• Tra i respinti dalla Croazia. La violenza è ancora la prassi lungo le rotte balcaniche

    Ritorno sulla frontiera tra Bosnia ed Erzegovina e Unione europea, a quasi tre anni dall’incendio che distrusse il campo di #Lipa. Le persone incontrate denunciano i respingimenti illegali e le vessazioni delle polizie. Tra gennaio e ottobre 2023 i passaggi nei Balcani occidentali sono stati quasi 100mila. Il videoreportage

    È notte fonda ma la luna piena illumina tutta la valle del fiume Sava. Non è l’ideale per le persone che nell’ombra provano a passare da un confine all’altro, dal Nord della Bosnia ed Erzegovina alla Croazia. “A qualcuno la luna piena dà sicurezza -racconta un ragazzo che arriva dal Sudan- perché vedi bene la strada. Ad altri non piace, perché le guardie ti vedono lontano un miglio”.

    Bosanska Gradiška è uno degli snodi chiave per i migranti che dal Nord della Bosnia tentano di attraversare il fiume per entrare in Croazia, nell’Unione europea. In tanti sono morti nelle acque della Sava, affogati a poche bracciate dalla riva, ma i più giovani, soprattutto in estate, provano ancora a nuotare da una sponda all’altra, da un confine all’altro. I segni del passaggio sono evidenti, ci sono persino tracce di pneumatici e di trascinamento. Sembra la scia di una piccola imbarcazione. Nei villaggi lunga la Sava, da Gradiška in poi, alcuni residenti della zona “noleggiano” le loro barchette per accompagnare i migranti dall’altro lato, per 20 o 30 marchi.

    Si cammina in silenzio, tutto tace, la frontiera ufficiale, quella presidiata dalla polizia, è a pochissimi chilometri. “Ultimamente i migranti si vedono poco in giro -spiega un’attivista della zona- ma ci sono eccome. Adesso si nascondono di più ma si muovono e tanto”. I numeri confermano i “flussi” lungo le rotte negli ultimi mesi. Secondo i dati di Frontex, da gennaio a ottobre gli “attraversamenti” nei Balcani occidentali hanno superato quota 97.300, soprattutto afghani, siriani e turchi. I volontari della zona, però, registrano la presenza anche di persone provenienti dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana.

    “Tanti arrivano direttamente in Serbia con l’aereo e poi cominciano il viaggio. Altri, invece, arrivano a piedi dalla Turchia o dalla Grecia”. Il cammino, in ogni caso, è faticoso e pericoloso. Il rischio è quello di morire di freddo in inverno o di essere picchiati, di perdere anche quel poco che si ha, di rimanere bloccati per mesi. Cosa che sta accadendo di nuovo, nell’autunno del 2023, lontano dai riflettori un tempo più accesi.

    “Mi hanno spaccato uno zigomo -racconta un ventenne iraniano incontrato nei boschi bosniaci a fine ottobre- è successo l’altra sera. Adesso aspetto qualche giorno prima di ritentare. La polizia croata è la peggiore”. “I miei amici un mese fa sono passati senza problemi”, aggiunge un altro ragazzo, che non dice di dov’è. “E invece a noi ci fanno sputare sangue, letteralmente”. Qualcosa è successo. Fino a qualche settimana fa le autorità croate lasciavano “passare” con più facilità, e per i migranti era diventato relativamente semplice arrivare fino Zagabria o a Fiume, per poi proseguire verso la Slovenia. Poi, però, la protesta dei residenti di alcune cittadine sul confine hanno spinto il governo croato a cambiare ancora una volta politica. Riprendendo così i respingimenti violenti. I metodi brutali della polizia croata sono noti da tempo. I racconti raccolti in questi giorni in Bosnia ed Erzegovina confermano invece che tutte le pratiche più disumane utilizzate in questi anni sono tornare prepotentemente “di moda”.

    https://www.youtube.com/watch?v=IRgHN1sh8ZQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

    I respingimenti della polizia croata hanno avuto un immediato contraccolpo sulle presenze al campo di Lipa, a 25 chilometri da Bihać. Siamo arrivati al campo di mattina con un permesso per entrare e svolgere una visita guidata della struttura. L’unico dato di cui siamo certi è il numero delle presenze. A novembre ci sono all’incirca 1.500 persone, accampate insieme nonostante le condizioni non siano delle migliori. I ragazzi sono spesso costretti a spendere i propri soldi per comprare all’esterno sapone e dentifricio, perché raramente sono a disposizione. “Compriamo anche qualcosa da mangiare -racconta Adam, dalla Siria- perché spesso abbiamo fame, ma è anche l’occasione per fare una pausa e per uscire dal recinto”. Ci spostiamo al negozietto che è stato allestito proprio di fronte all’ingresso del campo. Prendiamo un the mentre i ragazzi si avvicinano numerosi. Due euro per un bicchierino. I prezzi sono alti. Un solo rotolo di carta igienica costa quasi un euro. “Lo compriamo perché non c’è mai nei bagni”, spiega un ragazzo con il sacchetto in mano. Le guardie del campo intanto ci osservano, non gradiscono molto che si parli con i loro “ospiti”, e allora ci spostiamo verso il bosco.

    Mentre siamo nella jungle, poco fuori Lipa, incontriamo tre ragazzi siriani che tornano verso il campo dopo essere stati respinti. Hanno l’aria stanca e affranta, anche perché a due di loro la polizia ha sequestrato e spaccato il telefono. Si fermano qualche minuto a raccontare ma poi proseguono, perché hanno bisogno di riposare, bere un po’ d’acqua, riordinare le idee. Nel pomeriggio raggiungiamo il campo Borići, dedicato alle famiglie e ai minori non accompagnati, dove ci sono poco più di 800 persone. Un numero non elevatissimo ma comunque superiore a quello della media degli ultimi mesi. Tra loro ci sono molte persone in arrivo dall’Africa sub-sahariana ma anche diverse famiglie dal Bangladesh. “A volte restano a lungo -spiega uno dei coordinatori del centro, dove abbiamo il permesso di entrare-. E infatti ai bambini facciamo anche da scuola. È un modo per insegnargli la lingua, per trascorrere del tempo sereno e magari fargli ritrovare il sorriso”. L’atmosfera qui è migliore e anche l’accoglienza è meno militaresca, più informale. Finché c’è la luce del sole il clima resta sereno, ma appena fa buio il fermento aumenta.

    Ogni sera i migranti cercano di attraversare il confine arrivando il più vicino possibile con i taxi o con gli autobus e sperano di non incontrare la polizia croata. Di recente, però, succede quasi sempre. Lo raccontano a più riprese le tantissime persone incontrate in questi giorni d’autunno. Grecia, Turchia, Bulgaria, Serbia. Tra i ragazzi che hanno il desiderio di far sapere cosa gli è successo c’è Mohammed, dal Marocco, che ha provato ad attraversare il confine croato sette volte e ha subito maltrattamenti feroci dalla polizia di Zagabria. Poi c’è Samir, 18 anni, dall’Afghanistan, in fuga dai Talebani. E poi c’è Alì, dal Ghana, che ha perso i documenti e non è riuscito a rientrare in Italia dal suo Paese. Tre storie racchiuse in questo video, anche se ci vorrebbero ore e ore di testimonianze. Ore e ore di immagini e denunce, perché quel che accade sotto i nostri occhi fa vergognare.

    https://altreconomia.it/tra-i-respinti-dalla-croazia-la-violenza-e-ancora-la-prassi-lungo-le-ro
    #Balkans #route_des_balkans #asile #migrations #réfugiés #frontières #refoulements #push-backs #Croatie #Bosnie-Herzégovine #Bosanska_Gradiška #Sava #rivière_Sava #rivière #violence #violences_policières #Bihać #Borići

  • (4) Prof. Fabrizio Bucella sur X : « Une fausse information circule : la méchante UE de Bruxelles (où j’habite, fichtre !) s’apprêterait à interdire les boîtes en bois pour le bon vieux camembert qu’on adore. L’astuce est que le camembert avec une appellation d’origine protégée n’est pas concerné (camembert de… https://t.co/uc80CNxfBl » / X
    https://twitter.com/FabrizioBucella/status/1725533769463971947

    Une fausse information circule : la méchante UE de Bruxelles (où j’habite, fichtre !) s’apprêterait à interdire les boîtes en bois pour le bon vieux camembert qu’on adore.

    L’astuce est que le camembert avec une appellation d’origine protégée n’est pas concerné (camembert de Normandie AOP).

    Il semble que l’agence à l’origine du pataquès bosse pour... Lactalis, géant industriel et numéro uno de la pâte fromagère en plastique.

    #Lactalis ? Mais pourquoi diable Lactalis ?

    Because, because... son camembert « Président », serti dans une belle boîte en bois, ne bénéficie pas de l’appellation d’origine protégée. Il serait donc exclu de la boîte en bois.

    Le client verrait donc mieux la différence entre le camembert de Normandie AOP gage de qualité et le camembert industriel gage de rien du tout.

    Salukes

    Source : Le Monde.

    PS- Les deux principales différences entre le camembert tout court et le camembert de Normandie AOP sont les suivantes :

    (i) le camembert de Normandie AOP utilise le lait de vaches normandes versus du lait pasteurisé pour les industriels ;

    (ii) il faut cinq louches de caillé espacées d’environ 50 minutes versus procédé mécanique. Il faut approximativement 5 heures pour mouler un vrai camembert de Normandie AOP. Les fromages moulés à la louche à la main (enfin à la louche mais tenue par une vraie main) présentent une pâte aérée et onctueuse et une surface de croûte irrégulière.

    #camembert #boite #boitenbois #ue #bruxelles #lactalis #aop #normandie #profbucella #science #factchecking #lasciencepeuttout #lemonde @lemondefr

  • A Gaza, récit de la prise de l’hôpital Al-Shifa par l’armée israélienne
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/16/la-prise-de-l-hopital-al-shifa-ultime-refuge-de-gaza_6200461_3210.html


    Des soldats israéliens dans le complexe hospitalier #Al-Shifa, à #Gaza, lors de l’opération terrestre contre le Hamas, le 15 novembre 2023. IDF / VIA REUTERS

    L’armée israélienne a pénétré mercredi dans l’hôpital où s’étaient abrités de nombreux civils, sans pour l’instant fournir la preuve que l’établissement avait un usage militaire.
    Par Ghazal Golshiri et Louis Imbert(Jérusalem, correspondant)

    En pénétrant mercredi 15 novembre dans Al-Shifa, le principal hôpital de Gaza, l’armée israélienne a signifié aux derniers #Palestiniens encore présents dans cette ville qu’ils n’y disposaient plus d’aucun #refuge. Ce n’est pas à un assaut militaire en bonne et due forme que se sont livrés les soldats, contrairement à ce que craignaient les déplacés, qui quittent l’établissement par centaines depuis son encerclement partiel le 10 novembre. C’est à une opération d’#intimidation. En vidant l’hôpital, l’armée s’attaque au centre névralgique d’une cité qui comptait un million d’habitants avant la guerre, et qui est aujourd’hui largement dépeuplée et promise à la ruine.

    Six semaines de bombardements massifs et indiscriminés, puis une opération terrestre menée lentement et méthodiquement, à partir du 13 octobre, ont déjà en partie détruit cette ville côtière, qui fut jusqu’au IXe siècle un carrefour des routes commerçantes de l’Orient à la Méditerrannée, et qui retrouve aujourd’hui son visage de 1917, au sortir d’une guerre de tranchée durant laquelle les artilleries turque et britannique avaient rasé la ville. Au 16 novembre, les autorités de santé de l’enclave, anciennement administrée par le Hamas, dénombrent au moins 11 000 morts, et 1,6 million de déplacés.

    [...] Six semaines de #bombardements ont permis à l’armée d’éliminer des dizaines de commandants de rang intermédiaire du Hamas et de briser en partie les chaînes de commandement de l’organisation, estime-t-elle. Le #Hamas apparaît sonné par cette entreprise d’anéantissement, longtemps assumée par les autorités israéliennes, avant que l’armée ne tente plus vigoureusement, depuis une semaine et principalement à Al-Shifa, de démontrer qu’elle respecte une mesure de proportionnalité dans ses frappes, entre la valeur de ses cibles militaires et les morts civils.

    https://archive.ph/oAEQp
    Le Monde fait peu de cas des « preuves » israéliennes"
    1ère résolution du conseil de sécurité de l’ONU, mercredi : le temps dont dispose Israël pour une tuerie massive s’amenuise
    l’hypothèse fréquemment retenue est que les troupes du Hamas se mêlent aux déplacés, l’organisation réapparaîtra plus tard. le ’but de guerre", si il y en avait un, autre fait pshitt.

    #Israël

  • Inchiesta sul gestore del #Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati

    Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura in #via_Corelli: alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti non sarebbero autentici

    Lenzuola non distribuite, raro utilizzo dei mediatori culturali, tutela legale inesistente, assistenza sanitaria carente. Ma soprattutto falsi protocolli d’intesa “siglati” per svolgere servizi e attività all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano.

    Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura: oltre alla discordanza tra quanto scritto nei documenti e la realtà nella struttura di reclusione, alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti sarebbero falsi.

    Altri invece sarebbero stati siglati con soggetti di cui non è stato possibile trovare alcuna traccia online. “Viene da chiedersi in che cosa consista il controllo effettuato dalla prefettura, essendo risultata evidente l’assenza di servizi all’interno del centro oltre che palesi le incongruenze negli atti e nei documenti versati nella gara di appalto”, osserva l’avvocato Nicola Datena dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha visionato la documentazione insieme a chi scrive.

    Alcuni snodi temporali. Martinina Srl nell’ottobre 2022 si è aggiudicata l’appalto per un anno (scadenza il 31 ottobre 2023, rinnovabile di un anno in assenza di nuove gare pubbliche) indetto dalla prefettura di Milano presentando un’offerta in cui garantiva, tra le altre cose, la collaborazione con diverse associazioni e società profit, finalizzata ad assicurare l’erogazione di “servizi” da integrare nella gestione del Cpr.

    L’offerta tecnica consiste nella documentazione da presentare in sede di gara d’appalto che descrive come l’impresa intende eseguire il lavoro per l’ente che richiede la prestazione, ovvero il piano di lavoro, le fasi e le risorse impiegate, la durata e le ore di lavoro previste, eventuali migliorie richieste o proposte

    Protocolli forniti in sede di gara ed esaminati dalla Commissione giudicatrice, la quale, nella decisione di assegnare l’appalto alla società domiciliata in provincia di Salerno, sottolinea l’importanza del “valore delle proposte migliorative dell’offerta tecnica”. Un “dettaglio” sfugge però ai funzionari della prefettura: almeno otto sarebbero falsi. Eccoli.

    Secondo la documentazione contrattuale, il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), una delle più importanti organizzazioni del Terzo settore del nostro Paese, avrebbe firmato un protocollo con Martinina l’8 agosto 2022 volto alla formazione del personale del Cpr. Il nome del responsabile legale non corrisponde però ad alcun referente dell’organizzazione: “Ribadiamo l’assoluta estraneità del Vis e l’assenza di qualsiasi tipo di contatto o accordo, passato e presente, relativo alla gestione del Cpr di via Corelli. E ci tengo a precisare che come Ong salesiana abbiamo una visione della migrazione fondata sui diritti umani, distante dall’approccio applicato nei Cpr, con cui in ogni caso le nostre policy ci impedirebbero di collaborare”, spiega ad Altreconomia Michela Vallarino, presidente del Vis.

    Sono 59 invece le pagine dell’accordo tra Martinina e la cooperativa sociale BeFree, uno dei più importanti enti antitratta italiani con sede a Roma, per la realizzazione del progetto “Inter/rotte” per l’assistenza per vittime di tratta e violenza. “Non avremmo mai potuto firmare un simile protocollo -spiega Francesca De Masi (qui la sua presa di posizione integrale)- perché siamo fortemente critiche nei confronti della stessa esistenza dei Cpr”. Il presunto protocollo è talmente grossolano che il nome del legale rappresentante è sbagliato e di conseguenza anche il codice fiscale generato.

    Ala Milano Onlus secondo l’accordo dovrebbe invece garantire “prestazioni di natura di mediazione linguistica/culturale”. Il presidente, contattato da Altreconomia, dichiara però di non aver mai siglato quel protocollo. Così come Don Stefano Venturini, l’allora parroco della comunità pastorale delle parrocchie di San Martino in Lambrate e SS Nome di Maria, che si sarebbe impegnato, secondo le carte consultate, “a orientare, aiutare gli ospiti prestando attenzione specifica a quanto le persone esprimono”. “Ho incontrato una volta chi gestisce la struttura ma non ho mai siglato un protocollo”, spiega Venturini ad Altreconomia, aggiungendo, tra l’altro, come sia di competenza della curia diocesana un eventuale accordo formale. Nell’offerta inviata alla prefettura, Martinina ha allegato il decreto di nomina di Venturini emesso dall’arcivescovo Mario Enrico Delpini. “Non so come abbiano fatto ad averlo”, spiega ancora l’interessato.

    L’accordo con la società sportiva Scarioni 1925 risulta stipulato il 24 agosto 2022 dall’ex presidente, che però è morto nel febbraio 2020: un post sulla pagina Facebook della società stessa, datato 31 marzo 2020, porge le condoglianze alla famiglia per la sua scomparsa. Il Centro islamico di Milano e Lombardia avrebbe siglato un accordo con Martinina per garantire il sostegno spirituale all’interno del centro. “La carta intestata è di un centro di Roma, la firma del protocollo di un centro di Cologno Monzese -spiega il presidente Ali Abu Shwaima-. Noi non abbiamo mai visto quel protocollo”. L’associazione Dianova Onlus garantirebbe assistenza per i trattenuti con tossicodipendenza: la prefettura sembra non essersi accorta però che il protocollo risulta firmato nell’agosto 2022 solo da Martinina Srl. “Non ho mai sentito questa società -spiega il presidente Pierangelo Buzzo, a cui è intestato l’accordo- e tra l’altro dal febbraio 2021 siamo cooperativa sociale, non più associazione. Il protocollo è falso”.

    Diverso è il caso della Associazione di Volontariato “Il Paniere Alimentare”, dell’Organizzazione “Musica e Teatro” e dell’Associazione “Fiore di Donna”, dei quali non solo non è stato possibile riscontrare alcun riferimento online, ma di cui i codici fiscali inseriti nei protocolli risultano inesistenti, così come gli indirizzi mail di riferimento. La “Bondon grocery” dovrebbe riconoscere “agli ospiti del Cas e agli operatori della Martinina Srl che acquistano per conto delle persone trattenute nel Cpr uno sconto del 5% sulla spesa effettuata”: il protocollo firmato nell’agosto 2022 reca in intestazione la denominazione della società, che ha però cessato l’attività il primo luglio 2021.

    Dianova, BeFree, l’Organizzazione “Musica e Teatro” vengono citati tra i protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica presentata da Engel Srl il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere. La prefettura di Milano ha pubblicato i documenti integrali -contratto siglato dalla società e offerta tecnica- il 10 novembre 2023.

    Tornando ai protocolli siglati da Martinina Srl, questi danno uno spaccato della vita nel centro che appare molto distante della realtà. Attività ludico-ricreative, per “impegnare le giornate degli ospiti e rendere più piacevole il trascorrere del tempo”, cineforum, laboratori di teatro, musicali, sport. Addirittura “campagne di prevenzione della salute”. Ma niente di tutto questo si sarebbe mai verificato nella struttura. Sia per i numerosi report prodotti nel tempo da diversi soggetti, dall’Asgi al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, fino agli stessi verbali delle visite di monitoraggio redatti proprio dalla prefettura.

    Così l’accesso ai servizi di mediazione linguistica-culturale, previsto nell’offerta, non si riscontra affatto nella realtà: in questo caso è l’Asgi, durante una delle visite d’accesso, a non incontrare alcun mediatore e dal Naga, che ha recentemente pubblicato un dettagliato report sulla situazione all’interno del centro. Oppure l’orientamento legale, anche questo assicurato sulla carta da Martinina Srl, addirittura con la “diffusione di materiale informativo tradotto nelle principali lingue parlate dagli stranieri presenti nel centro” ma che non trova riscontri. È il Garante, questa volta, a scrivere nel febbraio 2023 che l’informativa cartacea “non viene consegnata alle persone trattenute”. Problematico anche l’accesso ai servizi sanitari: nell’offerta tecnica si assicura “al ricorrere delle esigenze la somministrazione di farmaci e altre spese mediche” ma al di fuori degli psicofarmaci -che, come raccontato da Altreconomia nell’inchiesta “Rinchiusi e sedati”, su cinque mesi di spesa rappresentano il 60% degli acquisti in farmaci- sempre il Garante scrive che “l’assistenza sanitaria in caso di bisogno si limita alla distribuzione della tachipirina”. E c’è uno scarso accesso alle visite specialistiche. Emergono poi acquisti di distributori di tabacchi non presenti nel centro, colloqui con lo psicologo non documentati, addirittura la fornitura di “cestini da viaggio” in caso di trasferimenti da un Cpr all’altro, discrepanze anche relative alla qualità del cibo distribuito.

    All’impatto sulla vita delle persone se ne aggiunge uno di natura economica. Secondo dati inediti consultati Altreconomia, infatti, la prefettura di Milano avrebbe già versato a Martinina Srl oltre 943mila euro per la gestione della struttura di via Corelli. Ed è rilevante anche l’avvicendamento delle società gestite dall’imprenditore Alessandro Forlenza. Lui, nel 2012 fonda la Engel Italia Srl, ex gestore del “Corelli” di Milano e del Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: oggi quella società non esiste più perché il 20 ottobre 2023 è stata definitivamente “inglobata” nella Martinina Srl, a cui inizialmente era stato ceduto il ramo d’azienda che si occupava della detenzione amministrativa. La società è formalmente in mano a Paola Cianciulli, moglie di Forlenza, che è attualmente l’amministratrice unica dopo l’uscita di scena di Consiglia Caruso (la firmataria di tutti i protocolli d’intesa sopra citati), che il 31 agosto 2023 ha ceduto i mille euro di capitale sociale. A lei restano intestate due società con sede a Milano: l’Edil Coranimo Srl, che si occupa di costruzioni, e dal febbraio 2023 l’Allupo Srl che ha sede proprio in via Corelli, nel numero civico successivo al Centro per il rimpatrio. Una dinamica che desta interesse: l’oggetto sociale della Allupo Srl è molto diversificato e oltre alla ristorazione in diverse forme (da asporto o somministrazione diretta) è inclusa anche la possibilità di “gestione di case di riposo per anziani, case famiglia per minori, Cas, Sprar, Cara e Cpr”.

    La Martinina Srl ha altre due sedi attive: una a Palazzo San Gervasio, a Potenza, dove è arrivata seconda nella gara di assegnazione della nuova gestione del Cpr precedentemente dalla Engel, vinto da Officine Solidali nel marzo 2023, un’altra a Taranto, per la gestione del Cas Mondelli che accoglie minori stranieri non accompagnati. L’ultimo bilancio disponibile è del 31 dicembre 2021 con importi ridottissimi: appena 2.327 euro di utili “portati a nuovo”. A quella data ancora non era attivo il Cpr di via Corelli. C’è un terzo soggetto, però, nella “sfera Martinina” con ben altri risultati: si tratta della Engel Family Srl nata nell’ottobre 2020 con in “dotazione” 250mila euro derivanti da Engel Srl. Paola Cianciulli è nuovamente amministratrice e socia unica della società che si occupa di “locazione immobiliare di beni propri o in leasing” che al 31 dicembre 2021 (l’ultimo disponibile) conta un valore della produzione complessivo di poco superiore a 372mila euro.

    Ai milioni di euro per la gestione se ne aggiungono altri (ne hanno parlato anche ActionAid e l’Università degli studi di Bari nel recente dettagliato rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”) se si prende in considerazione, documenti ottenuti da Altreconomia alla mano, anche l’esborso dovuto alla costante manutenzione che si rende necessaria anche a causa delle ricorrenti proteste dei trattenuti. Da inizio 2020 al marzo 2023 in totale sono stati spesi più di 3,3 milioni di euro di cui il 58% è stato impiegato per lavori di adeguamento della struttura, manutenzione o interventi di ripristino dei luoghi danneggiati. Anche perché, spesso, le strutture già in partenza sono spesso fatiscenti: il 15 settembre 2021 Invitalia, l’Agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia (già attiva nel campo delle migrazioni sul “fronte libico”), ha pubblicato un bando da 11,3 milioni di euro su mandato del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, proprio per la manutenzione straordinaria dei Centri di permanenza per il rimpatrio di tutta Italia. Ad aggiudicarsi i lavori del Cpr di Milano in via Corelli -di cui abbiamo inserito le foto inserite nel progetto di ristrutturazione- è stata la Tek Infrastructure, società con sede a Palermo da 1,6 milioni di euro di fatturato nel 2021, con un ribasso del 20%. Ma tra i pagamenti effettuati dalla prefettura fino al marzo 2023 a fare da “padrona” sulle manutenzioni è la Masteri Srl -non è possibile escludere perciò un subappalto- con quasi 620mila euro ricevuti in tre anni.

    Fiumi di denaro pubblico che richiederebbero controlli estremamente approfonditi. Dai verbali delle ispezioni prefettizie, però, non emerge una verifica dettagliata di quanto avviene nella struttura. In uno dei verbali, infatti, alla domanda “La fornitura degli effetti letterecci avviene regolarmente e secondo le tempistiche e modalità previste dallo Schema di Capitolato vigente?”, il funzionario della prefettura barra “Sì”. Ma nella nota integrativa sottostante, riportata in calce al verbale, si legge che “ai 25 trattenuti non viene richiesto di firmare la consegna/ritiro degli effetti letterecci”. Risultano perciò incomprensibili le basi su cui viene affermata l’effettiva consegna di questi oggetti.

    Assente qualsiasi considerazione sul rispetto dei diritti fondamentali e sulla corretta esecuzione dei servizi presenti nell’offerta tecnica. “Il monitoraggio da parte della società civile si conferma essere uno strumento fondamentale. Se quanto emerso verrà confermato nelle sedi opportune viene da chiedersi chi controlla i controllori”, conclude l’avvocato Datena. Intanto, le claudicanti promesse di Martinina Srl hanno potuto circolare a piede libero, a differenza dei reclusi. Con il rischio che alla sofferenza si sia aggiunta la beffa del racconto di una quotidianità inesistente.

    https://altreconomia.it/inchiesta-sul-gestore-del-cpr-di-milano-tra-falsi-protocolli-e-servizi-
    #détention_administrative #rétention #Italie #Milan #privatisation #Martinina #via_corelli #business #Volontariato_internazionale_per_lo_sviluppo (#Vis) #BeFree #Inter/rotte #Ala_Milano #società_sportiva_Scarioni_1925 #Centro_islamico_di_Milano_e_Lombardia #Dianova #Il_Paniere_Alimentare #Musica_e_Teatro #Fiore_di_donna #Bondon_grocery #Engel #Alessandro_Forlenza #Paola_Cianciulli #Consiglia_Caruso #Edil_Coranimo #Allupo #Tek_Infrastructure #Masteri

  • A New Tool Allows Researchers to Track Damage in #Gaza

    As the Israel Defense Forces (IDF) continue to bomb the Gaza Strip, many researchers are attempting to track and quantify the damage to the territory’s buildings, infrastructure and the displacement of the local population.

    A new tool, originally developed to estimate damage in Ukraine, has now been adapted and applied to Gaza. The tool can estimate the number of damaged buildings and the pre-war population in a given area within the Gaza Strip.

    The tool has already been used by a number of media outlets, but it is freely available for anyone to use and we have outlined its key features below.

    The coloured overlay on this map is a damage proxy map indicating the probability of a significant change occurring at particular locations since October 10, 2023. Users can click the “draw polygon” button to draw an area of interest on the map — for example, a particular neighbourhood.

    To understand how the tool works, let’s look at the neighbourhood of Izbat Beit Hanoun, which sustained heavy damage visible in these high-resolution, before-and-after satellite images from Planet:

    The row of apartment complexes in the north of the neighbourhood near the road has been razed. Lower-density areas in the centre and northeast of the neighbourhood have also sustained heavy damage. Airstrikes have also destroyed several of the apartment complexes in the southwest.

    Below is the damage probability map generated by the tool, highlighting many of these areas:

    Drawing a box over this neighbourhood allows us to roughly quantify the number of buildings – and people- affected by the destruction.

    In the neighbourhood of Izbat Beit Hanoun, the tool estimates that there are 321-425 damaged buildings (73 — 97%), displayed with colours above. The tool also estimates that in the area of interest there was a pre-war population of 7,453, of which 4756 – 6304 lived in areas that are now likely to be damaged.
    How it Works

    Synthetic Aperture Radar (SAR) imagery has been used extensively in academic studies of building damage, and by groups like NASA following the 2020 explosion at the port of Beirut. NASA explains the use of SAR for building damage detection as follows: “SAR instruments send pulses of microwaves toward Earth’s surface and listen for the reflections of those waves. The radar waves can penetrate cloud cover, vegetation, and the dark of night to detect changes that might not show up in visible light imagery. […] When buildings have been damaged or toppled, the amplitude and phase of radar wave reflections changes in those areas and indicate to the satellite that something on the ground has changed.”

    The application above detects damaged areas by measuring the change in the intensity of the radar waves reflected back to the Sentinel-1 satellite before and after October 10, 2023, adjusted for how noisy the signal is in both periods. A more detailed explanation of the algorithm (which was peer-reviewed for a conference) is available here, and a walkthrough (including code) applied to the 2020 Beirut explosion is available here.

    Once likely damaged areas have been identified, the damage probability map is combined with building footprints from Microsoft. Footprints in which significant change has occurred are classified as damaged. This yields a count (and proportion) of estimated damaged buildings within an area.

    To get a rough idea of the number of people affected in a given area, population data are sourced from the LandScan program at Oak Ridge National Laboratory. The data are provided at the level of 90 metres. These population estimates are generated by merging current data on building structures, occupancy rates and infrastructure. Because these are estimates, they are subject to some level of error. They also predate the current conflict and are thus not meant to be interpreted as a count of actual or potential civilian casualties. You can read more about LandScan data here.
    Accuracy

    To assess the accuracy of the damage detection algorithm, damage points from the UN Satellite Office (UNOSAT) were used for validation. These are generated by manually combing through high-resolution satellite imagery and tagging visibly damaged buildings. Below is the same image of Izbat Beit Hanoun, with UNOSAT damage points overlaid in white.

    In the images above, the colourful overlay is a damage probability map. Darker colours indicate a higher probability that a significant change occurred after October 10, 2023.

    The UNOSAT damage points are available under the “Layers” tab in the top right corner of the tool. It should be noted that UNOSAT carried out the assessment on November 7 and that damage has occurred since then.

    Geolocated Footage

    To get an additional source of validation data, geolocated footage of strikes and destruction in Gaza are available under the “Layers” tab in the top right, and are displayed as blue triangles.

    These are sourced from Geoconfirmed, a community-based geolocating network. Clicking on a geolocated event will open a panel in the top right, showing a brief description of the event, the date, a link to the source media, and a link to the geolocation of the event.

    In the example below, clicking on a geolocated event in the heavily damaged Tal al-Hawa neighbourhood reveals that Gaza City’s International Eye Hospital appears to have been hit by an airstrike.

    Clicking on “Source Media” shows the following image of the eye hospital.

    Clicking on “Geolocation” displays the following tweet, which uses the visible characteristics of the building itself and adjacent buildings to locate the picture.

    Further research confirms that the International Eye Hospital was subsequently completely destroyed.

    It should be noted that the geolocations have not been independently verified by the creators of the tool and are automatically added to the map as they become available. Nevertheless, these geolocations are an important additional source of preliminary information. As of the date of publication, there were 541 geolocated events in the Gaza Strip. The tool automatically adds new geolocations as they become available.
    Important Caveats

    While this tool can help us better understand the devastating impact of IDF strikes on Gaza, there are a number of important caveats to bear in mind when using it.

    The first is that this tool detects any significant changes that have occurred in Gaza since October 10, 2023. The vast majority of these changes are likely related to conflict damage, but not all. For example, placing a large number of tents on a previously open field would be detected, since this would change the amplitude of the signal reflected back to the Sentinel-1 satellite from that patch of land.

    Second, because of the way the algorithm functions, older damage will be more confidently detected than newer damage. Thus, while the tool updates automatically as new imagery becomes available, it may take some time for newer damage to become visible. Other SAR-based methods can produce accurate estimates of damaged areas on a particular date. The Decentralized Damage Monitoring Group is working on such methodologies, with the aim of publicly disseminating damage maps that show not only where damage has occurred, but when.

    Finally, the assessment of population exposure is not a measure of actual or potential civilian casualties. These population estimates predate the most recent conflict in Gaza, and many civilians have fled. The affected population counts represent a ballpark estimate of the number of people who previously lived in areas that are now likely damaged or destroyed.
    Accessing the Tool

    The Gaza Damage Proxy Map uses previously established and tested methodology to provide estimates of damage to buildings. The data is updated approximately one to two times per week as new satellite imagery is gathered by the Sentinel-1 satellite. It therefore represents cumulative damage since October 10, not real-time damage to buildings.

    Although the information provided by the tool is an estimate, it is useful for researchers to quickly gain an overview of damaged areas in the Gaza Strip.

    You can access the Gaza Damage Proxy Map here.

    A similar tool using the same methodology to assess damage in Ukraine following Russia’s full-scale invasion and in Turkey following the February 6 Turkey-Syria earthquake, can be accessed here: https://ee-ollielballinger.projects.earthengine.app/view/gazadamage

    https://www.bellingcat.com/resources/2023/11/15/a-new-tool-allows-researchers-to-track-damage-in-gaza

    #imagerie #architecture_forensique #destruction #cartogrphie #visualisation #guerre #images_satellites #images_satellitaires #Synthetic_Aperture_Radar (#SAR) #UNOSAT #géolocalisation #photographie #dégâts #bombardements

    ping @visionscarto

  • Urgente reconversion
    https://www.obsarm.info/spip.php?article597

    Sommaire Édito : Urgente reconversion Le chiffre du trimestre : 76 Les #Mines_antipersonnel doivent être interdites Initiative : Conversion (École de la paix, Grenoble) À lire : Union européenne et exportations d’armes, les dossiers du Grip, sous la direction de Bernard Adam Brèves #La_Lettre_de_l'Observatoire_des_transferts_d'armements

    / Transferts / exportations, #Rwanda, #Bosnie-Herzégovine, Mines antipersonnel, Conversion / reconversion

    #Transferts_/_exportations #Conversion_/_reconversion
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/lettre_transferts_7_compressed.pdf

  • Les #voitures_électriques assoiffent les #pays_du_Sud

    Pour extraire des #métaux destinés aux voitures électriques des pays les plus riches, il faut de l’eau. Au #Maroc, au #Chili, en #Argentine… les #mines engloutissent la ressource de pays souffrant déjà de la sécheresse.

    #Batteries, #moteurs… Les voitures électriques nécessitent des quantités de métaux considérables. Si rien n’est fait pour limiter leur nombre et leur #poids, on estime qu’elles pourraient engloutir plusieurs dizaines de fois les quantités de #cobalt, de #lithium ou de #graphite que l’on extrait aujourd’hui.

    Démultiplier la #production_minière dans des proportions aussi vertigineuses a une conséquence directe : elle pompe des #ressources en eau de plus en plus rares. Car produire des métaux exige beaucoup d’eau. Il en faut pour concentrer le métal, pour alimenter les usines d’#hydrométallurgie, pour les procédés ultérieurs d’#affinage ; il en faut aussi pour obtenir les #solvants et les #acides utilisés à chacun de ces stades, et encore pour simplement limiter l’envol de #poussières dans les mines. Produire 1 kilogramme de cuivre peut nécessiter 130 à 270 litres d’eau, 1 kg de nickel 100 à 1 700 l, et 1 kg de lithium 2 000 l [1].

    Selon une enquête de l’agence de notation étatsunienne Fitch Ratings, les investisseurs considèrent désormais les #pénuries_d’eau comme la principale menace pesant sur le secteur des mines et de la #métallurgie. Elle estime que « les pressions sur la ressource, comme les pénuries d’eau localisées et les #conflits_d’usage, vont probablement augmenter dans les décennies à venir, mettant de plus en plus en difficulté la production de batteries et de technologies bas carbone ». Et pour cause : les deux tiers des mines industrielles sont aujourd’hui situées dans des régions menacées de sécheresse [2].

    L’entreprise anglaise #Anglo_American, cinquième groupe minier au monde, admet que « 75 % de ses mines sont situées dans des zones à haut risque » du point de vue de la disponibilité en eau. La #voiture_électrique devait servir à lutter contre le réchauffement climatique. Le paradoxe est qu’elle nécessite de telles quantités de métaux que, dans bien des régions du monde, elle en aggrave les effets : la sécheresse et la pénurie d’eau.

    Au Maroc, la mine de cobalt de #Bou_Azzer exploitée par la #Managem, qui alimente la production de batteries de #BMW et qui doit fournir #Renault à partir de 2025, prélèverait chaque année l’équivalent de la consommation d’eau de 50 000 habitants. À quelques kilomètres du site se trouvent la mine de #manganèse d’#Imini et la mine de #cuivre de #Bleida, tout aussi voraces en eau, qui pourraient bientôt alimenter les batteries de Renault. Le groupe a en effet annoncé vouloir élargir son partenariat avec Managem « à l’approvisionnement de #sulfate_de_manganèse et de cuivre ».

    Importer de l’eau depuis le désert

    Importer du cobalt, du cuivre ou du manganèse depuis la région de Bou Azzer, cela revient en quelque sorte à importer de l’eau depuis le désert. Les prélèvements de ces mines s’ajoutent à ceux de l’#agriculture_industrielle d’#exportation. À #Agdez et dans les localités voisines, les robinets et les fontaines sont à sec plusieurs heures par jour en été, alors que la température peut approcher les 45 °C. « Bientôt, il n’y aura plus d’eau, s’insurgeait Mustafa, responsable des réseaux d’eau potable du village de Tasla, lors de notre reportage à Bou Azzer. Ici, on se sent comme des morts-vivants. »

    Un des conflits socio-environnementaux les plus graves qu’ait connus le Maroc ces dernières années s’est produit à 150 kilomètres de là, et il porte lui aussi sur l’eau et la mine. Dans la région du #Draâ-Tafilalet, dans la commune d’Imider, la Managem exploite une mine d’#argent, un métal aujourd’hui principalement utilisé pour l’#électricité et l’#électronique, en particulier automobile. D’ailleurs, selon le Silver Institute, « les politiques nationales de plus en plus favorables aux véhicules électriques auront un impact positif net sur la demande en argent métal ». À Imider, les prélèvements d’eau croissants de la mine d’argent ont poussé les habitants à la #révolte. À partir de 2011, incapables d’irriguer leurs cultures, des habitants ont occupé le nouveau réservoir de la mine, allant jusqu’à construire un hameau de part et d’autre des conduites installées par la Managem. En 2019, les amendes et les peines d’emprisonnement ont obligé la communauté d’Imider à évacuer cette #zad du désert, mais les causes profondes du conflit perdurent.

    « Ici, on se sent comme des morts-vivants »

    Autre exemple : au Chili, le groupe Anglo American exploite la mine de cuivre d’#El_Soldado, dans la région de #Valparaiso. Les sécheresses récurrentes conjuguées à l’activité minière entraînent des #coupures_d’eau de plus en plus fréquentes. Pour le traitement du #minerai, Anglo American est autorisé à prélever 453 litres par seconde, indique Greenpeace, tandis que les 11 000 habitants de la ville voisine d’#El_Melón n’ont parfois plus d’eau au robinet. En 2020, cette #pénurie a conduit une partie de la population à occuper l’un des #forages de la mine, comme au Maroc.

    #Désalinisation d’eau de mer

    L’année suivante, les associations d’habitants ont déposé une #plainte à la Cour suprême du Chili pour exiger la protection de leur droit constitutionnel à la vie, menacé par la consommation d’eau de l’entreprise minière. Face au mouvement de #contestation national #No_más_Anglo (On ne veut plus d’Anglo), le groupe a dû investir dans une usine de désalinisation de l’eau pour alimenter une autre de ses mégamines de cuivre au Chili. Distante de 200 kilomètres, l’usine fournira 500 litres par seconde à la mine de #Los_Bronces, soit la moitié de ses besoins en eau.

    Les entreprises minières mettent souvent en avant des innovations technologiques permettant d’économiser l’eau sur des sites. Dans les faits, les prélèvements en eau de cette industrie ont augmenté de façon spectaculaire ces dernières années : l’Agence internationale de l’énergie note qu’ils ont doublé entre 2018 et 2021. Cette augmentation s’explique par la ruée sur les #métaux_critiques, notamment pour les batteries, ainsi que par le fait que les #gisements exploités sont de plus en plus pauvres. Comme l’explique l’association SystExt, composée de géologues et d’ingénieurs miniers, « la diminution des teneurs et la complexification des minerais exploités et traités conduisent à une augmentation exponentielle des quantités d’énergie et d’eau utilisées pour produire la même quantité de métal ».

    Réduire d’urgence la taille des véhicules

    En bref, il y de plus en plus de mines, des mines de plus en plus voraces en eau, et de moins en moins d’eau. Les métaux nécessaires aux batteries jouent un rôle important dans ces conflits, qu’ils aient lieu au Maroc, au Chili ou sur les plateaux andins d’Argentine ou de Bolivie où l’extraction du lithium est âprement contestée par les peuples autochtones. Comme l’écrit la politologue chilienne Bárbara Jerez, l’#électromobilité est inséparable de son « #ombre_coloniale » : la perpétuation de l’échange écologique inégal sur lequel est fondé le #capitalisme. Avec les véhicules électriques, les pays riches continuent d’accaparer les ressources des zones les plus pauvres. Surtout, au lieu de s’acquitter de leur #dette_écologique en réparant les torts que cause le #réchauffement_climatique au reste du monde, ils ne font qu’accroître cette dette.

    Entre une petite voiture de 970 kg comme la Dacia Spring et une BMW de plus de 2 tonnes, la quantité de métaux varie du simple au triple. Pour éviter, de toute urgence, que les mines ne mettent à sec des régions entières, la première chose à faire serait de diminuer la demande en métaux en réduisant la taille des véhicules. C’est ce que préconise l’ingénieur Philippe Bihouix, spécialiste des matières premières et coauteur de La ville stationnaire — Comment mettre fin à l’étalement urbain (Actes Sud, 2022) : « C’est un gâchis effroyable de devoir mobiliser l’énergie et les matériaux nécessaires à la construction et au déplacement de 1,5 ou 2 tonnes, pour in fine ne transporter la plupart du temps qu’une centaine de kilogrammes de passagers et de bagages », dit-il à Reporterre.

    « C’est un #gâchis effroyable »

    « C’est à la puissance publique de siffler la fin de partie et de revoir les règles, estime l’ingénieur. Il faudrait interdire les véhicules électriques personnels au-delà d’un certain poids, comme les #SUV. Fixer une limite, ou un malus progressif qui devient vite très prohibitif, serait un bon signal à envoyer dès maintenant. Puis, cette limite pourrait être abaissée régulièrement, au rythme de sortie des nouveaux modèles. »

    C’est loin, très loin d’être la stratégie adoptée par le gouvernement. À partir de 2024, les acheteurs de véhicules de plus de 1,6 tonne devront payer un #malus_écologique au poids. Les véhicules électriques, eux, ne sont pas concernés par la mesure.

    LES BESOINS EN MÉTAUX EN CHIFFRES

    En 2018, l’Académie des sciences constatait que le programme de véhicules électriques français repose sur « des quantités de lithium et de cobalt très élevées, qui excèdent, en fait et à technologie inchangée, les productions mondiales d’aujourd’hui, et ce pour satisfaire le seul besoin français ! » En clair : si on ne renonce pas à la voiture personnelle, il faudra, pour disposer d’une flotte tout électrique rien qu’en France, plus de cobalt et de lithium que l’on en produit actuellement dans le monde en une année.

    L’Agence internationale de l’énergie estime que la demande de lithium pour les véhicules électriques pourrait être multipliée par 14 en 25 ans, celle de cuivre par 10 et celle de cobalt par 3,5. Simon Michaux, ingénieur minier et professeur à l’Institut géologique de Finlande, a calculé récemment que si l’on devait électrifier les 1,4 milliard de voitures en circulation sur la planète, il faudrait disposer de l’équivalent de 156 fois la production mondiale actuelle de lithium, 51 fois la production de cobalt, 119 fois la production de graphite et plus de deux fois et demie la production actuelle de cuivre [3]. Quelles que soient les estimations retenues, ces volumes de métaux ne pourraient provenir du recyclage, puisqu’ils seraient nécessaires pour construire la première génération de véhicules électriques.

    https://reporterre.net/Les-voitures-electriques-assoiffent-les-pays-du-Sud
    #eau #sécheresse #extractivisme #résistance #justice #industrie_automobile #métaux_rares

    • #Scandale du « cobalt responsable » de BMW et Renault au Maroc

      Pour la fabrication des batteries de leurs véhicules électriques, BMW et Renault s’approvisionnent en cobalt au Maroc en se vantant de leur politique d’achat éthique. « Cette publicité est mensongère et indécente. L’extraction de cobalt dans la mine de Bou Azzer, au sud du Maroc, se déroule dans des conditions choquantes, au mépris des règles les plus élémentaires de sécurité, du droit du travail et de la liberté d’association », s’insurgent plusieurs responsables syndicaux et associatifs, basés en France et au Maroc.

      Pour la fabrication des batteries de leurs véhicules électriques, BMW et Renault s’affichent en champions de la mine responsable. Depuis 2020, la marque allemande s’approvisionne en cobalt au Maroc auprès de la Managem, grande entreprise minière appartenant à la famille royale. En 2022, Renault l’a imité en signant un accord avec le groupe marocain portant sur l’achat de 5000 tonnes de sulfate de cobalt par an pour alimenter sa « gigafactory » dans les Hauts de France. Forts de ces contrats, les deux constructeurs automobiles ont mené des campagnes de presse pour vanter leur politique d’achat de matières premières éthiques, BMW assurant que « l’extraction de cobalt par le groupe Managem répond aux critères de soutenabilité les plus exigeants » en matière de respect des droits humains et de l’environnement.

      Cette publicité est mensongère et indécente. L’extraction de cobalt dans la mine de Bou Azzer, au sud du Maroc, se déroule dans des conditions choquantes, au mépris des règles les plus élémentaires de sécurité, du droit du travail et de la liberté d’association. Elle est responsable de violations de droits humains, d’une pollution majeure à l’arsenic et menace les ressources en eau de la région, comme l’ont révélé l’enquête de Celia Izoard sur Reporterre et le consortium d’investigation réunissant le quotidien Süddeutsche Zeitung, les radiotélévisions allemandes NDR et WDR et le journal marocain Hawamich (2).

      Une catastrophe écologique

      Les constructeurs automobiles n’ont jamais mentionné que la mine de Bou Azzer n’est pas seulement une mine de cobalt : c’est aussi une mine d’arsenic, substance cancérigène et hautement toxique. Depuis le démarrage de la mine par les Français en 1934, les déchets miniers chargés d’arsenic ont été massivement déversés en aval des usines de traitement. Dans les oasis de cette région désertique, sur un bassin versant de plus de 40 kilomètres, les eaux et les terres agricoles sont contaminées. A chaque crue, les résidus stockés dans les bassins de la mine continuent de se déverser dans les cours d’eau.

      A Zaouit Sidi-Blal, commune de plus de 1400 habitants, cette pollution a fait disparaître toutes les cultures vivrières à l’exception des palmiers dattiers. Les représentants de la commune qui ont mené des procédures pour faire reconnaître la pollution ont été corrompus ou intimidés, si bien que la population n’a fait l’objet d’aucune compensation ou mesure de protection.

      Dans le village de Bou Azzer, à proximité immédiate du site minier, treize familles et une vingtaine d’enfants se trouvent dans une situation d’urgence sanitaire manifeste. Faute d’avoir été relogés, ils vivent à quelques centaines de mètres des bassins de déchets contenant des dizaines de milliers de tonnes d’arsenic, au milieu des émanations d’acide sulfurique, sans argent pour se soigner.

      Depuis vingt ans, la mine de Bou Azzer, exploitée en zone désertique, n’a cessé d’augmenter sa production. Le traitement des minerais consomme des centaines de millions de litres d’eau par an dans cette région durement frappée par la sécheresse. Les nappes phréatiques sont si basses que, dans certains villages voisins de la mine, l’eau doit être coupée plusieurs heures par jour. A l’évidence une telle exploitation ne peut être considérée comme « soutenable ».

      Mineurs sacrifiés

      Les conditions d’extraction à Bou Azzer sont aussi alarmantes qu’illégales. Alors que le recours à l’emploi temporaire pour les mineurs de fond est interdit au Maroc, des centaines d’employés de la mine travaillent en contrat à durée déterminée pour des entreprises de sous-traitance. Ces mineurs travaillent sans protection et ne sont même pas prévenus de l’extrême toxicité des poussières qu’ils inhalent. Les galeries de la mine s’effondrent fréquemment faute d’équipement adéquat, entraînant des décès ou des blessures graves. Les entreprises sous-traitantes ne disposent d’aucune ambulance pour évacuer les blessés, qui sont transportés en camion. Les nombreux mineurs atteints de silicose et de cancer sont licenciés et leurs maladies professionnelles ne sont pas déclarées. Arrivés à la retraite, certains survivent avec une pension de moins de 100 euros par mois et n’ont pas les moyens de soigner les maladies contractées dans les galeries de Bou Azzer.

      Enfin, si la Managem prétend « promouvoir les libertés syndicales et les droits d’association », la situation politique du Maroc aurait dû amener BMW et Renault à s’intéresser de près à l’application de ces droits humains. Il n’existe à Bou Azzer qu’un syndicat aux ordres de la direction, et pour cause ! En 2011-2012, lors de la dernière grande grève sur le site, les tentatives d’implanter une section de la Confédération des travailleurs ont été violemment réprimées. Les mineurs qui occupaient le fond et qui n’exigeaient que l’application du droit du travail ont été passés à tabac, des grévistes ont été torturés et poursuivis pour « entrave au travail », de même que les membres de l’Association marocaine pour les droits humains qui soutenaient leurs revendications.

      Comment, dans ces conditions, les firmes BMW et Renault osent-elles vanter leurs politiques d’achat de « cobalt responsable » ? Au regard ne serait-ce que des lois sur le devoir de vigilance des entreprises, elles auraient dû prendre connaissance de la situation réelle des mineurs et des riverains de Bou Azzer. Elles auraient dû tout mettre en œuvre pour faire cesser cette situation qui découle d’infractions caractérisées au droit du travail, de l’environnement et de la santé publique. Mieux encore, elles devraient renoncer à la production en masse de véhicules qui ne sauraient être ni soutenables ni écologiques. Les luxueuses BMW i7 pèsent 2,5 tonnes et sont équipées de batteries de 700 kg. La justice sociale et l’urgence écologique imposent aux constructeurs automobiles et aux dirigeants de prendre leurs responsabilités : adopter des mesures drastiques pour réduire le poids et le nombre des véhicules qui circulent sur nos routes. La « transition » pseudo-écologique portée par les pouvoirs publics et les milieux économiques ne doit pas ouvrir la voie au greenwashing le plus éhonté, condamnant travailleurs et riverains à des conditions de travail et d’environnement incompatibles avec la santé et la dignité humaines et renforçant des logiques néocoloniales.

      (1) Tous nos remerciements à Benjamin Bergnes, photographe, qui nous cède le droit de disposer de cette photo dans le cadre exclusif de cette tribune.

      Premiers signataires :

      Annie Thébaud-Mony, Association Henri-Pézerat

      Alice Mogwe, présidente de la Fédération internationale pour les droits humains

      Patrick Baudouin, président de la Ligue des droits de l’Homme

      Agnès Golfier, directrice de la Fondation Danielle-Mitterrand

      Lawryn Remaud, Attac France

      Jawad Moustakbal, Attac Maroc/CADTM Maroc

      Hamid Majdi, Jonction pour la défense des droits des travailleurs, Maroc

      Pascale Fouilly, secrétaire générale du syndicat national des mineurs CFDT, assimilés et du personnel du régime minier de sécurité sociale

      Marie Véron, coordinatrice de l’Alliance écologique et sociale (qui réunit les Amis de la Terre, Attac, la Confédération paysanne, FSU, Greenpeace France, Oxfam France et Solidaires)

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      https://reporterre.net/BMW-et-Renault-impliques-dans-un-scandale-ecologique-au-Maroc

      https://reporterre.net/Mines-au-Maroc-la-sinistre-realite-du-cobalt-responsable

      https://reporterre.net/Au-Maroc-une-mine-de-cobalt-empoisonne-les-oasis

      https://www.tagesschau.de/investigativ/ndr-wdr/umweltstandards-bmw-zulieferer-kobalt-marokko-100.html

      https://www.sueddeutsche.de/projekte/artikel/wirtschaft/bou-azzer-arsen-umweltverschmutzung-e-autos-bmw-e972346

      https://www.ndr.de/der_ndr/presse/mitteilungen/NDR-WDR-SZ-Massive-Vorwuerfe-gegen-Zulieferer-von-BMW,pressemeldungndr24278.html

      https://www.br.de/nachrichten/bayern/schmutzige-kobalt-gewinnung-vorwuerfe-gegen-bmw-zulieferer,TvPhd4K

      https://www.dasding.de/newszone/bmw-zulieferer-marokko-verdacht-umwelt-arbeit-kobalt-100.html

      https://hawamich.info/7361

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/131123/scandale-du-cobalt-responsable-de-bmw-et-renault-au-maroc

    • Scandale du cobalt marocain : lancement d’une enquête sur BMW

      À la suite de l’enquête de Reporterre et de médias internationaux sur l’extraction de « cobalt responsable » au Maroc pour les voitures électriques, l’autorité fédérale allemande de contrôle a engagé une procédure contre BMW.

      La mine de cobalt de Bou Azzer, qui alimente la production de batteries de BMW et qui doit fournir Renault à partir de 2025, intoxique les travailleurs et l’environnement. À la suite de nos enquêtes sur ce scandale, l’Office fédéral allemand du contrôle de l’économie et des exportations (Bafa) a ouvert une enquête sur le constructeur automobile BMW. Le gouvernement a confirmé cette information après une question écrite du groupe parlementaire de gauche Die Linke le 25 novembre, selon le quotidien Der Spiegel.

      L’autorité de contrôle pourrait infliger des sanctions à BMW pour avoir enfreint la loi sur le devoir de vigilance des entreprises. Depuis 2020, BMW fait la promotion de son « approvisionnement responsable » au Maroc sans avoir mené d’audit dans cette mine de cobalt et d’arsenic, comme l’a révélé notre investigation menée conjointement avec le Süddeutsche Zeitung, les chaînes allemandes NDR et WDR et le média marocain Hawamich.
      Les mineurs en danger

      Privés de leurs droits syndicaux, les mineurs y travaillent dans des conditions illégales et dangereuses ; les déchets miniers ont gravement pollué les oasis du bassin de l’oued Alougoum au sud de Ouarzazate, où l’eau des puits et les terres présentent des concentrations en arsenic plus de quarante fois supérieures aux seuils.

      En vigueur depuis janvier 2023, la loi allemande sur le devoir de vigilance vise à améliorer le respect des droits humains et de l’environnement dans les chaînes d’approvisionnement mondiales. Comme dans la loi française, les grandes entreprises ont l’obligation de prévenir, d’atténuer ou de mettre fin à d’éventuelles violations.

      Mais les moyens de contrôle de l’autorité fédérale sont ridiculement insuffisants pour faire appliquer cette loi, estime Cornelia Möhring, députée et porte-parole du parti de gauche Die Linke au Bundestag, interviewée par Reporterre : « Le cas de BMW, qui se vante d’exercer sa responsabilité environnementale et sociale “au-delà de ses usines” et qui a préféré ignorer la réalité de cette extraction, est emblématique, dit-elle. Il montre que le volontariat et l’autocontrôle des entreprises n’ont aucun sens dans un monde capitaliste. Face au scandale du cobalt, le gouvernement fédéral doit maintenant faire la preuve de sa crédibilité en ne se laissant pas piétiner par l’une des plus grandes entreprises allemandes. »

      « L’autocontrôle des entreprises n’a aucun sens »

      Le propriétaire de BMW, Stefan Qandt, est le quatrième homme le plus riche d’Allemagne, souligne Cornelia Möhring. En cas d’infraction avérée au devoir de vigilance, les sanctions maximales prévues par l’autorité de contrôle allemande sont une exclusion des marchés publics pour une durée de trois ans ou une amende allant jusqu’à 2 % du chiffre d’affaires annuel du groupe (celui de BMW était de 146 milliards d’euros en 2022). Le constructeur s’est déclaré prêt à « exiger de son fournisseur des contre-mesures immédiates » pour améliorer la situation à Bou Azzer. De son côté, la députée Cornelia Möhring estime qu’« une action en justice à l’encontre de BMW pour publicité mensongère serait bienvenue ».

      Quid de Renault, qui a signé en 2022 un accord avec l’entreprise Managem pour une fourniture en cobalt à partir de 2025 pour les batteries de ses véhicules ? Il a lui aussi fait la promotion de ce « cobalt responsable » sans avoir enquêté sur place. Interrogé par Reporterre, le constructeur automobile assure qu’« un premier audit sur site mené par un organisme tiers indépendant » sera mené « très prochainement », et qu’« en cas de non-respect des normes et engagements ESG [environnementaux, sociaux et de gouvernance] du groupe, des mesures correctives seront prises pour se conformer aux normes ». Reste à savoir quelles « normes » pourraient protéger les travailleurs et l’environnement dans un gisement d’arsenic inévitablement émetteur de grands volumes de déchets toxiques.

      https://reporterre.net/Scandale-du-cobalt-marocain-l-Etat-allemand-va-enqueter-sur-BMW

  • Le #Conseil_d’État annule la #dissolution des #Soulèvements_de_la_Terre mais en valide trois autres

    Si le mouvement écologiste, dans le viseur du gouvernement, a été sauvé par la justice administrative jeudi 9 novembre, celle-ci a confirmé la dissolution de la #Coordination_contre_le_racisme_et_l’islamophobie, du #Groupe_antifasciste_Lyon_et_environs et de l’#Alvarium.

    « Et« Et paf. » C’est derrière ce slogan, sonnant comme une moquerie enfantine, que les Soulèvements de la Terre et leurs soutiens se sont rassemblés devant le Conseil d’État jeudi 9 novembre, en milieu d’après-midi, après l’annulation de leur dissolution. Pendant une heure, les interventions se sont succédé dans une ambiance à la fois réjouie et grave, en présence d’un groupe de policiers déployés devant l’entrée de l’institution.

    Dans sa décision, le Conseil d’État rappelle que les Soulèvements de la Terre n’ont jamais incité à commettre des violences contre des personnes. En revanche, il estime qu’en appelant à la « désobéissance civile » et au « désarmement » des infrastructures portant atteinte à l’environnement, ils provoquent à la « violence contre les biens », l’un des nouveaux critères de dissolution introduits par la loi « séparatisme ». Le groupe se voit ainsi reprocher de « légitimer publiquement » la destruction d’engins de chantiers, de cultures intensives ou la dégradation de sites industriels polluants, dont il revendique la dimension « symbolique ».

    Pour autant, le Conseil d’État conclut qu’au regard « de la portée de ces provocations, mesurée notamment par les effets réels qu’elles ont pu avoir », la dissolution ne serait pas « une mesure adaptée, nécessaire et proportionnée ». Il annule ainsi le décret pris en Conseil des ministres le 21 juin 2023. Le ministère de l’intérieur, à l’initiative de cette dissolution, n’a pas souhaité réagir.

    Dans un communiqué, les Soulèvements de la Terre se réjouissent de leur « victoire » et d’« un sérieux revers pour le ministère de l’intérieur ». Le mouvement considère que cette décision « est porteuse d’espoirs pour la suite », car « en utilisant l’argument de l’absence de proportionnalité entre les actions du mouvement et la violence d’une dissolution, le Conseil d’État confirme l’idée que face au ravage des acteurs privés, de l’agriculture intensive, de l’accaparement de l’eau, nos modes d’actions puissent être considérés comme légitimes ».

    Aïnoha Pascual, avocate des Soulèvements, dit son « soulagement » pour la défense des libertés publiques, notamment de la liberté d’association, mais aussi sa « prudence ». Son confrère Raphaël Kempf, également défenseur du mouvement écologiste, voit dans la décision du Conseil d’État la reconnaissance de la légitimité « d’une dose d’appel à la désobéissance civile et au désarmement ». Mais s’inquiète, lui aussi : la juridiction accepte l’idée que des agissements violents puissent concerner des biens, alors que le code pénal et la Cour européenne des droits de l’homme la restreignent aux personnes. Autre source d’inquiétude : la notion de « provocation » à commettre ces faits n’est pas clairement limitée, et le juge considère qu’elle peut être constituée même si elle n’est qu’implicite.

    Sollicité par Mediapart, Michel Forst, rapporteur de l’Organisation des nations unies (ONU) sur la protection des défenseurs de l’environnement rappelle que cette dissolution « s’inscrivait dans un contexte où l’on constate dans beaucoup de pays d’Europe une érosion extrêmement inquiétante de l’espace civique ». Il cite notamment le cas de l’Allemagne ou de l’Italie, « où des mouvements écologistes et climatiques, qui ont recours à la désobéissance civile non-violente, sont en train d’être catégorisées comme des organisations criminelles par les autorités ». Et ajoute : « Je crois que ce qui inquiète le gouvernement, ce n’est pas tant les supposées provocations à la violence, mais la portée de la voix des Soulèvements de la Terre. C’est le fait qu’ils soient audibles, entendus, écoutés. »

    Au nom du Syndicat des avocats de France (SAF), Lionel Crusoé a critiqué la recrudescence des dissolutions d’associations, qu’elles soient antiracistes, de soutien au peuple palestinien, ou antifascistes. Il y voit la traduction d’une « situation en demi-teinte » pour les libertés publiques, alors que « dans une société démocratique, il doit y avoir un espace de débats, et qu’il est aussi fait de rapports de force ».
    L’Alvarium, un groupe d’extrême droite dissout pour « provocation à la haine »

    S’il a annulé la dissolution des Soulèvements de la Terre, le Conseil d’État a validé celle de trois autres organisations. En ce qui concerne l’Alvarium, qui avait contesté sa dissolution mais ne s’était pas défendu à l’audience du 27 octobre, le Conseil d’État estime que les messages postés par le groupe d’extrême droite angevin incitaient bel et bien à la discrimination et à la haine « envers les personnes étrangères ou les Français issus de l’immigration par leur assimilation à des délinquants ou des criminels, à des islamistes ou des terroristes », comme le lui reproche le gouvernement dans le décret de dissolution du 17 novembre 2021.

    Compte tenu de la « gravité » et de la « récurrence » de ces agissements, le Conseil d’État juge que la dissolution ne constitue pas une mesure disproportionnée. Il note, par ailleurs, les liens de l’Alvarium et de ses membres dirigeants « avec des groupuscules appelant à la discrimination, à la violence ou à la haine contre les étrangers », les personnes d’origine non européenne ou les musulmans. Mais ne dit pas un mot de la « provocation à commettre des violences » invoquée par le gouvernement dans ses motivations.

    L’Alvarium, qui agrégeait des catholiques identitaires et des nationalistes révolutionnaires autour d’un bar associatif, entre 2018 et 2021, s’est fait connaître à Angers pour plusieurs rixes contre des militants d’extrême gauche, certaines ayant été suivies de condamnations. Après sa dissolution, le groupe s’est plus ou moins reconstitué sous le nom de « RED Angers » (Rassemblement des étudiants de droite, dont le local a été fermé par la mairie, à l’été 2023, après de nouvelles bagarres). D’anciens membres de l’Alvarium ont été jugés en août pour des violences contre des manifestants, et pour l’essentiel relaxés.
    La CRI subit le même sort que le CCIF

    Le Conseil d’État a également validé la dissolution de la Coordination contre le racisme et l’islamophobie (CRI), prononcée le 20 octobre 2021. Le gouvernement reprochait à cette association lyonnaise, fondée en 2008, d’instrumentaliser le concept d’islamophobie pour provoquer à la haine antisémite et à la violence, notamment en s’abstenant de modérer les commentaires d’internautes sur ses réseaux sociaux. Le mémoire du ministère de l’intérieur évoquait « une stratégie de communication comparable à celle du CCIF », dissout en 2020 sans que le Conseil d’État ne trouve rien à redire.

    En préambule, la juridiction administrative écarte la « provocation à la violence » reprochée par le ministère de l’intérieur, estimant que les messages cités relèvent d’une critique « véhémente » de l’action de la police ou de réactions « injurieuses ou menaçantes », mais ne constituent pas des appels à la violence.

    Le Conseil d’État se concentre plutôt sur les appels à la haine ou à la discrimination et estime que la CRI a posté des propos « outranciers sur l’actualité nationale et internationale, tendant, y compris explicitement, à imposer l’idée que les pouvoirs publics, la législation, les différentes institutions et autorités nationales ainsi que de nombreux partis politiques et médias seraient systématiquement hostiles aux croyants de religion musulmane et instrumentaliseraient l’antisémitisme pour nuire aux musulmans ». Elle considère aussi que « ces publications ont suscité de nombreux commentaires haineux, antisémites, injurieux et appelant à la vindicte publique, sans que l’association ne tente de les contredire ou de les effacer ».

    Au Conseil d’État, où elle dénonçait un « pur procès d’intention », démentait tout antisémitisme et revendiquait le droit de critiquer des politiques publiques, la CRI avait reçu le soutien de la Ligue des droits de l’homme (LDH) et du Gisti, au nom de la liberté d’association, de réunion et d’expression. S’il se réjouit de la décision pour les Soulèvements de la Terre, l’avocat de la CRI, João Viegas, juge celle qui concerne ses clients « extrêmement décevante » et se réserve la possibilité de saisir la Cour européenne des droits de l’homme.

    « C’est une reprise très évasive et insatisfaisante des griefs du ministère, qui ne reposent sur absolument rien, sauf des commentaires non modérés et des propos parfois à l’emporte-pièce. Si le Conseil d’État accepte l’idée qu’en critiquant l’État on devient anti-français, il reprend à son compte la théorie de la cinquième colonne et des ennemis de l’intérieur. Il ne rectifie pas la jurisprudence déjà désastreuse du CCIF, qui peut servir à couvrir des mesures très répressives de critiques politiques jugées inconvenantes. On parle d’associations qui saisissaient les pouvoirs publics et encourageaient les gens à le faire, les aidaient à déposer plainte et les assistaient en justice. »
    Un groupe antifasciste dissout pour la première fois

    Enfin, le Conseil d’État a confirmé la dissolution du Groupe antifasciste Lyon et environs (Gale), prononcée le 30 mars 2022 et suspendue deux mois plus tard. Le Gale devient donc le premier groupe d’extrême gauche dissout depuis Action directe, en 1982, après une campagne d’attentats et de braquages qui avaient fait plusieurs morts. Le collectif lyonnais, créé après la mort de Clément Méric en 2013 , comptait une trentaine de membres actifs.

    Contrairement à l’Alvarium et à la CRI, dont la dissolution a été confirmée sur le fondement des appels à la haine ou à la discrimination, celle du Gale repose seulement sur la « provocation à commettre des violences contre des personnes ou des biens », c’est-à-dire le nouveau motif créé par la loi « séparatisme ». En l’occurrence ici, les personnes et les biens appartiennent aux adversaires privilégiés du Gale, la police et l’extrême droite, et sont quasiment mis sur le même plan.

    La décision du Conseil d’État relève ainsi que certains messages postés par le Gale sur les réseaux sociaux montrent « des policiers ou des véhicules de police incendiés, recevant des projectiles ou faisant l’objet d’autres agressions ou dégradations, en particulier lors de manifestations, assortis de textes haineux et injurieux à l’encontre de la police nationale, justifiant l’usage de la violence envers les représentants des forces de l’ordre, leurs locaux et leurs véhicules, se réjouissant de telles exactions, voire félicitant leurs auteurs ».

    Elle retient aussi des publications « approuvant et justifiant, au nom de “l’antifascisme”, des violences graves commises à l’encontre de militants d’extrême droite et de leurs biens ». Certains commentaires en réponse peuvent être considérés comme « des appels à la violence voire au meurtre » de militants d’ultradroite, sans faire l’objet d’une « quelconque modération ».

    Les avocats du Gale, Agnès Bouquin et Olivier Forray, dénoncent une décision « très inquiétante » et s’apprêtent à saisir la Cour européenne des droits de l’homme, puisque « le Conseil d’État ne joue plus son rôle de garde-fou des libertés publiques ». À leurs yeux, la décision « raye d’un trait de plume la liberté d’association, d’expression et de réunion, parce que ça disconvient au gouvernement » et empêche « la dénonciation politique de l’action policière et de l’extrême droite ». « La lutte antifasciste ne s’arrête pas à l’étiquette “Gale” et va continuer », affirment les avocats du collectif.

    Une clarification toute relative

    Dans le communiqué de presse qui accompagne ses quatre décisions, le Conseil d’État se félicite de « préciser le mode d’emploi » et les « critères » du nouveau motif de dissolution instauré par la loi « séparatisme », autour de la provocation à la violence (contre les personnes ou les biens). Il considère ainsi avoir posé les bornes d’une dissolution acceptable.

    Ce n’est pourtant pas si clair. D’une part, sa décision sur les Soulèvements de la Terre laisse entendre qu’une petite quantité de « violence contre les biens » ne suffit pas à signer l’arrêt de mort d’une organisation, pour des raisons de proportionnalité. Mais elle laisse ouverte la possibilité de dissoudre un groupe - voire les Soulèvements de la Terre eux-mêmes, plus tard - sur la seule base de dégradations matérielles, si elles étaient plus lourdes, ou plus fréquentes, ou plus chères, sans définir de seuil.

    D’autre part, et uniquement pour les Soulèvements de la Terre, le Conseil d’État établit un lien entre la provocation à des agissements violents et ses effets concrets (ici jugés modestes). Pour le #Gale, la provocation est retenue sans considération pour ses conséquences : les appels à commettre telle ou telle action, à s’en prendre à telle ou telle cible, ont-ils entraîné des passages à l’acte ? Peut-on en attribuer la responsabilité au groupe ?

    Depuis l’arrivée au pouvoir d’Emmanuel Macron, les dissolutions administratives se sont succédé à un rythme inédit sous la Cinquième République. Sous son premier mandat, 29 associations et groupements de fait, pour l’essentiel soupçonnés de proximité avec l’#islamisme (#Baraka_City, le #CCIF) ou liés à l’#extrême_droite (le #Bastion_social, les #Zouaves) ont disparu. Depuis sa réélection, le 24 avril 2022, le gouvernement a prononcé la dissolution de quatre organisations : le #Bloc_Lorrain, #Bordeaux_nationaliste, #Les_Alerteurs et #Civitas. Sans compter les Soulèvements de la Terre, qui célèbrent leur victoire.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/091123/le-conseil-d-etat-annule-la-dissolution-des-soulevements-de-la-terre-mais-
    #justice #antifa #anti-fascisme #SdT

    –—

    voir ce fil de discussion (via @arno) :
    https://seenthis.net/messages/1025608

  • Donc, selon le ministère des affaires étrangères étasunien le nombre de Palestiniens assassinés par l’armée de l’état sioniste est « probablement bien plus élevé que celui fourni » par le Hamas.

    Death toll in Gaza likely ‘higher than is being reported’ : US official | The Hill
    https://thehill.com/policy/international/4301551-gaza-deaths-likely-higher-than-cited-us-official

    A senior Biden administration official said the death toll of Palestinians in the Gaza Strip is likely far higher than the 10,000 number being reported by the health ministry amid Israel’s war against Hamas.

    Barbara Leaf, assistant secretary of State for Near Eastern Affairs, told a House panel those killed more than one month into the war are likely “higher than is being cited.”

    #civils #victimes_civiles #criminels #vitrine_de_la_jungle

  • Entendu parler du Bonus réparation ?
    Vetements, appareil electro-ménagers...
    https://www.huffingtonpost.fr/life/article/le-bonus-reparation-des-vetements-entre-en-vigueur-voici-comment-en-p

    Pour encourager les Français à donner une seconde vie à leurs vêtements, ce « bonus réparation » pourra atteindre 25 € chez un couturier ou un cordonnier. Il est lancé ce 7 novembre.

    Grille tarifaire :
    https://www.toutsurmesfinances.com/argent/a/le-bonus-reparation-une-aide-pour-faire-reparer-ses-appareils-el

    #bonus_réparation

  • Los estibadores de Barcelona deciden “no permitir la actividad” de barcos que envíen armas a Palestina e Israel

    Los estibadores del puerto de Barcelona han decidido “no permitir la actividad de barcos que contengan material bélico”. Así lo han explicado en un comunicado que se ha hecho público tras una asamblea del comité de empresa.

    La Organización de #Estibadores_Portuarios_de_Barcelona (#OEPB), el sindicato mayoritario entre los 1.200 estibadores barceloneses, apunta que han tomado esta decisión para “proteger a la población civil, sea del territorio que sea”.

    Con todo, los trabajadores aseguran un “rechazo absoluto a cualquier forma de violencia” y ven como una “obligación y un compromiso” defender “con vehemencia” la Declaración Universal de los Derechos Humanos. Unos derechos, dicen, que están siendo “violados” en Ucrania, Israel o en el territorio palestino.

    De esta manera, los trabajadores se comprometen a no cargar, descargar ni facilitar las tareas de cualquier buque que contenga armas. Ahora bien, los estibadores no tienen “capacidad para saber de facto que hay en los contenedores”, han afirmado a este diario.

    Los trabajadores se ponen en manos de ONG y entidades de ayuda humanitaria que sí puedan tener conocimiento sobre envíos de armas desde el puerto barcelonés. En esta línea, recuerdan el boicot que ya llevaron a cabo en 2011 en el marco de la guerra de Libia, durante la cual colaboraron con diversas entidades para entorpecer el envío de material bélico y, a su vez, se facilitó el envió de agua y alimentos.

    A pesar de que el Gobierno ha asegurado que no prevé exportar a Israel armas letales que se puedan usar en Gaza, los estibadores son conscientes de que, sólo en 2023, España ha comprado material militar a Israel por valor de 300 millones de euros, unido a otros 700 millones comprometidos en adquisición de armamento para los próximos años.

    Los trabajadores insisten en que con este comunicado no se están posicionado políticamente en el conflicto, simplemente abogan por el alto al fuego y la distribución de ayuda humanitaria. “No es un comunicado político, sólo queremos que se agoten todas las vías de diálogo antes de usar la violencia”.

    Este argumento fue el mismo que estos trabajadores portuarios usaron para negarse a dar servicio a los cruceros en los que la Policía Nacional se alojó durante los días previos al 1 de Octubre. En aquella ocasión también aseguraron que tomaban la decisión “en defensa de los derechos civiles”.

    Con este gesto, los estibadores se suman a otros colectivos de trabajadores portuarios, como los belgas, que también han anunciado que no permitirán el envío de material militar a Israel o Palestina. La del boicot es una estrategia que no es nueva: estibadores de diversos lugares del mundo ya la han llevado a cabo en momentos crudos del conflicto durante los últimos años. Por ejemplo durante el conflicto en la Franja de Gaza de 2008 y 2009, estibadores de Italia, Sudáfrica y Estados Unidos ya se negaron a a manipular cargamentos provenientes de Israel.

    https://www.eldiario.es/catalunya/estibadores-barcelona-deciden-no-permitir-actividad-barcos-envien-armas-pal
    #Barcelone #résistance #armes #armement #Israël #Palestine

    • Espagne : les #dockers du #port de Barcelone refusent de charger les #navires transportant des armes à destination d’Israël

      - « Aucune cause ne justifie la mort de civils », déclare le syndicat des dockers OEPB dans un #communiqué

      Les dockers du port espagnol de Barcelone ont annoncé qu’ils refuseraient de charger ou de décharger des navires transportant des armes à destination d’Israël, à la lumière des attaques de ce pays contre Gaza.

      « En tant que collectif de travailleurs, nous avons l’obligation et l’engagement de respecter et de défendre avec véhémence la Déclaration universelle des droits de l’homme », a déclaré l’OEPB, le seul syndicat représentant quelque 1 200 dockers du port, dans un communiqué.

      « C’est pourquoi nous avons décidé en assemblée de ne pas autoriser les navires contenant du matériel de guerre à opérer dans notre port, dans le seul but de protéger toute population civile », a ajouté le communiqué, notant qu’"aucune cause ne justifie la mort de civils".

      L’OEPB appelle à un cessez-le-feu immédiat et à un règlement pacifique des conflits en cours dans le monde, et notamment du conflit israélo-palestinien.

      Les Nations unies devraient abandonner leur position de complicité, due à l’inaction ou à leur renoncement dans l’exercice de leurs fonctions, a ajouté le communiqué.

      Israël mène, depuis un mois, une offensive aérienne et terrestre contre la Bande de Gaza, à la suite de l’attaque transfrontalière menée par le mouvement de résistance palestinien Hamas le 7 octobre dernier.

      Le ministère palestinien de la Santé a déclaré, mardi, que le bilan des victimes de l’intensification des attaques israéliennes sur la Bande de Gaza depuis le 7 octobre s’élevait à 10 328 morts.

      Quelque 4 237 enfants et 2 719 femmes figurent parmi les victimes de l’agression israélienne, a précisé le porte-parole du ministère, Ashraf al-Qudra, lors d’une conférence de presse.

      Plus de 25 956 autres personnes ont été blessées à la suite des attaques des forces israéliennes sur Gaza, a-t-il ajouté.

      Le nombre de morts israéliens s’élève quant à lui à près de 1 600, selon les chiffres officiels.

      Outre le grand nombre de victimes et les déplacements massifs, les approvisionnements en produits essentiels viennent à manquer pour les 2,3 millions d’habitants de la Bande de Gaza, en raison du siège israélien, qui s’ajoute au blocus imposé par Israël à l’enclave côtière palestinienne.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/espagne-les-dockers-du-port-de-barcelone-refusent-de-charger-les-navires-transportant-des-armes-%C3%A0-destination-disra%C3%ABl/3046909

    • #Genova, Barcellona, #Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di #Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo). Un’iniziativa simile è in atto nel porto di Sidney, in Australia, dove si protesta contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana #Zim. All’appello dei colleghi palestinesi hanno aderito ieri anche i lavoratori dello scalo di Barcellona, annunciando che impediranno “le attività delle navi che portano materiale bellico”. Come lavoratori, si legge nel comunicato degli spagnoli, “difendiamo con veemenza la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo“, aggiungendo che “nessuna causa giustifica il sacrificio dei civili”. In Belgio a rifiutarsi di caricare armi sono da alcune settimane gli addetti aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così come è molto attivo il coordinamento dei sindacati greci #Pame.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di #Tacoma, mossi dal sospetto che la #Cape_Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di #Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense #Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis. Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di #Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana #Elbit_Systems.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/07/genova-barcellona-sidney-i-lavoratori-portuali-si-rifiutano-di-caricare-le-navi-con-le-armi-per-israele/7345757
      #Gênes

    • La logistica di guerra

      Venerdì 10 novembre i lavoratori del porto di Genova hanno lanciato un blocco della logistica di guerra. I porti sono uno snodo fondamentale della circolazione delle armi impiegate in ogni dove.
      A Genova è stato osservato un carico di pannelli per pagode militari che verrà destinato ad una delle navi della compagnia saudita Bahri.
      Dal terminal dei traghetti nelle scorse settimane sono stati caricati camion militari dell’Iveco destinati alla Tunisia, con ogni probabilità destinati alla repressione dei migranti.
      Le organizzazioni operaie palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionalista, alla lotta degli sfruttati contro tutti i padroni a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
      Nel porto di Genova opera una compagnia merci, l’israeliana ZIM, che il 10 novembre gli antimilitaristi puntano a bloccare.
      Inceppare il meccanismo è un obiettivo concreto che salda l’opposizione alla guerra con la lotta alla produzione e circolazione delle armi.
      L’appuntamento per il presidio/picchetto è alle 6 del mattino al varco San Benigno.
      Ne abbiamo parlato con Christian, un lavoratore del porto dell’assemblea contro la guerra e la repressione.

      https://www.rivoluzioneanarchica.it/genova-fermare-la-logistica-di-guerra
      #logistique

    • Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

      Genova, Barcellona, #Oackland, #Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

      “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

      Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

      In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

      Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

      Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

      A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

      https://www.osservatoriorepressione.info/porti-bloccati-linvio-armi-israele

    • Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

      E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della #ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

      Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

      Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

      Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video: https://www.facebook.com/watch/?v=348645561154990) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

      «Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

      Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».
      A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.
      L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

      Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosangela-da-Genova.mp3

      Le interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-due.mp3



      Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosi-da-sede-Zim-Genova.mp3

      Ancora interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-tre.mp3

      Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Corrispondenza-conclusiva-di-Riccardo-Calp-Genova.mp3

      https://www.osservatoriorepressione.info/genova-centinaia-bloccano-porto-linvio-armi-israele
      #camalli

    • Shutting Down the Port of Tacoma

      Since October 7, the Israeli military has killed over 10,000 people in Palestine, almost half of whom were children. In response, people around the world have mobilized in solidarity. Many are seeking ways to proceed from demanding a ceasefire to using direct action to hinder the United States government from channeling arms to Israel. Despite the cold weather on Monday, November 6, several hundred people showed up at the Port of Tacoma in Washington State to block access to a shipping vessel that was scheduled to deliver equipment to the Israeli military.

      In the following text, participants review the history of port blockades in the Puget Sound, share their experience at the protest, and seek to offer inspiration for continued transoceanic solidarity.
      Escalating Resistance

      On Thursday, November 2, demonstrators protesting the bombing and invasion of Gaza blocked a freeway in Durham, North Carolina and shut down 30th Street Station in Philadelphia. Early on Friday, November 3, at the Port of Oakland in California, demonstrators managed to board the United States Ready Reserve Fleet’s MV Cape Orlando, which was scheduled to depart for Tacoma to pick up military equipment bound for Israel. The Cape Orlando is owned by the Department of Transportation, directed by the Department of Defense, and managed and crewed by commercial mariners. After an hours-long standoff, the Coast Guard finally managed to get the protesters off the boat.

      Afterwards, word spread that there would be another protest when the boat arrived in Tacoma. The event was announced by a coalition of national organizations and their local chapters: Falastiniyat (a Palestinian diaspora feminist collective), Samidoun (a national Palestinian prisoner support network), and the Arab Resource & Organizing Center, which had also participated in organizing the protest in Oakland.

      The mobilization in Tacoma was originally scheduled for 2:30 pm on Sunday, November 5, but the organizers changed the time due to updated information about the ship’s arrival, calling for people to show up at 5 am on Monday. Despite fears that the last-minute change would undercut momentum, several hundred demonstrators turned out that morning. The blockade itself consisted of a continual picket at multiple points, bolstered by quite a few drivers who were willing to risk the authorities impounding their cars.

      All of the workers that the ILWU deployed for the day shift were blocked from loading the ship. Stopping the port workers from loading it was widely understood as the goal of the blockade; unfortunately, however, this did not prevent the military cargo from reaching the ship. Acting as scabs, the United States military stepped in to load it, apparently having been snuck into the port on Coast Guard vessels.

      Now that the fog of war is lifting, we can review the events of the day in detail.

      Drawing on Decades of Port Blockades

      The Pacific Northwest has a long history of port shutdowns.

      In 1984, port workers in the International Longshore and Warehouse Union (ILWU) coordinated with anti-Apartheid activists and refused to unload cargo ships from South Africa. Between 2006 and 2009, the Port Militarization Resistance movement repeatedly blockaded the ports of Olympia and Tacoma to protest against the occupation of Iraq and Afghanistan. In 2011 and 2012, participants in Occupy/Decolonize Seattle organized in solidarity with port workers in the ILWU in Longview and shut down the Port of Seattle, among other ports.

      In 2014, demonstrators blockaded the Port of Tacoma using the slogan Block the Boat, singing “Our ports will be blocked to Israel’s ships until Gaza’s ports are free.” One of the participants was the mother of Rachel Corrie, a student who was murdered in Gaza by the Israeli military in 2002 while attempting to prevent them from demolishing the homes of Palestinian families. In 2015, an activist chained herself to a support ship for Royal Dutch Shell’s exploratory oil drilling plans, using the slogan Shell No. In 2021, Block the Boat protesters delayed the unloading of the Israeli-operated ZIM San Diego ship for weeks. The Arab Resource & Organizing Center played a part in organizing the Block the Boat protests.

      Today, the Port of Tacoma appears to be the preferred loading point for military equipment in the region—perhaps because the Port Militarization Resistance successfully shut down logistics at the Port of Olympia, while Tacoma police were able to use enough violent force to keep the Port of Tacoma open for military shipments to Iraq and Afghanistan. The various port blockades fostered years of organizing between ILWU workers, marginalized migrant truck workers, environmentalists, and anti-war activists. New tactics of kayaktivism emerged out of anti-extractivism struggles in Seattle, where seafaring affinity groups were able to outmaneuver both the Coast Guard and the environmental nonprofit organizations that wanted to keep things symbolic. On one occasion, a kayaking group managed to run a Shell vessel aground without being apprehended. Some participants brought reinforced banners to the demonstration on Monday, November 6, 2023, because they remembered how police used force to clear away less-equipped demonstrators during the “Block the Boat” picket at the Port of Seattle in 2021.

      Over the years, these port blockades have inspired other innovations in the genre. In November 2017, demonstrators blockaded the railroad tracks that pass through Olympia.1 At a time when Indigenous water protector and land defense struggles were escalating and locals wanted to act in solidarity, blockading the port seemed prohibitively challenging, so they chose a section of railroad tracks via which fracking proppants were sent to the port. This occupation was arguably more defensible and effective than a port blockade would have been, lasting well over a week. It may indicate a future field for experimentation.
      Gathering at the Port

      The Port of Tacoma and the nearby ICE detention center are located in an industrial area that also houses a police academy. They are only accessible through narrow choke points; in the past, police have taken advantage of these to target and harass protesters. The preceding action at the Port of Oakland took place in a more urban terrain; as protesters prepared for the ship to dock in Tacoma, concerns grew about the various possibilities for repression. Veterans of the Port Militarization Resistance and other logistically-minded individuals compiled lists of considerations to take into account when carrying out an action at this particular port.

      On Monday morning, people showed up with positive energy and reinforced banners. Hundreds of people coordinated to bring in supplies and additional waves of picketers. The plan was to establish a picket line at every of the three entrances into Pier 7. As it turned out, the police preemptively blocked the entrances, sitting in their vehicles behind the Port fence. Demonstrators marched in circles, chanting, while others gathered material with which to create impromptu barricades.

      Other anarchists remained at a distance, standing by to do jail support and advising the participants on security precautions. Others set up at the nearby casino, investigating and squashing rumors in the growing signal groups and helping to link people to the information or communication loops they needed. Whether autonomously or in conversation with the organizers, all of them did their best to contribute to the unfolding action.

      The demonstration successfully accomplished what some had thought might be impossible, preventing the ILWU workers from loading the military shipment. Unexpectedly, this was not enough. Even seasoned longshoremen were surprised that the military could be brought in to act as scabs by loading the ship.

      Could we have focused instead on blocking the equipment from reaching the port in the first place? According to publicly available shift screens, the cargo that was eventually loaded onto the ship had already arrived at the port before the action’s originally planned 2:30 pm start time on November 5. Considering that Sunday afternoon was arguably the earliest that anyone could mobilize a mass action on such short notice, it is not surprising that the idea of blocking the cargo was abandoned in favor of blocking the ILWU workers. Of course, if the information that military supplies were entering the port had circulated earlier, something else might have been possible.

      The organizers chose the approach of blocking the workers in spite of the tension it was bound to cause with the ILWU Local 23. Our contacts in the ILWU describe the Local 23 president as a Zionist; most workers in Local 23 were supposedly against the action, despite respecting the picket.2 The president allegedly went so far as to suggest bringing in ILWU workers on boats, a plan that the military apparently rejected.

      There were rumors that a flotilla of kayaks was organizing to impede the Orlando’s departure the following morning. In the end, a canoe piloted by members of the Puyallup, Nisqually, and other Coast Salish peoples and accompanied by a few kayakers blocked the ship’s path for a short time on November 6, but nothing materialized for November 7.

      This intervention is an important reminder of the ethical and strategic necessity of working with Indigenous groups who know the land and water and preserve a living memory of struggle against colonial violence that includes repeatedly outmaneuvering the United States military.

      The ship departed, but one Stryker Armored Personnel Carrier that was scheduled for work according the ILWU shift screens was not loaded, presumably due to the picket. Given the military work-crew’s inexperience in loading shipping containers, it’s unclear how much of the shipment was completely loaded in the time allotted for the ship, as ports hold to a strict schedule in order not to disrupt capital’s global supply chains.
      Evaluation

      The main organizers received feedback in the course of the protest and adapted their strategy as the situation changed, shifting their communication to articulate what they were trying to do and explaining their choices rather than simply appealing to their authority as an organization or as Palestinians. Nonetheless, some participants have expressed displeasure about how things unfolded. It was difficult to get comprehensive information about what was going on, and this hindered people from making their own decisions and acting autonomously. Some anarchists who were on the ground report that the vessel was still being loaded when the organizers called off the event; others question the choice not to reveal the fact that the military was loading the equipment while the demonstration still had numbers and momentum.

      It is hard to determine to what extent organizers intentionally withheld information. We believe that it is important to offer constructive feedback and principled criticism while resisting the temptation to make assumptions about others’ intentions (or, at worst, to engage in snitch-jacketing, which can undermine efforts to respond to actual infiltration and security breaches in the movement and often contributes to misdiagnosing the problems in play).

      Cooperating with the authorities—especially at the expense of other radicals—is always unacceptable. This is a staple of events dominated by authoritarian organizations. Fortunately, nothing of this kind appears to have occurred during the blockade on November 6. Those on either side of this debate should be careful to resist knee-jerk reactions and to avoid projecting bad intentions onto imagined all-white “adventurists” or repressive “peace police.”

      In that spirit, we will spell out our concern. The organizers simultaneously announced that the weapons had been loaded onto the ship, and at the same time, declared victory. This fosters room for suspicion that the original intention had been to “block the boat” symbolically without actually hampering the weapons shipment, in order to create the impression of achieving a “movement win” without any substantive impact. Such empty victories can deflate movements and momentum, sowing distrust in the hundreds of people who showed up on short notice with the intention of stopping weapons from reaching Israel. It might be better to acknowledge failure, admitting that despite our best efforts, the authorities succeeded in their goal, and affirming that we have to step up our efforts if we want to save lives in Gaza. We need organizers to be honest with us so we know what we are up against.

      It’s important to highlight that ultimately it was the military that loaded the ship, not the ILWU. This move was unprecedented, just like the military spying on demonstrators during the Port Militarization Resistance. But it should not have been unexpected. From now on, we should bear in mind that the military is prepared to intervene directly in the logistics of capitalism.

      This also highlights a weakness in the strategy of blocking a ship by means of a picket line and blockading the streets around the terminal. To have actually stopped the ship, a much more disruptive action would have been called for, potentially including storming the terminal itself and risking police violence and arrests. This isn’t to say that storming the port would have been practical, nor to argue that there is never any reason to blockade the terminal in the way that we did. Rather, the point is that the mechanics of war-capitalism are more pervasive and adaptable than the strategies that people employed to block it in Oakland and Tacoma. Any form of escalation will require more militancy and risk tolerance.

      At the same time, we should be honest about our capabilities, our limits, and the challenges we face. Although many people were prepared to engage in a picket, storming a secured facility involves different considerations and material preparation, and demands a cool-headed assessment of benefits versus consequences. We should not simply blame the organizers for the fact that it did not happen. A powerful enough movement cannot be held back, not even by its leaders.

      Considering that the United States military outmaneuvered the picket strategy—and in view of the grave stakes of what is occurring Palestine—”Why not storm the port?” might be a good starting point for future strategizing. Yet from this point forward, the port is only going to become more and more secure. Another approach would be to pan back from the port, looking for points of intervention outside it. In this regard, the rail blockade in Olympia in 2017 might offer a promising example.

      Likewise, while we should explore ways to resolve differences when we have to work together, we can also look for ways to share information and coordinate while organizing autonomously. We might not be able to reach consensus about what strategy to use, but we can explore where we agree and diverge, acquire and circulate intelligence, and try many different strategies at once.

      The logic and logistics of the ruling order are intertwined all the world over. Israeli weapons helped Azerbaijan invade the Armenian enclave of Nagorno-Karabakh in September. The technologies of surveillance, occupation, and repression, refined from besieging Gaza and fragmenting the West Bank, are deployed along the deadly southern border of the United States. The FBI calls Israeli tech firms when they need to hack into someone’s phone. Everything is connected, from the ports on the Salish Sea to the eastern coast of the Mediterranean.

      Here’s to mutiny in the belly of the empire. If not us, then who? If not now, then when?

      https://pugetsoundanarchists.org/shutting-down-the-port-of-tacoma

    • Des #syndicats du monde entier tentent d’empêcher les livraisons d’armes vers Israël

      #Liège, Gênes, Barcelone, #Melbourne, #Oakland, #Toronto et peut-être bientôt différents ports français… Depuis le début du bombardement de Gaza, des syndicats ont tenté de bloquer des livraisons d’armes vers Israël, rappelant la tradition de lutte internationaliste du syndicalisme. Des initiatives insuffisantes pour entraver l’armement du pays, mais qui ont le mérite de mettre les États exportateurs d’armes face à leurs responsabilités.

      Peut-on compter sur la solidarité internationaliste des syndicats pour mettre fin à l’attaque de Gaza ? C’est en tout cas ce que veut croire la coordination syndicale Workers in Palestine. Composée de dizaines de syndicats palestiniens rassemblant travailleurs agricoles, pharmaciens ou encore enseignants, elle a lancé un appel aux travailleurs du monde entier afin d’entraver l’acheminement de matériel militaire vers Israël.

      « Nous lançons cet appel alors que nous constatons des tentatives visant à interdire et à réduire au silence toute forme de solidarité avec le peuple palestinien. Nous vous demandons de vous exprimer et d’agir face à l’injustice, comme les syndicats l’ont fait historiquement », écrivait-elle le 16 octobre. Dans la foulée, elle appelait à deux journées d’actions internationales les 9 et 10 novembre pour empêcher les livraisons d’armes.

      Tradition de lutte anti-impérialiste du syndicalisme

      En rappelant la tradition internationaliste du syndicalisme, Workers in Palestine inscrit son appel dans l’histoire des luttes syndicales contre les guerres impérialistes et coloniales. Une tradition qui n’est pas étrangère aux syndicats Français. Ainsi, en 1949, une grève organisée par les dockers de la CGT sur le port de Marseille permettait de bloquer plusieurs bateaux destinés à acheminer des armes vers l’Indochine, alors en pleine guerre de décolonisation. Et ce mode d’action n’a pas été oublié depuis. En 2019, les dockers du port de Gênes se sont mis en grève afin de ne pas avoir à charger un navire soupçonné de transporter des armes (françaises) vers l’Arabie Saoudite. « On a aussi fait des actions pendant la guerre en Irak », se remémore Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE, un des syndicats belge qui a récemment refusé de transporter des armes vers Israël.

      Qu’ils répondent consciemment à l’appel de Workers in Palestine ou non, des syndicats et des collectifs citoyens ont organisé des actions sur des lieux stratégiques du commerce d’armes depuis le début des bombardements sur Gaza. Des blocages et des manifestations ont eu lieu sur les ports de Tacoma aux Etat-unis, ou encore à Melbourne, en Australie ou à Toronto au Canada. A Barcelone, des dockers ont déclaré vouloir refuser de charger ou de décharger tout matériel militaire en lien avec les bombardements à Gaza. Nous avons choisi de nous attarder sur quatre de ces initiatives.

      A Gênes, les dockers visent une entreprise de matériel militaire

      « De 2019 à aujourd’hui, nous avons bloqué presque deux fois par an les navires transportant des armes vers des zones de guerre comme le Yémen, le Kurdistan, l’Afrique et Gaza », explique Josè Nivoi, docker génois et syndicaliste à l’Unions Sindicale di Base (USB). C’est dans la continuité de ces actions qu’il s’est mobilisé avec ses collègues et son syndicat, à l’appel de Workers in Palestine. Vendredi 10 novembre, près de 400 personnes ont manifesté devant le port de Gênes pour protester contre l’envoi d’armes en Israël. Les dockers ont ensuite marché vers les locaux de Zim integrated Shipping Service, une entreprise israélienne de transport de marchandises et de matériel militaire.

      Après l’attaque du Hamas le 7 octobre, cette dernière a proposé son aide à Israël afin d’y acheminer du matériel. « Nous avons des camarades qui surveillent les navires et peuvent voir s’il y a des armes à bord », glisse le docker. Il ajoute que cette action s’inscrit dans la tradition, encore très forte à Gênes, des mobilisation anti-fasciste et anti-impérialsites : « Nous avons toujours été solidaires des peuples qui luttent pour l’autodétermination, et la question palestinienne fait partie de ces luttes. Nous sommes des travailleurs internationalistes et c’est pourquoi nous voulons nous battre pour essayer de changer les choses », explique le docker.

      En Angleterre, une usine d’armes bloquée temporairement

      Le même jour, près de 400 syndicalistes ont bloqué l’usine d’armes de l’entreprise BAE, à Rochester en Angleterre. L’usine d’arme fabrique notamment des « systèmes d’interception actif » pour les jet F35, « utilisés actuellement par Israël pour bombarder Gaza », écrivent les syndicats organisateurs de cette mobilisation. Art, culture, éducation, santé, sept organisations syndicales se sont retrouvées sous le mot d’ordre « Travailleurs pour une Palestine libre », répondant également à l’appel des syndicats palestiniens du 16 octobre.

      « L’industrie d’armement britannique, subventionnée par de l’argent public, est impliquée dans les massacres de Palestiniens. Nous sommes ici aujourd’hui pour perturber la machine de guerre israélienne et prendre position contre la complicité de notre gouvernement et nous exhortons les travailleurs de tout le Royaume-Uni à prendre des mesures similaires sur leurs lieux de travail et dans leurs communautés », explique une professeur qui manifestait vendredi à Dorchester.

      En Belgique les syndicats de l’aviation refusent de charger des armes vers Israël

      Si les avions de passagers ne relient plus Israël et la Belgique depuis l’attaque du Hamas, des avions cargos continuent de transporter des armes vers l’État hébreu, selon des syndicats. « On constate même une augmentation des vols cargo depuis Liège vers Tel Aviv », confie Christian Delcourt, porte-parole de l’aéroport de Liège, à la presse belge. Un phénomène qui n’a pas échappé aux travailleurs de ces sites. « Dans le courant du mois d’octobre, des manutentionnaires nous ont informés qu’ils chargeaient des armes dans des avions civils commerciaux. D’habitude, ces cargaisons doivent être transportées par des avions militaires. Mais quoi qu’il en soit, il n’était pas question pour eux de participer à une guerre, particulièrement quand on sait que des civils sont massacrés », explique Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE. Le syndicat chrétien, majoritaire dans ces aéroports, prend alors contact avec trois autres syndicats du secteur pour rédiger un communiqué commun. « Alors qu’un génocide est en cours en Palestine, les travailleurs des différents aéroports de Belgique voient des armes partir vers des zones de guerre », écrivent-ils fin octobre. L’initiative fait en partie mouche : « parmi les deux compagnies aériennes qui effectuent ces livraisons, l’une d’elle les a arrêtées. L’autre, c’est une compagnie israélienne », soutient Didier Lebbe.

      En France, les dockers s’organisent

      En France, si aucun syndicat n’a pour l’instant appelé à des actions sur les lieux de travail, la fédération CGT Ports et docks pourrait bientôt rejoindre le mouvement international. La semaine prochaine, au port du Pirée à Athènes,12 organisations syndicales de dockers et portuaires européennes, membres de l’EDC (European Dockworkers Council )doivent se réunir pour une assemblée générale. « Au niveau français, on va pousser pour obtenir une journée d’arrêt de travail dans tous les ports européens pour manifester notre volonté d’un processus de paix, et dénoncer tous les conflits armés », affirme Tony Hautbois, secrétaire général de la fédération CGT Ports et docks. La possibilité d’un boycott des syndicats sur le transport d’armes vers Israël sera aussi en débat, il pourrait déboucher sur une position commune entre ces syndicats, qui regroupent 20 000 dockers à travers l’Europe.

      D’autres syndicats français ont également mis en avant la nécessité d’une action sur l’outil de travail pour empêcher les livraisons d’armes vers Israël. La fédération Sud-Rail a ainsi appelé à s’exprimer dans la rue « mais aussi avec les méthodes de la lutte des classes, comme la grève ». Sur le réseau social X (ex-Twitter), l’union locale CGT de Guingamp a relayé l’appel de Workers in Palestine.

      Des actions symboliques qui ne pèsent pas réellement sur le conflit…

      Pourtant, même si les initiatives syndicales essaiment, elles ne suffisent pas à entraver la capacité d’armement d’Israël. « Même si la vente de matériel militaire était bloquée en France, cela ne pèserait pas beaucoup. On estime que notre pays vend environ 20 millions d’euros de composants militaires par an à Israël. C’est incomparable avec ce que l’on vend aux Emirats arabes unis, par exemple », explique Patrice Bouveret, cofondateur de l’Observatoire des armements, centre d’étude antimilitariste basé à Lyon. A cela s’ajoutent les ventes de biens dits « à double usage », des composants qui peuvent servir pour produire du matériel militaire, ou non. « Mais il s’agit de matériel d’une telle précision qu’il est bien souvent utilisé uniquement pour les armes », commente Patrice Bouveret. Ces biens représentent une somme évaluée à 34 millions par le ministère de l’économie dans un rapport (voir tableau p. 38) remis aux parlementaires en juin 2023.

      « Le principal fournisseur d’armes à Israël, ce sont les États-Unis : près de 4 milliards d’euros de vente d’armes. Les américains entreposent également des stocks d’armes en Israël dans laquelle cette dernière peut puiser. Enfin, comme Israël a des capacités de production, elle peut importer des composants moins chers, qu’elle pourra elle-même transformer », continue Patrice Bouveret.

      …mais qui mettent les États face à leurs responsabilités

      Ces actions ont toutefois le mérite de poser la question de la responsabilité des États producteurs ou exportateurs d’armes dans les bombardements israéliens sur la bande de Gaza et sa population. Alors que 10 000 personnes sont mortes sous les bombes israéliennes, dont 4000 enfants, les termes « nettoyage ethnique », « génocide », ou « crimes de guerre » commencent à se faire entendre dans les plus hautes instances internationales. « La punition collective infligée par Israël aux civils palestiniens est également un crime de guerre, tout comme l’évacuation forcée illégale de civils », a déclaré Volker Türk, Haut Commissaire des Nations unies pour les réfugiés, le 8 novembre.

      Les accords et traités internationaux sont très clairs sur l’implication de pays tiers dans la commission de crimes de guerre, notamment par le biais de la vente d’armes. Le traité sur le commerce des armes (TCA), interdit tout transfert d’armes qui pourrait être employé dans le cadre de crimes de guerre. Amnesty international a déjà alerté sur l’implication de la France dans la vente d’armes à l’Arabie Saoudite, accusée de bombarder sans distinction la population civile au Yémen, où elle mène une guerre contre les rebelles Houthis, depuis huit ans.

      Quant à savoir si les bombardement israéliens constituent un crime de guerre ou un génocide, c’est à la cour pénale Internationale d’en décider. Une plainte pour « génocide » a déjà été déposée par une centaines de palestiniens, tandis que la France enquête déjà sur de possibles « crimes de guerre » du Hamas. Reporter sans Frontière a aussi déposé une plainte pour « crimes de guerres » après la mort de journalistes palestiniens et israéliens. Enfin, l’ONU enquête actuellement en Israël et en Palestine sur de possibles crimes de guerres, en lien avec l’attaque du Hamas le 7 octobre, ou les bombardements israéliens sur la bande de Gaza depuis un mois.

      https://rapportsdeforce.fr/linternationale/des-syndicats-du-monde-entier-tentent-dempecher-les-livraisons-darme

  • #Titane, #lithium : l’#Europe ouvre « un open bar pour l’#industrie_minière »

    Plutôt que l’instrument d’une transition « verte », la future législation européenne sur les #matières_premières_critiques est une offrande aux industries polluantes, dénonce Laura Verheecke de l’Observatoire des multinationales.

    Reporterre — En quoi consiste la législation européenne sur les matières premières critiques, actuellement discutée ?

    Lora Verheecke — Cette #loi est pensée par la #Commission_européenne pour permettre à l’#Union_européenne (#UE) un approvisionnement plus conséquent et plus sûr en #minerais indispensables pour la transition « verte ». Ces minerais serviront à fabriquer les #capteurs, les #moteurs ou encore les #batteries des #voitures_électroniques, des rotors d’#éoliennes, des #panneaux_photovoltaïques

    En pratique, le texte prévoit un #soutien_financier pour ouvrir des mines hors de l’UE, avec très peu de contraintes pour les entreprises en termes de respect de l’environnement et des populations locales. Il permet aussi d’ouvrir plus de mines en Europe à travers le principe d’« #intérêt_stratégique_supérieur », c’est-à-dire en limitant les motifs d’objection juridique des populations, en reléguant les lois environnementales et démocratiques. Par conséquent, on consultera moins, plus vite et on pourra plus difficilement remettre en cause l’ouverture d’une mine.

    Le processus législatif en cours est très rapide — « le plus rapide de l’histoire » selon certains journalistes — et le brouillon de loi publié en mars par la Commission est aujourd’hui au stade final de discussions et compromis entre le Parlement européen et le Conseil, c’est-à-dire les États membres. Les deux institutions ont déjà arrêté leurs positions.

    Une fois leurs discussions achevées, la loi n’aura plus qu’à être votée par les États membres et le Parlement et elle deviendra loi partout dans l’Union européenne. Si le processus est si rapide, c’est qu’il y a encore peu d’attention publique et médiatique sur ce projet de loi et le soutien est large — mais pas entier — du côté des capitales européennes et des députés européens.

    Dans le rapport Du sang sur le Green Deal publié avec Corporate Europe Observatory (https://multinationales.org/fr/enquetes/du-sang-sur-le-pacte-vert/du-sang-sur-le-green-deal-comment-l-ue-sous-pretexte-d-action-clima), vous montrez comment cette loi, présentée comme favorable au climat, profite largement à l’industrie minière, pourtant « intrinsèquement sale ».

    On peut même affirmer que cette loi s’est transformée en un #open_bar pour l’industrie minière, sale, et celle de l’#armement, mortifère. Elle est le fruit d’un #lobbying soutenu et de longue date, notamment au sein d’un groupe de travail de la Commission, actif depuis les années 80 et qui compte comme membres de nombreuses entreprises telles que #Volkswagen, #Umicore — spécialisé dans la technologie des matériaux —, #Nokia et #Boliden, une entreprise minière suédoise.

    Sous couvert de garantir la #transition_écologique, les conséquences de cette loi seront donc potentiellement désastreuses : une mine est et sera toujours sale. En ouvrir une requiert de grandes quantités de terres, peut entraîner le déplacement de communautés.

    L’extraction des minerais de la terre implique une grande #pollution de l’#eau, des #sols et de l’#air, car cette extraction utilise de nombreux produits chimiques. C’est un réel #danger pour la #biodiversité : en 2019, 79 % de l’extraction mondiale de minerais métalliques provenait de cinq des six biomes les plus riches en espèces, dont les écosystèmes tropicaux forestiers.

    En #France, l’ouverture de la plus grande mine de lithium est prévue pour 2028, dans l’#Allier. Des organisations locales s’y opposent déjà pour éviter la pollution de leurs terres et leurs rivières et le secteur de la mine a été placé sous surveillance comme « site avec une contestation susceptible de se radicaliser à court terme » par les services du ministère de l’Intérieur.

    Parmi les groupes de pression, on retrouve des secteurs de la défense et de l’aéronautique, comme #Airbus ou #Safran. Comment ont-ils influé sur le processus de décision ?

    Airbus et Safran, mais aussi #Dassault, ont rencontré de nombreux décideurs politiques européens. Ils sont également membres de nombreuses associations d’entreprises et paient des agences de lobbying comme #Avisa_Partners pour supplémenter leur lobbying.

    De plus, les portes tournent [1] entre les entreprises de l’armement et l’Union européenne. En 2020, par exemple, l’ex-président de l’Agence européenne de défense est devenu lobbyiste en chef d’Airbus.

    Ces rencontres, études et événements et ces aller-retours leur ont permis de se faire des alliés au sein même de la Commission, au Parlement européen et dans de nombreux États membres. La Commission a même cofinancé une alliance sur les #matériaux_rares — dont #France_Industrie est membre — et créé un groupe d’experts dans lesquels les industriels de l’armement ont voix au chapitre.

    Tout ceci a mené à deux victoires majeures : premièrement, on ouvrira des mines dans le futur à la fois pour les #voitures_électriques, mais aussi pour des #missiles ; et deuxièmement l’extraction de certains minerais sera aidée financièrement et politiquement pour l’industrie de la défense, comme le titane.

    Ce #minerai est aujourd’hui classé stratégique, d’après l’UE, suite au lobbying de l’industrie de la #défense et de l’#aérospatial. Alors même qu’il n’est pas utile à la transition « verte ». Cette catégorisation était une des demandes du PDG de Safran auprès du vice-président de la Commission lors de leur rencontre en mai 2023.

    Pour résumer, la #défense et l’#aéronautique ont tout fait, donc, pour s’assurer que les métaux qui les intéressaient bénéficieraient du même soutien public et des mêmes déréglementations environnementales que ceux qui sont réellement utiles aux transitions climatique et numérique.

    Quel rôle a joué la France et le commissaire français #Thierry_Breton dans ce processus ?

    Les deux ont été des alliés très importants des industriels. M. Breton n’a pas hésité à se faire la voix de l’industrie de l’armement, en clamant notamment en mars 2023, lorsque la Commission européenne dévoilait le projet de loi : « Pas de batteries sans lithium, pas d’éoliennes sans terres rares, pas de munitions sans #tungstène… » Le #lobby européen des entreprises de la défense dira de M. Breton, en novembre 2021 : « Nous sommes très fiers et heureux de vous considérer comme "notre commissaire" ».

    C’est de ce même lobby que la France copiera d’ailleurs une partie de ses positions au Conseil — l’institution au sein de laquelle les États membres débattent. La France a d’ailleurs créé en novembre 2022 un #Observatoire_français_des_ressources_minérales_pour_les_filières_industrielles (#Ofremi), qui a d’ailleurs placé, dès son lancement, les difficultés d’approvisionnement du secteur de la défense au rang de ses priorités. L’Ofremi tient par exemple un discours similaire au PDG de Safran sur le titane.

    Est-il encore possible de sauver ce texte ?

    Ce texte est principalement débattu aujourd’hui dans la bulle européenne d’experts, avec des discussions qui se limitent à des considérations techniques. Il est temps d’avoir une discussion politique pour savoir sous quelles conditions ouvrir des mines et quelle doit être l’utilisation des minerais et terres rares. Nous devons nous poser la question des priorités d’usage. Ouvre-t-on des mines pour des 4x4 électriques lourds, pour des bus électriques ou pour des drones ?

    Il est nécessaire d’avoir une discussion politique sur les conséquences environnementales de notre transition dite verte. Aujourd’hui, ces discussions sont trop absentes du débat public européen. La loi ne mentionne pas la question de notre boulimie de consommation, d’une limite à notre demande en matériaux rares. Sous couvert de #Green_Deal et de transition « verte », on met de côté les nouvelles pollutions, émissions et atteintes aux droits de l’homme à venir.

    Notre chance, ce sont les élections européennes qui approchent : les députés seront de plus en plus réceptifs aux demandes des citoyens européens sur leur position sur ce texte. Certains États membres posent timidement la question de la réduction de notre consommation en minerais et terres rares, comme la Belgique, qui prend la présidence du Conseil en janvier. On peut pousser nos gouvernements à avoir cette position : plutôt qu’ouvrir des mines, ouvrons le débat sur la consommation de minerais.

    https://reporterre.net/Titane-lithium-l-Union-europeenne-ouvre-un-open-bar-pour-l-industrie-min
    #terres_rares #transition_énergétique #énergie #mines #extractivisme

  • Entre Israël et l’Occident, le déni potentiellement génocidaire de la Palestinehttps://www.contretemps.eu/israel-occident-deni-palestine

    Dans ce texte, Ussama Makdisi montre qu’entre Israël et l’Occident, il existe une communauté de langage et un système de vision du monde commun dans lequel l’Arabe, le Palestinien, n’a pas la même valeur ontologique que les peuples du Nord global. Ce racisme est ancré dans l’histoire du colonialisme européen dont le sionisme est une manifestation, et persiste aujourd’hui encore dans les structures sociales des sociétés européennes, américaines du nord et israélienne. Il contient en outre un potentiel génocidaire que l’auteur met ici en exergue et qui se révèle aujourd’hui à Gaza – sous les yeux du monde entier.

    L’amour du sionisme en Occident a toujours eu une relation trouble avec le génocide. Le sionisme en tant qu’idéologie politique trouve ses racines dans une époque où les empires européens justifiaient régulièrement l’extermination de ceux qu’ils considéraient comme des peuples inférieurs et des barbares non civilisés. Sa promesse fondatrice repose sur une sorte de génocide métaphorique.

    Aux racines du sionisme et du philosionisme, un racisme colonial

    L’idée sioniste européenne du XIXe siècle d’implanter et de maintenir un État nationaliste exclusivement juif dans une Palestine multiconfessionnelle est dès le départ fondée sur l’effacement de l’histoire et de l’humanité des Palestiniens autochtones. À la suite de l’Holocauste allemand des Juifs d’Europe, le philosionisme occidental est puissamment renforcé par un sentiment de culpabilité et une sympathie pour l’idée d’un État juif. Aujourd’hui, le philosionisme est arrivé à un point de son cheminement où il endosse l’idée d’un génocide à Gaza au nom de la défense de cet État juif. Depuis que les « diaboliques » guérilleros palestiniens ont quitté le ghetto de Gaza et ont attaqué et tué des soldats, policiers, colons armés et civils israéliens le 7 octobre 2023, le soutien des libéraux et des États occidentaux au « droit d’Israël à se défendre » est écrasant. Ce soutien strident ne faiblit guère alors qu’Israël mène méthodiquement une campagne de terre brûlée depuis près d’un mois, détruisant des dizaines de milliers de maisons, d’hôpitaux, d’écoles, de mosquées, d’églises et de boulangeries et soumettant la population réfugiée palestinienne de Gaza à une punition collective d’une cruauté inouïe. Ce dernier épisode du philosionisme révèle plus clairement que jamais l’impitoyable double standard qui le sous-tend : l’histoire et les vies des juifs Israéliens sont respectées ; l’histoire et les vies des Palestiniens musulmans et chrétiens sont fondamentalement dévalorisées.

    Ce double standard a une longue histoire qui remonte à l’époque où d’enthousiastes théologiens protestants d’Europe et d’Amérique du Nord adhèrent à l’idée du « retour » des Juifs dans la Palestine biblique, sans s’intéresser ni à la population qui existe alors en Palestine ni à sa diversité. Le mouvement nationaliste sioniste qui émerge en Europe centrale et orientale parmi les Juifs ashkénazes européens ignore lui aussi la population palestinienne autochtone. Cela s’explique en partie par la géographie : le sionisme est né non pas au sein des anciennes communautés juives d’Orient, mais dans la lointaine Europe. Ses dirigeants ne sont pas des Juifs arabes ou orientaux, mais des Juifs ashkénazes européens. Quant à son idéologie nationaliste ethnoreligieuse, elle est forgée non pas par le pluralisme du Moyen-Orient de l’époque, mais par les nationalismes raciaux, ethniques et linguistiques concurrents de l’Europe. L’antisémitisme racial qui se manifeste en Europe est étranger aux rythmes des différences religieuses, de la discrimination et de la coexistence si familiers aux divers habitants de l’Orient islamique ottoman.

    En partie au moins, la condescendance du sionisme européen vis-à-vis de l’autochtone est fondée sur le racisme. Car le projet sioniste se développe comme un projet colonial. Alors que les principaux sionistes sont aux prises avec l’antisémitisme racial de l’Europe, ils expriment, partagent, contribuent et font circuler de nombreux tropes racistes fondamentaux de la culture occidentale du XIXe siècle : les terres des peuples autochtones seraient largement « vides » et donc ouvertes à la colonisation, le colonialisme serait le salut et l’expulsion des peuples autochtones serait inévitable ou nécessaire parce que ces peuples seraient racialement et mentalement inférieurs, non civilisés et donc sans valeur historique ou éthique. En ce sens, l’un des slogans du mouvement sioniste est « Une terre sans peuple pour un peuple sans terre »...

  • Digression sur les boomers - [A Contretemps, Bulletin bibliographique]
    http://acontretemps.org/spip.php?article1018

    Il y a quelque temps déjà, sur le parvis du théâtre de la Commune (Aubervilliers), un soir de printemps, quelques cultureux à la conscience écologiste aiguisée dissertaient, en bande, sur l’état du monde. Vague, polie, morale, la parole « bienveillante » y circulait sans que personne, à aucun moment, ne haussât jamais le ton. Le groupe était jeune, avenant, inclusif et probablement intersectionnel. Accompagnée d’une amie qui, par son âge et ses activités, aurait pu en faire partie, et mu par curiosité, je m’agrégeai à ce cercle, en me contentant d’écouter, quand, du haut de sa quarantaine distinguée, une militante de l’écologie gnangnan que je voyais pour la première fois de ma vie, s’adressa à moi et s’exprima en ces termes : « C’est votre génération, Monsieur, celle des boomers, qui a fait de ce monde dont vous avez profité cette terre brulée dont nous avons héritée. » Au vu de mon rapport plutôt distant depuis toujours au productivisme et à la consommation, la visée généralisante d’une telle accusation me fit sourire, mais jaune. Ma réplique cassa, pour sûr, la bienveillante ambiance de ce cénacle bobo : « Je pourrais vous proposer, Madame la Procureure, de comparer nos bilans carbone en sachant d’avance que, même si le vôtre a du retard sur le mien, je suis sûr que vous le dépassez déjà, et de loin. Quant au poids de culpabilité dont vous me chargez sans me connaître, sachez qu’il ne prouve que votre arrogante bêtise ! » Un léger brouhaha de désapprobation conféra enfin à cette assemblée de bien-pensants un peu de vie.

    #boomers #crise_climatique #écologie

    • « Sais-tu, camarade, que la production annuelle du plastique, qui est une catastrophe mondiale, est passée de 25 millions de tonnes en 1968 à 150 millions en 1998, soit durant l’âge adulte des boomers, puis de 200 millions en 2002 à 360 millions en 2020. La production et la pollution est donc quinze fois plus importante à l’époque où les gens nés en 2000 ont vingt ans qu’à celle où les gens nés en 1948 avaient le même âge. Même rapporté à l’accroissement de la population, ce rapport prouve que les individus consomment en moyenne beaucoup plus de plastique aujourd’hui qu’il y a soixante ans. Si l’on s’en tient à l’Europe, l’accroissement est aussi spectaculaire. En moyenne un millénium de vingt-trois ans consomme beaucoup plus de plastique qu’un boomer qui avait le même âge en 1968. Ce qui prouve, in fine, qu’une analyse qui mettrait toute une génération statistisée dans un même sac d’opprobre est absurde. De même, entre 2005 et 2020, la consommation de textile a doublé. En Europe on achète en moyenne 25 kg de vêtements par an et par personne ! On pourra arguer que la part de la consommation de textile a baissé dans le budget des ménages depuis 1960, mais au vu de la chute des prix, cela n’enlève rien à l’accroissement de la quantité de vêtements. Le problème est que le textile est un gros pollueur et un gros consommateur d’eau. Le développement de la seconde main et des livraisons commandées via Internet, et donc avec des transports en sus, ne fait que déplacer les problèmes environnementaux. La surconsommation de textile neuf ou d’occasion est un défi culturel, en somme. Il faut faire comme moi : inverser les valeurs et valoriser le vieux, le démodé ou le rapiécé plutôt que le neuf. Pas dur, vois-tu comme je suis beau pour soixante-dix-huit balais ? »

      Le Temps du Plastique.
      https://www.youtube.com/watch?v=hYYetNlz-fw

      #morale #jeunisme #consommation #surconsommation

  • La chaîne Al-Jazeera, une arme d’information massive au service du Hamas – Libération
    https://www.liberation.fr/international/la-chaine-al-jazeera-une-arme-dinformation-massive-au-service-du-hamas-20

    Vous aviez aimé l’égérie des rebelles syriens ? Elle se remet au service de l’information "sans parti-pris" en dénonçant l’effroyable Al-Jazeera.

    Le parti pris d’Al-Jazeera pour les Gazaouis qui « tombent en martyrs » sous les frappes de « l’agresseur » ou de « l’occupant israélien » est manifeste et assumé. La chaîne utilise systématiquement la terminologie de « la résistance » pour
    désigner « les groupes armés » qui combattent Israël. Leurs opérations contre « les forces d’invasion » à Gaza sont saluées, et souvent magnifiées ces derniers jours, depuis l’offensive terrestre de Tsahal à l’intérieur de l’enclave palestinienne

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Hala_Kodmani
    En mai 2011, elle fonde et préside l’association française Souria Houria (Syrie Liberté)4,5 qui milite pour « la démocratie, les libertés et les droits de l’homme en Syrie », en soutien à la révolution contre la dictature de Bachar el-Assad, et vient en aide aux Syriens qui se réfugient en France6,7,8. Elle est la sœur de la chercheuse Bassma Kodmani, cofondatrice en 2011 du Conseil national syrien (organe de l’opposition syrienne basé à Paris)9.

    En 2013, elle reçoit le prix de l’Association de la presse diplomatique française (l’APDF) pour ses reportages, notamment à Raqqa, ainsi que pour sa couverture globale de la situation en Syrie.

    • Soft power
      Al-Jazeera, une chaîne d’information massive au service des Gazaouis… et du Hamas

      Assumant un biais #pro-palestinien et glorifiant le mouvement islamiste, la première chaîne satellitaire du monde arabe dispose de moyens considérables grâce à ses financements qataris. Et reste l’un des seuls médias internationaux à informer en direct depuis la bande de #Gaza.

      Le cratère géant du camp de #Jabalia, causé par le pilonnage de l’aviation et de l’artillerie israéliennes mardi 31 octobre, n’a pas quitté l’écran d’#Al-Jazeera pendant plus de quarante-huit heures. Une caméra sur drone est restée braquée sur les gravats et la poussière grise des maisons effondrées du plus grand camp de réfugiés de Gaza. Des zooms montrent les équipes de secouristes aidées par les habitants qui fouillent et extraient des décombres des corps, morts ou presque morts. Sur place, le correspondant de la chaîne de télévision insiste sur « la sauvagerie de l’attaque israélienne », détaille le nombre de logements détruits, d’habitants sans abri, de civils tués ou blessés.

      Comme chaque jour depuis le 7 octobre, et à chacun des pics de violence, Al-Jazeera ne fait pas qu’informer, en direct de Gaza, ses dizaines de millions de téléspectateurs à travers le monde arabe. Elle les emmène dans l’enclave sous le feu pour leur faire vivre au plus près le quotidien de la population palestinienne en détresse. Le sort de chaque quartier, camp de réfugiés ou hôpital en péril de Gaza leur est rendu familier par la dizaine de correspondants de la chaîne dans l’enclave.

      L’impact de cette couverture massive, expansive et surtout exclusive [on se demande pourquoi, ndc] d’Al-Jazeera à l’intérieur de la bande de Gaza se mesure à la mobilisation du monde arabe contre les souffrances infligées par #Israël aux #Palestiniens. La colère de « la rue arabe » – qui a manifesté spontanément dans les différentes villes de la région aussitôt après avoir vu les images de la frappe de l’#hôpital Al-Ahli de Gaza, le 17 octobre, ou plus récemment lors du #black-out imposé le 27 octobre, juste avant l’incursion terrestre de l’armée israélienne – confirme l’influence déterminante de la première chaîne satellitaire arabe.

      [passagé cité supra]
      L’opération « Déluge d’Al-Aqsa » des Brigades Al-Qassam, la branche armée du Hamas, le #7_octobre, a été glorifiée par la chaîne. Al-Jazeera a rapporté le nombre d’Israéliens tués en citant des sources israéliennes, sans jamais préciser si les victimes étaient des militaires ou des #civils. Dans les jours suivant l’attaque, la chaîne arabophone a complètement occulté les atrocités et massacres commis par les assaillants sur les familles à la frontière de Gaza. Seule Al-Jazeera English, la chaîne anglophone du groupe, a rapporté « les scènes d’horreur » dans le kibboutz de Kfar Aza, où son correspondant s’est rendu lors d’une visite de presse organisée par l’armée israélienne.

      Le Hamas, son orientation, ses positions, ses agissements comme la légitimité de son gouvernement à Gaza, ne suscitent aucune réserve de la part d’Al-Jazeera. Les déclarations des différents responsables du mouvement à Gaza et ailleurs, à Beyrouth ou Doha, sont transmises en direct à l’antenne. Tous les communiqués du mouvement, comme ceux des Brigades Al-Qassam, sont cités dans le direct. Le bilan du nombre de victimes à Gaza est sourcé « ministère de la Santé de Gaza » et validé officiellement. [bien que sous évalué ?]

      « Calmer le ton »

      « Al-Jazeera est financée entièrement ou partiellement par le gouvernement du Qatar. » En France, cet avertissement s’affiche en bandeau sur le direct de la chaîne, dans la version arabe comme anglophone du site. Récemment, le secrétaire d’Etat américain, Antony Blinken, aurait demandé au Premier ministre qatari de « calmer le ton de la rhétorique d’Al-Jazeera sur la guerre à Gaza », révélait le site d’information américain Axios. Considérée comme un instrument du soft power du #Qatar, la chaîne clame l’autonomie de sa ligne éditoriale.

      Accusant Al-Jazeera d’être un instrument de propagande du #Hamas, le gouvernement israélien cherche de son côté à supprimer l’accès à la chaîne d’information. En attendant, les correspondants de la chaîne à Gaza auraient été menacés ou délibérément visés ces derniers jours par les forces israéliennes. La famille de Wael al-Dahdouh, principal correspondant à Gaza, a été victime d’un bombardement israélien mercredi 25 octobre dans le camp de Nuseirat, dans le centre de l’enclave palestinienne où elle s’était réfugiée. La femme et deux des enfants du journaliste vedette d’Al-Jazeera ont été tués. Deux jours plus tard, Youmna El-Sayed, correspondante de la chaîne anglophone à Gaza, a dû évacuer son appartement, après un avertissement d’une frappe imminente de l’armée israélienne.

      La fureur israélienne contre Al-Jazeera ne date pas de l’attaque du 7 octobre. L’année dernière, la journaliste star d’Al-Jazeera en Cisjordanie, Shireen Abu Akleh, avait été tuée aux abords du camp de Jénine par une balle que l’armée israélienne a reconnu venir de ses armes, tout en niant l’avoir visée. En 2021, lors d’une précédente campagne contre Gaza, l’armée israélienne avait frappé l’immeuble abritant les locaux de la chaîne satellitaire et de l’agence de presse américaine #Associated_Press. L’immeuble s’était effondré, sans faire de victime.

      Moyens techniques considérables

      La bande de Gaza étant inaccessible à la presse étrangère depuis le 7 octobre, Al-Jazeera est quasiment la seule source d’#images et d’informations en direct sur le conflit en cours. Depuis sa création, en 1996, la chaîne a prospéré en se démarquant dans son traitement des #guerres. Au début de l’invasion de l’Ukraine, elle disposait de #correspondants arabophones dans plusieurs villes ukrainiennes et russes. Et depuis leur plateau, les #journalistes jonglent avec maîtrise entre les reporters et les invités qu’ils interrogent. A leur disposition, une mosaïque de six à huit écrans diffuse en direct des correspondants montrant des manifestations ou recueillant des réactions dans plusieurs villes en Cisjordanie, en Israël et dans la région.

      A Gaza, avec plusieurs journalistes sur le ­terrain et des moyens techniques considérables, la chaîne a continué à diffuser, même pendant les quarante heures de black-out total imposé à l’enclave par l’armée israélienne. « S’il vous plaît, si vous nous entendez, dites au monde que nous sommes isolés maintenant à Gaza », lançait, vendredi 27 octobre, le correspondant de la chaîne en direct depuis la ville de Khan Younès, dans le sud de la bande de Gaza. Intervenant en duplex grâce à une connexion satellite depuis l’enclave privée d’électricité, le journaliste n’avait pas de retour pour savoir s’il était entendu. Sa voix arrivait cependant clairement dans le studio d’Al-Jazeera à Doha.
      #Hala_Kodmani

      #gazaouis #bombardemnts_massifs #opération_terrestre #média #propagande #contre_propagande #presse #information

    • Noter que le titre d’origine était bien :
      La chaîne Al-Jazeera, une arme d’information massive au service du Hamas
      (ce que l’on retrouve dans l’URL de l’article), et que désormais le titre est devenu :
      Soft power - Al-Jazeera, une chaîne d’information massive au service des Gazaouis… et du Hamas
      En revanche je n’arrive pas à voir si le surtitre « Softpower » était dans la version précédente.

      –—

      Je redemande parce que j’oublie à chaque fois : il existait un site qui sauvegardait les versions successives des articles de presse, pour voir ce qui avait été modifié (discrètement ou pas). Ou bien c’était un script à installer chez soi ? Je me souviens plus.

  • Salim Laïbi - LLP sur X :
    Pour #Boujenah comme personne n’a rien dit pour le massacre de Hiroshima (c’est vrai qu’à l’époque X, Telegram, FB... cartonnaient), du coup il faut fermer les yeux pour #Gaza ! Et ça c’est le discours d’un artiste humoriste de gooooôche ! https://t.co/6p28YENJyQ" / X
    https://twitter.com/LLP_Le_Vrai/status/1721141377474384244

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • Un million de saumons infectés pourraient servir à l’alimentation animale en Islande
    https://www.courrierinternational.com/video/video-un-million-de-saumons-infectes-pourraient-servir-a-l-al

    “The Guardian” révèle des images exclusives de milliers de saumons malades, mourants ou déjà morts, dans un élevage en Islande. Euthanasiés, certains seront destinés à l’alimentation animale.

    Courrier international
    Publié le 3 novembre 2023

    Des dizaines de saumons flottent à la surface, certains nagent, d’autres sont morts, sur des images tournées par des militants à l’aide de drones. Comme l’explique The Guardian, “un grand nombre de poissons doivent être abattus prématurément” à Talknafjordur, dans les Westfjords, en Islande. Dans les deux fermes d’élevage d’Arctic Fish, contrôlée par la société Mowi, et d’Arnarlax, dirigée par la société SalMar, 12 enclos ont été identifiés comme infectés par le pou du saumon (Lepeophtheirus salmonis), soit près de 1 million de poissons.

    Le pou du saumon est un parasite qui se nourrit de la peau du poisson, provoquant des plaies ouvertes qui stressent et affaiblissent le système immunitaire de celui-ci. Dans les cas extrêmes, il peut provoquer une mortalité massive.

    Abattre “humainement” les saumons malades

    Les entreprises ont donc “pris la décision d’abattre humainement les saumons concernés, dont la consommation est interdite aux êtres humains”, ironise le quotidien britannique. Un navire spécialisé, le Hordafor III, a été envoyé de Norvège pour les euthanasier. Seul problème, tous ne seraient pas forcément infectés, selon l’entreprise. Ainsi, “une fois abattu, le poisson serait transformé en aliment pour animaux”, a affirmé Arnarlax. Une possibilité qui pose des questions sur les conséquences sanitaires potentielles.
    Dans un communiqué de presse publié le 27 octobre, l’une des deux fermes d’élevage, Arnarlax, a publiquement fait état du problème auquel elle était confrontée et a affirmé agir rapidement, rapporte IntraFish, média norvégien spécialisé dans l’industrie des produits de la mer. De son côté, la seconde ferme, Artic Fish, s’est exprimée dans un message publié sur Facebook : “Les conditions à Talknafjordur se sont rapidement détériorées, et il nous faut malheureusement du temps pour retirer le poisson touché.” La compagnie a affirmé s’efforcer de retirer le poisson le plus rapidement possible pour pouvoir assurer sa transformation en aliment pour animaux.

    “Une invasion jamais observée en Islande”

    Berglind Helga Bergsdottir, spécialiste des maladies des poissons au Mast (l’autorité alimentaire et vétérinaire islandaise), aurait déclaré, selon le Guardian, qu’“on n’avait jamais observé auparavant en Islande une invasion de poux aussi importante”. L’experte explique que le Mast enquête sur la cause de l’incident. Les autorités auraient autorisé l’utilisation d’un insecticide, mais celui-ci n’aurait pas tué tous les poux et l’épidémie aurait pris de l’ampleur.

    “En l’espace de deux ou trois semaines, le nombre de poux a considérablement augmenté.”

    L’agence envisage donc une potentielle mutation du pou du saumon. “Nous savons que les poux savent très bien s’adapter et que l’une des méthodes qu’ils utilisent pour cela est la mutation, en particulier avec les médicaments”, a détaillé la spécialiste au Guardian.

    Courrier international

    #saumon #pou_du_saumon #élevage_intensif #bon_appétit

  • “This avalanche of human suffering is unprecedented in modern times”

    Dr #Tanya_Haj-Hassan, a pediatric intensive care doctor for Doctors Without Borders appeared on BBC News from Jordan to discuss the dire conditions in Gaza

    1’47: “There is an acronym in the Gaza Strip right now. (...) There is an acronym that is unique to the Gaza Strip , and it’s called WCNSF ’Wounded child, no surviving family’. It is used not infrequently in the last three weeks. It was coined in the last three weeks.”

    https://twitter.com/MiddleEastEye/status/1720646905456144438

    #témoignage #médecin #Gaza #Israël #Palestine #conflit #bombardement #MSF #Médecins_sans_frontières #Wounded_child_no_surviving_family (#WCNSF) #acronyme

  • #Ta-Nehisi_Coates Speaks Out Against Israel’s “Segregationist Apartheid Regime” After West Bank Visit

    As pressure builds for a ceasefire after 27 days of Israel’s bombardment of Gaza, author and journalist Ta-Nehisi Coates joins us in a broadcast exclusive interview to discuss his journey to Palestine and Israel and learning about the connection between the struggle of African Americans and Palestinians. “The most shocking thing about my time over there was how uncomplicated it actually is,” says Coates, who calls segregation in Palestine and Israel “evil.” “There’s no way for me, as an African American, to come back and stand before you, to witness segregation and not say anything about it.” Coates acknowledges the suppression of those advocating for Palestinian rights but says this is not new for Black writers and journalists. “I have to measure my fear against the misery that I saw.”

    https://www.democracynow.org/2023/11/2/ta_nehisi_coates

    extraits avec sous-titres en français ici :

    "J’ai passé 10 jours en Palestine, dans les #territoires_occupés et en Israël proprement dit. (...) Je pense que ce qui m’a le plus choqué, c’est que dans tous les éditoriaux ou reportages que j’ai lus sur Israël et sur le conflit avec les Palestiniens, il y a un mot qui revient tout le temps et c’est celui de « #complexité ». (...) Je m’attendais à une situation dans laquelle il était difficile de discerner le bien et le mal, difficile de comprendre la dimension morale, difficile de comprendre le conflit. Et ce qui était peut-être le plus choquant, c’est que j’ai immédiatement compris ce qui se passe là-bas. Le meilleur exemple qui me vient à l’esprit est probablement le deuxième jour, lorsque nous sommes allés à Hébron et que la réalité de l’#occupation est devenue évidente. Nous sortions de Jérusalem-Est en voiture. J’étais avec PalFest, et nous sortions de Jérusalem-Est pour aller en Cisjordanie. Et vous pouviez voir les colonies, ils nous les montraient du doigt. Je me suis soudain rendu compte que je me trouvais dans une région du monde où certaines personnes pouvaient voter et d’autres non. Et cela m’était évidemment très familier. Je suis arrivé à Hébron, notre groupe d’écrivains est sorti, et un guide palestinien nous a fait visiter la ville. Nous sommes arrivés dans une rue et il nous a dit : ’Je ne peux pas marcher dans cette rue. Si vous voulez continuer, vous devez continuer sans moi’. (...) Hébron est très pauvre. (...) Son marché était fermé, mais il y a quelques vendeurs que je voulais soutenir. Je marchais pour atteindre le vendeur, et j’ai été arrêté à un #checkpoint. Il y a des checkpoints dans toute la ville, dans toute la Cisjordanie. Votre #liberté_de_circulation est totalement restreinte, et la liberté de circulation des Palestiniens est totalement restreinte. Et comme je me dirigeais vers le checkpoint, un garde israélien en est sorti, probablement de l’âge de mon fils. Et il m’a dit : ’Quelle est ta #religion, l’ami ?’ Et j’ai répondu : ’Je ne suis pas vraiment religieux’. (...) Et il m’a apparu clairement que si je ne professais pas ma religion, et la bonne religion, je n’allais pas être autorisé à passer. Il m’a dit : ’D’accord, quelle était la religion de tes parents ?’ J’ai répondu qu’ils n’étaient pas très religieux non plus. Il a dit : ’Quelle était la religion de tes grand-parents ?’. J’ai répondu : ’Ma grande-mère était chrétienne’. Et il m’a laissé passer. J’ai alors compris très clairement ce qui se passait là-bas. Et je dois dire que cela m’était assez familier. J’étais dans un territoire où votre #mobilité était entravée, où votre droit de vote est entravé, où votre droit à l’eau est entravé, où votre droit au logement est entravé, et tout cela sur la base de l’#appartenance_ethnique. Et cela m’a semblé extrêmement familier. Et donc, ce qui m’a plus choqué pendant mon séjour là-bas, c’est de voir à quel point, en fait, les choses ne sont pas compliquées. Je ne dis pas que les détails ne sont pas compliqués, l’histoire est toujours compliquée. Les événements du présents sont toujours compliqués, mais la façon dont les médias occidentaux en rendent compte donnent l’impression qu’il faut un doctorat en études moyen-orientales pour comprendre la #moralité élémentaires du maintien d’un peuple dans une situation dans laquelle ne dispose pas de #droits_fondamentaux, y compris le droit que nous chérissons plus, le droit de suffrage, le droit de vote. Et déclarer ensuite que cet Etat est une #démocratie. (...) C’est en effet assez familier pour ceux qui d’entre nous connaissent l’histoire afro-américaine.
    (...)
    Martin Luther King a passé sa vie à lutter contre la ségrégation. Israël est une société marquée par la ségrégation. Les territoires occupés sont marqués par la ségrégation. (...) Il y a des panneaux pour indiquer où certaines personnes peuvent aller. Il y a des #plaques_d'immatriculation différentes qui interdisent à certaines personnes d’aller à certains endroits. Les autorités vous diront qu’il s’agit d’une #mesure_de_sécurité. Mais si vous revenez à l’#histoire de #Jim_Crow, dans ce pays, elles vous diront exactement la même chose. Les gens ont toujours de bonnes raisons, en dehors de ’je déteste’ et ’je ne t’aime pas’ pour justifier leur droit d’imposer un #régime_oppressif à d’autres personnes. (...)
    J’ai grandi dans une époque et dans un endroit où je ne comprenais pas vraiment l’éthique de la #non-violence. Et par éthique, j’entends que la #violence en elle-même est corruptrice, qu’elle corrompt l’âme. Et je n’avais pas vraiment compris cela. Si je suis vraiment honnête avec vous, autant je voyais ma relation avec le peuple palestinien, et autant la nature de cette relation était claire, il était également clair qu’il y avait une sorte de relation avec le peuple israélien, et ce n’était pas une relation que j’appréciais particulièrement. Parce que je comprenais la #rage qui naît d’un passé d’#oppression. Je comprenais la #colère. Je comprenais le sentiment d’#humiliation que l’on ressent lorsque des personnes vous soumettent à une oppression multiple, à un #génocide, et que les gens détournent le regard. Je suis la descendance de 250 ans d’#esclavage, je viens d’un peuple où la violence sexuelle et le viol sont inscrits dans nos os et dans notre ADN. Et je comprends comment, lorsque vous avez l’impression que le monde vous a tourné le dos, vous pouvez alors tourner le dos à l’éthique du monde. Mais j’ai également compris à quel point cela peut être corrupteur. J’écoutais hier soir (...) être interviewé et le journaliste lui a demandé combien d’enfants, combien de personnes devaient être tués pour justifier cette opération. Est-ce qu’il y a un seuil au nombre de personnes tuées au-delà duquel on se dit : ’C’est trop, ça n’est pas possible, ça ne justifie pas’. Et ce membre du congrès ne pouvait pas donner de chiffre. Et je me suis dit que cet homme avait été corrompu. Cet homme s’est perdu. Il s’est perdu dans l’humiliation. Il s’est perdu dans la #vengeance. Il s’est perdu dans la violence. J’entends toujours ce terme répété encore et encore, le ’#droit_de_se_défendre'. Et le #droit_à_la_dignité ? Et le droit à la #moralité ? Et le droit d’être capable de dormir la nuit ? Parce que je sais, c’est que si j’étais complice, et je le suis, de #bombardements d’enfants, de bombardements de camps de réfugiés, peu importe qui s’y trouve, j’aurais du mal à dormir la nuit. Et je m’inquiète pour l’âme des gens qui peuvent faire cela et qui peuvent dormir la nuit.

    https://twitter.com/caissesdegreve/status/1720224934964699412

    #à_écouter #à_lire #Israël #Palestine #apartheid #Cisjordanie #visite #ségrégation #apartheid #droit_de_vote