• Chi si oppone a una nuova grande diga tra Veneto e Trentino per irrigare la pianura

    Il torrente #Vanoi che scorre in #Val_Cortella è minacciato da un progetto di sbarramento alto 116 metri dai costi ambientali ed economici elevatissimi. La Giunta Zaia parla di “difesa idraulica” e “tesaurizzazione idrica” mentre le comunità locali sono state escluse e l’area è segnata da smottamenti e frane. Le alternative esistono.

    L’incontro con Daniele Gubert è nei pressi del lago Schenèr, al confine tra Veneto e Trentino. Gubert fa parte del “Comitato per la difesa del torrente Vanoi e delle acque dolci” nato nel 1998 per scongiurare la costruzione di uno sbarramento del corso d’acqua che scorre in Val Cortella. “Non pensavo di dover tornare a lottare per il Vanoi”, racconta, ricordando le battaglie di vent’anni fa.

    In #Primiero, nel Trentino orientale, il settore idroelettrico ha già alterato profondamente l’assetto idrografico di vari torrenti, tant’è che si possono contare ben quattro bacini artificiali, realizzati da inizio Novecento, nell’arco di poche decine di chilometri quadrati.

    Dal lago ci si sposta a piedi fino al torrente Vanoi per visitare il sito in cui è prevista la costruzione di un’ulteriore diga, ad appena un chilometro in linea d’aria dallo sbarramento già esistente sullo #Schenèr. Nonostante la valle sia difficilmente accessibile, i tentativi per raggiungerla vengono ricompensati dalla bellezza che caratterizza la natura selvaggia dell’intero letto fluviale. “È uno dei pochi posti in Trentino dove la trota marmorata, specie endemica e in via di estinzione, riesce a riprodursi”, spiega Gubert, aggiungendo che per deporre le uova il pesce deve risalire il fiume per diversi chilometri. A confermare la rilevanza ecologica della valle sono due siti Rete natura 2000, di grande importanza per la presenza di boschi di abete bianco, in regressione su tutta la catena alpina, e di specie animali in forte diminuzione.

    Alto 116 metri, lo sbarramento poggerebbe a destra nella parte più settentrionale di Lamon, Comune bellunese, mentre la maggior parte dell’invaso (da 40 milioni di metri cubi di volume), ricadrebbe in Trentino. “Se il progetto venisse realizzato segnerebbe il territorio, e le relative opportunità turistiche, in modo irreparabile -continua Gubert-. La narrativa dominante associa il concetto di rinnovabile al settore idroelettrico, ma dovremmo parlare piuttosto di prassi usa e getta delle valli alpine, poiché i bacini esistenti sono pieni di sedimenti, molti risalenti all’alluvione del 1966, e invece di ripulirli e fare le opportune manutenzioni se ne progettano di nuovi”.

    Considerato e archiviato a più riprese fin dagli anni Venti del secolo scorso, a fine 2020 la Giunta regionale del Veneto guidata da #Luca_Zaia inserisce nel Piano regionale per la ripresa e la resilienza il progetto “Difesa idraulica e tesaurizzazione idrica tramite il nuovo serbatoio del Vanoi nel bacino del fiume Brenta”, motivando l’opera come necessaria per la difesa idraulica nelle province di Vicenza e Padova. Nel 2022 viene concesso un milione di euro, con fondi ministeriali, al Consorzio di bonifica del Brenta per l’esecuzione della progettazione e, poco dopo, il Consiglio regionale approva la realizzazione della diga. A maggio dell’anno successivo, la Provincia autonoma di Trento lamenta il mancato coinvolgimento nelle operazioni che hanno portato all’affidamento dell’opera e ricorda che, secondo la Carta di sintesi della pericolosità di Trento, l’area dove dovrebbe sorgere l’invaso è classificata con il massimo grado di rischio idrogeologico.

    Di quest’ultimo punto è facile rendersene conto: i fianchi della valle mostrano numerosi smottamenti e frane, che hanno reso addirittura impraticabile la strada della Cortella. Alfonso Tollardo, geologo intervenuto in occasione di un incontro pubblico organizzato a Lamon dal Partito democratico “Belluno Dolomiti” a inizio febbraio, e dedicato al progetto della diga sul Vanoi, ha dichiarato che, sebbene non ci siano le stesse condizioni geologiche del disastro del Vajont del 1963, c’è comunque la possibilità che del materiale franoso cada, con conseguente rischio per la diga e le comunità a valle. Il geologo ha descritto, inoltre, il grande impatto che avrà la costruzione dell’opera (per la quale sono previsti 24mila metri cubi di calcestruzzo, ovvero decine di migliaia di camion carichi di materiale che causerebbero non pochi disagi alla viabilità locale basata su un’unica via d’accesso) e il suo cantiere, per il quale si costruiranno ponti, gallerie, strade e terrazzamenti. In poche parole, il versante orografico destro verrebbe devastato.

    “A maggio del 2023 il presidente della Regione Veneto Zaia ha trasmesso l’elenco degli interventi di urgente realizzazione per il contrasto alla scarsità idrica al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Tra questi anche quello della diga sul Vanoi, con una richiesta di finanziamento pari a 150 milioni di euro -ricorda da Belluno Alessandro Del Bianco, segretario provinciale del Partito democratico-. Abbiamo raccolto migliaia di firme e presentato un ordine del giorno ai consigli comunali e a quello provinciale contro l’invaso, oltre che una nuova mozione in consiglio regionale e un’interrogazione in Parlamento per chiedere la sospensione del finanziamento al progetto. Molte amministrazioni comunali si sono pronunciate contro, come anche le Province di Belluno e di Trento”. “Di questa faccenda contestiamo l’assenza di trasparenza”, dice riferendosi al diniego ricevuto dalla Provincia autonoma di Trento di accesso agli atti relativi all’assegnazione della progettazione al Consorzio di bonifica Brenta. “L’Autorità nazionale anticorruzione ha sollevato una serie di perplessità sull’affidamento della progettazione”, avverte il segretario parlando, inoltre, di una strumentalizzazione della questione climatica per giustificare l’urgenza del progetto.

    E a proposito di urgenza, in occasione di Fieragricola 2024, il commissario straordinario per la crisi idrica, Nicola dell’Acqua, ha dichiarato che se un territorio ne ha la necessità, si devono realizzare anche le dighe. “Affermazione perentoria e autoreferenziale quella del commissario, per altro organo tecnico amministrativo privo di legittimazione democratica, che fa intendere, attraverso parametri fattuali di necessità e urgenza, la determinazione di disconoscere e rimuovere buone ragioni di dissenso e unitarie azioni di opposizioni delle comunità territoriali contro alcuni interventi strutturali anacronistici e insostenibili”, commenta Valter Bonan, ex presidente del Parco nazionale dolomiti bellunesi. “Questo approccio anomalo e centralistico è messo in pratica dal Decreto legge n. 39 del 2023, o Decreto siccità, che presenta evidenti torsioni di quasi una decina di articoli costituzionali e un pericoloso utilizzo dei poteri sostitutivi dello Stato rispetto alle competenze istituzionali decentrate e al diritto fondamentale di partecipazione dei cittadini nel governo dei beni comuni”.

    Eppure di alternative alla diga ce ne sarebbero, come le aree forestali di infiltrazione che facilitano la ricarica degli acquiferi tramite sistemi costituiti da apposite scoline e specie vegetali. Questa soluzione è stata suggerita da Arturo Lorenzoni, docente di Economia dell’energia presso l’Università di Padova, sempre in occasione dell’incontro informativo del 4 febbraio, dove ha spiegato come per il cambiamento climatico le precipitazioni siano sempre più concentrate e facciano fatica a penetrare nel suolo, da qua la necessità di aumentarne la permeabilità. Almeno di quel poco che ne rimane, considerato che il Veneto è la seconda Regione in Italia per consumo di suolo.

    “Con la realizzazione della diga sul Vanoi si rischia di scatenare un’inedita guerra, tra ricchi, per l’acqua -conclude Daniele Gubert-. L’acqua è di tutti e, in Trentino come in Veneto, vanno adottate misure per risparmiarla e alternative sostenibili prima di invocare la grande opera”.

    https://altreconomia.it/chi-si-oppone-a-una-nuova-grande-diga-tra-veneto-e-trentino-per-irrigar


    https://www.agenziagiornalisticaopinione.it/lettere-al-direttore/comitato-difesa-torrente-vanoi-opere-la-val-cortella-e-

    #Italie #Alpes #montagne #résistance #barrage_hydro-électrique #eau #barrages

    • 1-12-1923 La tragedia del Gleno

      Et sèntit Piero chèl chè i völ fa
      Zó sóta ól Glé, chèi de Milà,
      I fa öna diga sura ól nòst có,
      Prègóm chè ö dé la ègnès mìa zö. [1]

      Zitti bifolchi stolti e ignoranti,
      Diamo valore ai nostri monti,
      Siamo il futuro, la nuova età,
      Noi vi doniamo la civiltà.

      Notèr n’laura, n’sè mìa dutur,
      N’và in miniera, n’fà i muradur,
      Ma n’sa chè ö mür con póc cèmènt
      èl vé zó co l’àiva, el vé zó cón niènt. [2]

      Che ne sapete, voi manovali,
      Scienza e opinione non sono uguali,
      Non si va a naso, qui c’è un progetto,
      C’è l’ingegnere, c’è l’architetto.

      Piero l’ghè piö, mé ma sènte mal,
      L’è n’sèma a tacé n’fónt a la àl,
      La diga la sé rumpida nèl mès,
      L’ha portat vià i paés zó nèl Dès. [3]

      Dove rombò la morte implacabile
      S’alza l’augurio di giovinezza,
      Segn’ di rivincita, simbol di lotta,
      Pugna perenne tra uomo e natura.

      Isè ghè scrìt söl so giornàl,
      I fa i poeti, i töl pèr ól cöl,
      I fa i sò afàré, i fa le magagne,
      Dopo la culpa l’è dè lé montagne. [4]

      Desideriamo, vostra maestà,
      Una chiesetta dove pregar
      Per i nostri morti ed insegnar
      Ai figli a piangere e non a odiar.

      N’gà ché i morcc amò de sótrà,
      E stó preòst èl völ pèrdunà,
      Ghè n’pé piö öna ca, ghè zó piö una sésa,
      E lü l’domanda i sólcc pèr la césa. [5]

      Chiedete troppo, scrive l’impresa,
      Voi non potete aver la pretesa
      Di noi ridurre miseri e tristi
      Siate sensati, non egoisti.

      Zó a Dès ìa cèntvotantòtt,
      I paisà, nè rèstàt òt,
      Dét a la àl gh’è sichsènto morcc,
      E lur è lé ché i cönta amò i sólcc. [6]

      Non ci fu dolo, non ci fu offesa,
      Dice il collegio della difesa,
      A far cadere muri e pilastri
      Fu un attentato degli anarchisti.

      Có l’aria che tira èl saltèra fò
      Chè la culpa l’è nòsta sè l’è gnìda zó,
      él sarà bél sè stó procés
      I ghè l’fa mìa a chèi dèl Dès. [7]

      Zitti: la legge è uguale per tutti,
      Darem giustizia ai vostri lutti.
      Sei sono assolti, ma due condannati
      A ben tre anni, ma due condonati.

      Zitti: la legge per tutti e uguale,
      E tratta il ricco come il manovale
      E la condanna a nessuno fa torto,
      Un dì di pena per ogni morto.

      Zitti: la legge per tutti e uguale,
      E tratta il ricco come il manovale
      E la condanna a nessuno fa torto,
      Un dì di pena -quasi- per ogni morto.

      https://www.youtube.com/watch?v=PC_p5AtHTqo&t=52s

      –—

      Le 1er décembre 1923 à 6 h 30, un contrefort de l’une des voûtes se fissure et cède, entraînant la rupture des voûtes voisines. En quelques minutes, les 4 500 000 m3 du réservoir3 se déversent dans la vallée en contrebas, noyant totalement ou en partie les villages de #Bueggio, #Dezzo et #Corna_di_Darfo ainsi que la vallée jusqu’au lac d’Iseo, tuant au total 356 personnes4,2.

      L’analyse du #barrage révèle que sa #rupture est due à un défaut de construction lié à l’emploi d’un #ciment de mauvaise qualité, à l’intégration dans les fondations d’un mur anti-grenade de la Première Guerre mondiale, à un mauvais ancrage des fondations dans le substrat rocheux3 et à un remplissage trop rapide du réservoir alors que le ciment n’était pas suffisamment durci et n’avait pas encore atteint sa résistance mécanique complète.

      Une autre hypothèse est celle d’un attentat visant à endommager le barrage qui aurait eu des effets bien plus dévastateurs que prévu du fait de cette mauvaise construction5.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Barrage_du_Gleno
      #Gleno #tragédie #histoire #Italie #1_décembre_1923 #chanson #musique #musique_et_politique #Andrea_Polini #barrage_hydroélectrique #histoire #catastrophe

      voir aussi :
      https://seenthis.net/messages/1042729

  • Topli Do: dalla resistenza la rinascita di un villaggio
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Topli-Do-dalla-resistenza-la-rinascita-di-un-villaggio-224417

    L’unica ricchezza di Topli Do, villaggio in via di spopolamento tra i boschi della Stara Planina, in Serbia, sono i suoi torrenti impetuosi. Quando nel 2019 una centralina idroelettrica stava per portarglieli via, i pochi abitanti rimasti non hanno esitato a erigere delle barricate. Da allora il villaggio vive un’insperata rinascita

  • “Berta Soy Yo”: il film sulle lotte di #Berta_Cáceres e sull’Honduras degli ultimi 13 anni

    Intervista a #Katia_Lara, regista del documentario sulla leader indigena assassinata nel Paese nel marzo 2016 per la sua battaglia contro un progetto idroelettrico che avrebbe devastato il #Río_Blanco. Uno sguardo sulla fine della democrazia. L’opera è uscita in estate e ha riscosso successo nonostante i tentativi di boicottarla

    https://altreconomia.it/berta-soy-yo-il-film-sulle-lotte-di-berta-caceres-e-sullhonduras-degli-
    #film #Honduras #documentaire #film_documentaire #résistance #assassinat #barrage_hydroélectrique #peuples_autochtones #eau #électricité

    • #Maradia_Tsaava : #Water_Has_No_Borders

      Since the end of the civil war in the early 1990s, the region of Abkhazia has been acting independently of Georgia. This has turned a massive dam into a border. But the hydroelectric power station also connects the two political entities: Because over a distance of fifteen kilometres the water flows freely, underground, from one side to the other. When a young journalist gets stranded here, stories of division emerge.

      On the way back from a reportage trip to the dam, director Maradia and her cameraman’s car breaks down. Ika takes care of them. For decades, the joyous engineer has worked – in cooperation with his colleagues on the Abkhazian territory – on the maintenance of the plant. Maradia, representative of a whole generation of Georgians who know this place of longing on the Black Sea only from stories, becomes curious. But while the workers take the bus across the border every morning, the film crew is thwarted by bureaucracy. Time and again they are denied passage. This turns out to be fortunate for the film, because waiting for the permission, in the cafeteria of the dam, in driving around the river, the stories of people emerge whose lives are shaped by the secession. They talk of legal and clandestine border crossings, weddings and funerals and of life in the here and there. (Written by Marie Kloos, taken from the website of DOKLeipzig).

      http://www.filmkommentaren.dk/blog/blogpost/4972
      #barrages_hydroélectriques #électricité #Géorgie #Abkhazie #eau #barrage_hydroélectrique #Mer_Noire #frontières
      #film #film_documentaire #documentaire
      ping @visionscarto

  • Une personne de plus morte aux frontières de l’europe

    Le 2 janvier dernier, le prénom de #Zakaria s’est ajouté à cette liste déjà trop longue d’hommes et de femmes décédées ou disparues dans le Briançonnais en essayant de se rendre en France.

    Zakaria a été retrouvé mort dans les #Alpes, aux alentours de #Modane. Il avait 31 ans et était d’origine Marocaine. Il a certainement traversé la frontière franco-italienne à plus de 2000m d’altitude, de nuit, sous-équipé face à la neige ou les températures qui avoisinent régulièrement -10°C. Cette personne a payé les conséquences de la chasse à l’homme menée jour et nuit par la Police aux frontières, la Gendarmerie nationale et les militaires de l’opération Sentinelle dans cette région, traquant et refoulant des personnes, parfois des familles entières, venues demander l’asile en Europe. Cette militarisation morbide de la frontière pousse les exilé.es à s’aventurer toujours plus loin des sentiers praticables et à prendre des risques toujours plus grands.

    Quelques-lignes dans la presse locale, un appel à témoin de la gendarmerie de Modane sur twitter : Zakaria est mort dans l’indifférence la plus totale. Sa famille attend toujours le rapatriement de son corps, conservé à des fins d’enquête.

    https://cric-grenoble.info/infos-locales/article/une-personne-de-plus-assassinee-aux-frontieres-de-l-europe-2285

    #décès #mort #frontière_sud-alpine #migrations #asile #réfugiés #montagne #Freney #barrage_du_Freney #Fatallah

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    Ajouté au fil de discussion sur les morts à la frontière des Hautes-Alpes :
    https://seenthis.net/messages/800822

    lui-même ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières alpines :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Une personne de plus retrouvée morte près de la frontière franco-italienne

      #Fathallah_Belafhail, alias Zakaria, un nom qui s’ajoute à la longue liste des personnes tuées par le régime des frontières européennes. Son corps a été retrouvé le 2 janvier près de Modane, dans le bassin du Freney, après qu’il ait traversé une frontière de plus au péril de sa vie. Chaque jour des personnes meurent aux frontières, en mer, dans les forêts, les montagnes, dans une invisibilité quasi totale.

      https://blogs.mediapart.fr/clementine-seraut/blog/110122/une-personne-de-plus-retrouvee-morte-pres-de-la-frontiere-franco-ita

    • #Fathallah_Balafhail, 31 anni, è stato trovato morto il 2 gennaio 2022 al Barrage del Freney non lontano da Modane dopo aver cercato di varcare a piedi le Alpi. Veniva dal Marocco, anche lui aveva tentato il giro più lungo passando dalla Turchia e aveva attraversato i Balcani. Aveva vissuto per un certo tempo a Crescentino, paese vicino a Vercelli, poi la partenza, due tentativi falliti di arrivare in Francia, passando da Ventimiglia, e infine l’arrivo in Valle di Susa. L’ultimo suo messaggio alla famiglia risale alle 23.54 dalla stazione di Oulx. Forse aveva trovato un passeur per arrivare dall’altro lato del confine con una macchina. Il tentativo non è coronato da successo e forse matura lì la scelta del cammino in montagna, un percorso lungo e pericoloso, già sperimentato in anni passati e in seguito abbandonato per gli evidenti rischi. Rimane un buco di tre giorni prima del ritrovamento del cadavere. Molti particolari rimangono oscuri e inquietanti. I parenti non hanno avuto accesso ai risultati dell’autopsia. Anche il rimpatrio in Marocco è avvenuto frettolosamente senza attenzione alcuna alla sensibilità della famiglia e ai rituali funerari del paese d’origine. Si rimane invisibili anche dopo la morte. Poche righe su un giornale locale francese hanno liquidato il caso. Nonostante la presenza ricorrente di giornalisti in Alta Valle di Susa, il fatto è rimasto sotto silenzio.

      https://openmigration.org/analisi/ritorno-sulla-rotta-alpina-dove-il-confine-continua-a-uccidere

    • Si ritorna a morire alla frontiera Nord Ovest delle Alpi

      Oulx,4 febbraio 2022 – #Fathallah_Balafhail, 31 anni, è stato trovato morto il 2 gennaio 2022 al Barrage del Freney non lontano da Modane dopo aver cercato di varcare a piedi le Alpi. Veniva dal Marocco, anche lui aveva tentato il giro più lungo passando dalla Turchia e aveva attraversato i Balcani. Aveva vissuto per un certo tempo a Crescentino, paese vicino a Vercelli, poi la partenza, due tentativi falliti di arrivare in Francia, passando da Ventimiglia, e infine l’arrivo in Valle di Susa. L’ultimo suo messaggio alla famiglia risale alle 23.54 dalla stazione di Oulx. Forse aveva trovato un passeur per arrivare dall’altro lato del confine con una macchina. Il tentativo non è coronato da successo e forse matura lì la scelta del cammino in montagna, un percorso lungo e pericoloso, già sperimentato in anni passati e in seguito abbandonato per gli evidenti rischi. Rimane un buco di tre giorni prima del ritrovamento del cadavere. Molti particolari rimangono oscuri e inquietanti. I parenti non hanno avuto accesso ai risultati dell’autopsia. Anche il rimpatrio in Marocco è avvenuto frettolosamente senza attenzione alcuna alla sensibilità della famiglia e ai rituali funerari del paese d’origine. Si rimane invisibili anche dopo la morte. Poche righe su un giornale locale francese hanno liquidato il caso. Nonostante la presenza ricorrente di giornalisti in Alta Valle di Susa, il fatto è rimasto sotto silenzio.

      Ullah Rezwan Sheyzad, 15 anni, afgano: come molti aveva lasciato la sua terra prima della frettolosa ritirata occidentale. Anche per lui, bambino, c’è un cammino lungo che lo porta ad attraversare l’Iran, la Turchia e da lì la scelta, perlopiù effettuata dai giovani che viaggiano soli, di attraversare la Bulgaria, la Serbia, la Croazia e la Slovenia fino ad arrivare in Italia. Come nel caso precedente il percorso scelto è quello più veloce, ma anche viabile solo per giovani o per piccoli gruppi. In meno di un anno arriva in Italia, viene fermato e accolto a Cercivento nella comunità Bosco di Museis, indi riprende il cammino e transita per la Valle di Susa: la meta è il ricongiungimento con la sorella a Parigi. Viene trovato il 26 gennaio 2022, travolto da un treno, lungo le rotaie che collegano Salbertrand a Oulx. Un ragazzo di 15 anni è dunque morto sotto un treno anche se poteva per legge valicare il confine e chiedere legittimamente protezione.

      Non sono la montagna e neppure i treni responsabili di queste morti, ma la frontiera con le sue ramificazioni che non si scollano dalla pelle di chi è catalogato migrante e da chi non può più tornare indietro e non ha terra che lo accolga. Nel 2021 possiamo indicare 15.000 presenze a Oulx; senza contare le persone che sono state registrate più volte dopo i respingimenti in frontiera, possiamo azzardare il passaggio di più di 10.000 persone. Da dicembre dello stesso anno al primo mese di gennaio del nuovo sicuramente i flussi sono diminuiti. I confini si sono moltiplicati anche in relazione a una congiuntura complessa. Le temperature artiche e le tensioni politiche nei Balcani, le difficoltà nell’utilizzo dei trasporti e le norme anticovid hanno sicuramente rallentato momentaneamente l’esodo. Soprattutto hanno reso più difficoltosi gli spostamenti per le famiglie numerose. Tuttavia, la tragedia attuale trova ragione nella militarizzazione alla frontiera e nella caccia all’uomo che si scatena ogni giorno sulle nostre montagne. Una farsa tragica che non ferma i passaggi, ma obbliga le persone in cammino a scegliere vie e strategie che mettono a rischio la vita. I più deboli vengono perlopiù respinti: famiglie numerose, donne gravide, nuclei parentali con bambini piccoli o con anziani. Non bisogna però dimenticare la criticità costantemente presente di un’urgenza vitale delle persone di passare nonostante problemi di salute e vulnerabilità. Nel 2021 abbiamo potuto documentare donne incinte al nono mese, persone con una sola gamba e con stampelle, anziani con problemi sanitari pregressi, donne con neonati che non hanno esitato a sfidare ogni rischio pur di continuare il cammino (si vedano i report precedenti di Medu sulla frontiera alpina del Nord Ovest). È inoltre opportuno ricordare le reiterate volte in cui persone, ancora in attesa di referti e di analisi mediche, sono scappate dagli ospedali pur di non prolungare le permanenze.

      In questo primo mese del 2022, coloro che sono morti di frontiera sono però giovani, che proprio in ragione della loro età e della loro prestanza fisica, credono di poter superare le prove più pericolose. Con il dispiegamento militare sul versante francese e la collaborazione tra polizie di frontiera (accordi europei e tra Italia-Francia), il risultato è stato quello di sponsorizzare l’attività degli smugglers (trafficanti), che in questi mesi sono pericolosamente ricomparsi o, addirittura, hanno occupato la scena. Mentre al rifugio “Fraternità Massi” di Oulx diminuivano le presenze, si consolidava la constatazione di nuove vie che si aprivano. Non si fermano i flussi che, come acque sorgive, quando incontrano sbarramento, deviano e trovano nuovi canali. Così la stazione di servizio di Salbertrand sull’autostrada, a sette chilometri da Oulx, è divenuta luogo per imbarcarsi sui Tir che lì sostano. Con ugual prospettiva, vie impervie sulle montagne a partire da Bardonecchia si sono riaperte. Anche la morte del giovane Ullah racconta come in un luogo geograficamente insensato per passare la frontiera si possa morire. Forse dopo un tentativo fallimentare di trovare un passaggio nel non lontano autogrill di Salbertrand, forse per evitare possibili controlli o forse addirittura nascosto sotto un treno merci, così come è uso fare nei Balcani, è maturato il tragico incidente. Di fatto ci tocca prendere atto che la militarizzazione e il moltiplicarsi degli sbarramenti hanno prodotto illegalità e morte.

      Il caso di Ullah apre un’altra questione, forse non nuova, ma di certo poco analizzata. Scappare dalla guerra gettata addosso e sopravvivere alla guerra che poi l’Europa continua ad effettuare contro chi fugge producono disastri a catena. Abbiamo documentato come con i flussi provenienti dai Balcani dal 2020 ad oggi si siano verificati cambiamenti significativi nella composizione di questi popoli in viaggio: famiglie allargate e presenza plurigenerazionale dei nuclei domestici. Il dato trascurato riguarda però la polverizzazione delle reti familiari e la loro disseminazione in tante nazioni. La disaggregazione di questi nuclei durante il cammino è un elemento significativo e aggiunge apprensione e urgenza nelle persone. Per essere più chiari vale la pena riportare un esempio tra i tanti: un padre con il figlio arriva a Oulx e poi dice a una volontaria “Ti affido il mio bambino di 14 anni affinché possa continuare il viaggio come minore, (consegnandosi alla gendarmerie, n.d.r.), e io ritorno in Grecia a prendere l’altra parte della mia famiglia”. Il viaggio può costare ai singoli e ancor di più alle famiglie cifre ingenti. Per esemplificare 8.000 euro per persona dalla Turchia all’Italia in barcone, 4.000 euro dalla Bosnia a Trieste, dai 20.000 ai 50.000 euro per famiglia dall’Afghanistan al nostro paese (la famiglia di Ullah aveva investito 6.000 euro, dato a reti di trafficanti, per permettere la partenza del figlio anche se ancora tanto giovane). Così alcuni passano prima, altri aspettano e confidano nell’aiuto che proviene da chi è arrivato. A volte sono le donne e i più vulnerabili ad aprire il cammino, altre volte può essere un minore che viene mandato fin dalla terra d’origine a cercare un altro orizzonte di vita. Sempre più spesso raccogliamo memoria di persone che arrivano e che hanno lasciato indietro parenti e non sempre il nucleo che approda alle Alpi è composto solo da consanguinei o affini, ma da aggregazioni solidali. Chi parte ha il peso e la responsabilità di una famiglia e non può fermarsi: è un’Odissea senza che si sappia se davvero esista in qualche luogo una Itaca. Così si muore, invisibili al mondo, sotto le ruote di un treno o scivolando in un lago montano.

      Molti sono i minori non accompagnati che scelgono di non presentarsi alla Paf (Polices aux frontieres) con la conseguente protezione umanitaria che a loro spetta per legge e decidono di affrontare la traversata in modo clandestino pur di non perdere l’ausilio dei compagni di viaggio. L’esperienza insegna che non si deve rimanere mai soli. Quando i minori vengono “catturati” in montagna dalla gendarmerie, il respingimento è prassi. Non v’è spazio né volontà per accertamenti. La situazione si complica ancora, quando, così come abbiamo potuto documentare, il minore, nel porto italiano di entrata, viene indotto dalla polizia con maniere minacciose, a sottoscrivere la sua maggiore età, nonostante i suoi documenti provino il contrario. Il caso è stato vagliato anche dallo sportello legale della diaconia valdese in Oulx.

      Non è da sottovalutare il problema dei green pass e delle vaccinazioni. Istituzioni ed anche ONG spesso non affrontano con abbastanza decisione la questione. La mancanza di attestati che dimostrino il vaccino rende complicati i trasferimenti e, soprattutto, induce le persone in cammino ad accelerare il passo, accettando qualsiasi costo o rischio, pur di non rischiare di rimanere intrappolati e bloccati in tempi di attesa, vuoti quanto indefiniti. Rispetto al problema sostanziale dell’essere senza vaccino, tristemente s’afferma la prassi delle vite diseguali, anche quando in gioco non c’è solo la salute del “migrante” ma quella della collettività. Non ci dimentichiamo quando l’Italia era in fascia rossa e ogni assembramento era vietato per legge mentre in un container presso la stazione di Oulx di circa 18 metri quadrati si accalcavano più di 30 persone. Nessuno ha mai pensato di intervenire o di trovare soluzioni. Poi le persone tornavano al rifugio con rischi di contagio per tutti. Oggi vaccini e documentazione relativa sono una necessità inderogabile. Già solo il fatto che si obblighi a livello nazionale alla vaccinazione e ce ne si dimentichi per coloro che sono in cammino è indicativo di quanto con la categoria migrante pensiamo a “non persone”.

      In questo specchio di frontiera –e la valle di Susa ripropone logiche che si moltiplicano dal Mediterraneo al deserto, dai Balcani alla Libia,-scopriamo quanto valgono gli enunciati sui diritti umani, qui a casa nostra. Il reiterarsi di casi tragici lascia senza parole: arriva notizia di altra persona morta carbonizzata a seguito di folgorazione sul tetto di un treno a Ventimiglia: un’altra vittima che si aggiunge a quelle che hanno insanguinato la frontiera del Nord Ovest (https://www.ansa.it/liguria/notizie/2022/02/01/migrante-muore-folgorato-su-un-treno-per-la-francia_a16cb44f-ba45-4e7f-bff0-811; https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migrante-muore-folgorato-su-treno-per-la-francia ).

      Medici per i Diritti umani:

      Chiede alle istituzioni e a tutti gli attori presenti in frontiera di intervenire affinché vengano rispettati i diritti umani delle persone in transito e garantita la loro incolumità e sicurezza.

      Auspica una collaborazione allargata per il monitoraggio dei diritti umani in frontiera.

      Denuncia che la condizione dei minori non accompagnati è affrontata non in base alla legge e alle convenzioni internazionali europee ma spesso con prassi tollerate che le violano.

      Chiede che i vaccini e i green pass siano garantiti alle persone migranti. Le istituzioni e tutti gli attori presenti sul territorio devono occuparsi della vaccinazione. La mancanza di questa non deve essere un’altra frontiera.

      https://mediciperidirittiumani.org/si-ritorna-a-morire-alla-frontiera-nord-ovest-delle-alpi

    • Modane, migrante marocchino muore dopo la marcia notturna in montagna per passare il confine

      Aveva 31 anni. Pochi giorni prima un afgano di 15 anni è stato travolto e ucciso da un treno a Salbertrand

      Fathallah Balafhail aveva 31 anni, arrivava dal Marocco. Cercava una nuova vita in Francia ma è stato trovato morto il 2 gennaio al Barrage del Freney, non lontano da Modane. È’ il secondo migrante, nel giro di pochi giorni, trovato cadavere dopo che aveva tentato di attraversare il confine. Fathallah come Ullah Rezwan Sheyzad, che di anni ne aveva 15, veniva dall’Aghanistan ed è morto travolto da un treno a Salbertrand senza che nessuno se ne accorgesse.

       

      Fathallah veniva dal Marocco, «anche lui aveva tentato il giro più lungo passando dalla Turchia e aveva attraversato i Balcani», racconta Medu, l’organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani che ha denunciato il fatto. Il migrante aveva vissuto per un certo tempo a Crescentino, in provincia di Vercelli. Aveva provato già due volte ad arrivare in Francia, sempre passando da Ventimiglia, ma era andata male. Stavolta aveva scelto la strada della Valle di Susa, quella dei passi di montagna.

      Ha scritto un messaggio alla famiglia prima di incamminarsi, alle 23.54 del 31 dicembre. Era alla stazione di Oulx. «Forse aveva trovato un passeur per arrivare dall’altro lato del confine con una macchina - ipotizza Medu - Il tentativo non è coronato da successo e forse matura lì la scelta del cammino in montagna, un percorso lungo e pericoloso, già sperimentato in anni passati e in seguito abbandonato per gli evidenti rischi».

       

      C’è un buco di tre giorni prima che il suo cadavere venga ritrovato. «Molti particolari rimangono oscuri e inquietanti. I parenti non hanno avuto accesso ai risultati dell’autopsia. Anche il rimpatrio in Marocco è avvenuto frettolosamente, senza attenzione alcuna alla sensibilità della famiglia e ai rituali funerari del paese d’origine. Si rimane invisibili anche dopo la morte», denuncia Medu.

       

      «Non sono la montagna e neppure i treni responsabili di queste morti, ma la frontiera con le sue ramificazioni che non si scollano dalla pelle di chi è catalogato migrante e da chi non può più tornare indietro e non ha terra che lo accolga», dicono i membri dell’organizzazione. Nel 2021 sono passate 15mila persone a Oulx.

       

      «Abbiamo potuto documentare donne incinte al nono mese, persone con una sola gamba e con stampelle, anziani con problemi sanitari pregressi, donne con neonati che non hanno esitato a sfidare ogni rischio pur di continuare il cammino - dicono da Medu - In questo primo mese del 2022, coloro che sono morti di frontiera sono però giovani che, proprio in ragione della loro età e della loro prestanza fisica, credono di poter superare le prove più pericolose».

      L’associazione denuncia anche la presenza di trafficanti. Qualche mese fa la Polizia stradale aveva scoperto alcuni passeur che caricavano i migranti nei rimorchi dei tir all’area di servizio di Salbertrand e Rivoli. «La militarizzazione e il moltiplicarsi degli sbarramenti hanno prodotto illegalità e morte», dice l’associazione. Sono cambiati i flussi e la composizione dei gruppi che passano dalla valle di Susa, «famiglie allargate e presenza plurigenerazionale dei nuclei domestici. Il dato trascurato riguarda però la polverizzazione delle reti familiari e la loro disseminazione in tante nazioni. Per essere più chiari vale la pena riportare un esempio tra i tanti: un padre con il figlio arriva a Oulx e poi dice a una volontaria ’Ti affido il mio bambino di 14 anni affinché possa continuare il viaggio come minore, e io ritorno in Grecia a prendere l’altra parte della mia famiglia’».

      https://torino.repubblica.it/cronaca/2022/02/04/news/modane_migrante_marocchino_trovato_morto_voleva_entrare_in_francia

  • #Ilisu, in Turchia inaugurata la diga della discordia. Inonderà secoli di storia Access to the comments

    In costruzione dal 2006, la diga di Ilisu-nel sud-est della Turchia- sul fiume Tigri è stata inaugurata questo week end alla presenza del presidente turco Recep Tayyp Erdogan.

    Fornirà il 4% del fabbisogno energetico turco ma contribuirà a cambiare l’ecosistema dell’area geografica a scapito soprattutto dei Paesi vicini, come Siria e Iraq.

    La costruzione è andata avanti tra critiche degli ambientalisti e le proteste di chi abita nei paesi circostanti, circa 200, una volta pieno il bacino inonderà i centri urbani dove vivono circa 80 mila persone.

    Per il prsidente Recep Tayyip Erdogan la costruzione era improcastinabile:

    «Dobbiamo tutelare le nostre risorse idriche, usarel in modo efficace e non sprecarle. Non è una scelta ma una necessità».

    La protesta delle associazioni in questi anni, hanno spaventato investitori esteri che piano piano si sono sfilati dal progetto come l’impresa italiana di costruzione Webuild e la banca svizzera Ubs.

    Il progetto costato oltre 7 milioni e mezzo di euro è stato alla fine finanziato interamente dal governo turco. L’inaugurazione è stata salutata con una grande cerimonia che ha alimentato la narrazione propagandistica del presidente Erdogan.

    Lo scorso giugno era iniziato il processo di riempimento del bacino della maxi-diga e erano stati vani gli ultimi appelli in difesa della cittadina di Hasankeyf, tra i più importanti centri della Mesopotamia con 12 mila anni di storia, (insieme ad altri 199 villaggi della zona, come si è già detto).

    Alcuni dei millenari monumenti sono stati portati via con controverse operazioni fortemente criticate da alcuni archeologi.

    Alcuni addirittura spostati e ricostruiti nel nuovo Hasankeyf Cultural Park, come il monastero islamico del XII secolo, il bagno turco di 800 anni fa e il mausoleo Zeynel Bey di 650 anni fa. Letteralmente smontati e ricostruiti

    https://it.euronews.com/2021/11/07/ilisu-in-turchia-inaugurata-la-diga-della-discordia-inondera-secoli-di-

    #inauguration #barrage_hydroélectrique #extractivisme #électricité #Turquie #énergie

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    voir aussi:
    Journée mondiale pour #Hasankeyf : les dessous d’un barrage à marche forcée
    https://seenthis.net/messages/690502

    #Hasankeyf : l’acqua alla gola
    https://seenthis.net/messages/787114

  • À la frontière franco-espagnole, le renforcement des contrôles conduit les migrants à prendre toujours plus de #risques

    Au #Pays_basque, après que trois Algériens sont morts fauchés par un train à Saint-Jean-de-Luz/Ciboure le 12 octobre, associations et militants dénoncent le « #harcèlement » subi par les migrants tentant de traverser la frontière franco-espagnole. Face à l’inaction de l’État, des réseaux citoyens se mobilisent pour « sécuriser » leur parcours et éviter de nouveaux drames.

    Saint-Jean-de-Luz (Pyrénées-Atlantiques).– Attablés en terrasse d’un café, mardi 26 octobre, sous un ciel gris prêt à déverser son crachin, Line et Peio peinent toujours à y croire. « On n’imagine pas le niveau de fatigue, l’épuisement moral, l’état de détresse dans lequel ils devaient se trouver pour décider de se reposer là un moment », constatent-ils les sourcils froncés, comme pour marquer leur peine.

    Le 12 octobre dernier, trois migrants algériens étaient fauchés par un train, au petit matin, à 500 mètres de la gare de Saint-Jean-de-Luz/Ciboure. Un quatrième homme, blessé mais désormais hors de danger, a confirmé aux enquêteurs que le groupe avait privilégié la voie ferrée pour éviter les contrôles de police, puis s’était arrêté pour se reposer, avant de s’assoupir.

    Un cinquième homme, dont les documents d’identité avaient été retrouvés sur les lieux, avait pris la fuite avant d’être retrouvé deux jours plus tard à Bayonne.

    « Ceux qui partent de nuit tentent de passer la frontière vers 23 heures et arrivent ici à 3 ou 4 heures du matin. La #voie_ferrée est une voie logique quand on sait que les contrôles de police sont quasi quotidiens aux ronds-points entre #Hendaye et #Saint-Jean-de-Luz », souligne Line, qui préside l’association #Elkartasuna_Larruna (Solidarité autour de la Rhune, en basque) créée en 2018 pour accompagner et « sécuriser » l’arrivée importante de migrants subsahariens dans la région.

    Peio Etcheverry-Ainchart, qui a participé à la création de l’association, est depuis élu, dans l’opposition, à Saint-Jean-de-Luz. Pour lui, le drame reflète la réalité du quotidien des migrants au Pays basque. « Ils n’iraient pas sur la voie ferrée s’ils se sentaient en sécurité dans les transports ou sur les axes routiers », dénonce-t-il en pointant du doigt le manque d’action politique au niveau local.

    « Ils continueront à passer par là car ils n’ont pas le choix et ce genre de drame va se reproduire. La #responsabilité politique des élus de la majorité est immense, c’est une honte. » Trois cents personnes se sont réunies au lendemain du drame pour rendre hommage aux victimes, sans la présence du maire de Saint-Jean-de-Luz. « La ville refuse toutes nos demandes de subvention, peste Line. Pour la majorité, les migrants ne passent pas par ici et le centre d’accueil créé à #Bayonne, #Pausa, est suffisant. »

    Un manque de soutien, à la fois moral et financier, qui n’encourage pas, selon elle, les locaux à se mobiliser auprès de l’association, qui compte une trentaine de bénévoles. Son inquiétude ? « Que les gens s’habituent à ce que des jeunes meurent et que l’on n’en parle plus, comme à Calais ou à la frontière franco-italienne. Il faut faire de la résistance. »

    Samedi dernier, j’en ai récupéré deux tard le soir, épuisés et frigorifiés

    Guillaume, un « aidant »

    Ce mardi midi à Saint-Jean-de-Luz, un migrant marocain avance d’un pas sûr vers la halte routière, puis se met en retrait, en gardant un œil sur l’arrêt de bus. Dix minutes plus tard, le bus en direction de Bayonne s’arrête et le trentenaire court pour s’y engouffrer avant que les portes ne se referment.

    Guillaume, qui travaille dans le quartier de la gare, fait partie de ces « aidants » qui refusent de laisser porte close. « Samedi dernier, j’en ai récupéré deux tard le soir, qui étaient arrivés à Saint-Jean en fin d’après-midi. Ils étaient épuisés et frigorifiés. » Après les avoir accueillis et leur avoir offert à manger, il les achemine ensuite jusqu’à Pausa à 2 heures du matin, où il constate qu’il n’est pas le seul à avoir fait la navette.

    La semaine dernière, un chauffeur de bus a même appelé la police quand des migrants sont montés à bord

    Guillaume, un citoyen vivant à Saint-Jean-de-Luz

    « Il m’est arrivé de gérer 10 ou 40 personnes d’un coup. Des femmes avec des bébés, des enfants, des jeunes qui avaient marché des heures et me racontaient leur périple. J’allais parfois m’isoler pour pleurer avant de m’occuper d’eux », confie celui qui ne cache pas sa tristesse face à tant d’« inhumanité ». Chaque jour, rapporte-t-il, la police sillonne les alentours, procède à des #contrôles_au_faciès à l’arrêt de bus en direction de Bayonne et embarque les migrants, comme en témoigne cette vidéo publiée sur Facebook en août 2019 (https://www.facebook.com/100000553678281/posts/2871341412894286/?d=n).

    « La semaine dernière, un #chauffeur_de_bus a même appelé la #police quand des migrants sont montés à bord. Ça rappelle une époque à vomir. » Face à ce « harcèlement » et cette « pression folle », Guillaume n’est pas étonné que les Algériens aient pris le risque de longer la voie ferrée. « Les habitants et commerçants voient régulièrement des personnes passer par là. Les gens sont prêts à tout. »

    À la frontière franco-espagnole aussi, en gare de Hendaye, la police est partout. Un véhicule se gare, deux agents en rejoignent un autre, situé à l’entrée du « topo » (train régional qui relie Hendaye à la ville espagnole de Saint-Sébastien), qui leur tend des documents. Il leur remet un jeune homme, arabophone, qu’ils embarquent.

    « Ils vont le laisser de l’autre côté du pont. Ils font tout le temps ça, soupire Miren*, qui observe la scène sans pouvoir intervenir. Les policiers connaissent les horaires d’arrivée du topo et des trains venant d’#Irun (côté espagnol). Ils viennent donc dix minutes avant et se postent ici pour faire du contrôle au faciès. » Depuis près de trois ans, le réseau citoyen auquel elle appartient, Bidasoa Etorkinekin, accueille et accompagne les personnes en migration qui ont réussi à passer la frontière, en les acheminant jusqu’à Bayonne.

    La bénévole monte à bord de sa voiture en direction des entrepôts de la SNCF. Là, un pont flambant neuf, barricadé, apparaît. « Il a été fermé peu après son inauguration pour empêcher les migrants de passer. » Des #grilles ont été disposées, tel un château de cartes, d’autres ont été ajoutées sur les côtés. En contrebas, des promeneurs marchent le long de la baie.

    Miren observe le pont de Santiago et le petit chapiteau blanc marquant le #barrage_de_police à la frontière entre Hendaye et #Irun. « Par définition, un #pont est censé faire le lien, pas séparer... » Selon un militant, il y aurait à ce pont et au pont de #Behobia « quatre fois plus de forces de l’ordre » qu’avant. Chaque bus est arrêté et les passagers contrôlés. « C’est cela qui pousse les personnes à prendre toujours plus de risques », estime-t-il, à l’instar de #Yaya_Karamoko, mort noyé dans la Bidassoa en mai dernier.

    On ne peut pas en même temps organiser l’accueil des personnes à Bayonne et mettre des moyens énormes pour faire cette chasse aux sorcières

    Eñaut, responsable de la section nord du syndicat basque LAB

    Le 12 juin, à l’initiative du #LAB, syndicat socio-politique basque, une manifestation s’est tenue entre Irun et Hendaye pour dénoncer la « militarisation » de la frontière dans ce qui a « toujours été une terre d’accueil ». « Ça s’est inscrit dans une démarche de #désobéissance_civile et on a décidé de faire entrer six migrants parmi une centaine de manifestants, revendique Eñaut, responsable du Pays basque nord. On ne peut pas en même temps organiser l’accueil des personnes à Bayonne et mettre des moyens énormes pour faire cette #chasse_aux_sorcières, avec les morts que cela engendre. L’accident de Saint-Jean-de-Luz est le résultat d’une politique migratoire raciste. » L’organisation syndicale espère, en développant l’action sociale, sensibiliser toutes les branches de la société – patronat, salariés, État – à la question migratoire.

    Des citoyens mobilisés pour « sécuriser » le parcours des migrants

    À 22 heures mardi, côté espagnol, Maite, Arantza et Jaiona approchent lentement de l’arrêt de bus de la gare routière d’Irun. Toutes trois sont volontaires auprès du réseau citoyen #Gau_Txori (les « Oiseaux de nuit »). Depuis plus de trois ans, lorsque les cars se vident le soir, elles repèrent d’éventuels exilés désorientés en vue de les acheminer au centre d’accueil géré par la Cruz Roja (Croix-Rouge espagnole), situé à deux kilomètres de là. En journée, des marques de pas, dessinées sur le sol à intervalle régulier et accompagnées d’une croix rouge, doivent guider les migrants tout juste arrivés à Irun. Mais, à la nuit tombée, difficile de les distinguer sur le bitume et de s’orienter.

    « En hiver, c’est terrible, souffle Arantza. Cette gare est désolante. Il n’y a rien, pas même les horaires de bus. On leur vient en aide parce qu’on ne supporte pas l’injustice. On ne peut pas rester sans rien faire en sachant ce qu’il se passe. » Et Maite d’enchaîner : « Pour moi, tout le monde devrait pouvoir passer au nom de la liberté de la circulation. » « La semaine dernière, il y avait beaucoup de migrants dans les rues d’Irun. La Croix-Rouge était dépassée. Déjà, en temps normal, le centre ne peut accueillir que 100 personnes pour une durée maximale de trois jours. Quand on leur ramène des gens, il arrive que certains restent à la porte et qu’on doive les installer dans des tentes à l’extérieur », rapporte, blasée, Jaiona.

    À mesure qu’elles dénoncent les effets mortifères des politiques migratoires européennes, un bus s’arrête, puis un second. « Je crois que ce soir, on n’aura personne », sourit Arantza. Le trio se dirige vers le dernier bus, qui stationne en gare à 23 h 10. Un homme extirpe ses bagages et ceux d’une jeune fille des entrailles du car. Les bénévoles tournent les talons, pensant qu’ils sont ensemble. C’est Jaiona, restée en arrière-plan, qui comprend combien l’adolescente a le regard perdu, désespérée de voir les seules femmes présentes s’éloigner. « Cruz Roja ? », chuchote l’une des volontaires à l’oreille de Mariem, qui hoche la tête, apaisée de comprendre que ces inconnues sont là pour elle.

    Ni une ni deux, Maite la soulage d’un sac et lui indique le véhicule garé un peu plus loin. « No te preocupes, somos voluntarios » (« Ne t’inquiète pas, nous sommes des bénévoles »), lui dit Jaiona en espagnol. « On ne te veut aucun mal. On t’emmène à la Croix-Rouge et on attendra d’être sûres que tu aies une place avant de partir », ajoute Maite dans un français torturé.

    Visage juvénile, yeux en amande, Mariem n’a que 15 ans. Elle arrive de Madrid, un bonnet à pompon sur la tête, où elle a passé un mois après avoir été transférée par avion de Fuerteventura (îles Canaries) dans l’Espagne continentale, comme beaucoup d’autres ces dernières semaines, qui ont ensuite poursuivi leur route vers le nord. Les bénévoles toquent à la porte de la Cruz Roja, un agent prend en charge Mariem. Au-dehors, les phares de la voiture illuminent deux tentes servant d’abris à des exilés non admis.

    J’avais réussi à passer la frontière mais la police m’a arrêtée dans le #bus et m’a renvoyée en Espagne

    Fatima*, une exilée subsaharienne refoulée après avoir franchi la frontière

    Le lendemain matin, dès 9 heures, plusieurs exilés occupent les bancs de la place de la mairie à Irun. Chaque jour, entre 10 heures et midi, c’est ici que le réseau citoyen Irungo Harrera Sarea les accueille pour leur donner des conseils. « Qui veut rester en Espagne ici ? », demande Ion, l’un des membres du collectif. Aucune main ne se lève. Ion s’y attendait. Fatima*, la seule femme parmi les 10 exilés, a passé la nuit dehors, ignorant l’existence du centre d’accueil. « J’avais réussi à passer la frontière mais la police m’a arrêtée dans le bus et m’a renvoyée en Espagne », relate-t-elle, vêtue d’une tenue de sport, un sac de couchage déplié sur les genoux. Le « record », selon Ion, est détenu par un homme qui a tenté de passer à huit reprises et a été refoulé à chaque fois. « Il a fini par réussir. »

    Éviter de se déplacer en groupe, ne pas être trop repérable. « Vous êtes noirs », leur lance-t-il, pragmatique, les rappelant à une triste réalité : la frontière est une passoire pour quiconque a la peau suffisamment claire pour ne pas être contrôlé. « La migration n’est pas une honte, il n’y a pas de raison de la cacher », clame-t-il pour justifier le fait de s’être installés en plein centre-ville.

    Ion voit une majorité de Subsahariens. Peu de Marocains et d’Algériens, qui auraient « leurs propres réseaux d’entraide ». « On dit aux gens de ne pas traverser la Bidassoa ou longer la voie ferrée. On fait le sale boulot en les aidant à poursuivre leur chemin, ce qui arrange la municipalité d’Irun et le gouvernement basque car on les débarrasse des migrants, regrette-t-il. En voulant les empêcher de passer, les États ne font que garantir leur souffrance et nourrir les trafiquants. »

    L’un des exilés se lève et suit une bénévole, avant de s’infiltrer, à quelques mètres de là, dans un immeuble de la vieille ville. Il est invité par Karmele, une retraitée aux cheveux grisonnants, à entrer dans une pièce dont les murs sont fournis d’étagères à vêtements.

    Dans ce vestiaire solidaire, tout a été pensé pour faire vite et bien : Karmele scrute la morphologie du jeune homme, puis pioche dans l’une des rangées, où le linge, selon sa nature – doudounes, pulls, polaires, pantalons – est soigneusement plié. « Tu es long [grand], ça devrait t’aller, ça », dit-elle en lui tendant une veste. À sa droite, une affiche placardée sous des cartons étiquetés « bébé » vient rappeler aux Africaines qu’elles sont des « femmes de pouvoir ».

    Le groupe d’exilés retourne au centre d’accueil pour se reposer avant de tenter le passage dans la journée. Mariem, l’adolescente, a choisi de ne pas se rendre place de la mairie à 10 heures, influencée par des camarades du centre. « On m’a dit qu’un homme pouvait nous faire passer, qu’on le paierait à notre arrivée à Bayonne. Mais je suis à la frontière et il ne répond pas au téléphone. Il nous a dit plus tôt qu’il y avait trop de contrôles et qu’on ne pourrait pas passer pour l’instant », confie-t-elle, dépitée, en fin de matinée. Elle restera bloquée jusqu’en fin d’après-midi à Behobia, le deuxième pont, avant de se résoudre à retourner à la Cruz Roja pour la nuit.

    L’exil nous détruit, je me dis des fois qu’on aurait mieux fait de rester auprès des nôtres

    Mokhtar*, un migrant algérien

    Au même moment, sur le parking précédant le pont de Santiago, de jeunes Maghrébins tuent le temps, allongés dans l’herbe ou assis sur un banc. Tous ont des parcours de vie en pointillés, bousillés par « el ghorba » (« l’exil »), qui n’a pas eu pitié d’eux, passés par différents pays européens sans parvenir à s’établir. « Huit ans que je suis en Europe et je n’ai toujours pas les papiers », lâche Younes*, un jeune Marocain vivant depuis un mois dans un foyer à Irun. Mokhtar*, un harraga (migrant parti clandestinement depuis les côtes algériennes) originaire d’Oran, abonde : « L’exil nous détruit, je me dis des fois qu’on aurait mieux fait de rester auprès des nôtres. Mais aujourd’hui, c’est impossible de rentrer sans avoir construit quelque chose... » La notion « d’échec », le regard des autres seraient insoutenables.

    Chaque jour, Mokhtar et ses amis voient des dizaines de migrants tenter le passage du pont qui matérialise la frontière. « Les Algériens qui sont morts étaient passés par ici. Ils sont même restés un temps dans notre foyer. Avant qu’ils ne passent la frontière, je leur ai filé quatre cigarettes. Ils sont partis de nuit, en longeant les rails de train depuis cet endroit, pointe-t-il du doigt au loin. Paix à leur âme. Cette frontière est l’une des plus difficiles à franchir en Europe. » L’autre drame humain est celui des proches des victimes, ravagés par l’incertitude faute d’informations émanant des autorités françaises.
    Les proches des victimes plongés dans l’incertitude

    « Les familles ne sont pas prévenues, c’est de la torture. On a des certitudes sur deux personnes. La mère de l’un des garçons a appelé l’hôpital, le commissariat… Sans obtenir d’informations. Or elle n’a plus de nouvelles depuis le jour du drame et les amis qui l’ont connu sont sûrs d’eux », expliquait une militante vendredi 22 octobre. Selon le procureur de Bayonne, contacté cette semaine par Mediapart, les victimes ont depuis été identifiées, à la fois grâce à l’enquête ouverte mais aussi grâce aux proches qui se sont signalés.

    La mosquée d’Irun a également joué un rôle primordial pour remonter la trace des harragas décédés. « On a été plusieurs à participer, dont des associations. J’ai été en contact avec les familles des victimes et le consulat d’Algérie, qui a presque tout géré. Les corps ont été rapatriés en Algérie samedi 30 octobre, le rescapé tient le coup moralement », détaille Mohamed, un membre actif du lieu de culte. Dès le 18 octobre, la page Facebook Les Algériens en France dévoilait le nom de deux des trois victimes, Faisal Hamdouche, 23 ans, et Mohamed Kamal, 21 ans.

    À quelques mètres de Mokhtar, sur un banc, deux jeunes Syriens se sont vu notifier un refus d’entrée, au motif qu’ils n’avaient pas de documents d’identité : « Ça fait quatre fois qu’on essaie de passer et qu’on nous refoule », s’époumone l’aîné, 20 ans, quatre tickets de « topo » à la main. Son petit frère, âgé de 14 ans, ne cesse de l’interroger. « On ne va pas pouvoir passer ? » Leur mère et leur sœur, toutes deux réfugiées, les attendent à Paris depuis deux ans ; l’impatience les gagne.

    Jeudi midi, les Syriens, mais aussi le groupe d’exilés renseignés par Irungo Harrera Sarea, sont tous à Pausa, à Bayonne. Certains se reposent, d’autres se détendent dans la cour du lieu d’accueil, où le soleil cogne. « C’était un peu difficile mais on a réussi, confie Fofana, un jeune Ivoirien, devant le portail, quai de Lesseps. Ça me fait tellement bizarre de voir les gens circuler librement, alors que nous, on doit faire attention. Je préfère en rire plutôt qu’en pleurer. »

    Si les exilés ont le droit de sortir, ils ne doivent pas s’éloigner pour éviter d’être contrôlés par la police. « On attend le car pour aller à Paris ce soir », ajoute M., le Syrien, tandis que son petit frère se cache derrière le parcmètre pour jouer, à l’abri du soleil, sur un téléphone. Une dernière étape, qui comporte elle aussi son lot de risques : certains chauffeurs des cars « Macron » réclament un document d’identité à la montée, d’autres pas.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/311021/la-frontiere-franco-espagnole-le-renforcement-des-controles-conduit-les-mi

    #frontières #migrations #réfugiés #France #Espagne #Pyrénées #contrôles_frontaliers #frontières #délation #morts #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #décès #militarisation_de_la_frontière #refoulements #push-backs #solidarité

    –—

    voir aussi :
    #métaliste sur les personnes en migration décédées à la frontière entre l’#Espagne et la #France, #Pays_basque :
    https://seenthis.net/messages/932889

  • Au #Laos, la #répression silencieuse. Expulsée pour avoir osé parler

    Juriste dans une ONG suisse de développement durable, #Anne-Sophie_Gindroz s’installe durant trois années dans un Laos en pleine mutation. Le pays s’ouvre à l’#économie_de_marché et aux investisseurs étrangers. Construction de #barrages, exploitation des #ressources_hydroélectriques, forestières, minières… l’impact est catastrophique pour la population et l’#environnement. Ce livre sincère et engagé était une nécessité pour l’auteure, qui dénonce la #corruption, l’#opacité des autorités, la répression dont sont victimes des Laotiens. La détermination et le courage d’Anne Sophie Gindroz lui ont valu d’être expulsée du pays.

    https://www.rfi.fr/fr/emission/20160514-laos-repression-silencieuse-expulsee-avoir-ose-parler-anne-sophie-gindr
    (je n’arrive pas à ouvrir la page de la maison d’édition du livre :-(
    https://asieinfopublishing.com

    #livre #développement #extractivisme #forêts #mines #barrage_hydroélectrique

    –—

    En 2018, quand @albertocampiphoto et moi-même étions au Laos :
    https://seenthis.net/messages/709331

    Et notamment ce portfolio de Alberto sur Mediapart :
    Le Laos, « batterie de l’Asie du Sud-Est » en court-circuit


    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/le-laos-batterie-de-lasie-du-sud-est-en-court-circuit

  • Le Gvt relance sa réforme de l’assurance chômage pour économiser 1,3 milliard sur le dos des victimes de la crise sanitaire et sociale.

    Casser les droits sociaux, ce n’est pas de gauche, pas plus que ne l’est Emmanuel Macron. Quelle indignité ! #La_honte !

    #Elisabeth_Borne #femme_de_gauche #barrage_mal_barré

    https://seenthis.net/messages/904006

  • « Les gars, [et les filles], après les mutilations de masse, la loi sécurité globale, la loi séparatisme, les délires pétainistes, c’est mort pour 2022 !
    Ah. Et oui, c’est de votre faute. »

    Bruno Bonnell :

    NON ! Le combat contre les extrêmes est un devoir. La mission politique est de rassembler pas de déchirer la Nation. Quelque soit la frustration, ne franchissons aucune ligne noire.

    Christophe Castaner :

    J’ai déjà fait barrage. Et je le ferais encore.

    Ceux qui épargnent les extrêmes, toujours et encore, portent une responsabilité.

    Anne-Christine Lang (députée Lrem Paris) :

    Cette soi-disant « vraie gauche » qui a tout perdu, ses valeurs, sa boussole, sa dignité... Honte à elle !
    Quant à nous, nous continuerons à combattre Le Pen et à faire barrage au Front National. Toujours, partout. #LaGaucheAvecMacron

    C’est moi ou le président des députés LREM, ex-patron du parti est en train de dire qu’en 2017, il a pas voté pour Macron mais contre Le Pen ? :))) #barrage_mal_barré
    La gauche avec Macron. Et ben... C’est fort de café... :))))

    • Installer dans les esprits un duel Macron-LP comme étant inévitable, et tenir la gauche pour responsable !

      « Allez essayer la dictature. »

      Brèves de presse
      ⚡SUIVI -#LREM multiplie les attaques : selon Le Monde, le PR veut « diaboliser » ses opposants pour capter l’électorat dit « modéré ». Un proche du PR estime qu’il y a « des gens déraisonnables » en France qui ont « une multitude de choix afin de savoir pour quel dingue voter ».

    • Pierre Le Texier ( administrateur du collectif " Les Jeunes avec Macron" Renaissance_UE) :

      Une de Libération, interview de Bayou. Une partie de la gauche a fait son choix : la victoire de Marine Le Pen pour avoir une hypothétique chance de gagner 5 ans après. Fou, dangereux, lâche. Et minable.
      https://www.lepoint.fr/politique/julien-bayou-emmanuel-macron-perdra-contre-marine-le-pen-27-02-2021-2415646_

      « Islamogauchistes, gaulois réfractaires, écologistes, déments anti viande, riens, alcooliques, esprits tristes, procureurs, votez pour nous pour faire barrage à Le Pen car nous sommes les seuls à pouvoir unir les français. »

      C’est son projet depuis 2017.

      https://twitter.com/MFrippon/status/1365674356521721860
      #qu'est-ce_qu'on_rigole

    • Poser la question du 2nd tour + d’un an avant l’élection est un signe de la panique du camp gouvernemental. Qui n’ose même plus se demander : pour quelle (autre) raison (que pour faire barrage) pourrait-on bien voter pour Macron ?
      André Gunthert

    • « En France, on ne vote pas « contre », madame Loiseau, on vote pour. Et dès le premier tour. Pour un vrai projet de société et de justice.

      Le deal foireux entre un candidat manipulateur et impopulaire et un repoussoir, c’est fini. »

      Nathalie Loiseau :

      Vous êtes en train de dire que vous ne voteriez pas contre Marine Le Pen au deuxième tour ? Merci de répondre précisément, ça m’intéresse et sans doute pas que moi.

      L’épisode de la "une" de Libé hier a confirmé l’aveuglement et la profondeur de l’inculture politique de la masse opportuniste hétéroclite qui forme le parti d’Emmanuel Macron. L’arnaque du "en même temps" dévoilée, le tour du bonimenteur "frais" ne peut plus avoir lieu en 2022.
      Alexis Poulin

    • « Libé » dit vrai : les castors sont fatigués

      La « une » de Libé fait scandale en macronie. Ceux qu’on appelle « les castors » c’est-à-dire les électeurs mobilisés « pour faire barrage à Le Pen » de 2017 disent qu’ils ne participeront plus à la comédie. Quelles que soient ses motivations politiques pour la présidentielle où Libération soutiendra volontiers n’importe qui sauf moi -et c’est bien son droit- parlons net : il met dans le mille. Ce que dit cette « une », des dizaines de gens le disent. Et autour de moi c’est un fait dominant. Certes on est loin du vote. Certes nous avons été victimes d’une persécution intense et particulièrement intrusive dans nos vies. Certes les macronistes sont haïs pour leur arrogance, leurs mensonges incessants, leurs méthodes d’infantilisation de leurs interlocuteurs, leur volte faces identitaires, leur triangulation permanente, leurs violences policières et que sais-je encore. Mais le déclic a fini par se faire. Qui en est surpris après le duo Darmanin Le Pen, l’ode à Pétain et Maurras de Macron et la chasse à « l’islamo-gauchisme » ? Les macronistes eux-mêmes savent bien à quoi s’en tenir.

      Ce qui est donc à noter, c’est leur manière de réagir. Cette fois-ci c’est le centre gauche qui a le privilège de goûter aux méthodes de la propagande macroniste. D’abord, et comme toujours, l’insulte : cette gauche-là serait en mal d’identité et elle souhaiterait en réalité la victoire de Le Pen pour se ressourcer. D’où la confusion à bord : les macronistes qui voulaient récupérer des voix RN se retrouvent à en dire du mal une semaine après les avoir trouvées « trop molles » à la télé. Puis viennent les injonctions moralisantes. Confusion encore : comment peut-on à la fois accuser des universitaires « d’islamo-gauchisme » et demander leur soutien ensuite contre l’inventeuse de l’accusation ? Enfin, notez les péroraisons : seuls les macronistes agiraient contre l’extrême droite, seuls bla-bla-bla. Odieux.

      À mes yeux, c’est un affolement qui en dit long. La macronie avait ouvert l’année avec un grand projet de drague de l’électorat d’extrême droite (interview dans L’Express avec l’apologie de Pétain et Maurras, présentation de la loi « séparatisme », duo France 2. La macronie gémit et pleurniche devant l’ampleur des dégâts qu’elle a déclenchés. Progressivement s’impose dans les esprits la formule qu’avait trouvée Jean Christophe Lagarde, le président de l’UDI : « seule la candidature de Macron peut faire gagner Le Pen ».

      Jlm

  • En Ethiopie, la France partagée entre business et défense des droits humains

    Pillages, possibles crimes de #guerre, destructions de sites historiques : les témoignages en provenance du #Tigré, province en guerre depuis le 4 novembre, sont très inquiétants. La France reste pourtant discrète, et espère préserver ses chances sur un marché prometteur.

    L’ambassadeur a un échange « constructif » avec le ministre de l’éducation, l’ambassadeur a un échange « productif » avec le conseiller spécial du premier ministre sur les questions économiques, l’ambassadeur est « très honoré » de recevoir le ministre de l’énergie pour évoquer la participation française à plusieurs grands projets… Sur les réseaux sociaux de l’ambassade de France à Addis-Abeba, c’est #business_as_usual.

    Pour qui suit au quotidien le calvaire des habitants du Tigré – région où l’armée éthiopienne et ses alliés sont en guerre depuis le 4 novembre –, les photos de ces rencontres policées dans la capitale, où l’on discute #qaffaires, lovés dans de confortables canapés, semblent prises dans un monde parallèle.

    Loin, très loin, d’un Tigré littéralement à feu et à sang, où plus de deux millions de personnes ont dû fuir leur habitation, où l’on manque d’eau, d’électricité, de nourriture et de médicaments, où il est probable que la famine soit utilisée comme arme de guerre par les belligérants et où les humanitaires peinent toujours à accéder alors que 2,3 millions de personnes auraient besoin d’aide, selon les évaluations des ONG.

    Les affrontements y opposent le Front de libération du peuple du Tigré (TPLF) à l’armée fédérale éthiopienne, soutenue par des milices nationalistes amhara et des troupes érythréennes.

    « Nous recevons des rapports concordants à propos de violences ciblant certains groupes ethniques, d’assassinats, de pillages massifs, de viols, de retours forcés de réfugiés et de possibles crimes de guerre », a indiqué le 15 janvier le haut représentant de l’Union européenne pour les affaires étrangères et la politique de sécurité Josep Borrell, qui a annoncé par la même occasion la suspension de 88 millions d’euros d’aide destinée au gouvernement éthiopien.

    Dès le 13 novembre, la haute-commissaire de l’ONU aux droits de l’homme Michelle Bachelet évoquait elle aussi de possibles crimes de guerre et appelait à la mise en place d’une commission d’enquête indépendante pour le vérifier. À la veille de sa prise de fonction, le nouveau secrétaire d’État américain Antony Blinken s’est lui aussi inquiété publiquement de la situation.

    Une voix manque cependant à ce concert d’alertes : celle de la France. Le Quai d’Orsay n’a produit qu’un seul communiqué concernant le Tigré, le 23 novembre 2020. Il tient en quatre phrases convenues sur la dégradation de la situation humanitaire et la condamnation des « violences à caractère ethnique ». Exploit diplomatique, le mot « guerre » n’y apparaît pas ; celui de « crimes de guerre » encore moins. Il ne comporte ni interpellation des belligérants – qui ne sont d’ailleurs même pas cités –, ni appel à une enquête indépendante sur d’éventuelles violations des droits humains. Les mêmes éléments de langage étaient repris trois jours plus tard à l’occasion de la visite en France du ministre des affaires étrangères éthiopien Demeke Mekonnen.

    « Gênant, au minimum »

    Cette étrange pudeur française commence à interroger, voire à agacer certains alliés européens ainsi que nombre de chercheurs spécialisés sur l’Éthiopie – qui s’emploient, depuis deux mois et demi, à récolter les bribes d’informations qui parviennent du Tigré malgré la coupure des communications par les autorités.

    « J’ai des échanges réguliers avec l’#ambassade_de_France à Addis-Abeba depuis novembre. Je les ai questionnés sur leur position vis-à-vis du gouvernement éthiopien, et je les ai sentis très embarrassés », raconte le chercheur indépendant René Lefort, pour qui la #complaisance française vis-à-vis du gouvernement d’Abiy Ahmed Ali est incompréhensible : « Je crois qu’ils ne comprennent pas ce qu’est ce pays et ce qui s’y passe. »

    Au-delà des questions morales posées par le fait d’apporter un soutien tacite à un gouvernement qui a couvert ou laissé faire des violations des droits humains au Tigré, le soutien à #Abiy_Ahmed est une erreur d’analyse politique selon René Lefort : « Les Français parient tout sur lui, alors que son autorité personnelle est faible et que sa ligne politique n’est soutenue que par une minorité d’Éthiopiens. »

    La réserve française est en tout cas interprétée par l’armée fédérale éthiopienne et ses alliés comme un soutien de Paris. Le sociologue Mehdi Labzae était au Tigré, dans la région d’Humera, jusqu’à la mi-décembre : « Dans les zones conquises par les nationalistes amhara, se présenter comme Français facilite les relations avec les combattants, qui considèrent le gouvernement français comme un allié. Les déclarations françaises, ou leur absence, laissent penser que la réciproque est vraie », relève le chercheur, post-doctorant à la Fondation Maison des sciences de l’homme (FMSH). « Avec un ambassadeur à Addis qui fait comme si de rien n’était… Je trouve cela gênant, au minimum. »

    Selon une source diplomatique étrangère, la France ne se contente pas de rester discrète sur la situation au Tigré ; elle freine également les velléités des membres de l’Union européenne qui voudraient dénoncer plus ouvertement l’attitude des autorités éthiopiennes et de leurs alliés érythréens. Une attitude « parfois frustrante », déplore cette source.

    Interrogée par Mediapart sur cette « frustration » de certains alliés européens, l’ambassade de France à Addis-Abeba nous a renvoyé vers le Quai d’Orsay, qui n’a pas répondu sur ce point (voir boîte noire).

    Refus de répondre sur la création d’une commission d’enquête

    À ses partenaires européens, mais aussi aux chercheurs et humanitaires avec qui ils échangent, les services diplomatiques français expliquent que les accusations d’exactions visant l’armée éthiopienne et ses alliés ne « sont pas confirmées ». Il en va de même concernant la présence de troupes érythréennes sur place – cette présence a pourtant été confirmée à la fois par les autorités de transition du Tigré et par un général de l’armée éthiopienne.

    Une position difficilement tenable. D’abord parce que le gouvernement éthiopien empêche, en bloquant les communications avec le Tigré et en limitant l’accès des humanitaires, la récolte de telles preuves. Ensuite parce que, malgré ce blocus, les faisceaux d’indices s’accumulent : « Nous avons des informations qui nous viennent des ONG, d’équipes des Nations unies qui parlent off the record, de citoyens européens qui se trouvent toujours au Tigré ; nous avons aussi des listes de victimes, et de plus en plus de photos et vidéos », autant d’informations auxquelles l’ambassade de France a eu accès, explique un diplomate en poste à Addis-Abeba.

    La position française est difficilement tenable, enfin, parce que si elle tenait tant aux faits, la France ne se contenterait pas de refuser de condamner les crimes tant qu’ils ne sont pas « confirmés » : elle plaiderait pour la création d’une commission d’enquête indépendante qui permettrait, enfin, de les établir et de pointer les responsabilités respectives du TPLF, de l’armée éthiopienne et de ses alliés.

    Paris est dans une position idéale pour le faire, puisque la France vient d’être élue pour siéger au Conseil des droits de l’homme des Nations unies durant trois ans. Elle pourrait donc, aux côtés d’autres États membres, demander une session extraordinaire du Conseil sur l’Éthiopie (l’accord d’un tiers des 47 États qui composent le Conseil est nécessaire) qui déciderait de la création d’une commission d’enquête sur le Tigré.

    Or, interrogé par Mediapart sur son soutien à la création d’une telle commission, le Quai d’Orsay n’a pas souhaité répondre (voir boîte noire). Il assure avoir « appelé à plusieurs reprises les autorités éthiopiennes à faire la lumière sur les allégations de crimes et autres violations des droits de l’homme », sans toutefois préciser par quel canal.

    Hypothétique médiation

    Lors d’entrevues en privé, des diplomates de l’ambassade et du Quai d’Orsay assurent que cette absence de #dénonciation publique est volontaire et stratégique. Elle viserait à ne pas froisser le gouvernement éthiopien publiquement afin de « maintenir un canal de communication » pour mieux le convaincre en privé et, éventuellement, jouer un rôle de médiateur pour trouver une issue au conflit.

    « Des diplomates français m’ont dit, en résumé : “On reste discrets parce que si un jour il y a une #médiation à faire, le gouvernement pourrait se tourner vers nous” », indique René Lefort. Une analyse « totalement erronée », selon le chercheur : « Non seulement [le premier ministre] Abiy Ahmed Ali ne veut absolument pas d’une médiation, mais surtout, même s’il en acceptait le principe, je ne vois pas pourquoi il irait chercher la France plutôt que les États-Unis, l’Union européenne ou encore l’ONU. » Accessoirement, même si le gouvernement éthiopien souhaitait que la France soit médiatrice, il n’est pas dit que son principal adversaire, le TPLF, accepte le principe d’une médiation par un État qui a passé les derniers mois à multiplier les signes d’amitié envers Addis-Abeba et pourrait donc difficilement prétendre à la neutralité.

    Un (quasi-) #silence public pour mieux faire avancer les dossiers en privé : l’hypothèse est également avancée par l’ancien ambassadeur français en Éthiopie Stéphane Gompertz. « Il est possible que nous privilégions l’action en coulisses, qui peut être parfois plus efficace que de grandes déclarations. C’est d’ailleurs généralement l’option privilégiée par la #diplomatie française. » À l’appui de cette idée, l’ancien ambassadeur – qui fut aussi directeur Afrique au Quai d’Orsay – évoque des tractations discrètes mais couronnées de succès menées en 2005 afin de faire libérer des figures d’opposition.

    Si telle est la stratégie française actuellement, ses résultats sont pour l’instant peu concrets. Le quasi-silence français semble en réalité avoir d’autres explications : ne pas gâcher l’#amitié entre Emmanuel Macron et le premier ministre éthiopien Abiy Ahmed Ali et, surtout, ne pas compromettre les #intérêts_commerciaux français dans un pays vu comme économiquement prometteur et politiquement stratégique.

    Lune de miel

    Lors de sa nomination en 2018, le premier ministre éthiopien Abiy Ahmed Ali fait figure d’homme de paix et de chantre de la démocratie. Ses efforts de réconciliation avec l’Érythrée voisine lui valent le prix Nobel de la paix ; ses réformes sur la liberté de la presse ou la libération de prisonniers politiques lui attirent l’estime de nombreux chefs d’État étrangers.

    Est-ce une affaire de style ? Le fait qu’ils soient tous les deux jeunes, étiquetés comme libéraux, revendiquant une certaine manière de casser les codes ? Emmanuel Macron et Abiy Ahmed semblent en tout cas particulièrement s’apprécier. L’anecdote veut que lors d’une visite de #Macron à Addis-Abeba en 2019, Abiy Ahmed ait tenu à conduire lui-même la voiture amenant le président français à un dîner officiel.

    Lorsque le premier ministre éthiopien a pris ses fonctions, « les Allemands, les Français, l’UE, tout le monde a mis le paquet sur les aides, tout le monde s’est aligné sur lui. Sauf que, le temps passant, le malaise a grandi et la lune de miel a tourné au vinaigre, analyse une source dans les milieux économiques à Addis-Abeba. Les autres États ont rapidement déchanté. Pas les Français, pour qui la lune de miel a continué. »

    De fait, la transformation du Prix Nobel en chef de guerre ne semble pas avoir altéré sa belle entente avec le président français. Deux semaines après le début des hostilités au Tigré, et alors qu’Abiy Ahmed s’apprêtait à lancer un assaut « sans pitié » sur la ville de Mekele et ses 400 000 habitants, #Emmanuel_Macron qualifiait le premier ministre éthiopien de « role model ». Quelques semaines plus tard, toujours engagé dans ce conflit, Abiy Ahmed Ali trouvait le temps de souhaiter un prompt rétablissement à son « bon ami » Macron, atteint du Covid.

    Pour cette source, le facteur économique et commercial est essentiel : « Les Français sont restés très positifs parce qu’ils se positionnent clairement sur le secteur économique en Éthiopie : ils n’ont pas d’intérêt politique fort, ça n’est pas leur zone d’influence. Mais les #intérêts_économiques, eux, sont importants et sont grandissants. C’est potentiellement un #marché énorme. »

    Marché jugé prometteur

    Pour le conquérir, Paris a employé les grands moyens. En mars 2019, Emmanuel Macron s’est rendu en Éthiopie avec le ministère des affaires étrangères #Jean-Yves_le_Drian et sept patrons français pour y signer une flopée d’#accords visant à « promouvoir l’#attractivité de l’Éthiopie auprès des #investisseurs_français ».

    Les entreprises françaises intéressées par ce marché en voie de #libéralisation ne sont pas des moindres : #Orange (qui compte bien profiter de la privatisation de la compagnie nationale #Ethio_Telecom), le groupe #Castel (qui à travers sa filiale #BGI détient déjà 55 % des parts du marché de la #bière), #Bollore_Logistics ou encore #Canal+, qui compte développer une offre de #télévision locale.

    Les #intérêts_commerciaux français sont nombreux et variés. La #modernisation du #réseau_électrique éthiopien ? #Alstom (36 millions d’euros en 2011). La fabrication des #turbines de l’immense #barrage_hydroélectrique de la Renaissance ? Alstom encore (250 millions d’euros en 2013), qui désormais lorgne sur des projets ferroviaires. Le #bus « à haut niveau de service » qui desservira la capitale éthiopienne ? Les Français de #Razel-Bec (la filiale travaux publics du groupe #Fayat), qui ont remporté le marché en 2020.

    Peu après sa prise de poste, en octobre, l’ambassadeur français #Rémi_Maréchaux se félicitait : « Le nombre d’#entreprises_françaises en Éthiopie a doublé en cinq ans. Nous sommes prêts à travailler ensemble pour davantage d’investissements français. »

    #Contrats_militaires

    Dernier domaine stratégique pour les Français : la #coopération_militaire et les ventes d’#armes. Le dossier était en haut de la pile lors de la visite d’Emmanuel Macron en 2019. La ministre #Florence_Parly, qui était également du voyage, a signé un #accord_de_défense avec son homologue éthiopienne ainsi qu’une lettre d’intention « pour la mise en place d’une composante navale éthiopienne avec l’accompagnement de la France ».

    Une aubaine pour les fabricants d’armes et d’#équipements_militaires français, qui n’ont pas tardé, selon la presse spécialisée, à se manifester pour décrocher des contrats. Parmi eux, #Airbus, qui aimerait vendre des #hélicoptères de combat à l’Éthiopie. Le groupe a pu compter pour défendre ses intérêts sur l’attaché de défense de l’ambassade française à Addis-Abeba (jusque septembre 2020) #Stéphane_Richou, lui-même ancien commandant d’un régiment d’hélicoptères de combat.

    L’#armée de l’air éthiopienne a validé l’offre d’Airbus pour l’acquisition de 18 #hélicoptères_militaires et deux avions-cargos en octobre 2020, mais cherchait toujours des financements. Le déclenchement de la guerre au Tigré – où ces hélicoptères pourraient être utilisés – a-t-il conduit Airbus ainsi que le ministère des armées à reporter, voire annuler cette vente ?

    Ni Airbus ni le ministère n’ont souhaité nous répondre à ce sujet.

    Les affaires se poursuivent en tout cas entre la filiale civile d’Airbus et le gouvernement éthiopien : le 9 novembre, #Ethiopian_Airlines réceptionnait deux Airbus A350-900 pour sa flotte. Le 20 novembre encore, l’ambassadeur français à Addis-Abeba se félicitait d’une rencontre avec le PDG de la compagnie aérienne éthiopienne et ajoutait « Airbus » en hashtag.

    https://twitter.com/RemiMarechaux/status/1329829800031252481

    Quant à la coopération militaire France-Éthiopie, elle semble se poursuivre normalement si l’on en juge cette offre d’emploi de professeur de français à destination de militaires et policiers éthiopiens émise en décembre par la Direction de la coopération de sécurité et de défense du Quai d’Orsay (un contrat d’un an à pourvoir au 1er octobre 2021).

    Interrogé le 19 janvier sur le projet de création d’une #marine_éthiopienne, sur d’éventuelles livraisons d’armes récentes à l’Éthiopie et, plus généralement, sur la coopération militaire avec l’Éthiopie et le fait de savoir si l’évolution de la situation au Tigré était susceptible de la remettre en question, le ministère des armées a fait savoir 48 heures plus tard qu’il ne pourrait pas répondre « étant donné [les] délais ». Mediapart a proposé au ministère de lui accorder un délai supplémentaire pour fournir ses réponses. Le ministère n’a plus donné suite.

    Trop tard ?

    Le ministère des affaires étrangères, lui, n’a répondu à aucune des cinq questions précises que lui avait soumises Mediapart sur la présence de troupes érythréennes, les possibles crimes de guerres commis au Tigré et la coopération militaire avec l’Éthiopie notamment (voir boîte noire).

    Sa réponse condamne toutefois en des termes plus précis que par le passé les exactions commises au Tigré. La France est « profondément préoccupée » par la situation humanitaire sur place, « ainsi que par les allégations de violations des droits de l’homme », indique le Quai d’Orsay, avant d’appeler à la cessation des hostilités et au respect du droit international humanitaire par « toutes les parties au conflit ». Mais est-ce suffisant, et surtout n’est-ce pas trop tard ?

    Les dernières informations en provenance du Tigré évoquent des massacres qui auraient fait plusieurs centaines de morts. Plusieurs vidéos portent sur de possibles tueries dans la ville et l’église d’Aksoum, de la fin novembre à début décembre. Selon l’organisation belge Europe External Programme with Africa (EEPA) ainsi qu’un témoin interrogé par Le Monde, les troupes érythréennes y auraient tué plus de 750 personnes. Dans une interview mise en ligne le 17 janvier, une femme qui se dit témoin direct de ces tueries explique en amharique que « la ville entière, du dépôt de bus au parc, était recouverte de corps ».

    Les attaques et destructions concernent également des sites historiques inestimables ou jugés sacrés. La mosquée de Negash (site d’établissement des premiers musulmans éthiopiens, du temps du prophète Mahomet), datant du VIIe siècle, a été partiellement détruite et pillée. Le plus vieux monastère d’Éthiopie, le monastère orthodoxe de Debre Damo (VIe siècle), a également été attaqué.

    Enfin, Mediapart a pu consulter un témoignage de première main concernant un massacre commis dans l’église Maryam Dengelat – creusée dans la roche entre le VIe et le XIVe siècle par les premiers chrétiens d’Éthiopie –, qui estime que 80 personnes ont été tuées par l’armée érythréenne, parmi lesquelles des prêtres, des personnes âgées et des enfants. Ce témoignage fournit une liste comportant les noms de 35 victimes.

    « Si ces informations étaient confirmées, cela commencerait à ressembler à une stratégie d’anéantissement, non seulement du TPLF, mais du Tigré en tant qu’identité historique et territoriale », commente le chercheur Éloi Ficquet, de l’EHESS.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/210121/en-ethiopie-la-france-partagee-entre-business-et-defense-des-droits-humain
    #Ethiopie #France #armement #commerce_d'armes #vente_d'armes

  • Sur la frontière gréco-turque, à l’épicentre des tensions

    L’Union européenne entend sanctionner la politique de plus en plus expansionniste de la Turquie, qui ravive en Grèce les souvenirs des conflits du passé. Ligne de rupture, mais aussi d’échanges entre Orient et Occident, la frontière gréco-turque ne respire plus depuis la crise sanitaire. De #Kastellorizo à la #Thrace en passant par #Lesbos, les deux pays ont pourtant tant de choses en commun, autour de cette démarcation qui fut mouvante et rarement étanche.

    Petite île aux confins orientaux de la Grèce, Kastellorizo touche presque la #Turquie. Le temps s’écoule lentement dans l’unique village, logé dans une baie profonde. En cette fin septembre, de vieux pêcheurs jouent aux cartes près des enfants qui appâtent des tortues dans les eaux cristallines. Devant son café froid, M. Konstantinos Papoutsis observe, placide, l’immense côte turque, à guère plus de deux kilomètres, et la ville de Kaş, son seul horizon. « Nous sommes une île touristique tranquille, assure cet homme affable qui gère une agence de voyages. Je l’ai répété aux touristes tout l’été. » Attablée autour de lui, la poignée d’élus de cette commune de cinq cents âmes reprend ses propos d’un air débonnaire : « Il n’y a aucun danger à Kastellorizo ! »

    Un imposant ferry, qui paraît gigantesque dans ce petit port méditerranéen, vient animer le paysage. Parti d’Athènes vingt-quatre heures plus tôt, il manœuvre difficilement pour débarquer ses passagers, parmi lesquels une cinquantaine d’hommes en treillis et chapeaux de brousse. Les soldats traversent la baie d’un pas vif avant de rejoindre les falaises inhabitées qui la dominent. « C’est une simple relève, comme il y en a tous les mois », commente M. Papoutsis, habitué à cette présence.

    Selon le #traité_de_Paris de février 1947 (article 14), et du fait de la cession par l’Italie à la Grèce du Dodécanèse, les îles dont fait partie Kastellorizo sont censées être démilitarisées. Dans les faits, les troupes helléniques y guettent le rivage turc depuis l’occupation par Ankara de la partie nord de Chypre, en 1974, précisent plusieurs historiens (1). Cette défense a été renforcée après la crise gréco-turque autour des îlots disputés d’Imia, en 1996. La municipalité de Kastellorizo refuse de révéler le nombre d’hommes postés sur ses hauteurs. Et si les villageois affichent un air de décontraction pour ne pas effrayer les visiteurs — rares en cette période de Covid-19 —, ils n’ignorent pas l’ombre qui plane sur leur petit paradis.

    Un poste avancé d’Athènes en Méditerranée

    Kastellorizo se trouve en première ligne face aux menaces du président turc Recep Tayyip Erdoğan, qui veut redessiner les cartes et imposer son propre #partage_des_eaux. Depuis les années 1970, les #îles du #Dodécanèse font l’objet d’un #conflit larvé entre ces deux pays membres de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN). La Turquie conteste la souveraineté grecque sur plusieurs îles, îlots et rochers le long de sa côte. Surtout, elle est l’un des rares pays, avec notamment les États-Unis, à ne pas avoir signé la convention des Nations unies sur le droit de la mer (dite #convention_de_Montego_Bay, et entrée en vigueur en 1994), et ne reconnaît pas la revendication par la Grèce d’un plateau continental autour de ses îles. Athènes justifie dès lors leur #militarisation au nom de la #légitime_défense (2), en particulier depuis l’occupation turque de Chypre et en raison d’une importante présence militaire à proximité : la marine et l’armée de l’air turques de l’Égée sont basées à İzmir, sur la côte occidentale de l’Asie Mineure.

    Si proche de la Turquie, Kastellorizo se trouve à 120 kilomètres de la première autre île grecque — Rhodes — et à plus de 520 kilomètres du continent grec. Alors que l’essentiel de la #mer_Egée pourrait être revendiqué par Athènes comme #zone_économique_exclusive (#ZEE) (3) au titre de la convention de Montego Bay (voir la carte ci-contre), ce lointain îlot de neuf kilomètres carrés lui permet de facto de jouir d’une large extension de plusieurs centaines de kilomètres carrés en Méditerranée orientale. Or, faute d’accord bilatéral, cette ZEE n’est pas formellement établie pour Ankara, qui revendique d’y avoir librement accès, surtout depuis la découverte en Méditerranée orientale de gisements d’#hydrocarbures potentiellement exploitables. À plusieurs reprises ces derniers mois, la Turquie a envoyé dans le secteur un bateau de recherche sismique baptisé #Oruç_Reis, du nom d’un corsaire ottoman du XVIe siècle — surnommé « #Barberousse » — né à Lesbos et devenu sultan d’Alger.

    Ces manœuvres navales font écho à l’idéologie de la « #patrie_bleue » (#Mavi_Vatan). Soutenue par les nationalistes et les islamistes, cette doctrine, conçue par l’ancien amiral #Cem_Gürdeniz, encourage la Turquie à imposer sa #souveraineté sur des #zones_disputées en #mer_Noire, en mer Égée et en #Méditerranée. Ces derniers mois, M. Erdoğan a multiplié les discours martiaux. Le 26 août, à l’occasion de l’anniversaire de la bataille de Manzikert, en 1071, dans l’est de la Turquie, où les Turcs Seldjoukides mirent en déroute l’armée byzantine, il avertissait la Grèce que toute « erreur » mènerait à sa « ruine ». Quelques semaines plus tard, le 21 octobre, lors d’une rencontre avec les présidents chypriote et égyptien à Nicosie, M. Kyriakos Mitsotakis, le premier ministre grec conservateur, accusait la Turquie de « fantasmes impérialistes assortis d’actions agressives ».

    Sous pression en août dernier, Athènes a pu compter sur le soutien de la République de Chypre, de l’Italie et de la France, avec lesquelles elle a organisé des manœuvres communes. Ou encore de l’Égypte, avec laquelle elle vient de signer un accord de partage des #zones_maritimes. Déjà en conflit ouvert avec son homologue turc sur la Syrie, la Libye et le Caucase, le président français Emmanuel Macron s’est résolument rangé aux côtés d’Athènes. « C’est un allié précieux que l’on voudrait inviter à venir sur notre île », déclare l’adjoint à la municipalité de Kastellorizo, M. Stratos Amygdalos, partisan de Nouvelle Démocratie, le parti au pouvoir. À la mi-septembre 2020, la Grèce annonçait l’acquisition de dix-huit Rafale, l’avion de combat de Dassault Aviation.

    « Erdoğan se prend pour Soliman le Magnifique. Mais il perd du crédit dans son pays, la livre turque s’effondre. Alors il essaie de redorer son image avec des idées de conquêtes, de rêve national… », maugrée de son côté M. Konstantinos Raftis, guide touristique à Kastellorizo. La comparaison entre le sultan de la Sublime Porte et l’actuel président turc revient fréquemment dans ce pays qui fit partie de l’Empire ottoman durant quatre siècles (de 1430, date de la chute de Salonique, à l’indépendance de 1830). La résistance hellénique a forgé l’identité de l’État grec moderne, où l’on conserve une profonde suspicion à l’égard d’un voisin encombrant, quatre fois plus riche, six fois plus grand et huit fois plus peuplé. Cette méfiance transcende les clivages politiques, tant le #nationalisme irrigue tous les partis grecs. Athènes voit aujourd’hui dans la doctrine de la « patrie bleue » une politique expansionniste néo-ottomane, qui fait écho à l’impérialisme passé.

    À l’embouchure du port de Kastellorizo, la silhouette d’une mosquée transformée en musée — rare vestige de la présence ottomane — fait de l’ombre à un bar à cocktails. L’édifice trône seul face aux vingt-six églises orthodoxes. La Constitution précise que l’orthodoxie est la « religion dominante » dans le pays, et, jusqu’en 2000, la confession était inscrite sur les cartes d’identité nationales. La suppression de cette mention, à la demande du gouvernement socialiste, a provoqué l’ire de la puissante Église orthodoxe, plus de 95 % des Grecs se revendiquant alors de cette religion. « Pendant toute la période du joug ottoman, nous restions des Grecs. Nos ancêtres ont défendu Kastellorizo pour qu’elle garde son identité. Nous nous battrons aussi pour qu’elle la conserve », s’emballe soudainement M. Raftis.

    Son île a dû résister plus longtemps que le reste du pays, insiste le sexagénaire. Après le départ des Ottomans, Kastellorizo, convoitée par les nations étrangères pour sa position géographique aux portes de l’Orient, a été occupée ou annexée par les Français (1915-1921), les Italiens (1921-1944), les Britanniques (1944-1945)… L’îlot n’est devenu complètement grec qu’en 1948, comme l’ensemble des îles du Dodécanèse. Depuis, il arbore fièrement ses couleurs. Dans la baie, plusieurs étendards bleu et blanc flottent sur les balcons en encorbellement orientés vers la ville turque de Kaş (huit mille habitants). Le nombre de ces drapeaux augmente quand la tension s’accroît.

    Trois autres grands étendards nationaux ont été peints sur les falaises par des militaires. En serrant les poings, M. Raftis raconte un épisode qui a « mis les nerfs de tout le monde à vif ». À la fin septembre 2020, un drone d’origine inconnue a diffusé des chants militaires turcs avant d’asperger ces bannières d’une peinture rouge vif, évoquant la couleur du drapeau turc. « C’est une attaque impardonnable, qui sera punie », peste l’enfant de l’île, tout en scrutant les quelques visages inconnus sur la promenade. Il redoute que des espions viennent de Turquie.

    « Les #tensions durent depuis quarante ans ; tout a toujours fini par se régler. Il faut laisser la Turquie et la Grèce dialoguer entre elles », relativise pour sa part M. Tsikos Magiafis, patron avenant d’une taverne bâtie sur un rocher inhabité, avec une vue imprenable sur Kaş. « Les querelles sont affaire de diplomates. Les habitants de cette ville sont nos frères, nous avons grandi ensemble », jure ce trentenaire marié à une Turque originaire de cette cité balnéaire. Adolescent, déjà, il délaissait les troquets de Kastellorizo pour profiter du bazar de Kaş, du dentiste ou des médecins spécialisés qui manquent au village. Les Turcs, eux, ont compté parmi les premiers touristes de l’île, avant que la frontière ne ferme totalement en mars 2020, en raison du Covid-19.

    À Lesbos, les réfugiés comme « #arme_diplomatique »

    À 450 kilomètres plus au nord-ouest, au large de l’île de Lesbos, ce ne sont pas les navires de recherche d’hydrocarbures envoyés par Ankara que guettent les Grecs, mais les fragiles bateaux pneumatiques en provenance de la côte turque, à une dizaine de kilomètres seulement. Cette île montagneuse de la taille de la Guadeloupe, qui compte 85’000 habitants, constitue un autre point de friction, dont les migrants sont l’instrument.

    Depuis une décennie, Lesbos est l’une des principales portes d’entrée dans l’Union européenne pour des centaines de milliers d’exilés. Afghans, Syriens, Irakiens ou encore Congolais transitent par la Turquie, qui accueille de son côté environ quatre millions de réfugiés. En face, le rivage turc se compose de plages peu touristiques et désertes, prisées des passeurs car permettant des départs discrets. Les migrants restent toutefois bloqués à Lesbos, le temps du traitement de leur demande d’asile en Grèce et dans l’espoir de rejoindre d’autres pays de l’espace Schengen par des voies légales. Le principal camp de réfugiés, Moria, a brûlé dans des conditions obscures le 8 septembre, sans faire de victime grave parmi ses treize mille occupants.

    Pour M. Konstantinos Moutzouris, le gouverneur des îles égéennes du Nord, ces arrivées résultent d’un calcul stratégique d’Ankara. « Erdoğan utilise les réfugiés comme arme diplomatique, il les envoie lorsqu’il veut négocier. Il a une attitude très agressive, comme aucun autre dirigeant turc avant lui », accuse cette figure conservatrice locale, connue pour ses positions tranchées sur les migrants, qu’il souhaite « dissuader de venir ».

    Il en veut pour preuve l’épisode de tension de mars 2020. Mécontent des critiques de l’Union européenne lors de son offensive contre les Kurdes dans le nord de la Syrie, le président turc a annoncé l’ouverture de ses frontières aux migrants voulant rejoindre l’Europe, malgré l’accord sur le contrôle de l’immigration qu’il a passé avec Bruxelles en mars 2016. Plusieurs milliers de personnes se sont alors massées aux portes de la Grèce, à la frontière terrestre du Nord-Est, suscitant un renforcement des troupes militaires grecques dans ce secteur. Dans le même temps, à Lesbos, une dizaine de bateaux chargés de réfugiés atteignaient les côtes en quelques jours, déclenchant la fureur d’extrémistes locaux. « Nous ne communiquons plus du tout avec les autorités turques depuis », affirme M. Moutzouris.

    Athènes assume désormais une ligne dure, quitte à fermer une partie de sa frontière commune avec la Turquie aux demandeurs d’asile, en dépit des conventions internationales que la Grèce a signées. Le gouvernement a ainsi annoncé mi-octobre la construction d’un nouveau #mur de 27 kilomètres sur la frontière terrestre. Au début de l’année 2020, il avait déjà déclaré vouloir ériger un #barrage_flottant de 2,7 kilomètres au large de Lesbos. Un ouvrage très critiqué et jugé illégal par les organisations non gouvernementales (ONG) de défense des droits humains. Un projet « absurde », juge M. Georgios Pallis, pharmacien de l’île et ancien député Syriza (gauche). Plusieurs sources locales évoquent une suspension de la construction de ce barrage. Le gouvernement, lui, ne communique pas à ce sujet.

    « Les réfugiés payent la rupture du dialogue gréco-turc », déplore M. Pallis entre deux mezze arrosés de l’ouzo local, près du port bruyant de Mytilène, dans le sud de l’île. « Des retours forcés de migrants sont organisés par les gardes-côtes grecs. » En septembre, le ministre de la marine se targuait, au cours d’une conférence de presse, d’avoir « empêché » quelque dix mille migrants d’entrer en 2020. Un mois plus tard, le ministre de l’immigration tentait, lui, de rectifier le tir en niant tout retour forcé. À Lesbos, ces images de réfugiés rejetés ravivent un douloureux souvenir, analyse M. Pallis : « Celui de l’exil des réfugiés d’Asie Mineure. » Appelé aussi en Grèce la « #grande_catastrophe », cet événement a fondé l’actuelle relation gréco-turque.

    Au terme du déclin de l’Empire ottoman, lors de la première guerre mondiale, puis de la guerre gréco-turque (1919-1922), les Grecs d’Asie Mineure firent l’objet de #persécutions et de #massacres qui, selon de nombreux historiens, relèvent d’un #génocide (4). En 1923, les deux pays signèrent le #traité_de_Lausanne, qui fixait les frontières quasi définitives de la Turquie moderne et mettait fin à l’administration par la Grèce de la région d’İzmir-Smyrne telle que l’avait décidée le #traité_de_Sèvres de 1920 (5). Cet accord a aussi imposé un brutal #échange_de_populations, fondé sur des critères religieux, au nom de l’« #homogénéité_nationale ». Plus de 500 000 musulmans de Grèce prirent ainsi le chemin de l’Asie Mineure — soit 6,5 % des résidents de Lesbos, selon un recensement de 1920 (6). En parallèle, le traité a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs ».

    « Ils étaient chrétiens orthodoxes, ils parlaient le grec, mais ils étaient très mal perçus des insulaires. Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”. Il a fallu attendre deux générations pour que les relations s’apaisent », raconte M. Pallis, lui-même descendant de réfugiés d’Asie Mineure. « Ma grand-mère est arrivée ici à l’âge de 8 ans. Pour s’intégrer, elle a dû apprendre à détester les Turcs. Il ne fallait pas être amie avec “l’autre côté”. Elle n’a pas remis les pieds en Turquie avant ses 80 ans. »

    Enfourchant sa Vespa sous une chaleur accablante, M. Pallis s’arrête devant quelques ruines qui se dressent dans les artères de #Mytilène : d’anciennes mosquées abandonnées. L’une n’est plus qu’un bâtiment éventré où errent des chatons faméliques ; une autre a été reconvertie en boutique de fleuriste. « Les autorités n’assument pas ce passé ottoman, regrette l’ancien député. L’État devrait financer la reconstruction de ces monuments et le développement du tourisme avec la Turquie. Ce genre d’investissements rendrait la région plus sûre que l’acquisition de Rafale. »

    En #Thrace_occidentale, une population musulmane ballottée

    Dans le nord-est du pays, près de la frontière avec la Turquie et la Bulgarie, ce passé ottoman reste tangible. En Thrace occidentale, les #mosquées en activité dominent les villages qui s’élèvent au milieu des champs de coton, de tournesols et de tabac. La #minorité_musulmane de Grèce vit non loin du massif montagneux des #Rhodopes, dont les sommets culminent en Bulgarie. Forte d’entre 100 000 et 150 000 personnes selon les autorités, elle se compose de #Roms, de #Pomaks — une population d’origine slave et de langue bulgare convertie à l’#islam sous la #domination_ottomane — et, majoritairement, d’habitants aux racines turques.

    « Nous sommes des citoyens grecs, mais nous sommes aussi turcs. Nous l’étions avant même que la Turquie moderne existe. Nous parlons le turc et nous avons la même #religion », explique M. Moustafa Moustafa, biologiste et ancien député Syriza. En quelques mots, il illustre toute la complexité d’une #identité façonnée, une fois de plus, par le passé impérial régional. Et qui se trouve elle aussi au cœur d’une bataille d’influence entre Athènes et Ankara.

    Rescapée de l’#Empire_ottoman, la minorité musulmane a vu les frontières de la Grèce moderne se dessiner autour d’elle au XXe siècle. Elle fut épargnée par l’échange forcé de populations du traité de Lausanne, en contrepartie du maintien d’un patriarcat œcuménique à Istanbul ainsi que d’une diaspora grecque orthodoxe en Turquie. Principalement turcophone, elle évolue dans un État-nation dont les fondamentaux sont la langue grecque et la religion orthodoxe.

    Elle a le droit de pratiquer sa religion et d’utiliser le turc dans l’enseignement primaire. La région compte une centaine d’écoles minoritaires bilingues. « Nous vivons ensemble, chrétiens et musulmans, sans heurts. Mais les mariages mixtes ne sont pas encore tolérés », ajoute M. Moustafa, dans son laboratoire de la ville de #Komotini — aussi appelée #Gümülcine en turc. Les quelque 55 000 habitants vivent ici dans des quartiers chrétiens et musulmans érigés autour d’une rivière méandreuse, aujourd’hui enfouie sous le béton. M. Moustafa n’a presque jamais quitté la Thrace occidentale. « Notre minorité n’est pas cosmopolite, nous sommes des villageois attachés à cette région. Nous voulons juste que nos descendants vivent ici en paix », explique-t-il. Comme de nombreux musulmans de la région, il a seulement fait ses études supérieures en Turquie, avant de revenir, comme aimanté par la terre de ses ancêtres.

    À cent kilomètres de Komotini, la Turquie demeure l’« État parrain » de ces musulmans, selon le traité de Lausanne. Mais l’influence de celle que certains nomment la « mère patrie » n’est pas toujours du goût de la Grèce. Les plus nationalistes craignent que la minorité musulmane ne se rapproche trop du voisin turc et ne manifeste des velléités d’indépendance. Son statut est au cœur de la discorde. La Turquie plaide pour la reconnaissance d’une « #minorité_turque ». La Grèce refuse, elle, toute référence ethnique reliée à une appartenance religieuse.

    La bataille se joue sur deux terrains : l’#éducation et la religion. À la fin des années 1990, Athènes a voulu intégrer la minorité dans le système d’éducation publique grec, appliquant notamment une politique de #discrimination_positive et offrant un accès facilité à l’université. Les musulmans proturcs plaident, eux, pour la création de davantage d’établissements minoritaires bilingues. Sur le plan religieux, chaque partie nomme des muftis, qui ne se reconnaissent pas mutuellement. Trois représentants officiels sont désignés par la Grèce pour la région. Deux autres, officieux, le sont par les musulmans de Thrace occidentale soutenus par Ankara, qui refuse qu’un État chrétien désigne des religieux.

    « Nous subissons toujours les conséquences des #crises_diplomatiques. Nous sommes les pions de leur jeu d’échecs », regrette d’une voix lasse M. Moustafa. Le sexagénaire évoque la période qui a suivi le #pogrom dirigé principalement contre les Grecs d’Istanbul, qui avait fait une quinzaine de morts en 1955. Puis les années qui ont suivi l’occupation du nord de #Chypre par la Turquie, en 1974. « Notre minorité a alors subi une violation de ses droits par l’État grec, dénonce-t-il. Nous ne pouvions plus passer le permis de conduire. On nous empêchait d’acheter des terres. » En parallèle, de l’autre côté de la frontière, la #peur a progressivement poussé la communauté grecque de Turquie à l’exil. Aujourd’hui, les Grecs ne sont plus que quelques milliers à Istanbul.

    Ces conflits pèsent encore sur l’évolution de la Thrace occidentale. « La situation s’est améliorée dans les années 1990. Mais, maltraités par le passé en Grèce, certains membres de la minorité musulmane se sont rapprochés de la Turquie, alimentant une méfiance dans l’imaginaire national grec. Beaucoup de chrétiens les considèrent comme des agents du pays voisin », constate M. Georgios Mavrommatis, spécialiste des minorités et professeur associé à l’université Démocrite de Thrace, à Komotini.
    « Ankara compte des milliers d’#espions dans la région »

    Une atmosphère de #suspicion plane sur cette ville, sous l’emprise de deux discours nationalistes concurrents. « Les gens de l’extrême droite grecque nous perçoivent comme des janissaires [soldats de l’Empire ottoman]. Erdoğan, lui, nous qualifie de soydas [« parents », en turc] », détaille d’une voix forte Mme Pervin Hayrullah, attablée dans un café animé. Directrice de la Fondation pour la culture et l’éducation en Thrace occidentale, elle se souvient aussi du passage du président turc dans la région, fin 2017. M. Erdoğan avait dénoncé les « discriminations » pratiquées par l’État grec à l’égard de cette communauté d’origine turque.

    Une chrétienne qui souhaite rester anonyme murmure, elle, que « les autorités grecques sont dépassées. La Turquie, qui est bien plus présente sur le terrain, a davantage de pouvoir. Ankara compte des milliers d’espions dans la région et donne des millions d’euros de budget chaque année au consulat turc de Komotini ». Pour Mme Hayrullah, qui est proche de cette institution, « le consulat ne fait que remplir une mission diplomatique, au même titre que le consulat grec d’Edirne [ville turque à quelque deux cents kilomètres, à la frontière] ». L’allure du consulat turc tranche avec les façades abîmées de Komotini. Surveillé par des caméras et par des gardes en noir, l’édifice est cerné de hautes barrières vertes.

    « La Grèce nous traite bien. Elle s’intéresse au développement de notre communauté et nous laisse exercer notre religion », vante de son côté M. Selim Isa, dans son bureau calme. Le président du comité de gestion des biens musulmans — désigné par l’État grec — est fier de montrer les beaux lustres et les salles lumineuses et rénovées d’une des vingt mosquées de Komotini. « Mais plus les relations avec la Turquie se détériorent et plus le consulat étend son influence, plus il revendique la reconnaissance d’une minorité turque », ajoute M. Isa, regard alerte, alors que l’appel du muezzin résonne dans la ville.

    À l’issue du sommet européen des 10 et 11 décembre, l’Union européenne a annoncé un premier volet de #sanctions contre la Turquie en raison de ses opérations d’exploration. Des mesures individuelles devraient cibler des responsables liés à ces activités. Athènes plaidait pour des mesures plus fortes, comme un embargo sur les armes, pour l’heure écarté. « C’était une proposition-clé. Nous craignons que la Turquie s’arme davantage. Sur le plan naval, elle est par exemple en train de se doter de six #sous-marins de type #214T fournis par l’#Allemagne, explique le diplomate grec Georgios Kaklikis, consul à Istanbul de 1986 à 1989. M. Erdoğan se réjouit de ces sanctions, qui sont en réalité minimes. » Le président turc a réagi par des #rodomontades, se félicitant que des pays « dotés de bon sens » aient adopté une « approche positive ». Bruxelles assure que d’autres mesures pourraient tomber en mars 2021 si Ankara ne cesse pas ces actions « illégales et agressives ».

    https://www.monde-diplomatique.fr/2021/01/PERRIGUEUR/62666
    #Grèce #Turquie #frontière #asile #migrations #réfugiés
    #Oruc_Reis #murs #Evros #barrières_frontalières #histoire

    ping @reka

    –—

    #terminologie #mots #vocabulaire :
    – "Le traité (de Lausanne) a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs »."
    – "Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”."

    –-> ajoutés à la métaliste sur la terminologie de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

    ping @sinehebdo

  • Sudan declares full control of border territory settled by Ethiopians

    Sudan said on Thursday its forces had taken control of all of Sudanese territory in a border area settled by Ethiopian farmers, after weeks of clashes.

    Ethiopia, for its part, accused its neighbour of sending forces into its territory for attacks.

    Border tensions have reignited since the outbreak of a conflict in Ethiopia’s northern Tigray region in early November, which sent more than 50,000 mainly Tigrayan refugees fleeing into eastern Sudan.

    Clashes have occurred in recent weeks over agricultural land in the #al-Fashqa area, which lies within Sudan’s international boundaries but has been settled by Ethiopian farmers for years.

    On Saturday, Sudan said it had taken control of most, but not all, of the territory. Acting Foreign Minister Omar Gamareldin told a news conference on Thursday it had now taken the rest.

    Talks between the two countries over the border broke down last week. Sudanese officials say Ethiopia has not formally disputed the border, which was demarcated decades ago. But comments from Ethiopian officials suggest disagreement.

    At a news conference on Tuesday, Ethiopia’s foreign ministry spokesman Dina Mufti accused Sudan of sending troops onto its land.

    “The condition has reached a point where some (Sudanese) political leaders were saying it was their land, and they controlled their own land and they are not going to leave the land,” he said.

    In an Independence Day address late on Thursday, the head of Sudan’s sovereign council said its troops had not left Sudan.

    “Sudan has not and will not cross international borders or violate our neighbour Ethiopia,” General Abdelfattah al-Burhan said late on Thursday. He said Sudan was looking to solve the issue of trespassing farmers through dialogue.

    Ethiopia has accused Sudan of carrying out attacks on the farmers starting in early November. Sudan has said the forces it has engaged with are trained and armed like regular troops.

    Ethiopian spokesman Mufti also blamed Sudan’s behaviour on an unnamed third country, which he said was seeking instability in the region and occupying Sudanese land. That appeared to be a reference to Egypt, which summoned the Ethiopian charge d’affairs to demand an explanation for Mufti’s remarks.

    Egypt, Ethiopia and Sudan have so far failed to end a three-way dispute over the filling and operation of the billion-dollar Grand Ethiopian Renaissance Dam, which Egypt sees as a threat to its agricultural economy, and which began filling in July.

    https://in.reuters.com/article/sudan-ethiopia-idINKBN2951BG?taid=5fee51e8e9b1eb00011de63a
    #Soudan #guerre #conflit #frontières #différend_frontalier
    #Ethiopie #Egypte #agriculture #eau #barrage_hydroélectrique #Nil #Tigré

    ping @reka @fil

  • #Police attitude, 60 ans de #maintien_de_l'ordre - Documentaire

    Ce film part d´un moment historique : en 2018-2019, après des affrontements violents entre forces de l´ordre et manifestants, pour la première fois la conception du maintien de l´ordre a fait l´objet de très fortes critiques et d´interrogations insistantes : quelle conception du maintien de l´ordre entraîne des blessures aussi mutilante ? N´y a t-il pas d´autres manières de faire ? Est-ce digne d´un État démocratique ? Et comment font les autres ? Pour répondre à ces questions, nous sommes revenus en arrière, traversant la question du maintien de l´ordre en contexte de manifestation depuis les années 60. Pas seulement en France, mais aussi chez nos voisins allemands et britanniques, qui depuis les années 2000 ont sérieusement repensé leur doctrine du maintien de l´ordre. Pendant ce temps, dans notre pays les autorités politiques et les forces de l´ordre, partageant la même confiance dans l´excellence d´un maintien de l´ordre « à la française » et dans le bien-fondé de l´armement qui lui est lié, ne jugeaient pas nécessaire de repenser la doctrine. Pire, ce faisant c´est la prétendue « doctrine » elle-même qui se voyait de plus en plus contredite par la réalité d´un maintien de l´ordre musclé qui devenait la seule réponse française aux nouveaux contestataires - lesquels certes ne rechignent pas devant la violence, et c´est le défi nouveau qui se pose au maintien de l´ordre. Que nous apprend in fine cette traversée de l´Histoire ? Les approches alternatives du maintien de l´ordre préférées chez nos voisins anglo-saxons ne sont sans doute pas infaillibles, mais elles ont le mérite de dessiner un horizon du maintien de l´ordre centré sur un rapport pacifié aux citoyens quand nous continuons, nous, à privilégier l´ordre et la Loi, quitte à admettre une quantité non négligeable de #violence.

    https://www.dailymotion.com/video/x7xhmcw


    #France #violences_policières
    #film #film_documentaire #Stéphane_Roché #histoire #morts_de_Charonne #Charonne #répression #mai_68 #matraque #contact #blessures #fractures #armes #CRS #haie_d'honneur #sang #fonction_républicaine #Maurice_Grimaud #déontologie #équilibre #fermeté #affrontements #surenchère #désescalade_de_la_violence #retenue #force #ajustement_de_la_force #guerilla_urbaine #CNEFG #Saint-Astier #professionnalisation #contact_direct #doctrine #maintien_de_l'ordre_à_la_française #unités_spécialisées #gendarmes_mobiles #proportionnalité #maintien_à_distance #distance #Allemagne #Royaume-Uni #policing_by_consent #UK #Angleterre #Allemagne #police_militarisée #Irlande_du_Nord #Baton_rounds #armes #armes_à_feu #brigades_anti-émeutes #morts #décès #manifestations #contestation #voltigeurs_motoportés #rapidité #23_mars_1979 #escalade #usage_proportionné_de_la_force #Brokdorf #liberté_de_manifester #innovations_techniques #voltigeurs #soulèvement_de_la_jeunesse #Malik_Oussekine #acharnement #communication #premier_mai_révolutionnaire #Berlin #1er_mai_révolutionnaire #confrontation_violente #doctrine_de_la_désescalade #émeutes #G8 #Gênes #Good_practice_for_dialogue_and_communication (#godiac) #projet_Godiac #renseignement #état_d'urgence #BAC #brigades_anti-criminalité #2005 #émeutes_urbaines #régime_de_l'émeute #banlieue #LBD #flashball #lanceur_de_balles_à_distance #LBD_40 #neutralisation #mutilations #grenades #grenade_offensive #barrage_de_Sivens #Sivens #Rémi_Fraisse #grenade_lacrymogène_instantanée #cortège_de_tête #black_bloc #black_blocs #gilets_jaunes #insurrection #détachement_d'action_rapide (#DAR) #réactivité #mobilité #gestion_de_foule #glissement #Brigades_de_répression_des_actions_violentes_motorisées (#BRAV-M) #foule #contrôle_de_la_foule #respect_de_la_loi #hantise_de_l'insurrection #adaptation #doctrine #guerre_civile #défiance #démocratie #forces_de_l'ordre #crise_politique

  • ***ATTENTION ! C’EST PROBABLEMENT UNE FAKE-NEWS, VOIR PLUS BAS DANS CE FIL DE DISCUSSION !***

    La #cruauté de cette #Europe qui perd toute #humanité à ses #frontières...
    Bulgaria Floods Evros River to Prevent Migrants Storming Greek Borders

    Bulgaria Floods Evros River to Prevent Migrants Storming Greek Borders
    At the request of Greece, Bulgaria opened an Evros River dam located on its territory on Monday in order to cause intentional flooding and make it more difficult for migrants amassed at the Greek-Turkish border to cross the river.

    The opening of the #Ivaylovgrad Dam accordingly resulted in rising levels of the Evros River, Star TV reported.

    As the standoff between thousands of migrants and refugees on the Turkish side of the Evros and Greek security forces continues, PM Kyriakos Mitsotakis met his German counterpart Angela Merkel in Berlin and stressed that Greece and Europe cannot be blackmailed.

    He pointed out that if the Turkish President wants a review of the EU-Turkey agreement on migration “which he has, himself, effectively demolished,” then he must take the following actions: Remove the desperate people from Evros and stop spreading disinformation and propaganda.

    The Greek PM suggested that Erdogan should also examine other possible improvements, such as joint patrols to control the flow of migrants at the Turkish border. He also pointed out that the repatriation of those who illegally enter Greece should be possible from mainland Greece, as well as the islands.

    ”Greece has always recognized and continues to recognize that Turkey has played a crucial role in the management of the refugee issue — but this can’t be done using threats and blackmail,” he added.

    https://greece.greekreporter.com/2020/03/10/bulgaria-floods-evros-river-to-prevent-migrants-storming-greek

    #asile #migrations #réfugiés #Bulgarie #Evros #Grèce #fleuve_Evros #barrage #environnement_hostile #ouverture #barrage_hydroélectrique #inhumanité #inondation #noyades #dangers #dangerosité

    Le barrage en question...

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    Ajouté à ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/828209

    • Bulgaria opens dam in Evros – Water level rises closing passage for illegal immigrants

      Greece is taking every measure necessary to demonstrate its determination to guard the borders of Europe.
      Τhe passage for migrants from the Evros river became even more difficult as the dams from Bulgaria opened and water levels began to rise.

      The Bulgarian authorities, at Greece’s request, proceeded forward with the action.

      Greece is taking every measure necessary to demonstrate its determination to guard the borders of Europe.

      The Ivailograc Dam releases even greater quantities of water from noon onwards, resulting in the rising levels of the Arda and Evros rivers.

      http://en.protothema.gr/bulgaria-opens-dam-in-evros-water-level-rises-closing-passage-for-ille

    • Non, la Bulgarie n’a pas ouvert un barrage pour aider la Grèce à stopper les migrants

      De nombreux sites internet et comptes d’extrême droite affirment que « la Bulgarie a ouvert [lundi 9 mars] un barrage pour faire monter le niveau du fleuve Evros » et ainsi empêcher les migrants de franchir la frontière turco-grecque. Faux, selon le gouvernement bulgare. Des relevés au barrage d’Ivaylovgrad et des images satellites contredisent également cette affirmation.

      « Les autorités bulgares, à la demande de la Grèce, ont ouvert le barrage d’Ivaïlovgrad, de sorte que le fleuve Evros qui délimite une majeure partie de la frontière gréco-turque soit en crue, plus difficile à traverser à pied (...) Voici un bel exemple de la solidarité européenne », écrit le site d’extrême droite FL24.

      L’affirmation, relayée lundi 9 mars par la chaîne grecque Star TV, a été reprise le 11 mars par les sites Valeurs Actuelles et Fdesouche, par un porte-parole de Génération identitaire et par de nombreux sites anglophones, comme ici et ici.


      « La Bulgarie n’a pas reçu de demande de la Grèce pour un lâcher contrôlé au barrage d’Ivaylovgrad », a déclaré à l’AFP Ivan Dimov, conseiller de la ministre bulgare des Affaires étrangères Ekaterina Zaharieva.

      Ce barrage est situé sur la rivière Arda, affluent du fleuve Evros, à quelques kilomètres en amont de la frontière bulgaro-grecque, et à une trentaine de kilomètres à vol d’oiseau de la frontière gréco-turque.

      « On n’observe pas de hausse du niveau du fleuve Maritsa au niveau de Svilengrad », ville bulgare située en aval, près de la frontière gréco-turque, affirme M. Dimov.

      Le ministre bulgare de l’Environnement et de l’Eau, Emil Dimitrov, a également démenti mercredi sur la chaîne bulgare BTV (voir ici) avoir reçu une telle demande des autorités grecques. Le barrage d’Ivaylovgrad n’a pas été ouvert ces derniers jours, a-t-il affirmé.

      « C’est une fake news (...). Personne n’a autorisé une telle chose. Je signe chaque mois un programme d’utilisation de l’eau libérée par les barrages », et ce document « est valable pour le mois en cours », a déclaré le ministre.

      Les images utilisées pour illustrer la prétendue nouvelle remontent par ailleurs à plusieurs années.

      La photo ci-dessous circulait déjà sur internet en février 2015 (voir ici).


      Les images du tweet ci-dessous, reprises par la plupart des sites, dont Valeurs Actuelles, avaient déjà été diffusées par un site grec en juillet 2018 (captures d’écran ci-dessous à droite).

      Des relevés, disponibles sur le site du ministère bulgare de l’Environnement et de l’Eau, montrent eux que le niveau du barrage d’Ivaylovgrad a légèrement augmenté entre le 6 et le 10 mars, contredisant la thèse d’un lâcher d’eau massif le 9 mars.

      « Barrage d’Ivaylovgrad : 120.161 millions de m3, soit 76,68% de son volume total », est-il écrit dans le relevé du 10 mars. Celui du 6 mars indique un niveau inférieur, avec 119.302 m3 d’eau, soit 76,13% de sa capacité.

      Une comparaison d’images satellites (disponibles sur le site Sentinel Hub) des 8 et 11 mars ne montre pas non plus de crue significative du fleuve Evros.

      Un petit banc de sable, situé en aval du barrage et à 1,5 km en amont de la frontière turco-grecque, est notamment visible aux deux dates, bien que légèrement moins au 11 mars. Pour autant, un correspondant de l’AFP présent à la frontière gréco-turque à ces dates explique que la zone a connu d’importantes précipitations.

      Des images satellites plus anciennes montrent que ce banc s’est réduit de manière nettement plus significative entre le 6 et le 8 mars, et que ce banc varie régulièrement - et fortement - en fonction du niveau du fleuve.

      Le ministre M. Dimitrov a expliqué à la télévision bulgare qu’un lâcher d’eau au barrage d’Ivaylovgrad aurait fait monter le niveau du fleuve Evros durant quelques heures, mais n’aurait eu selon lui aucun effet durable susceptible de dissuader des migrants de tenter la traversée.

      La Grèce possède en outre un barrage sur la rivière Arda (voir ici), affluent de l’Evros, a-t-il rappelé, suggérant que le pays aurait pu créer une crue artificielle sans l’aide de la Bulgarie.

      Des milliers de migrants se sont rués vers la frontière terrestre turco-grecque, délimitée par le fleuve Evros, quand Ankara a annoncé le 28 février l’ouverture de ses portes à tous les demandeurs d’asile souhaitant rejoindre l’Europe. Des dizaines ont réussi à traverser le fleuve et à pénétrer sur le territoire grec.

      Contacté mercredi 11 mars, le gouvernement grec n’avait pas répondu à nos questions.

      https://factuel.afp.com/non-la-bulgarie-na-pas-ouvert-un-barrage-pour-aider-la-grece-stopper-le
      #fake-news

  • La tragedia del #Mattmark

    Il bel sole volgeva al tramonto
    tra le cime deserte e ghiacciate
    già le squadre eran tutte tornate
    da un infido e pesante lavor

    era gente di varie nazioni
    ma in gran parte era gente italiana
    che lasiata la casa lontana
    a Mattmark lor trovaron lavor

    la montagna a vederla era imensa
    la oservan gli adetti al cantiere
    a ciascuno sembrava vedere
    un gigante forgiato di acciar

    dopo il turno di dura fatica
    si lasiavan gli arnesi a riposo
    e si andava con anim gioioso
    alla mensa dov’era pronto il cenar

    chi pensava alla casa natia
    alla moglie ai figli adorati
    ai parenti al paese lasiati
    fiduciosi di un lieto avenir

    chi pensava al denar guadagnato
    e a quello che risparmiato aveva
    i progetti da solo faceva
    fiducioso d’un lieto avenir

    ad un tratto si è sentito un ronzio
    che diventò man mano stridore
    poi sembrò di tuono un fragore
    che dall’alto veloce arrivò

    non si ebbe il tempo nemen di parlare
    o di corere a qualche riparo
    prima ancora che il peril fosse chiaro
    la tragedia si volse al final

    giunse alora la morte veloce
    sivolando il ghiacciaio falciava
    e sicura rovina portava
    né una forma fermarlo poté

    un boato tremar fe’ le valli
    poi tornò il silenzio assoluto
    il tremendo destin fu compiuto
    nello spazio di un attimo sol

    ancor ogi una coltre ricopre
    operai ch’eran pieni di vita
    è una bara di neve indurita
    dove salvarli nessuno riuscì

    passa il tempo e forse per sempre
    resteranno dei corpi nel ghiaccio
    la montagna col bianco suo abracio
    se li tiene li prese con sé.

    https://www.youtube.com/watch?v=X3ei56Ta_R4


    #chanson #musique #Suisse #travailleurs_étrangers #Italiens #travailleurs_italiens #Valais #histoire #barrage_hydroélectrique #montagne

    Sur la #tragédie, voir :
    https://seenthis.net/messages/402405

    ping @sinehebdo

  • #Hasankeyf : l’acqua alla gola

    La decisione, insindacabile, viene comunicata per mezzo di una telefonata. «È stata costruita per voi una casa sull’altra sponda del fiume. Prendere o lasciare». I più prendono, che cosa si potrebbe fare altrimenti? C’è chi, invece, magari si è già spostato verso centri più grandi, come Batman, a circa 40 km di distanza. In ogni caso, per quelli che decidono di accettare la proposta del governo, sembra esserci un prezzo da pagare: le “case sull’altra sponda” sono nuove, appena edificate, e – in fin dei conti – valgono più di quelle vecchie, millenarie, che stanno dall’altra parte. C’è quindi da saldare la differenza: “Prendere o lasciare”.

    Hasankeyf, cittadina di circa 7000 abitanti scavata nelle rocce della valle del Tigri, sta per essere completamente evacuata. I suoi monumenti sono stati smembrati pezzo per pezzo e ricomposti altrove, oppure sono stati ricostruiti ex-novo, oppure ancora lasciati dove l’acqua li sommergerà a breve. La diga #Ilisu – progettata per la prima volta nel 1954, rievocata da Erdoğan e autorizzata nel 2006 – diventerà operativa a giugno di quest’anno. L’innalzamento del fiume provocherà la scomparsa di più di un centinaio di villaggi, lo spostamento di migliaia di persone, pericolosi cambiamenti idrogeologici, mutazioni microclimatiche poco (o per nulla) studiate. E, secondo le stime, una produzione di energia elettrica di 3800 Gwh all’anno.

    Una città simbolo

    «Non è tanto importante il fatto che perdiamo il lavoro o le nostre occupazioni. Quello che lasciamo sono le nostre radici, lasciamo 10.000 anni di storia!». Il piccolo bar all’aperto di Süleyman si trova nella parte alta della cittadina, dove la strada in salita lascia spazio alle dritte pareti di roccia e si trasforma in stretti canyon che si incuneano fra le montagne. Attorno alle sedie rosse, oltre alla vista mozzafiato, c’è il filo spinato che delimita l’area dei lavori in corso. «Come tutti, la notizia l’abbiamo saputa attraverso i social media. Poi abbiamo ricevuto la telefonata da parte dell’amministrazione, che ci proponeva una casa nella nuova Hasankeyf».

    Le principali attività del villaggio curdo sono l’agricoltura e l’allevamento. Ma, nel corso del tempo, si è sviluppato anche un forte afflusso di turisti e molti degli abitanti hanno dunque aperto esercizi di ristoro o negozi di artigianato. Niente di invasivo o eccessivamente posticcio: superato il ponte sul Tigri, la “zona turistica” - se così si può chiamare – si estende sulla destra in uno stretto e corto vialetto che in breve tempo si conforma ai giardini e alle modeste abitazioni del villaggio. Artukidi, hurriti-mitanni, assiri, urartu, medi, persiani, romani, sasanidi, bizantini, selgiuchidi, ayubbidi e ottomani: sono innumerevoli le civiltà che si sono insediate a Hasankeyf e che hanno lasciato le proprie tracce. In generale, gli abitanti sanno di essere “cittadini di un simbolo”. Simbolo di una storia millenaria che si radica nella terra, cittadini di una patria immateriale che prende forma nella solidarietà di chi si sente curdo e condivide le medesime sorti di segregazione e invisibilità.
    Ribaltare lo sguardo

    «Ecco, vedi là sopra? Io da bambino vivevo vicino al castello, nella parte alta della città». Adesso Ridvan Hayan abita a Batman. Già militante del partito HDP, ora nel consiglio comunale di Hasankeyf, fa parte anche del Centro per l’Ecologia della Mesopotamia. Ripercorrere con lui le strade del villaggio significa ripercorre una parabola biografica e politica insieme. «I centri che verranno sommersi dalla diga sono 199. Per la nostra lotta, abbiamo puntato su Hasankeyf perché la sua immagine era la più spendibile, anche a livello internazionale. Purtroppo, la nostra richiesta di farne un Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco non è stata accettata: “solo” 9 criteri approvati su 10».

    Ridvan ha lo storico delle decisioni e dei numerosi ricorsi nella sua macchina. Continua a “guidare” chiunque glielo chieda attraverso la storia della città e delle battaglie che sono state intraprese per salvarla. «Abbiamo prodotto dei dossier, abbiamo formato dei comitati e organizzato sit-in nel villaggio. Nel 2012 mi hanno accusato di terrorismo e sono rimasto in carcere per un anno e mezzo». Ma perché a Hasankeyf vince l’AKP? A differenza infatti di altri centri dell’area orientale della Turchia, non c’è stato “bisogno” di imporre il commissariamento. Il partito di Erdoğan è saldamente al controllo del villaggio. «È stato disposto un rimescolamento delle circoscrizioni. Vedi quella parte della città che si trova appena dopo il ponte? Ecco, loro per esempio hanno votato a Batman. Viceversa, abitanti di altri villaggi – che magari non conoscono la causa di questo centro o non le sono vicini – hanno votato alle urne di Hasankeyf».

    Quello che Erdoğan ottiene attraverso l’attivazione della diga di Ilisu sono sostanzialmente tre cose: un maggiore controllo nell’area della Turchia orientale, un parziale annullamento della storia e dell’identità curde, una leva di “ricatto” verso le popolazioni curde del nord della Siria e dell’Iraq, che sarebbero interessate da una potenziale chiusura o riduzione dell’approvvigionamento idrico.

    Nel corso degli ultimi anni, in realtà, Hasankeyf di visibilità ne ha ottenuta molta. La sua vicenda chiama in causa importanti questioni geopolitiche e la stampa, anche internazionale, si è interessata alla zona con reportage, servizi e documentari. «Ma non è questo che conta!», dice uno degli accompagnatori (che non risiede nell’area), tra il serio e il faceto. «Si è fatto di Hasankeyf una questione politica, e lo è. Ma oramai la politica è tutta marketing ed è su quello che bisogna puntare!». Mentre lo dice è davanti alla “Nuova Hasankeyf”. Una distesa di villette “standard”, che si sviluppa sulla sponda opposta del fiume Tigri. Una caserma, la scuola e qualche piazza di cemento appena aggregato. Alcuni monumenti sono già stati trasportati qui e delle persone si fermano a guardarli, non sappiamo se futuri residenti o semplici visitatori. «Immagina un mockumentary girato per questa città fantasma. Sembra che sia stata appena abbandonata. Cos’è successo? Una catastrofe? Gli abitanti non si trovavano bene? Occorre ribaltare lo sguardo. Qui, ora, è la vera Hasankeyf».
    Fino alla fine

    Pare che nella Nuova Hasankeyf, dove alcuni già vivono e dove sono già in funzione alcuni servizi (come la scuola), l’elettricità sia ancora intermittente e l’attuazione di un vero e proprio piano urbanistico sia lungi dall’essere completato. «Lì è tutto cemento. In più la coltivazione e l’allevamento sono vietati». Eyüp ha ben chiaro quello che attende lui e la sua famiglia. «Non potrò più lavorare e non potrò più continuare l’attività del piccolo punto ristoro che gestisco alla sommità del paese, dove ci sono le cave». Il piccolo spiazzo in cui serve il çay a visitatori e locali mostra la valle nella sua interezza, e il Tigri sembra ormai più una divisione temporale che geografica. «Che cosa mi mancherà di più di Hasankeyf? Le rocce, il panorama, tutto!». A Eyüp fa eco İlyas, che invece ha una locanda proprio a ridosso del fiume. «La storia della diga va avanti da 40 anni e con questa scusa, qui, non hanno mai costruito una fabbrica, una scuola o un ospedale. Lo sappiamo che ci devono spostare, tanto vale che accada in fretta. Meglio che restare in un limbo dove né ci permettono di vivere dignitosamente né ci sgomberano».

    Verrebbe da dire che la Nuova Hasankeyf non sarà mai realmente abitata, poiché nessuno sta realmente scegliendo di farlo. La sua cifra è già quella dell’abbandono, ancor prima che venga vissuta e nonostante - almeno in parte – stia funzionando come città. Ma è una mockucittà, l’imitazione di un passato che, per i suoi prossimi “dis-abitanti”, diventa il segno presente di un’oppressione. «Sono tutte bugie», dice senza mezzi termini Mehmet, uno degli ultimi tessitori dell’area. «Non è vero che devono veramente far passare la diga da qua, potevano tracciare un percorso diverso oppure mantenere il livello del fiume più basso. Vogliono solo distruggere la nostra storia e la nostra cultura. Io, comunque, resterò qua fino all’ultimo. Rimarrò qui col mio corpo, fino a quando non avrò l’acqua alla gola». Con la mente e col cuore, sicuramente anche oltre.

    https://www.unimondo.org/Guide/Ambiente/Acqua/Hasankeyf-l-acqua-alla-gola-186011

    #barrage_hydroélectrique #extractivisme #électricité #Turquie

    ping @albertocampiphoto