• Affaire « Lafarge ». Les moyens d’enquête utilisés et quelques attentions à en tirer - Rebellyon.info
    https://rebellyon.info/Affaire-Lafarge-Les-moyens-d-enquete-25197

    Suite aux 35 arrestations des 5 et 20 juin dernier, les entretiens menés avec les arrêté.e.s ont en partie révélé l’ampleur de ce que l’État est prêt à déployer pour traquer celleux qui s’opposent au ravage écologique et industriel. Ecoutes, filatures, logiciel espion, reconnaissance faciale, balise GPS...

    À noter que plusieurs des personnes visées par ces réquisitions ont vu leur compte en banque clôturé sans explication ou ont subit des #contrôles_domicilaires très poussés par la CAF. Une clôture de compte bancaire inexpliquée peut ainsi être un signe de surveillance.

    La police dit ne pas envoyer de réquisitions à Riseup par peur qu’iels ne préviennent les personnes concernées, et considérant que Riseup ne leur répondra probablement jamais. Cela semble confirmer que l’utilisation de fournisseurs mail militantes mettant en œuvre un certain nombre de protections et de système de chiffrement tels que #Riseup leur pose beaucoup plus de problèmes d’accès que dans le cas de fournisseurs commerciaux [6]. (Il va sans dire que l’utilisation de clés de chiffrement PGP pour les échanges de mails ajoute une couche de protection supplémentaire).

    [...] Sans tomber dans le fantasme d’une surveillance permanente et omniprésente, autant prendre un certain nombre de mesures pour se protéger du traçage policier, tout en veillant à ce que ça ne nous pourrisse pas trop la vie et que ça ne nous empêche pas de nous organiser collectivement.

    Nous travaillons à une analyse plus poussée de ces premiers éléments et d’autres. Vous pouvez nous contacter à lesmoyens @ systemli.org

    #lafarge #police #justice #luttes #enquête #SDAT #ADN #vidéosurveillance #Reconnaissance_faciale #téléphonie #fadettes #géolocalisation #logiciel_espion #IMSI_catchers #écoutes #CAF #Pôle_emploi #impôts #ANTS #blablacar ++ #SNCF #FlixBus #banques #Twitter #Facebook (refus !) #Instagram #sonorisation_de_véhicule #boîtiers_GPS #Filatures #sociétés_d'autoroute #Demande_de_photos_des_véhicules_aux_péages_autoroutiers

  • Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana

    Napoli, 1940. L’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sorprende un gruppo di somali, eritrei ed etiopi chiamati ad esibirsi come figuranti alla #Mostra_delle_Terre_d’Oltremare, la più grande esposizione coloniale mai organizzata nel Paese. Bloccati e costretti a subire le restrizioni provocate dalle leggi razziali, i “sudditi coloniali” vengono successivamente spostati nelle Marche dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo sfaldamento dello Stato, alcuni decidono di raggiungere i gruppi di antifascisti, militari sbandati, prigionieri di guerra e internati civili che si stanno organizzando nell’area del #Monte_San_Vicino.

    Attraverso testimonianze, documenti e fotografie, l’autore ricostruisce il percorso di questi Partigiani d’Oltremare, raccontandone il vissuto, le possibili motivazioni alla base della loro scelta di unirsi alla Resistenza e la loro esperienza nella “#Banda_Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni: un crogiuolo mistilingue che trova nella lotta al fascismo e al nazismo una solida ragione unificante.

    https://www.pacinieditore.it/prodotto/partigiani-oltremare
    #Italie #résistance #exposition_coloniale #Italie_coloniale #colonialisme #histoire #colonialisme_italien #antifascisme #Marches #résistance #partisans #livre

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Perché è importante ricordare la storia di #Giorgio_Marincola, partigiano italo–somalo

    Cento anni fa nasceva uno dei pochi italiani afrodiscendenti nella storia della Resistenza, simbolo di una patria aperta e plurale che ancora oggi fa paura

    Figlio di un maresciallo di fanteria calabrese e di una donna somala, studente antifascista e partigiano. Il 23 settembre 1923 a Mahaddei Uen, presidio militare a cinquanta chilometri da Mogadiscio, nasceva Giorgio Marincola, uno dei pochi italiani afrodiscendenti nella storia della Resistenza.

    La sua vicenda è arrivata per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica con Razza Partigiana (Iacobelli 2008) (http://www.razzapartigiana.it), una ricerca storica realizzata da due studiosi romani: Carlo Costa e Lorenzo Teodonio. Nonostante una circolazione tutto sommato limitata, il testo ha acceso una luce che negli ultimi quindici anni non si è più spenta sul partigiano italo-somalo, dando vita a numerose letture e presentazioni pubbliche, senza contare la pubblicazione di altri titoli legati alla sua figura. Tra questi il più importante è Timira. Romanzo meticcio (Einaudi 2012). Il libro è incentrato su Isabella, sorella minore di Giorgio scomparsa nel 2010, ed è stato scritto dal figlio Antar Mohamed Marincola e da Wu Ming 2, pseudonimo di Giovanni Cattabriga.

    Il riconoscimento da parte del padre Giuseppe dei due figli avuti da #Aschirò_Hassan e la decisione di portarli entrambi in Italia non sciolgono le contraddizioni di un rapporto sbilanciato e problematico, ma impediscono ingenerose semplificazioni. “A differenza di tante altre vicende, erano due persone che sostanzialmente si volevano bene”, sottolinea Teodonio.

    Dopo aver trascorso l’infanzia in Calabria con la famiglia dello zio paterno, nel 1933 Giorgio si trasferì a Roma. Nella capitale frequentò il liceo-ginnasio Umberto I ed ebbe come professore di storia e filosofia Pilo Albertelli, importante esponente antifascista ucciso alle Fosse Ardeatine. Questo incontro segnò profondamente il giovane Marincola.

    Nel 1943 entrò a far parte del movimento di liberazione nelle fila del #Partito_d’azione. Aderì alla #Resistenza_romana, spostandosi poi nel viterbese nella primavera del 1944, dove combatté in una formazione composta da partigiani di diverse aree e militari sbandati dopo l’8 settembre.

    All’indomani della liberazione di Roma il 4 giugno 1944, si offrì per l’arruolamento nell’intelligence militare britannica. Fu inserito in un’unità paramilitare che venne paracadutata in Piemonte, nel biellese. Arrestato durante un rastrellamento venne deportato al campo di concentramento di Bolzano. Sopravvissuto al lager, da cui uscì il 30 aprile 1945, decise di unirsi a una formazione partigiana della Val di Fiemme. Venne ucciso a Stramentizzo nell’ultima strage tedesca in territorio italiano il 4 maggio 1945.

    Secondo lo storico della mentalità e formatore Francesco Filippi “parlare della Resistenza fatta da persone come Giorgio Marincola, con un’idea di patria aperta e plurale lontana dalle brutalità razziste e dal nazionalismo becero di stampo fascista, potrebbe essere un ottimo esempio per l’antifascismo di oggi”.

    Sia Teodonio che Filippi ritengono che la figura di Giorgio Marincola abbia permesso di far emergere altre storie. Il pensiero di entrambi va alla vicenda rocambolesca raccontata da Matteo Petracci in Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana (Pacini Editore 2019), la storia di un gruppo di eritrei, somali, etiopi e libici che nel 1943 si ritrovarono bloccati nelle zone di montagna del centro Italia e decisero di unirsi alla Resistenza contro i nazifascisti. Petracci ha ricostruito attraverso testimonianze, documenti e fotografie l’esperienza di questi “sudditi coloniali” all’interno della “#Banda_Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni.

    Due anni dopo l’uscita di Razza Partigiana il sociologo Mauro Valeri pubblicò un libro dedicato al partigiano nero #Alessandro_Sinigaglia, nato a Fiesole da un ebreo di origini mantovane e da una donna afroamericana giunta in Italia come cameriera di una famiglia di Saint Louis.

    Il 9 settembre, in occasione dell’imminente centenario della nascita di Giorgio Marincola, la famiglia ha donato il suo piccolo ma prezioso archivio al Museo storico della Liberazione di via Tasso, a Roma.

    “Giorgio Marincola non è solo un mio parente. Non penso che i legami siano dettati dal sangue”, spiega il nipote Antar Mohamed, educatore e mediatore culturale che da anni vive e lavora a Bologna. “Per quanto mi riguarda i suoi cento anni servono a dire e dirci da che parte stiamo. Non ci sono messaggi o proclami da fare. Tuttavia ricordare che la memoria resistenziale italiana era qualcosa di sovranazionale stride in un Paese come il nostro in cui la cittadinanza è ancora legata al principio dello ius sanguinis”.

    Un’altra scelta politica che secondo alcuni stona non poco è quella adottata dall’attuale amministrazione comunale di Roma. Nell’estate del 2020 una petizione promossa dal giornalista Massimiliano Coccia e rilanciata da Roberto Saviano aveva ottenuto dall’allora sindaca Virginia Raggi l’impegno di intitolare la stazione della metropolitana Amba Aradam / Ipponio al partigiano italo-somalo Marincola.

    Ma come racconta Teodonio “l’attuale giunta Gualtieri con cui dovremmo avere un’affinità politica maggiore e che tra l’altro è composta da molti storici ha modificato questa intitolazione. Ad oggi il nome predisposto per quella fermata è Porta Metronia, senza richiamare né Giorgio né l’Amba Aradam, altopiano montuoso che dà il nome a una battaglia del 1936 che vide le truppe italiane utilizzare armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali contro migliaia di etiopi”.

    https://www.rollingstone.it/politica/attualita/perche-e-importante-ricordare-la-storia-di-giorgio-marincola-partigiano-italo-somalo/789405
    #histoire #résistance #Italie #afro-descendants #partisan #WWII #seconde_guerre_mondiale #mémoire

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    voir aussi ce texte que j’ai écrit pour le blog @neotoponymie :
    La guérilla odonymique gagne une bataille : une nouvelle station du métro romain sera dédiée à #Giorgio_Marincola, partisan italo-somalien, et non à un lieu d’oppression coloniale
    https://neotopo.hypotheses.org/3251
    https://seenthis.net/messages/871903

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    ajouté à la métaliste sur l’#Italie_coloniale
    https://seenthis.net/messages/871953
    #colonialisme_italien

  • Unser Abschiedsbrief - Wir stellen die elinor Plattform ein
    https://elinor.network/de/posts/abschiedsbrief

    Ces jeunes gens sympatiques ont travaillé pendant six an pour l’idée de la création d’une plateforme collective et démocratique de financement d’initiatives citoyennes naissantes. Son grand succès est à l’origine de la mort du projet.

    On nous fait comprendre que toutes les administrations de l’état se réuniront et nous menaceront comme le ferait n’importe quelle mafia si nous risquons d’avoir du succès avec nos tentatives de démocratisation.

    Pourtant les gens à l’origine du projet ont respecté toutes les lois. Ils ont obtenu l’aval de la BAFIN et ils travaillaient en étroite collaboration avec la banque GLS qui les protégeait contre les risques d’abus par les professionnels du blanchiment d’argent.

    Le constat est atterrant : il n’y aura jamais de gestion démocratique du financement de nos activités tant que l’état allemand existera dans sa forme présente. Nous aurons toujours besoin pour agir de personnages bizarres comme Parvus ou de mécènes et philantropes .

    Un collectif ? Il semble qu’il n’y ait rien que l"état bougeois craigne plus que nos forces réunies hors de sa tutelle.

    1. September 2023 von elinor Team - Diese Entscheidung ist uns alles andere als leichtgefallen. Wir sind für eine zivilgesellschaftliche Infrastruktur zur gemeinschaftlichen Geldverwaltung angetreten, weil wir wissen, dass ihr und viele andere Gruppen für eure Aktivitäten genau eine solche Lösung braucht. Aber in den letzten Monaten haben sich immer mehr öffentliche Stellen dagegen positioniert. Darum müssen wir mit schwerem Herzen die elinor Plattform einstellen.

    Wir haben gehofft, diesen Text niemals schreiben zu müssen. Dass diese Entscheidung eure Projekte, eure Aktivitäten und euer Engagement ausbremst, tut uns besonders leid. Das Angebot von elinor war aber so ungewöhnlich, dass unsere Arbeit in den letzten Monaten von Auseinandersetzungen mit einer ganzen Reihe von öffentlichen Stellen geprägt war. Das hat unsere Handlungsfähigkeit erstickt. Als Start-up konnten wir das nicht länger durchhalten. Darüber sind wir außerordentlich traurig. Trotzdem wollen wir an dieser Stelle auch auf eine sehr spannende und erfahrungsreiche Zeit zurückschauen, für die wir von Herzen dankbar sind.

    Alles fing 2018 an, mit Lukas Kunert, Ruben Rögels, Falk Zientz und der Finanz-Mathematikerin Daria Urman. Sie gründeten elinor zur peer-to-peer Absicherung als solidarische Alternative zu Versicherungen. Doch die Nachfrage entwickelte sich anders, als erwartet: Die Fridays for Future Aktivist*innen haben 2019 die Plattform positiv zweckentfremdet, um gemeinschaftlich ihre Gelder zu verwalten. Schlagartig wurde uns klar, dass genau solche Gruppenkonten einen echten Bedarf decken könnten. Tatsächlich kamen schnell weitere Gruppen hinzu, die über elinor gemeinsame Projekte und Ideen realisierten. Darum bündelten wir unsere Ressourcen für ein Relaunch, so dass die elinor Plattform ab 2021 auf Gruppenkonten spezialisiert war. Über die Umsetzung im deutschen Rechtsrahmen waren wir von Anfang an mit der Bankenaufsicht (BaFin) im Austausch. Nach eingehender Prüfung stimmte uns diese in allen Punkten zu. Damit hatten wir das erste digitale Gruppenkonto für Projekte und Initiativen in Deutschland geschaffen! Mit viel Leidenschaft entwickelten wir elinor weiter. Unsere Community ist gewachsen, genauso wie unser Team, und wir durften immer wieder eure Dankbarkeit spüren, weil wir es geschafft haben, für Initiativen wie euch eine große Hürde abzubauen.
    Es war sehr bereichernd und motivierend zu sehen, wie viele Menschen sich zu Gemeinschaften zusammenschließen, um Projekte umzusetzen, aktiv an unserer Gesellschaft mitzuwirken und einen Wandel anzustoßen. Dabei langen uns auch besonders die kleinen zarten und sich noch im werden befindenden Initiativen besonders am Herzen, denn gerade sie brauchen ein förderndes und ermöglichendes Umfeld.

    Zwischendurch haben wir eigene Initiativen gestartet, teilweise mit großer öffentlicher Aufmerksamkeit: Am ersten Tag des Lockdowns im März 2020 riefen wir die #KunstNothilfe ins Leben, um betroffene Kunst- und Kulturschaffende zu unterstützen. Mehr als 500 Menschen machten ad hoc mit, lange bevor die öffentliche Hand darüber nachdachte. 2022 starteten wir am ersten Tag des russischen Angriffs auf die Ukraine ohne zu zögern das Projekt #Unterkunft Ukraine, eine digitale Bettenbörse für ukrainische Geflüchtete. Daraus wurde die bislang größte zivilgesellschaftliche Initiative dieser Art. Beide Initiativen lösten eine riesige öffentliche Resonanz aus und brachten damit auch weitere Aufmerksamkeit für die Gruppenkonten. Solche Projekte stellten unser kleines Team vor großen Herausforderungen, doch sie zeigten gleichzeitig, wie wertvoll eine solche agile Plattform gerade in Krisensituationen sein kann. Durch Kooperationen mit Ministerien und Berichten auf den besten Sendeplätzen sahen wir das bestätigt.

    Ihr könnt euch bestimmt vorstellen, wie sehr es uns nun trifft, dass wir unsere Ermöglichungsplattform nicht mehr zur Verfügung stellen können. Für uns ist es nicht nur eine Firma, die wir aufgeben müssen, sondern auch unsere Ideen, unsere Wünsche für Gemeinschaften und Gruppen, ein wunderbares Team und eine große Portion Idealismus dahinter.
    Wir sind besonders traurig darüber, dass unsere Idee an vielen Stellen befürwortet wird, wir jedoch wegen eng ausgelegten Regularien und politischem Druck keine Möglichkeit mehr haben, unseren Betrieb aufrecht erhalten zu können.

    Darum ist es für uns Zeit, tschüss zu sagen. Unser großes Herzensthema bleibt weiterhin, Gemeinschaft zu leben und dafür passende Formen zu entwickeln. Scheitern gehört immer wieder dazu und kann Entwicklung und Solidarität auslösen. In diesem Sinne danken wir allen, die uns an unterschiedlichen Ecken und Enden unterstützt und mit uns mitgefiebert haben. Mit euch haben wir erlebt, was gemeinschaftlich möglich ist. Lasst uns das weitertragen.

    Euer elinor Team

    Chiara, Bonina, Ruben, Calvin, Guida, Richard, Anne, Falk und Lukas

    Wir brauchen eure Solidarität!

    elinor muss seine Arbeit einstellen. Das geht nicht ohne Aufwand, vor allem für Rechtskosten, Jahresabschlüsse und die letzten Gehälter. Hier könnt ihr euch daran solidarisch beteiligen:

    Kontoinhaber: elinor Treuhand e.V.
    IBAN: DE37430609677918887704
    BIC: GENODEM1GLS

    Vielen Dank!

    #Allemagne #finances #répression #autonomie

  • Les aires urbaines en chansons

    « La ville-centre concentre le coeur historique avec ses monuments anciens, mais aussi les activités et services (commerces, administrations, etc...). Le prix du m² y atteint des sommets, ce qui participe à un phénomène de gentrification, chassant du cœur des villes les classes populaires. Thomas Dutronc décrit ce processus dans son titre "J’aime plus Paris"/ "Passé le périph / Les pauvres hères / N’ont pas le bon gout / D’être millionnaire / Pour ces parias / La ville lumière / C’est tout au bout / Du RER / Y a plus de titi / Mais des minets / Paris sous cloche / Ça me gavroche / Il est fini le pari d’Audiard / Mais aujourd’hui, voir celui d’Hédiard"

    Bistanclaque revient pour sa part sur la métamorphose de la "Croix-Rousse" à Lyon. La spéculation foncière chasse les classes populaires du quartier historique des canuts, les ouvriers de la soie. Sous l’effet de l’embourgeoisement rapide, le quartier se transforme et perd ainsi son âme. "Et la ville bourgeoise / Te grignote les pieds (/ Cette ville te toise / Te met ans ses papiers / Te réduit au silence / Te refait la façade (…) Bienvenu à la croix rousse / Est-ce la dernière secousse et l’ennui à nos trousses… / Et chacun sa Croix Rousse" »

    Version blog > https://lhistgeobox.blogspot.com/2023/09/les-aires-urbaines-en-chansons.html

    version podcast > https://podcasters.spotify.com/pod/show/blottire/episodes/Les-aires-urbaines-en-chansons-e26vdle

  • Par le carreau dépoli d’une chambre meublée
    https://laviedesidees.fr/Fabrice-Langrognet-Voisins-de-passage-5848

    Concentrant l’histoire de la #migration dans l’espace de cinq immeubles à Saint-Denis, F. Langrognet fait parler des archives inattendues qui en disent long sur la coexistence d’étrangers multiples et variés, unis par la précarité et l’incertitude. À propos de : Fabrice Langrognet, Voisins de passage. Une microhistoire des migrations, La découverte

    #Histoire #pauvreté #banlieue
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20230913_voisins_de_passage.docx

    • Lors de la dernière audition, à court de nouvelles déductions, Z. avait finit par me questionner à propos d’un billet de France Culture sur la dissolution des Soulèvements de la Terre, écouté le matin même dans sa voiture. Il me précise que l’éditorialiste Jean Leymarie y critique la dissolution mais interroge la « radicalisation du mouvement » : « Leymarie cite le philosophe Pascal et son adage - la justice sans la force est impuissante mais la force sans la justice est tyrannique ? Continuerez vous malgré votre mesure de garde à vue à légitimer l’usage de la violence ? N’avez vous pas peur que votre mouvement devienne tyrannique ? Allez vous vous ranger du côté de la justice ? »

      Ce qui est bien quand on est seul à faire les questions et à savoir que les réponses ne viendront pas, c’est que l’on a toujours la possibilité de se les poser à soi-même et à son corps de métier. Une semaine après nos sorties de garde à vue, des policiers tuaient une fois de plus dans la rue un adolescent des quartiers populaires, provoquant le soulèvement politique le plus fracassant qu’ait connu ce pays depuis les Gilets Jaunes, avant d’envoyer des centaines de nouvelles personnes en prison. Alors que la conséquence que les policiers en tirent quant à eux est de revendiquer aujourd’hui, avec l’appui du ministère de l’Intérieur, un statut d’exception à même de les faire échapper à la loi, la question de ce que devient la force sans la justice est tragiquement d’actualité.

    • Quand je suis emmené pour la dernière fois dans son bureau pour l’audition finale, il ne nous cache cette fois pas sa forte déception et l’étonnement des enquêteurs de ne pas avoir été suivis par la juge. L’un deux soufflera d’ailleurs à une autre personne que celle-ci est « à moitié en burn out ». Lui confirme en tout cas qu’elle a estimé que « les conditions de sérénité des débats n’étaient pas réunies ». On peut imaginer, au-delà de toute autres considérations guidant cette décision, que la juge doit à minima répugner à ce que son indépendance soit publiquement mise en débat et à ce que le doute continue à se distiller sur son instrumentalisation au profit d’une urgence gouvernementale à mettre fin aux Soulèvements de la Terre. D’autant que depuis l’affaire Tarnac, les juges d’instruction savent bien que la fragnolite peut toujours les attendre au tournant, et depuis Bure que les associations de malfaiteurs trop enflées politiquement peuvent finir en relaxe.

    • Le capitaine nous affirme d’ailleurs que justement la SDAT « cherche aujourd’hui de nouveaux débouchés » du côté de l’« écologie » et « des violences extrêmes ».

      [...]

      Z. dira à plusieurs reprises que la seule raison pour laquelle la SDAT a pu « lever le doigt » pour être chargée de l’affaire était les « tentatives d’incendies sur des véhicules de l’usine », et que « sans le feu » tout ceci serait sans doute resté dans une catégorie de délit inférieur sans bénéficier de leur attention

      [...]

      Au long des 4 jours, on constate que Z. oscille quant à lui maladroitement entre une surqualification des faits incriminés seule à même de justifier que les moyens de la SDAT soit employée dans cette affaire, et une posture opposée visant à déjouer les critiques sur l’emploi des moyens de l’anti-terrorisme à l’encontre d’actions écologistes qui peuvent difficilement être qualifiée comme telles. Il estime d’un côté que notre mise en cause de l’emploi de la SDAT dans la presse est déplacée puisque la qualification « terroriste » n’est pas retenue dans le classement de cette affaire et que la SDAT agirait ici comme un « simple corps de police ». Mais il nous exposera par ailleurs dans le détail comment seuls les moyens exceptionnels de l’anti-terrorisme ont pu permettre de mener une telle enquête et que « nul autre qu’eux » aurait été capable de fournir ce travail.

      Il faut dire que la taille du dossier d’instruction encore incomplet est de 14 000 pages, ce qui représente à ce que l’on en comprend six mois de plein emploi pour un nombre significatif de policiers, et donne une idée du sens des priorités dans l’exercice de la justice dans ce pays. A sa lecture ultérieure et en y explorant dans le détail l’amplitude des moyens qu’ont jugé bon de déployer les enquêteurs pour venir à la rescousse de Lafarge, les mis en examen constateront qu’ils avaient effectivement carte blanche. L’officier concède d’ailleurs à mon avocat que la police est, ces dernières années, une des institutions les mieux dotées financièrement du pays, et admet que leurs syndicats font quand même bien du cinéma. En l’occurrence cette manne a été mise au service de ce qui paraît être devenu ces derniers mois deux impératifs catégoriques pour le gouvernement français et les entreprises qui comptent sur sa loyauté à leur égard. En premier lieu produire une secousse répressive suffisante pour décourager toute velléité de reproduction d’un telle intrusion. Il doit demeurer absolument inconcevable que la population fasse le nécessaire et mette elle-même à l’arrêt les infrastructures qui ravagent ses milieux de vie. En second lieu, étendre encore le travail de surveillance et de fichage déjà à l’œuvre sur un ensemble de cercles jugés suspects en s’appuyant sur les moyens débridés offerts par l’enquête.

    • Il veux savoir si j’ai lu les brochures visant à attaquer les #Soulèvements_de_la_Terre, de ceux qu’il qualifie d’« #anarchistes individualistes ». Les accusations portées à notre égard y sont selon lui fort instructives et mettent en cause les faits et gestes de certaines personnes d’une manière qui s’avère sans doute pertinente pour l’enquête. C’est notamment à partir de ces fables intégralement versées au dossier que la SDAT justifie certaines des #arrestations, et fonde une partie de la structure incriminante de son récit sur ces « cadres des Soulèvements » qui resteraient « au chaud » en envoyant d’autres personnes au charbon. Ce sont d’ailleurs ces mêmes pamphlets, publiées sur certains sites militants, que le ministère de l’Intérieur reprend avec application pour fournir des « preuves » de l’existence et de l’identité de certains soit-disant « #dirigeants », et alimenter, dans son argumentaire sur la dissolution, l’idée d’un mouvement « en réalité vertical ». Z. est en même temps « bien conscient », dit-il, que ces écrits, sont « probablement l’expression de « guerres de chapelles », comme ils peuvent en avoir eux-même de services à service ». Cela ne l’empêche pas de proposer à une autre personne, arrêtée lors de la première vague, de prendre le temps de les lire pendant sa garde à vue « pour réaliser à quel point » elle se serait fait « manipuler ».

      #récit #autonomie #surveillance #police_politique #SDAT (héritage du PS années 80) #arrestations #interrogatoires #SLT #écologie #sabotage #anti_terrorisme #Lafarge #Béton

    • Lafarge, Daesh et la DGSE
      La raison d’Etat dans le chaos syrien

      https://lundi.am/Lafarge-Daesh-et-la-DGSE

      Ce mardi 19 septembre se tenait une audience devant la cour de cassation concernant l’affaire Lafarge en Syrie dans laquelle le cimentier et ses dirigeants sont soupçonnés de financement du terrorisme. Alors que le terme terrorisme plane frauduleusement autour du désarmement de l’usine de Bouc-bel-Air, voilà l’occasion d’une petite mise en perspective.

      #lafarge #daesh #dgse #syrie

  • Une #université a tué une #librairie

    Une université vient de tuer une librairie. Le #libéralisme a fourni l’arme. Les codes des marchés ont fourni la balle. Et l’université, après avoir baissé les yeux, a appuyé sur la détente.

    Cette université c’est “mon” université, Nantes Université. Cette librairie c’est la librairie Vent d’Ouest, une librairie “historique”, présente dans le centre de Nantes depuis près de 47 années et travaillant avec l’université depuis presqu’autant de temps.

    Une université vient de tuer une librairie. Nantes Université travaillait, pour ses #commandes d’ouvrages (et une université en commande beaucoup …) avec principalement deux #librairies nantaises, Durance et Vent d’Ouest. Pour Vent d’Ouest, cela représentait une trésorerie d’environ 300 000 euros par an, 15% de son chiffre d’affaire. Une ligne de vie pour les 7 salariés de la libraire. Et puis Vent d’Ouest perd ce marché. Du jour au lendemain. Sans même un appel, une alerte ou une explication en amont de la décision de la part de Nantes Université.

    À qui est allé ce marché ? Au groupe #Nosoli, basé à Lyon, qui s’auto-présente comme le “premier libraire français indépendant multi-enseignes” (sic) et qui donc concrètement a racheté les marques et magasins #Decitre et #Furet_du_Nord (et récemment Chapitre.com) et dont le coeur de métier est bien davantage celui de la #logistique (#supply_chain) que celui de la librairie.

    Pourquoi Nosoli a-t-il remporté ce #marché ? Et pourquoi Nantes Université va devoir commander à des librairies Lyonnaises des ouvrages pour … Nantes ? Parce que le code des #marchés_publics. Parce que l’obligation de passer par des #appels_d’offre. Parce le code des marchés publics et des appels d’offre est ainsi fait que désormais (et depuis quelques temps déjà) seuls les plus gros sont en capacité d’entrer dans les critères définis. Parce que les critères définis (par #Nantes_Université notamment) visent bien sûr à faire des #économies_d’échelle. À payer toujours moins. Parce que bien sûr, sur ce poste de dépenses budgétaires comme sur d’autres il faut sans cesse économiser, rogner, négocier, batailler, parce que les universités sont exangues de l’argent que l’état ne leur donne plus et qu’il a converti en médaille en chocolat de “l’autonomie”. Parce qu’à ce jeu les plus gros gagnent toujours les appels d’offre et les marchés publics. C’est même pour cela qu’ils sont gros. Et qu’ils enflent encore. [mise à jour] Mais ici pour ce marché concernant des #livres, ce n’est pas le critère du #prix qui a joué (merci Jack Lang et la prix unique) mais pour être parfaitement précis, c’est le critère du #stock qui, en l’espèce et malgré le recours en justice de la librairie Vent d’Ouest, et bien qu’il soit reconnu comme discriminatoire par le ministère de la culture (en page 62 du Vade Mecum édité par le ministère sur le sujet de l’achat de livres en commande publique), a été décisif pour permettre à Nosoli de remporter le marché. [/mise à jour]

    Alors Nosoli le groupe lyonnais a gagné le marché de Nantes Université. Et les librairies nantaises Durance et Vent d’Ouest ont perdu. Et quelques mois après la perte de ce marché, la librairie Vent d’Ouest va fermer.

    On pourrait s’en réjouir finalement, ou même s’en foutre totalement. Après tout, Nantes Université va faire des #économies. Après tout une librairie qui ferme à Nantes et 7 salariés qui se trouvent sur le carreau c’est (peut-être) 7 personnes du service logistique du groupe Nosoli qui gardent leur emploi. Et puis quoi, une librairie qui ferme à Nantes mais il y en a 6 qui ont ouvert sur les deux dernières années à Nantes. Alors quoi ?

    Alors une université vient de tuer une librairie. Et quand on discute avec les gens qui, à Nantes Université, connaissent autrement que comptablement la réalité de ce qu’était le #marché_public passé avec Durance et Vent d’Ouest, et quand on échange avec celles et ceux qui ont l’habitude, à l’université ou ailleurs, de travailler avec le groupe Nosoli, on entend toujours la même chose : rien jamais ne remplacera la #proximité. Parce qu’avec Durance et Vent d’Ouest les échanges étaient souples, réactifs, pas (trop) systématiquement réglementaires, parce que les gens qui dans les bibliothèques de l’université commandaient les ouvrages connaissaient les gens qui dans les librairies les leur fournissaient, et qu’en cas de souci ils pouvaient même s’y rendre et les croiser, ces gens. Et on entend, en plus de l’aberration écologique, logistique, et sociétale, que les commandes avec le groupe Nosoli sont usuellement et comme avec tout grand groupe logistique … complexes, lentes, difficilement négociables et rattrapables, sans aucune souplesse, sans aucune écoute ou connaissance des besoins fins de l’université “cliente”. Voilà ce que l’on entend, entre autres choses plus âpres et plus en colère.

    Une université vient de tuer une librairie. Et ça fait tellement chier. C’est tellement anormal. Tellement schizophrène. Le même jour que celui où j’ai appris l’annonce de la fermeture définitive de la libraire Vent d’Ouest, j’ai aussi reçu un message de Nantes Université m’informant que, champagne, l’université venait – comme 14 autres universités – de remporter un appel à projet de plus de 23 millions d’euros. La cagnotte lancée par la libraire Vent d’Ouest après la perte du marché de Nantes Université lui avait rapporté quelques milliers d’euros qui lui avaient permis de retarder sa fermeture de cinq mois.

    Vivre à l’université, travailler à Nantes Université, c’est être tous les jours, à chaque instant et sur chaque sujet, confronté au même type de #schizophrénie. D’un côté on collecte des dizaines de millions d’euros dans de toujours plus nébuleux appels à projets, et de l’autre on gère la misère et la détresse. Et on ferme sa gueule. Parce que ne pas se réjouir de l’obtention de ces 23 millions d’euros c’est être un pisse-froid et c’est aussi mépriser le travail (et l’épuisement) des équipes qui pilotent (et parfois remportent) ces appels à projets. Oui mais voilà. À Nantes Université on organise des grandes fêtes de rentrée et on donnez rendez-vous à la prochaine #distribution_alimentaire, la #fête mais la #précarité. Et l’on fait ça tous les jours. Toutes les universités françaises organisent ou ont organisé des #distributions_alimentaires, et toutes les universités françaises remportent ou ont remporté des appels à projet de dizaines de millions d’euros. Mais les financements qui permettraient de recruter des collègues enseignants chercheurs ou des personnels techniques et administratifs en nombre suffisant, et de les recruter comme titulaires, pour garantir un fonctionnement minimal normal, ces financements on ne les trouve jamais. Mais les financements qui permettraient d’éviter de fermer une librairie avec qui l’université travaille depuis des dizaines d’années et d’éviter de mettre 7 personnes au chômage, on ne les trouve jamais. Mais les financements qui permettraient à tous les étudiant.e.s de manger tous les jours à leur faim, on ne les trouve jamais. Mais les financements qui permettraient à l’UFR Staps de Nantes Université de faire sa rentrée on ne les trouve jamais. Mais les financements qui permettraient aux collègues de la fac de droit de Nantes Université de ne pas sombrer dans l’#épuisement_au_prix et au risque de choix mortifières pour eux comme pour les étudiant.e.s on ne les trouve jamais. Mais les financements qui permettraient aux collègues de l’IAE de Nantes Université de ne pas s’enfoncer dans le #burn-out, ces financements on ne les trouve jamais. Il n’y a pas d’appel à projet à la solidarité partenariale. Il n’y a pas d’appel à projet à la lutte contre la #misère_étudiante. Il n’y a pas d’appel à projet pour permettre à des milliers de post-doctorants d’espérer un jour pouvoir venir enseigner et faire de la recherche à l’université. Il n’y pas d’appel à projet pour sauver l’université publique. Il n’y en a pas.

    Il n’y a pas d’appel à projet pour la normalité des choses. Alors Nantes Université, comme tant d’autres, est uniquement traversée par des #régimes_d’exceptionnalité. #Exceptionnalité des financements obtenus dans quelques appels à projets qui font oublier tous les autres appels à projet où l’université se fait retoquer. Exceptionnalité des #crises que traversent les étudiant.e.s, les formations et les #personnels de l’université. Exceptionnalité des mesures parfois prises pour tenter d’en limiter les effets. Dans nos quotidiens à l’université, tout est inscrit dans ces #logiques_d’exceptionnalité, tout n’est lisible qu’au travers de ces #matrices_d’exceptionnalité. Exceptionnalité des financements. Exceptionnalité des crises. Exceptionnalité des remédiations.

    Une université vient de tuer une librairie. Cela n’est pas exceptionnel. C’est devenu banal. Voilà l’autre danger de ces régimes d’exceptionnalité permanents : ils inversent nos #représentations_morales. Ce qui devrait être exceptionnel devient #banal. Et ce qui devrait être banal (par exemple qu’une université publique reçoive des dotations suffisantes de l’état pour lui permettre d’exercer sa mission d’enseignement et de recherche), est devenu exceptionnel.

    Une université vient de tuer une librairie. Dans le monde qui est le nôtre et celui que nous laissons, il n’est que des #dérèglements. Et si celui du climat dicte déjà tous les autres #effondrements à venir, nous semblons incapables de penser nos relations et nos institutions comme autant d’écosystèmes dans lesquels chaque biotope est essentiel aux autres. Nantes Université a tué la libraire Vent d’Ouest. Le mobile ? L’habitude. L’habitude de ne pas mener les combats avant que les drames ne se produisent. L’habitude de se résigner à appliquer des règles que tout le monde sait pourtant ineptes. L’habitude du renoncement à l’attention à l’autre, au plus proche, au plus fragile, dès lors que l’on peut se réjouir de l’attention que nous portent tant d’autres. L’#habitude d’aller chercher si loin ce que l’on a pourtant si près.

    Une université vient de tuer une librairie. Le libéralisme a fourni l’arme. Les codes des marchés ont fourni la balle. L’habitude a fourni le mobile. Et l’université, après avoir baissé les yeux, a froidement appuyé sur la détente.

    https://affordance.framasoft.org/2023/09/une-universite-a-tue-une-librairie

    #ESR #enseignement_supérieur

  • Bandes originales et cinéma de genre - Ludovic Villard
    https://www.cinezik.org/dossiers/affguide.php?titre0=bandes-originales-et-cinema-de-genre

    Dans cet ouvrage, Ludovic Villard (musicien qui a enregistré une soixantaine de projets musicaux sous le nom de Lucio Bukowski entre 2007 et 2023) explore l’évolution de la musique dans le cinéma de genre entre 1960 et 1982, une période marquée par des collaborations étroites entre réalisateurs et compositeurs. Il examine comment la musique a acquis un rôle essentiel dans l’élaboration des films, soulignant leur caractère inventif et souvent contestataire. L’auteur traverse divers genres cinématographiques, du Nouvel Hollywood aux films de science-fiction, en passant par les gialli italiens, les yakusa eigas japonais et les westerns spaghettis, mais aussi le cinéma de David Lynch. Il revient sur 100 bandes originales marquantes, parmi lesquelles celles de Lalo Schifrin pour « Bullitt », Ennio Morricone pour « La Rançon de la peur », Isaac Hayes pour « Shaft », François de Roubaix pour « Le Samouraï », John Carpenter pour « Assaut » ou encore Tangerine Dream pour « Sorcerer ». L’ouvrage comprend une analyse musical de nombreux films, essentiellement issus des decennies 1960 (37 films) et 70 (38 films), avec trois compositeurs représentés trois fois (Ennio Morricone, Lalo Schifrin, Bernard Herrmann), suivis de Jerry Goldsmith, Klaus Schultze, Eduard Artemyev, les Goblin (2 films), et avec majoritairement des productions américaines.

    @arno :)

    #musique #cinéma #bande_originale #score #années_60 #années_70 #livre

  • HITLER’S SHADOW, Nazi War Criminals, U.S. Intelligence, and the Cold War
    https://www.archives.gov/files/iwg/reports/hitlers-shadow.pdf
    Dans cette publication on apprend que la CIA était plutôt sceptique en ce qui concernait la collaboration avec Stepan Bandera. Les parachutages d’agents anticommunistes étaient l’affaire des Britanniques. Plus tard c’étaient surtout les ex-nazis allemands proches d’Eichmann, particulièrement Gerhard von Mende, un participant à l’organisation de l’holocauste, qui le soutenaient jusqu’à sa mort. La CIA avait son propre homme de main, Mykola Lebed.

    Richard Breitman and Norman J.W. Goda, Published by the National Archives

    In 1998 Congress passed the Nazi War Crimes Disclosure Act [P.L. 105-246]
    as part of a series of efforts to identify, declassify, and release federal records on the perpetration of Nazi war crimes and on Allied efforts to locate and punish war criminals. Under the direction of the National Archives the Interagency Working Group [IWG] opened to research over 8 million of pages of records - including recent 21st century documentation. Of particular importance to this volume are many declassified intelligence records from the Central Intelligence Agency and the Army Intelligence Command, which were not fully processed and available at the time that the IWG issued its Final Report in 2007.
    As a consequence, Congress [in HR 110-920] charged the National Archives
    in 2009 to prepare an additional historical volume as a companion piece to
    its 2005 volume U. S. Intelligence and the Nazis. Professors Richard Breitman
    and Norman J. W. Goda note in Hitler’s Shadow that these CIA & Army records produced new “evidence of war crimes and about wartime activities of war criminals; postwar documents on the search for war criminals; documents about the escape of war criminals; documents about the Allied protection or use of war criminals; and documents about the postwar activities of war criminals”.
    This volume of essays points to the significant impact that flowed from
    Congress and the Executive Branch agencies in adopting a broader and fuller
    release of previously security classified war crimes documentation. Details about records processed by the IWG and released by the National Archives are more fully described on our website iwg@nara.gov.

    William Cunliffe, Office of Records Services,
    National Archives and Records Administration

    CHAPTER FIVE, Collaborators: Allied Intelligence and the Organization of Ukrainian Nationalists
    ...
    The CIA never considered entering into an alliance with Bandera to procure intelligence from Ukraine. “By nature,” read a CIA report, “[Bandera] is a political intransigent of great personal ambition, who [has] since April 1948, opposed all political organizations in the emigration which favor a representative
    form of government in the Ukraine as opposed to a mono-party, OUN/Bandera regime.”

    Worse, his intelligence operatives in Germany were dishonest and not secure. Debriefings of couriers from western Ukraine in 1948 confirmed that, “the thinking of Stephan Bandera and his immediate émigré supporters [has] become radically outmoded in the Ukraine.” Bandera was also a convicted assassin. By now, word had reached the CIA of Bandera’s fratricidal struggles with other Ukrainian groups during the war and in the emigration.
    By 1951 Bandera turned vocally anti-American as well, since the US did not advocate an independent Ukraine.” The CIA had an agent within the Bandera group in 1951 mostly to keep an eye on Bandera.

    British Intelligence (MI6), however, was interested in Bandera. MI6 first contacted Bandera through Gerhard von Mende in April 1948. An ethnic German from Riga, von Mende served in Alfred Rosenberg’s Ostministerium
    during the war as head of the section for the Caucasus and Turkestan section, recruiting Soviet Muslims from central Asia for use against the USSR. In this capacity he was kept personally informed of UPA actions and capabilities.

    Nothing came of initial British contacts with Bandera because, as the CIA learned later, “the political, financial, and tech requirements of the [Ukrainians] were higher than the British cared to meet.” But by 1949 MI6 began helping Bandera send his own agents into western Ukraine via airdrop. In 1950 MI6 began training these agents on the expectation that they could provide intelligence from western Ukraine.

    CIA and State Department officials flatly opposed the use of Bandera. By 1950 the CIA was working with the Hrinioch-Lebed group, and had begun to run its own agents into western Ukraine to make contact with the UHVR. Bandera no longer had the UHVR’s support or even that of the OUN party leadership in Ukraine. Bandera’s agents also deliberately worked against Ukrainian agents used by the CIA. In April 1951 CIA officials tried to convince MI6 to pull support from Bandera. MI6 refused. They thought that Bandera could run his agents without British support, and MI6 were “seeking progressively to assume control of Bandera’s lines.” The British also thought that the CIA underestimated Bandera’s importance. “Bandera’s name,” they said, “still carried considerable weight in the Ukraine and … the UPA would look to him first and foremost.”

    On trouve des informations sur les relations de la CIA avec les anticommunistes ukrainiens dans le chapître The United States and Mykola Lebed

    Nazi War Crimes Interagency Working Group
    https://www.archives.gov/iwg

    #histoire #USA #anticommunisme #Ukraine #Bandera

  • Contre-histoire des États-Unis, Roxanne Dunbar-Ortiz – Éditions Wildproject
    https://wildproject.org/livres/contre-histoire-des-etats-unis

    Le monde qui vient
    novembre 2021
    9-782-381140-278
    336 pages
    22 €
    13 × 20 cm
    Préface et traduction par Pascal Menoret
    Première édition française 2018

    Ce livre répond à une question simple : pourquoi les Indiens dʼAmérique ont-ils été décimés ? Nʼétait-il pas pensable de créer une civilisation créole prospère qui permette aux populations amérindienne, africaine, européenne, asiatique et océanienne de partager lʼespace et les ressources naturelles des États-Unis ? Le génocide des Amérindiens était-il inéluctable ?

    La thèse dominante aux États-Unis est quʼils ont souvent été tués par les virus apportés par les Européens avant même dʼentrer en contact avec les Européens eux-mêmes : la variole voyageait plus vite que les soldats espagnols et anglais. Les survivants auraient soit disparu au cours des guerres de la frontière, soit été intégrés, eux aussi, à la nouvelle société dʼimmigrés.

    Contre cette vision irénique dʼune histoire impersonnelle, où les virus et lʼacier tiennent une place prépondérante et où les intentions humaines sont secondaires, Roxanne Dunbar-Ortiz montre que les États-Unis sont une scène de crime. Il y a eu génocide parce quʼil y a eu intention dʼexterminer : les Amérindiens ont été méthodiquement éliminés, dʼabord physiquement, puis économiquement, et enfin symboliquement.

    L’autrice

    Roxanne Dunbar-Ortiz est une historienne et militante née en 1938. Docteur en histoire (UCLA, 1974), elle est également diplômée en droit international et droits de lʼHomme de lʼIDH de Strasbourg (1983). Militante de la cause amérindienne depuis 1967, cofondatrice du Mouvement de libération des femmes (MLF) aux États-Unis en 1968, elle a aussi vécu en Europe, au Mexique et à Cuba. Elle est lʼautrice dʼune quinzaine dʼouvrages.

    On en parle

    Avec ce compte-rendu de la conquête des États-Unis du point de vue de ses victimes, Roxanne Dunbar-Ortiz nous rend un service immense. Renseigné en profondeur, éloquent et lucide, ce puissant récit dʼun crime terrible prend aujourdʼhui un sens nouveau : les survivants rejoignent en effet les peuples indigènes du monde pour lutter – en idées et en actions – contre la destruction écologique du monde causée par la civilisation industrielle.
    Noam Chomsky, linguiste

    Voici sans doute la plus importante histoire des États-Unis jamais écrite. Voici, restituée de façon honnête et souvent poétique, lʼhistoire de ces traces et dʼun peuple qui a survécu, meurtri mais insoumis. Spoiler alert : la période coloniale nʼest pas close – et tous les Indiens ne sont pas morts.
    Robin Kelley, historien

    Lʼoubli de lʼhistoire est la maladie fondamentale de la plupart des Américains blancs. Dunbar-Ortiz demande à ses lecteurs de retourner à ce point de départ : de sʼenraciner dans la poussière rouge et les débris de la mémoire.
    Mike Davis, sociologue

    Issue dʼun milieu ouvrier, ayant grandi en Oklahoma, Roxanne Dunbar-Ortiz a participé à tous les grands mouvements féministes ou révolutionnaires des années 1960 et 1970. Elle éclaire ces expériences avec une implacable précision, et fait preuve dʼune fière et admirable indépendance.
    Howard Zinn, historien

    Roxanne Dunbar-Ortiz a écrit le livre fondamental, celui qui remet à l’endroit l’histoire nationale américaine, structurée par un génocide originel et une violente colonisation de peuplement.
    Raoul Peck, cinéaste

    Sommaire

    Préface du traducteur
    Note de lʼauteure

    Introduction. Cette terre

    Suivez le maïs
    La culture de la conquête
    Le culte de lʼalliance
    Des empreintes de sang
    Naissance dʼune nation
    Le Dernier des Mohicans et la république blanche dʼAndrew Jackson
    Dʼun océan à lʼautre, étincelant
    Pays indien
    Triomphalisme et colonialisme en temps de paix
    La prophétie de la danse des esprits : une nation arrive
    La Doctrine de la Découverte

    Conclusion. Lʼavenir des États-Unis

    • Roxane Dunbar-Ortiz est une historienne et une militante connue aux USA pour sa participation active aux luttes d’émancipation des années 60 (droits civiques, anticolonialiste,féministe). Elle nous propose cette contre-histoire passionnante des États-Unis, « telle que les peuples indigènes la vécurent », ce qui « requiert de mettre à neuf le récit national ».

      S’appuyant sur une description précises des faits, Roxane Dunbar-Ortiz n’hésite pas à qualifier en terme de « génocide », la politique de colonisation de peuplement conduite par les colons états-uniens. D’autres auteurs, notamment Robert Jaulin, ont employé le terme d’ethnocide pour décrire les conséquences du colonialisme (voir le lien ci-dessous).

      La première partie du livre est consacrée à l’examen historique des faits concernant l’éradication des nations autochtones. Il semblerait que ces faits historique soient méconnus ou ignorés de la grande partie de la population états-unienne. Des mises en perspectives expliquent comment ces faits structurent encore largement l’idéologie du pays.

      Les fondations de l’histoire des États-Unis sont à trouver dans le débarquement des caravelles espagnoles sur le continent d’Amérique. Le mythe fondateur états-unien, proprement dit, débute officiellement, à l’issue de la guerre d’indépendance des colonies anglaises, en 1783. Environ 4 millions d’européens vivent alors sur 13 colonies britanniques, le long de la côte atlantique. « La conquête de l’Ouest » qui s’en suit, conduit progressivement en un siècle à la dépossession de l’intégralité des territoires autochtones situés sur cette partie du continent.

      L’autrice explique par le détail comment les conquérants étasuniens ont systématiquement mis en œuvre une politique de colonisation de peuplement en chassant les nations indigènes afin de s’approprier leurs terres. Plusieurs méthodes furent employées à cette fin : les massacres des populations, la destruction de leurs ressources végétales et animales (notamment les bisons), la manipulation des nations indigènes dressées les unes contre les autres, la signature d’accords systématiquement violés, l’enferment des autochtones dans des réserves racistes, l’assimilation forcée, l’acculturation, la corruption, leur dépendance aux logiques capitalistes…

      Le mythe colonialiste du « nouveau monde » est taillé en pièces par l’autrice. Ce récit évoque un continent vide et habité par des sauvages avant l’arrivée des Européen ; ces derniers s’émerveillent, par exemple, de la présence de « bois ouverts », estimant qu’il s’agissait d’une configuration caractéristique de l’Amérique du nord, sans voir que ce paysage n’était rien d’autre que la résultante du rapport que les peuples indigènes entretiennent avec la nature.

      L’autrice remet en cause le contenu du mythe fondateur états-unien qui fait de cette nation, se constituant sur le colonialisme le plus brutal, une nation exceptionnelle. On glorifie l’appropriation du continent par une sorte de délire mystique alors que la création des États-Unis est directement liée à l’émergence du capitalisme et de ses contingences de développement économique.

      Outre son intérêt pour la restitution historique de faits qui semblent méconnus au pays de l’oncle Sam, l’ouvrage propose une réflexion assez approfondie sur les considérants idéologiques structurant l’imaginaire états-unien encore aujourd’hui. Ce qui constitue la seconde partie de l’ouvrage.

      On voit comment, à partir de fables nationales telles que celle du « destin manifeste », on construit un mythe selon lequel les États unis est une nation prédestinée à conquérir les territoires « d’un océan à l’autre ». Le pays est composé « d’exceptionnelles entités » eu égard à l’influence calviniste des premiers colons. De ce fait, la fin justifiant les moyens, rien n’est plus ordinaire que d’y entendre des voix conduite à vanter « les conséquence positives de la colonisation ».

      Enfin, Roxane Dunbar-Ortiz explique comment la guerre permanente contre les peuples autochtones a construit une logique militarise omniprésente, encore aujourd’hui, dans l’idéologie dominante de ce pays. Le militarisme états-unien sert de justificatif à la politique impérialiste conduite dans le monde entier. Il est rappelé, aussi, en quoi le deuxième amendement de la constitution (sur le port d’arme) en est tributaire.

      L’autrice explique comment le passé colonial contre les nations indigènes, a directement structuré des concepts militaires, encore mis en pratique à notre époque par les États-Unis dans leur politique impérialiste (guerres du Vietnam, d’Irak, etc.). Les termes en usage pour définir les tactiques guerrières pour exterminer les nations indigènes lors de le « conquête de l’Ouest » tels que « guerre totale », « guerre irrégulière » ou « guerre de contre-insurrection » font encore partie du vocabulaire des militaires états-uniens d’aujourd’hui. On apprend, enfin que, bien au-delà des frontières du continent américain, le terme de « pays indiens » est encore employé encore de nos jours, par l’administration militaire États-unienne pour désigner une zone située derrière les lignes ennemies.

    • Un extrait de la conclusion de Contre-histoire des États-Unis, Roxanne Dunbar-Ortiz :

      https://www.salon.com/2014/10/13/north_america_is_a_crime_scene_the_untold_history_of_america

      North America is a crime scene: The untold history of America this Columbus Day
      The founding myth of the United States is a lie. It is time to re-examine our ruthless past — and present
      By Roxanne Dunbar-Ortiz
      Published October 13, 2014 5:45PM (EDT)

      Excerpted from “An Indigenous Peoples’ History of the United States”

      That the continued colonization of American Indian nations, peoples, and lands provides the United States the economic and material resources needed to cast its imperialist gaze globally is a fact that is simultaneously obvious within—and yet continually obscured by—what is essentially a settler colony’s national construction of itself as an ever more perfect multicultural, multiracial democracy. . . . [T]he status of American Indians as sovereign nations colonized by the United States continues to haunt and inflect its raison d’etre. —Jodi Byrd

      The conventional narrative of U.S. history routinely segregates the “Indian wars” as a subspecialization within the dubious category “the West.” Then there are the westerns, those cheap novels, movies, and television shows that nearly every American imbibed with mother’s milk and that by the mid-twentieth century were popular in every corner of the world. The architecture of US world dominance was designed and tested by this period of continental U.S. militarism, which built on the previous hundred years and generated its own innovations in total war. The opening of the twenty-first century saw a new, even more brazen form of U.S. militarism and imperialism explode on the world scene when the election of George W. Bush turned over control of U.S. foreign policy to a long-gestating neoconservative and warmongering faction of the Pentagon and its civilian hawks. Their subsequent eight years of political control included two major military invasions and hundreds of small wars employing U.S. Special Forces around the globe, establishing a template that continued after their political power waned.

      Injun Country

      One highly regarded military analyst stepped forward to make the connections between the “Indian wars” and what he considered the country’s bright imperialist past and future. Robert D. Kaplan, in his 2005 book Imperial Grunts, presented several case studies that he considered highly successful operations: Yemen, Colombia, Mongolia, and the Philippines, in addition to ongoing complex projects in the Horn of Africa, Afghanistan, and Iraq. While US citizens and many of their elected representatives called for ending the US military interventions they knew about—including Iraq and Afghanistan—Kaplan hailed protracted counterinsurgencies in Africa, Asia, the Middle East, Latin America, and the Pacific. He presented a guide for the U.S. controlling those areas of the world based on its having achieved continental dominance in North America by means of counterinsurgency and employing total and unlimited war.

      Kaplan, a meticulous researcher and influential writer born in 1952 in New York City, wrote for major newspapers and magazines before serving as “chief geopolitical strategist” for the private security think tank Stratfor. Among other prestigious posts, he has been a senior fellow at the Center for a New American Security in Washington, D.C., and a member of the Defense Policy Board, a federal advisory committee to the US Department of Defense. In 2011, Foreign Policy magazine named Kaplan as one of the world’s “top 100 global thinkers.” Author of numerous best-selling books, including Balkan Ghosts and Surrender or Starve, Kaplan became one of the principal intellectual boosters for U.S. power in the world through the tried-and-true “American way of war.” This is the way of war dating to the British-colonial period that military historian John Grenier called a combination of “unlimited war and irregular war,” a military tradition “that accepted, legitimized, and encouraged attacks upon and the destruction of noncombatants, villages and agricultural resources . . . in shockingly violent campaigns to achieve their goals of conquest.”

      Kaplan sums up his thesis in the prologue to Imperial Grunts, which he subtitles “Injun Country”:

      By the turn of the twenty-first century the United States military had already appropriated the entire earth, and was ready to flood the most obscure areas of it with troops at a moment’s notice.

      The Pentagon divided the planet into five area commands—similar to the way that the Indian Country of the American West had been divided in the mid-nineteenth century by the U.S. Army. . . . [A]ccording to the soldiers and marines I met on the ground in far-flung corners of the earth, the comparison with the nineteenth century was . . . apt. “Welcome to Injun Country” was the refrain I heard from troops from Colombia to the Philippines, including Afghanistan and Iraq. To be sure, the problem for the American military was less [Islamic] fundamentalism than anarchy. The War on Terrorism was really about taming the frontier.

      Kaplan goes on to ridicule “elites in New York and Washington” who debate imperialism in “grand, historical terms,” while individuals from all the armed services interpret policy according to the particular circumstances they face and are indifferent to or unaware of the fact that they are part of an imperialist project. This book shows how colonialism and imperialism work.

      Kaplan challenges the concept of manifest destiny, arguing that “it was not inevitable that the United States should have an empire in the western part of the continent.” Rather, he argues, western empire was brought about by “small groups of frontiersmen, separated from each other by great distances.” Here Kaplan refers to what Grenier calls settler “rangers,” destroying Indigenous towns and fields and food supplies. Although Kaplan downplays the role of the U.S. Army compared to the settler vigilantes, which he equates to the modern Special Forces, he acknowledges that the regular army provided lethal backup for settler counterinsurgency in slaughtering the buffalo, the food supply of Plains peoples, as well as making continuous raids on settlements to kill or confine the families of the Indigenous fighters. Kaplan summarizes the genealogy of U.S. militarism today:

      Whereas the average American at the dawn of the new millennium found patriotic inspiration in the legacies of the Civil War and World War II, when the evils of slavery and fascism were confronted and vanquished, for many commissioned and noncommissioned officers the U.S. Army’s defining moment was fighting the “Indians.”

      The legacy of the Indian wars was palpable in the numerous military bases spread across the South, the Middle West, and particularly the Great Plains: that vast desert and steppe comprising the Army’s historical “heartland,” punctuated by such storied outposts as Forts Hays, Kearney, Leavenworth, Riley, and Sill. Leavenworth, where the Oregon and Santa Fe trails separated, was now the home of the Army’s Command and General Staff College; Riley, the base of George Armstrong Custer’s 7th Cavalry, now that of the 1st Infantry Division; and Sill, where Geronimo lived out the last years of his life, the headquarters of the U.S. Artillery. . . .

      While microscopic in size, it was the fast and irregular military actions against the Indians, memorialized in bronze and oil by Remington, that shaped the nature of American nationalism.

      Although Kaplan relies principally on the late-nineteenth-century source of US counterinsurgency, in a footnote he reports what he learned at the Airborne Special Operations Museum in Fayetteville, North Carolina: “It is a small but interesting fact that members of the 101st Airborne Division, in preparation for their parachute drop on D-Day, shaved themselves in Mohawk style and applied war paint on their faces.” This takes us back to the pre-independence colonial wars and then through US independence and the myth popularized by The Last of the Mohicans.

      Kaplan debunks the argument that the attacks on the World Trade Center and the Pentagon on September 11, 2001, brought the United States into a new era of warfare and prompted it to establish military bases around the world. Prior to 2001, Kaplan rightly observes, the US Army’s Special Operations Command had been carrying out maneuvers since the 1980s in “170 countries per year, with an average of nine ‘quiet professionals’ on each mission. America’s reach was long; its involvement in the obscurest states protean. Rather than the conscript army of citizen soldiers that fought World War II, there was now a professional military that, true to other imperial forces throughout history, enjoyed the soldiering life for its own sake.”

      On October 13, 2011, testifying before the Armed Services Committee of the US House of Representatives, General Martin Dempsey stated: “I didn’t become the chairman of the Joint Chiefs to oversee the decline of the Armed Forces of the United States, and an end state that would have this nation and its military not be a global power. . . . That is not who we are as a nation.”

      The Return of Legalized Torture

      Bodies—tortured bodies, sexually violated bodies, imprisoned bodies, dead bodies—arose as a primary topic in the first years of the George W. Bush administration following the September 2001 attacks with a war of revenge against Afghanistan and the overthrow of the government of Iraq. Afghans resisting U.S. forces and others who happened to be in the wrong place at the wrong time were taken into custody, and most of them were sent to a hastily constructed prison facility on the U.S. military base at Guantánamo Bay, Cuba, on land the United States appropriated in its 1898 war against Cuba. Rather than bestowing the status of prisoner of war on the detainees, which would have given them certain rights under the Geneva Conventions, they were designated as “unlawful combatants,” a status previously unknown in the annals of Western warfare. As such, the detainees were subjected to torture by U.S. interrogators and shamelessly monitored by civilian psychologists and medical personnel.

      In response to questions and condemnations from around the globe, a University of California international law professor, John C. Yoo, on leave to serve as assistant U.S. attorney general in the Justice Department’s Office of Legal Counsel, penned in March 2003 what became the infamous “Torture Memo.” Not much was made at the time of one of the precedents Yoo used to defend the designation “unlawful combatant,” the US Supreme Court’s 1873 opinion in Modoc Indian Prisoners.

      In 1872, a group of Modoc men led by Kintpuash, also known as Captain Jack, attempted to return to their own country in Northern California after the U.S. Army had rounded them up and forced them to share a reservation in Oregon. The insurgent group of fifty-three was surrounded by U.S. troops and Oregon militiamen and forced to take refuge in the barren and rugged lava beds around Mount Lassen, a dormant volcano, a part of their ancestral homeland that they knew every inch of. More than a thousand troops commanded by General Edward R. S. Canby, a former Civil War general, attempted to capture the resisters, but had no success as the Modocs engaged in effective guerrilla warfare. Before the Civil War, Canby had built his military career fighting in the Second Seminole War and later in the invasion of Mexico. Posted to Utah on the eve of the Civil War, he had led attacks against the Navajos, and then began his Civil War service in New Mexico. Therefore, Canby was a seasoned Indian killer. In a negotiating meeting between the general and Kintpuash, the Modoc leader killed the general and the other commissioners when they would allow only for surrender. In response, the United States sent another former Civil War general in with more than a thousand additional soldiers as reinforcements, and in April 1873 these troops attacked the Modoc stronghold, this time forcing the Indigenous fighters to flee. After four months of fighting that cost the United States almost $500,000—equal to nearly $10 million currently—and the lives of more than four hundred of its soldiers and a general, the nationwide backlash against the Modocs was vengeful. Kintpuash and several other captured Modocs were imprisoned and then hanged at Alcatraz, and the Modoc families were scattered and incarcerated on reservations. Kintpuash’s corpse was embalmed and exhibited at circuses around the country. The commander of the army’s Pacific Military Division at the time, Lieutenant General John M. Schofield, wrote of the Modoc War in his memoir, Forty-Six Years in the Army: “If the innocent could be separated from the guilty, plague, pestilence, and famine would not be an unjust punishment for the crimes committed in this country against the original occupants of the soil.”

      Drawing a legal analogy between the Modoc prisoners and the Guantánamo detainees, Assistant U.S. Attorney General Yoo employed the legal category of homo sacer—in Roman law, a person banned from society, excluded from its legal protections but still subject to the sovereign’s power. Anyone may kill a homo sacer without it being considered murder. As Jodi Byrd notes, “One begins to understand why John C. Yoo’s infamous March 14, 2003, torture memos cited the 1865 Military Commissions and the 1873 The Modoc Indian Prisoners legal opinions in order to articulate executive power in declaring the state of exception, particularly when The Modoc Indian Prisoners opinion explicitly marks the Indian combatant as homo sacer to the United States.” To buttress his claim, Yoo quoted from the 1873 Modoc Indian Prisoners opinion:

      It cannot be pretended that a United States soldier is guilty of murder if he kills a public enemy in battle, which would be the case if the municipal law were in force and applicable to an act committed under such circumstances. All the laws and customs of civilized warfare may not be applicable to an armed conflict with the Indian tribes upon our western frontier; but the circumstances attending the assassination of Canby [Army general] and Thomas [U.S. peace commissioner] are such as to make their murder as much a violation of the laws of savage as of civilized warfare, and the Indians concerned in it fully understood the baseness and treachery of their act.

      Byrd points out that, according to this line of thinking, anyone who could be defined as “Indian” could thus be killed legally, and they also could be held responsible for crimes they committed against any US soldier. “As a result, citizens of American Indian nations become in this moment the origin of the stateless terrorist combatant within U.S. enunciations of sovereignty.”

      Ramped Up Militarization

      The Chagos Archipelago comprises more than sixty small coral islands isolated in the Indian Ocean halfway between Africa and Indonesia, a thousand miles south of the nearest continent, India. Between 1968 and 1973, the United States and Britain, the latter the colonial administrator, forcibly removed the indigenous inhabitants of the islands, the Chagossians. Most of the two thousand deportees ended up more than a thousand miles away in Mauritius and the Seychelles, where they were thrown into lives of poverty and forgotten. The purpose of this expulsion was to create a major U.S. military base on one of the Chagossian islands, Diego Garcia. As if being rounded up and removed from their homelands in the name of global security were not cruel enough, before being deported the Chagossians had to watch as British agents and U.S. troops herded their pet dogs into sealed sheds where they were gassed and burned. As David Vine writes in his chronicle of this tragedy:

      “The base on Diego Garcia has become one of the most secretive and powerful U.S. military facilities in the world, helping to launch the invasions of Afghanistan and Iraq (twice), threatening Iran, China, Russia, and nations from southern Africa to southeast Asia, host to a secret CIA detention center for high-profile terrorist suspects, and home to thousands of U.S. military personnel and billions of dollars in deadly weaponry.”

      The Chagossians are not the only indigenous people around the world that the US military has displaced. The military established a pattern during and after the Vietnam War of forcibly removing indigenous peoples from sites deemed strategic for the placement of military bases. The peoples of the Bikini Atoll in the South Pacific and Puerto Rico’s Vieques Island are perhaps the best-known examples, but there were also the Inughuit of Thule, Greenland, and the thousands of Okinawans and Indigenous peoples of Micronesia. During the harsh deportation of the Micronesians in the 1970s, the press took some notice. In response to one reporter’s question, Secretary of State Henry Kissinger said of the Micronesians: “There are only ninety thousand people out there. Who gives a damn?” This is a statement of permissive genocide.

      By the beginning of the twenty-first century, the United States operated more than 900 military bases around the world, including 287 in Germany, 130 in Japan, 106 in South Korea, 89 in Italy, 57 in the British Isles, 21 in Portugal, and 19 in Turkey. The number also comprised additional bases or installations located in Aruba, Australia, Djibouti, Egypt, Israel, Singapore, Thailand, Kyrgyzstan, Kuwait, Qatar, Bahrain, the United Arab Emirates, Crete, Sicily, Iceland, Romania, Bulgaria, Honduras, Colombia, and Cuba (Guantánamo Bay), among many other locations in some 150 countries, along with those recently added in Iraq and Afghanistan.

      In her book The Militarization of Indian Country, Anishinaabe activist and writer Winona LaDuke analyzes the continuing negative effects of the military on Native Americans, considering the consequences wrought on Native economy, land, future, and people, especially Native combat veterans and their families. Indigenous territories in New Mexico bristle with nuclear weapons storage, and Shoshone and Paiute territories in Nevada are scarred by decades of aboveground and underground nuclear weapons testing. The Navajo Nation and some New Mexico Pueblos have experienced decades of uranium strip mining, the pollution of water, and subsequent deadly health effects. “I am awed by the impact of the military on the world and on Native America,” LaDuke writes. “It is pervasive.”

      Political scientist Cynthia Enloe, who specializes in US foreign policy and the military, observes that US culture has become even more militarized since the attacks on the World Trade Center and the Pentagon. Her analysis of this trend draws on a feminist perspective:

      Militarization . . . [is] happening at the individual level, when a woman who has a son is persuaded that the best way she can be a good mother is to allow the military recruiter to recruit her son so her son will get off the couch. When she is persuaded to let him go, even if reluctantly, she’s being militarized. She’s not as militarized as somebody who is a Special Forces soldier, but she’s being militarized all the same. Somebody who gets excited because a jet bomber flies over the football stadium to open the football season and is glad that he or she is in the stadium to see it, is being militarized. So militarization is not just about the question “do you think the military is the most important part of the state?” (although obviously that matters). It’s not just “do you think that the use of collective violence is the most effective way to solve social problems?”—which is also a part of militarization. But it’s also about ordinary, daily culture, certainly in the United States.

      As John Grenier notes, however, the cultural aspects of militarization are not new; they have deep historical roots, reaching into the nation’s British-colonial past and continuing through unrelenting wars of conquest and ethnic cleansing over three centuries.

      “Beyond its sheer military utility, Americans also found a use for the first way of war in the construction of an ‘American identity.’. . . [T]he enduring appeal of the romanticized myth of the ‘settlement’ (not the conquest) of the frontier, either by ‘actual’ men such as Robert Rogers or Daniel Boone or fictitious ones like Nathaniel Bumppo of James Fenimore Cooper’s creation, points to what D. H. Lawrence called the ‘myth of the essential white American.’”

      The astronomical number of firearms owned by U.S. civilians, with the Second Amendment as a sacred mandate, is also intricately related to militaristic culture. Everyday life and the culture in general are damaged by ramped-up militarization, and this includes academia, particularly the social sciences, with psychologists and anthropologists being recruited as advisors to the military. Anthropologist David H. Price, in his indispensable book Weaponizing Anthropology, remarks that “anthropology has always fed between the lines of war.” Anthropology was born of European and U.S. colonial wars. Price, like Enloe, sees an accelerated pace of militarization in the early twenty-first century: “Today’s weaponization of anthropology and other social sciences has been a long time coming, and post-9/11 America’s climate of fear coupled with reductions in traditional academic funding provided the conditions of a sort of perfect storm for the militarization of the discipline and the academy as a whole.”

      In their ten-part cable television documentary series and seven-hundred-page companion book The Untold History of the United States, filmmaker Oliver Stone and historian Peter Kuznick ask: “Why does our country have military bases in every region of the globe, totaling more than a thousand by some counts? Why does the United States spend as much money on its military as the rest of the world combined? Why does it still possess thousands of nuclear weapons, many on hair-trigger alert, even though no nation poses an imminent threat?” These are key questions. Stone and Kuznick condemn the situation but do not answer the questions. The authors see the post–World War II development of the United States into the world’s sole superpower as a sharp divergence from the founders’ original intent and historical development prior to the mid-twentieth century. They quote an Independence Day speech by President John Quincy Adams in which he condemned British colonialism and claimed that the United States “goes not abroad, in search of monsters to destroy.” Stone and Kuznick fail to mention that the United States at the time was invading, subjecting, colonizing, and removing the Indigenous farmers from their land, as it had since its founding and as it would through the nineteenth century. In ignoring that fundamental basis for US development as an imperialist power, they do not see that overseas empire was the logical outcome of the course the United States chose at its founding.

      North America is a Crime Scene

      Jodi Byrd writes: “The story of the new world is horror, the story of America a crime.” It is necessary, she argues, to start with the origin of the United States as a settler-state and its explicit intention to occupy the continent. These origins contain the historical seeds of genocide. Any true history of the United States must focus on what has happened to (and with) Indigenous peoples—and what still happens. It’s not just past colonialist actions but also “the continued colonization of American Indian nations, peoples, and lands” that allows the United States “to cast its imperialist gaze globally” with “what is essentially a settler colony’s national construction of itself as an ever more perfect multicultural, multiracial democracy,” while “the status of American Indians as sovereign nations colonized by the United States continues to haunt and inflect its raison d’etre.” Here Byrd quotes Lakota scholar Elizabeth Cook-Lynn, who spells out the connection between the “Indian wars” and the Iraq War:

      The current mission of the United States to become the center of political enlightenment to be taught to the rest of the world began with the Indian wars and has become the dangerous provocation of this nation’s historical intent. The historical connection between the Little Big Horn event and the “uprising” in Baghdad must become part of the political dialogue of America if the fiction of decolonization is to happen and the hoped for deconstruction of the colonial story is to come about.

      A “race to innocence” is what occurs when individuals assume that they are innocent of complicity in structures of domination and oppression. This concept captures the understandable assumption made by new immigrants or children of recent immigrants to any country. They cannot be responsible, they assume, for what occurred in their adopted country’s past. Neither are those who are already citizens guilty, even if they are descendants of slave owners, Indian killers, or Andrew Jackson himself. Yet, in a settler society that has not come to terms with its past, whatever historical trauma was entailed in settling the land affects the assumptions and behavior of living generations at any given time, including immigrants and the children of recent immigrants.

      In the United States the legacy of settler colonialism can be seen in the endless wars of aggression and occupations; the trillions spent on war machinery, military bases, and personnel instead of social services and quality public education; the gross profits of corporations, each of which has greater resources and funds than more than half the countries in the world yet pay minimal taxes and provide few jobs for US citizens; the repression of generation after generation of activists who seek to change the system; the incarceration of the poor, particularly descendants of enslaved Africans; the individualism, carefully inculcated, that on the one hand produces self-blame for personal failure and on the other exalts ruthless dog-eat-dog competition for possible success, even though it rarely results; and high rates of suicide, drug abuse, alcoholism, sexual violence against women and children, homelessness, dropping out of school, and gun violence.

      These are symptoms, and there are many more, of a deeply troubled society, and they are not new. The large and influential civil rights, student, labor, and women’s movements of the 1950s through the 1970s exposed the structural inequalities in the economy and the historical effects of more than two centuries of slavery and brutal genocidal wars waged against Indigenous peoples. For a time, US society verged on a process of truth seeking regarding past atrocities, making demands to end aggressive wars and to end poverty, witnessed by the huge peace movement of the 1970s and the War on Poverty, affirmative action, school busing, prison reform, women’s equity and reproductive rights, promotion of the arts and humanities, public media, the Indian Self-Determination Act, and many other initiatives.

      A more sophisticated version of the race to innocence that helps perpetuate settler colonialism began to develop in social movement theory in the 1990s, popularized in the work of Michael Hardt and Antonio Negri. Commonwealth, the third volume in a trilogy, is one of a number of books in an academic fad of the early twenty-first century seeking to revive the Medieval European concept of the commons as an aspiration for contemporary social movements. Most writings about the commons barely mention the fate of Indigenous peoples in relation to the call for all land to be shared. Two Canadian scholar-activists, Nandita Sharma and Cynthia Wright, for example, do not mince words in rejecting Native land claims and sovereignty, characterizing them as xenophobic elitism. They see Indigenous claims as “regressive neo-racism in light of the global diasporas arising from oppression around the world.”

      Cree scholar Lorraine Le Camp calls this kind of erasure of Indigenous peoples in North America “terranullism,” harking back to the characterization, under the Doctrine of Discovery, of purportedly vacant lands as terra nullis. This is a kind of no-fault history. From the theory of a liberated future of no borders and nations, of a vague commons for all, the theorists obliterate the present and presence of Indigenous nations struggling for their liberation from states of colonialism. Thereby, Indigenous rhetoric and programs for decolonization, nationhood, and sovereignty are, according to this project, rendered invalid and futile. From the Indigenous perspective, as Jodi Byrd writes, “any notion of the commons that speaks for and as indigenous as it advocates transforming indigenous governance or incorporating indigenous peoples into a multitude that might then reside on those lands forcibly taken from indigenous peoples does nothing to disrupt the genocidal and colonialist intent of the initial and now repeated historical process.”

      Excerpted from “An Indigenous Peoples’ History of the United States” by Roxanne Dunbar-Ortiz (Beacon Press, 2014). Copyright 2014 by Roxanne Dunbar-Ortiz. Reprinted with permission of the publisher. All rights reserved.

      By Roxanne Dunbar-Ortiz

    • Je trouve que c’est bien traduit ; en tous cas, agréable à lire. Le traducteur a aussi écrit l’introduction.

      Autre chose, qui n’a rien à voir avec la traduction... maintenant que j’y pense ; j’ai oublié de le mettre dans ma présentation : le seul reproche que je ferais c’est l’absence de cartes, à l’exception de la reproduction, à la fin de l’ouvrage, d’un document à peine lisible. Dommage cela aurait été bien utile.

    • pour ce qui est devenu le Québec, Marie-Christine Lévesque et Serge Bouchard, tombés en amour pour les Innus, décrivent dans Le peuple rieur, Hommage à mes amis innus (ethnographie qui ne propose pas une histoire d’ensemble), un bref moment de rapport plutôt égalitaire, à l’arrivée de Champlain, où l’établissement de comptoirs commerciaux isolés, rares, occasionne des échanges (traite des fourrures), et durant lequel les Innus sont admirés par les arrivants pour leurs capacités cynégétiques ainsi que leur manière de réussir à subsister sur un territoire que les arrivants voient comme principalement hostile. mais c’était avant qu’ils deviennent des ostie de sauvages.
      #peuples_premiers #nations_sans_état

    • Aussi, une #BD ...
      Une histoire populaire de l’empire américain

      Depuis le génocide des Indiens jusqu’à la guerre en Irak en passant par le développement d’un capitalisme financier globalisé, les États- Unis se sont constitués au fil des siècles comme un empire incontournable. Peu à peu, leur histoire est devenue mythologie, mais ce livre propose le récit d’une nation, un récit qui a réussi à changer le regard des Américains sur eux-mêmes.

      https://www.editions-delcourt.fr/bd/series/serie-une-histoire-populaire-de-l-empire-americian/album-une-histoire-populaire-de-l-empire-americian
      #bande-dessinée #histoire_populaire

      que j’avais signalé ici :
      https://seenthis.net/messages/784696

  • La Fabrique des Français. Histoire d’un peuple et d’une nation de 1870 à nos jours

    Aujourd’hui, un quart de la population française trouve ses racines à l’extérieur du territoire. De la IIIe République à nos jours, cette fiction documentaire en bande dessinée illustre la construction d’une #nation par le prisme de son immigration, de toutes les immigrations. Celle des Italiens, des Polonais, des Arméniens, des Russes, des Espagnols, des Portugais, des Algériens, des Maliens, des Cambodgiens... et de tous ceux venus y faire leur vie.
    En croisant enquête historique et contemporaine, les auteurs racontent la France « au pluriel » et la manière dont elle s’est construite depuis plus de 150 ans. Un document salutaire.

    https://www.futuropolis.fr/9782754828796/la-fabrique-des-francais.html

    https://www.youtube.com/watch?v=bv9-dUnYpb0


    #France #immigration #nationalisme #migrations #racisme #BD #bande-dessinée #BD #accordéon #Sébastien_Vassant

  • « L’État devra probablement stabiliser aussi cette nouvelle banque »

    Fleuron de la tradition bancaire suisse, Credit Suisse (CS) a fait naufrage après 167 ans d’existence : l’État a forcé #UBS à racheter sa rivale en perdition. Tobias Straumann, historien de l’économie, nous livre sa vision de la Suisse et des #banques, nous parle des illusions de la politique et répond à la question suivante : un petit pays comme la Suisse a-t-il vraiment encore besoin d’une grande banque internationale ?

    La Revue Suisse : Monsieur Straumann, la fin de l’histoire de CS est-elle une rupture ou un tournant pour la Suisse ?

    Tobias Straumann : Il s’agit tout au moins d’un événement. CS était la plus ancienne des grandes banques encore existantes. Mais sa #faillite ne représente pas un tournant majeur. De grandes banques ont déjà disparu dans les années 1990. La Suisse en possédait cinq il y a un peu plus de 30 ans, il n’en reste qu’une aujourd’hui. La crise financière mondiale de 2008, avec le sauvetage par l’État de la plus grande banque suisse, UBS, puis la disparition du #secret_bancaire pour la clientèle étrangère ont été des traumas bien plus importants.

    Sauvetage d’UBS, fusion contrainte de CS : en 15 ans, l’État a dû secourir à deux reprises des grandes banques en difficulté. Or, la Suisse est un pays qui met en avant les valeurs de l’économie de marché libre. N’est-ce pas paradoxal ?

    L’économie de marché est loin d’être parfaite en Suisse. Nous avons de nombreuses entreprises d’État ou pseudo-entreprises d’État et, dans le secteur bancaire, les banques cantonales, qui sont aussi des entreprises d’État. En outre, je pense que l’intervention de l’État dans les affaires des grandes banques n’est plus un tabou. Depuis les années 1990, la #vulnérabilité du système bancaire, hypermondialisé et hyperlibéralisé, est évidente. Il est devenu tout à fait normal que les #États interviennent régulièrement. Ils ne peuvent pas faire autrement, car sans cela, les grandes crises financières mondiales s’enchaîneraient. À l’étranger aussi, on attend de la Suisse qu’elle prévienne les incidents qui mettraient en péril tout le #système_bancaire.
    Après le sauvetage d’UBS, le Parlement a toutefois voulu éviter, à l’aide de la loi « #Too_big_to_fail », que l’État et les contribuables soient à nouveau confrontés à des #risques_financiers aussi importants. Peut-on parler d’un réveil politique brutal ?

    En tant qu’historien, je suis moins surpris que cela n’ait pas fonctionné. En cas de crise, on a besoin de plans simples. La réglementation « too big to fail » était trop complexe, immature et un peu irréaliste. Un cas comme celui-ci implique toujours l’aval politique d’autorités étrangères. Or, cela peut prendre du temps.

    Face aux marchés financiers mondialisés, que peut encore faire la capitale fédérale ?

    Plusieurs choses. L’État peut et doit agir énergiquement quand il s’agit de stabiliser des banques. Dans le cas d’UBS, il l’a très bien fait. La banque a été étatisée, partiellement et temporairement, et à la fin la Confédération y a même gagné quelque chose. Et UBS a adapté sa culture du risque. Dans le cas de CS, les autorités ont estimé qu’une fusion était plus sûre. L’avenir dira s’il s’agissait de la bonne solution.

    À qui ou à quoi est dû le naufrage de CS ?

    Au management et au conseil d’administration. CS était mal dirigé depuis des années. Mais les autorités aussi doivent répondre à des questions. Depuis octobre 2022, on savait que la banque était en difficulté. Or, il a fallu attendre mars pour qu’un plan de sauvetage voie le jour. Le tout a paru quelque peu improvisé, contrairement à ce qu’il s’était passé avec UBS. Cela m’a surpris. Nous n’en savons pas encore assez pour juger le comportement des autorités : la commission d’enquête parlementaire nous éclairera à ce sujet. Et CS devrait lui aussi faire sa part, spontanément, en livrant un rapport détaillé sur ce qui a capoté. Il le doit à la Suisse.

    Malgré les pertes et les scandales, CS distribuait des rémunérations et des bonus astronomiques. Certains banquiers semblent n’être plus guidés que par l’appât du gain, qui leur fait prendre tous les risques. Où est la banque entrepreneuriale d’autrefois, qui a fait avancer la Suisse ?

    CS a conservé un secteur entrepreneurial jusqu’à la fin. Dans le domaine des crédits accordés aux entreprises, il a fait du très bon travail. Il est vrai que les fondateurs de la banque autour d’Alfred Escher, au XIXe siècle, ont investi dans les infrastructures. Mais les activités ferroviaires étaient déjà risquées, elles aussi. CS a connu des débuts mouvementés, car les cours boursiers des sociétés de chemin de fer n’arrêtaient pas de fluctuer. Quand ça allait bien, les banquiers aussi gagnaient bien. Et quand ça allait mal, ils ne touchaient pas de bonus. Voilà la différence avec aujourd’hui. Les erreurs de CS sont dues à la cupidité, oui, mais surtout à l’incompétence du conseil d’administration et de la direction.

    En quoi étaient-ils incompétents ?

    À partir des années 1990, les grandes banques suisses se sont fortement internationalisées. Or, il est très difficile pour un management suisse de tenir bon sur les places financières de Londres et de New York. Les banquiers d’investissement anglo-saxons ont une tout autre mentalité, qui s’accorde mal avec la culture d’entreprise suisse. En outre, les grandes banques suisses plaçaient souvent des employés de seconde classe à Londres et à New York, qui se comportaient comme des mercenaires et ne pensaient qu’à se faire un maximum d’argent en peu de temps.

    UBS a racheté CS en juin : la banque géante qu’elle est désormais est-elle viable ?

    Elle est plus petite que ne l’était UBS avant la crise financière, et elle réduira certainement encore un peu sa voilure. Mais il est vrai qu’elle reste immense, puisque que la somme de son bilan atteint le double du produit intérieur brut (PIB) suisse. Je ne sais pas si elle est viable. Il est très probable qu’elle aussi connaisse un jour des difficultés et que l’État doive intervenir. Et l’on peut d’ores et déjà affirmer qu’introduire des règles plus strictes n’y changera rien.

    Pourtant, certains politiques exigent actuellement des réglementations plus strictes pour les banques d’importance systémique.

    Il serait bon d’exiger un peu plus de réserves, c’est-à-dire une plus grande part de fonds propres. Mais même ainsi, UBS ne sera pas à l’abri, il faut le savoir. Le système financier mondial est très vulnérable. CS était en mauvaise posture, mais pas tant que cela. Il respectait tous les chiffres clés de l’Autorité de surveillance des marchés financiers. Il suffit qu’un incident se produise quelque part, et la contagion commence. Les États ne peuvent ni prédire, ni empêcher une crise financière, seulement l’endiguer à temps pour éviter des conséquences catastrophiques. Il est toutefois difficile de déterminer le bon moment pour intervenir.

    Face à de tels risques, ce petit pays qu’est la Suisse peut-il encore se permettre d’avoir une grande banque active sur le plan international ?

    Avoir sur sa place financière une grande banque qui propose tous les services a des avantages. Si UBS, par volonté politique, devait à présent se défaire de ses secteurs internationaux problématiques, ou déplacer son siège, elle perdrait ces avantages. Mais elle gagnerait en stabilité. Des filiales étrangères pourraient se charger de certaines opérations, comme c’est le cas pour la compagnie aérienne Swiss, qui appartient à la société allemande Lufthansa. Cela pourrait fonctionner. Même la disparition du secret bancaire ne nous a pas fait de tort. Zurich ne s’est pas appauvri, bien au contraire.

    La place financière internationale suisse a-t-elle été importante pour la prospérité du pays ?

    Son importance économique est surestimée. La Suisse est devenue une place financière internationale durant la Première Guerre mondiale, mais en 1914, juste avant la guerre, elle était déjà le pays le plus riche du continent européen pour ce qui est du PIB par habitant. Et ce, surtout grâce à son industrie, qui était très dynamique et qui a fait sa prospérité au XIXe et au XXe siècles, et jusqu’à ce jour. La place financière est née après l’industrialisation et s’est dotée, avec la gestion de fortune, d’une nouvelle source de revenus très florissante. Pour l’économie nationale, cela a toujours eu des avantages et des inconvénients.

    Quels ont été les inconvénients ?

    Les salaires élevés du secteur bancaire ont attiré de nombreux travailleurs qualifiés, qui ont manqué à d’autres secteurs plus innovants. À présent, sans l’appel d’air du secteur bancaire, il y a de nouveau plus de place pour d’autres branches et innovations. Zurich a beaucoup de succès dans le secteur des assurances, qui est plus prévisible et plus stable. Je trouve qu’il convient bien mieux à la mentalité suisse.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/letat-devra-probablement-stabiliser-aussi-cette-nouvelle-banque

    #banque #Suisse #Credit_Suisse #finance #Etat #sauvetage

  • Première vague de licenciements chez Credit Suisse, 200 postes de banquiers d’affaires biffés RTS - ats/vajo

    Credit Suisse a procédé à une première vague de licenciements et 200 banquiers d’affaires ont perdu leur emploi. Ces suppressions d’emplois sont intervenues au niveau mondial, dans la banque d’investissement et l’unité du marché des capitaux, a rapporté mercredi le portail Financial News.

    Les licenciements touchent tous les étages de direction dans la banque d’investissement et la plupart des équipes de branche. Les réductions concernent particulièrement le domaine des marchés des actions.

    Selon le portail Financial News, la vague de licenciements a débuté le 31 juillet. Deux nouvelles vagues doivent intervenir en septembre et en octobre.

    Tant Credit Suisse qu’UBS étaient inatteignables mardi soir pour un commentaire.

    Fermeture de la succursale d’Houston
    Mercredi matin, Bloomberg avait annoncé la fermeture de la succursale d’Houston de la banque aux deux voiles. Avec la reprise par UBS, la banque d’investissement de Credit Suisse va être fortement réduite. En raison d’investissements risqués, elle avait causé des pertes à hauteur du milliard ces dernières années.

    Au niveau mondial, la fusion des deux grandes banques devrait, selon divers articles de presse, entraîner la suppression de 30’000 à 35’000 emplois. Fin 2022, les deux établissements employaient au total 120’000 collaborateurs. Entre-temps, plusieurs milliers ont quitté le navire.

    #licenciements #économie #capitalisme #banques #banquiers #finance #crise #austérité #credit_suisse #Suisse

    Source : https://www.rts.ch/info/economie/14217088-premiere-vague-de-licenciements-chez-credit-suisse-200-postes-de-banqui

  • La #géographie, c’est de droite ?

    En pleine torpeur estivale, les géographes #Aurélien_Delpirou et #Martin_Vanier publient une tribune dans Le Monde pour rappeler à l’ordre #Thomas_Piketty. Sur son blog, celui-ci aurait commis de coupables approximations dans un billet sur les inégalités territoriales. Hypothèse : la querelle de chiffres soulève surtout la question du rôle des sciences sociales. (Manouk Borzakian)

    Il y a des noms qu’il ne faut pas prononcer à la légère, comme Beetlejuice. Plus dangereux encore, l’usage des mots espace, spatialité et territoire : les dégainer dans le cyberespace public nécessite de soigneusement peser le pour et le contre. Au risque de voir surgir, tel un esprit maléfique réveillé par mégarde dans une vieille maison hantée, pour les plus chanceux un tweet ironique ou, pour les âmes maudites, une tribune dans Libération ou Le Monde signée Michel Lussault et/ou Jacques Lévy, gardiens du temple de la vraie géographie qui pense et se pense.

    Inconscient de ces dangers, Thomas Piketty s’est fendu, le 11 juillet, d’un billet de blog sur les #inégalités_territoriales (https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2023/07/11/la-france-et-ses-fractures-territoriales). L’économiste médiatique y défend deux idées. Premièrement, les inégalités territoriales se sont creusées en #France depuis une génération, phénomène paradoxalement (?) renforcé par les mécanismes de #redistribution. Deuxièmement, les #banlieues qui s’embrasent depuis la mort de Nahel Merzouk ont beaucoup en commun avec les #petites_villes et #villages souffrant de #relégation_sociospatiale – même si les défis à relever varient selon les contextes. De ces deux prémisses découle une conclusion importante : il incombe à la #gauche de rassembler politiquement ces deux ensembles, dont les raisons objectives de s’allier l’emportent sur les différences.

    À l’appui de son raisonnement, le fondateur de l’École d’économie de Paris apporte quelques données macroéconomiques : le PIB par habitant à l’échelle départementale, les prix de l’immobilier à l’échelle des communes et, au niveau communal encore, le revenu moyen. C’est un peu court, mais c’est un billet de blog de quelques centaines de mots, pas une thèse de doctorat.

    Sus aux #amalgames

    Quelques jours après la publication de ce billet, Le Monde publie une tribune assassine signée Aurélien Delpirou et Martin Vanier, respectivement Maître de conférences et Professeur à l’École d’urbanisme de Paris – et membre, pour le second, d’ACADIE, cabinet de conseil qui se propose d’« écrire les territoires » et de « dessiner la chose publique ». Point important, les deux géographes n’attaquent pas leur collègue économiste, au nom de leur expertise disciplinaire, sur sa supposée ignorance des questions territoriales. Ils lui reprochent le manque de rigueur de sa démonstration.

    Principale faiblesse dénoncée, les #données, trop superficielles, ne permettraient pas de conclusions claires ni assurées. Voire, elles mèneraient à des contresens. 1) Thomas Piketty s’arrête sur les valeurs extrêmes – les plus riches et les plus pauvres – et ignore les cas intermédiaires. 2) Il mélange inégalités productives (le #PIB) et sociales (le #revenu). 3) Il ne propose pas de comparaison internationale, occultant que la France est « l’un des pays de l’OCDE où les contrastes régionaux sont le moins prononcés » (si c’est pire ailleurs, c’est que ce n’est pas si mal chez nous).

    Plus grave, les géographes accusent l’économiste de pratiquer des amalgames hâtifs, sa « vue d’avion » effaçant les subtilités et la diversité des #inégalités_sociospatiales. Il s’agit, c’est le principal angle d’attaque, de disqualifier le propos de #Piketty au nom de la #complexité du réel. Et d’affirmer : les choses sont moins simples qu’il n’y paraît, les exceptions abondent et toute tentative de catégoriser le réel flirte avec la #simplification abusive.

    La droite applaudit bruyamment, par le biais de ses brigades de twittos partageant l’article à tour de bras et annonçant l’exécution scientifique de l’économiste star. Mais alors, la géographie serait-elle de droite ? Étudier l’espace serait-il gage de tendances réactionnaires, comme l’ont laissé entendre plusieurs générations d’historiens et, moins directement mais sans pitié, un sociologue célèbre et lui aussi très médiatisé ?

    Pensée bourgeoise et pensée critique

    D’abord, on comprend les deux géographes redresseurs de torts. Il y a mille et une raisons, à commencer par le mode de fonctionnement de la télévision (format, durée des débats, modalité de sélection des personnalités invitées sur les plateaux, etc.), de clouer au pilori les scientifiques surmédiatisés, qui donnent à qui veut l’entendre leur avis sur tout et n’importe quoi, sans se soucier de sortir de leur champ de compétence. On pourrait même imaginer une mesure de salubrité publique : à partir d’un certain nombre de passages à la télévision, disons trois par an, tout économiste, philosophe, politologue ou autre spécialiste des sciences cognitives devrait se soumettre à une cérémonie publique de passage au goudron et aux plumes pour expier son attitude narcissique et, partant, en contradiction flagrante avec les règles de base de la production scientifique.

    Mais cette charge contre le texte de Thomas Piketty – au-delà d’un débat chiffré impossible à trancher ici – donne surtout le sentiment de relever d’une certaine vision de la #recherche. Aurélien Delpirou et Martin Vanier invoquent la rigueur intellectuelle – indispensable, aucun doute, même si la tentation est grande de les accuser de couper les cheveux en quatre – pour reléguer les #sciences_sociales à leur supposée #neutralité. Géographes, économistes ou sociologues seraient là pour fournir des données, éventuellement quelques théories, le cas échéant pour prodiguer des conseils techniques à la puissance publique. Mais, au nom de leur nécessaire neutralité, pas pour intervenir dans le débat politique – au sens où la politique ne se résume pas à des choix stratégiques, d’aménagement par exemple.

    Cette posture ne va pas de soi. En 1937, #Max_Horkheimer propose, dans un article clé, une distinction entre « #théorie_traditionnelle » et « #théorie_critique ». Le fondateur, avec #Theodor_Adorno, de l’#École_de_Francfort, y récuse l’idée cartésienne d’une science sociale détachée de son contexte et fermée sur elle-même. Contre cette « fausse conscience » du « savant bourgeois de l’ère libérale », le philosophe allemand défend une science sociale « critique », c’est-à-dire un outil au service de la transformation sociale et de l’émancipation humaine. L’une et l’autre passent par la #critique de l’ordre établi, dont il faut sans cesse rappeler la contingence : d’autres formes de société, guidées par la #raison, sont souhaitables et possibles.

    Quarante ans plus tard, #David_Harvey adopte une posture similaire. Lors d’une conférence donnée en 1978 – Nicolas Vieillecazes l’évoque dans sa préface à Géographie de la domination –, le géographe britannique se démarque de la géographie « bourgeoise ». Il reproche à cette dernière de ne pas relier les parties (les cas particuliers étudiés) au tout (le fonctionnement de la société capitaliste) ; et de nier que la position sociohistorique d’un chercheur ou d’une chercheuse informe inévitablement sa pensée, nécessitant un effort constant d’auto-questionnement. Ouf, ce n’est donc pas la géographie qui est de droite, pas plus que la chimie ou la pétanque.

    Neutralité vs #objectivité

    Il y a un pas, qu’on ne franchira pas, avant de voir en Thomas Piketty un héritier de l’École de Francfort. Mais son texte a le mérite d’assumer l’entrelacement du scientifique – tenter de mesurer les inégalités et objectiver leur potentielle creusement – et du politique – relever collectivement le défi de ces injustices, en particulier sur le plan de la #stratégie_politique.

    S’il est évident que la discussion sur les bonnes et les mauvaises manières de mesurer les #inégalités, territoriales ou autres, doit avoir lieu en confrontant des données aussi fines et rigoureuses que possible, ce n’est pas manquer d’objectivité que de revendiquer un agenda politique. On peut même, avec Boaventura de Sousa Santos, opposer neutralité et objectivité. Le sociologue portugais, pour des raisons proches de celles d’Horkheimer, voit dans la neutralité en sciences sociales une #illusion – une illusion dangereuse, car être conscient de ses biais éventuels reste le seul moyen de les limiter. Mais cela n’empêche en rien l’objectivité, c’est-à-dire l’application scrupuleuse de #méthodes_scientifiques à un objet de recherche – dans le recueil des données, leur traitement et leur interprétation.

    En reprochant à Thomas Piketty sa #superficialité, en parlant d’un débat pris « en otage », en dénonçant une prétendue « bien-pensance de l’indignation », Aurélien Delpirou et Martin Vanier désignent l’arbre de la #rigueur_intellectuelle pour ne pas voir la forêt des problèmes – socioéconomiques, mais aussi urbanistiques – menant à l’embrasement de banlieues cumulant relégation et stigmatisation depuis un demi-siècle. Ils figent la pensée, en font une matière inerte dans laquelle pourront piocher quelques technocrates pour justifier leurs décisions, tout au plus.

    Qu’ils le veuillent ou non – et c’est certainement à leur corps défendant – c’est bien la frange réactionnaire de la twittosphère, en lutte contre le « socialisme », le « wokisme » et la « culture de l’excuse », qui se repait de leur mise au point.

    https://blogs.mediapart.fr/geographies-en-mouvement/blog/010823/la-geographie-cest-de-droite

  • La #frontière bretonne

    Et si la #Loire-Atlantique réintégrait la Bretagne ? Depuis des décennies, la question rythme la vie politique, économique et culturelle de la péninsule. Alors que les militants d’une Bretagne à cinq départements bataillent pour un référendum local, les journalistes Philippe Créhange et Benjamin Keltz ont enquêté sur l’histoire tortueuse de la #réunification de la #Bretagne. 

    Depuis un décret signé par le maréchal Pétain sous l’Occupation, les frontières de la région n’intègrent pas la Loire-Atlantique. Un #découpage qui perdure. Pourquoi ? Comment ? Cette enquête, dessinée par Eudes, rassemble les pièces de ce puzzle armoricain et vous embarque dans les coulisses du plus sensible des débats bretons.

    https://www.editionsducoindelarue.com/product-page/la-fronti%C3%A8re-bretonne
    #Bretagne #frontières #livre #BD #bande-dessinée #géographie_politique

  • Noble House, film d’après le roman de James Clavell
    https://www.youtube.com/watch?v=L7gAAG-S3x0

    C’est une belle histoire sur l"impérialisme et la création de ses structures pour exploiter le monde. A mi-mots la série télévisée parle de la HongKong and Shanghai Bank qui est toujours vonnue comme partenaire pour toute sorte de #racket douteux.

    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Noble_House_(miniseries)

    Deborah Raffin as Casey Tcholok
    Ben Masters as Linc Bartlett
    John Rhys-Davies as Quillan Gornt
    Julia Nickson as Orlanda Ramos
    Khigh Dhiegh as “Four Finger” Wu
    Gordon Jackson as Supt. Robert Armstrong
    Burt Kwouk as Phillip Chen
    Nancy Kwan as Claudia Chen
    John van Dreelen as Jacques DeVille
    Ping Wu as Paul Choy
    Lim Kay Tong as Brian Kwok
    Lisa Lu as Ah-Tam
    Damien Thomas as Lando Mata
    Dudley Sutton as Commissioner Roger Crosse
    Ric Young as Tsu-Yan
    Tia Carrere as Venus Poon
    Steven Vincent Leigh as John Chen
    Irene Tsu as Dianne Chen
    John Houseman as Sir Geoffrey Allison
    Denholm Elliott as Alastair Struan
    Harris Laskawy as Charles Biltzmann
    Leon Lissek as Christian Toxe
    Keith Bonnard as Tip Tok-Toh
    Edward Petherbridge as Jason Plumm
    Bennett Ohta as Richard Kwang
    Brian Fong as “Goodweather” Poon
    Helen Funai as Mrs. Kwang
    David Shaughnessy as Dr. Dorn
    John Fujioka as “Baldhead” Kin
    Richard Durden as Paul Havergill
    David Henry as Bruce Johnjohn
    George Innes as Alexi Travkin
    Choy-Ling Man as Mary Li
    Pip Miller as Inspector John Smyth
    Michael Siberry as Linbar Struan
    Duncan Preston as Richard Pugmire
    Vincent Wong as Lim Chu
    Galen Yuen as “Smallpox” Kin
    Nicholas Pryor as Seymour Steigler

    #Chine #Royaume_Uni #impérialisme #banques #Hong_Kong

  • Bercy veut récupérer 2,5 milliards d’euros de trésorerie auprès des opérateurs de l’Etat, dont les Agences de l’eau !

    Le 30 mars dernier Emmanuel Macron promettait 475 millions d’euros aux Agences de l’eau. Première duperie, il s’agissait en fait d’augmenter les redevances payées par les usagers du service public de l’eau potable. Le 24 juillet, dans un rapport intitulé « Évaluation de la qualité de l’action publique », l’Inspection générale des finances suggère à l’Etat de ponctionner la trésorerie « excédentaire » des opérateurs du ministère de l’Ecologie (dont les Agences de l’eau), de la Recherche, de la Culture, de Pole Emploi, le tout pour « rétablir l’équilibre des finances publiques », sacrifiant au mantra sacro-saint des 3% de déficit budgétaire imposé par la Commission européenne.

    Ce sont les mêmes qui gaspillent des milliards dans les « innovations de rupture » censées nous projeter vers l’avenir radieux du techno-solutionnisme, innovations et financement qui profitent d’abord à leurs petits copains entrepreneurs et startupeurs bien en cours, à Bercy et ailleurs…

    Lire la suite :

    http://www.eauxglacees.com/Bercy-veut-recuperer-2-4-milliards?var_mode=calcul

    • Mais en fait, si tu y penses, c’est ça l’entourloupe de la « sécurité sociale de l’alimentation » : tu mutualises la pénurie (ou l’inflation mais c’est presque pareil) et tu fais raquer le quidam. L’état fait main basse sur les bénéfices (appelés pour la cause « excédents de trésorerie ») et les reverse en dispendieux émoluments aux cabinets de conseil.

  • Fabio de Masi zum Wirecard-Skandal : Der Schatten des Jan Marsalek (Teil 1)
    https://www.berliner-zeitung.de/wirtschaft-verantwortung/fabio-de-masi-zum-wirecard-skandal-der-schatten-des-jan-marsalek-te

    Dans l’affaire Wirecard rien n’est comme on nous le fait croire et on ne sait pas grand chose finalement. Fabio di Masi est l’homme qui en sait tout ce qu’on peut savoir si on me fait pas partie des acteurs et intéressés. Voici son compte rendu.

    20.7.2023 von Fabio De Masi - Vor drei Jahren entpuppte sich der deutsche Zahlungsdienstleister Wirecard AG als großes Geldwäsche- und Betrugssystem. Der Wirecard-Manager Jan Marsalek, der sich mit Geheimdiensten umgab, ist seither untergetaucht.

    Doch es drängt sich der Eindruck auf, dass deutsche Behörden kein Interesse an seiner Auslieferung haben, meint unser Kolumnist Fabio De Masi, der sich als erster Bundestagsabgeordneter bereits vor der Insolvenz kritisch mit Wirecard befasste.

    Er steht auf der Fahndungsliste von Interpol und war bei „Aktenzeichen XY... Ungelöst“ im ZDF zu sehen. Am Münchener Flughafen hing sein Fahndungsplakat gleich an der Passkontrolle. Politik und Sicherheitsbehörden vollziehen das Kunststück, fieberhafte Suche nach einem Mann vorzutäuschen, den sie auf gar keinen Fall in Deutschland wiederhaben wollen: Jan Marsalek, den früheren Chief Operating Officer und Asien-Vorstand des Zahlungsdienstleisters Wirecard AG, der im Zuge der Wirecard-Milliardenpleite vor drei Jahren am 19. Juni 2020 unbehelligt Deutschland verließ.

    Jan Marsalek ist eine schillernde Figur: Er ist ein Enkel von Hans Marsalek, eines antifaschistischen Widerstandskämpfers und KZ-Überlebenden, der nach dem Krieg in Österreich Polizist wurde. Jan Marsalek brach hingegen die Schule ab, lernte Programmieren, stieg früh zum Vorstand eines späteren DAX-Konzerns auf und umgab sich mit Geheimdiensten aus Ost und West.

    Marsalek – ein Strohmann der Nachrichtendienste?

    Ich bin mittlerweile überzeugt: Jan Marsalek war ein Strohmann – auch unserer Sicherheitsbehörden. Er bahnte Zahlungsprojekte im Umfeld von Staaten an, die als geopolitische Rivalen des Westens galten, wie Russland, oder von enormer sicherheitspolitischer Bedeutung waren, wie Saudi-Arabien. Die frühere Bundeskanzlerin Angela Merkel lobbyierte gar für Wirecard persönlich bei Staatspräsident Xi Jinping, dem mächtigsten Mann der Weltmacht China, obwohl sie zuvor wegen der kritischen Medienberichte über Wirecard einen Termin mit dem CEO Markus Braun absagen ließ. Der jetzige Bundeskanzler Olaf Scholz hatte zuvor im Rahmen des deutsch-chinesischen Finanzdialogs erreicht, dass Wirecard der erste ausländische Zahlungsanbieter werden sollte, der über eine grenzüberschreitende Zahlungslizenz für China verfügte.

    Das Interesse von Politik und Sicherheitsbehörden an Wirecard war die Lebensversicherung von Jan Marsalek auf diesem kriminellen Pulverfass. Ich habe gemeinsam mit Journalisten aus Deutschland und Österreich auch noch nach meinem Ausscheiden aus der Politik zahlreiche Verbindungen des Marsalek-Netzwerkes in die kritische Sicherheitsinfrastruktur der Bundesrepublik Deutschland offengelegt. Aber im Bundestag und auch in weiten Teilen der Medien wurde darüber der Mantel des Schweigens gelegt. Vorbei die Zeiten, als man es mit nahezu jeder Schlagzeile über Wirecard in die Abendnachrichten schaffte und sich als knallharter Aufklärer feiern lassen konnte. Im Ukraine-Krieg vergeht kein Tag, an dem sich die Politik nicht für Härte gegen Russland brüstet. Aber ausgerechnet die zahlreichen Verbindungen von Netzwerken um Jan Marsalek mit Russland-Bezug, die etwa für die deutsche Cybersicherheit zuständig waren oder Millionen-Aufträge von der Bundeswehr erhalten, scheinen niemanden zu stören.

    Bis heute behaupten deutsche Sicherheitsbehörden gar, sie hätten nicht gewusst, wer Jan Marsalek war. Dies ist eine schlechte Lüge. Die Nachrichtendienste bedienen sich dabei eines Taschenspielertricks. Ihre Kontaktpersonen zu Marsalek waren unter anderem ehemalige Offizielle aus den Sicherheitsbehörden. Da diese keine offizielle Rolle in den Nachrichtendiensten spielen, aber sowohl mit der Arbeitsweise vertraut als auch loyal sind, behaupten unsere Geheimdienste, es habe keine offiziellen Kontakte gegeben.
    Wirecards trüber Teich und die Geheimdienste

    Dass Marsalek und Wirecard zahlreiche Verbindungen zu Personen aus der Welt der Nachrichtendienste unterhielten, ist belegt. Ein paar Beispiele:

    Der Bundesnachrichtendienst (BND) nutzte Kreditkarten von Wirecard. Einmal forderte Marsalek die gesamten Kundendaten von Wirecard mit der Begründung an, der BND wolle diese nutzen. Der BND dementiert jedoch, dass es eine solche Anforderung gegeben habe.

    Der ehemalige deutsche Geheimdienstkoordinator der Bundesregierung, Klaus-Dieter Fritsche (CSU), beriet mit Zustimmung des Bundeskanzleramtes Wirecard sowie den früheren österreichischen Verfassungsschutz (BVT) während des BVT-Skandals rund um russische Einflussnahme auf den österreichischen Geheimdienst. Zwei Schlüsselfiguren in diesem Skandal, die österreichischen Agenten Martin W. und Egisto O., waren eng mit Marsalek verbunden. W. hatte gar ein Büro in Marsaleks Villa, beiden wurde von Staatsanwälten vorgeworfen, bei der Flucht von Marsalek geholfen zu haben.

    Wirecard: Ließ Marsalek deutsche Politiker ausspionieren?

    Der frühere deutsche Geheimdienstkoordinator Bernd Schmidbauer (CDU) sprang beiden Agenten immer wieder öffentlich zur Seite. Er suchte Marsalek auch auf, nachdem dieser 2018, nach dem Anschlag auf den ehemaligen russischen Geheimagenten Sergei Skripal, mit streng vertraulichen Unterlagen der Organisation für das Verbot von Chemiewaffen vor britischen Investoren herumgewedelt haben soll. In dem Dokument sei eine Verbindung Russlands zu dem Anschlag bestritten worden und es soll die Formel für das Nervengift Nowitschok enthalten gewesen sein. Dies rief vermutlich die britischen Dienste auf den Plan. Schmidbauer diskutierte mit Marsalek die Reform der Nachrichtendienste. Ein ungewöhnliches Interessengebiet für einen DAX-Vorstand und einen Pensionär. Schmidbauer behauptet auch, sich mit einem „Ehemaligen“ aus den Sicherheitsbehörden ausgetauscht zu haben und öfter heikle Missionen zu übernehmen.

    Marsalek interessierte sich für Cyberspionage und Überwachungstechnologie. Er tummelte sich im Umfeld der Münchner Sicherheitskonferenz auf einem „Policy Innovation Forum“ des deutschen Tech-Milliardärs Christian Angermayer, bei dem Jens Spahn (CDU) und Donald Trumps Ex-Botschafter Richard Grenell auftraten. Auf der Sicherheitskonferenz muss man eine Sicherheitsprüfung durchlaufen.

    Marsalek war zudem mit einem früheren CDU-Politiker und Auto-Manager verabredet, dem Vorsitzenden des Supervisory Boards der Beratungsfirma Agora Strategy, die vom ehemaligen Präsidenten der Münchner Sicherheitskonferenz, dem Ex-Staatssekretär und Diplomaten Wolfgang Ischinger, gegründet wurde. Denn Marsalek strebte auch nach dem Mord am saudischen Oppositionellen Jamal Kashoggi Geschäfte zur Zahlungsabwicklung in Saudi-Arabien an und brauchte dazu Kontakte, etwa zum saudischen Blutprinzen. Über Agora Strategy sollen im Umfeld der Münchner Sicherheitskonferenz etwa Rüstungsunternehmen und Diktaturen mit Geldzahlungen zusammengebracht werden, wie der Spiegel berichtete. So konnten diskret Deals eingefädelt werden. Später sollte etwa ebenfalls der Spiegel berichten, dass die bayerische Rüstungsfirma Hensoldt AG, trotz Waffenembargos und Beteiligung des Bundes an dem Rüstungskonzern, den saudischen Geheimdienst belieferte. Marsalek soll Interesse gehabt haben, für die futuristische Megacity Neom, die das saudische Königshaus mit seinen Petrodollars in der Wüste errichten will, die Zahlungsinfrastruktur aufzusetzen. Deutsche Sicherheitsbehörden hätten sicher keine Einwände gehabt, über Marsalek trotz des Embargos einen Fuß in der Tür zu Saudi-Arabien zu behalten und Einblick in die Finanzflüsse zu bekommen. Die Bundesregierung verfolgt seit dem Ukraine-Krieg wieder eine Annäherung an das Regime. Scholz besuchte kürzlich Saudi-Arabien. Mit dabei im Regierungsflieger: eine Firma, die sich um Zahlungstechnologie kümmert und mit Wirecard eine sogenannte Flüchtlingskarte aufsetzen wollte.

    Der frühere Wirecard-Manager Burkard Ley, der bis heute nicht strafrechtlich belangt wird, obwohl er eine zentrale Figur im Betrugssystem von Wirecard war, half dem Ex-Geheimdienstkoordinator Fritsche wiederum, einem französischen Investor den Einstieg bei der deutschen Waffenschmiede Heckler & Koch zu ermöglichen. Dies erforderte, eine komplizierte Struktur aus Briefkastenfirmen aufzusetzen, da das Unternehmen zur kritischen Infrastruktur zählte und die Genehmigung unter Vorbehalt der Bundesregierung stand.. Die Bundesregierung winkte den Deal durch.

    Marsalek soll auch für hochrangige konservative Beamte aus dem österreichischen Verteidigungs- und Innenministerium Pläne zum Aufbau einer Miliz zur Flüchtlingsabwehr mit der russischen Söldnertruppe Wagner in Libyen verfolgt haben. Die westliche Militärintervention hatte das Land endgültig ins Chaos gestürzt, und der innenpolitische Streit um die Flüchtlingskrise tobte, was Sebastian Kurz (ÖVP) in Österreich an die Macht brachte. Marsalek und der österreichische Vizekanzler der ÖVP verfolgten das Projekt eben jener zuvor erwähnten digitalen Flüchtlingskarte, die es in den bayerischen Koalitionsvertrag schaffte. Marsalek wurde direkt über diese Beratungen informiert. Die Liste ließe sich fortsetzen.
    Die Rolle des Online-Glückspiels

    Wirecard entstand aus der Verschmelzung von EBS und Wire Card. Das Unternehmen wurde mit der Abwicklung von Zahlungen für Online-Glücksspiel und -Pornos zur Jahrtausendwende groß. Das Bezahlen im Internet steckte noch in den Kinderschuhen. Internet war Neuland, es war langsam und hing an der Telefonbuchse. Es gab noch kein Amazon und keine Smartphones.

    Doch das Internet war auch Wilder Westen. Das Unternehmen lenkte Nutzer ohne ihr Wissen beim Aufruf von pornografischen Inhalten über sogenannte Dialer auf 0190-Nummern um. Diese schnellere Überholspur auf der Datenautobahn mündete in horrenden Telefonrechnungen, die neugierige Teenager oder beschämte Ehepartner häufig zahlten, bis Verbraucherschützer einschritten. Die Zahlungsabwicklung war jedoch mit hohen Rechtsrisiken verbunden, da wohl auch Zahlungen für Inhalte aus dem Bereich des Kindesmissbrauchs abgewickelt wurden.

    Online-Glücksspiel wurde in den USA gegen Ende der Amtszeit von George W. Bush mit dem „Unlawful Internet Gambling Online Act“ scharf sanktioniert. Es galt als Geldwäschemagnet für organisierte Kriminalität und Terrorfinanzierung, da sich Umsätze leicht manipulieren lassen, aber auch als Spielwiese für Geheimdienste, die hierüber schmutzige Zahlungsflüsse verfolgten und dubiose Geschäftsleute anwarben.

    Wirecard: Weiß Olaf Scholz etwa, wo Jan Marsalek steckt?

    So tummelten sich etwa der frühere Chef des Verfassungsschutzes Hans-Georg Maaßen sowie Ex-BND-Chef August Hanning im Umfeld einer Schweizer Firmengruppe, Pluteos AG bzw. der dazugehörigen System 360 Deutschland, wie Hans-Martin Tillack einst im Stern berichtete. Pluteos bezeichnet sich als „private intelligence agency“ und System 360 als „Unternehmensberatung im Bereich wirtschaftskrimineller Handlungen“. Der Gründer des Sportwettenanbieters Tipico, gegen dessen Franchisenehmer immer wieder wegen Geldwäsche der organisierten Kriminalität ermittelt wurde, soll wiederum über eine Firma erhebliche Anteile an System 360 halten. Hanning gehörte zudem mit dem ehemaligen Nato-Chef Anders Fogh Rasmussen dem Aufsichtsrat einer lettischen Bank an, die sich zunächst im Eigentum eines russischen Tycoons befand. Ein Whistleblower soll gegenüber der lettischen Staatspolizei vor kriminellen Netzwerken innerhalb der Bank gewarnt haben. Später schritten die Europäische Zentralbank (EZB) und die lettische Bankenaufsicht ein und der Geschäftsbetrieb der Bank wurde untersagt. Hanning drohte die Pfändung einer Immobilie, von Firmenanteilen und von Teilen seiner Pension. Er überschrieb dann Firmenanteile seiner Familie und auch Grundvermögen an seine Ehefrau, um die Pfändung abzuwenden, wie zumindest die Zeitung Welt mutmaßte.

    Wirecard unter Druck

    Dem Management des britischen Zahlungsabwicklers Neteller drohten wegen der Verschärfung der Gesetze gegen Zahlungsabwicklung für Online-Glücksspiel in den USA etliche Jahre Haft, und das Unternehmen zog sich letztlich aus dem amerikanischen Markt zurück. Zudem gab es immer mehr Gratis-Pornos im Netz. Wirecards Geschäftsmodell kam so unter Druck, da die USA ein wichtiger Markt des Unternehmens waren. Teilweise soll sich der Wirecard-Vorstand aus Furcht vor Strafverfolgung nicht getraut haben, in die USA einzureisen.

    Wirecard verkaufte sich fortan als ein Unternehmen, das vom Schmuddelkind der New Economy zum Tech-Wunder gereift sei und sich neu erfunden habe. Die Umsätze und Gewinne des Unternehmens wuchsen unbeeindruckt jedes Jahr, wie mit dem Lineal gezogen. Doch 2015 stellten die USA ein Rechtshilfeersuchen gegen die Wirecard-Tochter Click2Pay, die Zahlungen für Online-Poker in den USA abwickelte, und es kam zu einer Razzia der Staatsanwaltschaft München. Jan Marsalek wurde als Beschuldigter geführt.

    Nationale Sicherheit: Eine unbequeme Wahrheit kommt ans Licht

    Dann kam Donald Trump an die Macht. Jan Marsalek suchte Hilfe bei einem ehemaligen CIA-Beamten, der Trump nahestand. Die Ermittlungen gegen Wirecard wurden im intensiven Dialog mit US-Behörden eingestellt, und Wirecard bekam kurze Zeit später sogar den Zuschlag für das Prepaidkarten-Geschäft der CitiGo der USA und ermöglichte die Aufladung der Karten mit hohen Summen. Prepaidkarten gelten als zentrales Werkzeug der organisierten Kriminalität zur Verschleierung von Geldflüssen. Die Kommunikation mit dem CIA-Beamten deutet auf einen Deal mit den US-Behörden hin. Ließ man Wirecard gewähren und konnte im Gegenzug die Geldflüsse von Kriminellen und Terroristen verfolgen?

    Später haben sich dann zwei frühere CDU-Ministerpräsidenten, Ole von Beust und Peter Harry Carstensen, für Wirecard und die Liberalisierung des Online-Glücksspiels in Deutschland engagiert. Wirecard sollte zentraler Zahlungsabwickler nach der Liberalisierung des Glücksspiels in Deutschland werden. Es kam zu Treffen mit dem hessischen Ministerpräsidenten Volker Bouffier und dem EU-Kommissar Guenther Oettinger, der eine mutmaßliche Schlüsselfigur der italienischen Mafia einst als Freund bezeichnete. Auch der Kontakt zum Ministerpräsidenten Baden-Württembergs Winfried Kretschmann war angestrebt. Es war eine schwarz-grüne Achse, die sich letztlich für die Liberalisierung des Online-Glückspiels engagierte.

    Fabio De Masi zum Wirecard-Skandal : Der Schatten des Jan Marsalek (Teil 2)
    https://www.berliner-zeitung.de/wirtschaft-verantwortung/wirecard/fabio-de-masi-zum-wirecard-skandal-der-schatten-des-jan-marsalek-te

    19.6.2023 von Fabio De Masi - Vor drei Jahren entpuppte sich der deutsche Zahlungsdienstleister Wirecard AG als großes Geldwäsche- und Betrugssystem. Der Wirecard-Manager Jan Marsalek, der sich mit Geheimdiensten umgab, ist seither untergetaucht. Doch es drängt sich der Eindruck auf, dass deutsche Behörden kein Interesse an seiner Auslieferung haben, meint unser Kolumnist Fabio De Masi, der sich als erster Bundestagsabgeordneter bereits vor der Insolvenz kritisch mit Wirecard befasste. Den ersten Teil des Artikels können Sie hier lesen.

    Marsalek und die Staatsanwaltschaft

    Die Staatsanwaltschaft München und Jan Marsalek sind ein eigenes Kapitel. So leitete die Staatsanwaltschaft ein sogenanntes Leerverkaufsverbot (Leerverkäufe sind Wetten auf sinkende Aktienkurse) für Aktien der Wirecard AG bei der Finanzaufsicht BaFin ein, um angebliche Marktmanipulation durch angelsächsische Spekulanten abzuwehren. Es war das erste Leerverkaufsverbot zugunsten eines einzelnen Unternehmens in der Geschichte der Bundesrepublik. Grundlage war eine wilde Story, wonach die Nachrichtenagentur Bloomberg Wirecard um sechs Millionen Euro erpressen wolle und sonst angeblich drohte mit der Financial Times in die kritische Berichterstattung einzusteigen. Kronzeuge für dieses Märchen war ein britischer Drogendealer. Präsentiert hat die Geschichte jener Jan Marsalek, der zuvor Beschuldigter im Rechthilfeersuchen der USA war. Gleichzeitig erstattete die Finanzaufsicht bei der Staatsanwaltschaft Strafanzeige gegen den Journalisten der Financial Times Dan McCrum, der frühzeitig auf Ungereimtheiten von Wirecard in Singapur hingewiesen hatte. Ihm wurde vorgeworfen mit Leerverkäufern unter einer Decke zu stecken. Erst 2020 wurden die Ermittlungen eingestellt, nachdem der damalige Präsident der Finanzaufsicht Felix Hufeld diese auf dem Wirtschaftsgipfel der Süddeutschen Zeitung noch gegenüber mir verteidigt hatte, und damit für einen Eklat sorgte.

    Im Frühjahr 2020 war auch eine Razzia in der Wohnung von Marsalek erfolgt. Da angeblich zu wenig Polizeikräfte verfügbar waren, konnte man nicht alle wichtigen Beweismittel sichern. Am 16. Juni 2020 informierte die Finanzaufsicht die Staatsanwaltschaft, dass vermeintliche Bankbelege über die Existenz von 1,9 Milliarden Euro Guthaben auf Treuhandkonten in den Philippinen gefälscht waren, nachdem bereits die Sonderprüfer von KPMG bemängelt hatten, dass die Existenz der Guthaben und somit ein Drittel der Bilanzsumme des Dax-Konzerns nicht nachgewiesen werden konnten.

    Dies war der unmittelbare Verantwortungsbereich von Asien-Vorstand und Chief Operating Officer Jan Marsalek. Die Staatsanwaltschaft ließ jedoch Jan Marsalek in aller Ruhe mit Unterstützung der ehemaligen österreichischen BVT-Agenten und eines FPÖ-Abgeordneten ausreisen. Die Staatsanwaltschaft wartete sogar mit einem internationalen Haftbefehl, bis Marsalek zu einem mit seinem Anwalt vereinbarten Termin in München nicht erschien, da dieser versicherte, Marsalek wolle das Geld auf den Philippinen „suchen“.

    Auf meine Frage, warum die Staatsanwaltschaft Marsalek nicht sofort nach der Information der BaFin über die nicht vorhandenen Treuhandguthaben einbestellte (wohlgemerkt nach einer bereits erfolgten Razzia), entgegnete die Staatsanwältin im Untersuchungsausschuss des Deutschen Bundestages, das hätte ja ohnehin nichts gebracht, da die Postzustellung in München so langsam sei und Marsalek wäre ja dann eh schon weg gewesen.

    Abgesehen davon, dass die Staatsanwältin gar nicht gewusst haben konnte, dass Marsalek vorhatte, drei Tage später zu fliehen, und es daher keinen Sinn macht, mit dieser Begründung auf eine Vorladung oder Verhaftung zu verzichten, reichte es wenige Tage später offenbar für eine Red-Notice-Fahndung bei Interpol. Ausgerechnet die Tonbandaufzeichnung der denkwürdigen Vernehmung der Staatsanwältin im Deutschen Bundestag sollte später aufgrund eines technischen Fehlers nicht funktioniert haben. Die Untätigkeit der Staatsanwaltschaft war aber eine der vielen „Zufälle“ und „glücklichen Fügungen“, die es ermöglichten, die Ermittlungen gegen die Fluchthelfer von Marsalek vom österreichischen Verfassungsschutz einzustellen, da zum Zeitpunkt der Ausreise des Österreichers noch kein Haftbefehl bestand.

    Die rechte Hand von Marsalek, Henry O’Sullivan, wurde derweil in Singapur verhaftet. Bis heute hat die Staatsanwaltschaft laut der Behörden in Singapur keinen Antrag auf Rechtshilfe gestellt, um O’Sullivan vernehmen zu dürfen. Auch gegen weitere Beschuldigte wie den früheren Geschäftspartner von Marsalek, bei dessen privatem Beteiligungsfonds IMS Capital, den früheren Tui-Manager Aleksandr Vucak, oder den früheren Finanzvorstand Burkhard Ley, der für den Wahlkampf von Christian Lindner spendete und eine Schlüsselfigur war, wurde bis heute nach meiner Kenntnis keine Anklage erhoben.

    Nach meinem freiwilligen Ausscheiden aus dem Deutschen Bundestag musste ich auf eigene Rechnung weiter von der Seitenlinie ermitteln. Eine kleine Auswahl der Dinge, die ich insbesondere mit dem Nachrichtenmagazin Der Spiegel, Thomas Steinmann von Capital sowie Ben Weiser von Österreichs Online-Magazin ZackZack durch Detailarbeit und Quellen erhärten konnte:

    Marsalek und die Cybersecurity Deutschlands

    Die österreichischen Agenten und Fluchthelfer von Marsalek tauschten sich laut einem Vernehmungsprotokoll der Wiener Staatsanwaltschaft und beschlagnahmter Kommunikation auch mit dem ehemaligen Geheimdienstkoordinator der Bundesregierung, Bernd Schmidbauer, über mich aus. Dies wurde mir bereits während des Untersuchungsausschusses im Bundestag bekannt. Schmidbauer tauchte sowohl im BVT-Skandal als Fürsprecher von Marsaleks Agenten, bei einer Geiselbefreiung des BVT in Libyen sowie im Umfeld von einer Firma auf, die Überwachsungssoftware vertreibt, die laut Europäischem Parlament auch gegen Oppositionspolitiker in der EU eingesetzt wurde.

    In dem Vernehmungsprotokoll taucht auch ein Mann auf, der dort vom Fluchthelfer als Geschäftspartner von Jan Marsalek bezeichnet wurde. Es ist Nicolaus von Rintelen, der damalige Gesellschafter der Cybersecurity-Firma Virtual Solution, die sich früher damit brüstete, das Kanzlerhandy sowie die E-Mails der Bundesregierung und wichtiger Bundesbehörden (darunter die Finanzaufsicht und zeitweilig auch das Bundeskriminalamt) auf mobilen Geräten abzusichern.

    Von Rintelen, ein Nachfahre des russischen Nationaldichters Alexander Puschkin und des Zaren Alexander II., verdiente sein Vermögen mit dem russischen Gas-Oligarchen Leonid Michelson. Als ich Olaf Scholz und Angela Merkel im Untersuchungsausschuss persönlich darauf hinwies, dass ihre E-Mails durch einen Mann gesichert werden, der offenbar Kontakt mit Jan Marsalek unterhielt, meldete sich Scholz’ Staatssekretär, der heutige Kanzleramtsminister Wolfgang Schmidt, bei mir. Er bat um Belege für meine Informationen und behauptete, „Olaf ist sehr besorgt!“.

    Später kam heraus, dass Schmidt den intensivsten Kontakt mit von Rintelen innerhalb der Bundesregierung pflegte, obwohl er für IT-Fragen nicht zuständig war. Die Kommunikation von Schmidt und von Rintelen wurde nach parlamentarischen Anfragen zwar mit exakten Daten benannt, aber offenbar rechtswidrig gelöscht. Ebenso konnten wir Kommunikation nachweisen, aus der hervorging, dass von Rintelen Verbindungen zum Fluchthelfer von Marsalek sowie einem FPÖ-Abgeordneten unterhielt, der im BVT-Skandal eine Rolle spielte. Er war in Marsaleks Villa und hat sich nach unseren Recherchen von seinen Anteilen an Virtual Solutions getrennt. Ebenso engagierte sich von Rintelen für eine Firma, die während der Corona-Krise Schnelltests herstellen wollte und in die IMS Capital investiert war. Dies ist eine Firma, über die Marsalek private Investments getätigt haben soll.

    Marsalek und der General

    Der ehemalige militärpolitische Berater der Bundeskanzlerin, Brigadegeneral a.D. Erich Vad, hat an einem Essen mit Jan Marsalek, dem ehemaligen österreichischen Kanzler Wolfgang Schüssel (ÖVP), dem ehemaligen bayerischen Ministerpräsidenten Edmund Stoiber (CSU) und Frankreichs Ex-Präsidenten Nicolas Sarkozy teilgenommen. Das Thema war unter anderem Libyen. Das Land spielte damals eine Schlüsselrolle in der Flüchtlingskrise und war von großer wirtschaftlicher Bedeutung für Österreich, deren Mineralölkonzern OMV mit Libyens Ex-Präsidenten Gaddafi stabile Geschäfte machte. Wie Schmidbauer und Teile des österreichischen Verfassungsschutzes war auch Vad gegenüber den Regime-Change-Interventionen des Westens in Libyen (zu Recht) kritisch eingestellt und strebte mehr strategische Autonomie von den USA an. Die Flüchtlingskrise sorgte das konservative Establishment, da Kräfte wie die AfD und die FPÖ profitierten. Auch Vad war ein Kritiker der Flüchtlingspolitik von Angela Merkel.

    Vad hat mich kontaktiert und mir das dubiose Angebot unterbreitet, in den Beirat eines österreichischen Milliardärs und Immobilienunternehmers zu gehen. Es handelte sich um Cevdet Caner. Er gilt als graue Eminenz hinter der Adler-Gruppe. Wollte Vad mich einkaufen oder diskreditieren? Natürlich lehnte ich ab. Später erfuhr ich: Gegen exakt dieses Unternehmen wettete der britische Leerverkäufer, der zuvor gegen Wirecard gewettet hatte. Es wäre daher denkbar, dass hinter dem Konflikt um Wirecard auch ein Wirtschaftskrieg von Nachrichtendiensten stand, die immer wieder über Informationshändler Informationen an Medien oder Spekulanten ausspielen. Denn genau diese Erzählung – Wirecard sei ein unbescholtenes deutsches Unternehmen und Opfer angelsächsischer Spekulanten – ließ das Unternehmen und die deutsche Finanzaufsicht beim Leerverkaufsverbot verbreiten. Natürlich war Wirecard eine kriminelle Bude, aber wahrscheinlich auch Teil eines Informationskrieges. Immer wieder fällt in meinen Gesprächen mit deutschen Führungskräften aus Banken der Vorwurf, es handle sich etwa bei Ermittlungen der US-Börsenaufsicht gegen Deutsche Bank und Co wegen Russlandgeschäften um einen Wirtschaftskrieg.

    Mit einer einfachen Internetrecherche fand ich innerhalb von einer Minute heraus, dass der russische Konsul in München, mit dem Marsalek verkehrte, vor seiner Abordnung nach Deutschland vom österreichischen Innenministerium der Spionage bezichtigt wurde. Gegenüber Die Welt, die darüber berichtete, entgegneten Sicherheitsbehörden, sie hätten davon keine Kenntnisse gehabt. Das ist unglaubwürdig.
    Marsalek und die Bundeswehr

    Kürzlich enthüllte Thomas Steinmann von Capital in Zusammenarbeit mit mir, wie die Bundeswehr einen Millionenauftrag an eine Firma vergab, die einem österreichischen IT-Unternehmer und früheren Geschäftspartner von Marsalek gehörte. Dieser hatte mit Marsalek etwa in Russland Projekte verfolgt und sich mit ihm zur elektronischen Überwachung von Flüchtlingsströmen in Libyen ausgetauscht. Die Auftragsvergabe – offiziell für die Analyse von Krisenszenarien für die Bundeswehr – erfolgte nicht unter Einhaltung der vorgeschriebenen Bekanntmachung in der EU-Datenbank. Aufträge des österreichischen Staatsschutzes (der Nachfolgebehörde des BVT) für diese Firmen beziehungsweise den Personenkreis führten zu empörten Reaktionen des deutschen Geheimdienstkontrolleurs Konstantin von Notz und einer großen Veröffentlichung des Bayerischen Rundfunks. Im Falle des Bundeswehr-Auftrages für die Firma eines Marsalek-Geschäftspartners schweigt der Bundestag jedoch. Auch in den Medien gab es keine größere Resonanz.

    Der Wirecard-Skandal und die Figur Jan Marsalek mögen ein komplizierter Kriminalfall sein. Aber im Kern ist es recht einfach: Die Behauptung, die deutschen Sicherheitsbehörden hätten gar nicht gewusst, wer Marsalek war, muss als Lüge verbucht werden. Und wenn Sicherheitsbehörden den Untersuchungsausschuss des Deutschen Bundestages anlogen, muss es dafür wichtige Gründe geben. Eines ist dabei sicher: Es gibt offenbar kein Interesse, dass Jan Marsalek nach Deutschland zurückkehrt und aussagt. Denn er hütet viele dunkle Geheimnisse.

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