #montagne #Gorno #zinc #Valerio_Carrara #Lombardie #histoire #tradition #Energia_Minerals #Zorzone #technologie #impact_environnemental #plomb

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Außenministerin war auf Weg nach Australien : Baerbock sitzt nach Flugzeugpanne in Abu Dhabi fest
    https://www.tagesspiegel.de/politik/aussenministerin-auf-weg-nach-australien-gestrandet-baerbock-sitzt-nach

    Quand on s’intéresse à la politique on rencontre parfois des chiffres impressionnants qui frôlent l’absurde. Ici c’est la maniére de dépenser de l’argent pour la mise en scène du personnage de notre ministre des affaires extérieures connue pour sa sagesse qui bat Chuck Norris à tous les niveaux.

    D’abord on la fait voyager dans un Airbus assemblé avec amour par les petites mains habiles d’ouvre:ièr:e:s toulousain:e:s. Cela aurait été un bon plan s’il n’y avait pas eu l’entretien de l’engin par les spécialistes de la Bundeswehr connus pour avoir augmenté ces dernières années la disponibilité de nos Eurofighters prèsque neufs à 70 pour cent. Autrement dit on peut compter avec trois interruptions de voyage de notre brillante ministre sur dix décollages.

    Passon sur les dizaines de milliers que la ministre facture chaque année au contribuable pour ses coiffeu:ses:rs et visagistes. Son voyage chez les assassins de Ned Kelly et leurs voisins pulverise des sommes nettement plus intéressantes. En bonne hypocrite verte elle ne partage pas les fauteuils étroits de première classe avec son équipe sur un vol de ligne mais elle profite de son Airbus personnel. Il faut bien dépenser les milliards d’Euros que son gouvernement a emprunté pour mener des guerres pendant qu’il soumet les enfants et retraités du pays aux mesures d’austérité systématiques digne d’une Margaret Thatcher.

    On pourrait continuer encore longtemps à dénoncer et ridiculiser la bêtise inhumaine de ce gouvernement. Sans exception chaque décision qu’il prend nuit aux intérêts des gens ordinaires et profite au capital transatlantique.Il faudrait arrêter de s’en moquer. Il faudrait commencer à terminer ce foutage de geule.

    14.9.2023 - Baerbock sitzt nach Flugzeugpanne in Abu Dhabi fest

    Wegen eines Defekts der Landeklappen ist die Außenministerin in Abu Dhabi gestrandet. Ihr Reiseplan ist durcheinandergewirbelt. Es ist nicht die erste Panne bei einem Regierungsflieger.

    Erneute Flugzeugpanne für Außenministerin Annalena Baerbock: Nach einer Zwischenlandung zum Auftanken in Abu Dhabi in den Vereinigten Arabischen Emiraten musste die Grünen-Politikerin am frühen Montagmorgen ihren Flug zu einer einwöchigen Reise nach Australien, Neuseeland und Fidschi abbrechen.

    Ein Sprecher des Auswärtigen Amts hatte zuvor an Bord erklärt: „Wegen eines mechanischen Problems müssen wir aus Sicherheitsgründen nach Abu Dhabi zurückkehren.“ Das Flugzeug landete um 5.33 Uhr Ortszeit (3.33 Uhr MESZ) wieder sicher in Abu Dhabi.

    Im Laufe des Tages soll entschieden werden, wann Baerbock ihre Reise in die Pazifik-Region fortsetzen kann. Unter anderem wegen der gesetzlich vorgeschriebenen Ruhezeiten der Flugzeugbesatzung wurde bei dem erzwungenen Zwischenstopp nicht damit gerechnet, dass sie noch im Laufe des Montags mit der Flugbereitschaft der Bundeswehr weiterfliegen kann.

    Auf dem Flughafen von Abu Dhabi prüften mitgereiste Techniker, ob der Defekt mit Bordmitteln zu beheben ist, Ersatzteile beschafft werden müssen oder ob eine Ersatzmaschine von Köln/Bonn, dem Standort der Flugbereitschaft, zum Golf-Emirat geflogen werden muss.

    Die Regierungsmaschine, ein Airbus A340-300, steht auf dem Flughafen von Abu Dhabi.
    Die Regierungsmaschine, ein Airbus A340-300, steht auf dem Flughafen von Abu Dhabi.

    Denkbar war auch, dass Baerbock mit einem kleinen Teil der Delegation einen Linienflug nimmt und der Rest der Mitreisenden mit einer Regierungsmaschine nachkommt.. Allerdings starten Linienflüge erst am Montagabend nach Australien.

    Das Flugzeug war nach einer Zwischenlandung zum Auftanken in Abu Dhabi um 3.33 Uhr Ortszeit wieder gestartet. Drei Minuten später wurde das Problem in der Luft bemerkt und der Flieger musste aus Sicherheitsgründen zurückkehren.

    Der Flugkapitän hatte zuvor über den Bordlautsprecher darüber informiert, dass es Probleme beim Einfahren der Landeklappen gebe.

    Um sicher in Abu Dhabi landen zu können, musste zunächst Treibstoff abgelassen werden. Der Airbus war für die lange Strecke mit 110 Tonnen Kerosin betankt. Davon mussten 80 abgelassen werden.

    Das Flugzeug war mit einem maximalen Startgewicht von 271 Tonnen gestartet. Für die Landung musste es auf ein Gewicht von unter 190 Tonnen kommen.

    Hintere Landeklappen defekt

    Nach der Landung begleitete die Flughafenfeuerwehr den Airbus. Der Flugkapitän sprach von einer normalen Landung, die für eine solche Situation im Simulator geübt werde. Er habe die Begleitung durch die Feuerwehr nicht beantragt.

    Der Kapitän sagte, er sei seit 35 Jahren Pilot und seit 30 Jahren bei der Flugbereitschaft. Ein solcher Fehler sei in der ganzen Zeit noch nicht aufgetreten.

    Den Angaben zufolge war eine der beiden hinteren Landeklappen defekt. Aus diesem Grund konnten diese nicht symmetrisch eingefahren werden. Dies erhöhte den Kerosinverbrauch. Zudem konnten weder die Reiseflughöhe noch die normale Reisegeschwindigkeit erreicht werden.

    Baerbocks Flugplan verschiebt sich deutlich

    Baerbock selbst wollte sich zunächst nicht öffentlich zu dem Vorfall äußern. Es wurde aber davon ausgegangen, dass sie die Reise fortsetzen will.

    Ursprünglich wollte die Außenministerin am Dienstagabend von der australischen Hauptstadt Canberra nach Sydney weiterfliegen. Am Donnerstagmorgen Ortszeit war der Weiterflug nach Neuseeland geplant. Noch am Donnerstagabend sollte es nach Fidschi weitergehen. Baerbock war am Sonntag zu einer einwöchigen Reise in die Pazifikregion aufgebrochen.

    Es ist nicht das erste Mal, dass die Außenministerin auf ihren Reisen aufgehalten wird. Erst Mitte Mai war Baerbock wegen eines Reifenschadens an ihrem Regierungsairbus in Doha im Wüsten-Emirat Katar gestrandet und musste ihre Reise in die Golfregion unfreiwillig verlängern.
    Bereits mehrere Pannen bei Regierungsfliegern

    Doch auch andere Regierungsmitglieder mussten bereits wegen Pannen an einer Maschine der Flugbereitschaft der Bundeswehr unplanmäßige Aufenthalte in Kauf nehmen.

    Beispielsweise musste der Luftwaffen-Airbus „Konrad Adenauer“ im November 2018 mit der damaligen Kanzlerin Angela Merkel (CDU) und dem damaligen Finanzminister Olaf Scholz (SPD) an Bord auf dem Weg zum G20-Gipfel in Buenos Aires umkehren. Unter anderem war das Funksystem lahmgelegt. Beide flogen Linie nach Argentinien.

    Im Oktober 2018 knabberten zudem Nagetiere bei einem Stopp in Indonesien wichtige Kabel der „Adenauer“ an. Scholz kehrte damals per Linienflug von der Tagung des Internationalen Währungsfonds zurück.

    Im Dezember 2016 strandete die damalige Verteidigungsministerin Ursula von der Leyen (CDU) auf dem Weg nach Mali. Wegen eines Computerproblems bei ihrem A340 in der nigerianischen Hauptstadt Abuja musste sie dort übernachten.

    Baerbocks jüngster Flug nach Australien war ursprünglich mit der Schwestermaschine der früheren „Konrad Adenauer“ geplant, einer nahezu baugleichen A340-300. Diese war jedoch ebenfalls kaputt. (dpa)

    #Allemagne #politique #relations_internationales #verts #qviation #Airbus #Abu_Dhabi #Australie #Nouvelle_Zélande #Fidji

    • Defekte am Regierungsflieger Baerbock bricht Pannenreise nach Australien ab
      https://www.spiegel.de/politik/deutschland/annalena-baerbock-bricht-pannen-reise-nach-australien-ab-a-0dfee713-b344-410
      C’est la fin. Même notre super-intelligente ministre des affaires extérieures ne peut rien y changer. Vol de ligne.
      https://www.youtube.com/watch?v=6FMGYycBAMU&pp=ygUNZG9vcnMgdGhlIGVuZA%3D%3D

      15.08.2023, 06.34 Uhr
      - Es geht nicht weiter: Nach zwei Pannen an der Regierungsmaschine hat Annalena Baerbock ihre geplante Reise nach Australien abgesagt. Die in Abu Dhabi gestrandete Außenministerin kehrt nun nach Berlin zurück – per Linienflug.

      Nach den wiederholten Pannen mit ihrem Regierungsflugzeug bricht Außenministerin Annalena Baerbock ihre geplante Reise zu einem einwöchigen Besuch in der Pazifik-Region ab. »Wir haben bis zuletzt geprüft und geplant, aber leider war es nicht mehr möglich, die geplanten Reisestationen der Indo-Pazifik-Reise nach dem Ausfall des Flugzeugs der Flugbereitschaft mit den noch verfügbaren Optionen logistisch darzustellen«, sagte ein Sprecher des Auswärtigen Amts am Dienstagmorgen.

      Da die Landeklappen nicht wie nötig vollständig und synchron eingefahren werden konnten, konnte das Flugzeug die normale Reiseflughöhe und -geschwindigkeit nicht erreichen – der Kerosinverbrauch auf der langen Strecke nach Australien wäre deutlich gestiegen. Da das Flugzeug für den knapp 14-stündigen Flug vollgetankt war, musste das Gewicht für die Landung stark reduziert werden.

      Ein zweiter Versuch scheiterte in der Nacht. Der Flieger war nach dem Start um 1.00 Ortszeit (23.00 Uhr MESZ) in Abu Dhabi zu Anfang zwar gestiegen, nahm aber kein Tempo auf. 15 Minuten nach dem Abheben drehte der Airbus vom Typ A340-300 dann erneut vom Kurs ab und flog zurück in Richtung des Wüstenemirats, wo er schließlich um 2.57 Uhr Ortszeit wieder landete.

      Laut Angaben aus ihrer Delegation hätte Baerbock wegen der defekten Luftwaffen-Maschine eigentlich am Vormittag von der Hauptstadt der Vereinigten Arabischen Emirate, Abu Dhabi, mit ihrem Tross per Linienflug direkt zur australischen Metropole Sydney aufbrechen sollen. Doch das erwies sich offenkundig als nicht praktikabel.
      Schwere Entscheidung

      Noch in der Nacht waren Baerbocks Delegation und die mitreisenden Journalisten gebeten worden, sich zur Abfahrt zum Flughafen um 08.00 Uhr in der Lobby des Hotels zu treffen. Die zu diesem Zeitpunkt völlig überraschende Entscheidung zum Abbruch der Reise fiel erst, als der gesamte Tross bereits abfahrbereit in der Lobby stand.

      Aus der Delegation war von einer am Ende schweren Entscheidung die Rede. »Das ist alles sehr misslich«, hieß es. In den kommenden Monaten werde es darauf ankommen, den entstandenen Schaden wieder gutzumachen. So müssten voraussichtlich hochrangige Beamte nach Australien, Neuseeland und Fidschi zu Gesprächen und wichtigen Terminen reisen. Die abgebrochene Reise müsse nachgearbeitet werden. Der Indo-Pazifik bleibe Schwerpunkt für die Bundesregierung.

      Baerbock war am Sonntag zu einer einwöchigen Reise nach Australien, Neuseeland und Fidschi aufgebrochen. Auch bei der Golfreise der Außenministerin im Mai hatte es technische Probleme mit der Regierungsmaschine gegeben . Damals musste Baerbock ihren Aufenthalt im Emirat Katar um einen Tag verlängern, weil der Luftwaffen-Airbus wegen eines platten Reifens nicht wie geplant den Rückflug antreten konnte.

  • #Altamin

    MINING IN ITALY

    #Altamin_Limited is an ASX-listed mineral company focussed on base and battery metal exploration and brownfield mine development in Italy, with two 100% owned mineral projects and two under licence application.

    The Company’s #Gorno_Zinc_Project in the Lombardy region of northern Italy, is an advanced, historic mine with well-defined mineralisation. The #Gorno_Project benefits from strong local support, excellent metallurgy and established infrastructure. Up until 1980, the #Gorno underground #zinc was owned by #SAMIM (a state-owned company and part of #ENI) and then the unilateral decision was made to close all SAMIM owned metal mining in Italy to focus solely on oil and gas, despite there being defined mineral reserves remaining.

    The #Punta_Corna_Project in Piedmont, Italy, historically mined for cobalt, nickel, copper and silver, is an active exploration project with outcropping mineralisation, a historical bulk sample grading 0.6-0.7% Co, plus Ni, Cu, Ag and a drilling program outlined pending permit renewal Alta’s recent sampling has returned high-grade assays over >2km strike length from multiple sub-parallel veins, with good potential for further mineralised vein discovery and significant depth extension.

    In addition, Altamin has lodged applications over #Monte_Bianco and #Corchia, the two most significant copper, cobalt and manganese-rich historical mining districts in Italy.

    https://www.altamin.com.au
    #Australie #Italie #extractivisme #mine #cobalt #terres_rares #manganèse #cuivre

    –---

    Sur le projet d’exploitation du cobalt d’Altamin à #Balme (#Barmes) dans le #Piémont :
    Alla ricerca del cobalto sulle Alpi
    https://seenthis.net/messages/1013263

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • La guerre des émeus m’émeut

    Les émeus australiens n’ont pas seulement fourni le titre d’un livre polémique ; ils sont également au centre d’un épisode cocasse qui permet de s’interroger sur la définition de la guerre avec un peu plus de légèreté que ce que j’ai eu l’occasion de faire dans divers billets depuis quelques mois. Merci donc à l’ami Jean-Marc Pétillon de m’avoir signalé cet épisode improbable, ainsi que l’ouvrage qui le rapporte : Les guerres stupides de l’histoire (Les Arènes, 2019, Bruno Fuligni et Bruno Léandri). J’en recopie ici le chapitre concerné avec gourmandise – on pourra aussi vérifier ces informations dans la page wikipedia idoine.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/07/30/la-guerre-des-emeus-memeut

    #international #australie

    • Chine-États-Unis : préparatifs guerriers

      https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/04/12/chine-etats-unis-preparatifs-guerriers_609617.html

      Entre le samedi 8 avril et le dimanche 10, l’armée chinoise a déployé autour de Taïwan onze bateaux de guerre et plus de 70 avions, simulant l’encerclement de l’île ainsi que son bombardement. La Chine répondait ainsi à la visite en Californie de la présidente de Taïwan, #Tsai_Ing-wen.

      Cette visite, le 5 avril, s’inscrit dans la préparation de l’élection présidentielle taïwanaise de janvier 2024, une campagne que Tsai Ing-wen mène pour le compte de son parti, le DPP. Son escale américaine lui aura permis de se donner une stature internationale. Elle a salué le soutien indéfectible des États-Unis et de Kevin McCarthy, président de la Chambre des représentants américains, qui en a profité pour appeler son pays à continuer à vendre des armes à Taïwan. Les uns comme les autres espèrent ainsi enrayer la perte de vitesse du DPP sur l’île et justifier auprès de la population taïwanaise la nécessité de l’indépendance, alors qu’une partie grandissante semble en douter, si l’on en croit la défaite que le DPP a subie aux élections locales de novembre dernier au profit de son concurrent, le KMT, qui défend une ligne de statu quo, voire de rapprochement avec Pékin.

      Les dirigeants du DPP et les dirigeants américains ont sans doute estimé que la réaction militaire du gouvernement chinois, s’il y en avait une, légitimerait aussi la position du DPP. Cette réaction était en effet prévisible et sans aucun doute prévue. En août 2022, la visite à Taïwan de Nancy Pelosi, qui occupait alors la même fonction que McCarthy, avait provoqué des manœuvres de plus grande ampleur encore. Alors que le gouvernement de Pékin affirme depuis toujours que Taïwan fait partie de la #Chine et que son indépendance formelle est un motif de guerre, les #États-Unis et le DPP, avec ces contacts d’officiels au plus haut niveau, font monter la pression. Ils savent pertinemment que le #gouvernement_chinois ne peut pas ne pas répondre.

      L’armée chinoise s’est ainsi déployée pendant trois jours, simulant l’encerclement et le #bombardement de l’île, faisant franchir à plusieurs dizaines de ses avions la ligne médiane du détroit de Taïwan, et mettant en œuvre son dernier porte-avions, le Shandong, qui navigue dans la zone à environ 370 km à l’est de l’île. L’#armée_chinoise a également annoncé que les manœuvres autour de Taïwan seraient prolongées par d’autres jusqu’au 20 avril au large du #Fujian, dans le détroit de Taïwan. Les États-Unis, dont une partie de la flotte est en permanence sur zone, le #porte-avions américain Nimitz en particulier se trouvant à proximité, en ont profité pour observer les capacités militaires de la #marine_chinoise et pour montrer à leur tour leur présence et leur puissance. Ils ont ainsi déployé le 9 avril un destroyer en #mer_de_Chine_méridionale, un peu au sud de Taïwan, dans une opération dite de liberté de navigation, consistant à croiser à proximité des îles que les Chinois se sont appropriées. Et mardi 11 avril, ils ont entamé leurs exercices militaires annuels conjoints avec les Philippines en mobilisant au total 18 000 soldats, deux fois plus qu’en 2022.

      Les dirigeants taïwanais et américains préparent les esprits à la guerre. Les dirigeants chinois ne sont pas en reste. #Taïwan et ses 23 millions d’habitants deviennent ainsi l’enjeu d’un affrontement qui les dépasse.

    • Chine-États-Unis : une concurrence féroce mais inégale
      https://mensuel.lutte-ouvriere.org/2022/01/23/chine-etats-unis-une-concurrence-feroce-mais-inegale_196804.

      (#archiveLO, 9 janvier 2022)

      – Une nouvelle superpuissance  ?
      – Des relations inégalitaires
      – Un nouvel #impérialisme  ?
      – Le «  rêve chinois  » de Xi Jinping
      – Guerre économique  : le raidissement des États-Unis
      – Les provocations occidentales
      – La #guerre, une menace toujours plus proche

    • Océan pacifique : préparatifs guerriers
      https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/03/15/ocean-pacifique-preparatifs-guerriers_552402.html
      (#archiveLO, 15 mars 2023)

      Depuis la base navale californienne de San Diego, le président américain Biden, le premier ministre britannique Sunak et son homologue australien Albanese ont lancé le 13 mars la nouvelle phase de leur alliance militaire.

      Les trois pays développeront ensemble et construiront dans leurs arsenaux respectifs un nouveau type de #sous-marin d’attaque à propulsion nucléaire (SNA). La série est baptisée SNN Aukus, comme l’alliance #Australie- UK- USA. En attendant les premiers lancements, prévus pour 2040, les États-Unis fourniront, sous deux ans, trois voire cinq SNA à la marine australienne. Le #budget officiel de ce programme dépasse les 200 milliards de dollars.

      En plus de la montée en puissance navale, #Aukus marque l’intégration de plus en plus poussée dans la marine américaine des marines britannique et australienne, de leurs arsenaux et de leurs équipages. Le projet comprend aussi des groupes de recherche dans des domaines intéressant l’armement, depuis les missiles hypersoniques jusqu’aux ordinateurs quantiques nécessaires pour la guerre de l’espace. La marine japonaise, déjà en partie équipée par les États Unis et coordonnée avec eux, ne devrait pas tarder à rejoindre cette alliance évidemment dirigée contre la Chine.

      Pour justifier ce programme guerrier les porte-parole officiels et officieux de l’#impérialisme américain montent en épingle la menace chinoise. Cela va du ridicule, comme l’interdiction du réseau social pour ados Tik-Tok, au terrifiant, en affirmant que la flotte chinoise serait désormais la plus puissante au monde.

      La flotte chinoise, si l’on compte tous ses bâtiments jusqu’à la plus modeste vedette des douanes, est certes la plus nombreuse. Mais la #flotte_américaine, sans même intégrer Aukus, l’Otan et les autres alliés, reste de très loin la plus puissante. Les États-Unis détiennent 14 sous-marins nucléaires lanceurs d’engins à tête nucléaire, alors que la #Chine en a sept. Et, surtout, ils arment 50 SNA soit la moitié de ceux en service actuellement dans le monde, alors que la Chine en a neuf. Enfin, un seul des onze #porte-avions américains, les plus gros, les plus rapides, les plus armés et les seuls dotés de catapultes, est plus écrasant et plus coûteux que les trois porte-avions chinois réunis.

      Aujourd’hui le programme naval Aukus est une garantie de bénéfices considérables pour des marchands de canons américains déjà multimilliardaires et, exceptionnellement, une fleur pour leur confrère britannique #BAE_Systems. Par la constitution d’une force navale intégrée, c’est aussi l’indication des camps d’un futur conflit général qui se dessinent et se préparent techniquement. Loin de défendre la paix, l’impérialisme promet la #guerre.

      #États-Unis #Royaume-Uni

    • Chine-États-Unis : préparatifs guerriers
      https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/04/12/chine-etats-unis-preparatifs-guerriers_609617.html
      (#archiveLO, 12 avril 2023)

      Entre le samedi 8 avril et le dimanche 10, l’armée chinoise a déployé autour de Taïwan onze bateaux de guerre et plus de 70 avions, simulant l’encerclement de l’île ainsi que son bombardement. La Chine répondait ainsi à la visite en Californie de la présidente de Taïwan, Tsai Ing-wen.

      Cette visite, le 5 avril, s’inscrit dans la préparation de l’élection présidentielle taïwanaise de janvier 2024, une campagne que Tsai Ing-wen mène pour le compte de son parti, le DPP. Son escale américaine lui aura permis de se donner une stature internationale. Elle a salué le soutien indéfectible des États-Unis et de Kevin McCarthy, président de la Chambre des représentants américains, qui en a profité pour appeler son pays à continuer à vendre des armes à Taïwan. Les uns comme les autres espèrent ainsi enrayer la perte de vitesse du DPP sur l’île et justifier auprès de la population taïwanaise la nécessité de l’indépendance, alors qu’une partie grandissante semble en douter, si l’on en croit la défaite que le DPP a subie aux élections locales de novembre dernier au profit de son concurrent, le KMT, qui défend une ligne de statu quo, voire de rapprochement avec Pékin.

      Les dirigeants du DPP et les dirigeants américains ont sans doute estimé que la réaction militaire du gouvernement chinois, s’il y en avait une, légitimerait aussi la position du DPP. Cette réaction était en effet prévisible et sans aucun doute prévue. En août 2022, la visite à Taïwan de Nancy Pelosi, qui occupait alors la même fonction que McCarthy, avait provoqué des manœuvres de plus grande ampleur encore. Alors que le gouvernement de Pékin affirme depuis toujours que Taïwan fait partie de la Chine et que son indépendance formelle est un motif de guerre, les États-Unis et le DPP, avec ces contacts d’officiels au plus haut niveau, font monter la pression. Ils savent pertinemment que le gouvernement chinois ne peut pas ne pas répondre.

      L’armée chinoise s’est ainsi déployée pendant trois jours, simulant l’encerclement et le bombardement de l’île, faisant franchir à plusieurs dizaines de ses avions la ligne médiane du détroit de Taïwan, et mettant en œuvre son dernier porte-avions, le Shandong, qui navigue dans la zone à environ 370 km à l’est de l’île. L’armée chinoise a également annoncé que les manœuvres autour de Taïwan seraient prolongées par d’autres jusqu’au 20 avril au large du Fujian, dans le détroit de Taïwan. Les États-Unis, dont une partie de la flotte est en permanence sur zone, le porte-avions américain Nimitz en particulier se trouvant à proximité, en ont profité pour observer les capacités militaires de la marine chinoise et pour montrer à leur tour leur présence et leur puissance. Ils ont ainsi déployé le 9 avril un destroyer en mer de Chine méridionale, un peu au sud de Taïwan, dans une opération dite de liberté de navigation, consistant à croiser à proximité des îles que les Chinois se sont appropriées. Et mardi 11 avril, ils ont entamé leurs exercices militaires annuels conjoints avec les Philippines en mobilisant au total 18 000 soldats, deux fois plus qu’en 2022.

      Les dirigeants taïwanais et américains préparent les esprits à la guerre. Les dirigeants chinois ne sont pas en reste. Taïwan et ses 23 millions d’habitants deviennent ainsi l’enjeu d’un affrontement qui les dépasse.

  • SILENT COLLABORATOR - Declassified Australia
    https://declassifiedaus.org/2023/03/04/silent-collaborator

    Julian Assange once said: ‘I understood this a few years ago. And my view became that we should understand that Australia is part of the United States. It is part of this English-speaking Christian empire, the centre of gravity of which is the United States, the second centre of which is the United Kingdom, and Australia is a suburb in that arrangement.

    ‘And therefore we shouldn’t go, “It’s completely hopeless, its completely lost. Australian sovereignty, we are never going to get that back. We can’t control the big regulatory structure which we’re involved in in terms of strategic alliances, mass surveillance, and so on”.

    ‘No, we just have to understand that our capital is Washington. The capital of Australia is DC. That’s the reality. So when you’re engaging in campaigns, just engage directly with DC, because that’s where the decisions are made. 

    ‘And that’s what I do, and that’s what Wikileaks does. We engage directly with DC. We engage directly with Washington, and that’s what Australians should do.’

    • #USA #Australie #Royaume_Uni #droit #justice #impérialisme #liberté_de_l_expression

      A primary precept of good government is justice for its citizens, but because our government has ignored every injustice in his case, injustice now threatens us all with a precedent whereby the US can seek to capture by any means, incarcerate and extradite anyone, including journalists or publishers, of any nationality from most places in the world, for disclosing shockingly reprehensible US secrets.

      By courageously publishing the truth, Julian terrified with the threat of personal responsibility and accountability those who had been operating beyond reach. He knew they’d come for him, we knew they’d come for him, and they did. It’s not a hard story to understand.

      Julian is a moral innovator. He made moral gains which had an immense effect on human life. He did what lay in his power to make people less cruel to others and was rewarded with nothing but personal pain. Posterity will pay Julian the highest honour for putting into the world the things that we most value: truth, transparency and justice.

      History will look back on Assange as a particularly important person, and on his persecution – the details of which will be further filled out over time, and preserved forever – as an appalling politico-legal abomination.

  • Covid-19 : ruée des expatriés chinois sur les médicaments contre la fièvre et les maux de tête
    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/12/27/covid-19-ruee-des-expatries-chinois-sur-les-medicaments-contre-la-fievre-et-

    Covid-19 : ruée des expatriés chinois sur les médicaments contre la fièvre et les maux de tête. Au Japon, à Taïwan ou encore à Singapour, ils tentent d’acheter massivement des produits en vente libre pour les envoyer à leur famille, au risque de provoquer des pénuries.
    Par Philippe Mesmer(Tokyo, correspondance)
    Depuis la sortie de la politique dite zéro Covid de Xi Jinping et l’explosion des contaminations en Chine, les Chinois du Japon, de Taïwan ou encore de Singapour se ruent sur les produits en vente libre à base d’ibuprofène ou de paracétamol pour les envoyer à leur famille, provoquant des problèmes d’approvisionnement et de production. Les parapharmacies des quartiers de Tokyo à forte communauté chinoise, comme Ikebukuro ou Shinjuku, connaissent ainsi des pénuries de Pabron Gold A ou encore d’EVE Quick, des médicaments connus pour leurs effets contre le rhume, les maux de tête et la fièvre. Plusieurs enseignes limitent désormais leurs achats à une ou deux boîtes par client. Commercialisé depuis 1927 par le géant Taisho Pharmaceutical, le Pabron est réalisé à base de l’expectorant guaïfénésine. « Ce médicament était très utilisé par les Chinois contre les rhumes avant même la pandémie. Aujourd’hui, les réseaux sociaux chinois soulignent son efficacité contre le Covid-19 », reconnaît l’entreprise, qui prévoit d’augmenter la production.Fabriqué par SSP Pharmaceutical, EVE Quick contient de l’ibuprofène. Il est aussi recherché car, selon le média chinois Caixin Global, il y a pénurie de cet anti-inflammatoire dans plusieurs zones de Chine, à commencer par Pékin. Le phénomène d’achats massifs concerne aussi Taïwan. « Il n’y a presque plus de Panadol dans les rayons, ou très peu. Nous avons contacté les fabricants, en espérant qu’ils pourront accélérer l’approvisionnement pour répondre à la demande du marché », a déclaré à la télévision Victor Wang, directeur du Centre de gestion des épidémies, qui a appelé « à la modération ». Taïwan dispose d’un stock de l’antidouleur acétaminophène suffisant pour 2,7 mois et d’ibuprofène pour un mois, précise Channel Free Asia. Des mesures d’encadrement des ventes sont toutefois envisagées, a indiqué le ministre de la santé, Hsueh Jui-yuan, qui a demandé à la population de ne pas paniquer et de ne pas se ruer dans les pharmacies.En Australie, l’enseigne de pharmacies Chemist Warehouse a affiché des avis dans certaines zones pour rappeler au public qu’il ne peut pas acheter plus de 100 comprimés à la fois. Sur le réseau social chinois Xiaohongshu (« Petit livre rouge »), des cartes des villes australiennes circulent montrant des pharmacies où il est possible d’acheter de grandes quantités de paracétamol. A Singapour, le ministère de la santé a appelé la population à limiter l’achat de médicaments à l’usage personnel. Les principaux traitements expédiés vers la Chine sont l’analgésique Panadol, la formule traditionnelle chinoise Lianhua Qingwen et les compléments vitaminés. Cette forte demande provoque aussi des problèmes de production de ces traitements, car la Chine domine le marché mondial des ingrédients servant à leur fabrication. Le groupe Anhui Bayi Chemical est le principal producteur du nitrochlorobenzène, élément-clé du paracétamol. La Chine fournit 50 % des besoins de Taïwan, où les autorités s’inquiètent d’une éventuelle interdiction d’exportation si les pénuries se poursuivent en Chine. Cette crainte est partagée en Corée du Sud, explique le quotidien JoongAng, selon lequel des importateurs chinois tentent d’acheter en vrac des médicaments contre le rhume. « Face à l’évolution rapide de la pandémie en Chine, nous surveillons de près la situation de l’offre et de la demande intérieures », a fait savoir le gouvernement, qui aide les entreprises pharmaceutiques sud-coréennes confrontées à des problèmes d’approvisionnement en ingrédients de base. Car 37,5 % des importations de ces ingrédients viennent de Chine. « La demande est aujourd’hui supérieure à l’offre », reconnaît le groupe Chong Kun Dang Pharmaceutical.
    Séoul a assoupli les règles pour permettre aux importateurs de recourir à plusieurs fournisseurs au lieu d’un seul. Les géants de la pharmacie disposent aujourd’hui d’un stock de trois mois de médicaments contre la grippe et le rhume. La situation est d’autant plus tendue que plusieurs pays entrent en double pandémie de Covid-19 et de grippe. Au Japon comme en Corée du Sud, une nouvelle vague de contaminations au coronavirus coïncide avec le début de l’épidémie de grippe saisonnière. Dans le sud de la péninsule, le nombre de cas quotidiens de Covid-19 évolue autour de 50 000 et l’agence de contrôle et de prévention des maladies (KDCA) a constaté une hausse de 20 % des cas de grippe dans la semaine du 11 au 17 décembre.Dans l’Archipel, la septième vague de contaminations au coronavirus a provoqué la semaine suivante près de 200 000 nouvelles contaminations quotidiennes. La métropole de Tokyo a élevé vendredi 23 décembre son niveau d’alerte au maximum, car le taux d’occupation des lits d’hôpitaux dépasse les 50 %.

    #Covid-19#migrant#migration#chine#coreedusud#japon#australie#taiwan#medicament#penurie#contamination#exportation#pharmacie

  • Covid-19 : ruée des expatriés chinois sur les médicaments contre la fièvre et les maux de tête
    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/12/27/covid-19-ruee-des-expatries-chinois-sur-les-medicaments-contre-la-fievre-et-

    Covid-19 : ruée des expatriés chinois sur les médicaments contre la fièvre et les maux de tête. Au Japon, à Taïwan ou encore à Singapour, ils tentent d’acheter massivement des produits en vente libre pour les envoyer à leur famille, au risque de provoquer des pénuries.
    Par Philippe Mesmer(Tokyo, correspondance)
    Depuis la sortie de la politique dite zéro Covid de Xi Jinping et l’explosion des contaminations en Chine, les Chinois du Japon, de Taïwan ou encore de Singapour se ruent sur les produits en vente libre à base d’ibuprofène ou de paracétamol pour les envoyer à leur famille, provoquant des problèmes d’approvisionnement et de production. Les parapharmacies des quartiers de Tokyo à forte communauté chinoise, comme Ikebukuro ou Shinjuku, connaissent ainsi des pénuries de Pabron Gold A ou encore d’EVE Quick, des médicaments connus pour leurs effets contre le rhume, les maux de tête et la fièvre. Plusieurs enseignes limitent désormais leurs achats à une ou deux boîtes par client. Commercialisé depuis 1927 par le géant Taisho Pharmaceutical, le Pabron est réalisé à base de l’expectorant guaïfénésine. « Ce médicament était très utilisé par les Chinois contre les rhumes avant même la pandémie. Aujourd’hui, les réseaux sociaux chinois soulignent son efficacité contre le Covid-19 », reconnaît l’entreprise, qui prévoit d’augmenter la production.Fabriqué par SSP Pharmaceutical, EVE Quick contient de l’ibuprofène. Il est aussi recherché car, selon le média chinois Caixin Global, il y a pénurie de cet anti-inflammatoire dans plusieurs zones de Chine, à commencer par Pékin. Le phénomène d’achats massifs concerne aussi Taïwan. « Il n’y a presque plus de Panadol dans les rayons, ou très peu. Nous avons contacté les fabricants, en espérant qu’ils pourront accélérer l’approvisionnement pour répondre à la demande du marché », a déclaré à la télévision Victor Wang, directeur du Centre de gestion des épidémies, qui a appelé « à la modération ». Taïwan dispose d’un stock de l’antidouleur acétaminophène suffisant pour 2,7 mois et d’ibuprofène pour un mois, précise Channel Free Asia. Des mesures d’encadrement des ventes sont toutefois envisagées, a indiqué le ministre de la santé, Hsueh Jui-yuan, qui a demandé à la population de ne pas paniquer et de ne pas se ruer dans les pharmacies.En Australie, l’enseigne de pharmacies Chemist Warehouse a affiché des avis dans certaines zones pour rappeler au public qu’il ne peut pas acheter plus de 100 comprimés à la fois. Sur le réseau social chinois Xiaohongshu (« Petit livre rouge »), des cartes des villes australiennes circulent montrant des pharmacies où il est possible d’acheter de grandes quantités de paracétamol. A Singapour, le ministère de la santé a appelé la population à limiter l’achat de médicaments à l’usage personnel. Les principaux traitements expédiés vers la Chine sont l’analgésique Panadol, la formule traditionnelle chinoise Lianhua Qingwen et les compléments vitaminés. Cette forte demande provoque aussi des problèmes de production de ces traitements, car la Chine domine le marché mondial des ingrédients servant à leur fabrication. Le groupe Anhui Bayi Chemical est le principal producteur du nitrochlorobenzène, élément-clé du paracétamol. La Chine fournit 50 % des besoins de Taïwan, où les autorités s’inquiètent d’une éventuelle interdiction d’exportation si les pénuries se poursuivent en Chine. Cette crainte est partagée en Corée du Sud, explique le quotidien JoongAng, selon lequel des importateurs chinois tentent d’acheter en vrac des médicaments contre le rhume. « Face à l’évolution rapide de la pandémie en Chine, nous surveillons de près la situation de l’offre et de la demande intérieures », a fait savoir le gouvernement, qui aide les entreprises pharmaceutiques sud-coréennes confrontées à des problèmes d’approvisionnement en ingrédients de base. Car 37,5 % des importations de ces ingrédients viennent de Chine. « La demande est aujourd’hui supérieure à l’offre », reconnaît le groupe Chong Kun Dang Pharmaceutical.
    Séoul a assoupli les règles pour permettre aux importateurs de recourir à plusieurs fournisseurs au lieu d’un seul. Les géants de la pharmacie disposent aujourd’hui d’un stock de trois mois de médicaments contre la grippe et le rhume. La situation est d’autant plus tendue que plusieurs pays entrent en double pandémie de Covid-19 et de grippe. Au Japon comme en Corée du Sud, une nouvelle vague de contaminations au coronavirus coïncide avec le début de l’épidémie de grippe saisonnière. Dans le sud de la péninsule, le nombre de cas quotidiens de Covid-19 évolue autour de 50 000 et l’agence de contrôle et de prévention des maladies (KDCA) a constaté une hausse de 20 % des cas de grippe dans la semaine du 11 au 17 décembre.Dans l’Archipel, la septième vague de contaminations au coronavirus a provoqué la semaine suivante près de 200 000 nouvelles contaminations quotidiennes. La métropole de Tokyo a élevé vendredi 23 décembre son niveau d’alerte au maximum, car le taux d’occupation des lits d’hôpitaux dépasse les 50 %.

    #Covid-19#migrant#migration#chine#coreedusud#japon#australie#taiwan#medicament#penurie#contamination#exportation#pharmacie

  • Comment l’Europe est devenue une plaque tournante du marché de la cocaïne Miroslav Mares - RTS
    https://www.rts.ch/info/monde/13642897-comment-leurope-est-devenue-une-plaque-tournante-du-marche-de-la-cocain

    Le marché mondial de la cocaïne a changé. Le Vieux Continent n’est plus seulement un marché sur lequel les criminels écoulent leurs produits, il est le nouvel eldorado des trafiquants. A tel point, qu’il y a un mois, l’agence européenne de la police criminelle reconnaissait faire face à un phénomène d’une ampleur à laquelle elle ne s’attendait pas.

    Fin novembre, après des mois d’enquête, Europol a démantelé un « super-cartel ». A partir des Emirats arabes unis, il contrôlait près d’un tiers du commerce de la cocaïne en Europe. Des arrestations de dizaines de suspects ont eu lieu en France, en Espagne, en Belgique, aux Pays-Bas et à Dubai.

    Ce coup de filet emblématique démontre un déplacement du marché des drogues. Le Vieux Continent est non seulement une des destinations principales de la cocaïne, mais aussi une escale pour l’acheminer ailleurs dans le monde.

    Plus de 30 tonnes de cocaïne ont été saisies. Depuis cinq ans, ces mises sous séquestre augmentent de façon exponentielle, explique Laurent Laniel, analyste à l’Observatoire européen des drogues et de la toxicomanie, dans l’émission de Tout un monde mardi : « Entre 2017 et 2021, chaque année a été un record de saisies ».

    Expansion et nouveaux canaux de distribution
    Selon l’Observatoire européen, la croissance s’effectue en direction de l’Europe orientale et du Nord. Historiquement ces zones ne sont pas de gros marchés : « Il y a une augmentation des cas de pays rapportant la présence de crack, de cocaïne fumée. Ceci indique que la disponibilité de la drogue est très forte », indique Laurent Laniel.

    D’autres indicateurs, tels que l’analyse des eaux usées, montrent la présence de cocaïne dans un plus grand nombre de villes européennes.

    Pour élargir leur réseau de vente, les dealers adaptent leurs techniques marketing. Aujourd’hui, il est possible de se procurer les produits au travers des réseaux sociaux. Les dealers affichent toute une gamme de produits : dès 30 euros, il est possible de trouver de la marchandise, sans doute de qualité douteuse, « mais si tu payes 100 euros, alors là, tu as le super truc, » affirme l’analyste.

    Une métamorphose liée à la volonté des cartels colombiens
    Depuis les années 2000, les cartels colombiens se sont tournés vers l’Europe pour diversifier leurs canaux de distribution. Selon David Weinberger, co-directeur de l’Observatoire des criminalités internationales à l’Institut de relations internationales et stratégiques à Paris, le but des criminels colombiens était de court-circuiter les trafiquants mexicains : « Pour atteindre les Etats-Unis, ils avaient l’obligation de passer par le Mexique, ce qui les obligeait à diminuer leurs profits. »

    Désormais, ils sont présents dans d’autres zones du monde, notamment en Océanie, où la consommation par habitant est la plus importante au monde, localisée principalement en Australie et en Nouvelle-Zélande.

    Les nouvelles techniques de dissimulation
    En Europe, la drogue arrive majoritairement dans les ports d’Anvers, de Rotterdam ou de Valence. Le commerce de containers y est si dense que la surveillance systématique est illusoire.

    Les méthodes de dissimulation de la cocaïne sont aussi très sophistiquées, affirme Laurent Laniel. Il est possible de la cacher de manière chimique, de la faire se confondre avec d’autres matériaux, par exemple du plastique, du charbon de bois. Les trafiquants arrivent également à la mélanger avec de la peinture ou du plâtre.

    C’est seulement une fois les laboratoires démantelés que la police et les douanes arrivent à comprendre quel a été le subterfuge qui a permis d’introduire des tonnes de cocaïne sur le sol européen.

    Le marché européen contrôlé par plusieurs groupes
    La N’drangheta, la mafia calabraise, a la haute main sur une partie du trafic de cocaïne. Selon David Weinberger, c’est un marché fluide, pas tenu par un seul groupe mais par une multitude de gangs, notamment albanais ou turcs.

    Dans une logique de marché globalisé, ceux qui acheminent la drogue la moins chère et la plus pure possible arrivent à occuper le terrain et à grignoter celui des autres criminels.

    Cela peut aboutir à une augmentation de la violence, à des règlements de comptes, voire à des assassinats comme celui d’un journaliste néerlandais l’an dernier.
    A tel point qu’en Belgique et surtout aux Pays-Bas - où règne la Mocro Mafia, une organisation d’origine marocaine - des personnalités comme le Premier ministre et même une princesse ont été placés sous protection.

    #ue #union_européenne #drogue #drogues #cocaïne #crack #mafia #santé #addiction #société #cocaine #police #trafic #criminalité #héroïne #Australie #Nouvelle-Zélande #Océanie #Anvers #Rotterdam #Valence #containers #marché

    • Le géant maritime MSC aurait été infiltré par un gang de trafiquants de drogue RTS - Katja Schaer/jop
      https://www.rts.ch/info/economie/13644414-le-geant-maritime-msc-aurait-ete-infiltre-par-un-gang-de-trafiquants-de

      Une affaire de trafic de drogue embarrasse le plus grand transporteur maritime au monde. Selon une enquête de Bloomberg parue vendredi, l’entreprise MSC, établie à Genève, serait infiltrée par des trafiquants et participerait indirectement à un gigantesque trafic de cocaïne.

      Selon une estimation de l’ONU, l’Europe occidentale à elle seule compterait 4,5 millions de consommateurs et consommatrices de cocaïne, soit 1,5% de la population de plus de 15 ans. Le Vieux Continent serait ainsi en passe de devenir le premier marché mondial, devant l’Amérique du Nord. De quoi générer des montant vertigineux et constituer des organisations criminelles tentaculaires.


      Dans ce contexte, les enquêteurs de l’agence de presse américaine ont décortiqué les affaires qui ont concerné MSC ces trois dernières années, et plus particulièrement son porte-conteneurs Gayane, bloqué à Philadelphie en juin 2019 après la découverte d’un volume record de 20 tonnes de cocaïne destinées au port de Rotterdam.

      Dans l’oeil du cyclone aux Etats-Unis
      Le navire entier avait alors été saisi et l’affaire avait permis de démontrer la complicité d’une partie de l’équipage. Selon l’enquête, ces marins de MSC n’étaient pas à l’origine du trafic, mais ils auraient communiqué avec les fournisseurs de drogue, via des téléphones cryptés, et auraient coordonné le chargement de drogue sur le navire. Sur 22 membres d’équipage, huit d’entre eux ont ensuite plaidé coupable et ont été condamnés.

      Mais d’après Bloomberg, l’affaire fait encore l’objet d’un bras de fer juridique entre MSC et le gouvernement américain, qui estime que la complicité des marins rend l’entreprise partiellement responsable de ce trafic, et voudrait la sanctionner à hauteur de 700 millions de dollars.

      En 2019, plusieurs autres saisies ont eu lieu : 1,6 tonne de cocaïne a été trouvée sur le MSC Carlotta dans le New Jersey (USA), puis 2,4 tonnes ont été saisies par les autorités péruviennes sur le même bateau. Cette année encore, 450kg de poudre blanche ont été saisies au port de Gênes, en Italie, à bord du MSC Adélaïde.

      MSC « particulièrement exposée »
      Bloomberg précise que l’armateur se défend de toute participation, s’estimant victime et non complice. Par communiqué de presse, le groupe rappelle que les transporteurs ne sont ni responsables ni formés pour lutter contre le crime organisé, même s’ils s’efforcent de déjouer les techniques des criminels.

      Mais surtout, MSC s’oppose à l’affirmation de Bloomberg selon laquelle la société entière serait infiltrée par un gang. Elle estime en outre avoir subi « un préjudice financier et réputationnel conséquent ».

      En définitive, l’enquête de Bloomberg https://www.bloomberg.com/news/features/2022-12-16/how-world-s-top-shipping-company-became-hub-for-drug-trafficking?leadSour montre surtout comment les gangs et cartels viennent se greffer au transport maritime international pour garantir leurs chaînes d’approvisionnement. Et MSC serait particulièrement exposé, parce qu’il couvre des trajets de l’Amérique du Sud à l’Europe du Nord, décrits comme les « autoroutes » de la cocaïne. Il est aussi le premier employeur de marins issus du Monténégro, pays d’origine du « Gang des Balkans », spécialisé dans le trafic de cocaïne.

      #transport_maritime #msc #mer #transport #conteneurs #containers #container #drogue #capitalisme #alexis_kohler

  • L’automobiliste du #futur
    http://carfree.fr/index.php/2022/11/10/lautomobiliste-du-futur

    Si le corps humain évoluait pour devenir résistant aux accidents de voiture, alors il ressemblerait probablement à « Graham » avance la Commission australienne des accidents de la route (TAC). Cette sculpture Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Insécurité_routière #accident #australie #communication #humour #sécurité_routière

  • En manque de bras, l’Australie rouvre ses frontières
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2022/09/03/en-manque-de-bras-l-australie-rouvre-ses-frontieres_6140082_3234.html

    En manque de bras, l’Australie rouvre ses frontières
    Confrontée à une pénurie de main-d’œuvre sans précédent, elle porte ses quotas d’immigration à un niveau record.
    Par Isabelle Dellerba(Sydney, correspondance)
    Publié aujourd’hui à 11h51
    Après avoir hermétiquement fermé ses frontières pour se protéger du Covid-19, entre mars 2020 et décembre 2021, l’Australie a décidé de les ouvrir en grand. Confronté à une grave pénurie de main-d’œuvre, le gouvernement travailliste a annoncé, vendredi 2 septembre, qu’il allait relever de 22 % le quota d’immigration qualifiée pour accueillir 195 000 étrangers par an. Un record historique. La décision a été prise à l’issue du Sommet national sur l’emploi et les compétences, qui a réuni organisations syndicales et patronales, le jeudi 1er et le vendredi 2 septembre, à Canberra.
    En juillet, le taux de chômage avait lui aussi atteint un plus-bas historique, tombant à 3,4 %. Soit le niveau le plus faible depuis 1974. Pour 480 000 postes de travail actuellement vacants, seulement 470 000 demandeurs d’emploi sont disponibles. « Cela fait quatre mois que je cherche deux pâtissiers et une vendeuse. J’ai tout tenté, dépensé des centaines de dollars, mais rien, je ne trouve personne. C’est extrêmement stressant », se désespère Gabriela Oporto, patronne d’une petite pâtisserie qui vient d’ouvrir à Forestville, au nord de Sydney. Dans sa rue commerçante d’à peine deux cents mètres, au moins cinq commerces peinent à recruter. Le gérant de Domino’s Pizza, James Bird, a vu ses délais de livraison exploser, faute de chauffeurs-livreurs, et constate maintenant une baisse de ses ventes.« Le marché du travail australien a toujours eu besoin de travailleurs étrangers pour répondre à l’ensemble de ses besoins. A cause de la pandémie, nous avons dû nous appuyer essentiellement sur la main-d’œuvre australienne mais elle ne suffit pas », explique Brendan Rynne, économiste en chef de KPMG.
    Pendant près de deux ans, l’île-continent, qui avait adopté une politique de zéro Covid, a laissé les travailleurs étrangers à la porte et ceux déjà présents sur son territoire sur le carreau. « Il est temps de rentrer chez soi », avait conseillé, en avril 2020, le premier ministre de l’époque, Scott Morrison, aux détenteurs de visas temporaires ne pouvant subvenir à leurs besoins. Résultat, l’Australie — où la moitié des 25 millions d’habitants a au moins un parent né dans un autre pays — doit désormais composer avec quelque 500 000 immigrants de moins que prévu, selon les calculs de KPMG, et convaincre d’éventuels travailleurs étrangers que les frontières ne se refermeront plus sur eux.
    Le pays accuse aussi un arriéré de plus de 900 000 demandes de visas permanents et temporaires. Vendredi, les autorités ont annoncé qu’elles allaient consacrer plusieurs dizaines de millions d’euros pour traiter rapidement ces dossiers. Par ailleurs, les diplômés étrangers, dans certains secteurs d’activité, seront autorisés à rester deux ans supplémentaires dans le pays.« Ce premier volet migratoire était indispensable étant donné la situation. Dans le secteur du tourisme et de l’hôtellerie-restauration, en particulier, beaucoup d’entreprises sont aujourd’hui contraintes de réduire leur activité faute de salariés », souligne Richard Robinson, professeur associé à la UQ Business School. Dans les fermes, des agriculteurs en sont réduits à laisser pourrir leurs fruits sur les arbres. « Il faut aussi des réformes structurelles » ajoute-t-il.
    Parmi les secteurs les plus touchés, ceux qui emploient des saisonniers peu qualifiés, mal payés et souvent corvéables à merci. Des conditions de travail que peu d’Australiens sont prêts à accepter. Mais le pays cherche aussi des professionnels de la santé, des directeurs de travaux, des ingénieurs, des analystes programmeurs…Vendredi, le premier ministre, Anthony Albanese, au pouvoir depuis mai, a annoncé plusieurs dizaines de mesures dont la plupart seront directement destinées aux travailleurs australiens, comme une enveloppe d’un milliard de dollars (700 millions d’euros) pour soutenir la formation professionnelle. Il s’est aussi et surtout félicité de voir émerger, grâce à ce sommet, une nouvelle « culture de coopération » entre organisations syndicales et patronales alors que pendant les neuf ans de règne libéral, les différents acteurs de l’économie s’étaient rarement assis autour d’une même table.Prochaine étape : s’entendre sur une hausse des salaires. C’est la préoccupation majeure des Australiens alors que l’inflation annuelle a atteint 6,1 % en juin. Dans le même temps, les salaires n’avaient augmenté que de 2,6 %.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#sante#pandemie#postcovid#politiquemigratoire#maindoeuvre#quota#travailleurmigrant#travailleuretranger#visatemoraire#visapermanent#zerocovid

  • Australia woos Hong Kong tourists to help restore pandemic-battered tourism industry, banks on pent-up demand | South China Morning Post
    https://www.scmp.com/business/article/3184636/australia-woos-hong-kong-tourists-help-restore-pandemic-battered-tourism

    Australia woos Hong Kong tourists to help restore pandemic-battered tourism industry, banks on pent-up demand. Hong Kong was a top 10 international market before Covid-19 for Tourism Australia, which expects numbers to jump if quarantine requirements are relaxe. For the financial year ending in June 2023, Tourism Australia is targeting 121,000 visitors from Hong Kong – about 43 per cent of the pre-pandemic number
    Australia is training its sights on tourists from Hong Kong amid an anticipated recovery in tourism as Canberra welcomes visitors to its shores after two years of Covid-19 curbs.Visitor numbers from Hong Kong remain at a fraction of pre-pandemic levels, but Tourism Australia expects that to change if and when the city relaxes quarantine requirements.“Hong Kong was a top 10 international market before Covid-19 and the first to achieve its tourism spend goal,” said Andrew Hogg, executive general manager for eastern markets and aviation with Tourism Australia, noting that reducing quarantine requirements in the city to seven days from as many as 21 is likely to release some pent-up demand for travel.Hongkongers averaged four international trips per year pre-pandemic, Hogg noted. “Australia ranks high in awareness and intention among other destinations,” he added. “Australia’s offerings continue to match the expectations of high-value travellers in Hong Kong under travel restrictions.”Tourism Australia has mounted a number of recent campaigns to promote its destinations and offerings to Hongkongers.In September, Tourism Australia, along with the Australian Trade and Investment Commission and Miramar Travel, launched thematic staycation packages called “Wanderful Australia”, allowing staycationeers at The Mira Hong Kong to enjoy themed rooms recalling Aussie experiences such as New South Wales’ jacaranda season or Melbourne’s coffee culture.In January, the agency also launched “Work and Play the Aussie Way”, a showcase of adventures young people could have while working and travelling in the country. A video series called “Australia in 8D” used a YouTube audio technology to “emulate the feeling of an Australian holiday”, with help from the Melbourne Symphony orchestra.
    Australia expects full recovery for its tourism industry to arrive in 2025, Hogg said, including the Hong Kong market.

    The tourism sector, one of the worst-hit when the pandemic broke out across the globe in early 2020, is a major contributor to the Australian economy. It is the country’s fourth largest exporting industry, accounting for 8.2 per cent of export earnings in financial year 2018-2019, data from Tourism Australia show.
    International overnight tourists in Australia spent A$45.4 billion (US$31 billion), or 36 per cent of total tourism spending in the country, in 2019. The industry also employed 666,000 Australians in 2018-2019, making up 5 per cent of the country’s total workforce. In certain tourism-dependent regions, the impact is more magnified.After two years of keeping its borders shut to contain the spread of the coronavirus pandemic, Australia reopened to international travellers in February and has launched a promotion to get the sector back up and running.“Tourism was one of the first industries hit by Covid-19, and the sector’s contribution to GDP [gross domestic product] was down almost 50 per cent,” Hogg said.Hong Kong is one market that is likely to play an important role in the recovery, and despite the tough travel restrictions still being implemented in the city, Canberra believes that Hongkongers will still be willing to visit Australia.
    For the financial year ending June 2023, Tourism Australia is targeting about 121,000 visitors from Hong Kong – about 43 per cent of the pre-pandemic number. The tourism authority expects tourists from Hong Kong to spend A$654 million, or about half of their previous spending.
    Welcome back! Australia reopens its borders to fully vaccinated travellers after two yearsAs of March this year, international arrivals to Australia reached 520,000, including leisure and holiday arrivals and those visiting friends and relatives. Of those, 6,952 were from Hong Kong and 17,542 were from mainland China.Online booking platforms Booking.com and Trip.com have also recognised the pent-up demand for travel and have rolled out measures to attract travellers.“Booking.com rolled out an industry-first, the Travel Sustainable badge, to support our partners and customers in taking the next steps to become more sustainable, no matter where they might be on that journey,” said Laura Houldsworth, managing director for Asia-Pacific. “The goal of the badge is to enable travellers to make more informed choices when choosing their accommodations and provide industry-standard recognition to properties. Over 100,000 properties proudly feature the badge as an indicator of their efforts to be more sustainable.”

    #Covid-19#migrant#migration#australie#hongkong#sante#pandemie#tourisme#retsrictionsanitaire#economie#frontiere#vaccination

  • En Chine, la poursuite des mesures drastiques contre le Covid-19 pousse la population à vouloir s’exiler
    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/05/20/en-chine-la-poursuite-des-mesures-drastiques-contre-le-covid-19-pousse-la-po

    En Chine, la poursuite des mesures drastiques contre le Covid-19 pousse la population à vouloir s’exiler. Les recherches sur les conditions d’émigration ont explosé sur Internet, mais le gouvernement de Pékin multiplie les mesures de restriction au départ.
    Par Simon Leplâtre(Shanghaï, correspondance) et Frédéric Lemaître(Pékin, correspondant)
    Au fil des semaines, Sam, Shanghaïen de 27 ans, a vu son anxiété monter. « Il y a vraiment une pression mentale à ne pas pouvoir sortir de chez soi. Travailler en ligne est compliqué, et le fait de ne pouvoir rencontrer personne… je me sens déprimé », soupire le jeune homme, confiné depuis le 16 mars. Au stress de l’isolement s’ajoute une inquiétude spécifique à l’approche drastique adoptée par la Chine, dans sa politique zéro Covid : « J’ai peur parce qu’ils peuvent m’embarquer à tout moment : il suffit d’un cas positif dans mon bâtiment, et je serai envoyé en centre d’isolement. Ils peuvent venir à minuit, aucune discussion n’est possible. Et, en plus, il faut laisser sa porte ouverte pour que des équipes viennent asperger votre intérieur de désinfectant… On n’a même pas la liberté de rester chez soi. » Alors Sam a décidé de quitter son pays : « Parce que je pense que les années à venir vont être très difficiles en Chine. »Depuis le début du confinement de Shanghaï, il y a huit semaines, les recherches en ligne au sujet des procédures d’émigration ont explosé. Le 17 mai, le sujet a été mentionné cent millions de fois sur WeChat, le réseau social dominant en Chine, contre cinq à vingt millions de fois par jour, en février. Sur le moteur de recherche Baidu, les demandes concernant l’émigration ont aussi explosé : la question « Combien coûte la procédure d’émigration vers l’Australie ? » arrive en tête des demandes. Devant ce regain d’intérêt pour l’exode, les autorités chinoises ont décidé, jeudi 12 mai, de « mettre en place une politique de migration stricte », précisant que les « sorties non essentielles » du territoire étaient limitées pour les ressortissants chinois, officiellement pour limiter les retours, et donc les risques d’importer le virus. Seuls sont tolérés les voyages à l’étranger pour raison professionnelle ou d’étude, ce qui peut entraîner des situations kafkaïennes pour les couples mixtes.
    Depuis mars 2020, la Chine a annulé 98 % des vols internationaux. Les rares billets disponibles le sont à des prix prohibitifs. Dès août 2021, Pékin avait limité les sorties du territoire aux facteurs « nécessaires ». Résultat, en 2021, la Chine n’a enregistré que soixante-quatorze millions d’entrées et de sorties de son territoire – 79 % de moins qu’en 2019 – et délivré seulement trois cent trente-cinq mille passeports au premier semestre 2021, soit 2 % du total délivré sur la première moitié de 2019.
    Cet état d’exception, qui se prolonge alors que le reste du monde a abandonné la plupart des restrictions liées au Covid, est de plus en plus frustrant pour la classe moyenne supérieure chinoise, habituée à voyager. D’où une explosion des demandes pour les services d’aide à l’émigration. « J’ai été contacté par des dizaines de personnes, depuis avril, mais cela ne veut pas dire que tous vont effectivement émigrer, tempère M. Wang (un pseudonyme), fondateur d’une petite entreprise de conseil en émigration pour les Chinois. Le processus est long : il faut évaluer le profil du client, vérifier les documents qu’il nous soumet avant de décider quel projet peut lui convenir. En général, on compte trois à six mois avant de signer un contrat. »L’intérêt pour l’étranger n’est pas nouveau : des millions de Chinois aisés envoient leurs enfants étudier dans les pays anglo-saxons ou cherchent à mettre en sécurité une partie de leurs avoirs. D’après l’ONU, la diaspora chinoise compte soixante millions de membres, dont 10,7 millions sont encore citoyens de la République populaire de Chine.Dans certaines villes, comme Sydney, en Australie, ou Vancouver, au Canada, cet afflux de capitaux chinois a fait exploser les prix de l’immobilier. « Avant le Covid, la moitié de mes clients demandaient s’ils pouvaient continuer à gagner leur vie en Chine, en ayant une porte de sortie, un visa ou un passeport étranger. Les motivations ont aussi changé : avant, l’éducation des enfants était la principale raison, la sécurité de la propriété privée venait ensuite, la qualité de vie et de l’air en troisième, et enfin la sécurité politique, pour des hommes d’affaires qui pouvaient craindre des campagnes anticorruption. Mais cette fois, c’est différent : les gens veulent partir parce qu’ils ne supportent plus les restrictions », explique cet agent.Encore faut-il y parvenir : Sam a contacté un agent et lancé, mi-2020, une demande de visa pour le Canada, en tant que travailleur qualifié. Malgré un diplôme d’analyste financier dans une université américaine, il est sur liste d’attente. « A l’époque, je voyais ça plutôt comme une sécurité, mais je n’étais pas déterminé à partir. Cette fois, avec le confinement, je veux vraiment m’en aller », témoigne-t-il. L’annonce du resserrement des restrictions aux voyages par l’administration de l’immigration l’inquiète : « Je dois renouveler mon passeport en septembre, et je ne sais même pas si je pourrai. » Dans la province du Hunan, dans le centre de la Chine, certaines localités ont ordonné à tous les détenteurs de passeport de les remettre à la police « jusqu’à la fin de la pandémie ». Une obligation qui touche de plus en plus de fonctionnaires, de membres du Parti communiste ou de cadres travaillant dans les entreprises publiques.D’autres ont repoussé leur projet de départ, après l’annonce des autorités de l’immigration. « Ce qui constitue un voyage essentiel n’est pas défini, à dessein. Cela crée de l’incertitude. Et cela fonctionne : nous avons abandonné l’idée de partir pour l’instant », témoigne Simon, un citoyen chinois qui a grandi en Allemagne. Il a tenté de quitter Shanghaï, fin mars, juste avant le confinement. « Je suis résident permanent en Allemagne, mais ma femme, chinoise, avait besoin de demander un visa Schengen. Nous n’avons pas eu le temps. On avait aussi envisagé d’aller en Thaïlande ou au Vietnam avec un visa de tourisme dans un premier temps, mais ce serait considéré comme non essentiel. »Investisseur en Chine pour un fonds de capital-risque allemand, Simon craint une fuite des cerveaux et des capitaux. « Jusqu’ici, j’étais plutôt optimiste sur les perspectives du marché chinois, mais, désormais, je conseille à notre fonds de quitter le pays : je ne vois pas de scénario favorable pour la Chine ces deux prochaines années. » L’annonce, le 14 mai, que la Chine renonçait à accueillir la Coupe d’Asie de football en juin 2023 a douché les espoirs de ceux qui croyaient à une réouverture prochaine du pays.Sur les réseaux sociaux, une nouvelle expression est apparue début avril : le run xue, un jeu de mots avec un caractère qui se prononce comme run, « courir » en anglais, et xue, « l’étude » en chinois : une sorte de philosophie de la fuite. Sous ce mot-clé, les internautes chinois discutent de l’anxiété du quotidien confiné, de la liberté retrouvée dans le reste du monde et des conditions pour quitter le pays.« Les témoignages sur les réseaux sociaux montrent clairement que, pour une partie des Chinois, les confinements ne font pas partie du contrat implicite qui les lie au Parti communiste, commente un diplomate occidental. Cela laissera des séquelles politiques, comme l’arrestation puis la mort du docteur Li, à Wuhan en 2020. Partir n’est pas un acte facile, mais on verra sans doute des départs dans les mois à venir. De même que certains Chinois vivant à l’étranger vont hésiter ou renoncer à rentrer. » Jeudi 19 mai, un de ses collègues était exceptionnellement en retard à un rendez-vous : « Désolé, j’étais à un pot de départ d’un collaborateur de l’ambassade présent depuis douze ans. Sa femme chinoise n’en peut plus. Ils ont décidé de partir en Europe. »

    #Covid-19#migrant#migration#chine#sante#emigration#restrictionsanitaire#confinement#etranger#retour#immigration#visa#anxiete#santementale#europe#etatsunis#australie#passeport#pandemie

  • Australie : Facebook accusé d’avoir délibérément bloqué des pages gouvernementales pour empêcher le vote d’une loi
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2022/05/06/australie-facebook-accuse-d-avoir-deliberement-bloque-des-pages-gouvernement

    En 2021, le réseau social a bloqué en Australie certaines pages d’information sur le Covid-19 ou les catastrophes naturelles. Censée être « involontaire », la manœuvre visait en réalité à peser sur l’élaboration d’une loi à laquelle Facebook était défavorable, selon le « Wall Street Journal ».

    Par Nicolas Six

    En 2021, en pleine pandémie, Facebook a intentionnellement bloqué certaines pages du gouvernement, d’hôpitaux et de services d’urgence australiens afin de peser sur une loi qui s’apprêtait à être votée par Canberra, selon les informations publiées jeudi 5 mai par le Wall Street Journal.

    En février de cette année-là, le gouvernement australien cherche à imposer aux géants du numérique la rémunération des contenus journalistiques apparaissant sur leurs pages. Google cède mais Facebook – aujourd’hui rebaptisé Meta – se braque une semaine avant le vote de la loi, restreignant en réponse l’accès aux articles et vidéos de nombreux journaux australiens et internationaux. Au passage, le réseau social bloque également les pages d’organismes gouvernementaux informant sur l’épidémie du Covid-19 et plusieurs pages d’information sur les catastrophes naturelles, et ce quelques jours avant le début de la campagne nationale de vaccination et en pleine saison des incendies et inondations.
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    Ces blocages, qualifiés à l’époque d’« involontaires » par Facebook, étaient en réalité délibérés, si l’on en croit les observations de plusieurs lanceurs d’alerte révélées par le Wall Street Journal. Selon leurs témoignages et des documents internes à l’entreprise, qui ont été transmis au département de la justice des Etats-Unis ainsi qu’à la Commission australienne de la concurrence et de la consommation, ces dépublications résultaient d’une stratégie pensée et sciemment mise en œuvre par la plate-forme.

    Les documents fournis par les lanceurs d’alerte montrent que plusieurs employés de Facebook ont tenté de faire remonter le problème

    Tout en affichant sa volonté de bloquer exclusivement des organes de presse, Facebook aurait ainsi employé un algorithme de tri dont l’entreprise savait pertinemment qu’il toucherait beaucoup d’autres publications. Les documents fournis par les lanceurs d’alerte montrent que plusieurs employés de Facebook ont tenté de faire remonter le problème et d’offrir des solutions, mais l’équipe en charge des dépublications leur aurait répondu de façon minimaliste ou dans des délais trop longs.

    A la suite de ces remontées internes, Facebook n’a pas arrêté sa campagne de dépublications : au contraire, ces dernières ont rapidement été généralisées à tous les utilisateurs australiens de la plate-forme, alors que seulement 50 % d’entre eux y étaient confrontés aux premières heures. Un signe d’empressement inhabituel, selon le Wall Street Journal, qui souligne que l’entreprise est habituellement beaucoup plus lente et prudente lorsqu’elle déploie de nouvelles fonctionnalités. « Il était clair que nous n’étions pas en train de nous conformer à la loi mais que nous étions en train de frapper des institutions publiques et des services d’urgence », a témoigné une membre de l’équipe chargée des suppressions.
    Les responsables de Facebook au courant

    Selon le quotidien américain, l’objectif était bien d’exercer une pression maximale sur le Parlement australien avant le vote de la loi exigeant une rémunération pour les articles de presse sur les plates-formes numériques.

    Cinq jours après les premières dépublications, la loi passait au vote, comme prévu, mais son texte était amendé d’une façon favorable à Facebook, conformément aux changements négociés la veille entre le réseau social et le gouvernement. Si la version initiale du texte avait été entérinée, l’entreprise aurait été contrainte d’entrer en négociation avec l’ensemble des éditeurs, sous la supervision de l’Etat. Or ces amendements lui ont permis de composer au cas par cas avec les médias de son choix : depuis lors, Facebook a négocié treize accords de rémunération avec des éditeurs de presse, selon un porte-parole de l’entreprise cité par le Wall Street Journal.
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    Immédiatement après la conclusion de son accord avec le gouvernement australien, Facebook a débloqué l’accès aux pages gouvernementales, selon des documents internes à l’entreprise. Un changement qui n’aurait demandé qu’une petite modification de trois lignes de code informatique, d’après le Wall Street Journal. Signe supplémentaire d’une stratégie délibérée : dans les minutes suivant le vote du Parlement, la directrice des partenariats de Facebook, Campbell Brown, envoyait un e-mail aux équipes de Facebook vantant leur succès : « Nous sommes parvenus exactement à l’endroit que nous souhaitions. » Le directeur général de l’entreprise, Mark Zuckerberg, ainsi que sa numéro deux, Sheryl Sandberg, se sont également félicités par écrit de l’opération, Mme Sandberg saluant la « précision d’exécution » de cette stratégie.

    En réponse à l’enquête du journal américain, un porte-parole de Facebook nie les accusations portées à l’encontre de l’entreprise. « Ces documents montrent clairement que nous avions l’intention d’exempter les pages gouvernementales de restrictions afin de minimiser l’impact de cette législation nocive et malavisée. (…) Nous n’avons pu y parvenir en raison d’une erreur technique, nous nous en sommes excusés, et nous avons travaillé pour résoudre ce problème. Toute allégation contraire serait catégoriquement et clairement fausse. »

    Nicolas Six

    #Facebook #Australie #Algorithme #Editorialisation

  • Decolonising Settler Cities - Antipode Online
    https://antipodeonline.org/iwas-1617-porter

    ❝Decolonising Settler Cities, Post-Workshop Report, May 2018

    Professor Libby Porter (Centre for Urban Research, RMIT University)

    Dr Tod Jones and Dr Shaphan Cox (Department of Planning and Geography, Curtin University)

    Professor Cheryl Kickett-Tucker (Translational Research Centre for Aboriginal Knowledges and Wellbeing, Curtin University)

    Summary of achievements

    Decolonising Settler Cities was a series of events held throughout 2017 bringing together Indigenous and non-Indigenous activists, scholars, communities and practitioners to share their questions and critiques, experience and knowledge of cities as settler-colonial modes of power, and the possibilities and obstacles they present for Indigenous land justice.

    Every Australian city is built on the unceded country[1] of distinct, sovereign Aboriginal and Torres Strait Islander peoples who continue to practice their laws, cultures, rights and interests under persistent regimes of settler-colonial power. Yet this fact has still not penetrated urban scholarship and practice in Australia. There has been remarkably little effort made to interrogate how this fact unsettles the categories, theories and knowledges used by urban geography and built environment disciplines to understand and practice the Australian city. Despite some key interventions in the field from a handful of scholars, there remains a profound silence in mainstream Australian urban geographical scholarship and practice on Indigenous rights and justice. The urban context is also a stubbornly difficult place for Aboriginal and Torres Strait Islander people to realise land justice. While nearly 80% of Indigenous people in Australia live in cities, less than 1% of the land base returned after decades of their struggle is in urban areas. The question of the urban context, then, for Indigenous land and cultural justice is both urgent and vital.

    Our purpose in this series of events was to bring these issues more sharply onto the agenda for radical urban geography in Australia and beyond. Building on recent efforts to bring critical analyses of urbanisation and settler colonial contexts together, the events contributed to efforts toward reconfiguring Australian urban scholarship and practice to properly attend to Indigenous land and cultural justice.

    We held a special panel session within the annual conference of the Institute of Australian Geographers (IAG) in July 2017 in Brisbane, Queensland. This lively discussion panel, “Practising paradox: Decolonising urban geographies from the settler-colonial University”, attracted around 20 participants and was led by Libby Porter and Tod Jones with special guest Yvonne Underhill-Sem.

    In September 2017, we held a two-day symposium in Perth, Western Australia. This attracted more than 60 delegates from around Australia and beyond, with around 50% Indigenous and 50% non-Indigenous participation and a mix of disciplinary backgrounds. The program included special guests Linda Kennedy and Oren Yiftachel. The event was co-designed between Indigenous and non-Indigenous organisers as a way to unsettle and challenge the conventions of knowing and sharing knowledge that tend to prevail in western scholarly contexts.

    Program and book of abstracts

    The symposium began with a yarning circle, facilitated by Carol Dowling, a Nyoongar scholar and cultural knowledge holder of yarning circle methods. For three hours on the first morning, Carol held open a specially designed space for the open sharing of ourselves as participants in terms of who we are in relation to Indigenous sovereignties and laws, and our individual experiences of settler-colonial power relations.

    Carol Dowling facilitating the yarning circle

    The program included papers on Aboriginal land rights, treaty negotiations, place-making and property, justice, urban design practices, education and pedagogy among other important themes. Many of the papers were joint presentations between Indigenous and non-Indigenous collaborators.

    One session involved around ten young people (aged 11-19) from the Kaat Koort n Hoops Peer Ambassador program in a panel session, facilitated by Cheryl Kickett-Tucker where they discussed what self-determination means to them in an urban context and some of the ways they are leading the future.

    Kaat Koort n Hoops honours the importance of education and the future aspirations upon wellbeing, academic outcomes and transitions. KKnH is an innovative community-led and sustainable program comprised of weekly wellbeing activities combined with weekly organized sport activities developed and delivered by Aboriginal young people (KKnH Peer Ambassadors). The purpose of this innovation is to provide real life, practical, leadership opportunities to Peer Ambassadors who will learn and teach young peers (KKnH participants) about holistic wellbeing (using organized sport as the vehicle). KKnH aims to provide Peer Ambassadors with a culturally empowering space to learn new skills, knowledge and confidence in a fun and relevant work environment so that they take a proactive approach to their life choices for the future and for today.

    fig4

    Kaat Koort n Hoops Peer Ambassadors

    As part of our outcomes, Peer Ambassadors partake in external, value add activities such as the Decolonising Settler Cities international symposium. Over three weeks leading up to the symposium, ten young Ambassadors (both Aboriginal and non-Aboriginal aged 12-23 years) worked independently and collectively to workshop their ideas of decolonization from their perspectives. At the symposium they led a young persons’ panel to present their ideas and take questions from the audience. They worked alongside KKnH Project Director, symposium co-convenor and working party member Cheryl Kickett-Tucker.

    We were led by Nyoongar Elder Noel Nannup on a walking tour to meet and know the country on which we were meeting through Nyoongar law and culture. We were able to film most of the symposium and have been able to create an archive shared among all the participants at this stage, as we work together on other negotiated outcomes that might be enabled by this archive.

    fig5

    Noel Nannup leading us toward knowing Nyoongar country

    Organising these events has helped toward creating a movement within Australian urban geography and cognate built environment disciplines towards a decolonizing ethics and politics in the service of self-determining Indigenous justice. There is evidence that such a movement has emerged and is gaining some momentum. At the 2017 RGS-IBG conference, two of the organisers of these Antipode Foundation-funded events convened a special paper session based on the IAG panel discussion, focused on decolonising knowledges within universities. The session included papers from Indigenous and non-Indigenous scholars on the paradoxes and challenges of decolonial practice within Universities. The Urban Geography Study Group of the Institute of Australian Geographers commissioned Linda Kennedy to write a “Leading Insight” essay on decolonising urban practice. This achieves a widening of the voices heard in Australian urban geographical studies, in formats that refuse the forms of white knowledge-creation that we have sought to challenge. A number of postgraduate students are taking up these issues and organising their own events and discussions. We have also worked with Clare Land, author of Decolonising Solidarity, to develop a reading and action group based on her book to further develop decolonial practices of solidarity and scholarship.

    Challenges encountered

    We encountered thankfully few major challenges or problems, but some of our intentions and program had to change to accommodate shifting conditions. A first challenge was that we were unable to host the one-day online forum originally planned. A number of conditions conspired to undermine this plan, perhaps the most significant being that as an organising team we were a little removed from the main organising committee of that event. It is likely to happen in 2018, and we can support the event and create the synergies originally planned.

    A second unfortunate change of plans occurred when Tony Birch was unable to join the Perth symposium at the last minute due to a serious illness in his family. While we missed Tony’s voice and had already paid some amounts for his travel which were not refundable, his withdrawal did not have a major effect on the outcomes we were able to achieve.

    Finally, practising decolonising ethics and philosophies within the organising of these efforts is a challenging undertaking. One of the most instructive dimensions of the work was where our intentions and practices came into conflict with the norms and expectations particularly of Western universities and also expectations and conventions within the scholarly community. We continue to reflect on these challenges and they will form part of our published outputs in the coming months.

    Plans for the future

    The 2018 NZGS-IAG conference will feature a special “Leading Insight” session sponsored by the Urban Geography Study Group on furthering the theme of decolonising urban knowledges, including published output forthcoming in Australian Geographer.

    We’re also planning a series of published outputs, including a co-authored article from the Perth symposium and a co-authored article from the RGS-IBG special session.

    Note

    [1] A word used widely by Aboriginal and Torres Strait Islander people in Australia to denote their special relationship with their lands and waters. Country is a living, sentient being in itself, an interconnected web of people, environment and non-human species.

    *

    Symposium, 26-27 September, Perth, Australia

    Decolonising Settler Cities is supported by an Antipode Foundation International Workshop Award. The award supports our pursuit in this symposium of knowing the city differently through conversation with Indigenous custodians, activists, scholars, elders and practitioners, and to use this as the basis for rethinking settler-colonial urbanism. Keynote speakers include Tony Birch, Linda Kennedy and Oren Yiftachel.

    There is still time to make a submission of interest to Decolonising Settler Cities. The call for participants closes on 1 June; please make a submission of 300 words to Tod Jones at Curtin University (T.Jones@curtin.edu.au) or Libby Porter at RMIT University (libby.porter@rmit.edu.au). More information is available on our website here.

    Please join us in seeking an agenda for establishing decolonising practices in Australian cities.

    We acknowledge and thank the Wadjuk Noongar people on whose territory Decolonising Settler Cities will be held. This symposium is hosted by Curtin University’s Translational Research Centre for Aboriginal Knowledges, the Centre for Aboriginal Studies, and the School of Built Environment in collaboration with the Centre for Urban Research, RMIT University. We acknowledge support and funds from the Institute of Australian Geographer"

    PDF of the workshop report: https://resources.curtin.edu.au/file/faculty/hum/Decolonising-Settler-Cities-Program.pdf

    #Decolonisation #Décolonial #ville #Australie #Indigenous