• Vivant non humain ou biodiversité ?
    https://metropolitiques.eu/Vivant-non-humain-ou-biodiversite.html

    Intégrer la biodiversité dans les projets architecturaux et urbains, est-ce vraiment la protéger ? Luc Laurent s’interroge sur les conditions et les finalités de ce tournant annoncé. Les disciplines de la conception spatiale et de l’aménagement se sont saisies de la biodiversité : #écologie urbaine (Burel et Baudry 1999, Clergeau 2007), paysage (Daniel-Lacombe 2010, Cormier 2011), géographie (Mathevet et Godet 2015), #architecture (Clergeau 2020a). En architecture et en #urbanisme, cette question se #Débats

    / urbanisme, architecture, biodiversité, écologie, #territoire

    #biodiversité
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_laurent2.pdf

  • La permaculture, boîte à outils du biorégionalisme
    https://topophile.net/savoir/la-permaculture-boite-a-outils-du-bioregionalisme

    La permaculture et le biorégionalisme sont deux mouvements, deux concepts de plus en plus fréquemment cités et revendiqués par des publics très différents. Si la permaculture a d’ores et déjà envahi les librairies et les jardins, elle est aussi malmenée, réduite à des techniques de cultures agroécologiques et vidée de sa dimension politique. Tandis que... Voir l’article

  • Un quart de l’Amazonie « irréversiblement détruit »
    https://www.lefigaro.fr/flash-eco/26-de-l-amazonie-irreversiblement-detruite-avertissent-des-chefs-indigenes-

    « Alerte rouge » en Amazonie : 26% de l’écosystème du poumon vert de la planète est irréversiblement détruit à cause de la déforestation, du narcotrafic et de la contamination, ont averti mardi 6 septembre des dirigeants indigènes réunis à Lima, au Pérou.

    Oué, mais les gens qui savent te diront que c’est pour produire de la valeur.

  • #Bakounine #biographie #histoire #anarchisme

    ★ BAKOUNINE MICHEL : BIOGRAPHIE

    « Né le 18 mai 1814 à Premoukhino, gouvernement de Tver (Russie), mort le 1er juillet 1876 à Berne (Suisse). Jeune hégélien, révolutionnaire russe, puis théoricien anarchiste. Membre de l’AIT. Il prit une part active aux mouvements révolutionnaires européens de 1848-1849 ainsi qu’à la tentative insurrectionnelle de Lyon en septembre 1870 et fut le principal opposant de Marx au sein de l’AIT (Association Internationale des Travailleurs)... »

    ▶️ Lire la suite...

    ▶️▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2022/08/bakounine-michel-biographie.html

  • Il giusto prezzo: lo sfruttamento lavorativo nell’agricoltura biologica

    Il prezzo di frutta e verdura bio è più alto, ma le condizioni in cui lavorano i braccianti in alcuni casi non sono migliori. Eppure il biologico è l’unica via per rendere l’agricoltura europea sostenibile

    3,22 euro contro 4,50 euro. Il primo è il prezzo cui viene venduta on line una confezione di passata di pomodori datterini biologici. A produrla e commercializzarla è l’OP Principe di Puglia che, sul suo sito internet, si definisce «una delle più importanti aziende produttrici di verdura e frutta biologica del territorio pugliese». Il secondo è il compenso orario che, stando alle testimonianze raccolte dagli inquirenti, una delle imprese del circuito aziendale dell’OP Principe di Puglia pagava ad Aboubacar Baman, un bracciante della Costa d’Avorio di 34 anni, che, con fatica e senza diritti, quei pomodorini biologici li raccoglieva. Nell’aprile 2021, l’OP Principe di Puglia è stata al centro di un’operazione della Procura di Foggia contro l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. In pratica, contro il caporalato. Ora si attende il rinvio a giudizio.

    L’agricoltura biologica è molto cresciuta negli ultimi anni, è sempre più richiesta da certe fasce di consumatori e ora è anche sostenuta dall’Unione europea con la strategia Farm to fork. Chi compra bio sceglie di pagare di più per avere prodotti buoni per la salute e l’ambiente. Ma questi prodotti sono buoni anche per chi li produce? Casi come quello dell’OP Principe di Puglia portano a chiedersi se e quanto, grazie a sussidi e a prezzi più corretti, il biologico possa contribuire a migliorare le condizioni dei lavoratori agricoli e a cambiare, anche a livello generazionale, l’agricoltura italiana.

    La definizione di biologico

    Per provare a rispondere, è bene partire dalle definizioni. Il biologico, spiega Aiab, è «un metodo di coltivazione e di allevamento che ammette solo l’impiego di sostanze naturali, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica». Le aziende biologiche, quindi, sono tenute, come tutte le altre aziende, a rispettare le norme sul lavoro ma le certificazioni che devono ottenere non riguardano i lavoratori: riguardano i prodotti e il modo in cui vengono ottenuti. Questo non vuol dire, però, che il mondo del bio non mostri attenzione anche per gli aspetti più sociali dell’agricoltura. Secondo Ifoam, una delle più antiche organizzazioni internazionali ad occuparsi della materia, «coloro che sono coinvolti nell’agricoltura biologica dovrebbero condurre le relazioni umane in modo da assicurare l’equità a tutti i livelli e a tutte le parti – agricoltori, lavoratori, trasformatori, distributori, commercianti e consumatori».

    È forse ispirandosi a questo principio che, nel 2020, Federbio ha annunciato che si sarebbe costituita parte civile in un altro procedimento pugliese riguardante produzioni agricole biologiche. «FederBio – commentò allora la presidente Maria Grazia Mammuccini – collabora da sempre con la magistratura e le forze dell’ordine per tutelare le vere produzioni biologiche e a difesa del lavoro etico e sostenibile, equamente remunerato. Queste pratiche criminali vanno combattute ed eliminate per difendere la maggioranza di imprese oneste del biologico italiano». Il caso in questione era quello di Settimio Passalacqua.

    Nel luglio 2020, l’imprenditore di Apricena, sempre in provincia di Foggia, è stato accusato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. All’epoca, le aziende riconducibili alla sua famiglia impiegavano centinaia di braccianti per un volume di affari di alcuni milioni di euro, in gran parte legato a prodotti biologici. Ora si attende il rinvio a giudizio, ma, secondo l’accusa, alcune delle aziende avrebbero pagato fino a 3,33 euro l’ora i lavoratori, in gran parte stranieri e residenti nei ghetti della zona. Il più noto è quello di Rignano Garganico, un insediamento irregolare in piena campagna, tra gli ulivi, composto da casali occupati, baracche, roulotte e altri ripari di fortuna. «Solitamente ci vivono circa 800 persone, ma durante l’estate può arrivare ad ospitarne anche il doppio. Sono lavoratori dell’Africa subsahariana», spiega Khady Sene, operatrice della Caritas di Foggia.
    Voci dal ghetto di Rignano Garganico. Anche tra i lavoratori del bio

    Joseph, nel ghetto, ci ha abitato per un anno. Poi, ha trovato lavoro in un’azienda agricola biologica del territorio, che gli garantiva anche un posto letto. «Eravamo in otto in stanza e pagavo 185 euro al mese. Mi sono dovuto pagare anche i guanti, le calze, l’acqua», racconta a IrpiMedia. «Prendevo tre euro all’ora. Facevo otto ore, nove, a volte undici, quando c’era bisogno, sia nei campi sia in magazzino», continua Joseph. Secondo le sue descrizioni, l’azienda per cui lavorava arrivava ad occupare oltre 200 persone e produce tuttora verdure e ortaggi biologici, in larga parte per l’esportazione. «Ho capito piano piano che qualcosa non andava. Ho chiesto spiegazioni al capo italiano, ma mi ha detto che queste erano le condizioni. Così, dopo un anno e mezzo, me ne sono andato», ricorda oggi Joseph. Il suo non era lavoro nero, ma grigio, una forma di sfruttamento tanto diffusa quanto difficile da scoprire. E, come mostrano i casi fin qui raccontati, che tocca anche l’agricoltura biologica.

    «Vertenze e segnalazioni le abbiamo anche nel biologico. Non si può dire che il settore sia esente dalle tentazioni di sfruttamento e caporalato», ragiona Jean René Bilongo, sindacalista e responsabile osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Per Giulia Laganà, analista dell’Open Society European Policy Institute, «l’agricoltura biologica ha gli stessi problemi di quella convenzionale: la grande distribuzione e gli intermediari causano sfruttamento con i loro prezzi bassi».

    Un mercato in crescita con le sovvenzioni Ue

    Dal 2010 al 2020, il numero degli operatori è aumentato del 71% e le superfici coltivate dell’88%. Anche i consumi sono cresciuti: il valore del mercato interno è salito del 104% negli ultimi cinque anni arrivando a 3,6 miliardi, pari al 4% del comparto agroalimentare. Con la strategia Farm to fork, poi, la Commissione europea ha proposto di raggiungere il 25% di terreni Ue coltivati a biologico entro il 2030, un obiettivo che non è vincolante, ma potrebbe stimolare ulteriormente la crescita del comparto. Per Ifoam, l’Italia ha le potenzialità per arrivare al 41% di superfici bio. «Il settore biologico – riprende Bilongo – è in grande ascesa: le vertenze sindacali sono la spia di un malessere che si annida anche lì. Il caso StraBerry è eloquente».

    StraBerry è una start up agricola lombarda che produce frutti di bosco biologici alle porte di Milano sui terreni della Società Agricola Cascina Pirola Srl, biologica dal 2017. Ad agosto 2021, il fondatore di StraBerry Guglielmo Stagno d’Alcontres è stato rinviato a giudizio. Stando all’imputazione, l’imprenditore, sua madre e altri due imputati avrebbero sottoposto dal 2018 in poi 73 lavoratori stranieri a «condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno», minacciandoli, insultandoli e pagandoli 4 euro all’ora. I braccianti della start up, che puntava molto sulla sostenibilità del suo marchio e vendeva i suoi prodotti bio con degli Apecar in centro a Milano, erano prevalentemente richiedenti asilo, provenienti dall’Africa subsahariana e ospiti dei centri di accoglienza del territorio. Abdulai Mohamed Kargbo è uno di loro. Agli inquirenti ha spiegato che «Capo grasso [Guglielmo Stagno d’Alcontres, ndr] urlava sempre, tu non hai finito tuo lavoro domani non c’è lavoro per te, tu non hai fatto 25 cassette domani non c’è lavoro per te, lui urlava sempre, era sempre arrabbiato e diceva sempre parolacce».

    Esempi come questo sono la conferma che i casi di sfruttamento in agricoltura biologica si contano in molte parti d’Italia. Anche in Piemonte. Al tribunale di Cuneo, a febbraio, dovrebbe arrivare a sentenza il primo processo per caporalato nel distretto della frutta di Saluzzo. Tra gli imputati, Diego Gastaldi e sua madre Marilena Bongiasca. La famiglia rappresenta una realtà imprenditoriale storica e solida del territorio. Anche le loro aziende si sono convertite al biologico negli ultimi anni e, durante il procedimento, Diego Gastaldi ha sostenuto che la transizione al biologico è stata una delle difficoltà per le quali i braccianti venivano pagati in parte fuori busta, in contanti, in nero. Secondo l’accusa, infatti, lui e la madre avrebbero corrisposto ad alcuni lavoratori africani «retribuzioni in modo palesemente difforme dalla legge e dai contratti collettivi […] ed in modo comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato», con «una paga minima di 5 euro all’ora» (contro i 7,47 decisi dalla contrattazione collettiva) e senza «il versamento di almeno due terzi dei contributi previdenziali».

    Bio conviene, a prescindere dall’etica

    Il punto è cercare di capire se questi casi sono episodi isolati o, invece, spie di una più ampia e preoccupante tendenza. Secondo Riccardo Bocci bisogna «vedere se la crescita di questo settore tiene il passo delle sue ambizioni etiche, sociali e politiche». Bocci è direttore tecnico di Rete semi rurali e ha una lunga esperienza nel campo. «Oggi – prosegue – l’aumento delle vendite dei prodotti bio legato alla grande distribuzione organizzata e, soprattutto, ai discount pone dei dubbi sull’eticità, per i diritti dei lavoratori ma anche per tutto il sistema di consumo e produzione». Anche Lucio Cavazzoni è un esperto di biologico ed è stato presidente di Alce Nero, uno dei maggiori marchi italiani del settore. A suo parere, «casi di grandi e medie aziende agricole che passano al biologico perché hanno dei vantaggi» esistono e «lo sfruttamento è sfruttamento, anche nel biologico». «Credo però – continua – che la grande massa dei produttori biologici sia lontana da queste pratiche».

    L’ong Terra! ha lavorato con chi non è solo lontano da queste pratiche, ma le contrasta attivamente. Il progetto IN CAMPO! senza caporale ha garantito a una quindicina di braccianti provenienti dall’Africa subsahariana formazione, sostegno nel lasciare i ghetti e inserimento regolare in alcune aziende del foggiano. Tra queste vi è Aquamela bio, di Cerignola, comune di 60 mila abitanti con una delle superfici agricole più estese d’Italia.

    «Il bio è ossigeno», dice Vito Merra, mentre raccoglie l’uva insieme a una squadra di braccianti, in parte italiani in parte stranieri. Aquamela bio è sua e di suo fratello Roberto: sono 23 ettari, sui quali coltivano anche cereali e olive, usate per produrre olio in proprio. I lavoratori sono tutti in regola: Aquamela bio paga loro tutte le giornate che effettivamente lavorano e consente loro di raggiungere così il numero minimo di giorni necessari per la disoccupazione. «I prodotti biologici hanno più valore e ci garantiscono margini più alti. E poi anche gli incentivi aiutano», spiega Merra.

    L’esperienza di Terra! è positiva, ma piccola. Riguarda alcune decine di lavoratori e poche imprese, a fronte di oltre 70 mila aziende agricole biologiche attive in Italia e circa 180 mila braccianti vulnerabili stimati dalla Flai-Cgil in tutto il Paese. È significativa, però, perché mette in evidenza quale potrebbe essere il contributo di questo tipo di agricoltura nella lotta allo sfruttamento.

    Il biologico, poiché è considerato positivo per l’ambiente e la salute, è sostenuto da incentivi pubblici. L’Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, è lo stato europeo che ha ottenuto più fondi per il biologico dalla Politica agricola comune dell’Ue. I prodotti bio, inoltre, vengono venduti a prezzi più alti rispetto a quelli convenzionali. Secondo i dati Ismea, le arance biologiche vengono pagate ai produttori, in media, il 24% in più di quelle convenzionali, i pomodori il 53%, le mele il 103%. Per contro, non utilizzando la chimica, il biologico può avere una produzione meno ricca del convenzionale e ha dei costi aggiuntivi come quelli di certificazione, pesanti soprattutto per le piccole aziende. Nel complesso, però, il gioco può valere la candela. «Il biologico – riprende Merra – dà ad Aquamela bio la capacità economica di rispettare i diritti dei lavoratori».

    Il biologico, quindi, può aiutare, ma da solo non è sufficiente a cambiare la situazione. Secondo operatori ed esperti del settore, servono più controlli da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il cui organico va potenziato, e criteri più rigidi per le certificazioni biologiche. Inoltre, sarebbe importante ragionare su quanto le leggi italiane in materia di immigrazione creino un serbatoio di lavoratori stranieri senza alternative: i cittadini extracomunitari la cui presenza in Italia è spesso legata al contratto di lavoro. «Ho sempre accettato di essere sfruttato per il semplice motivo che altrimenti non avrei ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno», ha spiegato con disarmante semplicità un bracciante africano nel corso di un’u

    La “condizionalità sociale” dei fondi europei

    Anche i fondi europei giocano un ruolo importante: per molte aziende agricole, biologiche e non, sono vitali e quindi la loro erogazione andrebbe collegata al rispetto dei diritti dei lavoratori, come previsto dalla nuova Politica agricola comune (Pac) Ue. «Francamente non vedo differenza tra agricoltura convenzionale e biologica: lo sfruttamento dei lavoratori rappresenta una piaga che non a caso abbiamo deciso di contrastare con l’inserimento della condizionalità sociale nella riforma della Pac. Questo strumento dovrà garantire che i fondi pubblici non vadano più nelle tasche di chi non rispetta i diritti», commenta Paolo De Castro, ex ministro dell’Agricoltura, oggi eurodeputato del Partito Democratico – Gruppo S&D.

    La nuova Politica agricola comune, che il gruppo S&D ha votato, prevede una condizionalità sociale volontaria dall’anno prossimo e obbligatoria dal 2025. Per Daniel Freund, eurodeputato tedesco per i Verdi, che invece si sono opposti alla riforma della Pac, non è sufficiente. «Perché ci vuole così tanto tempo solo per rispettare le norme sociali e sanitarie di base in aziende agricole che a volte sono davvero spaventose? Le norme [per tutelare i lavoratori, ndr] esistono già. Perché non vengono applicate subito?», si chiede Freund.

    Secondo i legislatori, il periodo di transizione è necessario per consentire agli stati Ue di organizzarsi, dal momento che le modalità con cui i fondi verranno erogati (o negati) saranno decise a livello nazionale. Per Enrico Somaglia, vice segretario generale di Effat, la Federazione europea dei sindacati dei settori alimentari, agricoltura e turismo, «la condizionalità sociale va applicata il prima possibile e in modo corretto. Il meccanismo si basa su controlli ed ispezioni, che oggi sono troppo deboli e troppo poco frequenti». «Come sindacati – ragiona – sosteniamo la strategia Farm to fork e la crescita del bio per ragioni ambientali, ma la transizione ecologica deve essere un’occasione per migliorare le condizioni di lavoro e non una minaccia».

    C’è poi la questione generazionale. Al tribunale di Cuneo, durante il dibattimento, è emerso che Diego Gastaldi era in disaccordo con il padre Graziano in merito al tipo di agricoltura che le aziende famigliari avrebbero dovuto praticare. Il genitore avrebbe voluto continuare col metodo convenzionale che aveva sempre usato. Il figlio, nato nel 1993, spingeva invece per passare al biologico, come effettivamente poi avvenuto. Questa differenza di vedute è paradigmatica in un momento di passaggio per l’agricoltura italiana. Oltre il 60% dei capi delle aziende agricole italiane ha più di 55 anni, il 38% addirittura più di sessantacinque. In un settore composto in gran parte da aziende famigliari, la generazione dei figli è spesso più istruita di quella dei genitori e si ritrova a valutare con maggiore interesse il biologico. Per convinzione o per opportunità.

    Un sindacalista che preferisce rimanere anonimo spiega di aver parlato con imprenditori interessati a regolarizzare la posizione dei loro braccianti, anche in seguito alle azioni anti-caporalato di forze di polizia e magistratura. «Si interessano al bio perché pensano che possa essere un modo per mettere in regola i lavoratori mantenendo l’azienda sostenibile dal punto di vista economico», dice il sindacalista. Per il momento, si tratta di casi isolati. Ma in futuro, con l’avanzare del ricambio generazionale, l’entrata in vigore della condizionalità sociale, una maggiore repressione e una crescente domanda di prodotti biologici, potrebbero aumentare.

    Intanto, anche ad Aquamela bio, a Cerignola, le generazioni si alternano. Vito Merra, oggi, coltiva insieme al fratello Roberto sulla terra che il nonno ottenne con la seconda riforma agraria nel dopoguerra. «La sua generazione era battagliera, era la generazione di Di Vittorio», dice, riferendosi allo storico segretario della Cgil nato proprio a Cerignola. Anche il padre dei fratelli Merra, che ora è in pensione, ha lavorato come agricoltore e presto, tra ulivi e viti, arriverà un’altra generazione, quella del figlio di Roberto. «Sta facendo agronomia all’università», dice il padre, con orgoglio.

    AGGIORNAMENTO 11 APRILE 2022: Il giudice Alice Di Maio del Tribunale di Cuneo ha condannato in primo grado a 5 anni di reclusione Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca nell’ambito del primo procedimento per caporalato in provincia di Cuneo. Il padre di Diego Gastaldi, Graziano Gastaldi, è stato invece assolto.

    https://irpimedia.irpi.eu/invisibleworkers-agricoltura-bio
    #conditions_de_travail #bio #agriculture_biologique #agriculture #prix #Italie #statistiques #chiffres

  • « Au feu les pompiers ! » ou la société du spectacle écologique, Laurent Fonbaustier, juriste
    https://aoc.media/opinion/2022/09/01/au-feu-les-pompiers-ou-la-societe-du-spectacle-ecologique

    « Notre maison brûle, et nous regardons ailleurs » : c’est par ces mots qu’il y a juste vingt ans le président Jacques Chirac ouvrait son discours au Sommet mondial pour le développement durable de Johannesburg. Des mots qui résonnent beaucoup plus fort aujourd’hui, au sortir d’un été caniculaire marqué par nombre de mégafeux. Une relecture minutieuse du message de 2002 fait sauter à la face comme une impuissance globale d’ordres juridiques et politiques qui ne parviennent visiblement pas à éteindre l’incendie en cours d’emballement.

    « Au feu, les pompiers
    V’là la maison qui brûle
    Au feu, les pompiers
    V’là la maison brûlée.

    C’est pas moi, qui l’ai brûlée
    C’est la cantinière
    C’est pas moi, qui l’ai brûlée
    C’est le cantinier… »

    Comptine… pour adultes (extrait)

     
    « Le soleil, ni la mort, ne se peuvent regarder fixement »

    La Rochefoucault , Maximes, 1665

     

    Comment pouvons-nous encore dormir tandis que nos lits brûlent ? C’est visiblement la chanson Beds are burning, du groupe de rock australien Midnight Oil[1], qui inspira Jean-Paul Deléage, à qui l’on doit la très marquante phrase sur laquelle s’ouvrit, il y a précisément vingt ans aujourd’hui, le discours prononcé par le président Jacques Chirac lors du Sommet mondial pour le développement durable de Johannesburg[2]. Réélu de fraîche date, le président français semblait avoir alors été convaincu de l’urgence et de la gravité de la situation écologique. Ses discours de campagne, teintés de vert, l’avaient conduit à mettre en place la « Commission Coppens ». Elle accouchera d’une Charte de l’environnement qui rejoindra, après bien des atermoiements, le bloc de constitutionnalité français le 1er mars 2005.

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    La lecture (ou l’écoute) du discours, vingt ans après, est édifiante. Il n’est pas seulement question d’écologie (et plus restrictivement encore de climat) dans une acception étroite, comme pourrait le laisser entendre une interprétation trop rapide de son titre. Le texte évoque de manière inclusive les « ressources naturelles », la diversité dans ses dimensions biologique et culturelle. La responsabilité collective de l’humanité, pays riches en tête, est mise en exergue, en lien étroit avec la nécessité d’éradiquer la pauvreté. Bien conscient, du fait de sa position institutionnelle notamment, des limites du droit international, Jacques Chirac se prend à rêver d’une Alliance mondiale pour le développement durable, dont le but serait d’être engagé simultanément sur cinq grands chantiers : le changement climatique, l’éradication de la pauvreté, la diversité au sens large, les modes de production et de consommation, ainsi qu’une « gouvernance mondiale pour humaniser et maîtriser la mondialisation ».

    Or, 20 ans après, au risque de s’abandonner à quelques généralisations hâtives et sans assommer les lectrices et lecteurs par des données chiffrées, que peut-on constater en ce qui concerne le climat, la biodiversité et les ressources naturelles ? Pour ce qui est du réchauffement climatique, les données sont biaisées car nous subissons encore aujourd’hui les conséquences d’émissions qui datent en partie d’avant 2002 et parce qu’une...

    #paywall #écologie #responsabilité #canicule #megafeux #climat #biodiversité #pauvreté #mondilisation #capitalisme

  • Eclairage public, nuisances et solutions

    Trame noire : quand les enjeux de la transition énergétique croisent les enjeux #biodiversité
    https://vimeo.com/563639384

    Webinaire réalisé pour les acteurs de TOTEn (Territoires d’Occitanie pour la transition énergétique) donc assez technique. On y trouve les prescriptions et obligations des éclairages et les angles morts de la réglementation, notamment sur la publicité lumineuse.

    Documents à télécharger sur
    https://toten-occitanie.fr/les-webinaires-du-reseau/8-juin-2021-webinaire-2-2021

    https://toten-occitanie.fr/IMG/pdf/webinaire_tramenoire_080621_compte-rendu.pdf

    #trame_noire #environnement #réglementation #territoires #lumières #nuisances_lumineuses #seuil_d'accessiblité #écologie #cartographie #corridors_écologiques #pollution_lumineuse
    #ciel_étoilé
    #nuit et https://www.lightpollutionmap.info

    Bonus
    Décryptage : l’arrêté ministériel « nuisances lumineuses » - Contexte

    https://www.cerema.fr/fr/actualites/decryptage-arrete-ministeriel-nuisances-lumineuses-contexte

    • Tarbes coupe l’éclairage des rues intérieures des quartiers résidentiels à 23h depuis le 1er juillet, pour réduire la facture et la pollution lumineuse.

      J’y vois aussi des discriminations spatiales et un couvre-feu implicite pour les femmes de certains quartiers.

      Repenser un éclairage public avec des sources moins hautes, mieux orientées et équipées en LED avec la bonne longueur d’onde serait plus efficace et surtout bien plus cher. Et on oublie aussi les enjeux sociologiques de l’éclairage public.

  • Sur le chemin de l’école, les nouvelles technologies de traçage des enfants posent question Julie Rausis/jop - RTS
    https://www.rts.ch/info/suisse/13326796-sur-le-chemin-de-lecole-les-nouvelles-technologies-de-tracage-des-enfan

    Dans le canton de Vaud, la rentrée scolaire s’accompagne cette année de l’apparition d’une nouvelle pratique qui pose question. Certains élèves sont désormais « traqués » lors de leur trajet en bus de la maison à l’école, parfois au moyen de puces Bluetooth.
    Officiellement, on parle de « nouvelles technologies pour rendre le chemin de l’école plus sûr ». C’est ainsi que les développeurs présentent ces solutions achetées par certains transporteurs scolaires.


    Tracer les enfants pour rendre le chemin de l’école plus sûr / La Matinale / 4 min. / hier à 07:00

    À Bourg-en-Lavaux par exemple, 60 élèves de 1H et 2H (4-6 ans) sont, depuis lundi, dotés d’office de ces petites puces connectées. C’est le résultat d’une discussion menée entre les autorités de la commune, l’entreprise de transport et l’association des parents d’élèves pour clarifier les responsabilités de chacun sur le chemin de l’école.

    Concrètement, ce système de traçage se présente sous la forme d’un badge lié individuellement à chaque enfant et placé dans leur sautoir jaune de sécurité du TCS. « Le badge fonctionne uniquement quand l’enfant entre dans le bus. Quand il passe la porte, le badge est capté par le véhicule », explique Grégoire Dupasquier, garagiste et transporteur scolaire, mardi dans La Matinale.

    De cette manière, si un enfant n’est pas présent dans le bus ou sort au mauvais arrêt, le transporteur peut renseigner l’école ou les parents. Mais le traçage s’arrête automatiquement lorsque l’enfant sort du véhicule.

    « Filet de sécurité »
    D’après Grégoire Dupasquier, ces solutions permettent d’épargner au chauffeur un travail contraignant en plus de la sécurité routière. « En enlevant le facteur humain, on a une fiabilité qu’on voulait vraiment », dit-il. « Sans aller trop loin dans l’intrusion, on voulait avoir quelque chose de facile d’utilisation et surtout qui ne demande rien à faire à l’enfant. »

    Le dispositif est mis en place par défaut. Les parents qui le refusent doivent en faire la demande. À Bourg-en-Lavaux, une dizaine l’ont déjà faite. A contrario, ceux qui veulent équiper leurs enfants plus âgés peuvent aussi le demander.

    Membre du comité de l’association des parents, Fiona Rossi Cavin est mitigée. Elle salue la volonté de mettre en place un « filet de sécurité » pour les élèves. En revanche, le traçage des données pose question. « Et c’est un outil supplémentaire, parmi d’autres déjà proposés, qui ne va pas remplacer la responsabilité de l’humain », souligne-t-elle. Même si, de manière générale, elle rappelle qu’il y a « peu d’incidents ».

    Dynamique internationale
    D’autres modèles et technologies de contrôle du chemin de l’école existent en Suisse (voir encadré). Selon l’Association vaudoise des parents d’élèves, plusieurs communes ont adopté pareils systèmes pour répondre aux inquiétudes. En particulier pour les plus jeunes filles et garçons qui descendent au mauvais arrêt et se perdent parfois en chemin.

    Si ces nouveaux dispositifs peuvent rassurer les parents inquiets, ils devraient être utilisés avec parcimonie, prévient la spécialiste des droits de l’enfant Zoe Moody. D’une part, parce que les enfants ont droit à la protection de la vie privée. « Mais ils ont aussi le droit d’être protégés contre les dangers. Ces deux droits sont en tension », note-t-elle.

    D’après cette collaboratrice scientifique au Centre interfacultaire en droits de l’enfant de l’Université de Genève, qui a notamment étudié spécifiquement l’évolution du chemin de l’école, ces évolutions en Suisse s’inscrivent dans une dynamique internationale qui n’est pas nouvelle. « C’est une manière de répondre aux inquiétudes des parents. »

    Restreindre un espace d’apprentissage
    Mais le fait de cadrer toujours plus le chemin de l’école, qui reste un espace de liberté pour les enfants, peut avoir des effets néfastes sur le développement de l’autonomie des enfants. « C’est dommage de ne pas aller davantage dans les apprentissages », déplore-t-elle. En utilisant ainsi la technologie, « on enlève des opportunités d’apprentissage qui sont pourtant appréciées par les enfants ».

    Cela ne veut pas dire qu’ils n’auront pas la possibilité d’apprendre par la suite, précise-t-elle. « Mais certains travaux soulignent que ces interventions sur les espaces de liberté, notamment le chemin de l’école, pourraient créer une génération moins bien équipée à gérer l’espace public. »

    Cela ne signifie pas que tous les usages de la technologie pour encadrer et sécuriser les trajets des enfants soient à jeter. « Il est préférable de parler d’interaction humain-machine, et pas uniquement d’intrusion du numérique », souligne encore Zoe Moody. Selon elle, tout l’enjeu est de ne pas remplacer l’humain : « Il ne faut pas que le chauffeur de bus ne reconnaisse plus les enfants ou que les enfants ne soient plus capables de s’entraider. Mais si on a cette réflexion là autour, il me semble qu’on peut éviter de gros travers de ces dispositifs. »

    #enfants #transports #surveillance #traçage #traquage #algorithme #biométrie #bigdata #géolocalisation #apprentissage #transports_scolaires

    • Les montres connectées également plébiscitées

      Au-delà des dispositifs imposés par les autorités ou les transporteurs scolaires, la montre connectée fait elle aussi figure de nouveau gadget de l’écolier à la mode. L’appareil permet de communiquer et il est aussi équipé d’un traceur GPS. Les parents disposent ainsi d’un moyen de communication en temps réel avec leur enfant. Ses ventes ont explosé l’an passé.

      Silvain Guillaume-Gentil, porte-parole de la police cantonale genevoise, y voit le moyen d’éviter des alertes inutiles. Mais des questions éthiques se posent également vis-à-vis de ces montres. Certains modèles permettent en effet d’allumer le micro et la caméra à distance. Ainsi, en France, la commission de l’informatique et des libertés a mis en garde sur un excès potentiel d’intrusion dans la vie des enfants.

  • Pourquoi détruit-on la planète ? Les dangers des explications pseudo-neuroscientifiques

    Des chercheurs en neurosciences et sociologie mettent en garde contre la thèse, qu’ils jugent scientifiquement infondée, selon laquelle une de nos #structures_cérébrales nous conditionnerait à surconsommer.

    Selon Thierry Ripoll et Sébastien Bohler, les ravages écologiques liés à la surconsommation des ressources planétaires seraient dus aux #comportements_individuels déterminés par notre cerveau. Une structure, le striatum, piloterait par l’intermédiaire d’une #molécule_neurochimique, la #dopamine, le désir de toujours plus, sans autolimitation, indiquaient-ils récemment dans un entretien au Monde.

    (#paywall)
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2022/07/07/pourquoi-detruit-on-la-planete-les-dangers-des-explications-pseudo-scientifi

    –—

    Tribune longue :

    Dans un entretien croisé pour Le Monde, Thierry Ripoll et Sébastien Bohler présentent leur thèse commune, développée dans deux ouvrages récents et que Bohler avait résumée dans un ouvrage précédent sous le titre évocateur de « bug humain » : les ravages écologiques liés à la surconsommation des ressources planétaires seraient dus aux comportements individuels déterminés par la structure même du cerveau. Précisément, le dogme de la croissance viendrait du striatum. Selon lui, cette structure cérébrale piloterait par l’intermédiaire d’une molécule neurochimique, la dopamine, le désir de toujours plus, sans autolimitation. Ripoll reprend cette thèse à son compte, et il affirme que la décroissance économique, qu’il appelle de ses vœux pour limiter les catastrophes en cours, bute ainsi sur des limites psychobiologiques.

    Cette thèse est très forte et a des conséquences politiques très préoccupantes : la #nature_humaine, ou plus précisément notre #programmation_biologique, conditionnerait le champ des possibles concernant l’organisation socio-économique. Le modèle de croissance économique serait le seul compatible avec le #fonctionnement_cérébral humain. Cela disqualifie les projets politiques de #décroissance ou de stabilité basés sur la #délibération_démocratique. Cela déresponsabilise également les individus[i] : leur #comportement destructeur de l’#environnement n’est « pas de leur faute » mais « celle de leur #striatum ». Une conséquence logique peut être la nécessité de changer notre nature, ce qui évoque des perspectives transhumanistes, ou bien des mesures autoritaires pour contraindre à consommer moins, solution évoquée explicitement par les deux auteurs. Les neurosciences et la #psychologie_cognitive justifient-elles vraiment de telles perspectives ?

    Nous souhaitons ici solennellement informer les lectrices et les lecteurs de la totale absence de fondement scientifique de cette thèse, et les mettre en garde contre ses implications que nous jugeons dangereuses. Ce message s’adresse également à ces deux auteurs que nous estimons fourvoyés, sans préjuger de leur bonne foi. Nous ne doutons pas qu’ils soient sincèrement et fort justement préoccupés des désastres environnementaux mettant en danger les conditions d’une vie décente de l’humanité sur Terre, et qu’ils aient souhaité mobiliser leurs connaissances pour aider à trouver des solutions. Les arguments déployés sont cependant problématiques, en particulier ceux relevant des neurosciences, notre domaine principal de compétence.

    Tout d’abord, le striatum ne produit pas de #dopamine (il la reçoit), et la dopamine n’est pas l’#hormone_du_plaisir. Le neuroscientifique #Roy_Wise, qui formula cette hypothèse dans les années 70, reconnut lui-même « je ne crois plus que la quantité de plaisir ressentie est proportionnelle à la quantité de dopamine » en… 1997. L’absence de « fonction stop » du striatum pour lequel il faudrait toujours « augmenter les doses » est une invention de #Bohler (reprise sans recul par #Ripoll) en contresens avec les études scientifiques. Plus largement, la vision localisationniste du xixe siècle consistant à rattacher une fonction psychologique (le #plaisir, le #désir, l’#ingéniosité) à une structure cérébrale est bien sûr totalement obsolète. Le fonctionnement d’une aire cérébrale est donc rarement transposable en termes psychologiques, a fortiori sociologiques.

    Rien ne justifie non plus une opposition, invoquée par ces auteurs, entre une partie de #cerveau qui serait « récente » (et rationnelle) et une autre qui serait « archaïque » (et émotionnelle donc responsable de nos désirs, ou « instinctive », concept qui n’a pas de définition scientifique). Le striatum, le #système_dopaminergique et le #cortex_frontal, régions du cerveau présentes chez tous les mammifères, ont évolué de concert. Chez les primates, dont les humains, le #cortex_préfrontal a connu un développement et une complexification sans équivalent. Mais cette évolution du cortex préfrontal correspond aussi à l’accroissement de ses liens avec le reste du cerveau, dont le système dopaminergique et le striatum, qui se sont également complexifiés, formant de nouveaux réseaux fonctionnels. Le striatum archaïque est donc un #neuromythe.

    Plus généralement, les données neuroscientifiques ne défendent pas un #déterminisme des comportements humains par « le striatum » ou « la dopamine ». Ce que montrent les études actuelles en neurosciences, ce sont certaines relations entre des éléments de comportements isolés dans des conditions expérimentales simplifiées et contrôlées, chez l’humain ou d’autres animaux, et des mesures d’activités dans des circuits neuronaux, impliquant entre autres le striatum, la dopamine ou le cortex préfrontal. Le striatum autocrate, dont nous serions l’esclave, est donc aussi un neuromythe.

    Par ailleurs, Bohler et Ripoll font appel à une lecture psycho-évolutionniste simpliste, en fantasmant la vie des êtres humains au paléolithique et en supposant que les #gènes codant pour les structures du cerveau seraient adaptés à des conditions de vie « primitive », et pas à celles du monde moderne caractérisé par une surabondance de biens et de possibles[ii]. Il y a deux problèmes majeurs avec cette proposition. Tout d’abord, les liens entre les gènes qui sont soumis à la sélection naturelle, les structures cérébrales, et les #comportements_sociaux sont extrêmement complexes. Les #facteurs_génétiques et environnementaux sont tellement intriqués et à tous les stades de développement qu’il est impossible aujourd’hui d’isoler de façon fiable des #déterminismes_génétiques de comportements sociaux (et ce n’est pourtant pas faute d’avoir essayé). Poser la surconsommation actuelle comme sélectionnée par l’évolution, sans données génétiques, est une spéculation dévoyée de la #psychologie_évolutionniste. Le second problème concerne les très faibles connaissances des modes d’#organisation_sociale des peuples qui ont vécu dans la longue période du paléolithique. Il n’existe pas à notre connaissance de preuves d’invariants ou d’un mode dominant dans leur organisation sociale. Les affirmations évolutionnistes de Bohler et Ripoll n’ont donc pas de statut scientifique.

    Il est toujours problématique de privilégier un facteur principal pour rendre compte d’évolutions historiques, quel qu’il soit d’ailleurs, mais encore plus quand ce facteur n’existe pas. Les sciences humaines et sociales montrent la diversité des modèles d’organisation sociale qui ont existé sur Terre ainsi que les multiples déterminismes socio-historiques de la « grande accélération » caractéristique des sociétés modernes dopées aux énergies fossiles. Non, toutes les sociétés n’ont pas toujours été tournées vers le désir de toujours plus, vers le progrès et la croissance économique : on peut même argumenter que la « religion du #progrès » devient dominante dans les sociétés occidentales au cours du xixe siècle[iii], tandis que le modèle de la #croissance_économique (plutôt que la recherche d’un équilibre) n’émerge qu’autour de la seconde guerre mondiale[iv]. Invoquer la « #croissance » comme principe universel du vivant, comme le fait Ripoll, abuse du flou conceptuel de ce terme, car la croissance du PIB n’a rien à voir avec la croissance des plantes.

    Il peut certes sembler légitime d’interroger si le fonctionnement du cerveau a, au côté des multiples déterminismes sociohistoriques, une part de #responsabilité dans l’état de la planète. Mais la question est mal posée, l’activité de « milliards de striatum » et les phénomènes socioéconomiques ne constituant pas le même niveau d’analyse. Bohler et Ripoll ne proposent d’ailleurs pas d’explications au niveau cérébral, mais cherchent à légitimer une explication psychologique prétendument universelle (l’absence d’#autolimitation) par la #biologie. Leurs réflexions s’inscrivent donc dans une filiation ancienne qui cherche une explication simpliste aux comportements humains dans un #déterminisme_biologique, ce qu’on appelle une « #naturalisation » des #comportements. Un discours longtemps à la mode (et encore présent dans la psychologie populaire) invoquait par exemple le « #cerveau_reptilien » à l’origine de comportements archaïques et inadaptés, alors que cette pseudo-théorie proposée dans les années 60 a été invalidée quasiment dès son origine[v]. Le « striatum », la « dopamine », le « #système_de_récompense », ou le « #cerveau_rapide et le #cerveau_lent » sont en fait de nouvelles expressions qui racontent toujours à peu près la même histoire. Loin d’être subversive, cette focalisation sur des déterminismes individuels substitue la #panique_morale [vi] à la #réflexion_politique et ne peut mener, puisque nous serions « déterminés », qu’à l’#impuissance ou à l’#autoritarisme.

    Les erreurs des arguments développés par Bohler et Ripoll ont d’ores et déjà été soulignées à propos d’ouvrages précédents de Bohler[vii]. Nous souhaitons également rappeler qu’il existe un processus d’évaluation des productions scientifiques (y compris théoriques) certes imparfait mais qui a fait ses preuves : la revue par les pairs. Aucun de ces deux auteurs ne s’y est soumis pour avancer ces propositions[viii]. Il n’est pas sûr que notre rôle de scientifiques consiste à évaluer les approximations (et c’est un euphémisme) qui sont en continu publiées dans des livres ou dans la presse. Notre réaction présente est une exception justifiée par une usurpation des neurosciences, la gravité des enjeux écologiques dont ces auteurs prétendent traiter, ainsi que par la popularité grandissante que ces thèses semblent malheureusement rencontrer[ix].

    _____________________

    Ce texte n’est pas issu des travaux de l’atelier d’écologie politique mais il résonne fortement avec d’autres travaux de l’atécopol. Il a été rédigé par Etienne Coutureau, chercheur CNRS en neurosciences (Bordeaux), Jean-Michel Hupé, chercheur CNRS en neurosciences et en écologie politique et membre de l’atécopol (Toulouse), Sébastien Lemerle, enseignant-chercheur en sociologie (Paris-Nanterre), Jérémie Naudé, chercheur CNRS en neurosciences (Montpellier) et Emmanuel Procyk, chercheur CNRS en neurosciences (Lyon).

    [i] Jean-Michel Hupé, Vanessa Lea, « Nature humaine. L’être humain est-il écocidaire par nature ? », dans Greenwashing : manuel pour dépolluer le débat public, Aurélien Berlan, Guillaume Carbou et Laure Teulières (coords.), Paris, Le Seuil, 2022, p. 150-156.

    [ii] Philippe Huneman, Hugh Desmond, Agathe Du Crest, « Du darwinisme en sciences humaines et sociales (1/2) », AOC, 15 décembre 2021.

    [iii] François Jarrige, Technocritiques, Paris, La Découverte, 2014.

    [iv] Timothy Mitchell, « Economentality : how the future entered government », Critical inquiry, 2014, vol. 40, p. 479-507. Karl Polanyi a par ailleurs montré comment l’économie de marché est une construction socio-historique : La Grande Transformation, Aux origines politiques et économiques de notre temps, Paris, Gallimard, (1944) 1983.

    [v] Sébastien Lemerle, Le cerveau reptilien. Sur la popularité d’une erreur scientifique, Paris, CNRS éditions, 2021.

    [vi] Jean-Michel Hupé, Jérôme Lamy, Arnaud Saint-Martin, « Effondrement sociologique ou la panique morale d’un sociologue », Politix, n° 134, 2021. Cet article témoigne également que Bohler et Ripoll ne sont pas les seuls intellectuels mobilisant les neurosciences de façon très contestable.

    [vii] Jérémie Naudé (2019), « Les problèmes avec la théorie du "bug humain", selon laquelle nos problème d’écologie viendraient d’un bout de cerveau, le striatum » ; Thibault Gardette (2020), « La faute à notre cerveau, vraiment ? Les erreurs du Bug humain de S. Bohler » ; Alexandre Gabert (2021), « Le cortex cingulaire peut-il vraiment "changer l’avenir de notre civilisation" ? », Cortex Mag, interview d’Emmanuel Procyk à propos de Sébastien Bohler, Où est le sens ?, Paris, Robert Laffont, 2020.

    [viii] Le bug humain de Sébastien Bohler (Paris, Robert Laffont, 2019) a certes obtenu « le Grand Prix du Livre sur le Cerveau » en 2020, décerné par la Revue Neurologique, une revue scientifique à comité de lecture. Ce prix récompense « un ouvrage traitant du cerveau à destination du grand public ». Les thèses de Bohler n’ont en revanche pas fait l’objet d’une expertise contradictoire par des spécialistes du domaine avant la publication de leurs propos, comme c’est la norme pour les travaux scientifiques, même théoriques.

    [ix] La thèse du bug humain est ainsi reprise dans des discours de vulgarisation d’autorité sur le changement climatique, comme dans la bande dessinée de Christophe Blain et Jean-Marc Jancovici, Le monde sans fin, Paris, Dargaud, 2021.

    https://blogs.mediapart.fr/atelier-decologie-politique-de-toulouse/blog/070722/pourquoi-detruit-la-planete-les-dangers-des-explications-pseudo-neur
    #neuro-science #neuroscience #critique #écologie #surconsommation #politisation #dépolitisation #politique

  • Sauver la #nuit. Comment l’#obscurité disparaît, ce que sa disparition fait au vivant, et comment la reconquérir

    Que voyons-nous lorsque, le soir venu, nous levons les yeux vers le ciel ?
    Pour la plupart d’entre nous, habitants des villes et alentour, pas grand-chose. Les occasions de s’émerveiller devant une voûte céleste parsemée d’étoiles sont de plus en plus rares.
    Aujourd’hui, la Voie lactée n’est plus visible pour plus d’un tiers de l’humanité. Plus de quatre-vingts pour cent de la population mondiale vit sous un ciel entaché de pollution lumineuse, une pollution qui, à l’échelle mondiale, ne cesse de s’accroître. Chaque soir, en France, ce sont onze millions de lampadaires qui s’allument ; chaque jour, plus de trois millions et demi d’enseignes lumineuses, sans compter les millions de lumières bleues de nos divers écrans rétroéclairés.
    Or, au-delà de l’appauvrissement de notre relation au ciel – une relation qui nourrit, depuis toujours, nos représentations du monde –, on connaît désormais les effets négatifs de la #lumière_artificielle sur l’environnement et la santé. Érosion de la #biodiversité, dérèglement de notre #rythme_biologique, perturbation de nos #rythmes_de_sommeil, etc. Éteindre les #lumières est un geste non seulement esthétique, mais aussi écologique et sanitaire.
    « Nous laissera-t-on un ciel à observer ? » s’inquiétaient déjà les astronomes amateurs dans les années 1970. Samuel Challéat retrace l’histoire de la revendication d’un « #droit_à_l’obscurité » concomitant au développement urbain et décrit la manière dont s’organise, aujourd’hui, un front pionnier bien décidé à sauver la nuit.

    http://www.premierparallele.fr/livre/sauver-la-nuit
    #santé #pollution_lumineuse
    #livre

    • Il était une fois la nuit

      Aujourd’hui, qui d’entre nous a encore la chance de pouvoir contempler un #ciel_étoilé  ? L’#urbanisation galopante et la généralisation de l’#éclairage_artificiel menacent de réduire la nuit comme une peau de chagrin. A travers des photos empreintes d’onirisme et de poésie, accompagnées de textes riches et accessibles, cet ouvrage livre un vibrant plaidoyer esthétique et raisonné pour la préservation de la nuit. Il permet aussi de découvrir l’importance méconnue de l’obscurité pour la faune et la flore sauvage, mais aussi pour nous les humains.

      Photographe mêlant approche particulièrement artistique et engagement contre la pollution lumineuse, Carole Reboul célèbre avec ce livre la beauté du ciel et des paysages nocturnes. Elle témoigne aussi des initiatives qui se multiplient tout près de chez nous comme à travers la planète pour redonner à la nuit toute la place qui lui revient.

      https://boutique.salamandre.org/il-etait-une-fois-la-nuit.pdt-1221

    • Le ciel étoilé, un espace en voie de disparition ?

      Ou comment nous avons perdu le contact avec les étoiles et la voie lactée !

      En savoir plus

      Qui n’a pas gardé en mémoire des souvenirs de ciel étoilé, de moment suspendu où le sentiment d’être en osmose avec l’univers prenait l’ascendant sur nos vies urbanisées ? Un moment de partage avec l’univers, doublé souvent d’une reconnexion à la nature.

      Mais aujourd’hui, force est de constater que nous avons perdu l’habitude de l’alternance entre le jour et la nuit, un rythme pourtant naturel et nécessaire au monde du vivant. La pollution lumineuse a pris le dessus, avec des conséquences non seulement sur la faune, la flore, les écosystèmes, mais aussi sur la santé humaine.

      Pourquoi devrions-nous protéger l’obscurité et le ciel étoilé ? Quels en sont les principaux perturbateurs ? Comment la sauvegarde de la nuit est-elle encore possible ?

      Réponse avec Samuel Challéat, auteur du livre Sauver la nuit, édité chez Premier Parallèle.

      Et Carole Reboul, photographe de la vie sauvage, physicienne de formation, auteure du livre Il était une fois la nuit paru aux éditions Salamandre.

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/de-cause-a-effets-le-magazine-de-l-environnement/le-ciel-etoile-un-espace-en-voie-de-disparition-dcae-5221483

      #podcast #audio

    • Hier soir, nuit des étoiles en famille  : on a trouvé un col à 900m d’altitude qui domine la plaine du sud-ouest, donc correctement orienté au nord-nord-est.

      Bon, déjà, 23°C et du vent, c’est très très appréciable. Ensuite, voir un peu les étoiles après un an de ville, aussi. On a raté l’extinction de 23h de Tarbes  : une partie des rues de la ville ne sont plus éclairées à partir de ce moment là depuis début juillet (oui, on a une équipe municipale de droite 🤷‍♀️).

      Côté étoiles, entre le soleil et la pleine lune, trop de luminosité pour voir la voie lactée. De toute manière, c’est mieux de regarder vers le sud pour ça, donc il nous faudra un autre col. Par contre, on a eu de l’étoile filante, dont une bien grosse qui a duré dans les 2 sec., avec la trainée jaune et tout.

      Après, on était au milieu d’un troupeau de vaches. C’est marrant, le soir, elles regardent toutes le soleil se coucher. Ensuite, elles se regroupent et se couchent, sauf les veaux qui faisaient les cons dans le noir (à notre grande frayeur  !). Ça a beuglé dans le troupeau et les jeunes ont rejoint les autres.

      En ville, on a traversé les quartiers éteints. Ça ne dégage pas spécialement la vue du ciel, il y a encore trop de rues allumées, surtout avec des lampadaires trop hauts et trop lumineux. Par contre, ça touche essentiellement des quartiers résidentiels et on a eu une pensée pour les femmes qui habitent dedans et qui ont clairement un couvre-feu imposé  : c’est bien bien noir. Pareil pour les cyclistes qui deviennent invisibles. Et pour les chats, habitués à ce que les coins sombres soient des coins sans circulation…

  • Nécropolitique
    https://cabrioles.substack.com/p/12-aout-2022-necropolitique


    En mars 2020 des camions militaires sont réquisitionnés pour évacuer les milliers de morts du Covid-19 à Bergame dans le nord de l’Italie.

    Bonjour,

    Il y a un an un large spectre des milieux intellectuels français, de l’autonomie “destituante” à la nouvelle droite écofasciste, nous enjoignait à rejoindre les manifestations “contre le pass sanitaire” pour, disaient-ils, lutter contre la “#biopolitique ” gouvernementale. C’est par ce concept, popularisé par Michel Foucault pour analyser entre autres la maximisation des forces biologiques d’une population en vue de la production capitaliste, qu’ils désignaient la #politique_sanitaire d’Emmanuel Macron, qui selon eux sacralisait la vie pour déployer son controle technologique. Cette soi-disant “politique sanitaire” venait pourtant de faire plus de 300 mort·es par jour, pendant 5 mois, de décembre 2020 à avril 2021.

    Nous qui sommes du côté de celleux qui pensent que le contenu d’une lutte réside dans les pratiques qu’elle adopte, et non dans les finalités qu’elle proclame, nous avons constaté que loin de s’en prendre aux dispositifs de controle qui parsèment la métropole, le mouvement contre le pass sanitaire “affublait des médecins de moustaches d’Hitler, agressait et menaçait de mort des soignant·es, attaquait des pharmacies, envahissait des hôpitaux et brûlait des centres de vaccination”.

    Nous pensons que ces deux dynamiques - l’abandon de la population par le gouvernement et les mouvements anti-prévention fascisant - sont les deux faces d’une même politique covidonégationniste que d’autres ont désigné avec un concept élaboré par un penseur - Achille Mbembe - moins occidentalo-centré : la #Nécropolitique.
    C’est cette notion et ces deux dynamiques - gouvernementale et populaire - que les les deux articles que nous vous livrons aujourd’hui se proposent d’explorer. Nous tenons à préciser que nous pensons qu’il serait une erreur de les mettre à distance du fait qu’ils se concentrent sur le Brésil et les États-Unis, car il se pourrait bien qu’il s’agisse d’une différence de degré et non de nature comme le dit Rodrigo Nunes.

    Très bonne lecture et
    prenons soin de nos luttes,

    #Cabrioles (abonnement :https://cabrioles.substack.com/subscribe
    Carnet de recherche pour l’Autodéfense Sanitaire face au Covid19

    « Donnez-moi la liberté ou donnez-moi le Covid ! » : Les manifestations anti-prévention comme déssurrection nécropopuliste | Jack Bratich
    https://cabrioles.substack.com/p/-donnez-moi-la-liberte-ou-donnez

    Sommes-nous encore le pays de l’avenir ? D’un avenir qui se dégrade | Rodrigo Nunes
    https://cabrioles.substack.com/p/sommes-nous-encore-le-pays-de-lavenir

    #covid_19

  • Gerald Joyce, La définition de la vie par la NASA, 2013 – Et vous n’avez encore rien vu…
    https://sniadecki.wordpress.com/2022/08/06/joyce-vie

    La définition de la vie par la NASA et cette interview qui en retrace l’histoire sont symptomatiques de la confusion de la pensée qui se prétend scientifique sur les notions et concepts généraux qui devraient être au fondement de la réflexion sur ce que sont les êtres vivants en tant qu’objets physiques, c’est-à-dire les bases mêmes de la biologie. Nous en proposons une traduction inédite et une analyse critique.

    #vie #êtres_vivants #vivant #NASA #biologie #science #évolution

    • Etranges réflexions de ce commentateur : il confond la définition (qui est effectivement de l’ordre de l’information) avec l’objet défini.
      Il confond également la vie collective et l’existence d’un élément minimal de représentation de la vie... donc la vie sur Terre (sa construction spécifique sur les millions d’années) et la définition d’une vie abstraite qui peut servir à définir d’autres formes de vie, ce qui était l’objectif de cette définition de Gerald Joyce et la Nasa.
      Le tout au nom d’une critique de la science... pas mal quand on confond « la carte et le territoire » :-)

  • « Les #réfugiés sont les #cobayes des futures mesures de #surveillance »

    Les dangers de l’émigration vers l’Europe vont croissant, déplore Mark Akkerman, qui étudie la #militarisation_des_frontières du continent depuis 2016. Un mouvement largement poussé par le #lobby de l’#industrie_de_l’armement et de la sécurité.

    Mark Akkerman étudie depuis 2016 la militarisation des frontières européennes. Chercheur pour l’ONG anti-militariste #Stop_Wapenhandel, il a publié, avec le soutien de The Transnational Institute, plusieurs rapports de référence sur l’industrie des « #Safe_Borders ». Il revient pour Mediapart sur des années de politiques européennes de surveillance aux frontières.

    Mediapart : En 2016, vous publiez un premier rapport, « Borders Wars », qui cartographie la surveillance aux frontières en Europe. Dans quel contexte naît ce travail ?

    Mark Akkerman : Il faut se rappeler que l’Europe a une longue histoire avec la traque des migrants et la sécurisation des frontières, qui remonte, comme l’a montré la journaliste d’investigation néerlandaise Linda Polman, à la Seconde Guerre mondiale et au refus de soutenir et abriter des réfugiés juifs d’Allemagne. Dès la création de l’espace Schengen, au début des années 1990, l’ouverture des frontières à l’intérieur de cet espace était étroitement liée au renforcement du contrôle et de la sécurité aux frontières extérieures. Depuis lors, il s’agit d’un processus continu marqué par plusieurs phases d’accélération.

    Notre premier rapport (https://www.tni.org/en/publication/border-wars) est né durant l’une de ces phases. J’ai commencé ce travail en 2015, au moment où émerge le terme « crise migratoire », que je qualifierais plutôt de tragédie de l’exil. De nombreuses personnes, principalement motivées par la guerre en Syrie, tentent alors de trouver un avenir sûr en Europe. En réponse, l’Union et ses États membres concentrent leurs efforts sur la sécurisation des frontières et le renvoi des personnes exilées en dehors du territoire européen.

    Cela passe pour une part importante par la militarisation des frontières, par le renforcement des pouvoirs de Frontex et de ses financements. Les réfugiés sont dépeints comme une menace pour la sécurité de l’Europe, les migrations comme un « problème de sécurité ». C’est un récit largement poussé par le lobby de l’industrie militaire et de la sécurité, qui a été le principal bénéficiaire de ces politiques, des budgets croissants et des contrats conclus dans ce contexte.

    Cinq ans après votre premier rapport, quel regard portez-vous sur la politique européenne de sécurisation des frontières ? La pandémie a-t-elle influencé cette politique ?

    Depuis 2016, l’Europe est restée sur la même voie. Renforcer, militariser et externaliser la sécurité aux frontières sont les seules réponses aux migrations. Davantage de murs et de clôtures ont été érigés, de nouveaux équipements de surveillance, de détection et de contrôle ont été installés, de nouveaux accords avec des pays tiers ont été conclus, de nouvelles bases de données destinées à traquer les personnes exilées ont été créées. En ce sens, les politiques visibles en 2016 ont été poursuivies, intensifiées et élargies.

    La pandémie de Covid-19 a certainement joué un rôle dans ce processus. De nombreux pays ont introduit de nouvelles mesures de sécurité et de contrôle aux frontières pour contenir le virus. Cela a également servi d’excuse pour cibler à nouveau les réfugiés, les présentant encore une fois comme des menaces, responsables de la propagation du virus.

    Comme toujours, une partie de ces mesures temporaires vont se pérenniser et on constate déjà, par exemple, l’évolution des contrôles aux frontières vers l’utilisation de technologies biométriques sans contact.

    En 2020, l’UE a choisi Idemia et Sopra Steria, deux entreprises françaises, pour construire un fichier de contrôle biométrique destiné à réguler les entrées et sorties de l’espace Schengen. Quel regard portez-vous sur ces bases de données ?

    Il existe de nombreuses bases de données biométriques utilisées pour la sécurité aux frontières. L’Union européenne met depuis plusieurs années l’accent sur leur développement. Plus récemment, elle insiste sur leur nécessaire connexion, leur prétendue interopérabilité. L’objectif est de créer un système global de détection, de surveillance et de suivi des mouvements de réfugiés à l’échelle européenne pour faciliter leur détention et leur expulsion.

    Cela contribue à créer une nouvelle forme d’« apartheid ». Ces fichiers sont destinés certes à accélérer les processus de contrôles aux frontières pour les citoyens nationaux et autres voyageurs acceptables mais, surtout, à arrêter ou expulser les migrantes et migrants indésirables grâce à l’utilisation de systèmes informatiques et biométriques toujours plus sophistiqués.

    Quelles sont les conséquences concrètes de ces politiques de surveillance ?

    Il devient chaque jour plus difficile et dangereux de migrer vers l’Europe. Parce qu’elles sont confrontées à la violence et aux refoulements aux frontières, ces personnes sont obligées de chercher d’autres routes migratoires, souvent plus dangereuses, ce qui crée un vrai marché pour les passeurs. La situation n’est pas meilleure pour les personnes réfugiées qui arrivent à entrer sur le territoire européen. Elles finissent régulièrement en détention, sont expulsées ou sont contraintes de vivre dans des conditions désastreuses en Europe ou dans des pays limitrophes.

    Cette politique n’impacte pas que les personnes réfugiées. Elle présente un risque pour les libertés publiques de l’ensemble des Européens. Outre leur usage dans le cadre d’une politique migratoire raciste, les technologies de surveillance sont aussi « testées » sur des personnes migrantes qui peuvent difficilement faire valoir leurs droits, puis introduites plus tard auprès d’un public plus large. Les réfugiés sont les cobayes des futures mesures de contrôle et de surveillance des pays européens.

    Vous pointez aussi que les industriels qui fournissent en armement les belligérants de conflits extra-européens, souvent à l’origine de mouvements migratoires, sont ceux qui bénéficient du business des frontières.

    C’est ce que fait Thales en France, Leonardo en Italie ou Airbus. Ces entreprises européennes de sécurité et d’armement exportent des armes et des technologies de surveillance partout dans le monde, notamment dans des pays en guerre ou avec des régimes autoritaires. À titre d’exemple, les exportations européennes au Moyen-Orient et en Afrique du Nord des dix dernières années représentent 92 milliards d’euros et concernent des pays aussi controversés que l’Arabie saoudite, l’Égypte ou la Turquie.

    Si elles fuient leur pays, les populations civiles exposées à la guerre dans ces régions du monde se retrouveront très certainement confrontées à des technologies produites par les mêmes industriels lors de leur passage aux frontières. C’est une manière profondément cynique de profiter, deux fois, de la misère d’une même population.

    Quelles entreprises bénéficient le plus de la politique européenne de surveillance aux frontières ? Par quels mécanismes ? Je pense notamment aux programmes de recherches comme Horizon 2020 et Horizon Europe.

    J’identifie deux types d’entreprises qui bénéficient de la militarisation des frontières de l’Europe. D’abord les grandes entreprises européennes d’armement et de sécurité, comme Airbus, Leonardo et Thales, qui disposent toutes d’une importante gamme de technologies militaires et de surveillance. Pour elles, le marché des frontières est un marché parmi d’autres. Ensuite, des entreprises spécialisées, qui travaillent sur des niches, bénéficient aussi directement de cette politique européenne. C’est le cas de l’entreprise espagnole European Security Fencing, qui fabrique des fils barbelés. Elles s’enrichissent en remportant des contrats, à l’échelle européenne, mais aussi nationale, voire locale.

    Une autre source de financement est le programme cadre européen pour la recherche et l’innovation. Il finance des projets sur 7 ans et comprend un volet sécurité aux frontières. Des programmes existent aussi au niveau du Fonds européen de défense.

    Un de vos travaux de recherche, « Expanding the Fortress », s’intéresse aux partenariats entre l’Europe et des pays tiers. Quels sont les pays concernés ? Comment se manifestent ces partenariats ?

    L’UE et ses États membres tentent d’établir une coopération en matière de migrations avec de nombreux pays du monde. L’accent est mis sur les pays identifiés comme des « pays de transit » pour celles et ceux qui aspirent à rejoindre l’Union européenne. L’Europe entretient de nombreux accords avec la Libye, qu’elle équipe notamment en matériel militaire. Il s’agit d’un pays où la torture et la mise à mort des réfugiés ont été largement documentées.

    Des accords existent aussi avec l’Égypte, la Tunisie, le Maroc, la Jordanie, le Liban ou encore l’Ukraine. L’Union a financé la construction de centres de détention dans ces pays, dans lesquels on a constaté, à plusieurs reprises, d’importantes violations en matière de droits humains.

    Ces pays extra-européens sont-ils des zones d’expérimentations pour les entreprises européennes de surveillance ?

    Ce sont plutôt les frontières européennes, comme celle d’Evros, entre la Grèce et la Turquie, qui servent de zone d’expérimentation. Le transfert d’équipements, de technologies et de connaissances pour la sécurité et le contrôle des frontières représente en revanche une partie importante de ces coopérations. Cela veut dire que les États européens dispensent des formations, partagent des renseignements ou fournissent de nouveaux équipements aux forces de sécurité de régimes autoritaires.

    Ces régimes peuvent ainsi renforcer et étendre leurs capacités de répression et de violation des droits humains avec le soutien de l’UE. Les conséquences sont dévastatrices pour la population de ces pays, ce qui sert de moteur pour de nouvelles vagues de migration…

    https://www.mediapart.fr/journal/international/040822/les-refugies-sont-les-cobayes-des-futures-mesures-de-surveillance

    cité dans l’interview, ce rapport :
    #Global_Climate_Wall
    https://www.tni.org/en/publication/global-climate-wall
    déjà signalé ici : https://seenthis.net/messages/934948#message934949

    #asile #migrations #complexe_militaro-industriel #surveillance_des_frontières #Frontex #problème #Covid-19 #coronavirus #biométrie #technologie #Idemia #Sopra_Steria #contrôle_biométrique #base_de_données #interopérabilité #détection #apartheid #informatique #violence #refoulement #libertés_publiques #test #normalisation #généralisation #Thales #Leonardo #Airbus #armes #armements #industrie_de_l'armement #cynisme #Horizon_Europe #Horizon_2020 #marché #business #European_Security_Fencing #barbelés #fils_barbelés #recherche #programmes_de_recherche #Fonds_européen_de_défense #accords #externalisation #externalisation_des_contrôles_frontaliers #Égypte #Libye #Tunisie #Maroc #Jordanie #Liban #Ukraine #rétention #détention_administrative #expérimentation #équipements #connaissance #transfert #coopérations #formations #renseignements #répression

    ping @isskein @karine4 @_kg_

    • Le système électronique d’#Entrée-Sortie en zone #Schengen : la biométrie au service des #frontières_intelligentes

      Avec la pression migratoire et la vague d’attentats subis par l’Europe ces derniers mois, la gestion des frontières devient une priorité pour la Commission.

      Certes, le système d’information sur les #visas (#VIS, #Visa_Information_System) est déployé depuis 2015 dans les consulats des États Membres et sa consultation rendue obligatoire lors de l’accès dans l’#espace_Schengen.

      Mais, depuis février 2013, est apparu le concept de « #frontières_intelligentes », (#Smart_Borders), qui recouvre un panel ambitieux de mesures législatives élaborées en concertation avec le Parlement Européen.

      Le système entrée/sortie, en particulier, va permettre, avec un système informatique unifié, d’enregistrer les données relatives aux #entrées et aux #sorties des ressortissants de pays tiers en court séjour franchissant les frontières extérieures de l’Union européenne.

      Adopté puis signé le 30 Novembre 2017 par le Conseil Européen, il sera mis en application en 2022. Il s’ajoutera au « PNR européen » qui, depuis le 25 mai 2018, recense les informations sur les passagers aériens.

      Partant du principe que la majorité des visiteurs sont « de bonne foi », #EES bouleverse les fondements mêmes du #Code_Schengen avec le double objectif de :

      - rendre les frontières intelligentes, c’est-à-dire automatiser le contrôle des visiteurs fiables tout en renforçant la lutte contre les migrations irrégulières
      - créer un #registre_central des mouvements transfrontaliers.

      La modernisation de la gestion des frontières extérieures est en marche. En améliorant la qualité et l’efficacité des contrôles de l’espace Schengen, EES, avec une base de données commune, doit contribuer à renforcer la sécurité intérieure et la lutte contre le terrorisme ainsi que les formes graves de criminalité.

      L’#identification de façon systématique des personnes qui dépassent la durée de séjour autorisée dans l’espace Schengen en est un des enjeux majeurs.

      Nous verrons pourquoi la reconnaissance faciale en particulier, est la grande gagnante du programme EES. Et plus seulement dans les aéroports comme c’est le cas aujourd’hui.

      Dans ce dossier web, nous traiterons des 6 sujets suivants :

      - ESS : un puissant dispositif de prévention et détection
      - La remise en cause du code « frontières Schengen » de 2006
      - EES : un accès très réglementé
      - La biométrie faciale : fer de lance de l’EES
      - EES et la lutte contre la fraude à l’identité
      - Thales et l’identité : plus de 20 ans d’expertise

      Examinons maintenant ces divers points plus en détail.

      ESS : un puissant dispositif de prévention et détection

      Les activités criminelles telles que la traite d’êtres humains, les filières d’immigration clandestine ou les trafics d’objets sont aujourd’hui la conséquence de franchissements illicites de frontières, largement facilités par l’absence d’enregistrement lors des entrées/ sorties.

      Le scénario de fraude est – hélas – bien rôdé : Contrôle « standard » lors de l’accès à l’espace Schengen, puis destruction des documents d’identité dans la perspective d’activités malveillantes, sachant l’impossibilité d’être authentifié.

      Même si EES vise le visiteur « de bonne foi », le système va constituer à terme un puissant dispositif pour la prévention et la détection d’activités terroristes ou autres infractions pénales graves. En effet les informations stockées dans le nouveau registre pour 5 ans– y compris concernant les personnes refoulées aux frontières – couvrent principalement les noms, numéros de passeport, empreintes digitales et photos. Elles seront accessibles aux autorités frontalières et de délivrance des visas, ainsi qu’à Europol.

      Le système sera à la disposition d’enquêtes en particulier, vu la possibilité de consulter les mouvements transfrontières et historiques de déplacements. Tout cela dans le plus strict respect de la dignité humaine et de l’intégrité des personnes.

      Le dispositif est très clair sur ce point : aucune discrimination fondée sur le sexe, la couleur, les origines ethniques ou sociales, les caractéristiques génétiques, la langue, la religion ou les convictions, les opinions politiques ou toute autre opinion.

      Sont également exclus du champ d’investigation l’appartenance à une minorité nationale, la fortune, la naissance, un handicap, l’âge ou l’orientation sexuelle des visiteurs.​

      La remise en cause du Code frontières Schengen

      Vu la croissance attendue des visiteurs de pays tiers (887 millions en 2025), l’enjeu est maintenant de fluidifier et simplifier les contrôles.

      Une initiative particulièrement ambitieuse dans la mesure où elle remet en cause le fameux Code Schengen qui impose des vérifications approfondies, conduites manuellement par les autorités des Etats Membres aux entrées et sorties, sans possibilité d’automatisation.

      Par ailleurs, le Code Schengen ne prévoit aucun enregistrement des mouvements transfrontaliers. La procédure actuelle exigeant seulement que les passeports soient tamponnés avec mention des dates d’entrée et sortie.

      Seule possibilité pour les gardes-frontières : Calculer un éventuel dépassement de la durée de séjour qui elle-même est une information falsifiable et non consignée dans une base de données.

      Autre contrainte, les visiteurs réguliers comme les frontaliers doivent remplacer leurs passeports tous les 2-3 mois, vue la multitude de tampons ! Un procédé bien archaïque si l’on considère le potentiel des technologies de l’information.

      La proposition de 2013 comprenait donc trois piliers :

      - ​La création d’un système automatisé d’entrée/sortie (Entry/ Exit System ou EES)
      - Un programme d’enregistrement de voyageurs fiables, (RTP, Registered Traveller Program) pour simplifier le passage des visiteurs réguliers, titulaires d’un contrôle de sûreté préalable
      – La modification du Code Schengen

      Abandon de l’initiative RTP

      Trop complexe à mettre en œuvre au niveau des 28 Etats Membres, l’initiative RTP (Registered Travelers Program) a été finalement abandonnée au profit d’un ambitieux programme Entry/ Exit (EES) destiné aux visiteurs de courte durée (moins de 90 jours sur 180 jours).

      Précision importante, sont maintenant concernés les voyageurs non soumis à l’obligation de visa, sachant que les détenteurs de visas sont déjà répertoriés par le VIS.

      La note est beaucoup moins salée que prévue par la Commission en 2013. Au lieu du milliard estimé, mais qui incluait un RTP, la proposition révisée d’un EES unique ne coutera « que » 480 millions d’EUR.

      Cette initiative ambitieuse fait suite à une étude technique menée en 2014, puis une phase de prototypage conduite sous l’égide de l’agence EU-LISA en 2015 avec pour résultat le retrait du projet RTP et un focus particulier sur le programme EES.

      Une architecture centralisée gérée par EU-LISA

      L’acteur clé du dispositif EES, c’est EU-LISA, l’Agence européenne pour la gestion opérationnelle des systèmes d’information à grande échelle dont le siège est à Tallinn, le site opérationnel à Strasbourg et le site de secours à Sankt Johann im Pongau (Autriche). L’Agence sera en charge des 4 aspects suivants :

      - Développement du système central
      - Mise en œuvre d’une interface uniforme nationale (IUN) dans chaque État Membre
      - Communication sécurisée entre les systèmes centraux EES et VIS
      - Infrastructure de communication entre système central et interfaces uniformes nationales.

      Chaque État Membre sera responsable de l’organisation, la gestion, le fonctionnement et de la maintenance de son infrastructure frontalière vis-à-vis d’EES.

      Une gestion optimisée des frontières

      Grâce au nouveau dispositif, tous les ressortissants des pays tiers seront traités de manière égale, qu’ils soient ou non exemptés de visas.

      Le VIS répertorie déjà les visiteurs soumis à visas. Et l’ambition d’EES c’est de constituer une base pour les autres.

      Les États Membres seront donc en mesure d’identifier tout migrant ou visiteur en situation irrégulière ayant franchi illégalement les frontières et faciliter, le cas échéant, son expulsion.

      Dès l’authentification à une borne en libre–service, le visiteur se verra afficher les informations suivantes, sous supervision d’un garde-frontière :

      - ​Date, heure et point de passage, en remplacement des tampons manuels
      - Notification éventuelle d’un refus d’accès.
      - Durée maximale de séjour autorisé.
      - Dépassement éventuelle de la durée de séjour autorisée
      En ce qui concerne les autorités des Etats Membres, c’est une véritable révolution par rapport à l’extrême indigence du système actuel. On anticipe déjà la possibilité de constituer des statistiques puissantes et mieux gérer l’octroi, ou la suppression de visas, en fonction de mouvements transfrontières, notamment grâce à des informations telles que :

      - ​​​Dépassements des durées de séjour par pays
      - Historique des mouvements frontaliers par pays

      EES : un accès très réglementé

      L’accès à EES est très réglementé. Chaque État Membre doit notifier à EU-LISA les autorités répressives habilitées à consulter les données aux fins de prévention ou détection d’infractions terroristes et autres infractions pénales graves, ou des enquêtes en la matière.

      Europol, qui joue un rôle clé dans la prévention de la criminalité, fera partie des autorités répressives autorisées à accéder au système dans le cadre de sa mission.

      Par contre, les données EES ne pourront pas être communiquées à des pays tiers, une organisation internationale ou une quelconque partie privée établie ou non dans l’Union, ni mises à leur disposition. Bien entendu, dans le cas d’enquêtes visant l’identification d’un ressortissant de pays tiers, la prévention ou la détection d’infractions terroristes, des exceptions pourront être envisagées.​

      Proportionnalité et respect de la vie privée

      Dans un contexte législatif qui considère le respect de la vie privée comme une priorité, le volume de données à caractère personnel enregistré dans EES sera considérablement réduit, soit 26 éléments au lieu des 36 prévus en 2013.

      Il s’agit d’un dispositif négocié auprès du Contrôleur Européen pour la Protection des Données (CEPD) et les autorités nationales en charge d’appliquer la nouvelle réglementation.

      Très schématiquement, les données collectées se limiteront à des informations minimales telles que : nom, prénom, références du document de voyage et visa, biométrie du visage et de 4 empreintes digitales.

      A chaque visite, seront relevés la date, l’heure et le lieu de contrôle frontière. Ces données seront conservées pendant cinq années, et non plus 181 jours comme proposé en 2013.

      Un procédé qui permettra aux gardes-frontières et postes consulaires d’analyser l’historique des déplacements, lors de l’octroi de nouveaux visas.
      ESS : privacy by design

      La proposition de la Commission a été rédigée selon le principe de « respect de la vie privée dès la conception », mieux connue sous le label « Privacy By Design ».

      Sous l’angle du droit, elle est bien proportionnée à la protection des données à caractère personnel en ce que la collecte, le stockage et la durée de conservation des données permettent strictement au système de fonctionner et d’atteindre ses objectifs.

      EES sera un système centralisé avec coopération des Etats Membres ; d’où une architecture et des règles de fonctionnement communes.​

      Vu cette contrainte d’uniformisation des modalités régissant vérifications aux frontières et accès au système, seul le règlement en tant que véhicule juridique pouvait convenir, sans possibilité d’adaptation aux législations nationales.

      Un accès internet sécurisé à un service web hébergé par EU-LISA permettra aux visiteurs des pays tiers de vérifier à tout moment leur durée de séjour autorisée.

      Cette fonctionnalité sera également accessible aux transporteurs, comme les compagnies aériennes, pour vérifier si leurs voyageurs sont bien autorisés à pénétrer dans le territoire de l’UE.

      La biométrie faciale, fer de lance du programme EES

      Véritable remise en question du Code Schengen, EES permettra de relever la biométrie de tous les visiteurs des pays tiers, alors que ceux soumis à visa sont déjà enregistrés dans le VIS.

      Pour les identifiants biométriques, l’ancien système envisageait 10 empreintes digitales. Le nouveau combine quatre empreintes et la reconnaissance faciale.

      La technologie, qui a bénéficié de progrès considérables ces dernières années, s’inscrit en support des traditionnelles empreintes digitales.

      Bien que la Commission ne retienne pas le principe d’enregistrement de visiteurs fiables (RTP), c’est tout comme.

      En effet, quatre empreintes seront encore relevées lors du premier contrôle pour vérifier que le demandeur n’est pas déjà répertorié dans EES ou VIS.

      En l’absence d’un signal, l’autorité frontalière créera un dossier en s’assurant que la photographie du passeport ayant une zone de lecture automatique (« Machine Readable Travel Document ») correspond bien à l’image faciale prise en direct du nouveau visiteur.

      Mais pour les passages suivants, c’est le visage qui l’emporte.

      Souriez, vous êtes en Europe ! Les fastidieux (et falsifiables) tampons sur les passeports seront remplacés par un accès à EES.

      La biométrie est donc le grand gagnant du programme EES. Et plus seulement dans les aéroports comme c’est le cas aujourd’hui.

      Certains terminaux maritimes ou postes frontières terrestres particulièrement fréquentés deviendront les premiers clients de ces fameuses eGates réservées aujourd’hui aux seuls voyageurs aériens.

      Frontex, en tant qu’agence aidant les pays de l’UE et les pays associés à Schengen à gérer leurs frontières extérieures, va aider à harmoniser les contrôles aux frontières à travers l’UE.

      EES et la lutte contre la fraude à l’identité

      Le dispositif EES est complexe et ambitieux dans la mesure où il fluidifie les passages tout en relevant le niveau des contrôles. On anticipe dès aujourd’hui des procédures d’accueil en Europe bien meilleures grâce aux eGates et bornes self-service.

      Sous l’angle de nos politiques migratoires et de la prévention des malveillances, on pourra immédiatement repérer les personnes ne rempliss​​ant pas les conditions d’entrée et accéder aux historiques des déplacements.

      Mais rappelons également qu’EES constituera un puissant outil de lutte contre la fraude à l’identité, notamment au sein de l’espace Schengen, tout visiteur ayant été enregistré lors de son arrivée à la frontière.

      Thales et l’identité : plus de 20 ans d’expertise

      Thales est particulièrement attentif à cette initiative EES qui repose massivement sur la biométrie et le contrôle des documents de voyage.

      En effet, l’identification et l’authentification des personnes sont deux expertises majeures de Thales depuis plus de 20 ans. La société contribue d’ailleurs à plus de 200 programmes gouvernementaux dans 80 pays sur ces sujets.

      La société peut répondre aux objectifs du programme EES en particulier pour :

      - Exploiter les dernières technologies pour l’authentification des documents de voyage, l’identification des voyageurs à l’aide de captures et vérifications biométriques, et l’évaluation des risques avec accès aux listes de contrôle, dans tous les points de contrôle aux frontières.
      - Réduire les coûts par l’automatisation et l’optimisation des processus tout en misant sur de nouvelles technologies pour renforcer la sécurité et offrir davantage de confort aux passagers
      - Valoriser des tâches de gardes-frontières qui superviseront ces dispositifs tout en portant leur attention sur des cas pouvant porter à suspicion.
      - Diminuer les temps d’attente après enregistrement dans la base EES. Un facteur non négligeable pour des frontaliers ou visiteurs réguliers qui consacreront plus de temps à des activités productives !

      Des bornes d’enregistrement libre-service comme des frontières automatiques ou semi-automatiques peuvent être déployées dans les prochaines années avec l’objectif de fluidifier les contrôles et rendre plus accueillant l’accès à l’espace Schengen.

      Ces bornes automatiques et biométriques ont d’ailleurs été installées dans les aéroports parisiens d’Orly et de Charles de Gaulle (Nouveau PARAFE : https://www.thalesgroup.com/fr/europe/france/dis/gouvernement/controle-aux-frontieres).

      La reconnaissance faciale a été mise en place en 2018.

      Les nouveaux sas PARAFE à Roissy – Septembre 2017

      Thales dispose aussi d’une expertise reconnue dans la gestion intégrée des frontières et contribue en particulier à deux grand systèmes de gestion des flux migratoires.

      - Les systèmes d’identification biométrique de Thales sont en particulier au cœur du système américain de gestion des données IDENT (anciennement US-VISIT). Cette base de données biographiques et biométriques contient des informations sur plus de 200 millions de personnes qui sont entrées, ont tenté d’entrer et ont quitté les États-Unis d’Amérique.

      - Thales est le fournisseur depuis l’origine du système biométrique Eurodac (European Dactyloscopy System) qui est le plus important système AFIS multi-juridictionnel au monde, avec ses 32 pays affiliés. Le système Eurodac est une base de données comportant les empreintes digitales des demandeurs d’asile pour chacun des états membres ainsi que des personnes appréhendées à l’occasion d’un franchissement irrégulier d’une frontière.

      Pour déjouer les tentatives de fraude documentaire, Thales a mis au point des équipements sophistiqués permettant de vérifier leur authenticité par comparaison avec les modèles en circulation. Leur validité est aussi vérifiée par connexion à des bases de documents volés ou perdus (SLTD de Interpol). Ou a des watch lists nationales.

      Pour le contrôle des frontières, au-delà de ses SAS et de ses kiosks biométriques, Thales propose toute une gamme de lecteurs de passeports d’équipements et de logiciels d’authentification biométriques, grâce à son portefeuille Cogent, l’un des pionniers du secteur.

      Pour en savoir plus, n’hésitez pas à nous contacter.​

      https://www.thalesgroup.com/fr/europe/france/dis/gouvernement/biometrie/systeme-entree-sortie
      #smart_borders #Thales #overstayers #reconnaissance_faciale #prévention #détection #fraude_à_l'identité #Registered_Traveller_Program (#RTP) #EU-LISA #interface_uniforme_nationale (#IUN) #Contrôleur_Européen_pour_la_Protection_des_Données (#CEPD) #Privacy_By_Design #respect_de_la_vie_privée #empreintes_digitales #biométrie #Frontex #bornes #aéroport #PARAFE #IDENT #US-VISIT #Eurodac #Gemalto

  • Le premier des biologistes
    https://laviedesidees.fr/Le-premier-des-biologistes.html

    À propos de : Pierre Pellegrin, Des #animaux dans le monde, cinq questions sur la #biologie d’Aristote, CNRS. Dans une étude savante et néanmoins accessible, Pierre Pellegrin soutient qu’Aristote est le véritable fondateur de la biologie, contrairement à ce qu’une perception caricaturale de son finalisme a longtemps donné à penser.

    #Philosophie #Aristote
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202209_pellegrin.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220927_pellegrin-4.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220927_pellegrin-4.pdf

  • Grâce à la #biomasse, la #Lituanie se passe de l’#énergie russe | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/grace-a-biomasse-lituanie-se-passe-de-lenergie-russe/00103884

    En se coupant du gaz et du pétrole russe, la Lituanie va faire face à de nouveaux défis à l’approche de l’hiver. Même s’il elle s’était préparée en partie, par la construction de nouveaux pipelines et d’un terminal à GNL, on peut s’interroger sur la gestion de la ressource forestière en cas de demande accrue.

    Dans l’article susmentionné, les chercheurs de l’institut LAMMC agitent « l’existence de problèmes fondamentaux ou de risques potentiels à l’utilisation intensive de la biomasse forestière pour la production d’énergie ». Ils insistent sur la nécessité de respecter les sols et la biodiversité et appellent à poursuivre les efforts en faveur d’une gestion de la forêt durable.

    Pour eux, le plus gros point noir du marché de la biomasse est le recours aux copeaux de bois de Biélorussie, qui représente environ un tiers du marché régional d’échange de biomasse Baltpool. Le pays a récemment augmenté ses exportations en menant des coupes de bois d’ampleur, que l’Agence Internationale de l’énergie qualifie de « grandes #déforestations ».

  • Des mots de résistance, d’espérance, d’inquiétude, et la soif d’apprendre

    De la courte préface de Souleymane Bachir Diagne, je souligne quelques éléments. « La vie de Sonia Dayan-Herzbrun vaut témoignage ». Le préfacier parle, entre autres, d’humilité, de culture juive germanophone de la Mitteleuropa, des Palestiniens, d’un passé détruit, d’engagement et de commencement, « qu’elle était née à elle-même, qu’elle s’était donné son propre commencement », de révolution fondatrice, « La vie pensée n’est pas une narration linéaire d’évènements mais d’abord un foyer d’où irradie son sens en arrière et en avant », de féminisme et d’universel, « le féminisme n’est universel que si cet universel est compris depuis le pluriel de ses expressions à qui il donne un horizon commun », de philosophie de la relation et de la créolisation, des visages multiples « de notre commune condition humaine »…

    note sur : Sonia Dayan-Herzbrun : Rien qu’une vie

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2022/07/18/des-mots-de-resistance-et-desperance-dinquietu

    #biographie

  • Au #Mali, des terres rendues incultivables par le “fléau chinois”

    Des populations rurales maliennes dénoncent l’#exploitation de #sites_aurifères par des sociétés chinoises qui dégradent leurs terres agricoles. Face au silence des autorités, ces populations s’organisent, rapporte le site “Sahélien”. Ce cas malien illustre un phénomène plus large en Afrique, celui de l’accaparement de #terres_arables par des entreprises internationales.

    Dans le champ de Bourama Konaté, c’est l’inquiétude qui se lit sur son visage. À peine après avoir mis en terre quelques semences de #coton, ce jeune cultivateur voit déjà une saison incertaine. “Nous avons commencé à semer le coton ici, mais cette année, nous ne sommes pas assez rassurés. Chaque année, nous travaillons dans la joie et la quiétude mais, cette fois-ci, c’est tout le contraire. Les Chinois sont venus et nos terres agricoles leur sont octroyées pour qu’ils les exploitent, et cela nous rend triste”, déplore-t-il.

    Dans cette commune située à plus de 80 kilomètres de Bamako, l’agriculture est la principale activité économique des habitants. Comme Bourama, Dramane Keita est au bout du désespoir.

    Même avec les premières pluies, il n’a rien semé dans le bas-fond en passe de devenir un site minier. “Nous les avons suppliés de ne pas creuser ces terres, car s’ils le font, […] nous ne pourrons même plus cultiver du #maïs sur ces parcelles parce que l’#eau va stagner et l’on ne pourra non plus cultiver du #riz ici. Déjà cette année, nous n’avons pas pu cultiver du riz. Jusqu’à présent, je n’ai rien fait dans mon champ, alors qu’on est bien dans l’hivernage. Regardez par ici, ce n’est pas encore labouré”, explique-t-il.

    Et de poursuivre : “C’est notre année qui est fichue comme ça. Que le gouvernement nous vienne en aide. Ça me fait tellement mal, je n’ai nulle part où me plaindre. Ils ont emprisonné mon grand frère et tout est gâché chez moi. […] On est trop fatigués.”

    Terres rendues incultivables

    Remontés contre les autorités communales, des jeunes venus des quatre villages touchés par ce qu’ils appellent le “#fléau_chinois” manifestent pour demander l’arrêt des activités minières sur leurs terres. “Nous, la jeunesse, sommes mobilisés et ne comptons plus nous arrêter. On veut qu’ils partent de notre commune, on n’aime pas leur travail. On ne veut pas de polémique ni rien. On ne souhaite pas faire de violences, mais s’ils poussent le bouchon un peu loin, on va rebondir”, affirme Bakary Keïta, un manifestant.

    Fatoumata Traoré, la représentante des femmes, abonde dans le même sens : “Que ce soit nos bas-fonds ou autres parcelles dédiées aux travaux des femmes, tout a été détruit. On n’a plus où cultiver. Ce qu’ils nous ont causé est invivable. Et nos âmes y resteront s’il le faut. Car le seul endroit qui nous reste est aussi dans leur viseur. Nos champs d’orangers, de manguiers ont tous été confisqués. Si tu veux tuer une famille, il faut lui retirer sa terre agricole.”

    Tout a commencé le 24 juillet 2021 lorsque la société [chinoise] #Yi_Yuan_Mines a signé un projet de convention avec le chef du village de #Naréna demandant l’autorisation d’exploiter certains sites en contrepartie de projets de développement dans la commune. “Je pense que c’est des oppositions gratuites. Les permis ont leur valeur. Ce sont des #permis qui sont en bonne et due forme. Il y a un modus vivendi entre les propriétaires terriens et les Chinois quand ils faisaient de la recherche. Ils étaient d’accord pour ça. […] J’ai les écrits des quatre propriétaires terriens et ceux du chef des conseils de Naréna, où tout le monde dit qu’il est d’accord. Alors, qu’est-ce que vous voulez que je fasse ?” répond Nambala Daouda Keita, maire de Naréna.

    À la tête de l’association #Sikida_Lakana, Broulaye Coulibaly indique avoir alerté les autorités locales face aux dangers de l’#exploitation_aurifère. “J’ai appris qu’ils ont commencé à creuser sur un site (#Djolibani) et je m’y suis rendu. Par la suite, j’ai informé le chef du village en lui disant d’y faire un tour pour constater les dégâts. Car, s’ils continuent cette activité, ils nous chasseront d’ici. Sans avoir une suite, j’ai entamé la même démarche chez le sous-préfet, à qui j’ai recommandé l’arrêt des activités pour qu’on discute entre nous d’abord. Ce dernier m’a fait savoir qu’il ne peut pas ordonner l’arrêt des travaux et que je pouvais également leur demander de l’argent s’il arrivait qu’ils aient besoin de mon champ.”

    Accords au sommet, désaccords à la base

    Pour la société Yi Yuan Mines, ce bras de fer ne devrait pas avoir lieu. “La réalité, c’est l’État malien qui a donné le permis à travers le #ministère_des_Mines. Il est dit que l’État est propriétaire de la terre. Alors que les villageois pensent tout à fait le contraire, ils estiment être les propriétaires de la terre. Il n’y a pas de paradoxe parce que ce n’est pas le #permis_de_recherche qu’on a mais un #permis_d’exploitation. Et ç’a été diffusé partout. Mais malgré tout, ils s’opposent”, affirme Boubacar Abdoulaye Diarra, représentant de l’entreprise chinoise.

    Pour ce qui concerne les dégâts causés sur la #biodiversité, Boubacar Abdoulaye Diarra répond : “Le plus souvent, les #orpailleurs traditionnels utilisent des ‘cracheurs’ sur le terrain. Ça, c’est pour broyer la matière. En le faisant, ils sont obligés d’apporter sur le terrain les produits qu’il faut, pour essayer de concentrer un peu l’or, et c’est là où il y a dégâts. Lorsqu’ils utilisent ces produits avec de l’eau, il y a toujours ruissellement, et puisque c’est un produit toxique, ça joue sur la nature. […] Mais les produits que nous utilisons ne vont pas dans la nature.”

    En août 2021, le procès-verbal de constat réalisé par un huissier ainsi qu’un autre rapport de la Direction nationale de l’assainissement et du contrôle des pollutions et des nuisances (DNACPN) indiquent que ces activités, sans études environnementales au préalable, nuisent à l’écosystème.

    Il a donc été recommandé à la sous-préfecture la suspension des travaux pour permettre à ces sociétés de se conformer aux normes requises à travers l’obtention d’un permis environnemental et social, d’un permis d’exploitation de l’or et le paiement des infractions commises.

    C’est le 7 avril 2022, soit un an après la signature du projet de convention d’exploitation, que la société Yi Yuan a obtenu le permis d’exploitation délivré par le ministère des Mines, de l’’Énergie et de l’Eau pour exploiter une superficie de 100 kilomètres. Un permis qui ravive les tensions et les craintes liées à l’#impact_environnemental.

    Sursaut de la société civile

    Face à la dégradation des terres et pour venir en aide aux habitants, une organisation non gouvernementale procède au remblai des fosses d’anciens sites miniers, au reboisement et au curage des rivières.

    Mais aujourd’hui la nouvelle situation n’arrange pas les choses. “Cela impacte également notre projet de #barrage prévu à Lankalen. Ce projet a été annulé à cause des travaux des Chinois. Car les lieux sont proches l’un de l’autre. Ce qui impacte les activités, précisément les cours d’eau. Lorsqu’on analyse, il était impossible de pêcher cette année dans ces rivières, ni d’entretenir les plantes à cause des eaux de ruissellement issues des sites”, souligne Moustapha Berthé, agent de l’ONG Azhar.

    Sur place, la tension était vive le mardi 14 juin 2022. Ce jour-là, une rencontre entre les autorités régionales, communales et coutumières a eu lieu à la mairie de Naréna pour un retour au calme. “Les autorités locales de Kangaba ne cessent de signaler une agitation sociale au niveau de Naréna, précisément dans le village de #Bayan, où une société chinoise du nom de #Yi_Yuan, en partenariat avec des Maliens, s’installe après l’obtention bien sûr d’un permis d’exploitation. Alors par suite de déficit communicationnel, les populations locales ont tenu à montrer leur mécontentement”, a déclaré le colonel Lamine Kapory Sanogo, gouverneur de la région de Koulikoro, à la fin de la rencontre.

    https://www.courrierinternational.com/article/enquete-au-mali-des-terres-rendues-incultivables-par-le-fleau

    #Chine #Chinafrique #accaparement_des_terres #terres #or #extractivisme #terres_agricoles #résistance #mine #mines #orpaillage

  • Anne Sylvestre (1934-2020), celle qui nous chante
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/toute-une-vie/anne-sylvestre-1934-2020-celle-qui-nous-chante-4649110

    Excellent émission racontée par des gens de sa vie, famille, amis.

    Quand on écoute les chansons d’Anne Sylvestre, on peut avoir l’impression de faire une rencontre avec soi-même, tant la chanteuse semblait capable de se laisser traverser par tous les sentiments de la vie.

    Libre, farouche, douce, forte, drôle, pudique, engagée… Anne Sylvestre tissait longuement, en mots simples et musiques foisonnantes, des tranches de vie ordinaire, des luttes contre toutes les injustices, des morceaux d’enfance, des satires, des poésies intemporelles... Près de 600 chansons dans lesquelles, de manière à la fois visionnaire et intime, elle nous a sculpté, secoué, révélé.

    Une œuvre monumentale qui demeure pourtant peu connue du grand public, les Fabulettes masquant généralement le répertoire pour adulte.

    Or, c’est la plénitude de cette oeuvre musicale que le documentaire souhaite donner à entendre.

    « Tout dire est une liberté que j’ai toujours prise », affirmait Anne Sylvestre. À ses débuts dans les années cinquante, une femme qui écrit, compose et chante est rare. Souvent prise par la peur, elle a pourtant toujours cherché à avancer, au mépris des conventions, ce qui lui a parfois valu d’être mise à l’écart. Elle en a souffert. Aujourd’hui, elle inspire bon nombre de jeunes chanteurs.

    La vie d’Anne Sylvestre est traversée de grands drames comme d’infinies petites joies. Ceux qui la connaissaient disent combien elle était vivante. Ceux qui ne la connaissaient pas disent combien ses chansons les rendent vivants. Le monde d’Anne Sylvestre ressemble à une polyphonie humaine : on y voit des visages, de tous les âges, de toutes les couleurs, habités par tous les sentiments… la vie !

    https://rf.proxycast.org/4ca867cb-d689-411a-894f-47b6115c9617/10471-18.06.2022-ITEMA_23063091-2022C3330S0169-21.mp3

    #musique #Anne_Sylvestre #biographie #radio #audio #France_Culture

  • ZeratoR sur Twitter :
    https://twitter.com/ZeratoR/status/1545759317894348802

    Changement pour le ZEVENT. Le combat est trop important, merci pour votre soutien et vos réactions. #ZEVENT2022

    Fondation GoodPlanet sur Twitter :
    https://twitter.com/GoodPlanet_/status/1545758421080854533

    Albane Godard, Directrice Générale de la Fondation GoodPlanet s’exprime à propos du #ZEVENT2022

    Z Event 2022 : GoodPlanet quitte le marathon caritatif - Numerama
    https://www.numerama.com/pop-culture/1034518-le-z-event-2022-annule-son-partenariat-avec-la-fondation-goodplane

    Changement de programme pour le Z Event 2022. Face à la polémique dans le choix de l’association qui bénéficiera de l’argent récolté lors du marathon caritatif de jeu vidéo, Zerator revoit ses plans. La fondation GoodPlanet est écartée. Les internautes devront choisir cinq autres associations parmi une liste.

    ZEvent 2022 : la fondation GoodPlanet, accusée de « greenwashing », se retire du marathon caritatif
    https://www.bfmtv.com/tech/zevent-2022-la-fondation-good-planet-accusee-de-greenwashing-se-retire-du-mar

    Le marathon caritatif de jeux vidéo était au coeur d’une polémique depuis plusieurs jours après avoir choisi la fondation GoodPlanet pour l’édition 2022.
    Après avoir fait l’objet de nombreuses critiques sur les réseaux sociaux ces derniers jours, la fondation GoodPlanet qui œuvre en faveur de l’écologie a annoncé ce samedi son retrait du ZEvent, marathon caritatif de jeux vidéo programmé du 9 au 11 septembre au Zénith de Montpellier.

    L’association GoodPlanet n’a manifestement pas résisté à l’analyse des Internautes. Accusée de pratiquer le greenwashing au profit d’un pollueur, de polluer via des NFT, de promouvoir la biodynamie, ou encore d’employer un responsable informatique climatosceptique.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #business #zevent #zorator #goodplanet #albane_godard #yann-athus_bertrand #bnp_paribas #garnier #edf #totalenergies #don #association #événement_caritatif #charité #annulation #retrait #nft #biodynamie #greenwashing #climatoscepticisme #climat #arkunir #maghla #coupe_du_monde #football #qatar #twitch #youtube

  • I finanziamenti europei al Marocco per bloccare le persone, a tutti i costi

    In questi anni l’Unione europea ha garantito alle polizie marocchine mezzi, “formazione” e strumenti di identificazione. Forniture milionarie, poco trasparenti, di cui hanno beneficiato quelle stesse guardie di frontiera che il 24 giugno hanno causato la morte di oltre 20 persone. Anche qui Frontex ha un ruolo decisivo

    “Un partner di riferimento per l’Unione europea, un modello che altri potranno seguire per la sua capacità di collaborare con le nostra agenzie”. Così la Commissione europea descriveva nell’ottobre 2021 l’attività delle autorità marocchine nel campo della “gestione” del fenomeno migratorio. Un’immagine che stride con quella dei corpi stesi a terra, immersi in pozze di sangue, di chi la mattina presto del 24 giugno è stato brutalmente respinto mentre tentava di far ingresso nell’enclave spagnola di Melilla. Almeno 23 i morti, molti di più secondo le Ong indipendenti, in prevalenza persone originarie di Sudan e Sud-Sudan, centinaia i feriti e decine gli arresti tra le circa 2mila persone che hanno tentato di scalare la triplice barriera metallica che separa il territorio marocchino dalla città spagnola. Ma la violenza perpetrata ai danni dei rifugiati sia dalle forze di polizia marocchina sia dalla Guardia civile spagnola va contestualizzata in un quadro più ampio. I soldi dell’Ue hanno finanziato quella violenza.

    Del bilancio pluriennale 2014-2020 circa 370 milioni di euro sono stati assegnati al governo di Rabat per la gestione del fenomeno migratorio, di cui 238 derivanti direttamente dal Fondo fiduciario dell’Ue per l’Africa (Eutf): l’80% è stato destinato a programmi di sostegno, supporto e gestione dei confini con solo le “briciole” per la protezione delle persone in transito (circa l’11%) e per l’integrazione socio-economica di chi “sceglie” di restare in Marocco (7,5%). Cifre stanziate con il consueto ritornello della “lotta contro l’immigrazione illegale” che, come su tanti altri confini esterni dell’Ue giustifica il blocco del flusso delle persone in transito e l’impossibilità di vedersi riconosciuto il diritto d’asilo. Una strategia che, nel caso del Marocco, getta le prime basi nel 2001 quando la rotta del Mediterraneo centrale comincia a vedere i primi flussi. L’Italia è precursore con un finanziamento di 10 miliardi di lire, tra 1999 e il 2000, per finanziare secondo quanto ricostruito dal progetto Sciabaca&Oruka di Asgi l’acquisto di mezzi, strumenti ed equipaggiamento che favoriscono le forze di polizia marocchina nell’attività di contrasto all’immigrazione “clandestina”.

    Come ricostruito da Statewatch, gruppo di ricerca indipendente, a livello europeo invece dal 2001 al 2010 vengono stanziati circa 74,6 milioni di euro per sei progetti riguardanti la sicurezza delle frontiere. Tra questi sei progetti almeno due meritano attenzione. Il “Seahorse network” (costo totale di circa 2,5 milioni di euro, con un contributo Ue pari a più di 1,9 milioni) che ha fornito fondi per la creazione di una “rete regionale sicura per lo scambio di informazioni sull’immigrazione irregolare”. Statewatch, grazie ai documenti forniti dalla Direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo internazionale della Commissione (Dg Devco) ha ricostruito che la rete ha sede a Gran Canaria ed è collegata a quella della Guardia civil spagnola e l’Agenzia Frontex. E poi un progetto da più di 67 milioni di euro fornito tra il 2007 e il 2010 direttamente al ministero dell’Interno marocchino: non si conoscono i contenuti del progetto, in quanto l’accesso ai documenti è stato negato per “tutela dell’interesse pubblico che è prevalente alla necessità di divulgazione” e soprattutto non esistono documenti di valutazione. “Il fatto che l’Ue non abbia intrapreso una valutazione è sorprendente dati i rigorosi standard di audit e valutazione che dovrebbero essere applicata ai finanziamenti”.

    All’aumento dei flussi corrisponde una crescita dei finanziamenti. Non a caso tra il 2013-2018, sempre da quanto ricostruito da Statewatch, i finanziamenti si sono concentrati sull’integrazione delle persone già presenti sul territorio complice un cambio di rotta delle autorità marocchine che hanno promosso due campagne di regolarizzazione per le persone prive di documenti (nel 2013 e nel 2016) e un tentativo di garantire sostegno a rifugiati e richiedenti asilo. I circa 61,5 milioni di euro stanziati dall’Ue hanno di fatto “compensato il mancato coinvolgimento delle autorità marocchine nella formulazione e nell’attuazione di una vera politica di integrazione”. Ma l’intervento umanitario europeo è solo una breve parentesi. Tra il 2017 e il 2018 gli attraversamenti “irregolari” nel Mediterraneo occidentale aumentano del 40% e le autorità marocchine dichiarano di aver fermato circa 76mila persone. Cifre da prendere con le pinze ma che giustificano, secondo i legislatori europei, la ripresa dei fondi destinati a Rabat. Questo nonostante, a livello assoluto, gli attraversamenti irregolari diminuirono del 25% rispetto al 2017 e raggiunsero il numero più basso dei cinque anni precedenti (150mila in totale). Ma poco conta, come visto anche su altre frontiere, non è una questione di numeri.

    Il 20 agosto 2018 attraverso il “Programma di gestione delle frontiere per la regione del Maghreb (BMP – Maghreb) vengono destinati 30 milioni di euro per “proteggere, monitorare e gestire le frontiere” del Marocco in un più ampio progetto multinazionale, dal budget totale di 55 milioni di euro, in cui figura tra i partner esecutivi anche il ministero dell’Interno italiano per alcune azioni in Tunisia. Si va dal potenziamento delle infrastrutture informatiche per “raccolta, archiviazione e identificazione della biometria digitale” e l’acquisizione di mezzi aerei e navali per il controllo pre-frontaliero. Il 13 dicembre 2018 vengono poi destinati 44 milioni di euro per il progetto “Soutien à la gestion intégrée des frontières et de la migration au Maroc” che mira a “rafforzare le capacità delle istituzioni marocchine a protezione, sorveglianza e controllo delle frontiere”: per un periodo di 36 mesi e gestito dalle autorità spagnole per “migliorare le capacità delle autorità marocchine di intercettare i valichi di frontiera irregolari e svolgere attività di ricerca e soccorso in mare”. A questo si aggiunge un programma per il contrasto al “contrabbando e al traffico di esseri umani” con un finanziamento pari a 70 milioni di euro. Nel dicembre 2019 nonostante gli attraversamenti registrati da Frontex sono la metà rispetto all’anno precedente (appena 23.969), l’Ue finanzia più di 101 milioni di euro nuovamente per “rafforzare le capacità delle istituzioni marocchine, in particolare per il ministero dell’Interno a contrastare il traffico di migranti e la tratta degli esseri umani incluso un sostegno per la gestione delle frontiere del Paese”.

    Nonostante queste ingenti cifre la trasparenza è negata. Per nessuno dei progetti di gestione delle frontiere le istituzioni europee hanno fornito accesso ai documenti tirando in ballo nuovamente la “tutela dell’interesse pubblico in materia di relazioni internazionali”. Nel novembre 2019 i ricercatori di Statewatch commentavano “profeticamente” questo sostegno: “È probabile che le conseguenze di questo approccio siano terribili dato che la cooperazione del Marocco in materia di sicurezza e sorveglianza delle frontiere comporta un costo molto elevato in termini di violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza marocchine contro migranti, rifugiati e persone richiedenti asilo”.

    Eccoli i frutti della politica di esternalizzazione europea in Marocco. “Video e fotografie mostrano corpi sparsi per terra in pozze di sangue, forze di sicurezza marocchine che prendono a calci e picchiano le persone; la Guardia civil spagnola che lancia gas lacrimogeni contro uomini aggrapparti alle recinzioni” spiega Judith Sunderland, vicedirettrice per l’Europa e l’Asia di Human rights watch che spingono l’Ong a chiedere una ferma condanna da parte dei funzionari di Spagna, Marocco e Unione europea e “garantire indagini efficaci e imparziali per portare giustizia a coloro che hanno perso la vita”. Il numero delle persone morte non è ancora chiaro. Secondo Caminando Fronteras, organizzazione spagnola, sarebbero 37 e decine di feriti. Ma le autorità marocchine stanno già facendo pulizia dei crimini commessi: l’Association Marocaine des Droits Humains (Amdh), che si occupa di tutelare i diritti umani nel Paese, ha pubblicato su Twitter due fotografie di quelle che si stima fossero tra le 16 e le 21 tombe scavate nel cimitero di Sidi Salem, alla periferia di Nador, la città marocchina oltre confine da Melilla. Hrw ne ha potuto confermare la veridicità identificando almeno 10 tombe individuali scavate.

    Di fronte all’orrore e alla tragedia, la strada è già tracciata. Il documento di “messa a terra” delle attività in Marocco previste dal Patto per le migrazioni e l’asilo, presentato nel settembre 2020 di fronte alla Commissione europea, prevede il sostegno finanziario per il periodo 2021-2027 per implementare, nuovamente, il controllo dei confini e soprattutto “sostenere i rimpatri volontari dei cittadini stranieri dal Marocco ai loro Paesi d’origine” oltre che l’efficientamento delle procedure per il rimpatrio dei cittadini marocchini che non hanno titolo per stare sul territorio europeo. Infine nel documento si chiarisce l’importanza del “dialogo strategico” che le autorità marocchine hanno mantenuto con Frontex che apre la possibilità della firma di un accordo operativo con l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Non cambia la strategia, nonostante tra gennaio e maggio 2022 siano stati appena 3.965 attraversamenti irregolari registrati nel Mediterraneo occidentale. L’invasione non c’è: i morti distesi nelle pozze di sangue a Melilla svelano nuovamente il volto di un’Europa che respinge e delega il lavoro sporco alle polizie di Paesi autocratici.

    https://altreconomia.it/i-finanziamenti-europei-al-marocco-per-bloccare-le-persone-a-tutti-i-co

    #Maroc #asile #migrations #réfugiés #externalisation #frontières #contrôles_frontaliers #complexe_militaro-industriel #Frontex #Fonds_fiduciaire #Italie #Seahorse_network #Seahorse #programme_de_gestion_des_frontières_de_la_région_du_Maghreb #Border_Management_Programme_for_the_Maghreb_region (#BMP-Maghreb) #Tunisie #biométrie #technologie #identification #Soutien_à_la_gestion_intégrée_des_frontières_et_de_la_migration_au_Maroc

  • Nous pouvons (et devons) stopper la crise sur les marchés internationaux – Fondation FARM
    https://fondation-farm.org/crise-alimentaire-securite-mondiale

    Bien sûr, la guerre en Ukraine n’a rien arrangé. Cette région du monde (Ukraine + Russie) produit une part significative du blé et du maïs exporté sur les marchés internationaux (environ 20%) et il en est de même pour les huiles végétales (notamment celle de tournesol) et pour les engrais azotés. Pour l’instant, ce n’est pas tant la production qui est compromise que les exportations (qui se faisaient traditionnellement par les ports de la mer Noire).
    Mais l’essentiel de la hausse des prix s’est produit avant la guerre en Ukraine. Et il ne s’agit pas là d’un détail. Car si les prix alimentaires, notamment ceux du maïs, du blé et des huiles végétales, ont fortement augmenté depuis la mi-2020, c’est parce qu’ils ont été entraînés à la hausse par le prix des énergies fossiles (pétrole et gaz naturel). Ce qui est en cause, c’est donc notre modèle de production agricole basé sur l’utilisation intense de ces énergies : intrants chimiques (notamment les engrais azotés fabriqués avec du gaz naturel), mécanisation, transport à grande distance. Ce qui est en cause, c’est surtout notre utilisation massive de produits alimentaires pour fabriquer du carburant, surtout aux Etats-Unis (maïs) et dans l’Union européenne (colza). Une utilisation qui lie très fortement le prix des céréales (maïs et blé) et des huiles végétales aux prix des énergies fossiles.
    Alors bien sûr la guerre en Ukraine a prolongé et amplifié la crise mais lui en attribuer l’entière responsabilité est factuellement inexact. Nous (Européens et Américains du nord) avons aussi notre (grande) part de responsabilité et il nous revient de l’assumer.

    #marchés_céréales #crise_ukraine #biocarburant

  • Plus beaux, plus blancs, plus polluants… Caroline Montpetit
    https://www.ledevoir.com/lire/722133/coup-d-essai-plus-beaux-plus-blancs-plus-polluants

    Ils ont atterri dans nos poubelles, portés par la publicité et ses mirages de propreté et d’individualité. Pourtant, paradoxalement, plus ils sont beaux et blancs, plus ils sont polluants. Ce sont ces objets jetables, gobelets, mouchoirs, téléphones, bâtons de déodorant, dont la philosophe française Jeanne Guien retrace l’histoire dans son dernier livre Le consumérisme à travers ses objets.


    Photo : Tobias Steinmaurer / APA via Agence France-Presse Le gobelet jetable est apparu aux États-Unis au milieu du XXe siècle, dans un contexte où les tasses communes étaient soupçonnées de transmettre des germes.

    À travers cette histoire, ce sont les fondements de notre consumérisme qu’elle traque, tels qu’ils sont conçus par une industrie sans cesse en quête de profits. Pour les atteindre, c’est l’individu qu’elle vise au cœur de son intimité. Et cette pseudo-propreté individuelle, du jetable et du parfumé, se fait trop souvent, on le voit avec la crise environnementale, au prix de la santé et du bien-être collectif.

    « Le consumérisme est quelque chose de très individuel, confirme-t-elle en entrevue. C’est d’abord l’individu qui agit. » La publicité s’adresse à « vous, à votre corps, à votre famille », et non à la société dans son ensemble. « Dans un monde comme cela, la pensée politique devient individualité. »

    Pour Jeanne Guien, le consumérisme n’est cependant pas « tant le vice moral de sociétés gâtées qu’une affaire de production et de conception ». Et c’est en décryptant comment le marché et la publicité ont créé ces besoins qu’elle laisse voir la possibilité de s’en libérer.

    Pour chaque objet analysé, l’autrice retrace les contextes et surtout les peurs qui ont porté son apparition, puis sa consommation.

    Le gobelet jetable, par exemple, est apparu aux États-Unis au milieu du XXe siècle, dans un contexte où les tasses communes, qui étaient accrochées par exemple aux fontaines d’eau, étaient soupçonnées de transmettre des germes.

    En 1910, l’Individual Drinking Cup Company (IDCC) lance d’abord le « gobelet public », puis le « gobelet individuel », puis le « gobelet sanitaire », prisé durant l’épidémie de grippe espagnole. « Toujours plus de propreté impliquait toujours plus de matière : des gobelets jetables, des pailles jetables, des emballages jetables », écrit-elle.

    Des besoins inventés
    Ce que Jeanne Guien démontre, c’est qu’il n’y avait pas de demande préexistante à l’apparition de ces objets. En France, au XVIIe siècle, « le peuple se mouchait avec ses doigts ou sa manche, les nobles avec un foulard ». Le mouchoir jetable, ancêtre du Kleenex, a pour sa part été conçu au Japon. Les nobles s’y mouchaient en effet dans du papier de soie dès le IXe siècle, nous dit-elle.

    En 1930, une publicité américaine de Kleenex affirme que « Kleenex remplace les mouchoirs en tissu chez les gens progressistes ». Après avoir ciblé les femmes riches qui se servaient des mouchoirs jetables pour se démaquiller, Kleenex lance son Mansize, pour conquérir le marché masculin. Et puis, pourquoi reculer devant la manne d’un public plus large ? Les mouchoirs jetables sont désormais présentés comme des produits « “pratiques et essentiels”, comme des objets quotidiens dans toutes les maisons ».

    Plus encore que la nécessité, c’est la peur qui est souvent mise en avant pour justifier la vente d’un nouveau produit. En entrevue, Jeanne Guien cite en exemple le cas des déodorants. En 1912, à une époque où les gens considéraient que le fait de se laver avec de l’eau était amplement suffisant comme mesure d’hygiène, une agence de publicité a l’idée de convaincre les femmes qu’elles pourraient faire souffrir leur entourage de l’odeur de leur transpiration sans s’en rendre compte.

    « Ce type de publicité, surnommé “campagne de la honte” ou “de la peur” devint un modèle par la suite : à travers le monde, on le retrouve dans les publicités pour le savon, le dentifrice, les déodorants vaginaux et même le papier à lettres… », écrit-elle.

    Indispensables téléphones
    Sans être immédiatement jetables, mais au moins aussi polluants, les téléphones intelligents ont fait l’objet d’une « diffusion rapide et massive, à un point unique dans l’histoire des techniques ». Grâce à l’effet de réseau systémique, « l’objet devient en soi un moyen d’intégration, ou d’exclusion ».

    « Dans certains pays, comme en Chine, il est nécessaire d’avoir un téléphone intelligent pour prendre les transports en commun », relève-t-elle.

    Experte de l’obsolescence programmée, Jeanne Guien met le lecteur en garde contre les multiples voies d’évitement en matière de réduction de la surconsommation.

    Prévient-on vraiment la surconsommation, par exemple, en mettant en marché un steak végétarien ? Soigne-t-on vraiment l’environnement en remplaçant, comme l’a fait McDonald’s dans les années 1990, le polystyrène par du carton ? Pourquoi ne pas carrément réduire l’usage du plastique plutôt que de compter sur son recyclage ? Les lois sur l’obsolescence programmée, comme celle qui est en vigueur en France, devraient-elles être plus largement appliquées ?

    Le greenwashing , largement pratiqué par les entreprises pour obtenir une acceptabilité environnementale douteuse, mériterait également d’être condamné, dit-elle. « Kleenex et Pornhub ne pourront jamais remplacer une forêt boréale en plantant des monocultures arboricoles. Ce discours est d’autant plus absurde que ces monocultures servent en général à la production », écrit-elle à titre d’exemple. Autre exemple ; un déodorant dit « bio efficace », qui a échoué au test d’innocuité « pour les femmes enceintes, les adultes, enfants et les adolescents, autrement dit pour tout le monde », écrit-elle.

    « Il faudrait pouvoir légiférer sur les contenus publicitaires », dit-elle en entrevue. « S’il n’y a pas de loi, les entreprises ne feront pas les choses par elles-mêmes. » Dans ce rapport publicitaire qui lie directement les entreprises et le grand public, les forces en cause sont pour l’instant déséquilibrées, et les intermédiaires ne sont pas au rendez-vous.

    #jetables #consumérisme #publicité #kleenex #peurs #déodorants #smartphones #obsolescence_programmée #surconsommation #plastiques #greenwashing #bio_efficace

    • Le consumérisme à travers ses objets Jeanne Guien
      https://www.editionsdivergences.com/livre/le-consumerisme-a-travers-ses-objets

      Qu’est ce que le consumérisme ? Comment s’habitue-t-on à surconsommer, au point d’en oublier comment faire sans, comment on faisait avant, comment on fera après ? Pour répondre à ces questions, Jeanne Guien se tourne vers des objets du quotidien : gobelets, vitrines, mouchoirs, déodorants, smartphones. Cinq objets auxquels nos gestes et nos sens ont été éduqués, cinq objets banals mais opaques, utilitaires mais surchargés de valeurs, sublimés mais bientôt jetés. En retraçant leur histoire, ce livre entend montrer comment naît le goût pour tout ce qui est neuf, rapide, personnalisé et payant. Car les industries qui fabriquent notre monde ne se contentent pas de créer des objets, elles créent aussi des comportements. Ainsi le consumérisme n’est-il pas tant le vice moral de sociétés « gâtées » qu’une affaire de production et de conception. Comprendre comment nos gestes sont déterminés par des produits apparemment anodins, c’est questionner la possibilité de les libérer.


      JEANNE GUIEN , ancienne élève de l’École normale supérieure, est docteure en philosophie et agrégée. En 2019, elle a soutenu une thèse à l’université Paris 1 Panthéon-Sorbonne consacrée à la notion d’obsolescence, étudiant l’histoire des débats autour de la durée de vie des moyens de production et des biens de consommation. Membre du CETCOPRA et du LISRA, co-organisatrice du séminaire Deuxième vie des objets (Mines, EHESS), elle conduit également des expériences de recherche-action concernant les biffins (récupérateurs de rue en Ile-de-France), le freeganisme (récupération alimentaire), la collecte municipale des déchets et l’antipub. Elle anime également une émission radio et un blog sur médiapart afin de médiatiser certains enjeux sociaux et politiques liés au déchet : condition de travail des éboueurs et des biffins, politiques d’ « économie circulaire », injustices environnementales en France, répartition inégale de l’étiquette « écologiste » dans les luttes et les mouvements sociaux.

    • C’est un syndicat de salariés, Game Workers Alliance.

      L’adhésion au syndicat fait suite aux multiples cas de sexisme et de harcèlement sexuel au sein d’Activision Blizzard dénoncés depuis le début de l’année, avec des poursuites judiciaires, en cours de règlement à l’amiable, qui, si ma mémoire est bonne, n’a pas encore été définitivement validé par la justice.

      Il est à noter que l’adhésion au syndicat de travailleurs a été votée par l’équipe d’assurance qualité (les « testeurs ») au sein du studio Raven Software, filiale d’Activision Blizzard. Parmi les démarches visant à empêcher l’apparition d’un syndicat de travailleurs au sein de l’éditeur, la réaction du studio a été de supprimer le département d’assurance qualité en tant que tel, pour affecter les salariés directement aux jeux testés. Cette tentative anti-syndicale semble avoir échoué.

      Jusqu’ici, Microsoft restait distant vis-à-vis de la création du syndicat au sein d’Activision Blizzard. En effet, Microsoft n’a pas encore finalisé l’acquisition d’Activision Blizzard. En attendant, Microsoft ne souhaitait pas s’immiscer dans les affaires internes de sa future filiale, rattachée à la division Xbox. Il semblerait qu’il y a eu un changement de cap.

      On se plaint, en France, de l’absence de représentativité des salariés par les syndicats. Au moins, la représentativité syndicale est obligatoire pour les entreprises au-delà d’une certaine taille, ce qui permet de coordonner les efforts intra et inter-entreprises dans l’intérêt, en général, des salariés.

      Enfin, quel que soit le pays, les salariés du domaine des jeux vidéo sont très peu syndiqués, la tendance étant à l’individualisation des situations qui profite habituellement à l’employeur, à en croire, notamment, les rarissimes mouvements sociaux de l’industrie en France.