• I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

    #Russie #pétrole #fast-fashion #mode #polyester #rapport #textile #industrie_textile #industrie_de_la_mode

    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Victoire d’Apple qui ne doit pas rembourser 13 milliards d’avantages fiscaux à l’Irlande
    _ Apple n’a finalement dû payer que 1% d’impôts irlandais sur ses bénéfices européens en 2003. Et en 2014, ce taux a encore diminué jusqu’à 0,005%
    https://www.rtbf.be/info/economie/detail_ue-contre-apple-la-justice-se-prononce-sur-les-13-milliards-d-avantages-

    C’est une victoire importante pour le géant du numérique Apple et pour le gouvernement irlandais. La justice européenne a annulé la décision de la Commission exigeant le remboursement à l’Irlande de 13 milliards d’euros d’avantages fiscaux.

    Selon le Tribunal de la Cour de justice de l’Union européenne, la Commission n’est pas parvenue à démontrer « l’existence d’un avantage économique sélectif » _ accordé par l’Etat irlandais à Apple. Cette décision constitue un cuisant revers pour la Commission européenne et sa vice-présidente Margrethe Vestager dans sa volonté de combattre la concurrence fiscale entre Etats qui profite aux multinationales. La Commission peut encore introduire un appel.

    L’Irlande et Apple se réjouissent
    Le gouvernement irlandais et Apple se sont immédiatement félicités de la décision des juges de Luxembourg. « Nous saluons le jugement de la Cour européenne » , a souligné le ministère irlandais des Finances dans un communiqué. Il répète qu’il « n’y a jamais eu de traitement spécial » pour Apple, taxé selon les règles en vigueur dans le pays.
    Selon Apple, « cette affaire ne portait pas sur le montant des impôts que nous payons, mais sur l’endroit où nous devons les payer. Nous sommes fiers d’être le plus grand contribuable au monde, car nous connaissons le rôle important que joue le versement d’impôts dans la société » , a déclaré le groupe à la pomme.

    Un taux de 0,005% sur les bénéfices
    L’affaire remonte au 30 août 2016 : alors Commissaire européenne à la Concurrence, Margrethe Vestager décide de frapper un grand coup. Selon l’enquête de la Commission, Apple a rapatrié en Irlande entre 2003 et 2014 l’ensemble des revenus engrangés en Europe (ainsi qu’en Afrique, au Moyen-Orient et en Inde) car l’entreprise y bénéficiait d’un traitement fiscal favorable, grâce à un accord passé avec les autorités de Dublin. Le groupe a ainsi échappé à la quasi-totalité des impôts dont il aurait dû s’acquitter sur cette période, soit environ 13 milliards d’euros, selon les calculs de la Commission.

    Margrethe Vestager dénonçait alors sans ménagement https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/fr/ip_16_2923 ces arrangements douteux entre le gouvernement irlandais et le géant technologique : « L’enquête de la Commission a conclu que l’Irlande avait accordé des avantages fiscaux illégaux à Apple, ce qui a permis à cette dernière de payer nettement moins d’impôts que les autres sociétés pendant de nombreuses années.  » La Commission a établi qu’Apple n’a finalement dû payer que 1% d’impôts irlandais sur ses bénéfices européens en 2003. Et en 2014, ce taux a encore diminué jusqu’à 0,005%, autrement dit, Apple ne paie pratiquement plus d’impôts sur ses bénéfices en Europe.

    Pour arriver à ce résultat, l’Irlande a détourné la possibilité de conclure des rulings, des arrangements fiscaux avec une société. La Commission relevait que " pratiquement tous les bénéfices de vente enregistrés par les deux sociétés étaient affectés en interne à un « siège ». L’appréciation de la Commission a montré que ces « sièges » n’existaient que sur le papier et n’auraient pas pu générer de tels bénéfices.  " Ce traitement fiscal préférentiel créé un avantage accordé à Apple envers ses concurrents. Cet avantage constitue une « aide d’Etat » illégale, puisqu’elle se fait aux dépens d’autres entreprises soumises à des conditions moins favorables.

    L’Irlande : eldorado des multinationales
    Pour Dublin néanmoins, il n’y avait rien d’illégal. Connue pour ses positions « pro-business », l’Irlande a attiré sur l’île de nombreuses multinationales, pourvoyeuses d’emplois, grâce à une fiscalité avantageuse. C’est d’ailleurs pour cette raison que l’Irlande, comme Apple, a fait appel de la décision. « La Commission a outrepassé ses pouvoirs et violé la souveraineté » irlandaise concernant l’impôt sur les sociétés, avait affirmé Dublin. Quant au patron d’Apple, Tim Cook, il avait qualifié l’affaire de « foutaise politique ».

    L’arrêt pris aujourd’hui est susceptible d’appel. La vice-présidente de la Commission a déclaré qu’elle allait « étudier avec attention le jugement et réfléchir aux prochaines étapes » , sans toutefois dire si la Commission allait faire appel de cet arrêt. Généralement, lorsque les affaires font l’objet d’un pourvoi devant la Cour, la décision définitive intervient environ 16 mois après. Donc dans le cas d’Apple, au cours de l’année 2021. « La Commission européenne maintient son objectif de voir toutes les entreprises payer leur juste part d’impôts » , a ajouté Mme Vestager.

    Pour la Danoise Margrethe Vestager, bête noire des Gafa et surnommée la « tax lady » par le président américain Donald Trump, précisément à cause du cas d’Apple, cette décision vient cependant affaiblir sa politique menée contre une série de multinationales ayant bénéficié d’un traitement fiscal jugé trop favorable.

    La taxe sur le numérique toujours en suspend
    Dans deux affaires similaires, les juges européens avaient tranché dans des sens différents. Ils avaient déjà réfuté les arguments de la Commission européenne concernant la chaîne américaine de cafés Starbucks, sommée de rembourser jusqu’à 30 millions d’euros d’arriérés d’impôts aux Pays-Bas. En revanche, dans le cas de Fiat, ils avaient donné raison à Bruxelles, qui exigeait du groupe italien le versement au Luxembourg d’une somme identique pour avantages fiscaux indus.

    #apple en #Irlande , #paradis_fiscal légal vis à vis de l’#UE #union_européenne Margrethe_Vestager #impôts #fraude_fiscal #multinationnales #gafa

    • Coronavirus : l’inquiétude monte chez les fabricants asiatiques de produits de mode
      https://fr.fashionnetwork.com/news/Coronavirus-l-inquietude-monte-chez-les-fabricants-asiatiques-de-

      Les moyens de subsistance de millions de travailleurs asiatiques de l’habillement sont actuellement menacés par les annulations de commandes des grandes marques de mode , ce qui inquiète à la fois les syndicats, les chercheurs et les militants locaux, qui craignent que la pandémie n’ait des effets délétères sur ce secteur régulièrement pointé du doigt pour ses violations du droit du travail.

      Magasins fermés, chute des ventes : de nombreuses enseignes occidentales annulent leurs commandes ou demandent des remises à leurs fournisseurs asiatiques, notamment au Cambodge ou au Bangladesh. Résultat, de nombreux employés du secteur ont été licenciés, ou ont dû accepter de travailler sans salaire. 

      Selon plusieurs observateurs de l’industrie de la mode, 60 millions de travailleurs pourraient avoir du mal à surmonter la crise, à moins que davantage de marques ne prennent leurs responsabilités. Des poids lourds comme Adidas, H&M et le propriétaire de Zara, Inditex ont promis de payer intégralement toutes leurs commandes, qu’elles soient livrées ou encore en production, selon le Consortium pour les droits des travailleurs (WRC), qui a mené une étude sur 27 des plus importants détaillants de mode mondiaux.

Toutefois, le groupe de surveillance américain a constaté qu’environ la moitié d’entre eux n’avaient pris aucun engagement de ce type pour honorer leurs contrats. Plusieurs détaillants, dont Asos, C&A, Edinburgh Woollen Mill, Gap et Primark, ont déclaré à la Thomson Reuters Foundation qu’ils avaient été contraints de suspendre ou d’annuler certaines commandes, tout en assurant maintenir le contact avec leurs fournisseurs afin d’atténuer l’impact économique de ces annulations.

      Côté fabricants, autre son de cloche. À les entendre, ceux-ci ne font pas le poids face à leurs interlocuteurs occidentaux, ce qui pourrait entraîner des pertes d’emplois. « On n’a jamais pu vraiment négocier avec les acheteurs », indique ainsi un important fournisseur de vêtements du sud de l’Inde, qui préfère garder l’anonymat pour protéger son entreprise.


      Face au tollé général provoqué par ces annulations, plusieurs marques ont accepté de rétablir certaines commandes — pas toutes —, tandis que d’autres ont exigé des remises, des délais de paiement ou se sont contentées de laisser leurs fournisseurs dans l’incertitude, rapporte Penelope Kyritsis, directrice adjointe au WRC. « Ne pas s’engager à honorer l’intégralité de ses commandes, c’est adopter une conduite irresponsable envers ses fournisseurs », tranche-t-elle.



      Il y a quelque temps, le WRC estimait que les annulations de commandes représentaient un manque à gagner de plus de 24 milliards de dollars (près de 22 milliards d’euros) pour les fournisseurs ; ce chiffre est probablement redescendu après les revirements de certaines marques. Mais selon la Fédération internationale de l’industrie textile, les commandes ont baissé de près d’un tiers dans le secteur de l’habillement. « La pandémie de Covid-19, à l’instar de la catastrophe du Rana Plaza, révèle comment les chaînes d’approvisionnement profitent aux entreprises au détriment des fournisseurs et, par conséquent, des travailleurs », conclut Penelope Kyritsis.

La catastrophe du Rana Plaza, du nom de cet immeuble au Bangladesh dont l’effondrement avait tué 1135 travailleurs de l’habillement en 2013, avait déclenché plusieurs initiatives pour améliorer les conditions et les droits du travail à l’échelle mondiale — les experts sont cependant divisés sur le rythme et la portée de ces réformes. Certains observateurs de l’industrie estiment que l’attention suscitée par la crise sanitaire pourrait donner un nouveau souffle à la mobilisation, quand d’autres craignent que la pandémie n’érode les avancées récentes sur le terrain.

      Des réputations en danger
      Les revenus du secteur de l’habillement, qui s’élèvent à 2500 milliards de dollars, pourraient chuter de 30 % en 2020, selon un récent rapport du cabinet de conseil en gestion McKinsey, qui prévient que les entreprises de mode pourraient être les plus touchées par la crise qui s’annonce.

Les marques de vêtements, les syndicats et les organisations patronales ont annoncé la semaine dernière la création d’un groupe de travail, convoqué par les Nations Unies, afin d’aider les fabricants à payer leurs salariés et à survivre à la crise, tout en garantissant l’accès des travailleurs aux soins de santé et à la protection sociale. Toutefois, selon le WRC, certains des détaillants qui soutiennent l’initiative n’ont pas atteint son objectif — garantir que toutes les commandes, livrées ou en cours de production, soient payées dans les temps.

"Visiblement, certaines marques préfèrent soigner leur image publique plutôt que d’honorer leurs contrats", ironise Fiona Gooch, conseillère politique principale au sein du groupe de défense Traidcraft Exchange. « Les détaillants se servent du Covid-19 pour mettre en danger leurs fournisseurs et exiger des remises... certains se comportent comme des voyous », tranche-t-elle, à quelques jours de la Fête du Travail. « Ces mauvais comportements pourraient nuire à leur réputation, après la crise ».

En revanche, les entreprises qui font preuve d’équité et de transparence sur les droits des travailleurs pendant cette période troublée pourraient attirer de nouveaux investisseurs, prédisent plusieurs experts en placement de fonds. Ce mois-ci, un groupe de 286 investisseurs pesant plus de 8200 milliards de dollars d’actifs a exhorté les entreprises à protéger autant que possible leurs relations avec leurs fournisseurs, et à garantir les droits des travailleurs dans leurs chaînes d’approvisionnement.


      Des remises et des annulations 
Selon deux fournisseurs bangladais, qui s’expriment sous couvert d’anonymat, certains détaillants — notamment la société britannique Edinburgh Woollen Mill (EWM) — ont exigé des rabais allant jusqu’à 70 %, un chiffre qui ferait perdre de l’argent aux fabricants sur ces commandes.

Selon un propriétaire d’usine indien, EWM aurait exigé une remise de 50 %, en précisant que le paiement restant ne serait versé qu’après la vente de 70 % des marchandises en question. « EWM adopte un comportement opportuniste, abusif et contraire à l’éthique », déplore-t-il, ajoutant que la plupart de ses autres acheteurs occidentaux ont « agi raisonnablement » dans le cadre des négociations engagées autour de leurs commandes.

Un porte-parole du groupe EWM — qui contrôle également des marques comme Jane Norman et Peacocks — assure que des négociations sont en cours avec ses fournisseurs pour trouver une solution « qui leur convienne ». « Ce n’est pas ce que nous souhaiterions faire en temps normal, mais les circonstances actuelles sont telles que cela devient nécessaire », plaide-t-il.

De nombreuses marques ont fait valoir des clauses de force majeure dans leurs contrats, invoquant des circonstances extraordinaires et imprévues pour annuler leurs commandes. Mais selon plusieurs experts juridiques, il faut encore déterminer si la pandémie peut justifier le recours à cette clause, déclenchée habituellement par les guerres ou les catastrophes naturelles.

Pour l’Organisation internationale des employeurs (OIE), le plus grand réseau de défense du secteur privé au monde, de manière générale, les marques ont agi de manière responsable dans le cadre des négociations avec leurs fournisseurs. « Toutes les marques et tous les acheteurs sont sous pression... des arrangements flexibles ont été mis en place et fonctionnent déjà, dans une certaine mesure au moins », assure le secrétaire général de l’OIE, Roberto Suárez Santos. « La situation est difficile pour tout le monde ».


      Vers un recul des droits des travailleurs ?
      Selon un rapport publié cette semaine par le cabinet de conseil en gestion des risques Verisk Maplecroft, les travailleurs du secteur de l’habillement récemment licenciés pourraient se tourner vers des emplois précaires, où ils risqueraient d’être victimes de travail forcé, voire d’imposer le même traitement à leurs enfants pour remédier à la perte de leurs revenus.

Dans des pays comme la Birmanie, certaines usines ont licencié des ouvriers syndiqués en invoquant une baisse des commandes, tout en conservant des employés non syndiqués, selon des militants qui craignent que la pandémie ne provoque également une érosion des droits, qui pourrait passer inaperçue dans la tourmente actuelle. « Nous devons veiller à ce que les droits et les conditions de travail des ouvriers ne soient pas remis en cause par la crise », martèle Aruna Kashyap, avocate principale de la division consacrée aux droits des femmes de Human Rights Watch, qui exige également que la santé des travailleurs soit prise en compte.

Alors que la plupart des usines fonctionnent toujours au Cambodge et que des centaines d’entre elles ont rouvert au Bangladesh cette semaine, plusieurs défenseurs des droits des travailleurs se disent inquiets face à la faible application des mesures de distanciation physique et d’hygiène. Au Cambodge, par exemple, des petites mains s’inquiètent pour leur santé au travail, mais rappellent qu’elles ont des familles à nourrir. Au Bangladesh, une source du ministère du Travail reconnaît que les quelque 500 usines qui ont repris leurs activités ne sont pas en mesure de faire respecter les mesures de distanciation physique par leurs salariés.

Garantir la sécurité des employés sur leur lieu de travail, c’est justement l’un des objectifs du groupe de travail soutenu par l’ONU, qui exhorte par ailleurs les donateurs, les institutions financières et les gouvernements à accélérer l’accès au crédit, aux allocations de chômage et aux compléments de revenus. Pour ces militants, il est nécessaire que les régimes d’aide et de sécurité sociale des pays producteurs de vêtements soient en partie financés par les marques elles-mêmes, et que la réglementation des pays occidentaux contraigne les entreprises à éradiquer les pratiques commerciales déloyales, l’exploitation et l’esclavage moderne.

Mais pour Jenny Holdcroft, du syndicat IndustriALL qui regroupe 50 millions de membres dans le monde entier, la lumière jetée sur les difficultés des travailleurs du secteur et la réaction inégale des marques face à la crise pourrait s’avérer insuffisante pour transformer en profondeur les chaînes d’approvisionnement. « Si l’on examine toute l’histoire de l’industrie de l’habillement, il est peu probable qu’un véritable changement arrive suite à la crise », prophétise ainsi la secrétaire générale adjointe de l’organisation.

"Les dynamiques et les rapports de pouvoir à l’oeuvre dans le secteur permettent aux marques de s’en tirer malgré leurs comportements autocentrés. Il faut que nous placions la barre plus haut pour l’ensemble de l’industrie de l’habillement... tout en empêchant les entreprises les moins éthiques de continuer leurs activités".



      La Thomson Reuters Foundation entretient un partenariat avec la Laudes Foundation, elle-même affiliée à l’enseigne C&A.

      #mode #esclavage #travail #économie #Inde #Birmanie #Cambodge #Banglades

    • La richissime famille Benetton cède les autoroutes italiennes
      https://fr.businessam.be/la-richissime-famille-benetton-cede-les-autoroutes-italiennes

      Le groupe Atlantia, contrôlé par la dynastie commerciale Benetton, transfère la gestion des autoroutes italiennes à l’État. Cet accord fait suite à la tragédie de l’effondrement du pont Morandi, à Gênes, il y a deux ans.
      La société d’autoroutes Aspi (Autostrade per l’Italia) est transférée à un véhicule d’investissement du gouvernement italien, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP).
      Aspi exploitait jusqu’ici plus de 3.000 kilomètres d’autoroutes en tant que société de péage. Elle était également le gestionnaire du pont de Gênes, qui s’est effondré en août 2018. Une catastrophe qui a coûté la vie à 43 personnes. Les Benetton ont pointé du doigt à de multiples reprises. Les enquêtes préliminaires ont en effet révélé de graves lacunes en matière de maintenance. Des critiques envers sa famille qui n’ont pas été au goût du patriarche, Luciano Benetton.
      . . . . . . .
      #Benetton #Italie #pont_morandi #gênes #ponte_morandi #catastrophe d’une #privatisation #pont #infrastructures #effondrement #autostrade #autoroutes #benetton

  • Atlantia critique la fin de la concession de sa filiale
    https://www.boursier.com/actualites/reuters/rpt-italie-pont-atlantia-critique-la-fin-de-la-concession-de-sa-filiale-22

    Si la concession est révoquée ou résiliée avant terme, Autostrade a droit à une indemnisation, a déclaré sa maison mère. Or, « les modalités d’un telle annonce peuvent avoir un impact sur les actionnaires et les détenteurs d’obligations d’Atlantia », indique Atlantia.

  • [RussEurope-en-Exil] La catastrophe de Gènes, l’Union européennes et la crise de sous-investissement que connaît l’Italie, par Jacques Sapir
    https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-la-catastrophe-de-genes-lunion-europeennes-et-la-crise

    La catastrophe de Gènes, l’effondrement du pont Morandi, a bouleversé l’Italie et, au-delà, a choqué profondément la population française. L’écroulement d’une infrastructure de cette sorte pose d’innombrables questions. Tout d’abord, comment une telle catastrophe est-elle possible ? Des dizaines de millions d’automobilistes empruntent tous les ans ces grands ouvrages d’art. Comment se fait-il que l’entretien […]

    • . . . . .
      La concession de l’autoroute Milan-Gènes a été accordée en 2007 au groupe #Benetton soit sous le gouvernement de #Silvio_Berlusconi. Cette privatisation s’est faite dans des conditions discutables. Ainsi, le contrat de concession ne fut jamais rendu public et il est même couvert par le secret d’Etat[2].

      Symbole donc de cette mise en concession des infrastructures autoroutières, la situation du #pont_Morandi est complexe. La société concessionnaire (jusqu’en 2038) est #Autostrade Per l’Italia une société qui est la propriété à 88% du consortium Atlantia[3]. Ce consortium détient près de 50% du réseau autoroutier de l’Italie, et de nombreuses autres #infrastructures (dont les aéroports de #Nice et de #Cannes en France). Ce consortium a lui-même une structure de propriété assez complexe.

      Graphique 1

      Près de 45,5% des actions sont sur les marchés financiers. Sur les 54,5% restant, le principal actionnaire est #Sintonia (Edizione) qui appartient à la famille Benetton. Cette dernière est donc bien la responsable en dernier ressort.
      Par ailleurs, Atlantia a acquis des sociétés en #France, en #Pologne, au #Brésil et en #Inde, ainsi que, récemment, en #Espagne. Elle a ainsi acquise le groupe espagnol #Abertis qui a nommé comme l’un de ses directeurs en novembre 2016 M. Enrico Letta, qui fut le Président du Conseil italien en 2013-2014[4].

      La confusion des genres est ainsi évidente entre le monde des affaires (la famille Benetton), les banques et l’élite politique italienne. Mais, au-delà de cette collusion, on voit apparaître la responsabilité de l’#UE qui a fait de multiples pressions, directes (au nom de la sacro-sainte #concurrence) ou indirecte (en pressant l’Italie de réduire son déficit) pour que l’on arrive à cette situation où les #autoroutes sont, de fait, en gestion privée, et cela dans des conditions d’#opacité peu communes.
       
      2 – La place d’Autostrade Per l’Italia dans le « système » Atlantia
      Si l’on regarde de plus près les comptes d’Autostrade Per l’Italia on constate que cette société a fait des #profits très importants. Des profits que l’on peut même trouver excessifs. Que l’on en juge :

      Graphique 2
      Bilan d’Autostrade Per l’Italia
      Années 2016 et 2017


      Source : https://www.autostrade.it/documents/10279/4408513/Relazione_finanziaria_annual_ASPI_2017_completa.pdf

      On constate que ce que l’on appelle l’EBIT (soit Earnings Before Interest and Taxes) ou Revenus avant le paiement des intérêts et des impôts représente, en % de recettes pour 2016 pas moins de 49,3% et pour 2017 environ 48,5%. Autrement dit, cette société dégageait une somme d’#argent extrêmement importante qui, une fois les impôts et les intérêts payés, pouvait être supérieur au milliard d’euros, soit près de 25% du chiffre d’affaires d’environ 4 milliards en 2017. Autrement dit, Autostrade Per L’Italia était ce que l’on appelle vulgairement la « machine à #cash » du consortium Atlantia.

      Comment pouvait elle jouer ce rôle ? Quand on regarde le bilan d’API on constate qu’elle dépensait très peu pour l’entretien des autoroutes : en 2017 seulement 85 millions d’euros[5]. Il semble bien, de plus, que les coûts d’entretien soient beaucoup plus élevés dans le secteur privé que dans le secteur public.

      On en arrive à une première conclusion : API a sous-entretenu le réseau dont elle avait la responsabilité, afin de pouvoir payer grassement ses « propriétaires », soit la société Atlantia qui utilisait cet argent pour se livrer à de nouvelles acquisitions à l’international. Compte tenu du fait qu’API appartenait à 88% à Atlantia, la responsabilité de cette politique, qu’il faut bien appeler de catastrophique au vue de la tragédie du pont Morandi, repose en réalité sur Atlantia. Et, cette société appartenant de fait à la famille Benetton, via l’actionnaire majoritaire d’Atlantia qui est la société Sintonia, c’est sur les propriétaires de #Sintonia que doit retomber le blame.
      . . . . . . .

      [2] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/16/ponte-morandi-costi-benefici-e-modalita-della-revoca-ad-autostrade-ma-gli-accordi-siglati-con-i-concessionari-sono-top-secret/4561884

      [3] http://www.atlantia.it/en/operations/italian-motorway-operations

  • Économie | Gênes : 1 milliard d’euros de dividendes versé en 2017 aux actionnaires du viaduc autoroutier effondré | La Provence
    https://www.laprovence.com/actu/en-direct/5110516/genes-1-milliard-deuros-de-dividendes-verse-en-2017-aux-actionnaires-du-


    La cupidité tue

    Le groupe Atlantia qui possède le gestionnaire d’autoroute italien Autostrada per l’Italia dont une portion de viaduc s’est effondrée ce mardi à Gênes plonge de 20% en bourse actuellement. Sous le feu de vives critiques, le groupe Atlantia est menacé par le gouvernement italien de perdre la concession octroyée à Autostrada per l’Italia sur le tronçon où se trouve le pont effondré.

    Sur les 6 premiers mois de l’année 2018, le groupe Atlantia a déjà versé 654 millions d’euros de dividendes à ses actionnaires, et 994 millions d’euros en 2017 (source investing.com).

    • Benetton
      https://seenthis.net/messages/715776

      . . . . .
      La concession de l’autoroute Milan-Gènes a été accordée en 2007 au groupe #Benetton soit sous le gouvernement de #Silvio_Berlusconi. Cette privatisation s’est faite dans des conditions discutables. Ainsi, le contrat de concession ne fut jamais rendu public et il est même couvert par le secret d’Etat[2].

      Symbole donc de cette mise en concession des infrastructures autoroutières, la situation du #pont_Morandi est complexe. La société concessionnaire (jusqu’en 2038) est #Autostrade Per l’Italia une société qui est la propriété à 88% du consortium Atlantia[3]. Ce consortium détient près de 50% du réseau autoroutier de l’Italie, et de nombreuses autres #infrastructures (dont les aéroports de #Nice et de #Cannes en France). Ce consortium a lui-même une structure de propriété assez complexe.
      Graphique 1

      Près de 45,5% des actions sont sur les marchés financiers. Sur les 54,5% restant, le principal actionnaire est #Sintonia (Edizione) qui appartient à la famille Benetton. Cette dernière est donc bien la responsable en dernier ressort.
      Par ailleurs, Atlantia a acquis des sociétés en #France, en #Pologne, au #Brésil et en #Inde, ainsi que, récemment, en #Espagne. Elle a ainsi acquise le groupe espagnol #Abertis qui a nommé comme l’un de ses directeurs en novembre 2016 M. Enrico Letta, qui fut le Président du Conseil italien en 2013-2014[4].

      La confusion des genres est ainsi évidente entre le monde des affaires (la famille Benetton), les banques et l’élite politique italienne. Mais, au-delà de cette collusion, on voit apparaître la responsabilité de l’#UE qui a fait de multiples pressions, directes (au nom de la sacro-sainte #concurrence) ou indirecte (en pressant l’Italie de réduire son déficit) pour que l’on arrive à cette situation où les #autoroutes sont, de fait, en gestion privée, et cela dans des conditions d’#opacité peu communes.
      . . . . .

    • #mafia
      En france, les potes qui ont une grosse entreprise d’élagage ont perdu l’entretien des autoroutes ASF au profit de « gars qui bossent pour moins cher mais dans des conditions de sécurité inacceptable en utilisant des sous traitants qui n’hésitent pas à recourir au travail au noir »
      #it_has_begun

  • #Argentine. Cri de guerre #mapuche contre #Benetton

    La disparition en août dernier d’un jeune manifestant remet en lumière le conflit qui oppose la communauté mapuche au groupe Benetton, propriétaire de vastes #terres. Emmenés par un chef charismatique, les Mapuche ont relancé leurs revendications sur ce territoire.


    http://www.courrierinternational.com/article/argentine-cri-de-guerre-mapuche-contre-benetton
    #peuples_autochtones #résistance

  • Yourope. Les #terres_agricoles, objets de toutes les convoitises

    Enquête sur un nouvel or vert, les terres agricoles de l’#Europe_de_l'Est : en Pologne où des mesures de protection arrivent à leur terme ; en #Roumanie, où les étrangers peuvent acheter des terrains depuis 2014 ; en #Hongrie où l’État vend des terres nationalisées aux plus offrants et en #Bulgarie où une #résistance s’organise.

    http://www.arte.tv/guide/fr/063677-005-A/yourope?autoplay=1

    #terres #agriculture #Allianz #Fielmann #Benetton #Chine #land-grabbing #coopératives (en Bulgarie)
    cc @odilon

    Evolution du prix du foncier en Allemagne de l’Est :

    #BVVG, société publique qui vend et loue des terres qui appartenaient à l’Etat avant la chute du mur :
    https://www.bvvg.de

    Journaliste hongrois qui enquête sur l’#accaparement_des_terres : #Gabor_Vago
    https://en.wikipedia.org/wiki/G%C3%A1bor_V%C3%A1g%C3%B3

  • En #Europe de l’Est aussi, l’industrie #Textile paie des #salaires de misère
    http://multinationales.org/En-Europe-de-l-Est-aussi-l

    Depuis la catastrophe du Rana Plaza au Bangladesh, l’opinion publique internationale est un peu plus informée sur les #conditions_de_travail des ouvriers et ouvrières du secteur #Textile en Asie. Ces ouvriers fabriquent les vêtements commercialisés par les grandes marques occidentales pour un salaire minimal, équivalent à quelques dizaines d’euros par mois. Mais contrairement aux idées reçues, les salaires perçus par leurs collègues d’Europe de l’Est ou de #Turquie, qui travaillent pour les mêmes marques, (...)

    Actualités

    / #Roumanie, Europe, #Bulgarie, #Ukraine, Turquie, Textile, Textile, #Croatie, #union_européenne, salaires, #droits_des_travailleurs, conditions de travail, #Clean_Clothes Campaign / Éthique sur l’étiquette, #Adidas, #Inditex, H&M, #Adidas, #Benetton, H&M, #Zara, Clean (...)

    #Clean_Clothes_Campaign_/_Éthique_sur_l'étiquette #H&M
    « http://www.cleanclothes.org/livingwage/stitched-up »
    « http://www.ethique-sur-etiquette.org/-Vivre-de-son-travail-c-est-vital- »
    « http://www.cleanclothes.org/resources/publications/stitched-up-1 »

  • Un an après le Rana Plaza, #Auchan et #Carrefour pas prêts à assumer leurs responsabilités
    http://multinationales.org/Un-an-apres-le-Rana-Plaza-Auchan

    L’effondrement de l’immeuble du Rana Plaza, il y a un an, a alerté l’opinion publique internationale sur les #conditions_de_travail qui sévissent dans les usines textiles du #Bangladesh. Sous la pression, les grandes marques de vêtements occidentales ont annoncé des initiatives pour améliorer la situation des ouvrières. Malgré des avancées réelles, beaucoup de problèmes de fond restent irrésolus. Illustration des résistances au changement, les grandes entreprises françaises impliquées – notamment les (...)

    #Enquêtes

    / #Textile, #Auchan, #Camaïeu, #Benetton, Auchan, Carrefour, Bangladesh, #Responsabilité_sociale_des_entreprises_et_investissement_éthique, #Textile, #Grande_distribution, ActionAid / Peuples Solidaires, Clean Clothes Campaign / Éthique sur l’étiquette, responsabilité pénale des (...)

    #ActionAid_/_Peuples_Solidaires #Clean_Clothes_Campaign_/_Éthique_sur_l'étiquette #responsabilité_pénale_des_entreprises #responsabilité_sociale_des_entreprises #femmes #impact_social #chaîne_d'approvisionnement #Santé_et_sécurité_au_travail #santé_et_sécurité_au_travail
    « http://appels-urgents.peuples-solidaires.org/appel-urgent/bangladesh-ranaplaza »
    « https://secure.avaaz.org/fr/petition/Francois_HOLLANDE_President_de_la_Republique_Rana_Plaza_1138_morts_le_ »
    « http://www.auchan.fr/portal/webdav/assets/img/rappel_qualite_produit/textile.pdf »
    « http://www.ranaplaza-arrangement.org/fund/donors/donors »
    « http://www.theguardian.com/world/2014/apr/16/compensation-fund-victims-bangladesh-rana-plaza-one-third-full »
    « https://www.flickr.com/photos/rijans/8731789941

    Flickr
     »
    « http://www.france5.fr/emission/les-damnees-du-low-cost/diffusion-du-08-04-2014-21h30 »
    « http://www.theguardian.com/world/2013/dec/25/bangladesh-workers-missing-rana-plaza »
    « http://www.nytimes.com/2013/12/31/world/asia/garment-makers-stumble-on-call-for-accountability.html »
    « http://www.thespec.com/news-story/4425876-bangladesh-garment-industry-liberty-in-hard-labour »

  • « Depuis la catastrophe du Rana Plaza, les ouvrières du #Textile se sont radicalisées. »
    http://multinationales.org/Depuis-la-catastrophe-du-Rana

    Près d’une année après la catastrophe du Rana Plaza, qu’est-ce qui a changé sur le terrain au #Bangladesh ? Au-delà des effets d’annonce et des promesses des grandes marques occidentales, les #conditions_de_travail et de vie des ouvrières du #Textile ont-elles connu des améliorations concrètes ? Rencontre avec une ouvrière rescapée du drame et deux syndicalistes bangladais, de passage à Paris. Le 24 avril 2013, au Bangladesh, s’effondrait l’immeuble du Rana Plaza, qui abritait plusieurs ateliers de (...)

    #Enquêtes

    / #A_la_une, Textile, Bangladesh, H&M, #Auchan, #Carrefour, #Benetton, #Auchan, H&M, Textile, #Grande_distribution, #femmes, #santé_et_sécurité_au_travail, conditions de travail, #droits_des_travailleurs, #responsabilité_sociale_des_entreprises, #responsabilité_pénale_des_entreprises, (...)

    #H&M #salaires #mouvement_social #syndicats #Santé_et_sécurité_au_travail #Libertés_syndicales
    "http://www.peuples-solidaires.org/bangladesh-ranaplaza-appelurgent"