• L’agence de l’ONU pour l’aviation juge la Russie responsable de la destruction du MH17 en 2014
    https://www.francetvinfo.fr/monde/crash-en-ukraine/crash-du-mh17-en-ukraine-en-2014-la-russie-responsable-selon-l-agence-d

    Le 17 juillet 2014, le Boeing 777 qui reliait Amsterdam à Kuala Lumpur avait été abattu par un missile sol-air BUK de fabrication russe au-dessus de l’Ukraine, tuant 298 passagers et membres d’équipage. Plus de dix ans plus tard, l’agence de l’ONU pour l’aviation civile a estimé, lundi 12 mai, que la Russie était responsable du crash de l’avion, intervenu au-dessus du territoire aux mains des séparatistes prorusses.

    « La Fédération de Russie n’a pas respecté ses obligations en vertu du droit aérien international lors de la destruction du MH17 de la Malaysia Airlines en 2014 », a estimé l’Organisation de l’aviation civile internationale (OACI). Pour sa « première décision » concernant un différend entre Etats membres, le Conseil de cette organisation, basée à Montréal (Canada), a jugé que les plaintes déposées par l’Australie et les Pays-Bas, les plus touchés par le drame, étaient « fondées en fait et en droit ».

    La Russie a toujours nié toute implication dans l’incident, et a réitéré sa position mardi. « La Russie ne fait pas partie des pays ayant participé à l’enquête sur cet incident. Nous n’acceptons donc pas toutes ces conclusions biaisées », a déclaré à la presse le porte-parole de la présidence russe, Dmitri Peskov.
    Un « moment historique »

    « Il s’agit d’un moment historique dans la quête de vérité, de justice et de responsabilité pour les victimes de l’accident du vol MH17, leurs familles et leurs proches », a réagi de son côté le gouvernement australien après cette annonce. Canberra demande de prendre rapidement des mesures pour remédier à cette violation. « Nous demandons à la Russie d’assumer enfin sa responsabilité dans cet horrible acte de violence et de réparer sa conduite flagrante, comme l’exige le droit international », a ajouté l’exécutif australien.

    De son côté, le ministre néerlandais des Affaires étrangères, Caspar Veldkamp, s’est félicité de cette décision, estimant que cela ne pourrait pas « effacer le chagrin et la souffrance » des proches des victimes, mais qu’il s’agissait d’"un pas important vers la vérité et la justice". Selon le gouvernement néerlandais, « dans les semaines à venir, le conseil de l’OACI examinera la manière dont la réparation juridique devrait avoir lieu ».

  • Les lesbiennes ripostent également en Australie

    Questions à poser au sujet sur les lesbiennes

    Discours prononcé le 21 mars 2025 au Forum de la Commission de la condition de la femme des Nations Unies 69/Beijing+30

    Aujourd’hui, je m’adresse à vous depuis le pays aborigène de Djiru, situé dans l’extrême nord du Queensland, où je vis et travaille, et je reconnais respectueusement leurs droits de possession de leurs terres et leurs voies navigables. Je salue également les nombreuses femmes qui, tout au long de l’histoire, ont lutté pour la liberté des femmes et des lesbiennes, souvent au prix de leur vie.

    Je vais entamer mon discours aujourd’hui par quelques citations de lesbiennes qui ont été victimes de violences, notamment de viols correctifs, de tortures, de grossesses et de mariages forcés, d’emprisonnements et du châtiment ultime, le meurtre. Je rends hommage à toutes ces lesbiennes pour leur force, leur résistance et leur amour pour les lesbiennes. Et je soulève des questions en leur nom et au nom de toutes les lesbiennes.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2025/04/01/les-lesbiennes-ripostent-egalement-en-australi

    #feminisme #australie

  • La responsabilità dell’Australia per la detenzione arbitraria sull’isola di #Nauru

    Con due accordi firmati oltre dieci anni fa con la Repubblica di Nauru, Canberra -spesso presa a “modello” dai governi europei- ha stabilito che le domande di asilo presentate nel suo territorio debbano essere esaminate offshore sull’isola, trasferendo forzatamente le persone. Un modo per aggirare i propri obblighi internazionali che è stato sanzionato dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Ecco perché.

    Con due decisioni di portata storica, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha decretato la responsabilità dell’Australia per la detenzione arbitraria di richiedenti asilo trasferiti o reindirizzati verso i centri di detenzione offshore situati nella Repubblica di Nauru. Attraverso la sottoscrizione di due memorandum d’intesa con Nauru nel 2012 e nel 2013, l’Australia ha stabilito che le richieste di asilo presentate nel suo territorio vengano esaminate offshore su quest’isola, trasferendo forzatamente le persone migranti nel piccolo Stato insulare del Pacifico.

    Il 9 gennaio 2025, il Comitato delle Nazioni Unite ha deliberato su due casi riguardanti rifugiati e richiedenti asilo sottoposti a detenzioni prolungate e arbitrarie proprio presso il Centro di elaborazione regionale di Nauru. “Uno Stato non può sottrarsi alle proprie responsabilità in materia di diritti umani delegando l’elaborazione delle richieste d’asilo ad un altro Paese”, ha dichiarato Mahjoub El Haiba, membro del Comitato, aggiungendo: “quando un Paese esercita un controllo effettivo su un’area, i suoi obblighi secondo il diritto internazionale rimangono saldi”.

    Il primo caso esaminato dalle Nazioni Unite riguarda 24 minori non accompagnati provenienti da Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Myanmar, tutti intercettati in mare dalle forze di polizie australiane mentre fuggivano dalle persecuzioni nei loro Paesi d’origine. I minori erano diretti in Australia: tra il 2013 e il 2014, sono stati portati sull’Isola di Natale, piccolo territorio australiano nell’Oceano Indiano, e trattenuti in detenzione obbligatoria per periodi compresi tra i due e i 12 mesi.

    Nel 2014 sono poi stati trasferiti a Nauru e trattenuti nel sovraffollato Centro di elaborazione regionale, caratterizzato da carenza di acqua potabile e servizi igienici, alte temperature e umidità e da cure mediche inadeguate. Secondo quanto esaminato dal Comitato, quasi tutti i minorenni hanno sofferto un deterioramento della loro salute fisica e mentale, manifestando autolesionismo, depressione, problemi renali, insonnia, mal di testa, problemi di memoria e perdita di peso. Nonostante quasi tutti avessero ottenuto lo status di rifugiati intorno a settembre 2014, sono però rimasti detenuti a Nauru.

    Nel secondo caso, una richiedente asilo iraniana è arrivata in barca sull’Isola di Natale nell’agosto 2013 con il marito, il patrigno, la sorellastra e un cugino maschio: nessuno di loro aveva un visto valido. Sette mesi dopo, la donna è stata trasferita a Nauru e trattenuta nel Centro di elaborazione regionale. Le autorità nauruane le hanno riconosciuto lo status di rifugiata nell’aprile 2017, ma non è stata rilasciata nell’immediato. Tredici mesi dopo il riconoscimento del suo status, è stata trasferita in un’area di supporto -sempre a Nauru- per ricevere assistenza sanitaria. Solo nel novembre 2018 è stata trasferita nella terraferma australiana per motivi medici, ma è comunque rimasta detenuta in varie strutture.

    In entrambi i casi, le vittime hanno presentato reclami al Comitato per i diritti umani, sostenendo che l’Australia aveva violato i suoi obblighi ai sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), in particolare l’articolo 9, relativo alla detenzione arbitraria. L’Australia ha respinto le accuse sostenendo che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare che le presunte violazioni avvenute a Nauru rientrassero nella sua giurisdizione.

    Tuttavia il Comitato ha fatto notare che, secondo fonti pubbliche e ufficiali, l’Australia ha pianificato la costruzione e l’istituzione del Centro di elaborazione regionale a Nauru, contribuendo direttamente alla sua gestione attraverso finanziamenti, contratti con enti privati e altri soggetti responsabili direttamente nei suoi confronti. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, “l’Australia ha un controllo e un’influenza significativi sul Centro di elaborazione regionale a Nauru e, pertanto, riteniamo che i richiedenti asilo coinvolti in questi casi siano sotto la giurisdizione dello Stato parte ai sensi dell’Iccpr”, ha specificato El Haiba.

    Nel dettaglio, per quanto riguarda il caso dei 24 minori non accompagnati, il Comitato ha riscontrato che l’Australia non ha giustificato in maniera adeguata perché questi minori non potessero essere trasferiti in centri di detenzione comunitari sulla terraferma, più adatti alle esigenze specifiche di individui vulnerabili. Il Comitato ha quindi concluso che l’Australia ha violato l’articolo 9 dell’Iccpr, che garantisce il diritto di essere liberi dalla detenzione arbitraria. Inoltre, poiché i minori non avevano un canale efficace per contestare la legalità della loro detenzione davanti ai tribunali nazionali, il Comitato ha riscontrato anche una violazione relativa al diritto delle persone private della libertà di portare le proprie richieste in tribunale.

    Nel caso invece della rifugiata iraniana, il Comitato ha osservato che l’Australia non ha dimostrato su base individuale che la detenzione prolungata e indefinita della vittima fosse giustificata, violando anche in questo caso l’articolo 9 dell’Iccpr. “Le nostre conclusioni inviano un chiaro messaggio a tutti gli Stati: dove c’è potere o controllo effettivo, c’è responsabilità. L’esternalizzazione delle operazioni non esime gli Stati dai propri doveri. I centri di detenzione in non sono zone franche per i diritti umani dello Stato parte, che rimane vincolato dalle disposizioni del Patto”, è il commento di El Haiba.

    L’Iccpr, infatti, è stato ratificato da 174 Paesi, Australia inclusa. Su tali basi, il Comitato ha invitato l’Australia a fornire un risarcimento adeguato alle vittime e ad adottare misure per garantire che violazioni simili non si ripetano. In particolare, ha sollecitato una revisione della legislazione migratoria e degli accordi bilaterali di trasferimento per allinearli agli standard internazionali sui diritti umani.

    https://altreconomia.it/la-responsabilita-dellaustralia-per-la-detenzione-arbitraria-sullisola-
    #Australie #externalisation #modèle_australien #asile #migrations #réfugiés #détention_arbitraire #responsabilité #ONU #Comité_des_droits_de_l'Homme

    • Australia responsible for arbitrary detention of asylum seekers in offshore facilities, UN Human Rights Committee finds

      In two landmark decisions, the UN Human Rights Committee has ruled that Australia remained responsible for the arbitrary detention of asylum seekers redirected or transferred to offshore detention facilities in the Republic of Nauru.

      The Committee published its Decisions today about two cases involving refugees and asylum seekers who have endured prolonged and arbitrary detention in the Regional Processing Centre in Nauru. Australia signed Memoranda of Understanding with Nauru in 2012 and 2013, allowing Australia to forcibly redirect and transfer asylum seekers to the Pacific Island nation for processing.

      “A State party cannot escape its human rights responsibility when outsourcing asylum processing to another State,” said Committee member Mahjoub El Haiba, adding that, “Where a State exercises effective control over an area, its obligations under international law remain firmly in place and cannot be transferred.”

      In the first case, 24 unaccompanied minors from Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka and Myanmar were intercepted at sea by Australia while fleeing persecution in their home countries and enroute to Australia. They were first brought to Christmas Island, an Australian territory in the Indian Ocean, between 2013 and 2014 and placed in mandatory immigration detention for between 2 and 12 months.

      They were then transferred to Nauru in 2014 and detained at the overcrowded Regional Processing Centre with insufficient water supply and sanitation, high temperatures and humidity, as well as inadequate healthcare. Almost all of these minors have suffered from deterioration of physical and mental well-being, including self-harm, depression, kidney problems, insomnia, headaches, memory problems and weight loss.

      Despite all but one of these minors being granted refugee status around September 2014, they remained detained in Nauru.

      In the second case, an Iranian asylum seeker arrived by boat on Christmas Island with her husband, stepfather, stepsister, and male cousin without valid visas in August 2013. Seven months later, she was transferred to Nauru and detained at the Regional Processing Centre. She was recognised as a refugee by the authorities in Nauru in April 2017 but was not released immediately. Thirteen months after the granting of her refugee status, she was moved to a Support Accommodation Area in Nauru for healthcare services. She was subsequently transferred to mainland Australia in November 2018 for medical reasons but was still detained in various facilities.

      Victims from both cases filed complaints to the Human Rights Committee, claiming Australia had violated its obligations under the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), particularly Article 9 regarding arbitrary detention.

      Australia opposed the allegations, stating there was no prima facie substantiation that the alleged violations in Nauru had occurred within Australia’s jurisdiction.

      The Committee, however, observed that pursuant to various public and official sources, Australia had arranged for the construction and establishment of the Regional Processing Centre in Nauru and directly contributed to its operation through financing, contracting with private and other entities which were accountable to Australia, and management.

      The Committee recalled its earlier jurisprudence and its General Comment No. 31, which defines the principle of “power or effective control” when establishing the exercise of jurisdiction.

      “It was established that Australia had significant control and influence over the regional processing facility in Nauru, and thus, we consider that the asylum seekers in those cases were within the State party’s jurisdiction under the ICCPR,” said El Haiba.

      In the first case regarding 24 unaccompanied minors, the Committee found that Australia failed to justify why they could not have been transferred to community detention centres on the mainland, which are more tailored to meet the specific needs of vulnerable individuals. The Committee thus concluded that Australia had violated Article 9 (1) of the ICCPR, which guarantees the right to be free from arbitrary detention. In addition, given that the minors did not have an effective channel to challenge the legality of their detention before domestic courts, the Committee also found that Australia had violated article 9 (4) of ICCPR regarding the right of people deprived of liberty to bring their claims to court.

      In the case concerning the Iranian refugee, the Committee observed that Australia had not demonstrated on an individual basis that the victim’s prolonged and indefinite detention was justified. The Committee thus found that Australia had violated Article 9(1).

      “These decisions send a clear message to all States: Where there is power or effective control, there is responsibility. The outsourcing of operations does not absolve States of accountability. Offshore detention facilities are not human-rights free zones for the State party, which remains bound by the provisions of the Covenant,” said El Haiba.

      The Committee called on Australia to provide adequate compensation to the victims and take steps to ensure that similar violations do not recur. Specifically, it urged a review of migration legislation and bilateral transfer agreements to align with international human rights standards.

      https://www.ohchr.org/en/press-releases/2025/01/australia-responsible-arbitrary-detention-asylum-seekers-offshore-facilities
      #décision

  • Le #Mali bloque les exportations de #Loulo-Gounkoto, sa plus grande mine d’#or (#Barrick)

    Le Mali est en conflit depuis quelques mois avec Barrick, propriétaire de sa plus grande #mine_d’or, afin de récupérer un manque à gagner estimé à 500 millions $. Dans le cadre de ce différend, Bamako a déjà emprisonné quatre employés de Barrick et émis un #mandat_d’arrêt contre le PDG #Mark_Bristow.

    Les exportations d’or de Loulo-Gounkoto, la plus grande mine d’or du Mali, sont bloquées par le gouvernement. C’est du moins l’annonce faite lundi 16 décembre par le propriétaire de la mine, le canadien Barrick Gold, qui précise que le maintien de ce #blocage pourrait le contraindre à « suspendre ses opérations ».

    Au moment de la publication, le gouvernement malien n’a pas confirmé ce blocage des #exportations. L’information intervient néanmoins alors que les relations entre Bamako et la compagnie canadienne sont tendues. Plusieurs employés de Barrick ont été arrêtés en novembre et sont détenus depuis en attente de leur procès, alors que le PDG du groupe, Mark Bristow, fait l’objet d’un mandat d’arrêt émis à son encontre par Bamako. Le gouvernement accuse les dirigeants de diverses #malversations_financières et réclame à la compagnie environ 500 millions $ d’après Reuters.

    Après un audit des mines d’or ayant révélé un manque à gagner de 300 à 600 milliards FCFA, le gouvernement malien a en effet entamé depuis quelques mois des #négociations avec les compagnies pour récupérer ces sommes. Bamako cherche également à obtenir l’application du nouveau #code_minier à toutes les mines du pays. Adoptée en 2023, la nouvelle #loi augmente la participation de l’État dans les mines et devrait générer 500 milliards FCFA de #recettes_minières supplémentaires chaque année.

    « Depuis le 25 novembre, plusieurs membres de l’équipe de direction malienne de Barrick sont emprisonnés sur la base d’accusations infondées. Ceci, dans un contexte d’actions inquiétantes telles que des réclamations fiscales et douanières sans fondement et l’annonce d’un mandat d’arrêt illégitime à l’encontre du président-directeur général de Barrick », dénonce la compagnie.

    Barrick, seul contre tous ?

    Selon le nouveau communiqué de Barrick, aucun terrain d’entente n’est visible à l’horizon pour clore le différend avec le gouvernement. Pourtant, la compagnie avait annoncé fin septembre être parvenue à un accord avec les autorités, au lendemain de l’arrestation de quatre de ses employés. Quelques jours plus tard, le gouvernement malien dénonçait le non-respect des engagements pris par Barrick, avec à la clé une menace à peine voilée de non-renouvellement de l’un des permis de la compagnie arrivant à expiration en 2026.

    Barrick reste donc l’un des derniers producteurs d’or du Mali à poursuivre le bras de fer avec le gouvernement, qui a déjà fait plier la plupart des autres compagnies. Qu’il s’agisse des canadiens #B2Gold et #Allied_Gold, ou de l’australien #Resolute_Mining, les autres propriétaires de mines d’or industrielles au Mali ont en effet accepté de verser un montant cumulé dépassant 200 millions $. Bamako a également obtenu l’application des termes du nouveau code minier à certaines mines, notamment les deux mines de #lithium en cours de construction.

    S’il est difficile d’indiquer la direction dans laquelle les deux parties comptent orienter le différend au cours des prochaines semaines, rappelons qu’une suspension effective de la production d’or à Loulo-Gounkoto impacterait négativement la production et les revenus miniers du Mali pour 2024. En 2023, la mine a livré près de 700 000 onces d’or et contribué à l’économie locale pour plus d’un milliard de dollars, selon Barrick.

    https://www.agenceecofin.com/actualites-industries/1612-124397-le-mali-bloque-les-exportations-de-loulo-gounkoto-sa-plus-
    #mines #extractivisme #minières #Australie #Canada

  • Le #Mali reçoit 45 millions $ après le départ de #Leo du #lithium de #Goulamina

    L’australien #Leo_Lithium, copropriétaire de la première mine de lithium du Mali, a décidé cette année de vendre l’intégralité de sa participation à son partenaire de coentreprise, le chinois #Ganfeng_Lithium. La transaction implique le paiement d’impôts au profit du gouvernement malien.

    Le reste de la somme dû à Leo Lithium, 171,2 millions $ en plus des intérêts, devrait être payée par #Ganfeng d’ici le 30 juin 2025. En attendant de connaitre la part de l’État malien sur ce paiement, il faut souligner que les revenus que le gouvernement malien vise grâce à l’exploitation de Goulamina sont beaucoup plus significatifs. Après un accord conclu avec Ganfeng, le ministre malien de l’Économie, Alousséni Sanou, a indiqué en mai 2024 que la mine devrait rapporter plus de 100 milliards FCFA (160 millions $) chaque année au Mali.

    Pour rappel, le calendrier de développement de Goulamina prévoit une entrée en production en 2024. Bien que les prix du lithium aient significativement baissé ces derniers mois et contribué à des suspensions de projets de lithium, aucun changement n’a encore été annoncé pour cet actif capable de livrer annuellement 500 000 tonnes de concentré de lithium. La mine devrait être détenue et exploitée à 65 % par Ganfeng Lithium, contre 30 % pour le gouvernement malien et 5 % pour les investisseurs locaux.

    https://www.agenceecofin.com/actualites-industries/2711-123812-le-mali-recoit-45-millions-apres-le-depart-de-leo-du-lithi
    #mines #Australie #Chine #Chinafrique #minières #extractivisme

  • On n’emprisonne pas des enfants de 10 ans

    Emprisonner des enfants de 10 ans semble extrême. C’est parce que c’est le cas.

    Pourtant, cette idée n’est que trop répandue en Australie. La semaine dernière, le Territoire du Nord de l’Australie a adopté une nouvelle loi abaissant l’âge de la responsabilité pénale de 12 à 10 ans. Il n’est pas le seul : les États australiens de Nouvelle-Galles du Sud, du Queensland, d’Australie-Méridionale et d’Australie-Occidentale fixent également l’âge de la responsabilité pénale à 10 ans seulement.

    La nouvelle mesure prise par le Territoire du Nord marque malheureusement un retour en arrière. Il y a tout juste deux ans, l’ancien gouvernement avait fait passer l’âge de la responsabilité pénale de 10 à 12 ans.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/11/02/on-nemprisonne-pas-des-enfants-de-10-ans

    #australie #enfant

  • 700 million plastic bottles: we worked out how much microplastic is in Queensland’s Moreton Bay

    When it rains heavily, plastic waste is washed off our streets into rivers, flowing out to the ocean. Most plastic is trapped in estuaries and coastal ecosystems, with a small fraction ending up offshore in the high seas.

    In the coastal ocean, waves and tides break down plastic waste into smaller and smaller bits. These micro and nanoplastics linger in the environment indefinitely, impacting the health of marine creatures from microorganisms all the way up to seabirds and whales, which mistake them for food.

    When we look at the scale of the problem of microplastics (smaller than 5mm) and nanoplastics (defined as 1 micrometer or less), we find something alarming. Our new research shows the shallow embayment of Moreton Bay, off Brisbane in Southeast Queensland now has roughly 7,000 tonnes of accumulated microplastics, the same as 700 million half-litre plastic bottles.

    This bay accumulates plastics fast, as the Brisbane River funnels the city’s waste into it, along with several other urban rivers. The research hasn’t yet been done, but we would expect similar rates of microplastics in Melbourne’s Port Phillip Bay and Sydney Harbour.

    Our research shows how much plastic waste from a big city makes it into its oceans.

    Plastic buildup in Moreton Bay

    What volume of microplastics does a large city accumulate offshore? It’s hard to measure this for cities built on open coastlines. That’s because sediments and microplastics are rapidly washed away from the original source by waves and currents.

    But Moreton Bay is different. The large sand islands, Moreton (Mugulpin) and North Stradbroke (Minjerribah) Islands largely protect the bay from the open ocean. This is why the bay is better described as an enclosed embayment. These restricted bays act as a trap for sediments and pollutants, as waves and currents have limited ability to wash them out. These bays make it possible to accurately measure a city’s microplastic build-up.

    The bay supports a range of marine habitats from mangroves, seagrass and coral reefs, as well as an internationally recognised wetland for migrating seabirds. Dugong and turtles have long grazed the seagrass in Moreton Bay’s shallow protected waters, while dolphins and whales are also present. But microplastic buildup may threaten their existence.

    Most types of plastic are denser than water, which means most microplastics in coastal seas will eventually sink to the seafloor and accumulate in sediment. Mangroves and seagrass ecosystems are particularly good at trapping sediment, which means they trap more microplastics.

    We wanted to determine whether Moreton Bay’s varying ecosystems had accumulated different amounts of plastics in the sediment.

    We measured the plastic stored in 50 samples of surface sediment (the top 10cm) from a range of different ecosystems across Moreton Bay, including mangroves, seagrass meadows and mud from the main tidal channels.

    The result? Microplastics were present in all our samples, but their concentrations varied hugely. We found no clear pattern in how plastics had built up. This suggests plastics were entering the bay from many sources.

    We tested for seven common plastics: polycarbonate (PC), polyethylene (PE), polyethylene terephthalate (PET), poly (methyl methacrylate) (PMMA), polypropylene (PP), polystyrene (PS), and polyvinyl chloride (PVC).

    Of these, the most abundant microplastic was polyethylene (PE). This plastic is widely used for single-use plastic items such as chip packets, plastic bags and plastic bottles. It’s the most commonly produced and used plastic in Australia and globally.

    In total, we estimate the bay now holds about 7,000 tonnes of microplastic in its surface sediments.

    In our follow-up paper we explored how rapidly these plastics had built up over time. We took two sediment cores from the central part of the bay, where sediment is accumulating. Cores like this act as an archive of sediment and environmental changes over time.

    The trend was clear. Before the 1970s, there were no microplastics in Moreton Bay. They began appearing over the next three decades. But from the early 2000s onwards, the rate rose exponentially. This is in line with the soaring rate of plastic production and use globally. Our analysis shows a direct link between microplastic concentration and population growth in Southeast Queensland.

    The challenge of measuring microplastics

    To date, we have had limited knowledge of how much plastic is piling up on shallow ocean floors. This is because measuring microplastics is challenging. Traditionally, we’ve used observation by microscope and a technique called absorption spectroscopy, in which we shine infrared light on samples to determine what it’s made up of. But these methods are time-consuming and can only spot plastic particles larger than 20 micrometres, meaning nanoplastics weren’t being measured.

    Our research team has been working to get better estimates of microplastic and nanoplastic using a different technique: pyrolysis-gas chromatography mass spectrometry. Here, a sample is dissolved in a solvent and then heated until it vaporises. Once in vapour form, we can determine the concentration of plastic and what types of plastics are present.

    This method can be used to estimate how much plastic pollution is present in everything from water to seafood to biosolids and wastewater.
    What’s next?

    It’s very likely microplastics are building up rapidly in other restricted bays and harbours near large cities, both in Australia and globally.

    While we might think microplastics are safe once buried in sediment, they can be consumed by organisms that live in the sediments. Currents, tides and storms can also wash them out again, where marine creatures can eat them.

    This is not a problem that will solve itself. We’ll need clear management strategies and policies to cut plastic consumption and improve waste disposal. Doing nothing means microplastics will keep building up, and up, and up.

    https://theconversation.com/700-million-plastic-bottles-we-worked-out-how-much-microplastic-is-

    #plastique #bouteilles_en_plastique #pollution #Queensland #Moreton_Bay #pollution_plastique #déchets #côtes #micro-plastique #nano-plastique #Australie #rivière #eau #villes #océan

    • Plastic Deposition in Sediments of Moreton Bay, Australia: A Historical Perspective and Potential Future Projections

      Since their discovery in the mid-20th century, the production and use of plastics has surged globally, resulting in large amounts of plastic waste. Some of this has landed in landfills, but a significant proportion has ended up in the ocean, contaminating marine ecosystems. However, the extent of marine plastic contamination is poorly understood. In this study, two sediment cores collected from the Central Bay of Moreton Bay, Australia, were analyzed for seven plastic polymers. The total concentration for ∑7 plastics was 8620 μg/g dw at the top of the core and decreased with core depth and sediment age, with no evidence of plastic at core depths aged earlier than 1975. Polyethylene was present at the highest concentrations (5680 μg/g dw) in the surface layer followed by polyvinyl chloride, polypropylene, and polyethylene terephthalate. Compared to factors influencing plastic abundance, the year, plastic production, and population were among the best predictors for plastic concentration in the core sediments. Projections on current findings suggest plastic concentrations in the Central Bay sediments could reach 2–4% of the sediment by 2050. An improved understanding of the types and quantities of plastic trapped in Moreton Bay will inform management to reduce plastic use and disposal to minimize future concentrations in the bay.

      https://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/acsestwater.4c00536

  • L’industrie des demandeurs d’asile : l’exemple de #Nauru

    Je présente ici une étude passionnante de Julia Caroline Morris, Asylum and Extraction in the Republic of Nauru, Cornell University Press, 2023, qui intéressera non seulement les chercheurs en anthropologie des migrations, ceux qui travaillent sur les politiques d’internement, de déplacement et d’externalisation des réfugiés, mais aussi les amateurs de Critical Geography Studies, ou spécialistes de l’extractivisme ou de néocolonialisme.

    La République de Nauru est un État insulaire de 21 km2, situé au Nord-Ouest des îles Salomon et de la Papouasie-Nouvelle-Guinée, à plus de 1000 kms tout de même, et plus loin encore des Fidji (plus au sud). C’est aussi un des États les plus densément peuplés au monde : cela peut sembler paradoxal quand on prend la mesure de son #isolement. Plus étonnant encore est la fluctuation du revenu par habitants : au milieu des années 70, le #PIB par habitant de Nauru est le second après celui de l’Arabie Saoudite. Trente années plus tard, le pays frôle la #faillite. Avant de retrouver une forme de #prospérité ces dix dernières années (bien que l’avenir demeure très incertain). Autre palmarès dans lesquels il se fait remarquer : le pays n’a quasiment aucune #autonomie_alimentaire, les terres arables ayant été rendues impropres à toute forme de culture, et les zones côtières, ainsi que le corail, ayant été pollués pour une très longue durée. Il importe donc tout ce dont il a besoin pour nourrir le population et ses taux d’#obésité et de #diabète, sont parmi les plus élevés au monde. Sans parler des autres maladies, cardio-vasculaires, affections respiratoires, dues à la toxicité de l’environnement. Et, c’est le sujet du livre de Julia Morris, ces dernières années, c’est le territoire qui compte le plus pourcentage le plus élevé de demandeurs d’asile et de réfugiés rapporté à la population totale.

    Les premiers habitants de l’île, dont il est très difficile de dater l’arrivée, des mélanésiens et des micronésiens, auxquels s’ajoutèrent probablement des voyageurs venus des côtes Philippines ou Chinoises, vécurent fort longtemps avant le débarquement des européens. Les Nauruans, organisés en douze tribus, vivaient des ressources locales, noix de coco, bananes, pandanus ou takamakas, et de poissons qu’ils pêchaient dans les lagunes. Marshall Sahlins parlerait sans doute ici de “#société_d’abondance”. La vérité c’est que nous ne savons quasiment rien de l’histoire précoloniale des Nauruans, parce que l’environnement de l’île fut totalement dévasté par l’#exploitation_industrielle du #phosphate, rendant vain le travail des archéologues.

    Approchée par les premiers européens à la toute fin du XVIIIè siècle, c’est-à-dire assez tardivement comparée aux autres territoires du Pacifique, refuge ponctuel pour des déserteurs et des contrebandiers, l’île ne fut véritablement soumise à l’emprise coloniale qu’un siècle plus tard. D’abord par les allemands, qui, “négociant” avec les autochtones, inscrivent Nauru sur la carte des flux de marchandises internationaux en commercialisant le #coprah, issu de la #noix_de_coco.

    Mais c’est la découverte d’énormes gisements de phosphates qui changera à tout jamais le destin de l’île. “Le phosphate, clé de la vie. Un miracle de la nature exploité par l’ingéniosité de l’homme pour le bénéfice de tous.” déclarait le bureau philatélique de Nauru en 1983. “Bénéfice de tous“, il faut le dire vite. L’#extraction massive du phosphate devient un enjeu pour les empires coloniaux compte tenu de l’accroissement démographique : il permet d’accroître les rendements au point qu’on peut parler, avec la découverte des #engrais phosphatés, d’une véritable #révolution_agricole, et de nourrir les populations métropolitaines. Les conséquences de ce rush colonial vers le phosphate, qui aura permis d’assurer la prospérité des nations coloniales, y compris l’Australie voisine, seront amères pour les Nauruans. Julia Morris le résume ainsi :

    “Nauru est un pays où l’industrie du phosphate et son cortège de #pollutions#déchets_toxiques, maladies respiratoires et alimentaires, #dépendance – sont palpables. Les effets de l’extraction du phosphate ne sont pas seulement ressentis par les personnes directement employées dans les champs d’extraction et les usines de traitement, comme Tony, mais s’étendent bien au-delà du point de production à forte intensité de main-d’œuvre. Depuis 1906, le #minerai_de_phosphate de Nauru est exploité et exporté vers les agriculteurs du monde entier. Paradoxalement, cela a laissé peu d’écosystèmes viables pour le développement agricole de Nauru. La richesse en phosphate aurait pu industrialiser Nauru, mais elle a laissé un cycle de dépendance à l’égard des fast-foods importés. Le système de santé de Nauru est marqué par les conséquences de l’interventionnisme colonial. Le dernier rapport publié par le ministère de la santé de Nauru (2011) indique que 77,8 % de la population de Nauru est en surpoids et que 45,6 % est obèse. En 1975, la prévalence du diabète à Nauru était de 34,4 %. Les Nauruans se classaient ainsi au deuxième rang mondial pour le taux de diabète le plus élevé jamais enregistré, tout en se plaçant au deuxième rang mondial pour le PIB par habitant, derrière l’Arabie saoudite. Aujourd’hui, le gouvernement consacrant environ 20 % de ses dépenses annuelles de santé au diabète, les chiffres ont légèrement baissé. Mais avec 30 %, Nauru conserve l’un des taux de diabète les plus élevés au monde. Ces taux sont associés à un éventail de maladies non transmissibles liées à l’alimentation, notamment les maladies cardiovasculaires, les accidents vasculaires cérébraux et les crises cardiaques. Les #cancers évitables, notamment le cancer gastro-intestinal, le cancer du col de l’utérus et le cancer du poumon, sont importants au sein de la population locale. Une espérance de vie de cinquante-cinq ans est l’un des sous-produits du changement de mode de vie de l’ère coloniale et le coût humain d’une économie basée sur l’extraction.” (Julia Morris, op. cit. p. 69-70).


    Dès le début des années 90, les réserves de phosphate s’épuisent, l’extraction, ayant creusé de plus en plus profondément les terres, laisse l’île dévastée, et la manne économique diminue drastiquement. S’ensuit une période chaotique, politiquement et socialement, où les dirigeants du pays, devenu indépendant en 1968, font le choix de transformer Nauru en #paradis_fiscal, spécialisé dans le #blanchiment_d’argent. Jusqu’au nouveau miracle, qu’on appellera la “#solution_Pacifique“, c’est-à-dire la mise en place par le gouvernement Australien d’une politique de “#remigration_offshore”, suite à l’affaire du #Tampa, un navire Norvégien qui avait recueilli 433 migrants 433 migrants afghans et irakiens en route pour l’Australie dérivant sur un bateau de pêche indonésien, migrants auxquels le gouvernement Howard refuse d’accorder l’asile. Nauru devient alors un des centres de rétention externalisée par l’Australie (avec la base navale de Lambrum à Manus en Papouasie-Nouvelle-Guinée) : avec cette nouvelle manne économique, l’argent australien contre l’internement des réfugiés “en attente d’une régularisation (très) éventuelle”, une véritable #industrie_des_réfugiés se déploie sur l’îlot. Elle se poursuit jusqu’à aujourd’hui, avec des intensités variables, quel que soit d’ailleurs la couleur politique des gouvernements Australiens (conservateurs ou travaillistes). On y construit tout un réseau d’infrastructures complexes, destinés aussi bien au contrôle et à la surveillance des réfugiés qu’à l’accueil d’une population très importante d’intervenants étrangers, chargés de la logistique et de la #militarisation de l’île, mais aussi des avocats, des médecins, des officiels australiens, des interprètes et de nombreux experts envoyés par les ONG.

    La plupart des études portant sur les zones d’internement des migrants, par exemple en Méditerranée, portent sur les conditions d’existence des réfugiés. Plus rarement sur les acteurs institutionnels de ce qu’on peut appeler une véritable industrie de la re-migration offshore. Mais on oublie souvent de s’intéresser aux populations autochtones qui habitent les territoires où sont édifiés les infrastructures de l’internement. En donnant alternativement la parole aux trois groupes d’acteurs directement engagés dans cette société organisée autour de l’industrie des réfugiés, les réfugiés et demandeurs d’asile mais aussi les travailleurs de cette industrie, et surtout les Nauruans eux-mêmes, Julia Morris échappe à l’attraction des narratifs du gouvernement australien tout autant qu’aux récits sensationnalistes qui critiquent ces politiques de répudiation offshore en invoquant la figure racisée du Nauruan “sauvage, barbare, cruel, intéressé” (cet argument qui critique la relégation des migrants dans des pays tiers, en dénonçant la barbarie et l’inhumanité des hôtes autochtones, se retrouve actuellement par exemple en Grande-Bretagne, autour du projet de remigration offshore au Rwanda)

    C’est l’immense mérite du livre décapant de Julia Morris, qui n’épargne pas les discours “humanistes” des opposants à ces politiques d’internement offshore (notamment dans la gauche Australienne), de donner la parole aux Nauruans eux-mêmes, piégés dans ces récits produits par l’imaginaire politique occidental.

    https://outsiderland.com/danahilliot/lindustrie-des-demandeurs-dasile-lexemple-de-nauru
    #Australie #externalisation #asile #réfugiés #migrations #extractiviste #industrie_agro-alimentaire #pacific_solution

    ping @karine4

    • Asylum and Extraction in the Republic of Nauru

      Asylum and Extraction in the Republic of Nauru provides an extraordinary glimpse into the remote and difficult-to-access island of Nauru, exploring the realities of Nauru’s offshore asylum arrangement and its impact on islanders, workforces, and migrant populations. Drawing on extensive fieldwork in Nauru, Australia, and Geneva, as well as a deep dive into the British Phosphate Commission archives, Julia Caroline Morris charts the island’s colonial connection to phosphate through to a new industrial sector in asylum. She explores how this extractive industry is peopled by an ever-shifting cast of refugee lawyers, social workers, clinicians, policy makers, and academics globally and how the very structures of Nauru’s colonial phosphate industry and the legacy of the “phosphateer” era made it easy for a new human extractive sector to take root on the island.

      By detailing the making of and social life of Nauru’s asylum system, Morris shows the institutional fabric, discourses, and rhetoric that inform the governance of migration around the world. As similar practices of offshoring and outsourcing asylum have become popular worldwide, they are enabled by the mobile labor and expertise of transnational refugee industry workers who carry out the necessary daily operations. Asylum and Extraction in the Republic of Nauru goes behind the scenes to shed light on the everyday running of the offshore asylum industry in Nauru and uncover what really happens underneath the headlines. Morris illuminates how refugee rights activism and #RefugeesWelcome-style movements are caught up in the hardening of border enforcement operations worldwide, calling for freedom of movement that goes beyond adjudicating hierarchies of suffering.

      https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501765841/asylum-and-extraction-in-the-republic-of-nauru

      #livre

  • L’Australie transfère à nouveau des demandeurs d’asile en rétention à Nauru
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/06/11/l-australie-transfere-a-nouveau-des-demandeurs-d-asile-en-retention-a-nauru_

    L’Australie transfère à nouveau des demandeurs d’asile en rétention à Nauru
    Par Isabelle Dellerba (Sydney, correspondance)
    Publié le 11 juin 2024 à 18h25
    Combien de demandeurs d’asile ont-ils été envoyés par l’Australie dans le micro-Etat de Nauru, dans le Pacifique Sud, depuis un an ? En juin 2023, il ne restait plus aucun réfugié sur l’îlot qui, depuis 2012, prend en charge des migrants illégaux sous-traités par Canberra dans le cadre de sa politique migratoire de rétention offshore. Mais dès le mois de septembre, et pour la première fois en neuf ans, l’Australie a transféré là-bas onze nouveaux clandestins suite à une « arrivée maritime non autorisée ». D’autres bateaux ont suivi, dont au moins trois en mai. Depuis, le cap des cent personnes aurait été franchi.
    Le nombre exact est gardé secret par les autorités australiennes « pour des raisons de sensibilité opérationnelle ». Le Asylum Seeker Resource Centre (ASRC), une organisation non gouvernementale qui offre un soutien et des services aux demandeurs d’asile et aux réfugiés, estimait, vendredi 7 juin, qu’ils seraient 101. « Il a été extrêmement difficile d’établir un contact avec eux. Le gouvernement a rendu cela très compliqué en leur fournissant des téléphones qui ne sont pas des smartphones. Mais nous avons finalement réussi à contacter beaucoup d’entre eux, et nous essayons de les aider », explique au Monde Ogy Simic, responsable du plaidoyer pour l’ASRC, qui s’alarme, comme toutes les ONG engagées dans le secteur, du « manque de transparence sans précédent » des autorités concernant à la fois l’identité de ces personnes, les lieux où elles sont envoyées et leurs conditions de détention.
    Arrivé au pouvoir en mai 2022, le premier ministre travailliste, Anthony Albanese, n’a pas renoncé à l’implacable mais populaire politique migratoire développée par les conservateurs en 2013, prévoyant que tout migrant illégal intercepté en mer soit expédié dans un centre de rétention offshore et se voie interdire, à vie, de la possibilité de s’établir sur l’île-continent. L’adoption de cette stratégie avait permis au pays de mettre un terme à l’arrivée de quelque 200 bateaux clandestins par an, en moyenne, entre 2010 et 2013, mais elle avait aussi envoyé en enfer 3 127 personnes originaires d’Afghanistan, du Sri Lanka ou encore du Moyen-Orient, abandonnées loin de tout pour une durée indéterminée. Le régime de traitement offshore de l’Australie constitue un « traitement cruel, inhumain ou dégradant » et viole « les règles fondamentales du droit international », avait ainsi déclaré, en février 2020, le bureau du procureur de la Cour pénale internationale.
    Au fil des ans, au moins douze personnes sont mortes dans ces centres, dont la moitié se seraient suicidées. Si Canberra a finalement réussi à les vider grâce à des accords d’accueil conclus avec des pays tiers, dont les Etats-Unis et la Nouvelle-Zélande, cela lui a pris des années. Plusieurs centaines de migrants, rapatriés pour raisons sanitaires en Australie, sont toujours dans les limbes. « Nous sommes extrêmement déçus par le gouvernement travailliste qui, au lieu de s’engager fermement à mettre fin à la détention offshore, a renvoyé des nouveaux demandeurs d’asile à Nauru. Nous repartons à zéro. C’est un film d’horreur politique », se désole Ian Rintoul, porte-parole de la Refugee Action Coalition.
    Après les onze premières personnes transférées à Nauru en septembre, d’autres groupes ont suivi, pour atteindre 54 personnes en mars, puis 64 en mai, selon l’un des rares décomptes donnés par les autorités. Les ONG estiment qu’au moins trois bateaux seraient arrivés en Australie en mai et que la plupart de leurs passagers auraient également été transportés sur l’îlot, situé à 3 000 kilomètres au nord-est du continent austral. Là-bas, ils seraient enfermés dans le centre de rétention RPC1 qui, ces dernières années, avait essentiellement servi de petite clinique d’urgence, de centre administratif et de logement pour les gardes de sécurité, tandis que les réfugiés avaient été placés dans des centres ouverts, ce qui n’avait pas suffi à atténuer leur détresse psychologique.
    « Ces nouveaux demandeurs d’asile éprouvent également une anxiété considérable, témoigne Ogy Simic. Nous avons parlé avec des personnes souffrant de problèmes de santé mentale dont les difficultés sont minimisées. Certains d’entre eux ont également des pensées suicidaires. » Leur situation est d’autant plus préoccupante qu’ils ne sont pas compris dans les accords passés avec des pays tiers et qu’ils pourraient devoir attendre, à leur tour, des années avant qu’un Etat n’accepte de les accueillir.
    « Tout cela fait partie d’une politique de relations publiques conçue pour infliger une douleur maximale à des personnes innocentes, prétendument pour envoyer un message aux éventuels passeurs. Le gouvernement australien, qui refuse même aux parlementaires de visiter les centres de rétention, pratique une forme de cruauté performative », dénonce le sénateur David Shoebridge, responsable des questions migratoires au sein des Verts australiens, qui s’insurge également contre le coût exorbitant de cette politique, qu’il considère comme une « utilisation obscène de l’argent public ».
    Selon les derniers chiffres fournis par le gouvernement, début juin, la facture pour les neuf mois entre juillet 2023 et mars 2024 s’élève à 240 millions de dollars australiens (146 millions d’euros). Le maintien des installations, même vides, continuerait de coûter au moins 350 millions de dollars (213 millions d’euros) par an afin qu’elles restent opérationnelles, avaient indiqué les autorités en mai 2023. Depuis 2012, le coût total du régime de traitement offshore de l’Australie est estimé à près de 10 milliards de dollars (6 milliards d’euros).

    #Covid-19#migrant#migration#australie#asile#nauru#droit#sante#santementale#politiquemigratoire

  • Les voitures nous volent notre #territoire… et limitent les échanges sociaux
    https://carfree.fr/index.php/2024/05/24/les-voitures-nous-volent-notre-territoire-et-limitent-les-echanges-sociaux

    Cet article de David Engwicht, un urbaniste australien, est extrait de son livre « Street Reclaiming : Creating Livable Streets and Vibrant Communities » (Récupérer les rues : créer des rues habitables et des Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Argumentaires #Etalement_urbain #Fin_de_l'automobile #Fin_des_autoroutes #Insécurité_routière #2000 #aménagement #australie #culture #mobilité #recherche #san_francisco #société #trafic #transport #urbanisme #ville #ville_compacte

    • En 1970, Donald Appleyard, urbaniste anglo-américain à l’Université de Californie à Berkeley, a mené des recherches novatrices à San Francisco. Il a choisi trois rues résidentielles qui, à première vue, étaient identiques, à l’exception de leur niveau de trafic.

      [...]

      Il a demandé aux gens d’indiquer où vivaient leurs amis et connaissances dans leur rue. Les habitants de la rue calme ont déclaré avoir trois fois plus d’amis et deux fois plus de connaissances dans leur rue que ceux de la rue à fort trafic (figure 1.1).

      Un indice sur la raison pour laquelle les habitants de la rue à fort trafic avaient trois fois moins d’amis et de connaissances que les habitants de la rue calme est apparu lorsqu’Appleyard a demandé aux habitants de dessiner sur la carte de leur rue ce qu’ils considéraient comme leur « territoire familier » (figure 1.2).

      [...]

      Appleyard a découvert que le trafic ne se contente pas d’occuper l’espace physique. Il a une « zone d’influence » qui intimide et prend possession d’un espace sur le plan psychologique. À mesure que la vitesse et le volume du trafic augmentent, la zone d’influence s’étend et le territoire familier se rétrécit. Dans la rue calme, les enfants jouaient encore au milieu de la rue et les gens s’y arrêtaient pour parler. Mais avec l’augmentation du trafic, ces activités se sont déplacées sur le trottoir. Avec l’augmentation du trafic, la fonction du trottoir est passée d’un espace de jeu et de socialisation à un espace utilisé « uniquement comme un couloir entre le sanctuaire des maisons individuelles et le monde extérieur ». L’abandon du trottoir comme espace de socialisation crée un cercle vicieux. Les enfants et les adultes abandonnent cet espace parce qu’il est sale, dangereux et bruyant. La suppression de ces activités rend l’espace encore plus stérile et accroît le sentiment qu’il s’agit d’une sorte de territoire étranger. Il est donc encore plus délaissé.

      Cependant, Appleyard a constaté que le rétrécissement du territoire familier ne s’arrêtait pas au trottoir. Sur la rue à fort trafic, le nombre de personnes jardinant ou simplement assises sur leur perron a considérablement diminué. Le rétrécissement ne s’est pas non plus arrêté au perron. De nombreux habitants de la rue à fort trafic ont abandonné les pièces de leurs habitations donnant sur la rue, les utilisant davantage comme tampon entre la rue et les pièces arrières de la maison. Ainsi, certains habitants de la rue à fort trafic ont même perdu une partie de leur espace de vie interne en tant qu’élément de leur territoire familier.

      L’une des raisons pour lesquelles les habitants de la rue à fort trafic avaient moins de contacts sociaux est précisément qu’ils avaient moins de territoire sur lequel ils pouvaient effectuer des échanges sociaux. La dernière étape de cette saga du rétrécissement du territoire familier a été l’abandon total du logement par certaines personnes, ce qui a eu pour effet de perturber les réseaux sociaux existants. Ce phénomène, combiné au rétrécissement du territoire familier, explique pourquoi les habitants de la rue à fort trafic avaient moins de contacts sociaux dans leur rue.

      #urbanisme #mental_mapping #carte_mentale

  • Who are the Falun Gong ? | Foreign Correspondent
    https://www.youtube.com/watch?v=QzlMQyM8p74

    Tu penses que le #catholicisme est réactionnaire ? Vas d’abord voir chez les Falun Gong .

    Dans ce reportage #Foreign_Correspondent publie des témoignages sur les conséquences pratiques du culte #Falun_Gong sur la vie de ses disciples. On comprend que c’est d"abord une secte religieuse comme d’autres. Le reportage fournit des informations qui soutiennent que c’est aussi une organisation fasciste sans le qualifier ouvertement comme tel. Tous les éléments sont là dont le soutien que Falun Gong apporte à #Donald_Trump.

    L’idée que les métis sont la conséquence d’intrigues d’extraterrestres semble d’abord risible, mais pris au sérieux par des millions de disciples c’est un élément d’idéologie fasciste. L’idée des 81 exterminations de l’humanité n’ajoute pas un iota d’humanisme à l’idéologie suicidaire et génocidaire du falun gong.

    Avec sa puissance financière, son empire d’organisations et ses activités médiatiques dans le monde entier le gourou fondateur #Li_Hongzhi et ses disciples sont un danger derrière une façade souriante. Leur propagande pour le retour à « la Chine avant le communisme » défend un modële de société sans état de droit pratiquant les pieds bandés et l’extermination de la famille entière des délinquents.

    Histoire de Falun Gong (2001)
    https://www.persee.fr/doc/perch_1021-9013_2001_num_64_1_2604
    https://hub.hku.hk/bitstream/10722/194523/2/Content.pdf

    Voilà du racisme, même s’il ne peut avoir d’importance au niveau individuel que pour les croyants : Li Honzhi nous laisse qu’un toute petite part du paradis. Le gros est réservé aux « Chinois ».

    Le souci de pureté de Li Hongzhi s’étend aux races humaines. « II n’est pas permis de mélanger les races du monde. Maintenant que les races sont mélangées, cela crée un problème extrêmement grave ». Car chaque race a son propre monde céleste : la race blanche a son Paradis, qui occupe une toute petite partie de l’univers ; la race jaune possède ses mondes du Bouddha et du Tao qui remplissent presque tout l’univers. Or les enfants issus de mélanges raciaux ne sont liés à aucun monde céleste, « ils ont perdu leur racine » . La loi cosmique interdit les mélanges culturels et raciaux : ainsi, selon Li Hongzhi, Jésus interdit à ses disciples de transmettre sa foi vers l’Orient. C’est pour cela qu’à l’origine, l’Occident et l’Orient étaient séparés par d’infranchissables déserts, une barrière que la technique moderne a détruite.
    Lorsqu’il y a mélange racial [...], le corps et l’intelligence des enfants sont malsains. [...] La science moderne le sait, chaque génération est inférieure à la précédente

    Il y un élément très efficace dans le Falun Gong Dafa qui met à sa juste place la caste médicale, toujours si on est disciple de Li. Le gourou chinois se définit en guérisseur suprême par l’esprit comme dans les temps quand la médecine moderne dite scientifique n’avait pas encore poussé de leur piédestal les superstitions anciennes.

    Le véritable disciple de Li Hongzhi ne doit pas prendre de médicament en cas de maladie. Les soins thérapeutiques ne font que déplacer la maladie , qui provient d’un corps subtil dans un espace profond qui n’est nullement touché par le traitement. La maladie est un moyen de repayer sa dette karmique : il faut donc la laisser suivre son cours naturel, à moins que Li Hongzhi lui- même n’intervienne pour l’éradiquer. Si l’homme ordinaire peut prendre des médicaments, l’adepte de l’ascèse, s’il veut éliminer son mauvais karma, doit s’en abstenir. Il lui est également interdit de soigner d’autres personnes par le Falun Gong.
    ...
    Ceux qui prétendent soigner ont le corps possédé.

    Vu d’aujourd’hui le Falun Gong s’est développé à partir d’un courant chinois sectaire du qui gong dans une organisation fasciste internationale qui recrute de nouveaux disciples parmi les perdus du monde capitaliste qui ont besoin d’une explication de leurs souffrances et d’une idéologie qui les élève au dessus de leurs concitoyens qui demeurent dans le cercle vicieux de la course à la réussite individuelle.

    Le sectarisme du Falun Gong renforce cette dynamique génératrice d’antagonisme confirmant la vision d’un monde partagé entre les disciples sauvés de Li Hongzhi et le reste du monde possédé par les démons. Le fondamentalisme du Falun Gong qui appelle à l’exclusion mutuelle des croyances, des pratiques et des races, et qui interdit d’absorber des idées, des techniques ou des substances (médicaments) étrangers à l’œuvre du Maître, contrarie la tendance syncrétique d’une certaine tradition chinoise toujours soucieuse d’intégrer dans l’harmonie les meilleurs éléments du monde. ... La mort d’adeptes pour cause de refus de soins thérapeutiques attira l’attention critique des médias sur le Falun Gong vers la même période, ajoutant au complexe de persécution de la secte. Et les manifestations répétées d’adeptes avant et après le commencement de la répression officielle, devant les bureaux de journaux, autour de Zhongnanhai, sur la Place Tiananmen — qui ne peuvent que durcir la réaction ô combien prévisible de l’Etat dans la logique du système politique chinois — semblent calculées pour engager le pouvoir sur un champ de bataille moral opposant le Démon persécuteur aux Héros martyrs.
    ...
    L’épisode du Falun Gong montre que le millénarisme chinois n’est pas mort : quelle sera sa prochaine manifestation ?

    Nine familial exterminations
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Nine_familial_exterminations

    Extermination des homosexuels
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Teachings_of_Falun_Gong
    Dans « Wikipedia/Teachings of Falun Gong » on trouve des passages critiques comme le suivant.

    Li additionally stated in a 1998 speech in Switzerland that, "gods’ first target of annihilation would be homosexuals."Although gay, lesbian, and bisexual people may practice Falun Gong, founder Li stated that they must “give up the bad conduct” of all same-sex sexual activity.

    Le texte de l’article « History of Falun Gong » dans Wikipedia par contre fait évidamment partie des campagnes de propagande de la secte contre la Chine. On n’y trouve aucune analyse de la croissance du culte et de son organisation. Les mesures de la Chine y sont présentées comme injustifiées et cruelles.

    Je souffre d’une allergie innée aux croix gammées, alors en espérant d’en partager la sensation avec vous voilà le symbole officiel de la secte.


    Il est composé de cing swastikas dont je ne veux même pas apprendre la signification. Le design en soi est suffisament écoeurant.


    N. B. vous remarquez l’expression de l’esprit originel allemand : nos designers #nazis ont inversé le sens des crochets de la swastika religieuse. En Asie ça tourne vers la gauche, en Allemagne on l’a établi en symbole conséquent qui est orienté à droite ;-)

    #Chine #Taiwan #USA #Australie #presse #médias #religion #sectes #fascisme #anticommunisme #qui_gong

  • L’Australie et les Tuvalu ont finalisé un traité historique prévoyant l’accueil de réfugiés climatiques
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/05/11/l-australie-et-les-tuvalu-ont-finalise-un-traite-historique-prevoyant-l-accu

    L’Australie et les Tuvalu ont finalisé un traité historique prévoyant l’accueil de réfugiés climatiques
    Par Isabelle Dellerba (Sydney, correspondance)
    L’archipel des Tuvalu, un micro-Etat insulaire du Pacifique Sud menacé de disparaître sous les flots d’ici à la fin du XXIe siècle, pouvait difficilement refuser la main tendue par Canberra. En novembre 2023, l’Australie a offert l’asile climatique à l’ensemble de sa population en échange d’un droit de regard sur les pactes de sécurité qu’il envisagerait de signer avec d’autres nations. Ce traité historique a provoqué de vifs débats dans l’archipel, inquiet pour sa souveraineté. Jeudi 9 mai, les deux pays ont conclu un « mémorandum explicatif » qui, en levant certaines zones d’ombre, devrait permettre sa mise en œuvre dès l’année 2024.
    Principal point de contentieux, l’article 4, qui stipule que Canberra aura son mot à dire sur « tout partenariat, accord ou engagement » que les Tuvalu voudraient conclure avec d’autres Etats ou entités sur les sujets de sécurité et de défense ; une clause très critiquée par les Tuvaluans, qui l’ont associée à un droit de veto.Pour mettre fin au débat, le mémorandum précise que cet article ne s’appliquera que dans un « nombre restreint de circonstances » et que les « Tuvalu n’ont pas besoin de la permission de l’Australie avant de commencer à discuter avec d’autres partenaires ». Afin d’aplanir les derniers doutes, il ajoute que chaque partie « peut suspendre les obligations et même résilier le traité par accord mutuel ou unilatéralement ».
    De manière générale, ce mémorandum détaille et confirme les principales dispositions du traité. Il rappelle que l’île-continent viendra en aide à ces îles polynésiennes en cas d’agression militaire, de catastrophe naturelle ou encore de pandémie. Mais aussi et surtout que l’Australie offrira, chaque année, la résidence permanente à 280 Tuvaluans – « tirés au sort » parmi les candidats au départ –, ce qui devrait lui permettre d’accueillir, à terme, les 11 200 habitants de l’archipel.
    Richard Gokrun, directeur de l’organisation Tuvalu Climate Action Network, joint par téléphone par Le Monde, n’a pas l’intention de faire ses valises, mais plutôt de se battre pour assurer un avenir à son peuple, même s’il ne peut que constater chaque jour les dégâts causés par le changement climatique dans son pays constitué de neuf atolls coralliens à fleur d’eau. (...) Cette année, le phénomène océanographique qui submerge habituellement les zones basses de cette langue de terre perdue en plein milieu de l’océan Pacifique a été encore amplifié par de fortes pluies et des vents violents. Les vagues ont atteint 3,41 mètres. L’eau salée a recouvert les cultures, y compris dans des zones jusqu’ici épargnées, a poussé des rochers sur la terre et a endommagé des parties de la route principale, paralysant l’activité des habitants. Avant la fin du siècle, 95 % du territoire des Tuvalu pourrait être inondé par de grandes marées périodiques si la hausse des températures n’est pas maintenue en dessous de 1,5 °C, rendant le pays inhabitable.
    (...) Sur place, les autorités sont à pied d’œuvre. Elles ont d’ores et déjà entrepris de gagner 7,5 hectares de terre sur la mer, en draguant le sable du lagon, pour arrêter les vagues et empêcher l’eau de monter à travers le sol. A terme, elles ont prévu, avec le soutien du Programme des Nations unies pour le développement, de surélever une partie du territoire de la capitale pour y relocaliser progressivement les infrastructures et la population, si elles obtiennent le financement nécessaire.
    Jeudi, le gouvernement australien a annoncé qu’il allait investir 12 millions d’euros pour soutenir ces projets d’adaptation et débourser, au total, 67 millions d’euros d’aides supplémentaires. « Mais il y a déjà de nombreux Tuvaluans qui envisagent de partir pour mettre à l’abri leur famille et assurer leur avenir », regrette l’activiste Richard Gokrun. Ce dernier aurait souhaité que l’Australie, qui continue à approuver de nouveaux projets de mines de charbon, dont quatre ces deux dernières années, s’engage aussi à faire davantage pour réduire ses émissions de gaz à effet de serre.
    Le gouvernement travailliste, dirigé par Anthony Albanese, s’est doté d’une politique climatique relativement ambitieuse – réduire de 43 % les émissions de gaz à effet de serre d’ici à 2030 par rapport à 2005 –, mais qui est pour l’heure insuffisante pour limiter le réchauffement au-dessous de 2 °C par rapport à l’aire préindustrielle. D’autant plus que, jeudi, il a annoncé qu’il prévoyait de recourir au gaz naturel « d’ici à 2050 et au-delà ». Cette annonce a immédiatement provoqué la colère des organisations de défense de l’environnement. « Nous croyons que le Pacifique mérite un avenir meilleur que celui que cette stratégie gazière nous impose. L’Australie ne peut pas espérer réparer les relations avec la région tout en continuant d’extraire et d’exporter la destruction climatique », a notamment condamné Joseph Sikulu, directeur de la région Pacifique de l’ONG 350.org. Avant son entrée en vigueur, le traité, qui est le premier accord bilatéral jamais conclu spécifiquement axé sur la mobilité climatique, sera examiné par les Parlements des deux pays et fera l’objet d’une consultation publique.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#tuvalu#refugieclimatique#securite#environnement#sante#asileclimatique#politiquemigratoire

  • ’Parasites’ : Restaurants ask customers to shun services like Uber Eats
    https://www.smh.com.au/business/small-business/parasites-restaurants-ask-customers-to-shun-services-like-uber-eats-20180808

    Anfangs gab es Widerstand ... was ist daraus geworden ? Hat Uber-Eats ind Australien überlebt ?

    8.8.2018 by Emma Koehn - Restaurants in Australia’s biggest cities have started speaking out against food delivery services such as Uber Eats and Menulog, claiming the third-party operators are exploiting small businesses and delivery drivers.

    On Tuesday, iconic Melbourne eatery Marios Cafe called the food delivery platforms “parasites”, imploring customers to never use ordering systems like Uber Eats. In Sydney, Upper North Shore restaurant Taste of Texas BBQ stopped accepting delivery requests via Menulog.

    The moves come days after delivery service Foodora signalled it was exiting the Australian market.
    ’A certain ugliness’: Delivery platforms like UberEats are getting pushback from local restaurants.

    ’A certain ugliness’: Delivery platforms like UberEats are getting pushback from local restaurants.Credit: Akio Kon

    Marios Cafe, a stalwart of Melbourne’s Brunswick Street Fitzroy since the 1980s, took to Facebook to plead with customers to “get up off your ass” and go pick up takeaway orders instead of relying on third-party sites, which hurt small hospitality venues.

    The business said the tendency for these platforms to take commissions of up to 30 per cent wasn’t fair given the number of people - including restaurants and delivery drivers - losing money.

    “Do not order from any of the delivery groups call the restaurant direct and make sure they have their own delivery,” the business wrote on Facebook.

    “Please spare a thought for the people who are loosing [sic] money for your comfort factor and the delivery people are earning next to nothing for their work, while the people in their ivory towers are earning big time for doing nothing: PARASITES.”

    Marios co-founder Mario Maccarone told Fairfax Media that while he thinks food delivery services may work “brilliantly” for some businesses, he and business partner Mario de Pasquale have never bought in.
    Mario de Pasquale and Mario Maccarone have decided to steer clear of food delivery platforms - and are asking customers to do the same.

    Mario de Pasquale and Mario Maccarone have decided to steer clear of food delivery platforms - and are asking customers to do the same. Credit: Penny Stephens

    “We’ve been approached by all of the platforms - but with those huge big plastic backpacks, well, there’s a certain ugliness about it,” Maccarone says.

    He says “the way they [the platforms] employ people” also has to be considered, observing there’s a “whole generation of kids” becoming more reliant on gig economy jobs.

    “It’s a thing that may work brilliantly for some, but we’re not interested in buying into it.”

    When contacted by Fairfax Media, an Uber Eats spokesperson said the company’s 13,000 active restaurant users were evidence its system was “proving popular” with hospitality venues wanting to grow their businesses.

    “Uber Eats can be a cost-effective channel for reaching an entirely new customer base,” the company said.
    ’Unsustainable’ cost

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    Marios isn’t the only one saying the time has come for a tough choice on food delivery services. In Sydney, Waitara-based Taste of Texas BBQ has decided to no longer accept delivery requests via Menulog.

    Owner Prabhakar Raj told Fairfax Media “the big challenge for small businesses” at the moment was making tough choices about the food delivery platforms they can afford.

    Menulog takes a lower commission on orders than its peer in Uber Eats, and while it has recently launched a in-house delivery option, restaurants have traditionally had to supply their own drivers.

    This is a cost that is “unsustainable” despite the loyalty of customers ordering through the app, Raj says.

    Customers of Taste of Texas BBQ will still be able to place takeaway orders through Menulog if they pick it up themselves, but the business says it’s done offering delivery through the app.

    The business will stay on the Uber Eats platform, but Raj says his restaurant “doesn’t make a cent out of it”.

    “I’m only using it [Uber Eats] as a promotional platform,” he said.

    Taste of Texas only offers a restricted menu via the platform and Raj says he believes other businesses are also limiting what they offer via Uber Eats in order to make it sustainable.

    Menulog says that, for the most part, restaurants are very happy with its service, and restaurants like Taste of Texas can choose whether they offer delivery through the platform or just pick-up orders.

    “Menulog offers a suite of solutions, including both restaurant-own and delivery services, ‘click and collect’ and catering, which allows restaurants to tailor their offering to digital customers in line with their business strategy and operating model,” the company’s commercial director Rory Murphy told Fairfax Media.

    Last week, delivery competitor Foodora signalled it was exiting the Australian market, a move small businesses said was unsurprising.

    “At the end of the day these aggregators all take a percentage so the fewer you have, the better it is for your business,” owner of Sydney business Fratelli and Co, Robert Galati, said on Friday.

    #Australien #Uber #Uber-Eats #disruption #Gastronomie

  • Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/03/22/transferer-les-demandeurs-d-asile-au-rwanda-l-obstination-du-gouvernement-de

    Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Par Cécile Ducourtieux (Londres, correspondante)
    Dans le jargon parlementaire britannique, cela s’appelle un « ping-pong ». Une délicate passe d’armes entre la Chambre des communes et celle des Lords s’est engagée mercredi 20 mars derrière les murs épais du palais de Westminster. Menés par des membres du Labour et une poignée d’évêques (membres de droit de la Chambre haute), les Lords tentent d’adoucir les termes du Safety of Rwanda Bill, un projet de loi visant à déporter des demandeurs d’asile au Rwanda. Le Parlement étant suspendu quinze jours à partir du 26 mars, le projet de loi retournera aux Communes à la mi-avril où, les conservateurs disposant d’une majorité, les ajouts des Lords seront probablement biffés.
    Ce « ping-pong » durera jusqu’à ce que le gouvernement cède du terrain ou, plus vraisemblablement, que les Lords lâchent prise, la Chambre haute n’ayant pas le dernier mot sur des projets de loi. Le premier ministre conservateur, Rishi Sunak, veut que le texte soit adopté pour que des avions puissent décoller pour le Rwanda dès « ce printemps ». Son ambition est devenue largement symbolique. A en croire les médias britanniques, seuls 150 à 200 demandeurs d’asile ont été identifiés par le Home Office pour être envoyés au Rwanda, où un unique hôtel, le Hope Hostel, à Kigali, la capitale, est prêt à les accueillir. Mais les tories sont en perdition dans les sondages, et ces vols vers le pays d’Afrique de l’Est semblent être le dernier espoir de Rishi Sunak de ne pas sombrer aux élections générales de l’automne. Si le Safety of Rwanda Bill est adopté, si d’ultimes recours en justice ne clouent pas les avions au sol, leurs passagers seront les premiers déplacés forcés dans le cadre du fameux accord « Rwanda », annoncé deux ans auparavant mais toujours pas opérationnel car ayant viré à la saga politico-juridique.
    14 avril 2022 : l’hôte de Downing Street s’appelle encore Boris Johnson, le dirigeant, encalminé dans le scandale du « partygate » (qui lui coûtera son poste quelques mois plus tard), crée la surprise en dévoilant un accord avec le Rwanda, dirigé d’une main de fer par le président Paul Kagame, toujours marqué par le génocide de 1994, mais qui connaît un fort dynamisme économique. Il s’agira d’y déporter les personnes arrivées illégalement au Royaume-Uni (sans visa, en bateau ou cachés dans des camions). Elles ne pourront réclamer l’asile que sur le territoire du Rwanda, qui examinera leur demande. Le Royaume-Uni est le premier pays européen à tenter une délégation totale de ses responsabilités dans les procédures de
    Avec cet accord, résultat de neuf mois de négociations avec Kigali, Boris Johnson jure qu’il s’agit de lutter contre les passeurs « qui engendrent trop de misère humaine et de morts », après la mort de vingt-sept personnes, noyées dans la Manche en novembre 2021.
    Mais, depuis le Brexit, Londres ne peut plus invoquer le règlement de Dublin pour renvoyer des demandeurs d’asile vers leur pays de première entrée dans l’Union européenne. Et, ses relations avec le président français, Emmanuel Macron, étant exécrables, M. Johnson peut difficilement demander plus d’efforts à Paris pour stopper les traversées. Or ces dernières ont bondi : en 2021, plus de 28 000 personnes ont franchi le Channel en small boats, des bateaux pneumatiques. D’où la solution « créative » rwandaise, comme la qualifie Priti Patel, la ministre de l’intérieur de M. Johnson, connue pour ses positions antimigrants, bien que ses parents, d’origine indienne, aient trouvé asile au Royaume-Uni dans les années 1970, après avoir fui le régime du dictateur Idi Amin Dada en Ouganda.
    Londres a pris modèle sur Canberra, l’Australie ayant expérimenté à partir des années 2000 l’expulsion de demandeurs d’asile sur les îles pacifiques de Nauru, en Micronésie, et de Manus, en Papouasie-Nouvelle Guinée. Cette politique controversée s’est révélée traumatisante pour les déplacés : des cas de mauvais traitements et des suicides ont été rapportés, tandis que les associations de protection des droits humains dénonçaient des détentions indéfinies. L’accord « Rwanda » révulse de la même manière les ONG et les autorités religieuses britanniques : sous-traiter les responsabilités du pays en matière d’asile « est contraire à la nature de Dieu », fustige Justin Welby, archevêque de Canterbury et primat de l’Eglise anglicane. Lord Alf Dubs, rescapé de l’horreur nazie grâce à l’opération Kindertransport (qui a permis le sauvetage d’enfants juifs vers le Royaume-Uni entre 1938 et 1940), dénonce un « trafic [d’humains] sponsorisé par l’Etat ».
    La résistance s’organise. Epaulés par des ONG, des demandeurs d’asile saisissent les tribunaux pour éviter d’être expulsés. Le premier (et le seul à ce jour) avion affrété pour Kigali, un Boeing 767 devant décoller le 14 juin 2022 d’une base militaire du sud du pays, reste cloué au sol en raison d’une mesure provisoire de la Cour européenne des droits de l’homme (CEDH), qui estime que les passagers risquent de ne pas accéder à des procédures d’asile justes au Rwanda. Trois autres décisions de justice se succèdent : le 19 décembre 2022, la Haute Cour de justice de Londres conclut que l’accord « Rwanda » est légal. La Cour d’appel d’Angleterre et du Pays de Galles la contredit le 29 juin 2023. Le 15 novembre, la Cour suprême confirme dans une décision unanime que l’accord « Rwanda » est « illégal », celle-ci estimant « réel » le risque de voir des migrants renvoyés vers leur pays d’origine par les autorités rwandaises, et ce même dans le cas où leur demande de protection serait justifiée.
    Pourtant, Rishi Sunak s’entête. Arrivé à Downing Street fin 2022, il a mis la promesse de « stopper les bateaux » au cœur de son mandat. En décembre 2023, il annonce un « traité » avec le Rwanda et le projet Safety of Rwanda Bill, visant, fait inédit dans l’histoire législative britannique, à contourner la décision de la plus haute instance juridique du pays.Le traité est une version améliorée de l’accord « Rwanda », avec des engagements de Kigali à ne pas refouler les demandeurs d’asile vers leur pays d’origine. Le projet de loi décrète, lui, que le Rwanda est un pays « sûr », et restreint donc les possibilités pour les migrants de faire appel de leur expulsion au motif qu’il ne l’est pas. Le texte donne aussi pouvoir aux ministres de s’opposer aux mesures provisoires de la CEDH. Il pose des problèmes évidents : « On ne peut pas décréter par la loi que les chiens sont des chats, que le ciel est vert et le gazon bleu », raille Stephen Kinnock, ministre à l’immigration du cabinet fantôme travailliste.
    « Il risque de mettre le Royaume-Uni en contradiction avec la Convention européenne des droits de l’homme [dont il est signataire], en particulier ses articles 2 et 3, actant le droit à la vie et le droit de ne pas être torturé ou de subir de traitement dégradant », relève Sarah Singer, spécialiste du droit des réfugiés à l’université de Londres. Ce projet de loi soulève aussi de graves questions constitutionnelles. « En contournant une décision unanime de la plus haute instance juridique du pays et en limitant significativement la possibilité pour les juges de questionner l’action du gouvernement [ils ne peuvent contester le caractère “sûr” du Rwanda], il déstabilise notre Etat de droit », s’inquiète Sarah Singer, d’autant que la Cour suprême ne peut contrer le Parlement, en l’absence de Constitution écrite.Pour beaucoup, ce texte prouve la dérive populiste du Parti conservateur, déjà amorcée avec le Brexit, l’essentiel de ses députés ne cillant plus quand il faut voter contre un amendement des Lords au Safety of Rwanda Bill visant à éviter la déportation d’ex-collaborateurs de l’armée britannique en Afghanistan. Une frange radicale menée par Suella Braverman, ex-ministre de l’intérieur de M. Sunak (issue, comme lui et Mme Patel, de l’immigration) réclame même la sortie de la CEDH, oubliant que Winston Churchill (1874-1965) en est l’un des pères fondateurs. Rishi Sunak passe pourtant pour un modéré : « Il ne croyait pas à l’accord “Rwanda” quand il était chancelier de l’Echiquier [ministre des finances ; jusqu’en 2022], mais il l’a défendu durant sa campagne pour remplacer Boris Johnson à la tête du parti, pour séduire les membres tory », décrypte Sunder Katwala, directeur de British Future, un cercle de réflexion spécialiste de la migration.
    Lire aussi | Près de 30 000 migrants ont traversé illégalement la Manche en 2023, le gouvernement britannique se félicite d’une forte baisseQuel intérêt le Rwanda a-t-il à figurer dans ce psychodrame britannique ? L’argent est une motivation indéniable. Londres a déjà promis 370 millions de livres sterling (431 millions d’euros) à Kigali, même sans envoi de migrants, et 120 millions supplémentaires quand les 300 premières personnes auront été déplacées. En 2023, le Home Office évaluait à 169 000 livres le coût de l’envoi d’un demandeur d’asile au Rwanda. « C’est plus cher que de leur payer le Ritz », déplore sur le réseau social X le député travailliste Chris Bryant. Et l’effet dissuasif recherché n’a rien de garanti : plus de 29 000 personnes ont traversé le Channel en 2023 (et près de 4 000 depuis janvier 2024), l’annonce du plan « Rwanda » ne les ayant manifestement pas arrêtées.
    « Rishi Sunak ne peut pas tenir sa promesse de “stopper les bateaux” car, pour que le plan “Rwanda” fonctionne à plein, il faudrait que le Royaume-Uni se retire de la CEDH, et le premier ministre n’est pas assez populiste ni stupide pour cela », tranche Rory Stewart, ancien ministre du développement de Theresa May.
    M. Sunak maintient-il l’accord en vie pour des raisons politiques, car il a besoin de l’aile droite de son parti pour se maintenir à Downing Street ? Ce serait maladroit, à en croire Sunder Katwala, pour qui l’accord « Rwanda » n’est pas spécialement populaire : « L’électorat Labour le trouve cruel, les sympathisants tory veulent un meilleur contrôle des frontières, mais au moyen d’un système juste, proposant l’asile au Royaume-Uni à ceux qui le méritent. »
    Même si l’accord se limitait à un ou deux avions en partance pour Kigali, Rashmin Sagoo, directrice du programme droit international à l’institut de réflexion Chatham House, redoute qu’il abîme la réputation du pays, alors que « le Royaume-Uni est considéré comme exemplaire en matière de promotion et de respect de l’Etat de droit ». L’universitaire Sarah Singer s’inquiète aussi à l’idée que Londres donne un « chèque en blanc » à d’autres pays tentés de renoncer à leurs responsabilités : fin 2023, le Pakistan a cité l’accord « Rwanda » pour justifier sa décision d’expulser en masse des milliers d’Afghans ayant fui les talibans.
    Pour le Labour, l’accord « Rwanda » est un « gadget », il a promis de s’en débarrasser s’il remporte les élections générales (en janvier 2025 au plus tard). Le Royaume-Uni a besoin de solutions de long terme, argue le parti : une coopération accrue avec les autres pays européens pour lutter contre les passeurs et un système d’asile national plus efficace, alors que le Home Office manque de moyens, avec plus de 130 000 demandes d’asile en souffrance. Les personnes en attente sont logées dans des conditions précaires, des hôtels, et même, pour environ 300 d’entre elles, sur une barge, le Bibby-Stockholm, amarré depuis l’été 2023 au large de Portland, dans le Dorset.(...) »

    #Covid-19#migrant#migration#royaumeuni#rwanda#migrationirreguliere#australie#CEDH#asile#manche#traversee#immigration#frontiere#sante

  • Le naufrage de Rohingya en Indonésie révèle une crise humanitaire grandissante
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/03/22/le-naufrage-de-rohingya-en-indonesie-revele-une-crise-humanitaire-grandissan

    Le naufrage de Rohingya en Indonésie révèle une crise humanitaire grandissante
    Par Brice Pedroletti (Bangkok, correspondant en Asie du Sud-Est)
    Le naufrage, mercredi 20 mars, d’un bateau de Rohingya au large des côtes indonésiennes, lors duquel plus d’une cinquantaine de personnes auraient péri, est un nouveau signe de la détresse de cette minorité apatride originaire de Birmanie. Plusieurs milliers de Rohingya ont pris la mer en 2023 sur des embarcations vétustes.
    Or cette crise humanitaire à bas bruit dans les eaux du détroit de Malacca et du golfe du Bengale a tout lieu de s’aggraver : la « révolution birmane » a gagné le nord-est de l’Etat de Rakhine, en Birmanie, où vivent les quelque 650 000 Rohingya restés dans ce pays après le grand exode de 2017.
    Au Bangladesh voisin, où près d’un million de Rohingya vivent dans des camps de réfugiés – dont 750 000 arrivés en 2017 après les atroces massacres perpétrés par l’armée birmane dans l’Arakan (Etat de Rakhine, selon l’appellation officielle), la situation humanitaire n’a cessé de se détériorer. Les Rohingya sont une minorité autochtone de l’Etat de Rakhine, de confession musulmane et ethniquement apparentée aux Bengalis. Mais les dictatures birmanes successives en ont fait des « immigrés illégaux », les privant en 1982 de la citoyenneté birmane.
    Les 75 survivants du 20 mars, en majorité des hommes, entassés sur la coque retournée de leur embarcation au large de Kuala Bubon, sur la côte occidentale d’Aceh (île de Sumatra), ont d’abord été secourus par des pêcheurs, avant que des sauveteurs ne recueillent le lendemain la majorité d’entre eux. Un survivant du nom de Zaned Salim a fait état de cent cinquante personnes embarquées à l’origine, dont beaucoup de femmes et d’enfants, présumés morts noyés. Ils auraient quitté un « centre de réfugiés » malaisien pour tenter de rejoindre l’Australie. Mais ce témoignage reste sujet à caution tant la méfiance règne chez ces damnés de la Terre, rejetés de toute part. La plupart des Rohingya fuient les camps du Bangladesh, mais aussi la Birmanie, pour tenter de gagner la Malaisie, jugée plus tolérante, où 108 500 d’entre eux étaient, en février, enregistrés comme demandeurs d’asile selon l’UNHCR, l’agence des Nations unies pour les réfugiés. Mais la Malaisie ne reconnaît pas ce statut et a durci, ces dernières années, sa politique anti-immigration : beaucoup de Rohingya se retrouvent dans des centres de détention pour migrants illégaux. En février, une centaine d’entre eux s’étaient d’ailleurs évadés d’un de ces centres. L’Australie, elle, envoie les rares réfugiés qui atteignent ses côtes sur l’île de Nauru, dans le Pacifique, dans un centre de traitement des demandes d’asile.
    L’afflux de bateaux de réfugiés rohingya en Indonésie a pris de l’ampleur depuis octobre 2023 : sur les 4 500 qui, selon les estimations de l’UNHCR, ont pris la mer en 2023, 1 500 Rohingya auraient, depuis, accosté sur les rivages de la province d’Aceh. Les morts présumés se comptent par centaines. Or cet afflux suscite une vague de rejet parmi les Acehnais : en novembre, près de 200 Rohingya sinistrés ont été parqués une nuit entière sur une plage de Sabang, sur l’île de Weh, au large de Banda Aceh, la capitale provinciale. Les habitants voulaient les repousser vers la mer.
    Fin décembre, une centaine d’étudiants ont manifesté et pris d’assaut un local où des familles rohingya étaient hébergées à Banda Aceh, poussant l’UNHCR à se déclarer « profondément troublée par l’attaque d’une foule sur un site abritant des familles de réfugiés vulnérables ». Les survivants du 20 mars ont eux aussi vu affluer des villageois avec des pancartes « pas de Rohingya chez nous ».Car depuis novembre, une virulente campagne de haine agrémentée de fake news dépeint sur les réseaux sociaux indonésiens, en particulier TikTok, les Rohingya comme des « voleurs », voire de la « vermine » – reprenant sans aucun recul les stéréotypes racistes et islamophobes diffusés à l’envi par l’armée birmane sur les réseaux sociaux dans les années précédant les massacres de 2016 et 2017. Selon un observateur de l’Internet indonésien consulté par Le Monde en février, certains des messages de haine diffusés à grande échelle remontent à au moins l’un des « influenceurs » de la campagne de Prabowo Subianto, le général qui a gagné l’élection présidentielle indonésienne du 14 février et est vu comme un farouche nationaliste.
    Cruelle ironie : on sait que les Acehnais, de pieux et conservateurs musulmans sunnites comme les Rohingya, ont subi pendant des décennies les exactions de l’armée indonésienne lors de leur combat pour plus d’autonomie, puis furent, après le tsunami dévastateur de 2004, sous perfusion de l’aide internationale durant dix ans. Ce manque d’empathie est dénoncé en Indonésie par des figures progressistes, et des ONG locales viennent en aide aux Rohingya en détresse. Si Djakarta met en avant ses obligations de non-refoulement des réfugiés en perdition, la marine indonésienne a été soupçonnée d’avoir fait la chasse à des bateaux de Rohingya pour qu’ils n’accostent pas.Or les raisons qui poussent les Rohingya à prendre la mer ont tout lieu de se renforcer. Au Bangladesh, les conditions se détériorent dans la trentaine de camps qui les accueille autour de Cox’s Bazar, de l’autre côté de la frontière avec la Birmanie. La criminalité s’y répand, des incendies dévastent des quartiers entiers. Les Nations unies, qui financent les camps, n’ont pu lever en 2023 que la moitié des 876 millions de dollars (809 millions d’euros) nécessaires à leur fonctionnement. Au point que le Programme alimentaire mondial a dû, en mars 2023, réduire progressivement de 12 à 8 dollars mensuels le bon alimentaire attribué à chaque résident du camp, alors même que 40 % des enfants de moins de 5 ans souffrent de malnutrition chronique. Le montant a toutefois pu être réévalué à 10 dollars en janvier.
    En Birmanie, les zones d’habitation des Rohingya, dans le nord-est de l’Etat de Rakhine, comme les villes ghettos de Maungdaw, Buthidaung, et Rathedaung, font l’objet d’intenses combats entre l’armée birmane et l’Armée de l’Arakan. Le groupe rebelle arakanais opposé à la junte a lancé en janvier une offensive massive sur les positions de l’armée, qui recule mais bombarde régulièrement les zones habitées. A Sittwe, la capitale de l’Etat de Rakhine, les combats forcent la population à s’enfuir, mais les Rohingya, pour la plupart parqués dans des camps dans la périphérie, sont à la merci de l’armée birmane. « Il ne reste que des musulmans [rohingya] dans la ville. Ils n’ont nulle part où fuir et n’ont pas de carte d’identité. Le régime les exploite, en a forcé certains à suivre un entraînement militaire », confiait récemment au site birman en exil The Irrawaddy un cadre de l’Armée de l’Arakan. L’armée rebelle s’est dite, le 4 mars, par le truchement d’un porte-parole, prête à accueillir dans les zones libérées les Rohingya qui risquent sinon d’être utilisés comme « boucliers humains » par la junte : celle-ci en aurait recruté de force plusieurs centaines, depuis l’annonce en février de la conscription obligatoire.

    #Covid-19#migrant#migration#birmanie#australie#malaisie#bangladesh#rohinhya#indonesie#refugie#conflit#sante

  • When the Coast Guard Intercepts Unaccompanied Kids

    A Haitian boy arrived on Florida’s maritime border. His next five days detained at sea illuminate the crisis facing children traveling to the U.S. alone and the crews forced to send them back.

    Tcherry’s mother could see that her 10-year-old son was not being taken care of. When he appeared on their video calls, his clothes were dirty. She asked who in the house was washing his shirts, the white Nike T-shirt and the yellow one with a handprint that he wore in rotation. He said nobody was, but he had tried his best to wash them by hand in the tub. His hair, which was buzzed short when he lived with his grandmother in Haiti, had now grown long and matted. He had already been thin, but by January, after three months in the smuggler’s house, he was beginning to look gaunt. Tcherry told his mother that there was not enough food. He said he felt “empty inside.”

    More strangers, most of them Haitian like Tcherry, continued to arrive at the house in the Bahamas on their way to the United States. One day police officers came with guns, and Tcherry hid in a corner; they left when a man gave them money. The next time he and his mother talked, Tcherry lowered his bright, wide-set eyes and spoke to her in a quieter voice. “It was like he was hiding,” his mother, Stephania LaFortune, says. “He was scared.” Tcherry told her he didn’t want to spend another night on the thin mattress in the front room with scuffed pink walls. She assured him it would be over soon. A boat would take him to Florida, and then he would join her in Canada, where she was applying for asylum. LaFortune texted Tcherry photos of the city where she lived. The leaves had turned brown and fallen from the trees. Still, she was there, and that’s where Tcherry wanted to be. He waited another week, then two, then three.

    Tcherry didn’t laugh or play for months on end, until one day in February, when two sisters, both Haitian citizens, were delivered to the house. One was a 4-year-old named Beana. She wore a pink shirt and cried a lot. The other, Claire, was 8. She had a round face and a burn on her hand; she said that at the last house they’d stayed in, a girl threw hot oil on her. Claire did everything for her sister, helping her eat, bathe and use the bathroom. Like Tcherry, the girls were traveling to join their mother, who was working at a Michigan auto plant on a temporary legal status that did not allow her to bring her children from abroad. Their clothes were as dirty as his. Sometimes Tcherry and Claire watched videos on his phone. They talked about their mothers. “I am thinking about you,” Tcherry said in a message to his mother in early February. “It has been a long time.”

    Finally, nearly four months after Tcherry arrived at the house, one of the men in charge of the smuggling operation woke him and the two girls early in the morning. “He told us to get ready,” Tcherry recalls. With nothing but the clothes they wore, no breakfast or ID, they were loaded into a van and were dropped off at a trash-lined canal just outside Freeport, Bahamas. In the muck and garbage, more than 50 people stood waiting as a boat motored toward them. “Not a good boat,” Tcherry told me, “a raggedy boat.” But nobody complained. The 40-foot vessel tilted from the weight as people climbed aboard and pushed into the two dank cabins, sitting shoulder to shoulder or standing because there was no more space. Tcherry felt the boat speeding up, taking them out to sea.

    For almost 12 hours they traveled west, packed together in cabins that now smelled of vomit and urine. In the lower cabin, a baby was crying incessantly. A heavily pregnant woman offered up the last of her package of cookies to the child’s mother to help soothe the infant. Tcherry was thirsty and exhausted. Not far from him, he heard a woman say that the children’s parents must be wicked for sending them alone into the sea.

    The passengers had been promised they would reach U.S. shores hours earlier. People were starting to panic, sure that they were lost, when passengers sitting near the windows saw lights, at first flickering and then bright — the lights of cars and buildings. “That is Florida,” a young man said as the boat sped toward shore. Tcherry pulled on his sneakers. “If I make it,” he thought, “I will spend Christmas with my family.”

    But as quickly as the lights of Florida came into view, police lights burst upon them. A siren wailed. People screamed, a helicopter circled overhead and an officer on a sheriff’s boat pointed a long gun toward them. Uniformed men climbed on board, yelled orders and handed out life jackets. The group of 54 people was transferred to a small Coast Guard cutter. As the sun rose over Florida just beyond them, a man with a tattoo on his arm of a hand making the sign of the benediction began recording a video on his phone. “As you can see, we are in Miami,” he said. “As you can see, we are on a boat with a bunch of small children.” He intended to send the video to relatives waiting for him on land, and he urged them to contact lawyers. But his phone was confiscated, and the video was never sent.

    The Coast Guard frames its operations in the sea as lifesaving work: Crews rescue people from boats at risk of capsizing and pull them from the water. But the agency, which is an arm of the Department of Homeland Security, also operates as a maritime border patrol, its ships as floating holding facilities. Since the summer of 2021, the Coast Guard has detained more than 27,000 people, a number larger than in any similar period in nearly three decades. On a single day in January, the agency’s fleet of ships off the Florida coast collectively held more than 1,000 people. The public has no way of knowing what happens on board. Unlike at the U.S.-Mexico border, which is closely monitored by advocates, the courts and the press, immigration enforcement at sea takes place out of public view.

    The Coast Guard routinely denies journalists’ requests to witness immigration patrols, but in early March, I learned that several days earlier, a boat carrying dozens of Haitians had been stopped so close to land that they were first chased down by the Palm Beach County sheriff’s marine unit. Among them were three unaccompanied children: two young sisters and a 10-year-old boy. In the months afterward, I obtained a trove of internal Coast Guard documents, including emails and a database of the agency’s immigration interdictions, and I tracked down Tcherry, Claire and Beana and 18 people traveling with them. Many of them told me about the five days they spent detained on Coast Guard ships — an experience, one man said, “that will remain a scar in each person’s mind.”

    People intercepted at sea, even in U.S. waters, have fewer rights than those who come by land. “Asylum does not apply at sea,” a Coast Guard spokesperson told me. Even people who are fleeing violence, rape and death, who on land would be likely to pass an initial asylum screening, are routinely sent back to the countries they’ve fled. To try to get through, people held on Coast Guard ships have occasionally taken to harming themselves — swallowing sharp objects, stabbing themselves with smuggled knives — in the hope that they’ll be rushed to emergency rooms on land where they can try to claim asylum.

    The restrictions, combined with the nearly 30-year spike in maritime migration, created a crisis for the Coast Guard too, leading to what one senior Coast Guard official described in an internal email in February as “war-fighting levels of stress and fatigue.” Coast Guard crew members described to me their distress at having to reject desperate person after desperate person, but the worst part of the job, several said, was turning away the children who were traveling alone. From July 2021 to September 2023, the number of children without parents or guardians held by the Coast Guard spiked, a nearly tenfold increase over the prior two years. Most of them were Haitian. “The hardest ones for me are the unaccompanied minors,” one crew member told me. “They’re put on this boat to try to come to America, and they have no one.”

    The treatment of children is perhaps the starkest difference between immigration policy on land and at sea. At land borders, unaccompanied minors from countries other than Mexico and Canada cannot simply be turned back. They are assigned government caseworkers and are often placed in shelters, then with family members, on track to gain legal status. That system has its own serious failings, but the principle is that children must be protected. Not so at sea. U.S. courts have not determined what protections should extend to minors held on U.S. ships, even those detained well within U.S. waters. The Coast Guard says that its crew members screen children to identify “human-trafficking indicators and protection concerns including fear of return.” A spokesperson told me that “migrants who indicate a fear of return receive further screening” by Homeland Security officials.

    But of the almost 500 unaccompanied children held on the agency’s cutters in the Caribbean and the Straits of Florida between July 2021 and early September 2023, five were allowed into the U.S. because federal agencies believed they would face persecution at home, even amid escalating violence in Haiti, including the documented murder and rape of children. One other child was medically evacuated to a hospital in Florida, and six were brought to land for reasons that the internal Coast Guard records do not explain. The rest were delivered back to the countries they left, and it’s often unclear where they go once they return. Some have nowhere to stay and no one to take care of them. On occasion, they are so young that they don’t know the names of their parents or the country where they were born. One official from an agency involved in processing people delivered by the U.S. Coast Guard to Haiti told me “it is an open secret” that the process can be dangerously inconsistent. “Children leave the port,” the official said, “and what happens to them after they leave, no one knows.”

    Stephania LaFortune had not wanted to send her 10-year-old son on a boat by himself. She knew firsthand how perilous the journey could be. In May 2021, before the boat she had boarded made it to a Florida beach, some of the passengers jumped into the water to wade through the heavy waves. “They almost drowned,” she told me when I met her in Toronto. LaFortune waited on the beached vessel until U.S. Border Patrol officials came to detain her. In detention, she claimed asylum and was soon released. For months, she searched for other ways to bring Tcherry to her, but LaFortune ultimately determined she had no alternative.

    The first time LaFortune left Tcherry, he was 3 years old. Her husband, a police cadet, had been shot in his uniform and left to die in a ditch outside Port-au-Prince, and LaFortune, fearing for her life, departed for the Bahamas. Tcherry stayed behind with his grandmother. Four years later, as violence began to flare again, Tcherry’s mother finally made good on her promise to send for him. She arranged for him to fly to the Bahamas, where she had remarried and had a baby girl. But Tcherry was in the Bahamas not even a year when LaFortune told him that she would be leaving again — not because she wanted to, she assured her sobbing son, but because she had seen how Haitians were harassed and deported, and she simply didn’t believe there was real opportunity there. Tcherry’s stepfather and his younger half sister, who were Bahamian citizens, joined LaFortune months later. She arranged for Tcherry to live with relatives, promising to send for him as soon as she could.

    LaFortune’s asylum case in Florida dragged on, so she and her husband and daughter traveled over land to Canada, where they hoped they could get legal status more quickly. While they waited for a decision in their asylum case, the relative Tcherry was staying with said he could no longer take care of a growing boy by himself. After begging others to take her son, LaFortune found a woman she knew back in Haiti who said she was planning to make the trip to Florida herself with her own children. For $3,000, the woman said, she could take Tcherry with them. LaFortune sent the money. The woman took Tcherry to the smuggler’s house and did not return for him.

    That house, and the one where Tcherry was moved next, were filled with Haitians fleeing the crisis that began in July 2021, when President Jovenel Moïse was assassinated by a team of mostly Colombian mercenaries hired through a Miami-area security company. The U.S. Justice Department has accused nearly a dozen people, some based in the United States, of setting the assassination in motion. As the Haitian state crumbled, proliferating gangs, many with ties to the country’s political elite, burst from the neighborhoods they’d long controlled and began terrorizing Port-au-Prince and swaths of the rest of the country. Kidnapping, extortion, the rape of women and children, and the torching of homes and neighborhoods became routine weapons of fear. Thousands have been murdered, and in June the United Nations estimated that nearly 200,000 have been internally displaced. Haitians able to gather the resources have left however they can. Many have traveled over land to the Dominican Republic or by air to South and Central America. And thousands have boarded boats bound for the beaches of Florida.

    The people on the vessel with Tcherry had reasons, each as urgent as the next, for being there. There was a 31-year-old street vendor whose Port-au-Prince neighborhood had been taken over by gangs; she said that when she tried to flee north by bus, men with guns forced her and other women off the bus and raped them. A man from a district in the north said he’d been beaten more than once by thugs sent by a political boss he’d opposed; both times they threatened to kill him. A man who worked as a Vodou priest in Port-au-Prince said he left because he needed money for his sick daughter, and gangs were confiscating his wages. The pregnant woman who helped comfort the crying baby said she had been kidnapped and raped; she was released only after her family sold land and collected donations to pay for her ransom. Two women were traveling with their daughters, but Tcherry, Claire and Beana were the only young children traveling alone.

    Tcherry sat on the deck of a Coast Guard cutter called the Manowar along with the rest of the group, exhausted, scared and confused. Nobody had explained to him what would happen next. Crew members in blue uniforms finally gave them food, small plates of rice and beans, and began to search their belongings and run their photos and fingerprints through federal immigration and criminal databases. Tcherry and the sisters followed the orders of a crew member with blond hair, cut like the soldiers in movies Tcherry had seen, to sit in the shaded spot under the stairs to the bridge.

    On the stern of the cutter, a man in his early 30s named Peterson sat watching the children. He had crossed paths with them weeks earlier in one of the houses; seeing they were hungry, he had brought them extra slices of bread and even cut Tcherry’s hair. Claire reminded him of his own young daughter in Haiti. Peterson had not wanted to leave his child, but gangs had recently taken control of roadways not far from his home in the coastal city of Saint-Marc. He had not earned a decent wage for many months, not since he lost his job as a driver at a missionary organization. He had decided to leave for the United States so he could send money back to Haiti for his daughter, who remained behind with her mother.

    Now it occurred to Peterson that his connection to Tcherry and the girls could work to his advantage. Surely the Coast Guard wouldn’t return children to Haiti, he thought. Surely they wouldn’t separate a family. “I thought that there might be an opportunity for me to get to the U.S.,” he told me. He approached Tcherry, Claire and Beana and told them they should tell the crew he was their uncle.

    Peterson’s small kindness in the smuggler’s house had given Tcherry reason to trust him. When it came time for the blond-haired crew member, Petty Officer Timothy James, to interview the children, Peterson stood close behind. With the help of another Haitian man who spoke some English, Peterson told James that he was their uncle. James asked the children if it was true. Tcherry and Claire, both timid, their eyes lowered, said it was. Beana was too young to understand. James handed her a brown teddy bear, which the crew of the Manowar keeps on board because of the growing number of children they detain, and sent the children back to the stern.

    But no more than a couple of hours later, Peterson changed his mind. He’d noticed that the pregnant woman had been evaluated by Florida EMTs, and he moved over to offer her a deal: If she would tell the crew he was her husband and let him join her if they brought her to land, his brother in Florida, who already paid $6,000 for his place on this boat, would make sure she was compensated. “I helped her understand that that is something she could profit from,” he says. The woman agreed, and Peterson, who now needed to tell the truth about the children, divulged to a crew member that he was not their uncle. “I was just trying to help if I could,” he said.

    James crouched down beside the children again and told them not to lie. “Why did you leave your home to go to the United States,” he read off a questionnaire. “To go to my parents,” Tcherry replied. To Tcherry, the questions seemed like a good sign. He was unsure whether he could trust these crew members after the officer on the sheriff boat pointed a long gun at them the night before. “I thought they were going to shoot me,” Tcherry says. But James calmly directed the children to sit in the one shaded place on the boat, and gave them cookies and slices of apple. “He was nice,” Tcherry says — the nicest anyone had been since Peterson brought them bread in the house.

    James kept reading the form. “What will happen when you get there?” he asked. Tcherry looked up. He latched onto the words “when you get there” and took them as a promise. He asked James when they would be on land. James said the same thing he told everyone on the boat: that the decision was not up to him, that he was just doing his job. Tcherry was convinced James would send him and Claire and Beana to their mothers. He thought of the story his mother had told him about his father’s murder, his body in a ditch by the road, and of his last memory of Haiti, when he passed through a gang checkpoint on the way to the airport. “I saw bandits approaching toward us, and he had a gun pulled,” Tcherry told me. “My heart started beating fast, and I thought he was going to shoot.” He was overwhelmed with relief that he would never have to go back there.

    A boat came to bring someone to land. But it was not there to pick up Tcherry or the other children. A Coast Guard medical officer had reviewed the pregnant woman’s vitals and made a decision that because she “may go into labor at any moment,” she would be brought to a hospital in Palm Beach County accompanied by U.S. Customs and Border Protection. Before she was taken away, Peterson said the woman told him she would not claim to be married to him after all. She didn’t want a stranger on her baby’s birth certificate. She offered to say she was his cousin. “I knew that being the cousin would not be enough,” Peterson recalls, “and I have to say that I lost hope.”

    The pregnant woman disappeared on a small boat toward land. Those left on the stern began to talk among themselves, asking why the baby, who had barely stopped crying, and the other children had been left aboard the cutter. They said they could not keep going like this, eating only small portions of scarcely cooked and saltless rice and beans, unable to bathe and forced to urinate and defecate in a toilet seat attached to a metal box with a tube off the side of the open deck. They decided they would rise in unison and protest, and they passed the word from one to the next. At around 9 p.m., dozens of people began to yell toward the bridge demanding interpreters, lawyers or just to know what would become of them. From the bow where he stood, James heard faint yelling, and then the voice of the officer in charge over the loudspeaker. “They’re starting an uprising on the fantail,” he said. “I need you back there.”

    Timothy James came from a conservative family in a conservative little town in the mountains of North Carolina. He and his wife held handguns aloft in their wedding photos, and his first job after dropping out of college was as a sheriff’s deputy at the jail. James joined the Coast Guard in 2015. “My main goal,” he told me, “was to chase down drug runners and catch migrants” — two groups that were more or less the same, as far as he understood.

    He’d been on the job no more than a few weeks before his expectations were upended. “I had no idea what I was talking about,” he told me. There was much less “running and gunning, catching bad guys” than he’d anticipated. Instead, the people he detained would tell him their stories, sometimes with the help of Google Translate on his phone, about violence and deprivation like he had never contemplated. People described what it was like to live on $12 a month. There were children and grandmothers who could have been his own, and young men not so unlike him. They were not trying to infiltrate the country as he’d thought. They were running because “they didn’t have another option,” he says.

    James and his colleagues learned the lengths people would go to try to get to land. Since last fall, people detained on cutters have pulled jagged metal cotter pins, bolts and screws from the rigging and swallowed them, apparently trying to cause such severe injury that they’d be taken to a hospital. Last August, near the Florida Keys, three Cuban men were reported to the Coast Guard by a passing towboat operator; most likely fearing they would be brought back to Cuba, they stabbed and slashed their legs with blades and were found in puddles of blood. In January, a man plunged a five-inch buck-style knife that he’d carried onto a cutter into the side of his torso and slashed it down his rib cage. The crew taped the knife to the wound to stop him from bleeding out as he fell unconscious. Most of these people were delivered to Customs and Border Protection and rushed to hospitals on land, where they probably intended to claim asylum. By the time James began working as operations officer on the Manowar last summer, he and other crew members started every leg at sea by scouring the decks for anything that people might use to harm themselves. (According to a DHS spokesperson, “medical evacuations do not mean that migrants have a greater chance of remaining in the United States.”)

    People detained on cutters have in rare cases threatened to harm Coast Guard members or others they’re traveling with. In January, a group the Coast Guard detained pushed crew members and locked arms to stop their removal to another cutter, according to an internal record. That same month, a group of Haitians held children over the side of a boat, “threatening to throw them overboard and set them on fire” if the Coast Guard came closer. Weeks later, a group of Cubans brandished poles with nails hammered into them and tried to attack an approaching Coast Guard boat. Conflicts between crew and those they detain have escalated to the point that Coast Guard members have shot people with pepper balls and subdued others with stun maneuvers.

    James tensed as he heard the order over the loudspeaker. He thought of the crowd-control techniques he’d learned to immobilize someone, and stepped down the side walkway toward the stern. In front of him were dozens of angry men and a few women, yelling in Haitian Creole. James hesitated and then walked forcefully up to the group, his hands pulled into his sides as if he were ready to throw a punch. Instead, he took a knee. He gestured to the men around him to come join him. He spoke into a cellphone in English, and on the screen he showed them the Google Translate app: “You’ve got to tell everybody to calm down,” it read in Creole. “I can’t help you if I don’t know what’s going on.”

    Before they could respond, five other crew members came down the stairs, plastic zip ties and batons hanging from their belts. Tcherry was sitting under the stairs, beside Claire and Beana, who had not let go of the teddy bear. “Shut up, shut up,” one of the crew told the protesters as he stepped in front of Tcherry. “One of them said he was going to pepper-spray their eyes and handcuff them,” Tcherry says. James told his colleagues to wait. The yelling in English and Creole grew louder. A man to Tcherry’s left began to scream and roll on the ground, and then he rolled partway under the handrail. A crew member grabbed the man by the back of the pants and hauled him up. James secured his wrist to a post on the deck. “Nobody’s dying on my boat today,” James said.

    Above Tcherry, another crew member stepped onto the landing at the top of the stairs. He held a shotgun and cocked it. James claims that the gun was not loaded, but the threat of violence had its intended effect. The protesters stepped back and went quiet.

    James kept speaking into the phone. “What do you want?” he asked the men.

    “If we go back, we’re dead,” one man replied. They said they could not endure being on the boat much longer.

    “If it were up to me, we’d be taking you to land,” James said. “But it is not up to us.” There was a process to seek protection, he told them. “But what you’re doing now is not that process.”

    Coast Guard crews do not decide who will be offered protection and who will be sent back. Their responsibility is only to document what the agency calls “manifestation of fear” (MOF) claims. The Coast Guard instructs them to make note of such claims only when people proactively assert them or when they observe people exhibiting signs of fear, such as shaking or crying. They are not supposed to ask. That may help explain why the agency has logged only 1,900 claims from more than 27,000 people detained in this region between July 2021 and September 2023. Fewer than 300 of those came from Haitians, even though they make up about a third of people held on cutters. Officials in the Coast Guard and in U.S. Citizenship and Immigration Services told me that Haitians face a systemic disadvantage in making a successful claim for protection: Almost no one working on Coast Guard boats can speak or understand Creole. (The Coast Guard told me it has access to contracted Creole interpreters aboard cutters.)

    Regardless of the person’s nationality, the process is nearly always a dead end. Each person who makes a claim for protection is supposed to be referred to a U.S. Citizenship and Immigration Services officer, who conducts a “credible fear” screening by phone or in person on a cutter. Between July 2021 and early September 2023, USCIS approved about 60 of the approximately 1,900 claims — around 3%. By contrast, about 60% of asylum applicants on land passed a credible-fear screening over roughly the same period. Unlike on land, people who are denied on ships have no access to courts or lawyers to appeal the decision. And the few who are approved are not sent to the United States at all. Should they choose to proceed with their claims, they are delivered to an immigration holding facility at the U.S. naval base at Guantánamo Bay, where they are evaluated again. They’re told they should be prepared to wait for two years or more, until another country agrees to take them as refugees. Only 36 of the people with approved claims agreed to be sent to Guantánamo. The State Department says there are currently no unaccompanied minors held at the Migrant Operations Center at Guantánamo, but a recent federal contract document says that the facility is prepared to accept them.

    The Manowar crew had been tasked by the local Coast Guard office with logging any requests for protection. But the night after the protest had been too chaotic and exhausting for them to do so. In the morning, a larger cutter with more supplies arrived. The people detained on the Manowar would be transferred to that boat. Before they departed, James told them that anyone who intended to seek protection should seek help from the crew on the next boat. “Tell them, ‘I’m in fear for my life,’ just like you told me,” he said. “You tell whoever is processing you that specific thing.”

    But subsequent crews logged no such claims, according to records I obtained. One man told me that, in response to his plea for protection, an officer on the next boat wrote a note on a piece of paper, but nobody ever followed up. Another said that an officer told him their claims would be heard later. But there were no more interviews. “We had no opportunity,” a woman in the group says. When I asked the Coast Guard about this, a spokesperson told me the agency meticulously documents all claims. “Since we do not have a record of any of those migrants communicating that they feared for their lives if returned to Haiti, I cannot say that they made MOF claims while aboard,” he said.

    Tcherry fell asleep on the larger cutter and woke at around dawn to commotion. He saw an EMT pressing on the chest of a middle-aged woman who lay several yards away from him. She had been moaning in pain the night before. The crew member keeping watch had found her dead, her nose and mouth covered in blood. Another Haitian woman began to sing a hymn as the EMT performing CPR cried. A small boat took the woman’s body away and then returned for another man who had been complaining of pain and could not urinate. “I thought they would take us to land after the woman had died,” Tcherry says. “I thought they would let us go.” But that afternoon, he was transferred to yet another cutter that pulled away from Florida and into the high seas. Tcherry finally understood he was being sent back.

    The Coast Guard was first deployed as a maritime border-patrol agency to stop an earlier surge of migration from Haiti. In 1981, President Ronald Reagan made a deal with Jean-Claude Duvalier, the Haitian dictator, that allowed the Coast Guard to stop and board Haitian boats and deliver those detained directly back to Haiti. They would be processed on Coast Guard cutters, far from lawyers who could review their cases. The order, advocates argued at the time, undermined U.N. refugee protections and a U.S. refugee-and-asylum law that Congress passed just the year before. “This effort to push borders into the world’s oceans was new, and it marked a perverse paradigm shift,” Jeffrey Kahn, a legal scholar at the University of California, Davis, wrote recently.

    A decade after the Reagan agreement, as Haitians again departed en masse following a military coup, the George H.W. Bush administration further buttressed the sea wall. Bush signed an order that said federal agencies had no obligation to consider asylum claims from Haitians caught in international waters, no matter the evidence of danger or persecution. Lawyers and activists protested, calling the maritime regime a wholesale abdication of human rights doctrine. But the Bush order still stands. By the mid-1990s, its reach expanded to nearly anyone of any nationality caught in the sea, whether out in international waters or a couple of hundred feet from the beach.

    Pushing migrants and refugees away from the land borders to avoid obligations under law has now become common practice. In the United States, consecutive policies under Presidents Barack Obama, Donald Trump and Joe Biden have attempted to cast whole swaths of the land south of the border as a legal no-man’s land like the ocean. They have outsourced deterrence, detention and deportation to Mexico and Central America. Trump and Biden have sought to bar people from seeking asylum if they don’t first try to apply for protection in countries they pass through on their way to the United States. Europe, for its part, has pushed people coming by boat through the Mediterranean back to North African shores, where countries have imposed brutal regimes of deterrence.

    None of those measures have prevented the latest wave of migration from the Caribbean. In January, amid a generational spike in Haitians and Cubans held on their cutters, the Coast Guard acknowledged that crew members were reaching a breaking point. “We are in extremis,” a senior official wrote to colleagues in a widely circulated internal email in January. “I know you and your teams are pushed beyond limits.” The head of the Coast Guard for the eastern half of the United States, Vice Adm. Kevin Lunday, wrote in February to colleagues that two outside experts had told him their crews were under extreme stress similar to the levels experienced in “sustained combat operations.”

    Coast Guard members told me they had become accustomed to retrieving corpses from capsized boats, worn down by water or gnawed on by sharks. It was not uncommon to walk down a stairway or into a bunk room and come upon a crew member sobbing. Crew members waited months for mental health appointments, and the agency was talking openly about suicide prevention. “I don’t see how the current level of operations is sustainable,” Capt. Chris Cederholm, the commander of U.S. Coast Guard Sector Miami, wrote to colleagues, “without the breaking of several of our people.” Some were struggling with what one former crew member called a “moral dilemma,” because they had begun to understand that the job required them to inflict suffering on others. “We hear their stories, people who say they’d rather we shoot them right here than send them back to what they’re running from,” one Coast Guard member says. “And then we send them all back.”

    Tim James told me he tried to take his mind off the job by lifting weights and frequenting a cigar bar where service members and cops go to talk about “the suck,” but he soon realized he needed more than weights or whiskey to reckon with the mounting stress, even despair. “I go home, and I feel guilty,” he told me, “because I don’t have to worry about somebody kicking in my front door, you know, I don’t have to worry about the military roaming the streets.” He sought mental health support from a new “resiliency support team” the agency created. But James had not been able to shake the memories of the children he detained, particularly one 7-year-old Haitian girl with small braids. She’d been wearing shorts and a tank top, her feet were bare and she smiled at James whenever their eyes caught. “My mom is dead,” she told James with the help of an older child who spoke a little English. “I want to go to my auntie in Miami.”

    In the girl’s belongings the crew found a piece of paper with a phone number she said was her aunt’s. After James interviewed her, they sent her unaccompanied-minor questionnaire to the district office in Florida, and they waited for instructions on what to do with her. Out on the deck, James couldn’t help hoping she’d be taken to shore, to her aunt. But late in the morning the next day, the crew received a list from an office in Washington, D.C., of the people to be sent back. The girl was on the list. James cried on the return trip to port. One of his own daughters was about the girl’s age. “I can’t imagine sending my 7-year-old little kid across an ocean that is unforgiving,” James told me, nearly in tears. “I can’t imagine what my life would be like to have to do that.”

    That was just weeks before he encountered Tcherry, Claire and Beana. So when Peterson admitted the children were alone, the news came as a blow. “It’s a pretty hard hit when you think the kids have somebody and then it turns out that they really don’t,” James told me. He could see that Tcherry thought he would be making it to shore. “To see the hope on his face and then have to kind of turn around and destroy that is tough,” James told me. He never learns what becomes of the people he transfers off his cutter: that the pregnant woman gave birth in a hospital to a healthy boy and has an asylum case pending; that the body of Guerline Tulus, the woman who died on the cutter of what the medical examiner concluded was an embolism, remains in a Miami morgue, and that authorities have not identified any next of kin. He does not know what happened to the three children after they were sent back, but many months later, he says, he still wonders about them.

    Tcherry followed Claire and Beana up a rickety ramp in the port of Cap-Haïtien, Haiti, past a seized blue and yellow cargo ship into the Haitian Coast Guard station. The ground was littered with plastic U.S. Coast Guard bracelets that previous groups of people had pulled off and thrown to the ground. Officials from the Haitian child-protection authority and the U.N.’s International Organization for Migration watched as Tcherry and the rest of the group disembarked. “They looked scared and they said they were hungry,” a veteran official at IBESR, the Haitian child-protection agency, who was working at the port that day told me. “As a Haitian, I feel humiliated,” he says, “but we can’t really do anything about it. We’ve resigned ourselves.” To him, the people the Americans offloaded in Haiti always looked half dead. “It seems to me that when those children fall in their hands, they should know how to treat them. But that’s not the case.”

    Tcherry’s throat hurt and his legs were weak. He had never felt such tiredness. He ate as much as he could from the warm plate of food the UN provided. Slumped over on a bench, he waited for his turn to use the shower in a white and blue wash shed on the edge of a fenced lot behind the Haitian Coast Guard station. The officials brought several people to a hospital and got to work figuring out what to do with the unaccompanied children.

    The U.S. Coast Guard and State Department say that the children they send back are transferred into the hands of local authorities responsible for the care of children. “When we have custodial protection of those children, we want to make sure that the necessary steps are taken,” Lt. Cmdr. John Beal, a Coast Guard spokesperson, told me, “to ensure that when we repatriate those migrants, they don’t end up in some nefarious actor’s custody or something.” But no U.S. agency would explain the actual precautions the U.S. government takes to keep children from ending up in the wrong hands, beyond initial screenings aboard cutters. Last year, the Coast Guard stopped tracking the “reception agency” in each country, because according to the Department of Homeland Security, the U.S. government has set up rules establishing which agencies take these children and no longer needs to track them on a case-by-case basis.

    Haitian child-protection officials in Cap-Haïtien say their agency always finds relatives to take children, though sometimes after weeks or months. But the official with one of the other agencies involved in the processing of returned and deported Haitians at the Cap-Haïtien port said this claim is simply not true. The official said that children have departed the port with adults and with older children without any agency confirming they have an actual relationship or connection. “This is a serious concern in terms of trafficking,” the official told me. IBESR said those claims were unfounded. “According to the procedure, every child who leaves the port is accompanied by someone,” the IBESR official said, adding that when possible, the agency follows up with families to make sure children arrive safely. But the agency acknowledged there are limits to the support it can provide because of a lack of resources.
    Before they left the cutter, Peterson told Tcherry and the sisters that he would take care of them until they could contact their parents, who would figure out where they needed to go. Tcherry agreed. Peterson later told me he’d thought carefully about whether he wanted to get involved in the kids’ affairs once they were off the boat. He’d talked to other adults onboard, and they all agreed that someone needed to step up, that the Haitian government was surely not to be trusted. “If I didn’t do it,” Peterson says, “they would remain with the Haitian state, with all the risks that they could’ve faced, including kidnapping.”

    Peterson told the child-protection agency that he was the children’s guardian. The officials said they would need to contact the parents to confirm, so Peterson did the only thing he could think to do: He called the man who had been his conduit to the boat out of the Bahamas. The man sent him photos of the children’s IDs and put Peterson in touch with Claire and Beana’s mother, Inose Jean, in Michigan. She screamed and cried with relief upon learning her daughters were alive. Peterson explained that he’d taken care of the girls at sea and he asked her what to do with them. She said she would call back. Two hours later, she instructed Peterson to take the girls to her friend’s house in Cap-Haïtien.

    But Peterson still had no number for Tcherry’s mother. So he told the officials that Tcherry was Claire and Beana’s cousin, and that he’d gotten the image of Tcherry’s ID from Inose Jean. At dusk, Peterson walked with the three children through the metal gate of the Haitian Coast Guard station, at once incensed and relieved that he’d been allowed to take them. “The Haitian authorities didn’t talk to the children’s mothers,” Peterson says. “There was not enough evidence to actually prove I was who I was, or to prove a relationship.” They took a taxi to Jean’s friend’s house, and Claire, who recognized the woman from years earlier, rushed into her arms.

    The woman agreed to let Tcherry spend a night there. Peterson went to a cheap hotel with spotty electricity and a dirty pool. The man in the Bahamas finally sent Peterson Tcherry’s mother’s number. “I am the person who stood up to care for Tcherry on the boat,” Peterson told LaFortune. She collapsed onto the bed in her room, the only piece of furniture in the Toronto apartment she shared with her husband and her daughter. She had spent the last six days in a terrified daze, calling the people in the Bahamas she’d paid, begging for any news and fighting images in her mind of her son sinking into the sea. The next morning, after Tcherry woke, Peterson called LaFortune again. Tcherry looked weak and his voice was frail and hoarse. “When will I be with you, Mommy?” he asked.

    LaFortune did not for a moment consider trying to put Tcherry on another boat. She told him she would wait until she got asylum in Canada and send for him legally. But Haiti was even more dangerous for Tcherry than when he’d left. One man who was detained with Tcherry, whom I interviewed in Haiti two weeks after he returned there, said he feared he would be killed if he left Cap-Haïtien for his home in Port-au-Prince. After he ran through the roughly $50 the U.N. agency gave each of the returnees, which he used for a hotel, he did go back and was attacked on the street as he traveled to a hospital, he said, to get medicine for his daughter. He sent me photographs of gashes on his body. A second man sent me photos of a deep head wound that he suffered during an attack by the very armed men he had said he was running from. Another woman from the boat who told me she fled because she was raped says she is now “in hiding” in Port-au-Prince, living with relatives and her daughter, whom she does not allow to leave the house.

    Others on the boat have been luckier. In late 2022, the Department of Homeland Security started an unusually broad new legal-immigration program that now allows Haitians and Cubans, along with Venezuelans and Nicaraguans, to apply for two-year entry permits on humanitarian grounds from their countries, rather than traveling by land or sea first. The Department of Homeland Security says that since the program began, it has processed 30,000 people a month. More than 107,000 Haitians and 57,000 Cubans have been approved for entry, including a man who was detained with Tcherry. On Oct. 18, he stepped off a plane in Fort Lauderdale with a legal entry permit. He made it just under the wire, given the timing of his interdiction in February. In late April, DHS added a caveat to the new program: Anyone stopped at sea from then on would be ineligible to apply to the parole program. The Coast Guard says the new program and the accompanying restriction have caused the numbers of Cubans and Haitians departing on boats to fall back down to their pre-2021 level. “People have a safe and lawful alternative,” Beal, the Coast Guard’s spokesperson in Florida, told me, “so they don’t feel their only option is to take to the sea.”

    Tcherry rode a bus with Peterson over the mountains to Saint-Marc. In the stucco house on a quiet street where Peterson lived with his fiancée and her parents, Tcherry struggled to stop thinking about his experience at sea. “When I sleep, when I sit down, I want to cry,” Tcherry told me days after his arrival there. “They had us for five days. We couldn’t eat well, couldn’t sleep well. Couldn’t brush our teeth.” He thought of his body soaked from the sea spray, of the woman who died. Although Peterson assured him it was not true, Tcherry kept wondering if the officers had just thrown her body into the sea. “He is having nightmares about the boats,” Peterson told me a week after their arrival, “reliving the same moment again and again, and he starts crying.”

    LaFortune told Tcherry that she was arranging for him to travel to his grandmother in another part of the country. But it soon became clear to her that the roads were too dangerous, spotted with gang and vigilante checkpoints guarded often by men carrying AK-47s. Peterson told LaFortune that Tcherry could stay with him as long as she needed him to. But as the weeks turned to months, Tcherry felt that Peterson began to change. He said Peterson needed money, and he was asking Tcherry’s mother to send more and more. Peterson was frequently out of the house, working odd jobs, and often could not answer LaFortune’s calls. She grew worried. When she did talk to Tcherry, he was as quiet as he was in the smuggler’s house in the Bahamas.

    Two months passed. LaFortune’s asylum case was denied, and she and her husband appealed. Four more months passed. LaFortune’s husband heard news that gangs were closing in on Saint-Marc. LaFortune decided that they must move Tcherry, that it was time to risk the journey on the roads. In September, she sent an old family friend to collect him. They rode on a bus through a checkpoint where the driver paid a fee to a masked man. “I saw a man holding his gun,” Tcherry says. The man made a sign that they could pass.

    Tcherry arrived at a busy bus station in Port-au-Prince and looked for his grandmother. He saw her in a crowd and remembered her face, her high forehead and wide smile. “That is my grandma,” he said, again and again. His mutters turned to song. “That is my grandmother, tololo, tololo, that is my grandmother.” He sank into her arms. He held her hand as they boarded another bus and passed through another checkpoint, back to where he began.

    https://www.propublica.org/article/when-the-coast-guard-intercepts-unaccompanied-kids

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    Reprise du #modèle_australien et son concept de l’#excision_territoriale :

    “People intercepted at sea, even in U.S. waters, have fewer rights than those who come by land. “Asylum does not apply at sea,” a Coast Guard spokesperson told me. Even people who are fleeing violence, rape and death, who on land would be likely to pass an initial asylum screening, are routinely sent back to the countries they’ve fled.”

    Excision territoriale :

    https://seenthis.net/messages/416996
    #Australie

    #droits #mer #terre #USA #Etats-Unis #asile #migrations #réfugiés #MNA #mineurs_non_accompagnés #enfants #enfance #Haïti #réfugiés_haïtiens

    via @freakonometrics

  • Permessi in mano straniera : il vero #business è rivenderli

    La crescita della domanda delle materie prime critiche ha rimesso le miniere al centro dell’agenda politica italiana. Ma sono compagnie extra-UE a fare da protagoniste in questa rinascita perché la chiusura delle miniere negli anni ’80 ha spento l’imprenditoria mineraria italiana.

    “Nelle #Valli_di_Lanzo l’attività mineraria risale al XVIII secolo, quando il cobalto era utilizzato per colorare di blu tessuti e ceramiche. Poi l’estrazione non era più conveniente e le miniere sono state chiuse negli anni ‘20” dice a IE Domenico Bertino, fondatore del museo minerario di Usseglio, Piemonte. Adesso, grazie a una società australiana, i minatori potrebbero tornare a ripopolare le vette alpine.

    Secondo Ispra quasi tutti i 3015 siti attivi in Italia dal 1870 sono dismessi o abbandonati. Ma la crescita della domanda di materie prime critiche (CRM) ha fatto tornare le miniere al centro dell’agenda politica.

    “Abbiamo 16 materie critiche in miniere che sono state chiuse oltre trent’anni fa. Era più facile far fare l’estrazione di cobalto in Congo, farlo lavorare in Cina e portarlo in Italia” ha detto a luglio il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso, ribadendo la volontà del governo di riaprire le miniere. Oltre al cobalto in Piemonte, ci sono progetti per la ricerca di piombo e zinco in Lombardia, di litio nel Lazio e di antimonio in Toscana.

    I protagonisti di questa “rinascita mineraria”, che dovrebbe rendere l’Italia meno dipendente da paesi terzi, sono compagnie canadesi e australiane. Dei 20 permessi di esplorazione attivi, solo uno è intestato a una società italiana (Enel Green Power).

    La ragione è che “le scelte politiche fatte negli anni ‘80 hanno portato alla chiusura delle miniere. E così la nostra imprenditoria mineraria si è spenta e la nuova generazione ha perso il know how” spiega Andrea Dini, ricercatore del CNR.

    La maggior parte sono junior miner, società quotate in borsa il cui obiettivo è ottenere i permessi e vendere l’eventuale scoperta del giacimento a una compagnia mineraria più grande. “Spesso quando la società mineraria dichiara di aver scoperto il deposito più grande del mondo, il più ricco, il più puro, cerca solo di attrarre investitori e far decollare il valore del titolo” spiega Alberto Valz Gris, geografo ed esperto di CRM del Politecnico di Torino, promotore di una carta interattiva (http://frontieredellatransizione.it) che raccoglie i permessi di ricerca mineraria per CRM in Italia.

    Tra le junior miner presenti in Italia spicca Altamin, società mineraria australiana che nel 2018 ha ottenuto i primi permessi di esplorazione (https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/Info/1760) per riaprire le miniere di cobalto di Usseglio e Balme, in Piemonte. “Finora sono state effettuate solo analisi in laboratorio per capire la qualità e quantità del cobalto” spiega Claudio Balagna, appassionato di mineralogia che ha accompagnato in alta quota gli esperti di Altamin. “Ma da allora non abbiamo saputo più nulla", dice a IE Giuseppe Bona, assessore all’ambiente di Usseglio, favorevole a una riapertura delle miniere che potrebbe creare lavoro e attirare giovani in una comunità sempre più spopolata.

    A Balme, invece, si teme che l’estrazione possa inquinare le falde acquifere. “Non c’è stato alcun dialogo con Altamin, quindi è difficile valutare quali possano essere i risvolti eventualmente positivi" lamenta Giovanni Castagneri, sindaco di Balme, comune che nel 2020 ha ribadito l’opposizione “a qualsiasi ricerca mineraria che interessi il suolo e il sottosuolo”.

    “Le comunità locali sono prive delle risorse tecniche ed economiche per far sentire la propria voce” spiega Alberto Valz Gris.

    Per il governo Meloni la corsa alla riapertura delle miniere è una priorità, con la produzione industriale italiana che dipende per €564 miliardi di euro (un terzo del PIL nel 2021) dall’importazione di materie critiche extra-UE. Tuttavia, a oggi, non c’è una sola miniera di CRM operativa in Italia.

    Nel riciclo dei rifiuti le aziende italiane sono già molto forti. L’idea è proprio di puntare sull’urban mining, l’estrazione di materie critiche dai rifiuti, soprattutto elettronici, ricchi di cobalto, rame e terra rare. Ma, in molti casi, la raccolta e il riciclo di queste materie è oggi ben al di sotto dell’1%. “Un tasso di raccolta molto basso, volumi ridotti e mancanza di tecnologie appropriate non hanno permesso lo sviluppo di una filiera del riciclaggio delle materie critiche”, dice Claudia Brunori, vicedirettrice per l’economia circolare di ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Oltre alla mancanza di fondi: nel PNRR non sono previsti investimenti per le materie prime critiche.

    Un’altra strategia è estrarre CRM dalle discariche minerarie. Il Dlgs 117/08 fornisce indicazioni sulla gestione dei rifiuti delle miniere attive, ma non fornisce riferimenti per gli scarti estrattivi abbandonati. Così “tali depositi sono ancora ritenuti rifiuti e non possono essere considerati nuovi giacimenti da cui riciclare le materie” denuncia l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che chiede una modifica normativa che consenta il recupero delle risorse minerarie.

    https://www.investigate-europe.eu/it/posts/permessi-in-mano-straniera-il-vero-business-rivenderli
    #extractivisme #Alpes #permis #mines #minières #Italie #terres_rares #matières_premières_critiques #transition_énergétique #Alberto_Valz_Gris #permis_d'exploration #Usseglio #Piémont #Adolfo_Urso #plomb #zinc #Lombardie #Latium #Toscane #antimoine #Enel_Green_Power #junior_miner #Altamin #Australie #Balme #urban_mining #recyclage #économie_circulaire #déchets

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

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    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

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    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

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    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

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    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

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    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/11/24/l-asile-climatique-propose-par-l-australie-aux-habitants-des-tuvalu-suscite-

    L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    Par Isabelle Dellerba(Sydney, correspondance)
    Publié hier à 08h00, modifié hier à 17h06
    Ce pacte aurait pu représenter un modèle de bon voisinage. Vendredi 10 novembre, l’Australie et l’Etat du Tuvalu, dans le Pacifique Sud, ont dévoilé les termes d’un accord historique qui prévoit que Canberra s’engage à offrir l’asile climatique aux 11 000 citoyens du petit archipel à fleur d’eau, menacé d’être englouti par les flots avant la fin du siècle. Mais le texte, qui doit encore être ratifié par les deux parties pour entrer en vigueur, suscite des controverses dans cette région du monde où la crise climatique représente une menace existentielle pour tous les Etats insulaires de faible altitude.
    Son volet migratoire ne pose pas particulièrement question. L’accord prévoit que, chaque année, 280 citoyens tuvaluans se verront offrir un visa spécial qui leur permettra de « vivre, étudier et travailler » en Australie, mais aussi d’« accéder aux systèmes éducatifs, de santé et aux principaux dispositifs de soutien aux revenus et à la famille dès leur arrivée ». Le gouvernement travailliste dirigé par Anthony Albanese a ainsi répondu à la demande de l’Etat polynésien. « Nous voulons négocier des accords d’amitié avec des pays partageant nos valeurs, tels que les Fidji, la Nouvelle-Zélande et l’Australie, pour que nos citoyens puissent y vivre sans renoncer à leur nationalité et y bénéficier des mêmes avantages socio-économiques que le reste de la population », expliquait récemment au Monde le ministre des finances et du changement climatique des Tuvalu, Seve Paeniu.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Kioa, une île refuge pour les habitants des Tuvalu menacés par la montée des eaux
    Il s’agit du premier accord bilatéral conclu spécifiquement axé sur la mobilité climatique. Il a été salué par le chef du gouvernement de l’archipel, Kausea Natano, comme « une véritable lueur d’espoir » pour son pays, composé de récifs coralliens et d’atolls d’une hauteur moyenne de deux mètres au-dessus de la mer et déjà fréquemment inondés par des vagues-submersion. « Pour les Tuvaluans, ce pacte, c’est un peu comme un masque à oxygène dans un avion. Vous espérez qu’il ne tombe jamais, mais si vous en avez besoin, vous êtes très content qu’il soit là », abonde Jane McAdam, directrice du Centre Kaldor pour le droit international des réfugiés, qui évoque un texte « fondateur ».
    Le problème réside dans l’autre volet de l’accord. Après l’article 3, consacré à « la mobilité humaine dans la dignité », l’article 4 porte sur les questions de sécurité. Si l’Australie s’y engage à venir en aide aux îles Tuvalu en cas d’agression militaire, de catastrophe naturelle ou encore de pandémie, elle obtient aussi son mot à dire sur « tout partenariat, accord ou engagement » que l’archipel voudrait conclure avec d’autres Etats ou entités sur les sujets de sécurité et de défense. « Ces questions comprennent, mais ne se limitent pas à, la défense, la police, la protection des frontières, la cybersécurité et les infrastructures critiques, y compris les ports, les télécommunications et les infrastructures énergétiques », énonce le texte.« En échange de ces 280 places par an, l’Australie a obtenu un pouvoir de veto sur nos priorités de sécurité. Elle a abusé de sa position de force, c’est injuste. Et notre population n’a même pas été consultée », déplore notamment Maina Talia, un militant pour le climat tuvaluan reconnu sur la scène régionale. Les pays occidentaux « traitent les nations insulaires comme des pions pour contrer l’influence de la Chine », a dénoncé le Global Times, un quotidien proche du pouvoir chinois, le 14 novembre.
    Dans ce Pacifique Sud, où Pékin et Washington se livrent une lutte d’influence sans merci, Canberra a donné l’impression d’être davantage motivé par ses intérêts stratégiques que par une volonté sincère de soutenir son minuscule voisin rongé par l’océan. Cet accord est d’autant plus critiqué que l’Australie, troisième plus grand exportateur de combustibles fossiles au monde, n’a rien du bon élève en matière de lutte contre les émissions de gaz à effet de serre. « Le nouveau pacte signé par l’Australie avec Tuvalu n’est qu’une solution de fortune qui n’aborde en rien la crise climatique alimentée par les combustibles fossiles », a dénoncé Lagi Seru, membre du bureau régional de Greenpeace, dans un communiqué publié le 11 novembre. Les Etats insulaires demandent à l’Australie, qui souhaite organiser la COP31, de renoncer à accorder de nouvelles licences pour l’exploitation du charbon, du pétrole et du gaz.
    Si ce pacte n’est pas perçu comme un modèle, il n’en demeure pas moins précieux pour le gouvernement des Tuvalu qui, face au risque de disparition, explore toutes les pistes possibles pour assurer l’avenir de sa population. Afin qu’elle puisse rester chez elle, il a élaboré un plan d’adaptation à long terme destiné à créer une terre, élevée et sûre, de 3,6 kilomètres carrés – l’Australie s’est engagée à l’aider sur ce projet. Le gouvernement des Tuvalu a également entrepris des démarches pour que l’ensemble de l’archipel soit reconnu comme un site du patrimoine mondial de l’Unesco et mieux protégé.
    Etant parfaitement conscient que ces efforts pourraient s’avérer insuffisants, il prépare aussi un futur sans terres émergées. Offrir un refuge à ses habitants était l’une de ses priorités. D’autre part, il a engagé des actions, au niveau juridique, pour que son Etat conserve, quoi qu’il arrive, une existence légale et sa souveraineté sur l’ensemble du territoire, y compris maritime. Enfin, il planche sur la création d’un Etat déterritorialisé, dans le monde virtuel, pour sauvegarder ses archives comme son patrimoine culturel, mais aussi pour que ses ressortissants, même s’ils sont dispersés dans des pays tiers, puissent continuer à bénéficier de services étatiques et restent des citoyens tuvaluans à part entière.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#ilestuvalu#refugieclimatique#asileclimatique#etat#droit#souverainete

  • Mine de lithium dans l’Allier : le rapport qui dévoile une bombe toxique
    https://disclose.ngo/fr/article/mine-de-lithium-dans-lallier-le-rapport-qui-devoile-une-bombe-toxique

    Il y a un an, le gouvernement a annoncé l’ouverture, dans l’Allier, de la plus grande mine de lithium d’Europe. D’après un rapport inédit dévoilé par Disclose et Investigate Europe, le secteur, fortement contaminé à l’arsenic et au plomb, présente « un risque significatif pour l’environnement et la santé humaine ». Une véritable bombe à retardement passée sous silence par les autorités. Lire l’article

    • Des mines de lithium en #Limousin ? L’impossible débat

      De l’Allier jusqu’à la #Haute-Vienne, la fièvre minière suscite la controverse.

      C’est à Échassières, petit bourg de 400 habitants dans l’Allier que la multinationale #Imerys prévoit d’ouvrir la plus grande mine de lithium d’Europe et d’extraire plus d’un million de tonnes d’#oxyde_de_lithium en 25 ans. Ce volume permettra de produire 700 000 #batteries de #voitures_électriques.

      C’est bien la #transition_écologique et le #tout-électrique qui font grimper les cours du lithium, rendant à présent sa prospection intéressante en Europe et en France, où les lois environnementales sont pourtant contraignantes pour les industriels. Les deux plus grand pays producteurs que sont l’#Australie et le #Chili (70 % du volume mondial) ne semblent en effet que bien peu s’embarrasser du sort des populations autochtones vivant sur les territoires miniers.

      Les occidentaux font partie des plus grands consommateurs de lithium au monde. Dès lors, refuser une #extraction_locale au nom de l’écologie serait-il faire la promotion d’une « #écologie_coloniale » ? À l’inverse, peut-on parler de « transition écologique » lorsque les groupes industriels produisent à l’envie des smartphones à l’obsolescence programmée et des voitures électriques toujours plus lourdes et gourmandes type SUV, Tesla et autres ? Le débat parait impossible, tant les contradictions fusent de part et d’autre.

      Dans ce reportage nous écouterons les habitants de la ville d’Échassières, des militants de #Stopmines23, Rafael Solans-Ezquerra, élu à la mairie d’#Ambazac favorable à l’extraction de lithium sur sa commune, et Laurent Richard, spécialiste des sols. À travers leurs témoignages nous entendrons peut-être qu’une sortie par le haut de cet impossible débat serait déjà de se poser la question de nos réels besoins fondamentaux. Nous les entendrons évoquer le principe de sobriété mais aussi la manière dont les industriels ont exploité les divers minerais de la région par le passé, notamment l’uranium.

      https://telemillevaches.net/videos/des-mines-de-lithium-en-limousin-limpossible-debat

    • Dans l’Allier, un projet d’exploitation d’une mine de lithium divise

      Le gouvernement français relance l’extraction minière. En Auvergne, un projet de mine de lithium, présenté comme vertueux pour la lutte contre le réchauffement climatique, rencontre de l’opposition.

      Un projet de mine de lithium, un minerai blanc utilisé dans la fabrication, entre autres, de batteries automobiles électriques, divise la population. D’un côté, la région, le gouvernement et une société vantent un projet qui accompagnerait une stratégie globale de décarbonation. De l’autre, des citoyens et des associations craignent des retombées négatives ; pollution, effets sur l’accès au sol et à l’eau...

      Mais le sujet dépasse l’Allier où la mine pourrait voir le jour, et la seule production de lithium. En effet, le gouvernement français, et au-delà, les institutions européennes, comptent relancer l’extraction minière sur le sol européen.

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-transition-de-la-semaine/dans-l-allier-un-projet-d-exploitation-d-une-mine-de-lithium-divise-2830

    • Mine de lithium dans l’Allier : « Voulons-nous que nos voitures fonctionnent au pétrole, ou à l’électricité du soleil et du vent » ?

      Alors que le débat public s’achève sur le projet de mine à Echassières (Allier) devons-nous laisser dormir les centaines de milliers de tonnes de lithium que renferme son granite ? Ou sécuriser les approvisionnements des usines de batteries en construction dans les Hauts-de-France ? interroge Cédric Philibert, chercheur associé à l’Ifri (1) .

      Le projet de la société Imerys d’ouvrir une mine de lithium à Echassières, dans l’Allier, sur le site d’une carrière de kaolin qu’elle exploite, fait débat. Ce débat est organisé par la commission nationale du débat public, comme pour tout investissement de cette ampleur. Les réunions publiques tenues au fil des dernières semaines permettent d’en repérer peu à peu les principaux arguments et les lignes de force, et les positions des divers acteurs.

      Certains des futurs voisins de la mine ou des installations connexes s’inquiètent de possibles nuisances, visuelles ou auditives. Pêcheurs, agriculteurs et environnementalistes craignent un gaspillage de ressources hydriques et de possibles pollutions des eaux souterraines. La mine demande « énormément d’eau », affirme Antoine Gatet, le président de France Nature Environnement (Libération du 10 mars 2024).

      Mais des oppositions plus radicales s’expriment. A quoi bon extraire du lithium ? A quoi bon fabriquer des voitures électriques, si c’est pour perpétuer la voiture ? L’historien Jean-Baptiste Fressoz s’interroge dans le Monde : « D’où vient cette idée que, pour sauver le climat, il faut absolument ouvrir des mines ? » A quoi bon, en effet, puisque « la voiture électrique ne réduit que de 60 % les émissions de CO2 par rapport à un véhicule thermique. » La transition ne serait qu’un prétexte pour réenchanter la mine : « Le lobby minier parle maintenant “des métaux pour la transition”, alors qu’il s’agit souvent de métaux pour l’électronique et l’industrie en général », poursuit-il. Et qu’importe si les batteries de nos téléphones, de nos ordinateurs portables et, surtout, de nos véhicules électriques représenteront d’ici à 2030 pas moins de 95 % de la demande de lithium.
      Nous ne sommes pas seuls au monde

      Bien sûr, la voiture électrique est indispensable pour réduire nos émissions de gaz à effet de serre. La France compte une voiture pour deux habitants, c’est trop. Admettons que nous réussissions, d’ici à 2050, à ramener le nombre de voitures à une pour cinq habitants – en multipliant les transports en commun, les pistes cyclables, en incitant à l’exercice physique… Mais beaucoup d’entre nous, vivant dans les villages et les bourgs ou en banlieues lointaines serons encore dépendants de leur voiture pour se déplacer dans vingt-cinq ans.

      Et nous ne sommes pas seuls au monde. Nous serons bientôt dix milliards, et il n’y a pas de raison que dans les autres pays, sur les autres continents, on n’arrive pas au même niveau d’équipement que les sobres Français. Ça fera tout de même deux milliards de voitures en tout, deux fois plus qu’aujourd’hui… Voulons-nous qu’elles fonctionnent au pétrole, ou à l’électricité du soleil et du vent, alors devenue majoritaire dans le mix énergétique mondial ?

      Pourtant, sceptiques et opposants n’ont pas forcément tort… Nous pourrions ne pas créer la mine d’Echassières, et laisser dormir les quelques centaines de milliers de tonnes de lithium que renferme son granite. Le monde regorge de lithium, on s’en rend compte maintenant qu’on en cherche. Les réserves, économiquement exploitables aujourd’hui, estimées à 17 millions de tonnes, il y a quatre ans, sont désormais évaluées à 28 millions de tonnes, de quoi soutenir un demi-siècle de production intensive de batteries.

      On les trouve au Chili, au Pérou, en Argentine, en Australie, en Chine… et aux Etats-Unis, où la plus récente découverte pourrait encore doubler les réserves d’un seul coup. Les ressources connues, peut-être un jour exploitables, sont quatre fois plus importantes que ces réserves.

      Certes, sécuriser autant que possible les approvisionnements des usines de batteries que nous sommes en train de construire dans les Hauts-de-France, cela pourrait se révéler utile, dans un monde qui se hérisse de barrières et de conflits. Mais qu’avons-nous besoin de fabriquer des batteries, ou même des voitures ? Nous les achèterons à la Chine… Plus sérieusement, si nous devons acheter à l’étranger, et surtout à la Chine, les métaux nécessaires à la fabrication des batteries et voitures européennes, autant en limiter les volumes autant que possible.
      Toutes les études ne sont pas terminées

      Aucune mine n’est bien sûr sans impact sur l’environnement. Mais ces impacts peuvent être drastiquement réduits. Le projet d’Imerys est à cet égard très intéressant. La mine sera souterraine, limitant fortement les nuisances, et fera essentiellement appel à des machines électriques. Le mica voyagera d’abord dans des conduites souterraines, puis des wagons, en aucun cas des camions. L’usine de conversion du mica en hydroxyde lithium, située près de Montluçon, n’utilisera que l’eau d’une station d’épuration.

      Dans la mine elle-même, 95 % de l’eau utilisée pour le lavage des concentrés sera recyclée, limitant le prélèvement dans la Sioule à 600 000 m³ par an, 0,1 % de son débit moyen, moins de 1 % de son débit d’étiage. Moins d’un mètre cube pour la batterie d’une voiture électrique, à peine la quantité d’eau nécessaire pour produire une demi-tablette de chocolat…

      Toutes les études ne sont pas terminées, les autorisations ne sont pas délivrées, mais le projet est sous étroite surveillance des pouvoirs publics, des ONG, des médias. Au nom de quoi nous priverions-nous du surcroît de souveraineté que procure une production domestique ? Et si l’on préfère considérer toute mine comme un fardeau pour notre environnement – fardeau relatif, qui aide à éviter un mal bien plus grand encore, celui du changement climatique, mais fardeau tout de même – au nom de quoi devrions-nous laisser ce fardeau à des peuples lointains ?

      Contrairement à nous, ils n’ont pas toujours les moyens d’exiger des industries minières les mesures indispensables de préservation de leur environnement immédiat. On peut donc voir, dans l’ouverture de mines en Europe pour fournir au moins une partie des matériaux de la transition énergétique, un enjeu moral autant que de souveraineté.

      (1) Dernier ouvrage paru : Pourquoi la voiture électrique est bonne pour le climat, Les Petits Matins-Institut Veblen, mars 2024.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/mine-de-lithium-dans-lallier-voulons-nous-que-nos-voitures-fonctionnent-a

    • Le #lithium, de l’#or_blanc en barre

      Promesse économique et énergétique, risque écologique : « Les Jours » enquêtent sur ce métal rare niché dans le sol français.

      À #Échassières (#Allier)

      Échassières, département de l’Allier. Un petit bourg tranquille, jusqu’au 24 octobre dernier. Au petit matin, la brume s’attarde sur la #forêt_domaniale des #Colettes. La route s’enfonce sous les arbres, remonte en douceur les flancs du massif granitique de La Bosse avant de redescendre vers le village. Échassières, 400 âmes, un château, un clocher, cinq commerces soutenus à bout de bras par la municipalité, une minuscule école primaire et un Ehpad dont les locataires font sérieusement grimper la moyenne d’âge de la population. Et puis, le 24 octobre 2022, le groupe français de minéraux industriels Imerys a annoncé son intention d’y ouvrir l’une des plus grandes mines européennes de lithium, ce métal mou et léger, composant essentiel des batteries électriques. Alors dans les semaines qui ont suivi, les journalistes ont défilé sur la place de l’église et le secrétariat de la mairie a ployé sous les appels de ses administrés.

      « Dans l’ensemble, la population est plutôt ouverte au projet », estime Frédéric Dalaigre, le maire (sans étiquette) d’Échassières. Il faut dire que l’on se trouve ici en terre minière. « La mine, c’est l’ADN de la région », s’exclame Jean-Christophe Thenot, animateur du musée géologique local, Wolframines. Ce natif du coin, passionné de minéralogie, déploie son enthousiasme pour la richesse géologique locale à grand renfort de superlatifs et d’érudition. « C’est un site exceptionnel, dont la diversité minéralogique et minière est unique et réputée », assure-t-il. Chaque année, des dizaines de scientifiques et passionnés de minéralogie viennent arpenter les flancs du massif. Mais l’économie locale, elle, s’est surtout bâtie sur l’extraction minière. Dans le coin, on a commencé à creuser dès l’époque gallo-romaine, pour extraire de l’étain principalement. Des siècles plus tard, à l’aube du XIXe siècle, c’est le kaolin qui intéresse – cette argile blanche, principalement utilisée dans la confection de céramiques. Les nobles locaux ouvrent une tripotée de carrières, dont la première, celle de Beauvoir, est toujours en activité. Propriété d’Imerys depuis 2005, elle emploie une trentaine de salariés. C’est là que le groupe minier prévoit d’ouvrir son site d’extraction de lithium. Mais l’exploitation sera autrement conséquente. Avec le projet #Emili (pour « Exploitation de mica lithinifère par #Imerys »), l’entreprise espère produire quelque 34 000 tonnes d’hydroxyde de lithium par an, dès 2028. De quoi équiper 700 000 véhicules électriques chaque année, estime le groupe. Et ce pour une durée d’au moins ving-cinq ans, le temps d’exploiter un gisement parmi les plus prometteurs de l’Hexagone.

      À Échassières, si certains ont été quelque peu soufflés par la nouvelle, les anciens, eux, ne sont pas surpris. « Du lithium, ça fait belle lurette qu’on sait qu’il y en a et qu’on attend qu’il soit exploité », sourit Danièle Chammartin. Trente-sept ans de secrétariat de mairie et deux mandats à la tête de la commune, l’ancienne élue est une véritable mémoire du village. Dans le salon de sa maison, face à l’église, elle raconte. Le Bureau de recherches géologiques et minières (BRGM) a effectué des sondages à Échassières dès les années 1970, décelant la présence de lithium au cœur du granit du massif, dans le mica lépidolite formé par des milliers d’années d’évolution géologique. Et dans les années 1980, plusieurs élus locaux et un député ont bataillé pour convaincre de l’intérêt d’exploiter le gisement de Beauvoir. Haroun Tazieff, alors secrétaire d’État chargé de la Prévention des risques naturels et technologiques majeurs, est même venu à Échassières, en 1984, pour constater le potentiel filon.

      Mais à l’époque, le lithium n’intéresse pas grand-monde. « Pas assez rentable », déplore Danièle. Longtemps utilisé dans la production de verres et céramiques, ou encore en médecine, pour le traitement des patients bipolaires, ce n’est que dans les années 1970 que l’on découvre le potentiel de stockage d’électricité de ce minuscule atome. Les batteries dites « Li-ion » commencent certes à être commercialisées dans les années 1980 pour les caméscopes, les ordinateurs, et leur production augmente au fil des années. Mais on préfère produire ailleurs, en Chine notamment. La mondialisation bat son plein et la France ferme ses mines plutôt que d’en ouvrir de nouvelles. Près de quarante ans plus tard, la donne a changé. Le climat s’emballe, les dirigeants mondiaux s’engagent à réduire leurs émissions de gaz à effet de serre, investissent dans les énergies renouvelables et, en parallèle, l’Union européenne acte la fin des véhicules thermiques en interdisant leur vente à partir de 2035. L’ère de la transition énergétique et de la voiture électrique est lancée. Le lithium, avec les autres métaux rares constituant les batteries, devient plus recherché que jamais et le marché explose. Les chiffres sont vertigineux. De moins de 40 000 tonnes en 2016, la production mondiale de lithium a dépassé 100 000 tonnes par an en 2021, selon l’Institut des études géologiques américain. Et elle peine à suivre la demande. D’après l’Agence internationale de l’énergie, la consommation annuelle mondiale de lithium pourrait atteindre 800 000 tonnes en 2040 pour les seuls véhicules électriques. Les prix s’envolent, quintuplant entre 2021 et 2022 pour atteindre 80 000 dollars la tonne de lithium qualité batterie, rapporte L’Usine nouvelle. La course au « nouvel or blanc », tel qu’il a été surnommé, est lancée.

      « Avec la transition énergétique, on passe d’une dépendance aux hydrocarbures à une dépendance aux métaux rares », résume le journaliste et chercheur associé à l’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris) Guillaume Pitron, auteur de La guerre des métaux rares. Alors, aux quatre coins du monde, on explore ses ressources pour y piocher sa part. Un enjeu économique, certes, mais aussi stratégique. Car cette transition redistribue également les cartes des dépendances géopolitiques. Pour l’heure, la production de lithium est essentiellement assurée par quatre pays : l’Australie, fournissant à elle seule plus de la moitié de l’extraction, le Chili (un quart de l’extraction mondiale), la Chine (16 %) et l’Argentine (7 %). Mais extraire du lithium ne suffit pas. De la mine à la batterie, le métal doit subir plusieurs processus de séparation et de transformation. Et en la matière, la Chine s’est depuis longtemps imposée. 60 % du raffinage de l’« or blanc » se fait sur son territoire. Si l’on y ajoute les autres métaux présents dans les batteries pour véhicules électriques (manganèse, nickel, graphite, cobalt), c’est près de 80 % de la production mondiale qui y serait transformée.

      Alors l’Union européenne peut bien rêver d’assurer 25 % de la production mondiale de batteries électriques en 2030, elle n’en a, pour l’heure, pas les ressources. Tandis que la guerre en Ukraine met cruellement en relief nos dépendances énergétiques, cette domination de la Chine sur le marché irrite. Et d’un bout à l’autre du Vieux Continent, on parle mines et relocalisation de la production, Emmanuel Macron le premier. « En France, on n’a pas de pétrole, mais on a du lithium », lançait le président de la République sur France 2 le 26 octobre, reprenant la petite phrase de Valéry Giscard d’Estaing en pleine crise pétrolière, en 1976 (« En France, on n’a pas de pétrole, mais on a des idées »). Dix jours plus tôt, il déclarait aux Échos : « Dans la campagne, j’ai fixé un objectif : une filière [de voitures électriques] 100 % produite en France. » Et de rappeler que trois « gigafactories » – comprenez « très grosses usines » – de batteries de véhicules électriques se sont récemment implantées dans le Nord de la France, la première devant commencer sa production en 2023. Restent l’extraction et le raffinage des ressources et, parmi celles-ci, du lithium.

      Dans ce contexte, l’annonce du projet Emili a donc été accueillie avec enthousiasme par le gouvernement. Le ministre de l’Économie Bruno Le Maire, la ministre de la Transition énergétique Agnès Pannier-Runacher, et le ministre de l’Industrie Roland Lescure sont même cités dans le communiqué d’Imerys. « Ce projet, exemplaire sur le plan environnemental et climatique, réduira drastiquement nos besoins d’importation de lithium », salue le premier, ajoutant qu’il sera bien entendu soutenu par le gouvernement.

      Enjeu écologique, enjeu stratégique et géopolitique, enjeu économique. À Échassières, la promesse économique fait rêver certains d’un retour à la grande époque minière du village. À partir de 1912, la principale exploitation minière d’Échassières était celle du wolfram, dont était extrait le tungstène, un métal destiné principalement aux aciers de coupe, blindages et divers usages militaires. Exploitée par la Compagnie minière des Montmins, la mine emploie au plus fort de ses activités jusqu’à 450 salariés. Roger, l’époux de Danièle, était de ceux-là. « Au village, il y avait deux “familles”, ceux du tungstène, qui avaient le statut de mineurs, qui étaient mieux payés, avaient plus d’avantages, et ceux du kaolin, qui gagnaient moins bien. » Avec sa dizaine de commerces et ses 800 habitants, le village prospère. Mais en 1962, le couperet tombe. Les cours du tungstène s’effondrent, l’exploitation d’Échassières n’est plus rentable et la mine ferme. « C’était brutal. Du jour au lendemain, mon mari et les autres ont été licenciés, s’exclame Danièle. Sans préavis, sans indemnités. » La Compagnie minière des Montmins a mis la clé sous la porte en abandonnant sur place toute l’infrastructure.

      À quelques kilomètres du bourg, le spectre de l’ancienne usine de transformation de tungstène pourrit toujours lentement, le long de la route. La végétation a envahi les ateliers et les bureaux, les planchers se sont effondrés, les structures métalliques se balancent dans la brise depuis soixante ans. Un repaire de chats errants qui viennent se nourrir chez Roger Konate. Débarqué de Marseille en 2008, l’homme a acheté un ancien atelier de l’usine pour une bouchée de pain et l’a retapé pour s’en faire une maison : « Je suis venu ici parce que c’était la région de ma mère, et puis que c’était vraiment pas cher. » Juste à côté de sa maison, dissimulée sous des rideaux de lierre, se trouve l’entrée d’une ancienne galerie de transport de la mine, rebouchée depuis. Du lithium et d’Imerys, Roger Konate ne sait pas trop quoi en penser. « De toute façon, c’est déjà décidé, qu’est-ce que vous voulez qu’on y fasse ?, lâche-t-il. J’espère juste qu’ils ne rouvriront pas les anciennes galeries et que je ne me retrouverai pas exproprié ! Enfin, je serais dédommagé, mais bon, je suis bien tranquille ici. » Au milieu des fantômes du passé.

      Car avec le départ de la Compagnie des Montmins, le glas des années minières a sonné à Échassières. « Dans la décennie qui a suivi, les carrières de kaolin ont fermé, les unes après les autres », raconte Danièle. Son mari, qui avait trouvé un emploi à la carrière des Colettes, a été licencié à nouveau avant de retrouver un poste de conducteur d’engins sur le site Beauvoir, le seul resté en activité. « Mais pour le village, ça a été une catastrophe, poursuit sa femme. De 800 habitants, la population est passée en quelques années à peine à 400 et n’est jamais remontée depuis. » Alors pour elle, le projet Emili est une belle opportunité. « Quelque part, c’est l’aboutissement d’un espoir qu’on avait depuis les années 1970, dit-elle. C’est la possibilité de soutenir les commerces, de maintenir le service public. »

      Le maire actuel, Frédéric Dalaigre, ne dit pas autre chose : « L’opportunité économique est évidente. » Lors de l’annonce, c’est 1 000 emplois qui ont été évoqués par Imerys. Même si ceux-ci ne seront pas tous à Échassières, tempère le maire : « Ils seront répartis entre le site d’extraction et le site de conversion, dans un autre lieu encore non-déterminé. La majorité des emplois sera vraisemblablement sur ce dernier. Mais ce n’est pas grave. Nous n’avons pas besoin de 1 000 emplois. Nous n’avons pas les capacités actuellement d’accueillir tant de monde. » En attendant, l’arrivée de nouveaux habitants permettra peut-être d’ouvrir de nouvelles classes à l’école primaire – laquelle accueille actuellement 60 élèves des cinq communes environnantes –, de soutenir les commerces existants et peut-être d’en voir ouvrir de nouveaux, espère-t-il. Mais s’il est, a priori, plutôt favorable au projet, Frédéric Dalaigre est trop prudent pour s’emballer. Car une mine n’est pas sans conséquences, il le sait. Imerys assure vouloir faire d’Emili une mine « verte », mais entre promesse d’exemplarité et réalité de l’exploitation minière, l’écart est difficile à combler. Et dans la région, nombreux sont ceux qui craignent de devoir troquer la richesse de la nature pour une éphémère embellie économique.

      https://lesjours.fr/obsessions/lithium-france/ep1-lithium-sous-sol-france

    • Mine de lithium dans l’Allier : l’#eau, point faible du projet d’Imerys

      Le géant minier a achevé, fin juillet, un cycle de débats publics visant à convaincre de sa capacité à mettre en œuvre les technologies les plus innovantes pour créer une mine « propre » sur leur territoire. Mais de sérieuses incertitudes subsistent, notamment sur les besoins en eau de ce complexe industriel à l’heure du changement climatique.

      Une mine saine dans un esprit sain. Tel est le leitmotiv que le groupe minier Imerys s’est efforcé d’inculquer aux habitant·es de l’Allier au cours des cinq derniers mois, dans le cadre d’un cycle de débats publics arrivé à son terme fin juillet. L’esprit sain, c’est celui de la transition énergétique, qu’est censée faciliter la mine d’Échassières puisque celle-ci, si elle voit le jour, fournira assez d’hydroxyde de lithium pour produire chaque année, à partir de 2028 et pendant au moins vingt-cinq ans, 663 000 batteries de voitures électriques.

      La #mine_saine, c’est la promesse d’une infrastructure mettant les technologies les plus avancées au service du plus faible coût environnemental possible. Concernant l’utilisation de l’eau, une des principales sources d’inquiétude de la population, Imerys assure que son complexe industriel sera un modèle de #sobriété et de #propreté, grâce notamment à une réutilisation de la ressource en #circuit_fermé et à une politique du #zéro_déchet liquide.

      Il suffira ainsi de 600 000 mètres cubes d’eau par an pour faire tourner la mine et son usine de concentration, à Échassières, et d’une quantité équivalente pour l’usine de conversion prévue à #Montluçon. Soit un niveau de consommation d’eau « 10 à 20 fois moins élevé que l’eau nécessaire pour la production de lithium dans les #salars [bassins d’évaporation – ndlr] sud-américains », affirme Imerys dans son dossier de maîtrise d’ouvrage.

      Le site sera alimenté par des prélèvements réalisés sur la #Sioule, un affluent de l’Allier prenant sa source dans le Puy-de-Dôme, et celui de Montluçon par des eaux sorties de l’usine de retraitement de la ville, initialement issues du Cher. Là encore, pas d’inquiétude affirme l’industriel : « Sur la Sioule, on est à 0,1 % du débit moyen annuel actuel, et en étiage [quand le débit est le plus faible – ndlr], on atteint 0,6 % du débit mensuel », souligne Fabrice Frébourg, chef de projet environnement chez Imerys. Sur le Cher, les taux seraient respectivement de 0,1 % et 2 %, selon les documents fournis par Imerys.

      Pourtant la marge de manœuvre de l’industriel est beaucoup moins large qu’il n’y paraît. Le schéma directeur d’aménagement et de gestion des eaux (Sdage) 2022-2027 du bassin Loire-Bretagne classe la Sioule parmi les bassins « qui montrent un équilibre très fragile entre la ressource et les prélèvements, à cause de #prélèvements excessifs ou de l’#évaporation par les #plans_d’eau, ou bien d’un régime d’étiage naturel trop faible ». Il impose pour cette raison « une limitation des prélèvements en période de basses eaux au niveau actuel ».

      Dès lors, Imerys ne pourra pas brancher ses pompes sur la Sioule avant d’avoir négocié avec les autres acteurs déjà présents sur le bassin une nouvelle répartition des prélèvements. Les pompages industriels étant de faible volume et incompressibles, le seul interlocuteur du groupe minier dans cette négociation est la #chambre_d’agriculture de l’Allier.

      Bataille de quotas avec le monde agricole

      Celle-ci s’est vu confier par arrêté préfectoral, fin 2015, une #autorisation_unique_de_prélèvement (#AUP) portant sur 4,92 millions de mètres cubes d’eau à ponctionner annuellement dans la Sioule sur un étiage courant de juin à septembre, à charge pour elle de répartir la ressource entre tous les irrigants et irrigantes. Ce chiffre a ultérieurement été révisé à 4,6 millions de mètres cubes.

      Or les agriculteurs et agricultrices n’ont jamais utilisé à plein leurs autorisations, leurs pompages réels n’ayant jamais dépassé 3,7 millions de mètres cubes, selon Nicolas Bonnefous, vice-président de la chambre d’#agriculture. Ce qui fait dire à Fabrice Frébourg qu’Imerys, qui n’a besoin de prélever que 50 000 mètres cubes d’eau par mois, soit 200 000 mètres cubes sur la période d’étiage, « serait capable de rentrer dans ces quotas ».

      « Le problème, c’est que nous avons bel et bien besoin de toute l’eau autorisée, même si nous ne prélevons que 3,1 ou 3,3 millions de mètres cubes », tempère cependant Nicolas Bonnefous. La chambre d’agriculture répartit en effet l’eau prélevée dans la Sioule entre des dizaines d’irrigant·es qui, d’une année sur l’autre, au gré des aléas météorologiques, utiliseront en totalité ou seulement en partie la part qui leur a été attribuée. L’addition de ces quotas non utilisés s’appelle le #foisonnement. « Et non, on n’est pas capables de dégager des marges sur le foisonnement, insiste Bonnefous. L’État doit prendre ses responsabilités et donner l’eau à Imerys sans prendre aux agriculteurs. »

      Déjà, des voix se font entendre parmi les irrigant·es pour dénoncer un possible coup de force. « Avec les précipitations variables d’aujourd’hui, l’#irrigation devient essentielle, a prévenu Adelaïde Giraud, présidente de l’association d’irrigants ASA des Champagnes, lors d’une réunion publique le 30 mai à Vichy. La Sioule ne semble pas pouvoir accueillir un intervenant supplémentaire [et] nous espérons sincèrement ne pas être une variable d’ajustement. »

      Impacts inéluctables

      Des pourparlers n’en sont pas moins en cours entre la chambre d’agriculture, le groupe minier, les services de l’État et #EDF, opérateur du barrage des Fades, en amont du site d’implantation de la mine, qui assure déjà un supplément de soutien d’étiage au bénéfice des irrigant·es. Et non, « ce n’est pas la profession agricole qui amènera un blocage », assure Patrice Bonnin, président de la chambre. « On a l’eau, on a le tuyau, il faut juste que l’administration trouve le bon robinet » réglementaire pour permettre l’opération, poursuit-il.

      Le « robinet » souhaité par les agriculteurs et agricultrices pourrait prendre la forme d’une sortie du classement du bassin de la Sioule en zone à prélèvements limités, ou celle d’une prise en compte des lâchers d’eau estivaux par le barrage de Fades pour augmenter les autorisations de prélèvements, évoque Nicolas Bonnefous.

      Si l’approvisionnement en eau de la mine semble déjà problématique au vu des réglementations actuelles, basées sur des évaluations de besoins remontant au début des années 2010, qu’en sera-t-il dans quatre ans, au moment théorique de l’entrée en activité du site ? Le Sdage stipule en effet que l’autorisation unique de prélèvement accordée à la chambre d’agriculture ne sera valable que jusqu’à l’ajout d’une analyse HMUC (hydrologie, milieux, usages, climat), soit « au plus tard, en 2027 ».

      Cette analyse, qui devra être diligentée par la commission locale de l’eau (CLE) chargée du schéma d’aménagement et de gestion des eaux (Sage) de la Sioule, permettra de déterminer le #volume_potentiellement_mobilisable (#VPM) de la rivière, c’est-à-dire la part de son débit restant à disposition après soustraction de l’eau réservée aux milieux aquatiques, aux réseaux d’eau potable ou encore à la sécurité anti-incendie.

      Pour Céline Boisson, animatrice du Sage Sioule, il est peu probable que les résultats de l’analyse HMUC permettent d’ouvrir en grand les vannes des stations de pompage. « La Sioule est déjà affectée par le #changement_climatique : son débit moyen a baissé de 15 % en trente ans, et son débit d’étiage de 48 % », avait-elle rappelé lors de la réunion publique de Vichy.

      Interrogée par Mediapart, l’experte précise que les seuils de crise ne sont jamais atteints sur la Sioule en aval du #barrage_de_Fades grâce aux lâchers d’eau diligentés par EDF, en vertu d’un accord avec la chambre d’agriculture. « Mais ça ne veut pas dire qu’il n’y a pas de crise. Clairement, l’amont du barrage est en crise, tout comme la #Bouble », petite #rivière appartenant au même bassin, ajoute-t-elle, avant de conclure : « Je ne suis pas sûre que tout le monde sera satisfait du résultat de l’analyse. Il y aura forcément un partage à faire. »

      S’il se dit confiant dans la capacité du barrage de #Fades, fort de ses 65 millions de mètres cubes d’eau, à pourvoir aux besoins de la mine, Fabrice Frébourg évoque également des pistes à l’étude chez Imerys pour permettre au complexe d’Échassières de disposer de ses « propres solutions de modulation ».

      Il s’agit principalement de renforcer la capacité de deux petits lacs déjà présents sur le site, en la faisant passer de 55 000 à 100 000 mètres cubes, ou éventuellement d’utiliser des galeries d’exploitation de la mine pour du stockage d’eau. La gestion des périodes de maintenance pour les faire coïncider avec l’étiage est également une « piste d’optimisation du projet ».

      Ces solutions ne convainquent pas les défenseurs et défenseuses des milieux aquatiques. « Depuis vingt ans, il n’y a quasiment plus de crues morphogènes sur la Sioule. Or elles sont essentielles pour le cours d’eau car elles permettent le transit sédimentaire et le décolmatage du lit, indispensable pour la réussite de la reproduction de certaines espèces, explique Mickaël Lelièvre, directeur de la fédération de pêche de l’Allier. Si on augmente le soutien d’étiage ou le stockage, on aggrave ce phénomène de réduction des crues morphogènes. »

      Menaces sur des #poissons déjà en danger

      Le pêcheur est soutenu par Aurore Baisez, directrice du Logrami, centre de recherche sur les poissons migrateurs du bassin de la Loire, qui souligne qu’une infime variation du niveau de la crue peut suffire à perturber la migration des espèces fréquentant la Sioule (saumon, lamproie, anguille, alose) et le Cher (les mêmes moins le saumon). « Les crues sont le signal du départ dans un sens ou dans l’autre. La perte de ce signal se traduit par de faibles remontées des poissons, ou très en aval », indique la scientifique, précisant que l’alose et la lamproie sont « classées en danger critique d’extinction, à l’instar du tigre du Bengale ou de l’éléphant d’Afrique ».

      À Montluçon, où le #mica_lithinifère – principal minerai du lithium – sera transformé en #hydroxyde_de_lithium, Imerys n’est pas soumis aux mêmes contraintes réglementaires que dans la vallée de la Sioule, puisque son alimentation en eau proviendra de l’usine de retraitement des eaux usées de la ville et ne peut donc être comptabilisée comme un « prélèvement » sur le Cher. Elle n’en occasionnera pas moins une « perte d’eau nette » d’environ 600 000 mètres cubes par an pour une rivière déjà en crise, classée « zone de répartition des eaux » – impliquant un contrôle des prélèvements toute l’année – par le Sdage Loire-Bretagne en raison d’un « déséquilibre quantitatif avéré ».

      « Certes, on parle d’une ponction limitée. Mais le #Cher n’a pas de réserves, très peu de nappe alluviale. Quand il ne pleut plus, il n’y a plus de débit », commente Jonathan Bourdeaux-Garrel, animateur du Sage Cher-Amont. Il y a bien un petit barrage, #Rochebut, censé assurer un débit garanti de 1,55 mètre cube par seconde. « Mais quand il n’y a pas d’eau dans le barrage, ça descend jusqu’à 800 litres par seconde, et il faut voir alors la tête du Cher. »

      Mickaël Lelièvre, de la fédération de pêche, confirme et renchérit : « La situation hydrologique est très dégradée sur le Cher. Sans le soutien d’étiage par le barrage, il n’y aurait plus d’eau dans la rivière. Rien que cela devrait imposer d’interdire tout nouveau prélèvement. » L’expert met par ailleurs en cause les statistiques fournies par Imerys, basées sur des moyennes quinquennales de débit et donc aveugles aux aléas de faible durée qui frappent régulièrement la rivière.

      Du côté d’Imerys, Fabrice Frébourg assure « qu’on prend la chose très au sérieux ». Le cadre assure que son entreprise choisira un indice « beaucoup plus pénalisant que les moyennes quinquennales » dans ses prochaines études sur l’impact du réchauffement climatique. Il évoque également la piste, « apportée par l’administration, d’un possible soutien d’étiage par le barrage de Rochebut ». Comme le faisait remarquer un intervenant en réunion publique, « les poissons ne peuvent pas se mettre entre parenthèses » à chaque assèchement du Cher.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/030824/mine-de-lithium-dans-l-allier-l-eau-point-faible-du-projet-d-imerys
      #promesses

  • L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/10/l-australie-offre-l-asile-climatique-aux-citoyens-de-tuvalu_6199315_3210.htm

    L’Australie offre l’asile climatique aux citoyens de Tuvalu
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux.
    Canberra a annoncé offrir aux habitants de Tuvalu, un archipel du Pacifique particulièrement menacé par la montée des eaux, des droits « spéciaux » pour s’installer et travailler en Australie, dans un traité rendu public par les deux pays vendredi 10 novembre. « Nous croyons que le peuple de Tuvalu mérite d’avoir le choix de vivre, étudier et travailler ailleurs, alors que le changement climatique empire », ont déclaré, dans un communiqué conjoint, le premier ministre australien, Anthony Albanese, et son homologue de Tuvalu, Kausea Natano.
    Le traité prévoit des droits « spéciaux » pour les arrivants, mais aussi des volets consacrés à la défense, engageant l’Australie à venir en aide à Tuvalu en cas d’invasion ou de catastrophe naturelle. Les Tuvalais pourront bénéficier d’un « accès aux services australiens, qui leur permettront une mobilité dans la dignité », précise le texte.
    Le petit archipel, avec ses 11 000 habitants, fait partie des nations les plus menacées par le changement climatique et la montée des eaux. Deux de ses neuf atolls ont déjà été largement submergés et des spécialistes estiment que Tuvalu sera complètement inhabitable d’ici à quatre-vingts ans. En octobre, M. Natano a déclaré à l’Agence France-Presse (AFP) que l’archipel risquait de « disparaître de la surface de la Terre » si aucune mesure drastique n’était prise. Le traité dévoilé veut aussi permettre aux Tuvalais de « conserver les liens ancestraux profonds » qui les unissent à leur terre et à la mer. Toutefois, il reconnaît que le passage à l’action arrive tardivement.
    La dépendance commerciale de l’Australie au charbon et aux exportations de gaz, des postes économiques polluants, sont depuis longtemps une pierre d’achoppement avec ses voisins du Pacifique, qui subissent déjà de plein fouet les conséquences du changement climatique, dont la montée des eaux et une météo plus extrême.
    Ce traité peut être perçu comme une victoire stratégique pour Canberra, qui entend étendre son influence dans l’océan face à la présence grandissante de la Chine. Kiribati et les îles Salomon se sont, par exemple, tournés vers Pékin ces dernières années. Tuvalu y reste opposé en continuant de reconnaître diplomatiquement Taïwan. M. Natano a affirmé que le traité représentait un « espoir » et un « grand pas en avant » pour la stabilité régionale. Il doit cependant encore être ratifié par les deux pays pour devenir effectif.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#tuvalu#asileclimatique#emigration#pacifique