• Comment le Hamas a imposé son hégémonie sur le mouvement national palestinien
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/19/comment-le-hamas-a-impose-son-hegemonie-sur-le-mouvement-national-palestinie

    Les massacres perpétrés le 7 octobre constituent l’aboutissement d’un long processus scandé par trois inflexions majeures. D’abord tourné vers la prédication, le mouvement islamiste s’est imposé sur l’échiquier politique palestinien. Depuis le 7 octobre, son aile militaire est aux commandes.

    (...) « Le Hamas a cette capacité de s’adapter à la situation », juge la politiste. En atteste sa réaction face au succès populaire de la « marche du retour », le 30 mars 2018, qui voit des milliers de Palestiniens se rassembler pacifiquement contre le blocus. Pris au dépourvu, le Hamas finit par encadrer les cortèges qui se heurtent aux tirs israéliens, au prix de centaines de victimes, près de la clôture de sécurité enserrant Gaza. L’échec de cette mobilisation referme cette option d’action politique.

    [...]
    Le 7 octobre porte la marque des deux chefs de guerre, Yahya Sinouar et Mohammed Deif, mais la barbarie de l’assaut a déconcerté les spécialistes. « Il s’est passé quelque chose de nouveau. Jusqu’à présent, le Hamas ne tolérait pas de tels agissements », assure Laetitia Bucaille. Il faudra sans doute attendre longtemps avant de connaître l’ensemble du processus de décision qui a mené à cette déflagration.

    https://archive.ph/PRZPJ

    aux origines du Hamas
    https://seenthis.net/messages/1021663

    #Hamas #Brigades_Ezzedine_Al-Qassam #histoire

  • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

    A margine del trilaterale a Trieste il 2 novembre scorso, il ministro snocciola i numeri dei respingimenti dopo la sospensione di Schengen. E annuncia: quando i controlli alle frontiere finiranno, il governo vuole istituire “brigate miste” (di polizia). Dove? Con chi? E con quale mandato?

    Nell’edizione del 20 ottobre dell’Unità avevo esaminato la misura di ripristino dei controlli alle frontiere interne deciso dall’Italia al confine italo-sloveno mettendo in rilievo come tale decisione fosse in contrasto con quanto disposto dal Codice Schengen. Su questo il Codice prevede la possibilità di un temporaneo ripristino dei controlli alle frontiere interne solo come extrema ratio in caso di minaccia all’ordine pubblico e che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna” (Codice Schengen, considerando 26). Ben presto le dichiarazioni del Governo italiano hanno reso evidente come dietro questo ripristino, inutile e quanto mai problematico per la vita sociale ed economica del Friuli Venezia Giulia, ci sia una sola finalità ovvero quella di ostacolare l’ingresso nell’Unione Europea, ad iniziare dal confine esterno tra la Croazia e la Bosnia, a coloro che sono in cerca di protezione e che, per il diritto dell’Unione, hanno invece diritto, alle frontiere e nel territorio degli Stati dell’Unione, di chiedere asilo (Direttiva 2013/32/UE art. 3) e gli Stati hanno il dovere assoluto di non respingerli.

    Le affermazioni rese dal ministro Piantedosi nella conferenza stampa tenutasi a Trieste il 2 novembre 2023, a conclusione dell’incontro trilaterale con gli omologhi sloveno e croato, sono state tanto esplicite quanto sconcertanti. Il ministro ha reso noto che nei primi dieci giorni di vigenza dei controlli alla frontiera sono stati effettuati 220 respingimenti. Non sono state fornite ulteriori informazioni, né il ministro, come ha fatto invece in passato, ha rivendicato la possibilità che vengano respinti o riammessi informalmente anche coloro che al confine italiano chiedono asilo. Sulla radicale illegittimità delle riammissioni informali attuate dall’Italia verso la Slovenia nei confronti di richiedenti asilo si era già espresso con estrema chiarezza il Tribunale ordinario di Roma con due distinte ordinanze, nel gennaio 2021 e nel maggio 2023. Non sappiamo se i dati forniti da Piantedosi riguardino cittadini stranieri che sono stati illegittimamente respinti dopo che è stato loro impedito di chiedere asilo in Italia e se, come impone la normativa a tutti coloro che sono fermati venga “assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale” (T.U. Immigrazione art. 10.3).

    Infine non sappiamo se nei confronti degli stranieri respinti sia stato emesso un provvedimento amministrativo scritto e motivato in fatto e in diritto, notificato al soggetto interessato e impugnabile innanzi all’autorità giudiziaria, o se di tali provvedimenti non c’è traccia. Neppure sappiamo se tali respingimenti sono stati realmente tali o se si è trattato di operazioni di impedimento all’ingresso in Italia attuati in territorio sloveno con la collaborazione della polizia italiana. Sono questioni dirimenti sulle quali il ministro dovrà fornire al più presto le necessarie informazioni. Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

    Un’espressione in particolare, tra quelle usate da Piantedosi, risulta inquietante: il ministro ha affermato che le operazioni di respingimento finora attuate vanno considerate solo come i “primi segnali di una filiera della deterrenza da proseguire con i colleghi”. Il termine deterrenza è sempre associato a una funzione intimidatrice (nel diritto penale ci si è sempre interrogati se la minaccia della sanzione funga o meno da deterrenza). Nel linguaggio politico la deterrenza è rivolta verso un nemico ovvero verso colui che rappresenta un grave pericolo e nei cui confronti, all’occorrenza, si può usare violenza. A chi è diretta la funzione di deterrenza cui si riferisce Piantedosi? Agli stranieri che sono in fuga dai loro paesi affinché non lo facciano? A chi intende chiedere asilo affinché comprenda con metodi convincenti che ciò è inutile? Le parole usate dal ministro sono gravi perché le normative internazionali ed europee e il diritto interno dispongono che l’operato della polizia di frontiera non sia finalizzato ad attuare alcuna deterrenza bensì sia esclusivamente rivolto all’esecuzione di legittimi compiti di controllo dell’attraversamento dei confini; le guardie di frontiera sono tenute infatti ad operare nello stretto ambito delle funzioni attribuite loro dalla legge, e nei confronti di chi viene controllato “devono essere garantiti i diritti fondamentali sanciti nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo e nella Carta sui diritti fondamentali dell’Unione europea. I controlli di frontiera devono rispettare pienamente i divieti di infliggere trattamenti inumani o degradanti e di agire in maniera discriminatoria” (Manuale per le guardie di frontiera a cura della Commissione Europea 6.11.2006 punto 1.2).

    Inoltre “a tutti i cittadini di paese terzo che lo desiderano deve essere data la possibilità di chiedere asilo/protezione internazionale alla frontiera (anche nelle zone di transito aeroportuali e portuali). A tal fine, le autorità di frontiera devono informare i richiedenti, in una lingua che possa essere da loro sufficientemente compresa, delle procedure da seguire” (Manuale punto 10.2). La rotta balcanica e i confini tra i diversi Stati, da sempre, ma in particolare dal 2018, sono segnati da inenarrabili violenze, illegalità e soprusi condotti dalle polizie dei diversi Stati coinvolti (a volte si tratta di uomini in divisa, altre volte mascherati, ma comunque operanti sempre all’interno di un preciso mandato). I rapporti su queste violenze sono scioccanti e sono così numerosi da riempire un’intera biblioteca; si tratta di violenze ed illegalità avvenute sia ai confini interni dell’Unione Europea che ai confini esterni della stessa. Una situazione che rappresenta, insieme alle violenze attuate sul confine polacco-bielorusso, una delle pagine più oscure dell’Europa. Uno dei luoghi caratterizzati da maggiori violenze è il confine della Croazia con la Bosnia dove i respingimenti arbitrari, uniti ad efferate violenze non sono mai cessati. Secondo il rapporto Trattati come animali – Respingimenti di persone in cerca di protezione dalla Croazia in Bosnia Erzegovina, edito nel maggio 2023 a cura di Human Rights Watch (H.C.R.) una delle più autorevoli organizzazioni di tutela dei diritti umani a livello internazionale, i respingimenti illegittimi e le violenze, anche efferate, da parte della polizia croata, solo nel 2022, hanno riguardato quasi 30.000 persone, e sono proseguiti nel 2023.

    Il Rapporto evidenzia che “Le forze di polizia conducono spesso i respingimenti in modo violento, rendendosi responsabili di lesioni fisiche e umiliazioni deliberate”. Inoltre “secondo la maggior parte delle testimonianze raccolte da HRW, i poliziotti croati indossano le uniformi, guidano mezzi della polizia e si identificano come agenti per non lasciare alcun dubbio sull’ufficialità del loro ruolo”. Si tratta dunque di una pratica di esplicita deterrenza condotta verso persone inermi che stanno esclusivamente tentando di esercitare il loro diritto a chiedere asilo. “Molti bambini hanno dovuto assistere mentre i loro padri, fratelli maggiori o parenti venivano picchiati, o manganellati o presi a spintoni”, prosegue il Rapporto. La Slovenia non sfugge alla censura operata dalla citata organizzazione internazionale giacché il Rapporto osserva come “in base all’accordo di riammissione tra Slovenia e Croazia, la polizia slovena invia sommariamente i migranti irregolari che sono entrati nel paese passando dalla Croazia, indipendentemente dal fatto che abbiano chiesto asilo in Slovenia. A loro volta le autorità croate generalmente si affrettano a trasferirli in Bosnia o Serbia”.

    Al drammatico Rapporto di H.R.W. si aggiungono i dati diffusi dal Centro per la Pace di Zagabria che da anni svolge un attento lavoro di monitoraggio della situazione del rispetto della legalità in Croazia, secondo cui nel solo mese di luglio 2023 sono stati respinti illegalmente dalla Croazia alla Bosnia 673 persone, tra cui 43 bambini. 369 di essi erano afgani, con tutta evidenza rifugiati. Il 95% delle persone respinte ha subito trattamenti inumani e degradanti tassativamente proibiti dall’art. 3 della CEDU (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) mentre l’81% ha subito il furto dei propri averi e la distruzione delle proprie cose. E’ in questi cupi contesti che il ministro Piantedosi vorrebbe organizzare le “brigate”? Vuole forse trascinare la polizia italiana in inaccettabili contesti di violenza di cui essere spettatore inerme oppure complice? Confida nella collaborazione della piccola Slovenia, paese cuscinetto, nel realizzare una più respingimenti a catena? Un monitoraggio su quanto rischia di accadere al nostro tormentato confine orientale, da parte di enti di tutela ed organizzazioni internazionali, nonché da parte del Parlamento, è divenuto indispensabile ed urgente.

    https://www.unita.it/2023/11/07/rotta-balcanica-piantedosi-lancia-le-brigate-antimigranti
    #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #Piantedosi #brigades_mixtes #contrôles_frontaliers #refoulements #push-backs #Slovénie #frontière_sud-alpine #contrôles_systématiques_aux_frontières #chiffres #statistiques #patrouilles_mixtes #dissuasion

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

    et à la métaliste sur les patrouilles mixtes :
    https://seenthis.net/messages/910352

  • Aux #origines de l’#histoire complexe du #Hamas

    Le Hamas replace violemment la question palestinienne sur le devant de la scène géopolitique. Retour aux origines du mouvement islamiste palestinien, fondé lors de la première Intifada et classé organisation terroriste par les États-Unis et l’Union européenne.

    L’arméeL’armée israélienne a indiqué, samedi 14 octobre, avoir tué deux figures du Hamas qui auraient joué un rôle majeur dans l’attaque terroriste qui a plongé il y a une semaine le peuple israélien dans « les jours les plus traumatiques jamais connus depuis la Shoah », pour reprendre l’expression de la sociologue franco-israélienne Eva Illouz (plus de 1 300 morts, 3 200 blessés ainsi qu’au moins 120 otages, parmi lesquels de nombreux civils).

    Le responsable des Nukhba, les unités d’élite du Hamas, Ali Qadi, aurait été tué, de même que Merad Abou Merad, chef des opérations aériennes dans la ville de Gaza. Dimanche, c’est la mort d’un commandant des Nukhba, Bilal el-Kadra, présenté par l’armée israélienne comme le responsable des massacres du 7 octobre dans les kibboutz de Nirim et de Nir Oz, qui a été annoncée.

    Depuis l’offensive surprise du Hamas, Israël assiège et pilonne en représailles la bande de Gaza. Ses bombardements ont fait en l’espace de quelques jours 2 750 morts, dont plus de 700 enfants, et 9 700 blessés, selon un bilan du ministère palestinien de la santé du Hamas établi lundi matin. « Ce n’est que le début », a prévenu le premier ministre israélien Benyamin Nétanyahou, qui a déclaré : « Le Hamas, c’est Daech et nous allons les écraser et les détruire comme le monde a détruit Daech. »

    S’il est difficile de ne pas convoquer la barbarie de Daech en Syrie, en Irak ou sur le sol européen devant les massacres commis le 7 octobre par le mouvement islamiste palestinien dans la rue, des maisons ou en pleine rave party, la comparaison entre les deux organisations a ses limites.

    « Oui, le Hamas a commis des crimes odieux, des crimes de guerre, des crimes contre l’humanité, mais c’est un mouvement nationaliste qui n’a rien à voir avec Daech ou Al-Qaïda, nuance Jean-Paul Chagnollaud, professeur des universités, directeur de l’Institut de recherche et d’études Méditerranée/Moyen-Orient (iReMMO). Il représente ou représentait largement un bon tiers du peuple palestinien. Si Mahmoud Abbas [chef de l’Autorité palestinienne – ndlr] a annulé les élections il y a deux ans, c’est parce que le Hamas avait des chances d’emporter les législatives. »

    « La comparaison avec Daech a une visée politique qui consiste à enfermer le Hamas dans un rôle de groupe djihadiste, abonde le chercheur Xavier Guignard, spécialiste de la Palestine au sein du centre de recherche indépendant Noria. Je comprends le besoin de caractériser ce qu’il s’est produit, mais cette comparaison nous prive de voir tout ce qu’est aussi le Hamas », un mouvement islamiste de libération nationale, protéiforme, politique et militaire, qui est l’acronyme de « Harakat al-muqawama al-islamiya », qui signifie « Mouvement de la résistance islamique ».

    Considéré comme terroriste par l’Union européenne, les États-Unis ainsi que de nombreux pays occidentaux, le Hamas, dont la branche politique dans la bande de Gaza est dirigée par Yahya Sinouar (qui fut libéré en 2011 après vingt-deux ans dans les geôles israéliennes lors de l’échange de 1 027 prisonniers palestiniens contre le soldat franco-israélien Gilad Shalit), est arrivé au pouvoir lors d’une élection démocratique. Il a remporté les législatives de 2006. L’année suivante, il prend par la force le contrôle de la bande de Gaza au terme d’affrontements sanglants et aux dépens de l’Autorité palestinienne (AP), reconnue par la communauté internationale et dominée par le Fatah (Mouvement national palestinien de libération, non religieux) de Mahmoud Abbas, qui contrôle la Cisjordanie.
    Guerre fratricide

    Cette prise de pouvoir constitue un moment charnière. Elle provoque une guerre fratricide entre les formations palestiniennes et offre à l’État hébreu une occasion de durcir encore, en riposte, le blocus dans la bande de Gaza, en limitant la circulation des personnes et des biens, avec le soutien de l’Égypte. Un blocus dévastateur par terre, air et mer qui asphyxie l’économie et la population depuis plus d’une décennie et a été aggravé par les guerres successives et les destructions sous l’effet des bombardements israéliens.

    Officiellement, pour Israël, qui a décolonisé le territoire en 2005, le blocus vise à empêcher que le Hamas, qui se caractérise par une lutte armée contre l’État hébreu, se fournisse en armes. Créé en décembre 1987 par les Frères musulmans palestiniens (dont la branche a été fondée à Jérusalem en 1946, deux ans avant la proclamation de l’État d’Israël), lors de la première intifada (soit le soulèvement palestinien contre l’occupation israélienne de la Cisjordanie et de la bande de Gaza), alors massive et populaire, le mouvement a épousé la lutte armée contre Israël à cette époque.

    « Un profond débat interne » avait alors agité ses fondateurs, comme le raconte sur la plateforme Cairn l’universitaire palestinien Khaled Hroub : « Deux points de vue s’opposent. Les uns poussent à un tournant politique dans le sens d’une résistance à l’occupation, contournant par là les idées anciennes et traditionnelles en fonction desquelles il convient de penser avant tout à l’islamisation de la société. Les autres relèvent de l’école classique des Frères musulmans : “préparer les générations” à une bataille dont la date précise n’est toutefois pas fixée. Avec l’éruption de l’intifada, les tenants de la ligne dure gagnent du terrain, arguant des répercussions très négatives sur le mouvement si les islamistes ne participent pas clairement au soulèvement, sur un même plan que les autres organisations palestiniennes qui y prennent part. »

    Acculé par son « rival plus petit et plus actif », le Jihad islamique, « une organisation de même type – et non pas nationaliste ou de gauche », poursuit Khaled Hroub, le Hamas a fini par accélérer sa transformation interne.

    La transformation de la branche palestinienne des Frères musulmans en Mouvement de la résistance islamique n’est pas allée de soi, et les discussions ont été vives avant que le sheikh Yassin, tout frêle qu’il soit dans son fauteuil roulant de paralytique, ne l’emporte. Une partie des membres tenaient en effet à rester sur la ligne frériste : transformer la société par le prêche, l’éducation et le social. Le nationalisme n’a pas droit de cité dans cette conception, c’est la communauté des croyants qui compte. Le Hamas, lui, rajoute à l’islam politique une dimension nationaliste.

    Sa charte, 36 articles en cinq chapitres, rédigée en 1988, violemment antisémite, est sans équivoque : le Hamas appelle au djihad (guerre sainte) contre les juifs, à la destruction d’Israël et à l’instauration d’un État islamique palestinien. Vingt-neuf ans plus tard, en 2017, une nouvelle charte est publiée sans annuler celle de 1988. Le Hamas accepte l’idée d’un État palestinien limité aux frontières de 1967, avec Jérusalem pour capitale et le droit au retour des réfugié·es, et dit mener un combat contre « les agresseurs sionistes occupants » et non contre les juifs.

    En 1991, la branche du Hamas consacrée au renseignement devient une branche armée, celle des Brigades Izz al-Din al-Qassam. À partir d’avril 1993, l’année des accords d’Oslo signés entre l’OLP (Organisation de libération de la Palestine) de Yasser Arafat et l’État hébreu, que le Hamas a rejetés estimant qu’il s’agissait d’une capitulation, les Brigades Izz al-Din al-Qassam mènent régulièrement des attaques terroristes contre les soldats et les civils israéliens pour faire échouer le processus de paix. Pendant des années, elles privilégient les attentats-suicides, avant d’opter à partir de 2006 pour les tirs de roquettes et de mortiers depuis Gaza.

    Ces dernières années, le Hamas, critiqué pour sa gestion autoritaire de la bande de Gaza, sa corruption, ses multiples violations des droits humains (il a réprimé en 2019 la colère de la population exténuée par le blocus israélien), était réputé en perte de vitesse, mis face à l’usure du pouvoir.
    Prise de pouvoir de la branche militaire

    Son offensive meurtrière par la terre, les airs et la mer du samedi 7 octobre – cinquante ans, quasiment jour pour jour, après le déclenchement de la guerre de Kippour et à l’heure des accords d’Abraham visant à normaliser les relations entre Israël et plusieurs pays arabes sur le dos des Palestiniens et sous pression des États-Unis – le replace en première ligne. Elle révèle sa nouvelle puissance ainsi qu’un savoir-faire jusque-là inédit dans sa capacité de terrasser l’une des armées les plus puissantes de la région et d’humilier le Mossad et le Shin Bet, les tout-puissants organes du renseignement extérieur et intérieur israélien.

    Elle révèle aussi le pouvoir pris par la branche militaire sur la branche politique d’un mouvement sunnite qui serait fort d’une mini-armée, dotée d’environ 40 000 combattants et de multiples spécialistes, notamment en cybersécurité, selon Reuters. Un mouvement qui peut compter sur ses alliés du « Front de la résistance » pour l’équiper : l’Iran, la Syrie et le groupe islamiste chiite Hezbollah au Liban, avec lesquels il partage le rejet d’Israël.

    Sur les plans militaire, diplomatique et financier, l’Iran chiite est l’un de ses principaux soutiens. Selon un rapport du Département d’État américain de 2020, cité par Reuters, l’Iran fournit environ 100 millions de dollars par an à des groupes palestiniens, notamment au Hamas. Cette aide aurait considérablement augmenté au cours de l’année écoulée, passant à environ 350 millions de dollars, selon Reuters.

    Le Hamas n’est pas seulement un mouvement politique et une organisation combattante, c’est aussi une administration. À ce titre, il lève des impôts et met en place des taxes sur tout ce qui rentre dans la bande de Gaza, soit légalement, par les points de passage avec Israël et avec l’Égypte, soit illégalement. Les revenus qu’il perçoit ainsi sont estimés à près de 12 millions d’euros par mois. Ce qui est peu, finalement, car cette administration doit payer ses fonctionnaires et assurer un minimum de protection sociale, sous forme d’écoles, d’institutions de santé, d’aides aux plus défavorisés. Il est en cela aidé par le Qatar sunnite, avec l’aval du gouvernement israélien. L’émirat a ainsi versé 228 millions d’euros en 2021 et cette somme devait être portée à 342 millions en 2021.

    Le Hamas figurant sur les listes américaine et européenne des mouvements soutenant le terrorisme, le système bancaire international lui est fermé. Aussi, quand cette aide est mise en place, en 2018, ce sont des valises de billets qui arrivent, en provenance du Qatar, à l’aéroport de Tel Aviv et prennent ensuite la route de Gaza où elles pénètrent le plus officiellement du monde. Par la suite, les opérations seront plus discrètes.

    Plus discrets, aussi, d’autres transferts à des fins moins avouables que le paiement du fuel pour la centrale électrique ou des médicaments pour les hôpitaux. Ceux-là arrivent jusqu’au Hamas par des cryptomonnaies. Même si les relations avec l’Iran sont moins bonnes depuis que le Hamas a soutenu la révolution syrienne de 2011, la république islamique reste encore le principal financier de son arsenal, de l’aveu même d’Ismail Hanniyeh. Le chef du bureau politique du Hamas, basé à Doha, a affirmé en mars 2023 que Téhéran avait versé 66 millions d’euros pour l’aider à développer son armement.

    Le Qatar accueille également plusieurs des dirigeants du Hamas. Quand ils ne s’abritent pas au Liban ou dans « le métro » de Gaza, ce dédale de tunnels creusés sous terre depuis l’aube des années 2000, qui servent tout à la fois de planques et d’usines où l’on fabrique ou importe des armes, bombes, mortiers, roquettes, missiles antichar et antiaériens, etc.

    Pour les uns, le Hamas a enterré la cause palestinienne à jamais le 7 octobre 2023 et est le meilleur ennemi des Palestinien·nes. Pour les autres, il a réalisé un acte de résistance, de libération nationale face à la permanence de l’occupation, la mise en danger des lieux saints à Jérusalem, l’occupation en Cisjordanie. « Quand il s’agit de la cause palestinienne, tout mouvement se dressant contre Israël est considéré comme un héraut, quelle que soit son idéologie », constate Mohamed al-Masri, chercheur au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Doha, au Qatar, dans un entretien à Mediapart.

    Samedi 7 octobre, c’est Mohammed Deif qui a annoncé le lancement de l’opération « Déluge d’al-Aqsa » contre Israël pour « mettre fin à tous les crimes de l’occupation ». Le nom n’est pas choisi au hasard. Il fait référence à l’emblématique mosquée dans la vieille ville de Jérusalem, symbole de la résistance palestinienne et troisième lieu saint de l’islam après La Mecque et Médine, d’où le prophète Mahomet s’est élevé dans le ciel pour rencontrer les anciens prophètes, dont Moïse, et se rapprocher de Dieu.

    Mohammed Deif est l’ennemi numéro un de l’État hébreu, le cerveau de ce qui est devenu « le 11-Septembre israélien » : il est le commandant de la branche armée du Hamas. Surnommé le « chat à neuf vies » pour avoir survécu à de multiples tentatives d’assassinat, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, de son vrai nom, serait né en 1965 dans le camp de réfugié·es de Khan Younès, dans le sud de la bande de Gaza. Il doit son surnom de « Deif » – « invité » en arabe – au fait qu’il ne dort jamais au même endroit.

    Il a rejoint le Hamas dans les années 1990, connu la prison israélienne pour cela, avant d’aider ensuite à fonder la branche armée du Hamas dans les pas de son mentor qui lui a appris les rudiments des explosifs, Yahya Ayyash. Après l’assassinat de ce dernier, il a pris les rênes des Brigades Al-Qassam. Israël peut détruire l’appareil du Hamas, avec des assassinats ciblés. D’autres se tiennent prêts à prendre la relève dans l’ombre des maîtres. Deif en est un exemple emblématique.

    « Le Hamas a été promu en sous-main par Nétanyahou, rappelle dans un entretien à Mediapart l’écrivain palestinien et ancien ambassadeur de la Palestine auprès de l’Unesco, Elias Sanbar. J’ai le souvenir, tandis qu’Israël organisait un blocus financier à l’encontre du Fatah et de l’Autorité palestinienne, que les transferts d’argent au Hamas passaient alors par des banques israéliennes ! La créature d’Israël s’est retournée contre lui. Entre-temps, elle s’est nourrie des échecs de l’Autorité palestinienne, dont les représentants sont accusés d’être des naïfs, sinon des traîtres, partant depuis 1993 dans des négociations avec Israël pour en revenir toujours bredouilles. »

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    Sur la charte de 1988 et le document de 2017

    La charte du Hamas, publiée en 1988 (il existe une traduction du texte intégral réalisée par le chercheur Jean-François Legrain, spécialiste du Hamas), reprend les antiennes antisémites européennes. Elle définit le Hamas comme « un des épisodes du djihad mené contre l’invasion sioniste » et affirme notamment que le mouvement « considère que la terre de Palestine [dans cette acceptation Israël, Cisjordanie et bande de Gaza – ndlr] est une terre islamique de waqf [mot arabe signifiant legs pieux et désignant des biens inaliénables dont l’usufruit est consacré à une institution religieuse ou d’utilité publique – ndlr] pour toutes les générations de musulmans jusqu’au jour de la résurrection. Il est illicite d’y renoncer tout ou en partie, de s’en séparer tout ou en partie ».

    Dans son livre Le Grand aveuglement, sur les relations parfois en forme de pas-de-deux, entre les dirigeants israéliens successifs et le Hamas, Charles Enderlin cite de nombreux rapports du Shabak, service de renseignement intérieur de l’État hébreu. Dont celui-ci, dans la foulée de la diffusion de la charte de 1988 : « Le Hamas présente la libération de la Palestine comme liée à trois cercles : palestinien, arabe et islamique. Cela signifie le rejet absolu de toute initiative en faveur d’un accord de paix, car : “Renoncer à une partie de la Palestine équivaut à renoncer à une partie de la religion. La seule solution au problème palestinien c’est le djihad”. »

    Dans la lignée de ce texte, le Hamas, qui n’appartient pas à l’Organisation de Libération de la Palestine (OLP), dont fait partie le Fatah, parti de Yasser Arafat, rejette évidemment les Accords d’Oslo et toutes les phases de négociations.

    Au fil des années cependant se feront jour des déclarations plus pragmatiques. Le sheikh Yassin lui-même a, avant son assassinat par Israël en 2004, affirmé à plusieurs reprises que le Hamas était près à une hudna (trêve) avec l’État hébreu, laissant aux générations futures le soin de reprendre, ou non, le combat.

    La participation du Hamas aux élections législatives de 2006 est considérée comme une reconnaissance informelle et non dite de l’État d’Israël. Le Hamas accepte en effet un scrutin qui se déroule sur une partie, et une partie seulement, de la Palestine historique, celle des frontières de 1967, ceci en contradiction avec la charte de 1988.

    Dans une longue et savante analyse, l’historien Jean-François Legrain, reconnu comme un des meilleurs spécialistes français du Hamas, explique que la charte de 1988, écrit par un individu anonyme, n’a pas fait consensus dans les instances dirigeantes du Hamas. Elle était très peu citée par ses cadres. Ce qui ne signifie pas que des responsables du Hamas ne tenaient pas des discours antisémites. Lors d’une interview en 2009, Mahmoud al-Zahar, alors important responsable du Hamas dans la bande de Gaza, défendait la véracité du Protocole des sages de Sion, cité dans la charte de 1988.

    Au cours de la décennie qui suit sa victoire aux élections législatives puis sa guerre fratricide avec le Fatah, le Hamas, maître désormais de la bande de Gaza, montrera qu’il ne renonce pas à la lutte armée : s’il semble avoir renoncé aux attentats-suicides, si nombreux de 1993 à 1996 puis entre 2001 et 2005, il lance régulièrement des roquettes Qassam, du nom de sa branche militaire, en direction du territoire israélien.

    Ce sont les civils qui en paient le prix, avec des guerres lancées contre la bande de Gaza en 2008, 2012, 2014 et 2021. Le Hamas, sans abandonner la lutte armée, adopte en 2017 un Document de principes et de politique généraux qui semble aller contre les principes de la charte de 1988. Il ne s’agit plus de lutter contre les Juifs, mais contre les sionistes : « Le Hamas affirme que son conflit porte sur le projet sioniste et non sur les Juifs en raison de leur religion. Le Hamas ne mène pas une lutte contre les Juifs parce qu’ils sont juifs, mais contre les sionistes qui occupent la Palestine » (article 16). Plus remarqué encore, l’acceptation des frontières de 1967 : « Le Hamas rejette toute alternative à la libération pleine et entière de la Palestine, du fleuve à la mer. Cependant, sans compromettre son rejet de l’entité sioniste et sans renoncer à aucun droit palestinien, le Hamas considère que la création d’un État palestinien pleinement souverain et indépendant, avec Jérusalem comme capitale, selon les lignes du 4 juin 1967, avec le retour des réfugiés et des personnes déplacées dans leurs foyers d’où ils ont été expulsés, est une formule qui fait l’objet d’un consensus national » (article 20).

    La charte de 1988 n’est pour autant pas caduque, explique à la chercheuse Leila Seurat Khaled Mechaal, un des membres fondateurs du Hamas : « Le Hamas refuse de se soumettre aux désidératas des autres États. Sa pensée politique n’est jamais le résultat de pressions émanant de l’extérieur. Notre principe c’est : pas de changement de document. Le Hamas n’oublie pas son passé. Néanmoins la charte illustre la période des années 1980 et le document illustre notre politique en 2017. À chaque époque ses textes. Cette évolution ne doit pas être entendue comme un éloignement des principes originels, mais plutôt comme une dérivation (ichtiqaq) de la pensée et des outils pour servir au mieux la cause dans son étape actuelle. »

    Le nouveau document maintient, de toute façon, la lutte armée comme moyen de parvenir à ses fins.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/161023/aux-origines-de-l-histoire-complexe-du-hamas
    #à_lire
    #complexité #Palestine #Israël #Intifada #Gaza #bande_de_Gaza #Daech #Fatah #blocus #lutte_armée #frères_musulmans #nationalisme #islam_politique #djihad #Brigades_Izz al-Din_al-Qassam #terrorisme #corruption #droits_humains #droits_fondamentaux #Iran #Qatar #armes #armement #tunnels #occupation #résistance #libération_nationale #Déluge_d’al-Aqsa #7_octobre_2023 #Mohammed_Deif #Yahya_Ayyash #Brigades_Al-Qassam #Autorité_palestinienne

  • #Violences, #interpellations_abusives... : le retour d’un #maintien_de_l’ordre qui sème le chaos

    Alors que le recours au 49-3 a entraîné une multiplication des rassemblements et actions spontanés partout en France, le #dispositif_policier a renoué avec ses travers : #interpellations_massives et mal fondées, violences gratuites, #mépris des libertés fondamentales.

    Les #manifestations unitaires, intersyndicales et globalement pacifiques qui ont rythmé les deux derniers mois ont fait long feu. Elles n’ont ni fait capoter la réforme des retraites, ni infléchi ses modalités. Les responsables syndicaux comme les simples manifestants ont eu beau mettre en garde l’exécutif contre les conséquences de sa sourde oreille – un risque d’exaspération populaire, de « radicalisation » du mouvement et de violences –, il n’a rien fait de cet avertissement.

    Le 49-3 dont personne ne voulait a bien eu lieu, jeudi 16 mars. Depuis, les #rassemblements_spontanés, #blocages, actions coup de poing et #cortèges_sauvages fleurissent partout en France. Comme toujours en pareil cas, des #forces_de_l’ordre sûres de leur légitimité et sujettes à une légère panique mettent un point d’honneur à endiguer tout ce qui déborde du cadre. Lundi 20 mars, le secrétaire général de la CGT, Philippe Martinez, a dénoncé « une augmentation de la #répression des manifestants qui n’est pas justifiée ».

    Depuis jeudi, la majorité des 61 compagnies de #CRS sont missionnées sur le maintien de l’ordre, en particulier à #Paris, #Nantes, #Rennes, #Bordeaux, #Marseille, #Lyon et #Dijon. « Les missions qui relevaient du plan national de sécurité renforcée notamment à Calais ou à Marseille, pour lutter contre la drogue ou l’insécurité, sont passées aux oubliettes, explique un responsable syndical chargé des CRS au niveau national. La priorité pour Darmanin, c’est de sécuriser Paris et les sites institutionnels sensibles comme l’Élysée, et le mot d’ordre est de “disperser tout mouvement non déclaré”, donc illégal. »

    Ce policier n’a pas souhaité témoigner sous son identité. « La situation est difficile. Le jeudi, je manifeste contre cette réforme que je trouve violente, confie-t-il, et je vais continuer », dit-il avant d’ajouter au sujet du 49-3 : « Était-ce vraiment utile vu le déferlement de #colère que cela a provoqué ? »

    « On est à la veille d’une insurrection. J’ai peur qu’un de mes gars tue un manifestant », confie un commandant de compagnie de CRS à Mediapart. « J’espère que la motion passera et que la dissolution de l’Assemblée sera prononcée. On reviendrait ainsi à une gestion plus démocratique du pays. » Ce haut gradé qui dirige près de 70 hommes précise que ce sont les préfets qui transmettent les ordres du ministre.

    « Pour le moment, ceux que j’ai reçus en participant au maintien de l’ordre, dans deux villes importantes, restent relativement “républicains”. Mais il n’y a aucune garantie qu’un drame ne se produise pas », rappelant qu’un CRS a sorti un fusil HK G36 à Nantes, lors de la manifestation du 18 mars.

    « C’est évidemment dangereux et inquiétant que cela ne questionne pas davantage dans nos rangs. Cela montre que des policiers ne sont absolument pas résilients. C’est pour cela que le président s’amuse à un jeu très dangereux qui peut se terminer par un drame, que je redoute : le décès d’un manifestant. »

    « On a été entraînés pour la “percussion” »

    La semaine du 49-3, Mathieu* était, avec sa compagnie de CRS, à Châteaudun, près d’Orléans, pour un « #recyclage », c’est-à-dire une remise à niveau organisée chaque semestre. Le vendredi soir, ces CRS ont été « appelés en renfort pour intervenir dès lundi à Paris ». Pour la seule journée de lundi, plus de trente unités mobiles, CRS et escadrons de #gendarmerie, sont déployées à Paris, soit près de 2 000 fonctionnaires.

    « Depuis le 49-3, le maintien de l’ordre se durcit nettement face aux rassemblements spontanés. Nous avons d’ailleurs été formés durant notre semaine de recyclage à aller davantage au contact des “#nébuleuses”, des #black_blocs », explique-t-il. « On a été entraînés pour la “#percussion”, une technique plus offensive. Dès qu’on les repère, on n’attend pas, on intervient sur eux. »

    Mathieu ne cache pas son embarras sur le contexte actuel et la difficulté de « charger de simples manifestants, dont la cause est juste ». Après les sommations, « si les manifestants restent sur notre passage, il n’y a plus de distinction. Il peut y avoir des dommages collatéraux ».

    Malgré plus de vingt ans d’expérience dans le maintien de l’ordre, Mathieu appréhende cette semaine. « Ce n’est pas tant pour moi, qui suis formé et protégé, mais pour ceux qui manifestent. Sur les rassemblements sauvages à Paris, ça arrange la préfecture de faire appel aux #Brav-M [#Brigades_de_répression_de_l’action_violente_motorisée – ndlr]. Non seulement ils sont utilisés pour intervenir très vite en moto, ce qui peut être terrorisant, mais le préfet a une mainmise directe sur eux contrairement à nous CRS, où on a un commandant ou un capitaine qui relaie les ordres du commissaire sur le terrain et qui peut les adapter. »

    Les Brigades de répression des actions violentes motorisées, Mathieu les a vues à l’œuvre pendant les manifestations des « gilets jaunes ». « Ils mettent le bordel plus qu’autre chose. Ils matraquent dans tous les sens. Après ce sont des collègues parfois mais on n’a pas le même état d’esprit. Il y a pas mal de policiers passés par la BAC dans leur rang et formés à aller au contact, peu importe qui ils ont en face. C’est cela le danger. »

    À Paris, le retour de la BRAV-M

    Les dernières semaines ont marqué un glissement progressif dans l’attitude des forces de l’ordre à Paris. Le 20 janvier dernier, le préfet de police #Laurent_Nuñez revendiquait de tenir ses troupes à distance des cortèges : « Je ne veux pas qu’on nous accuse de faire dégénérer les manifestations. De la sorte, on ne nous voit pas. Ça évite que les militants ultras qui cherchent à en découdre avec les forces de l’ordre ne viennent au contact. En contrepartie, je demande à nos effectifs d’être extrêmement réactifs. Dès la moindre dégradation, ils doivent intervenir. À chaque fois, nous intervenons puis nous nous retirons. »

    À la préfecture de police, certains contestaient ce choix. Les BRAV-M se seraient notamment plaintes de ne plus aller au contact, regrettant l’époque de Didier Lallement. Certaines manifestations ont toutefois été marquées par de violentes charges. Dès le 19 janvier, un jeune photographe grièvement blessé lors d’une charge policière a dû être amputé d’un testicule.

    Depuis deux semaines, les témoignages et vidéos de violences policières se multiplient, de Paris à Rennes en passant par Nantes (où quatre étudiantes accusent des policiers de violences sexuelles lors d’une fouille), tandis que des centaines d’interpellations ont eu lieu. Des journalistes dénoncent aussi diverses atteintes à la liberté de la presse (entrave à leur travail, coups, bris de matériel).

    Selon une source interne à la préfecture de police de Paris, le « #durcissement » du maintien de l’ordre serait lié à « la montée en gamme des violences » de certains manifestants jusqu’ici « inconnus », qui « se radicalisent depuis le début du mouvement » et surtout « depuis le #49-3 ». Le fait que ces manifestants deviennent plus mobiles justifierait un recours accru aux compagnies d’intervention et aux policiers motorisés de la BRAV-M. 

    Mises en place au début des gilets jaunes, fin 2018, et relativement discrète depuis le début du mouvement contre les retraites, la BRAV-M a réinvesti les rues de Paris. Depuis vendredi soir, les images de ces binômes de policiers à moto – souvent comparés aux « #voltigeurs » dissous après la mort de Malik Oussekine en 1986 – matraquant à tout-va, sans raison apparente et sans distinction les manifestants, circulent sur les réseaux sociaux.

    De son côté, la source préfectorale précédemment citée met en avant les six policiers blessés samedi, « dont deux ont reçu un pavé sur la tête », sans s’exprimer sur les violences imputées aux policiers.

    Des #gardes_à_vue sans suites

    À Paris, dès l’annonce du 49-3, la place de la Concorde s’est remplie de manifestants. Le préfet de police de Paris a bien tenté d’interdire ce rassemblement, déposé à l’avance par Solidaires, mais le tribunal administratif lui a donné tort.

    À l’issue de ces quelques heures sur la place, 292 personnes ont été arrêtées à Paris (sur 310 en France). Ces interpellations, mal motivées, ont cependant débouché sur un résultat judiciaire ridicule : seules neuf personnes ont été déférées devant la justice, et encore, pour « des avertissements probatoires solennels, des classements sous condition ou encore une contribution citoyenne », écrit BFMTV. Soit les sanctions les plus basses possibles.

    64 personnes ont encore été interpellées vendredi soir à Paris, dont 58 libérées sans aucune charge au bout de quelques heures. Dans certains cas, cela a duré un peu plus longtemps. Dans une séquence filmée par le correspondant de l’agence de presse turc Anadolu, une jeune femme se débat et essaie d’expliquer qu’elle « n’a rien fait ». La scène a lieu aux environs de 21 h 45, place de la Concorde.

    « Je respire pas, s’époumone une jeune femme au visage cramoisi.

    -- Laisse-toi faire, tu respires ! », lui rétorque le policier qui l’étrangle.

    Celle qui est aussi violemment interpellée, Chloé Gence, est développeuse web du Média. Mais comme le précisera dans un communiqué son employeur, elle a l’habitude de couvrir certaines manifestations et mouvements sociaux. Selon Le Média, Chloé était en train de « capter des images » avec d’autres journalistes, vendredi soir, quand elle a été « arrêtée de manière très brutale par les forces de l’ordre ».

    Chloé Gence est ensuite conduite en garde à vue. Malgré l’assistance d’un avocat et « les preuves qu’elle couvrait bien la manifestation pour Le Média », sa garde à vue est prolongée. Dimanche, #Chloé_Gence finit par sortir du commissariat, libre, sans qu’aucune charge ne soit retenue contre elle. Au bout de 40 heures…

    Un autre journaliste, #Paul_Ricaud, a subi le même sort que Chloé. Le Syndicat national des journalistes (SNJ) a dénoncé samedi, dans un communiqué, ces nouvelles atteintes à la liberté de la presse. Le syndicat regrette qu’après une période durant laquelle « les relations entre forces de l’ordre et journalistes paraissaient s’être apaisées », cela ne soit plus le cas depuis le 7 mars. « Nous voyons, à nouveau, des tensions comme sous l’ère Lallement, déplore le SNJ. Les forces de l’ordre semblent désormais vouloir réprimer durement le mouvement d’opposition à la réforme. »

    Depuis samedi, il est de nouveau interdit de manifester place de la Concorde. Ce nouvel arrêté préfectoral (qui n’a toutefois pas été publié) a entraîné une dissémination des rassemblements parisiens vers d’autres lieux. Samedi soir, 169 interpellations ont eu lieu en France, dont 122 à Paris (principalement dans le XIIIe arrondissement et place de la Concorde), donnant lieu à 118 gardes à vue (dont douze mineurs). Sollicité pour connaître les suites judiciaires détaillées des interpellations du weekend, le parquet de Paris n’a pas donné suite. Depuis, la préfecture a pris un nouvel arrêté que nous publions ici.

    Ces arrestations massives, donnant lieu à un maigre résultat judiciaire, rappellent les interpellations « préventives » assumées par le parquet de Paris lors du mouvement des gilets jaunes, en 2018-2019. À l’époque, le procureur Rémy Heitz (désormais procureur général) assumait ses objectifs dans une note interne : empêcher les gardés à vue de « retourner grossir les rangs des fauteurs de troubles », quitte à les priver illégalement de liberté plus longtemps que nécessaire.

    Dans un communiqué diffusé lundi 20 mars, le Syndicat de la magistrature (classé à gauche) rappelle que « l’autorité judiciaire n’est pas au service de la répression du mouvement social », condamne « toutes les violences policières illégales » et déplore une « utilisation dévoyée de la garde à vue qui illustre les dérives du maintien de l’ordre, qui détourne l’appareil judiciaire pour le mettre entièrement à son service ».

    « #Nasses », #charges et « #intimidation »

    De son côté, le Syndicat des avocats de France dénonce une « réaction une fois de plus démesurée et particulièrement violente » face aux mouvements spontanés, citant notamment l’utilisation de la technique de la « nasse », « jugée illégale par le Conseil d’État ».

    Cette #technique_policière, consistant à encercler et retenir un groupe de manifestants sans leur laisser d’issue, avait été largement utilisée pendant les mouvements contre la loi « travail » (2016), des gilets jaunes (2018-2019), contre la loi « sécurité globale » et la précédente réforme des retraites (2019-2020). En juin 2021, le Conseil d’État avait annulé les dispositions sur la « nasse » dans le Schéma national du maintien de l’ordre (SNMO) mis au point par Gérald Darmanin un an plus tôt. Il considérait que cette technique était « susceptible d’affecter significativement la liberté de manifester et de porter atteinte à la liberté d’aller et venir » lorsqu’elle ne laisse pas d’échappatoire.

    Le Syndicat des avocats de France s’inquiète également de #charges_sans_sommation, de #coups_de_matraques aléatoires et d’une « intimidation des manifestant·es ». Il appelle le ministère de l’intérieur à « mettre un terme immédiatement à cette escalade de la violence » et les magistrats à « faire preuve d’indépendance et de responsabilité » devant les affaires qui leur sont confiées par la police.

    De nombreuses vidéos montrent aussi des membres des forces de l’ordre sans #numéro_d’identification sur leur uniforme (numéro #RIO), malgré son caractère obligatoire régulièrement rappelé par la hiérarchie.

    À Lille, le soir du 16 mars, la police a violemment chargé le cortège des Jeunes communistes faisant deux blessés graves parmi leur service d’ordre. L’un a eu des points de suture sur le crâne, le second, l’épaule fracturée. « On s’est retrouvés complètement séparés du cortège syndical, gazés devant et derrière, et finalement seuls dans les petites rues de Lille, explique Pierre Verquin, coordinateur départemental des Jeunes communistes, à Mediapart. On avait deux cents jeunes avec nous, on s’est fait charger à ce moment-là, alors que le cortège ne présentait aucun danger. Tout le monde s’est pris des coups. Les gens à l’arrière se sont pris d’énormes coups de matraque aussi. » La Ligue des droits de l’Homme (LDH) a demandé au préfet du Nord « des explications sur les dérives brutales qui ont émaillé le maintien de l’ordre à Lille en cette soirée du 16 mars ».

    Le même jour, 14 personnes sont interpellées à Rennes pour des violences, des dégradations et des pillages dans le centre-ville. À la différence de Paris, la quasi-totalité fait l’objet de poursuites. Le lendemain, le ministre de l’intérieur annonce l’envoi à Rennes de la #CRS_8, une « #supercompagnie » créée en 2021 pour répondre en urgence à des « #violences_urbaines » sur n’importe quel point du territoire.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/200323/violences-interpellations-abusives-le-retour-d-un-maintien-de-l-ordre-qui-

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    Les déclarations de deux policiers ont été ajoutées à cette métaliste de #témoignages de #forces_de_l'ordre, #CRS, #gardes-frontière, qui témoignent de leur métier :
    https://seenthis.net/messages/723573

  • 12 décembre 1969, Italie : l’attentat de Piazza Fontana, massacre d’État
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2020/01/07/italie-lattentat-de-piazza-fontana-massacre-detat_139356.htm

    [...] Giuseppe Pinelli, un cheminot anarchiste, fut arrêté et interrogé pendant trois jours dans les bureaux de la préfecture de police de Milan. Il y mourut en tombant d’une fenêtre du cinquième étage, la police prétendant contre toute vraisemblance qu’il s’était suicidé. Un autre militant anarchiste, Pietro Valpreda, accusé d’avoir déposé la bombe, était inculpé.

    Un mois plus tard cependant, la version de la police accusant les anarchistes était remise en cause. Guido Lorenzon, secrétaire d’une section de la très respectable Démocratie chrétienne, pilier du gouvernement et du système parlementaire, se présenta en effet aux carabiniers pour rapporter ce que l’un de ses amis, militant d’extrême droite, lui avait confié. Le groupe auquel celui-ci appartenait envisageait une série d’attentats afin de créer un climat politique propice à un tournant autoritaire et à l’instauration d’une dictature militaire.

    Il fallut plusieurs mois pour que son témoignage soit pris en compte et que Giovanni Ventura, le néofasciste qu’il dénonçait, soit arrêté avec un complice, pour avoir organisé l’attentat. Et ce n’est que le 23 février 1972 que s’ouvrit le procès, où comparaissait, aux côtés des militants néofascistes, un agent des services secrets, démontrant l’implication d’une partie de l’appareil d’État dans l’attentat.

    Et c’est bien cette implication de l’appareil d’État qui explique le parcours particulièrement tortueux que prit la justice. Le procès, prévu à Rome, fut d’abord déplacé à Catanzaro, au sud du pays. Les accusés y furent acquittés pour insuffisance de preuves. Un second procès les condamna, avant qu’un troisième ne les acquitte à nouveau. Entre deux verdicts, les néofascistes réussirent à fuir le pays. En 1987, l’anarchiste Valpreda fut finalement définitivement acquitté, mais aussi les néofascistes Freda et Ventura, ainsi que l’agent des services secrets. En 2005, 36 ans après l’attentat, la Cour de cassation classa définitivement l’affaire, tout en l’attribuant officiellement à l’organisation fasciste Ordine Nuovo. [...]


    #12_décembre #éphéméride #Italie #attentat #Milan #Italie #Giuseppe_Pinelli #Pietro_Valpreda #Giovanni_Ventura #néofascisme #attentat_de_Piazza_Fontana #terrorisme_d'État #extrême_gauche #lois_spéciales #Brigades_rouges #justice_bourgeoise #archiveLO

  • Repas de soutien à un collectif de cantines populaires - #Paris
    https://paris-luttes.info/repas-de-soutien-intercollectif-15642

    L’intercollectif Champêtre est un rassemblement de plusieurs collectifs et cantines solidaires qui souhaitons produire directement les légumes nécessaires à nos actions en lien avec une productrice maraîchère. Nous organisons dimanche 23 janvier un repas pour récolter l’argent qui permettra d’acheter les semences.

    La cantine des Pyrénées, la cantine des Gilets Jaunes de Montreuil, la BSP [1] Montreuil-Bagnolet et la BSP Aubervilliers-Pantin se sont mis en lien avec une maraîchère militante proche de Paris, qui nous met à disposition 750m² de terres et son appui technique pour que nous puissions produire directement nos propres légumes afin d’alimenter nos cantines et distributions alimentaires.

    Nous organisons pour lancer ce projet un repas de soutien à la Cantine des Pyrénées le dimanche 23 janvier pour financer les semences et un peu de matériel nécessaire à la production. On prévoit pour cette première année de commencer par des légumes demandant peu d’entretien et donc plutôt « faciles » à produire mais difficiles à trouver lors des récups d’invendus (patates, courges, oignons).

    Le tract avec plus d’infos est encore en cours de rédaction, mais en attendant, voici l’affiche.

    #cantines_autogérées #brigades_de_solidarité_populaire #cantine_des_Pyrénées #maraîchage

  • Alors, on te voit plus aux soirées ? Pour une santé communautaire. - Paris-luttes.info
    https://paris-luttes.info/alors-on-te-voit-plus-aux-soirees-15592

    Parce que la forme pandémie n’est pas simplement naturelle, mais fortement impactée par l’organisation sociale, je m’oppose à toute méthode qui consisterait à « laisser faire la nature », à « faire confiance à son corps » et « booster son immunité naturelle ». Pire encore, l’idée qu’« il faut bien mourir de quelque chose ». L’immunité naturelle et collective, pour autant qu’elle soit atteignable (ce qui n’est pas certain), a un coût humain. Et, ce coût humain est d’abord payé par les plus fragiles (que ce soit une fragilité naturelle ou créée par le monde dans lequel on vit), ce qui n’est rien d’autre qu’un nouvel eugénisme dégueulasse.
    Je dois t’avouer que j’ai été effaré de la porosité de nos milieux aux discours niant la dangerosité du virus et aux scientifiques "alternatifs" (pour ne pas dire escrocs). Pourtant, tu sais à quel point je suis sensible à un certain nombre d’arguments techno-critiques ou anti-industriels… Mais, dans le champ étroit du médical et de la lutte contre le virus (traitements, vaccins, moyens de prévention), qui d’autre que les experts ? Questionner ces experts, c’est par exemple les interpeller sur les mystérieux « covid longs », construire des groupes patient-e-s/médecins, plutôt que leur opposer des chiffres manipulés ou des scientifiques alternatifs (eux aussi en blouse blanche et poursuivant également un business personnel très lucratif…). Quant à nous, quelques séances d’éducation populaire sur la thématique de l’immunité nous seraient sans doute fortement bénéfiques !!

    enfin des textes comme ça bordel.

    (aaaaaah une #piqûre)

  • Le souffle de Martha

    #Martha_Desrumaux est une enfant du Nord à la destinée romanesque. « Petite bonne », puis ouvrière à neuf ans, elle deviendra, à force de révolte et d’engagement, une pionnière dans les combats pour les droits sociaux dans l’entre-deux guerres. Personnage féminin emblématique du Front Populaire, Jean Renoir la met en scène dans le film La vie est à nous en 1936. Instigatrice de la lutte des mineurs contre l’occupant nazi, elle est déportée en 1942 et participe à la résistance au sein même du camp de Ravensbrück. Dès 1945, elle est désignée pour être l’une des premières femmes députées de l’Histoire de France, avant de tomber dans un relatif oubli.

    https://lcp.fr/programmes/le-souffle-de-martha-55887
    #film #film_documentaire #documentaire

    #syndicalisme #femmes_ouvrières #classe_ouvrière #lutte_des_classes #CGTU #CGT #politique #industrie_textile #France #féminisme #communisme #parti_communiste #femmes_syndicalistes_et_progressistes #meneuse_communiste #engagement_public #vierge_rouge #Louis_Manguine #marche_des_chômeurs #militantisme #guerre_civile_espagnole #brigades_internationales #Résistance #sabotage #grève #Ravensbrück #camp_de_concentration #déportation #droits_des_femmes

    Une citation :

    « Je suis Martha Desrumaux et les nazis ne m’ont pas eue »

  • Procès suite à une autoréduction : appel à solidarité offensive
    https://paris-luttes.info/proces-suite-a-une-autoreduction-15366

    Suite à une action d’autoréduction en janvier dernier à Paris dans un Carrefour, deux camarades sont convoqué.es pour un procès le 14 octobre. À cette occasion, nous vous proposons quelques réflexions sur la période actuelle et les raisons qui nous animent dans nos luttes au quotidien. Nous appelons à faire circuler ce texte et à venir en solidarité le jour du procès !

    Jeudi 14 octobre à 9h, se déroulera au tribunal judiciaire de Paris le procès de deux de nos camarades, dont l’identité a été contrôlée lors de l’autoréduction qui a eu lieu au Carrefour Market de la rue Nationale, dans le 13e arrondissement de Paris, le 30 janvier dernier. Il leur est reproché d’avoir « frauduleusement soustrait des biens de consommation (denrées alimentaires, alcool, hi-fi etc…) pour un montant total estimé à 16 449,75 euros au préjudice de Carrefour Market, avec cette circonstance que les faits ont été commis en réunion ». Au-delà de ce montant fantasque dont on ignore la méthode de calcul, il est important de rappeler ce qu’il s’est passé.

    Le samedi 30 janvier 2021, nous avons été une soixantaine de militant·e·s à remplir nos caddies de produits alimentaires et hygiéniques dans ce supermarché. Après avoir distribué des tracts tant aux salarié·e·s qu’aux client·e·s, déployé deux banderoles, bloqué les caisses et expliqué au mégaphone les raisons de notre action, une négociation a été entamée entre nous et le directeur du supermarché. Contacté par le directeur, le siège de Carrefour a accepté de céder la marchandise s’il s’agissait, selon leurs critères, de produits de première nécessité. Au bout d’une heure et demie d’une discussion qui a principalement porté sur la qualité et la nature des produits que l’on nous autorisait à emporter, nous sommes parti·e·s avec donc l’accord de la direction.

    Dans les jours qui ont suivi cette autoréduction, différents collectifs de la région parisienne engagés dans des actions de lutte contre la précarité ont redistribué les produits alimentaires et hygiéniques. Ce sont les liens tissés depuis le premier confinement qui ont permis à des cantines populaires, des réseaux de maraude, des associations de femmes, des collectifs de travailleur·euse·s sans papiers, mais aussi à des mères isolées de récupérer ces produits.

    Pour en finir avec la charité

    En mars 2020, alors que l’État abandonnait les plus précaires d’entre nous (mères isolées, étudiant·e·s, travailleur·euse·s sans papiers, etc.) et que les structures associatives fermaient, nous avons été nombreux·euses (voisin·e·s, militant·e·s, etc.) à nous mobiliser en distribuant nourriture et produits d’hygiène, partout en France : les brigades de solidarité populaire dans différentes villes, la Casa de Toulouse, l’Île Égalité de Cusset à Villeurbanne, le McDo autogéré de Saint-Barthélémy à Marseille, parmi tant d’autres exemples. Depuis, nous voulons faire perdurer et développer ces actions d’entraide mises en place durant le premier confinement.

    Pour alimenter l’entraide, nous allons par exemple à Rungis récupérer les fruits et légumes invendus, et ce n’est pas par bonté de cœur que les grossistes nous les donnent : en plus de bénéficier d’avantages fiscaux, cela leur permet de ne pas avoir à s’occuper de leurs déchets. De la même manière, quand nous organisons une collecte devant un supermarché, les entreprises de la grande distribution y trouvent leur compte, cela leur permet d’augmenter leur chiffre d’affaires, tout en faisant peser le poids de la solidarité sur celles et ceux d’entre nous qui ont encore les moyens de consommer au supermarché et de payer pour les autres. Ainsi, un directeur de Leader Price à Montreuil a contacté l’un d’entre nous pour nous inciter à organiser des collectes devant son magasin plutôt que devant le Monoprix, ou comment se faire de la publicité sur le dos des initiatives de solidarité. Face à cette hypocrisie, nous partageons un constat : les dons et la récupération de produits invendus ne suffisent pas. Plutôt que de nous contenter des miettes, des restes et des invendus de médiocre qualité, nous avons choisi l’autoréduction, afin d’en finir avec la charité et de prendre selon nos besoins.

    #autoréduction #justice #précaires #brigades_de_solidarité_populaire #entraide #Carrefour

    • « Il y a de la casse chez les salariés » : la grande distribution essorée par un an et demi de Covid-19 (cité par l’article ci-dessus)
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2021/07/06/il-y-a-de-la-casse-chez-les-salaries-la-grande-distribution-essoree-par-un-a

      Les hôtesses de caisse des hypers et des supermarchés conservent un souvenir amer, voire traumatisant, de leur expérience d’« employées de la deuxième ligne » durant les divers confinements liés à la pandémie.

      « Bonsoir à toute l’équipe, merci d’avoir été autant disponible cette semaine. Journée très, très, rude aujourd’hui, qui, sans vous, aurait été encore plus un enfer. » Ce vendredi 13 mars 2020, à 21 h 30, Carole Amanou, la responsable du secteur caisse et de l’accueil du supermarché Casino de Marseille Valmante, envoie un SMS à ses collaborateurs. Depuis plusieurs jours, partout en France, les clients s’arrachent papier toilette et pâtes dans les rayons. A 47 ans, elle a beau travailler « au pied des calanques », une fois le message envoyé, ses nerfs lâchent.

      A cette heure, elle ne sait pas encore que le premier ministre d’alors, Edouard Philippe, annoncera, le lendemain, la fermeture, « jusqu’à nouvel ordre », de tous les « lieux recevant du public non indispensables à la vie du pays »

      Le début d’une année éprouvante pour les salariés de la grande distribution, contraints de se rendre sur leur lieu de travail malgré le risque sanitaire. Une année que Carole Amanou résume ainsi : « Au premier confinement, on avait du personnel, mais pas les protections. Et, au deuxième, on avait les protections, mais pas le personnel. » Pour tous, « c’était difficile, émotionnellement, nerveusement et physiquement ».

      Mme Amanou fait partie de ces 632 957 salariés du commerce à prédominance alimentaire, d’après l’Observatoire prospectif du commerce. Et de ces 4,6 millions de salariés du privé, hors secteur médical, dans « dix-sept professions, qui ont continué à travailler sur site durant la crise sanitaire, pour continuer à apporter à la population les services indispensables à la vie quotidienne, avec un risque potentiel d’exposition au Covid-19 », précise la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques (Dares) du ministère du travail, dans un document paru en mai.

      « Déficit global de qualité de l’emploi et du travail »

      Des travailleurs « de la deuxième ligne » qui « souffrent d’un déficit global de qualité de l’emploi et du travail, observable avant la crise à partir d’un ensemble de sources statistiques concernant six dimensions : salaires et rémunérations ; conditions d’emploi ; conditions de travail ; horaires et conciliation vie familiale-vie professionnelle ; formation et trajectoires professionnelles ; dialogue social », écrit l’organisme public. Mais aussi, comme le raconte Carole Amanou, du regard de clients qui ne se retiennent plus en caisse de lancer un « regarde, si tu ne vas pas à l’école, tu seras caissière comme la dame ».

      « On était en deuxième ligne. Pas en première ligne, comme les personnels soignants, mais les inquiétudes étaient là », déclare Nadia Ayad, 53 ans et « vingt-deux ans de Carrefour », tient-elle à préciser. Malgré son tempérament bien trempé, cette vendeuse au rayon multimédia du magasin d’Ollioules (Var), à côté de Toulon, « terminait les journées sur les nerfs, lors de cette période folle du premier confinement, au bord des larmes ».

      Dans les métiers de contact avec les clients, les #femmes sont surreprésentées : 82 % des caissiers et employés de libre-service, selon la Dares. Carole Amanou, dont le compagnon, infirmier, partait tous les jours à l’hôpital, s’angoissait « de l’avenir » de ses enfants de 20 et 11 ans. « Le grand vivait la nuit et dormait le jour, et il fallait éviter que le petit ne soit constamment sur sa console de jeu pendant qu’on n’était pas là », se rappelle celle qui devait aussi « faire les courses pour [s]es parents et [s]a grand-mère, juste avant d’aller travailler ».

      Et, le soir, ces employés devaient observer une discipline, presque médicale, de « laver leurs vêtements tous les jours en machine, ou de passer par leur garage pour se dévêtir entièrement, avant de rentrer dans la maison », raconte Carole Desiano, secrétaire fédérale de la FGTA-FO, l’un des syndicats du secteur.

      « Faire la police »

      Marina Vilatte, âgée de 32 ans, responsable du drive au Super U d’Angoulême, a vécu de l’intérieur la frénésie des Français pour les courses à distance. De vingt par jour en temps normal, son équipe a dû assurer 125 commandes au début de l’épidémie. « Il fallait même attendre trois ou quatre jours pour avoir un créneau de livraison. »

      Séparée avec deux enfants à charge de 11 et 13 ans, elle commençait ses journées à 5 heures du matin. « Sans école ni centre aéré, il n’y avait pas d’autre solution que de laisser les enfants tout seuls à la maison, raconte Marina Vilatte. Quand ils se chamaillaient trop, ils m’appelaient pour me dire : “elle m’a dit ça”, “il a fait ça”. Et moi, je ne pouvais rien faire. C’était du stress en plus. En rentrant, je finissais par ne plus faire attention sur la route. » Son fils a fini en dépression et sa fille à l’hôpital. « Tout le monde en a souffert. Nous, au moins, au travail, on avait quand même une vie sociale », dit-elle en soupirant.

      Dans cette population de travailleurs de la chaîne alimentaire, plus d’une vie a été brisée. Malgré son « physique d’adolescente » et « une pêche d’enfer » pour sa soixantaine, Marie-Joe Joubaud, caissière au Carrefour d’Ollioules, éprouve un sentiment de culpabilité d’avoir refusé d’héberger son neveu, fraîchement séparé, et ses deux enfants. Elle ne voulait pas risquer de les contaminer, car, dans un hypermarché, elle serait « au contact de beaucoup de monde ». « Trois jours plus tard, mon neveu s’est pendu. »

      Ces salariés, qui ont dû « travailler comme des soldats envoyés au front », ont été en première ligne face aux clients agacés par les restrictions, pour « faire la police », afin qu’ils ne rentrent pas tous en même temps, et les faire sortir « pour que le magasin ferme à l’heure », raconte Nadia Ayad. Et, tous les jours, affronter les incivilités. Comme cet homme que Carole Amanou a refusé de faire entrer « alors qu’[ils] étai[en]t en train de fermer » et qui « a fini en [lui] lançant un “ramène-moi ton mari” ». « On est constamment sur la défensive », ajoute-t-elle.

      « On est solidaire entre nous »

      Des histoires comme celle-là, elles en ont plein à raconter. L’une s’est fait « cracher dessus ». L’autre « traiter de connasse ». Une autre encore s’est vue menacée par deux jeunes, énervés par un rappel de la distanciation physique, qui « ont jeté par terre leurs deux bouteilles de cognac. Il y en avait partout. Tout de suite, c’était de [s]a faute », se rappelle Marina Vilatte.

      L’« agressivité des clients », Amara Fousya, 37 ans, également hôtesse d’accueil dans le Carrefour d’Ollioules, a appris à la gérer grâce à « d’anciennes formations ». « Je ne rentre pas en conflit. Quand le client t’agresse, il n’en a pas contre toi, il s’en prend à Carrefour. » Récemment séparée de son conjoint, elle s’était arrêtée dès le début pour garder ses enfants, âgés de 3 ans et demi et 10 ans. « Mais j’ai très mal vécu ces deux mois à la maison, _témoigne-t-elle. Je culpabilisais de laisser ma collègue toute seule au boulot. Quand j’ai repris le travail, j’étais contente. »

      Le deuxième confinement ? « Hors de question de m’arrêter. On est solidaire entre nous. » Entre elles, d’ailleurs, elles s’appellent « les filles », comme si elles exerçaient ensemble un sport de compétition. « On était hypersoudées, telle une armée qui devait faire bloc face au Covid-19 », se rappelle Carole Amanou.

      « Certaines auraient pu se mettre en absence pour garde d’enfant et ne l’ont pas fait, pour ne pas mettre à mal les collègues », raconte Nadia Ayad. « [Rétrospectivement,] on s’est dit qu’on avait vécu quelque chose qui nous appartenait », par rapport à ceux qui se sont arrêtés, ajoute Mme Amanou.

      De leur engagement, certains dirigeants en ont pris conscience, tant ils craignaient que cela ne fracture leur entreprise. « Nos équipes dans les magasins travaillaient dans des conditions compliquées les premiers jours, raconte le patron d’un groupe de grande distribution, qui souhaite garder l’anonymat. Je m’étais dit que ça allait casser la psychologie de la boîte en deux, avec, d’un côté, les sièges fermés et les dirigeants dans leur maison et, de l’autre, ceux qui vont tous les jours au travail et qui ne se posent pas la question d’y aller. Finalement, cela a été contrebalancé par un sentiment de fierté et d’utilité, dans un secteur qui souffre parfois de ne pas être reconnu et apprécié. »

      Pour autant, ces employés de la « seconde ligne » savent que « leur métier se transforme, qu’un jour il n’y aura plus besoin de caissières », dit Amara Fousya. « Chez nous, l’installation des caisses automatiques, cela crée énormément de stress. En quelques années, on est passé de 120 caissières à moins de 70. Les embauches, c’est pour le drive. »

      Cette année folle, « cela laisse des traces », d’après Mme Desiano. « Il y a de la casse, renchérit Nadia Ayad. Des salariés qui ne sont toujours pas rentrés, d’autres qui ont de grosses difficultés. » Comme cette collègue, « qui pourtant a du métier », à qui il ne faut pas parler trop fort, « sinon elle fond en larmes, car elle se sent agressée. Certaines, déjà fragiles, se sont retrouvées avec encore plus de failles ». Beaucoup regardent ces événements comme des épreuves qu’elles sont fières d’avoir surmontées.

      En 2020, la plupart des enseignes les avaient récompensés par la « prime Macron » de 1 000 euros. Cette année, cela ne semble pas d’actualité. Et pourtant. « La pandémie a enrichi la grande distribution et fragilisé les travailleuses », en France comme dans le reste du monde, « plus durement touchées par la crise, car surreprésentées dans les emplois peu qualifiés et mal payés des grandes chaînes d’approvisionnement, et notamment alimentaires »_, selon un rapport Oxfam publié le 22 juin. Selon l’organisation, le salaire net médian de ces employés était de 1 300 euros par mois.

      #commerce #travail #grande_distribution

  • L’enfer des républicains espagnols exilés en Afrique du Nord Laurent Perpigna Iban - 8 avril 2021- Orient XXI

    Aux derniers jours de la guerre d’Espagne (1936-1939), des milliers de républicains trouvaient refuge dans le Maghreb colonial. Internés puis convertis aux travaux forcés sous le régime de Vichy, ils ont vécu une histoire aussi tragique que méconnue.


    Photo prise au camp de Bouarfa (Maroc) en 1940. Archives personnelles Eliane Ortega Bernab

    Mars 1939. Depuis plus d’un mois, la Catalogne est entre les mains des forces franquistes. Près d’un demi-million de réfugiés républicains espagnols prennent la fuite par le nord, pour ce qui reste aujourd’hui encore la plus importante migration jamais observée à une frontière française. Mais la retirada n’est pas l’ultime chapitre de la guerre d’Espagne : dans le sud-est de la péninsule ibérique, les derniers bastions républicains tombent les uns après les autres. Les hostilités se terminent dans « l’entonnoir » d’Alicante. Ne pouvant fuir ni par Valence ni par le sud de l’Espagne déjà aux mains des franquistes, miliciens et civils républicains sont contraints de prendre la mer.

    Depuis Alicante, plusieurs milliers embarquent en catastrophe en direction du port le plus proche, Oran. La flotte républicaine en provenance de Carthagène accoste elle à Alger, avant d’être déroutée, avec 4 000 personnes à son bord, vers Bizerte en Tunisie. Au total, ce sont probablement entre 10 000 et 12 000 Espagnols — peut-être plus selon certains témoignages — qui arrivent sur les côtes d’Afrique du Nord en quelques jours.


    Le croiseur Libertad de la flotte républicaine entre dans le port de Bizerte en 1939 - Archives personnelles Victoria Fernandez

    Internés sous la IIIe République
    Si une poignée de républicains sont accueillis par des proches à Oran — qui possède une forte communauté hispanique — dès le 10 mars 1939, le gouvernement de la IIIe République qui administre l’Afrique du Nord met un frein à leur arrivée. Depuis un an, les décrets-lois Daladier encadrent la venue de réfugiés : on parle de triage entre la « partie saine et laborieuse de la population étrangère et les indésirables », d’assignations à résidence, de centres d’internements… Un schéma qui va être reproduit en Algérie, au Maroc et en Tunisie.

    Pendant que le maire d’Oran célèbre en grande pompe la victoire franquiste, une partie des républicains sont maintenus de force dans des embarcations converties en bateaux-prisons. Ceux qui peuvent débarquer sont placés dans des « guitounes », notamment sur le quai éloigné de Ravin blanc. Eliane Ortega Bernabeu, dont le grand-père était à bord de l’un de ces bateaux, le Ronwyn, raconte : Ils étaient totalement isolés, tenus à l’écart des habitants. Malgré cela, certains Oranais leur sont venus en aide, en amenant de la nourriture, qu’ils hissaient à bord des navires grâce à des cordes. En revanche, une autre partie de la population ne voulait pas recevoir ces Espagnols, inquiets de leur nombre. Le maire de la ville, l’abbé Lambert, était un ami de Franco. Il a grandement contribué à créer un climat de peur chez ces habitants.


    Les républicains espagnols « triés » après leur arrivée à Bizerte - Archives personnelles Victoria Fernandez

    Sur le port d’Oran, la situation s’éternise : des milliers de républicains y resteront plus d’un mois, dans des conditions d’insalubrité et de sous-alimentation totale. Travaux forcés

    En Tunisie, les marins et les civils de la flotte républicaine sont eux aussi tenus à l’écart de la population. Rapidement, ils sont acheminés en train vers le centre du pays et des camps d’internement, notamment celui de Meheri Zebbeus. En Algérie également, une fois débarqués, les réfugiés sont placés dans des camps : « Il y avait des civils, des ouvriers, des syndicalistes, enfermés derrière des barbelés, et sous la menace constante de baïonnettes », explique Eliane Ortega Bernabeu.

    Dans les nombreux camps — dont la majorité se situe sur le territoire algérien —, la même législation qu’en métropole est appliquée. Peter Gaida, historien allemand et auteur de plusieurs ouvrages sur les camps de travaux forcés et les républicains, explique : Les exilés sont considérés comme dangereux pour la défense nationale, ils sont contraints de fournir des prestations en échange de l’asile : une partie part dans les camps d’internement, l’autre dans les compagnies de travailleurs étrangers, les CTE. Des prestations légales dans la mesure où la France était en guerre, et les Français étaient aussi réquisitionnés.

    En Algérie, les femmes, les enfants, ainsi que des invalides sont envoyés dans différents camps : Carnot (Orléansville) ou Molière, pour les plus connus ; les combattants, eux, rejoignent ceux de Boghar et Boghari où ils sont enrôlés pour satisfaire aux besoins en main-d’œuvre de la puissance occupante. Ils sont employés notamment à rénover des routes dans la région de Constantine, et à exploiter les mines de charbon et de manganèse dans le sud oranais.

    Le transsaharien, vieux rêve colonial
    Les dirigeants de la IIIe République française décident alors de relier les mines de Kenadsa, situées au sud d’Oran, aux chemins de fer marocains. Deux mille républicains espagnols et membres des Brigades internationales intègrent la Compagnie générale transsaharienne, afin d’entretenir les pistes dans le désert. Dans son ouvrage Camps de travail sous Vichy (à paraître en juin 2021 aux éditions Les Indes savantes https://www.sfhom.com/spip.php?article3747 ), Peter Gaida publie le témoignage de l’un d’entre d’eux, interné au camp de Colomb-Béchard, en Algérie : On nous envoya à quatre kilomètres de l’oasis pour enlever le sable d’une énorme dune pétrifiée de plus de 2 000 mètres de longueur. La température était étouffante, plus de 40° à l’ombre et l’eau rare et chaude. C’est là qu’ont commencé les dysenteries, les crises de paludisme, les vomissements et les forts maux de tête.


    Des internés affectés au transsaharien - Archives personnelles Eliane Ortega

    Après l’armistice du 22 juin 1940, le gouvernement de Vichy au pouvoir remet au goût du jour un vieux rêve colonial : l’édification d’une ligne de chemin de fer stratégique, le transsaharien, autrement appelé « Méditerranée-Niger ». L’idée est de relier les colonies d’Afrique du Nord à celles d’Afrique occidentale : En réalité, les capitales des deux empires coloniaux français, Alger et Dakar. Vichy entreprend donc la construction d’une liaison ferroviaire de 3 000 kilomètres, en plein désert. Mais l’objectif est multiple : en plus du prestige colonial, il s’agit aussi de transporter des troupes militaires, du matériel et du charbon exploité au Maroc. Il y a également un projet en Afrique occidentale qui consiste à irriguer le Niger et de créer une culture du coton gigantesque, qui permettrait de rendre la France indépendante des Britanniques. Pour cela, il leur faut un chemin de fer qui puisse relier Alger.

    Le chantier, colossal, se divise en trois phases : la construction d’un axe Oran-Gao, en longeant le Niger, un second menant de Gao à Bamako, et un troisième censé relier la ligne à Dakar.

    L’horreur des camps
    La main-d’œuvre est toute trouvée : les Groupements de travailleurs étrangers (GTE, qui ont succédé aux CTE), disposent d’un cadre législatif répressif, subtile alliance du colonialisme et du fascisme. Un certain nombre de camps sont érigés et répartis entre le Maroc, la Tunisie, et l’Algérie. Mais les républicains espagnols ne sont pas les seuls à être affectés sur les différents chantiers : « Des anarchistes et communistes français, des membres de Brigades internationales, et des personnes aux profils très divers vont être déportés des camps français, comme celui de Vernet, vers ceux d’Afrique du Nord en bateau. Pour Vichy, ce sont “des bouches inutiles et des bras qui manquent” », explique Peter Gaida.


    Les camps d’internement en Afrique du Nord DR

    En outre, plusieurs milliers de juifs sont exclus de l’armée française, et placés dans des Groupements de travailleurs israélites (GTI). « Dans les camps, il y également des Nord-Africains, notamment ceux les leaders des mouvements nationalistes en Tunisie et en Algérie. Il y a donc une population très mixte, on trouve même la trace de juifs allemands et de Yougoslaves », commente Gaida.

    Source : https://orientxxi.info/magazine/l-enfer-des-republicains-espagnols-exiles-en-afrique-du-nord,4624

    #Colonialisme #Algérie #Espagne #Fascisme #France #Histoire #Maghreb #Seconde_guerre_mondiale #Catalogne #Républicains_Espagnols #Juifs #Brigades_internationale #GTE #CTE #travaux_forcés

    • Via https://www.infoaut.org

      La façon dont l’État « règle ses comptes » avec ces années est tout simplement de ne rien régler du tout, afin de maintenir ouverte autant que possible la narration d’un danger terroriste au coin de la rue. Il s’agit d’exorciser la possibilité du conflit social (de n’importe quel conflit social, pas seulement le conflit armé) comme construction d’un itinéraire différent de celui de l’état actuel des choses. Ce n’est pas un hasard si ce type d’exorcisme atteint son apogée aujourd’hui, alors qu’une pandémie mondiale nous montre la décadence dans laquelle se trouve notre soi-disant civilisation.

      Et si, sous nos latitudes, en l’absence de conflits sociaux de grande ampleur, un tel discours apparaît paroxystique, utile seulement pour alimenter le ventre réactionnaire de certains bassins électoraux, de l’autre côté des Alpes cette stratégie est beaucoup plus claire.

      L’enterrement de 68 dure longtemps

      #Justice #imprescriptibilité

  • 40 ans après, la France décide de livrer à la justice italienne d’ex-militants de la lutte armée à qui elle avait accordé l’asile - Paris (75000)
    https://www.lamontagne.fr/paris-75000/actualites/40-ans-apres-la-france-decide-de-livrer-a-la-justice-italienne-d-ex-milit

    Serge Quadruppani préfère rappeler le contexte historique de ce qu’il appelle un « affrontement politique armé ». Celui « des ouvriers et de la jeunesse étudiante contre l’État italien. C’est un mouvement comparable à celui de Mai 68 et qui a duré dix ans. C’était beaucoup plus violent mais c’était toute la société italienne qui était plus violente […] Il y avait des morts des deux côtés. Y compris dans les manifestations ou lors des arrestations par les policiers. C’était une forme de guerre civile ».
    Alessandro Stella, qui a pu prendre un nouveau départ en France et qui n’est plus dans le collimateur de la justice italienne, a témoigné dans un livre de son parcours militant (1).
    Pour l’historien qu’il est devenu, le « contexte » ne peut être occulté. Alessandro Stella parle même d’une « responsabilité collective que les juges ne veulent pas prendre en compte » : « Il y avait en Italie dans ces années-là des millions de gens qui criaient -Vive la Révolution-, et au bout de tout un processus, quelques milliers qui ont fini par prendre les armes. Qui se sont convaincu qu’il fallait répondre par la violence à un Etat violent. »

  • Exiting democracy, entering authoritarianism: state control, policing and surveillance in Greek universities

    A bill regarding the “safety” and policing of Greek universities, among other issues, was voted on the 11th of February 2021, by 166 MPs from New Democracy, the right-wing ruling party, and Greek Solution, a far-right party, despite the unanimous opposition of left-wing parties (132 MPs), the Greek academic and student community and police unions. It came in the context of the COVID-19 pandemic which has arguably been an extremely difficult, painful, insecure, traumatic and challenging situation that has affected everyone’s life, including economic, health and cultural systems around the world. That context is accompanied by an extremely uncertain, obscure and blurry future that heightens insecurity globally and locally. The education system has been particularly affected with universities being closed for over a year; teaching is only taking place virtually (with detrimental effects on the mental health of both teaching staff and students); and where it is extremely difficult due to social distancing regulations for the educational community to come together, discuss and exchange views on pressing matters regarding the future of Higher Education.

    What does the bill entail?

    The bill “Admission into Higher Education, Protection of Academic Freedom, Upgrading of the Academic Environment and further provisions”, which became law (4477/2021) on the 17th of February 2021, requires from all Higher Education institutions the implementation of security systems such as: the surveillance and recording of both image and sound (CCTV cameras, microphones etc) on open and closed University spaces; movement censors and alarm systems; restricted access to university spaces only for university staff and students or even biometric controls at the entrances; electronic detection systems for illegal substances and objects; and Control Centers for Signals and Images to be established within University premises.

    The law also dictates the introduction of both Units and Committees for “Safety and Protection”, as well as Disciplinary Councils for Students together with a list of a variety of disciplinary offences. The former will be responsible for the drafting, implementation, assessment and management of security agendas and requirements for each individual university, while the latter will be conducting “disciplinary interrogations” and fulfill duties such as: autopsy, witness cross-examination, interrogation of the “persecuted” and composing experts’ reports. The Disciplinary Council will have the power to impose fines and even expel students who have committed disciplinary offences. The Units and Committees for Safety and Protection as well as the Disciplinary Councils, will be composed by University teaching and research staff, transforming them thus, from teachers and researchers to cops and security managers.

    Importantly, Article 18 of the law also dictates for the first time in a democratic European country the establishment of a police security force for universities under the name: “Squads for the Protection of Universities”. The Squads will be carrying a truncheon, handcuffs and anaesthetic/pepper spray gases; they will be patrolling campuses and police stations are to be established within University premises without the consent of university authorities. Further, these squads are to be staffed initially with 1030 police officers (Special Guards), a number that is set to increase depending on the “security needs” of each institution. While for the Prime Minister, Kyriakos Mitsotakis, the creation of these Squads and the extensive surveillance of public Universities are “a means of closing the door to violence and opening the way to freedom” and “it is not the police who enter universities, but democracy”; for the majority of the academic community as well as opposition parties, this legislation is an alarming move towards authoritarianism as it opens the doors to the permanent policing and surveillance of universities.

    Abolishing the self-rule of universities and academic freedom through permanent policing, surveillance and disciplining of universities

    To assess those worries we need firstly to set the context. Greek universities (in something that is often uncommon in universities in the Anglo-American part of the world, but very common in Southern Europe, France and Latin America) are very much intertwined with Greek politics and wider social struggles. They constitute an energetic social and political space, which is closely connected to and strengthens wider society’s social struggles against forms of oppression and injustice, rather than simply being sterile spaces of providing information. As such they have historically played a crucial role in Greek politics and constitute “a stronghold of democracy”. Students who occupied the National Technical University of Athens in 1973 against the military junta - an occupation which ended when tanks invaded the gates of the University killing dozens of students and people in the surrounding areas - are considered to be one of the key factors for the overthrown of the junta regime and the transition of Greece to democracy. Since then the academic and student community has been engaging in various forms of protest and solidarity to wider social struggles, while the entrance of police to university premises was banned by law in 1982. The police were only eligible to enter after a University Dean’s request or if a serious crime took place. The “asylum” law as it was called, was abolished in August of 2019, almost as soon as the conservative government of New Democracy came to power.

    Within this context, the fact that the education law (4477/2021) was drafted for the first time in Greek history jointly by both the Ministry of Education and the Ministry of Citizen’s Protection (i.e. Ministry of Policing), shapes as will become clear, the character and goals of the legislation; which are nothing less than the targeting and criminalization of the socio-political character of the Greek University and academic freedom.

    Therefore the first thing to consider that substantiates the worries of the academic community is that the 1030 police officers (Special Guards) who will form the “Squads for the Protection of Universities” will not have graduated from the 3-year Police Academy degree, which was the principle requirement so far in police hiring procedures. Rather Special Guards are trained through speedy processes and are staffed through rapid hiring procedures of candidates that have declared an interest in becoming police officers, hold simply a high school degree and have completed their military service (compulsory for men in Greece) – preferably from the special forces, reserve military forces, Presidential Guard or from 5-year forces of military volunteers or from bodies of professional soldiers. In the summer of 2019 when the right-wing government of New Democracy was elected, 1,500 Special Guards were recruited to staff riot police and motorbike police (DIAS squads) and now 1030 more will staff University Police. As the Reader of Criminology at Teesside University, George Papanikolaou, argues, we are witnessing a restructuring of the Greek police, whereby male personnel shaped through military type of training and culture will be incorporated in frontline squads to deal with citizens.

    It is no wonder then, given the historical tensions in Greece between student movements and the police, that the academic and student community fear a regression to an authoritarian state, where they will be dealt with as “internal enemies” and handled accordingly. These fears become more and more real as both before and after the bill was passed, the police have engaged in widespread blind violence and authoritarian practices: driving motorbikes at students peacefully protesting against the bill; breaking the teeth and jaw with a fire extinguisher of a peaceful student protestor; torturing in public sight a student that was member of the student group, which as a form of protesting against the educational law had peacefully occupied the administration building of the Aristotelian University of Thessaloniki; and even kidnapping students from their own houses in the city of Chania, Crete.

    It should also be noted that the lack of training of the Special Guards has also raised serious concerns and objections within police unions, who unilaterally oppose the staffing of the university squads in such a way. Despite the lack however of proper training, these squads will have the authority to patrol, arrest, conduct preliminary interrogations, prevent and address any “deviant” or criminal behaviour within University spaces (Article 18); and are to staff the Control Centers for Signals and Images together with university personnel. The fact that the law (Article 19) clearly states that Special Guards can perform all police duties except for preliminary interrogation, a function that they are set to perform in universities, creates serious questions for the academic and student community. It is also not clarified by the law what is meant by “deviant” behavior or the ways in which these squads are going to “prevent” it (i.e. will they stop and search students and staff and conduct inspections in teaching rooms)? Further, university authorities are to facilitate the new patrolling “Special Forces” in “all possible ways” to implement their duties. Again, it remains unclear by the law what this facilitation will entail and whether Deans and university Senates will have the right to object or even to reject such facilitation.

    This last point leads us to the most important issue about this legislation. The educational law (Article 18 para.5) dictates that these police squads will not answer to university authorities, as required so far by the constitutional autonomous character of universities. Instead, they will directly fall under the mandate of the Ministry of Citizen’s Protection and the Greek police. All these aspects are very distant from the protection of academic freedom that the legislation alleges to support. Academic freedom entails freedom of scientific research and teaching, freedom of circulation of ideas as well as, the constitutional prerequisite of the fully autonomous nature of universities. Therefore, the fact that these squads will act and be managed and supervised by the Greek police renders this law unconstitutional regarding the principle of university self-rule. The legislation hinders academic freedom and arguably transforms Greek Universities into fortresses of control, surveillance, repression and policing. The fact that the undersecretary of education justified the establishment of police squads and stations within universities on the grounds that it was also a practice during the military junta, attests further to the worries of the academic community regarding academic freedom and university’s self-rule.

    Further, while for universities in the Anglo-American world widespread surveillance is a common and more often than not, unchallenged practice; most probably these universities were not blackmailed (although some recent developments regarding freedom of speech in British Universities might prove otherwise) by their country’s government through legislation (in the Greek case Parts C(d) and D (b) of the law) that their funding would be cut if they did not implement the surveillance and disciplinary prerequisites of the law. A factor that again verifies the abolition of University’s self-rule. Regarding the 24/7 surveillance data of the Centers for Signals and Images it is not clear concerning privacy and data protection, how long the data will be stored, what will be the purpose of processing it and, most importantly, what safety valves are there in order to prevent misuse of the data. So far practices in Greece show that the EU General Data Protection Regulation (GDPR) is not being upheld. As the expert on Data Protection and Privacy law, Prof. Mitrou, has argued “The Greek law has not respected the GDPR as standard borderline and has (mis)used ‘opening clauses’ and Member State discretion not to enhance but to reduce the level of data protection”.

    Making the situation worse, the fact that University’s teaching and research personnel, who are to staff these Centres along with the police are largely unfamiliar with security planning and surveillance systems, makes more probable for the University police squads to oversee handling of the data. Creating hence serious concerns over who will supervise these squads against violating EU laws regarding data processing and misuse. Similar questions are being posed for the staffing of Units and Committees for Safety and Protection. Moreover, it is not clarified whether the University police squads will also be equipped with devices allowing for live facial recognition and fingerprint identification that Greek police is to receive by summer 2021. An issue that creates even more intense unease regarding the legitimacy and protection of handling of also biometric data of students and staff.

    In essence, the fact that there have been various cases in the Anglo-American world where privacy and data protection safeguards have been breached: administrators of surveillance systems and university administrators monitor emails and social media of staff and students; their on- and sometimes off-campus movements; and have used this monitoring to let go of academic personnel and suppress any type of protest or diffusion of information that while abiding by university’s code of ethics is not approved by university administration; attests to the worries of the Greek academic and student community regarding academic freedom. This is affirmed by the Foundation for Individual Rights in Education (FIRE)- which has already found that such monitoring practices are open to misuse and hence can turn to not only illiberal but unconstitutional tools. These alarming developments should perhaps make us all reflect on whether we are trading away too much of our liberty in the name of “safety” and whether we want universities to become authoritarian institutions. But how did we come to this?

    Deliberate efforts at defamation of the Greek public university

    During the previous months, the government of New Democracy together with pro-government media engaged in a malicious campaign aiming to defame public universities and represent them to Greek citizens as “sites of lawlessness”, disorder and delinquency. There are definitely problems in Greek universities (mainly caused by the severe underfunding over the past decade), but they are not as depicted by the mass media as centres of crime and havoc. Sofia Vidali, a professor of criminology, eloquently deconstructs such representations in her article “Criminality and Policing in Greek Higher Education: ‘truths’ and ‘lies’”, by showing that instances of delinquency and petty criminality relate to wider socio-economic and spatial characteristics of the area in which each University is placed. Moreover, offences within and in the surrounding areas (both are counted as one in official police statistics) of University premises constitute a very minor subtotal (2,053 offences out of approximately 1,835,792) of the country’s crimes for the periods 2007-2018.

    Arguably, one of the key stereotypes that has been employed by the Minister of Education, Niki Kerameus, and pro-government media propaganda, was that academics are afraid of being hostage to students (particularly students with leftist leanings). They constructed a “moral panic” (see Coehn, S. 1972/2002) around two incidents. The one was the symbolic building in 2006 of the Dean’s office of Democritus University of Thrace by students in protest at the scandalous mismanagement of their alimentation. While the Dean’s office was empty when the building occurred, the stereotype purposefully constructed was that the students had trapped the Dean inside his office, with Mrs. Kerameus stating on 8/02/2021 that “we need to convince young people that it is not normal to build professors within their offices”. The second case was an unfortunate and atypical incident at the Economic University of Athens in October 2020, where young people from the anti-authoritarian political realm forced the Dean to wear a label saying that he supported squatted buildings. While unanimously the academic community had condemned the event and, despite it being an exception rather the rule, the incident has been represented as the common feature of university life. These representations were widely used to justify and legitimize to the wider public the necessity for disciplining, surveillance and establishment of a police force within universities.

    As part of these representations was also an orchestrated defamation of University professors who challenged such depictions. A typical example was that the Greek government has attempted to justify its law through false pretenses of “best practice” stemming from examples in the Western World and particularly Oxford University; saying that there is a police force established for the security of the latter. When a Greek professor at the University of Oxford, Antonios Tzanakopoulos, denied the presence of such police force, Greek pro-government media and Ministers, following largely Trump’s techniques of communication, attempted to distort and slander his statements by saying that he is a liar and a defrauder who spreads fake news. It should be noted that the Oxford UCU has openly taken a stance against the law, while denying the existence of a university police force in its premises. These processes of disinformation, censoring and silencing of any voice that runs counter to the government’s agenda has been a common practice throughout the past year, rendering Greece 4th before last within the EU regarding press freedom and a flawed democracy. It should be emphasised that no police force is established in any European University. Rather, as is the current case in Greece, security personnel and porters (which can be both private and public servants) under a university’s authority are responsible for security issues.

    Importantly, these deliberate practices of defamation of Universities, their academic staff and students come after almost a decade of severe underfunding of the Greek university. During the acute economic crisis (2010-2018), university funding was cut from 75% to even 120% in some Universities, placing Greece in the last positions in Europe in terms of university funding and infrastructures (including the firing of the porters and security personnel). Hence it comes as a great disappointment for university personnel to see that the government is willing to provide 50 million euros (20 million annually for the salaries of the 1030 university police squads and 30 million for the implementation of security systems), when 91 million is the entire budget for universities, who still suffer from underfunding. This money could arguably be used to hire more teaching, research and administrative personnel, porters and the development of infrastructures (i.e. teaching spaces and lab equipment). Arguably the problems that Greek Universities face due to chronic underfunding will not be solved by policing and surveillance.

    It should also be highlighted that the defamatory representations purposefully tend to omit that Greek universities, despite their underfunding and global inequalities in terms of knowledge production, where if you don’t publish in English you literally don’t exist, achieve really good positions in Global University Rankings (ranked among the top 1000 Universities in the world). Crucially these slandering representations come after another legislation (4653/2020) of the Ministry of Education, which equated the degrees of private colleges with those of public universities that significantly “upgraded” the degrees of the former and “downgraded” the degrees of the latter. Private colleges in Greece do not produce research and the knowledge that they provide does not go through the same quality assessments as that of public universities. This “upgrade” of private colleges is combined with another controversial aspect of the law (4477/2021) under discussion, which reduces the numbers of students’ induction to public universities by 20%-30%, channeling arguably the “left-out” students to private colleges. An aspect that not only reduces further the funding of public universities but will also afflict the most vulnerable social strata of Greek society by hindering their educational and social mobility. In other words, the representations of criminality and “lawlessness” and the wider defamation and degrading of the public university, propagated by the mass media and the right-wing government, facilitates the latter in legitimizing the domination of the “law and order” dogma while at the same time fulfilling its neoliberal agenda of privatization of higher education.

    Conclusive remarks: What university do we want?

    As Prof. Costas Douzinas, at Birkbeck University, has argued, what is missing from all contemporary discussions about higher education in Greece and abroad is the core question of what universities do we want? The university at its core aims towards the complete freedom of thinking, critiquing, challenging, researching and circulating of ideas in a constant search for the “truth”. It aims to deepen democracy, including cognitive democracy by providing a pluriversality of knowledges, pedagogies and methodologies to understand the world around us. As such university education has a value in and of itself, which cannot be reduced simply to a tool(vocational) value. Indeed the knowledge provided by universities is about the blossoming of the human soul and mind by constantly shaping an understanding about the human condition, of our individual selves, the world and our societies, which is an “absolute human value” in and of itself (Carr 2009:14). In this way students will later be able to contribute not only to the economy but also to democracy.

    When the University simply becomes a vocational school – a trend that we largely see growing globally and is arguably also the aim of the Greek education law by attempting to downgrade public universities and criminalise socio-political action - then it stops cultivating knowledge and becomes instead simply a depository of information; a commodity that if invested in, will provide the necessary skills for the production of a “disciplined” learner/ consumer/worker to only serve the needs of each nation’s economic growth (Drummond, 2003). As such the University loses its liberatory and democratic essence and its interconnection to social struggles. Professor Boaventura de Sousa Santos powerfully demonstrates what is at stake globally if we continue to follow this trend: “Wherever you are, there are always people struggling against oppression, and you should really try to work with them if you are at the university. Otherwise, the university will be soon a capitalist enterprise like any other, whose market value is defined by rankings, students will be consumers and teachers, workers or, more nicely, collaborators. If we fail our social responsibility, the university as we know it will have no future”. This article is a call against such a dark future that will affect us all globally and locally and may jeopardise the future of democracy and academic freedom as we know it.

    References

    Carr, D. (2009) “Revisiting the Liberal and Vocational Dimensions of University Education”, in British Journal of Educational Studies. 57 (1): pp. 1-17.

    Cohen, Stanley. 2002 [1972]. Folk Devils and Moral Panics. London: Routledge.

    Drummond, J. (2003) “Care of the Self in a Knowledge Economy: Higher Education, Vocation and the Ethics of Michel Foucault”, Educational Philosophy Theory, Vol. 35 (1), pp. 57-69.

    https://www.crimetalk.org.uk/index.php/library/section-list/1012-exiting-democracy-entering-authoritarianism

    #Grèce #université #surveillance #police

    ping @isskein @karine4

    • Traduction :

      Exit la démocratie, bienvenue dans l’autoritarisme : contrôle de l’État, maintien de l’ordre et surveillance dans les universités grecques

      Un projet de loi concernant la « #sécurité » et le #maintien_de_l’ordre dans les universités grecques, entre autres, a été voté le 11 février 2021, par 166 députés de Nouvelle Démocratie, le parti de droite au pouvoir, et de Solution grecque, parti d’extrême droite, malgré l’opposition unanime des partis de gauche (132 députés), de la communauté universitaire et étudiante grecque et des syndicats de police. Cette décision est intervenue dans le contexte de la pandémie de COVID-19, qui a sans doute été une situation extrêmement difficile, douloureuse, insécurisante, traumatisante et éprouvante, qui a affecté la vie de chacun et de chacune, y compris les systèmes économiques, sanitaires et culturels du monde entier. Ce contexte s’accompagne d’un avenir extrêmement incertain, obscur et flou qui accentue l’insécurité au niveau mondial et local. Le système éducatif a été particulièrement touché : les universités sont fermées depuis plus d’un an, l’enseignement ne se tient qu’à distance —avec des effets néfastes sur la santé mentale du personnel enseignant et des étudiant·es — et, en raison des règles de distanciation sociale, il est extrêmement difficile pour la communauté éducative de se réunir, de discuter et d’échanger des points de vue sur des questions urgentes concernant l’avenir de l’enseignement supérieur.
      Quel est le contenu de la loi ?

      Le projet de loi « Admission dans l’enseignement supérieur, protection de la #liberté_académique, amélioration de l’environnement académique et autres dispositions », qui est devenu une loi (4477/2021) le 17 février 2021, exige de tous les établissements d’enseignement supérieur la mise en œuvre de systèmes de sécurité tels que : la surveillance et l’enregistrement d’images et de sons (#vidéosurveillance, #microphones, etc.) dans les espaces ouverts et fermés de l’université ; la contrôle inquisitorial des mouvements et les systèmes d’alarme ; la restriction de l’accès aux espaces universitaires aux seuls personnels et aux étudiants de l’université, voire des contrôles biométriques aux entrées ; des systèmes de #détection_électronique de substances et d’objets illégaux ; et la mise en place de centres de contrôle des signaux et des images dans les locaux universitaires.

      La #loi prévoit également la création d’unités et de comités pour la « sécurité et la protection », ainsi que de #conseils_de_discipline pour les étudiant·es, avec une liste de diverses infractions disciplinaires. Les premiers sont désormais responsables de l’élaboration, de la mise en œuvre, de l’évaluation et de la gestion des programmes et des exigences en matière de sécurité pour chaque université, tandis que les seconds vont mener des « #interrogatoires_disciplinaires » et rempliront des fonctions telles que l’autopsie 1, contre-interrogatoire des témoins, interrogatoire des « persécutés » et rédaction de rapports d’expertise. Le #Conseil_de_discipline aura le pouvoir d’imposer des amendes et même d’expulser les étudiant·es qui ont commis des #infractions_disciplinaires. Les unités et les comités de sécurité et de protection, ainsi que les conseils de discipline, seront composés de membres du personnel d’enseignement et de recherche de l’université, passant ainsi d’enseignants et de chercheurs à des flics et des gestionnaires de sécurité.
      Il est important de noter que l’article 18 de la loi impose également, pour la première fois dans un pays européen démocratique, la création d’une force de #sécurité_policière pour les universités sous le nom de « #Brigades_pour_la_protection_des_universités ». Ces #brigades seront munies d’une #matraque, de #menottes et de gaz anesthésiants et gaz-poivres ; elles doivent patrouiller dans les campus et des postes de police doivent être installés dans les locaux des universités sans nécessiter le consentement des autorités universitaires. En outre, ces brigades doivent être dotées initialement de 1030 policiers (gardes spéciaux), mais leur nombre est appelé à augmenter en fonction des « besoins de sécurité » de chaque institution. Alors que pour le Premier ministre, Kyriakos Mitsotakis, la création de ces brigades et la surveillance étendue des universités publiques sont « un moyen de fermer la porte à la violence et d’ouvrir la voie à la liberté » et que « ce n’est pas la police qui entre dans les universités, mais la démocratie« , pour la majorité de la communauté universitaire ainsi que pour les partis d’opposition, cette législation est un pas alarmant vers l’autoritarisme car elle ouvre les portes au contrôle et à la surveillance permanentes des universités.
      La fin de l’autonomie des universités et des libertés académiques par l’exercice d’une surveillance et une discipline permanentes au sein des universités

      Pour analyser les causes de l’inquiétude, commençons par expliquer dans quel contexte elles prennent place. Les universités grecques — ce qui est souvent rare dans les universités de la partie anglo-américaine du monde, mais très courant en Europe du Sud, en France et en Amérique latine — sont très étroitement liées à la politique grecque et aux luttes sociales plus largement. Elles constituent un espace social et politique vigoureux, étroitement impliqué dans les luttes sociales contre les formes d’oppression et d’injustice ; elles contribuent à les amplifier, plutôt que d’être de simples espaces d’information aseptisés. En tant que telles, elles ont historiquement joué un rôle crucial dans la politique grecque et constituent « un bastion de la démocratie ». Les étudiant∙es qui ont occupé l’Université technique nationale d’Athènes en 1973 contre la junte militaire — occupation qui s’est terminée lorsque des chars ont envahi les portes de l’université, tuant des dizaines d’étudiants et de personnes dans les environs — sont considéré∙es comme l’un des facteurs-clés du renversement du régime de la junte et de la transition de la Grèce vers la démocratie. Depuis lors, la communauté universitaire et étudiante s’est engagée dans diverses formes de protestation et de solidarité avec des luttes sociales plus larges, tandis que l’accès de la police dans les locaux universitaires a été interdit par la loi en 1982. La police n’était autorisée à entrer qu’à la demande du doyen de l’université ou en cas de crime grave. La loi « asile », comme on l’appelait, a été abolie en août 2019, presque aussitôt après l’arrivée au pouvoir du gouvernement conservateur de Nouvelle Démocratie.

      Dans ce contexte, le fait que la loi sur l’éducation (4477/2021) ait été rédigée pour la première fois dans l’histoire de la Grèce conjointement par le ministère de l’Éducation et le ministère de la Protection du citoyen (c’est-à-dire le ministère de la Police), façonne, comme nous allons le voir, le caractère et les objectifs de la législation, soit rien de moins que le ciblage et la criminalisation du caractère sociopolitique de l’université grecque et de ses libertés académiques.

      Ce qui nourrit les inquiétudes de la communauté universitaire, pour commencer, tient à ce que les 1030 officiers de police (gardes spéciaux) qui forment les « brigades de protection des universités » n’auront pas obtenu le diplôme de l’Académie de police à l’issue de trois ans d’études, diplôme qui était jusqu’à présent la principale exigence dans les procédures de recrutement de la police. Les gardes spéciaux auront une formation accélérée et seront recrutés par des procédures d’embauche expéditives parmi les candidats ayant déclaré leur intérêt pour le métier d’officier de police ; ils seront simplement titulaires d’un diplôme d’études secondaires et auront effectué leur service militaire (obligatoire pour les hommes en Grèce) de préférence dans les forces spéciales, les forces militaires de réserve, la garde présidentielle ou les forces de 5 ans des volontaires militaires ou des corps de soldats professionnels. À l’été 2019, lorsque le gouvernement de droite de la Nouvelle Démocratie a été élu, 1 500 gardes spéciaux ont été recrutés pour la police anti-émeute et la police à moto (brigade DIAS) et maintenant 1030 de plus seront employés à la police universitaire. Comme le soutient George Papanikolaou, maître de conférences en criminologie à l’université de Teesside, nous assistons à une restructuration de la police grecque, dans laquelle les agents masculins dotés d’une formation et une culture de type militaire se trouveront incorporés dans des brigades de première ligne pour traiter avec les citoyens.

      Il n’est donc pas étonnant, étant donné les tensions historiques en Grèce entre les mouvements étudiants et la police, que la communauté universitaire et étudiante craigne une régression vers un État autoritaire, où ses membres seront traité·es comme des « ennemis de l’intérieur » et traités en conséquence. Ces craintes deviennent de plus en plus réelles car, avant et après l’adoption de la loi, la police s’est livrée à une violence aveugle généralisée et à des pratiques autoritaires : conduire des motos sur des étudiants qui manifestaient pacifiquement contre la loi ; casser, avec un extincteur, les dents et la mâchoire d’un étudiant manifestant pacifiquement ; torturer en public un étudiant membre d’un groupe d’étudiant∙es qui, pour protester contre la loi sur l’éducation, avait occupé pacifiquement le bâtiment administratif de l’Université Aristote de Thessalonique ; et même enlever des étudiant∙es dans leur propre maison dans la ville de Chania, en Crète2.

      Il convient également de noter que le manque de formation des gardes spéciaux a également soulevé de sérieuses préoccupations et objections au sein des syndicats de police, qui s’opposent unilatéralement à la dotation en personnel des escouades universitaires de cette manière. Malgré l’absence de formation adéquate, ces brigades auront le pouvoir de patrouiller, d’arrêter, de conduire des interrogatoires préliminaires, de prévenir et de traiter tout comportement « déviant » ou criminel dans les espaces universitaires (article 18) ; et elles devront doter les centres de contrôle des signaux et des images d’un personnel universitaire. Le fait que la loi (article 19) stipule clairement que les gardes spéciaux peuvent exercer toutes les fonctions de police, à l’exception des interrogatoires préliminaires, fonction qu’ils sont censés exercer dans les universités, soulève de sérieuses questions pour la communauté universitaire et étudiante. La loi ne précise pas non plus ce que l’on entend par comportement « déviant » ni la manière dont ces brigades vont le « prévenir » — faut-il entendre qu’elles vont arrêter et fouiller les étudiants et le personnel et effectuer des inspections dans les salles de cours ? En outre, les autorités universitaires doivent faciliter les nouvelles patrouilles des « forces spéciales » par « tous les moyens possibles » pour accomplir leurs tâches. Là encore, la loi ne précise pas clairement ce que cette facilitation implique et si les doyens et les sénats des universités auront le droit de s’y opposer ou même de la rejeter.

      Ce dernier point nous amène à la question la plus importante concernant cette législation. La loi sur l’éducation (article 18, paragraphe 5) stipule que ces escadrons de police ne relèvent pas des autorités universitaires, comme l’exigeait jusqu’à présent la dimension constitutionnelle de l’autonomie des universités (franchises universitaires). Au lieu de cela, elles relèvent directement du mandat du ministère de la Protection du citoyen et de la police grecque. Tous ces aspects sont très éloignés de la protection des libertés académiques que la législation prétend assurer. Les libertés académiques impliquent la liberté de la recherche scientifique et de l’enseignement, la liberté de circulation des idées ainsi que le prérequis constitutionnel de la nature totalement autonome des universités. Par conséquent, le fait que ces brigades soient placées sous la gestion et la supervision de la police grecque rend cette loi inconstitutionnelle au regard du principe d’autonomie des universités. La législation porte une entrave manifeste aux libertés académiques et transforme sans doute les universités grecques en forteresses de la police qui les contrôlent, les surveillent et participent à leur répression. Le fait que le sous-secrétaire à l’éducation ait justifié la mise en place de brigades et de postes de police au sein des universités au motif qu’il s’agissait d’une pratique courante sous la junte militaire, renforce les craintes de la communauté universitaire concernant les libertés académiques et l’autonomie des universités.

      Si la surveillance généralisée est une pratique courante et généralement incontestée dans les universités du monde anglo-américain, il y a fort à parier que ces universités n’ont pas fait l’objet d’un chantage — bien que certains développements récents concernant la liberté d’expression dans les universités britanniques puissent laisser penser le contraire — de la part du gouvernement de leur pays par le biais d’une législation — dans le cas de la Grèce, les parties C (d) et D (b) de la loi. La loi précise en effet que leur financement serait réduit si elles n’appliquaient pas les conditions de surveillance et de discipline prévues, ce qui confirme à nouveau l’atteinte à l’autonomie des universités. En ce qui concerne les données de surveillance 24/7 des Centres pour les Signaux et les Images, pour ce qui concerne la protection de la vie privée et des données, beaucoup de doutes subsistent : combien de temps les données seront stockées, quel sera le but de leur traitement et, plus important encore, quelles sont les soupapes de sécurité prévues pour empêcher l’utilisation abusive des données. Jusqu’à présent, les pratiques en Grèce montrent que le règlement général de l’UE sur la protection des données (RGPD) n’est pas respecté. Comme le professeur Mitrou, expert en protection des données et en droit de la vie privée, l’a souligné :

      « La législation grecque n’a pas respecté le RGPD comme limite normale et a (mal) utilisé les « clauses d’ouverture » comme le pouvoir discrétionnaire des États membres, non pas pour améliorer mais pour réduire le niveau de protection des données ».

      Pour ne rien arranger, le fait que le personnel d’enseignement et de recherche de l’université, devant travailler dans ces centres avec la police, ne maîtrise guère les systèmes de planification et de brigades de la sécurité, rend plus vraisemblable que les brigades de police de l’université superviseront le traitement des données. On peut donc se demander qui contrôlera ces brigades pour éviter qu’elles ne violent la législation européenne relative au traitement et à l’utilisation abusive des données. Des questions similaires se posent pour la dotation des unités et des comités de sécurité et de protection en personnel. Il n’existe, qui plus est, aucune précision pour savoir si les brigades de la police universitaire seront également équipées des dispositifs permettant la reconnaissance faciale instantanée et l’identification des empreintes digitales, éléments dont la police grecque doit disposer d’ici l’été 2021. Une question qui crée un malaise encore plus grand concernant la légitimité et la protection du traitement des données biométriques mêmes des étudiants et du personnel.

      En pratique, nous avons connaissance de plusieurs cas dans le monde anglo-américain où les garanties de protection de la vie privée et des données ont été violées : les administrateurs de systèmes de surveillance et les administrateurs d’université surveillent les courriels et les médias sociaux du personnel et des étudiants, leurs mouvements sur le campus et parfois hors du campus, et ont utilisé ces moyens de surveillance pour avoir prise sur le personnel universitaire et étouffer tout type de protestation ou de diffusion d’informations qui, bien que respectant la charte éthique de l’université, ne soient pas approuvées par l’administration de l’université. Cela avive les inquiétudes de la communauté universitaire et étudiante grecque concernant les libertés académiques. C’est ce que confirme la Fondation pour les droits individuels dans l’éducation (FIRE), qui a déjà constaté que de telles pratiques de surveillance sont susceptibles d’être utilisées à mauvais escient et peuvent donc se transformer en outils non seulement contraires aux libertés publiques mais aussi anti-constitutionnels. Ces évolutions alarmantes devraient peut-être nous amener à nous demander si nous n’abandonnons pas une trop grande partie de notre liberté au nom de la « sécurité » et si nous voulons voir les universités devenir des institutions autoritaires. Mais comment en sommes-nous arrivé·es là ?
      Des tentatives délibérées de diffamer l’université publique grecque

      Au cours des mois précédents, le gouvernement de la Nouvelle Démocratie et les médias pro-gouvernementaux se sont engagés dans une campagne malveillante visant à diffamer les universités publiques et à les présenter aux citoyens grecs comme des « sites d’anarchie », de désordre et de délinquance. Les universités grecques connaissent incontestablement des problèmes — principalement dus au grave sous-financement de ces dix dernières années — mais on peut les considérer comme des lieux de criminalité et de désordre. Sofia Vidali, professeur de criminologie, déconstruit avec éloquence ces représentations dans son article intitulé « Criminalité et maintien de l’ordre dans l’enseignement supérieur grec : ‘vérités’ et ‘mensonges’« , en montrant que les cas de délinquance et de petite criminalité sont liés aux caractéristiques socio-économiques et spatiales plus larges de la région dans laquelle se trouve chaque université. En outre, les infractions commises à l’intérieur et à l’extérieur des locaux universitaires — qui sont comptabilisées comme une seule et même zone dans les statistiques officielles de la police— ne représentent qu’une infime partie (2 053 infractions sur environ 1 835 792) des crimes commis dans le pays entre 2007 et 2018.

      Parmi les exemples majeurs utilisés par la ministre de l’Éducation, Niki Kerameus, et par la propagande médiatique pro-gouvernementale, on trouve la peur qu’auraient eu les universitaires de devenir otages de leurs étudiant∙es — en particulier des étudiants de gauche. Les médias ont construit une « panique morale » (voir Coehn, S. 1972/2002) autour de deux incidents. Le premier fut de murer symboliquement, en 2006, le bureau du doyen de l’université Démocrite de Thrace par les étudiants en signe de protestation contre la gestion scandaleuse de la restauration étudiante. Alors que le bureau du doyen était vide au moment de l’installation, les étudiants auraient piégé le doyen dans son bureau : Madame Kerameus déclarant le 8/02/2021 que « nous devons convaincre les jeunes qu’il n’est pas normal de construire des installations dans le bureau des professeurs« . La seconde affaire est un incident malheureux et atypique survenu à l’Université économique d’Athènes en octobre 2020, où des jeunes issus du milieu politique anti-autoritaire ont forcé le doyen à porter un panneau indiquant son soutien à l’occupation des bâtiments. Alors que la communauté universitaire avait unanimement condamné l’événement et, bien qu’il s’agisse d’une exception plutôt que de la règle, l’incident a été représenté comme le quotidien de la vie universitaire. Ces représentations ont été largement utilisées pour justifier et légitimer auprès du grand public la nécessité de discipliner, de surveiller et d’établir une force de police au sein des universités.

      Dans ce contexte médiatique, il y a également eu une diffamation orchestrée des professeurs d’université qui ont contesté les interprétations de la Ministre. Un exemple typique est que le gouvernement grec a tenté de justifier sa loi par de prétextes mensongers de « meilleures pratiques » qui auraient cours dans le monde occidental et en particulier à l’Université d’Oxford ; affirmant qu’il existe une force de police établie pour la sécurité de cette dernière. Lorsqu’un professeur grec de l’Université d’Oxford, Antonios Tzanakopoulos, a nié la présence d’une telle force de police, les médias et ministres pro-gouvernementaux grecs, suivant largement les techniques de communication de Trump, ont tenté de déformer et de calomnier ses déclarations en disant qu’il est un menteur et un falsificateur à l’origine de la diffusion des fake news. Il faut noter que l’UCU d’Oxford a ouvertement pris position contre la loi, tout en niant l’existence d’une police universitaire sur son campus. Ces processus de désinformation, de censure et de réduction au silence de toute intervention qui irait à l’encontre des buts poursuivis par le gouvernement ont eu cours tout au long de l’année dernière, faisant de la Grèce l’avant-dernier pays de l’UE en matière de liberté de la presse et un exemple de démocratie faussée3. De fait, aucune force de police n’est établie dans une université européenne. Au contraire, comme c’est encore le cas actuellement en Grèce, les agent∙es de sécurité et les gardien∙nes — qui peuvent être des fonctionnaires ou des particuliers — placé∙es sous l’autorité de l’université ont la responsabilité des questions de sécurité.

      Ces pratiques délibérées de diffamation des universités, de leur personnel académique et de leurs étudiant∙es surviennent après presque une décennie de grave sous-financement de l’université grecque. Pendant la crise économique aiguë (2010-2018), le financement des universités a été réduit de 75 %, voire de 120 % dans certaines universités4, plaçant la Grèce aux dernières places en Europe en termes de financement et d’infrastructures universitaires — ce qui inclut le licenciement des gardien∙nes et du personnel de sécurité. C’est donc une grande déception pour le personnel universitaire de voir que le gouvernement est prêt à fournir 50 millions d’euros — 20 millions par an pour les salaires des 1030 brigades de police universitaires et 30 millions pour la mise en place de systèmes de sécurité — alors que la totalité du budget [NDLR de sécurité] des universités, qui souffrent toujours de sous-financement, se monte à 91 millions d’euros5. Cet argent pourrait sans doute être utilisé pour embaucher davantage de personnel d’enseignement, de recherche et d’administration, des agents de gardiennage et l’investissement dans les infrastructures — c’est-à-dire des espaces d’enseignement et des équipements de laboratoire. Le maintien de l’ordre et la surveillance ne résoudront aucun des problèmes auxquels les universités grecques se trouvent confrontées en raison de leur sous-financement chronique.

      La diffamation médiatique que subissent les universités grecques fait passer soigneusement sous silence qu’en dépit de leur sous-financement et leur handicap en termes de production de connaissances à l’échelle mondiale — si on ne publie pas en anglais, on n’existe littéralement pas — conservent de très bonnes places dans les classements mondiaux des universités (classées parmi les 1000 premières universités du monde). Il est important de noter que ces représentations calomnieuses font suite à une autre législation (4653/2020) du ministère de l’éducation, qui mettait sur un pied d’égalité les diplômes des collèges privés et ceux des universités publiques, « améliorant » considérablement les diplômes des premiers et « dévalorisant » les diplômes des secondes. En Grèce, les collèges privés ne produisent pas de recherche et les connaissances qu’ils dispensent ne sont pas soumises aux mêmes évaluations de qualité que celles des universités publiques. Cette « revalorisation » des collèges privés est associée à un autre aspect controversé de la loi (4477/2021) en cours de discussion, qui réduit de 20 à 30 % le nombre d’étudiant∙es admis∙es dans les universités publiques, en canalisant les étudiant∙es « exclu∙es » vers les collèges privés. Un aspect qui non seulement réduit davantage le financement des universités publiques, mais qui touche également les couches sociales les plus vulnérables de la société grecque en entravant leur mobilité éducative et sociale. En d’autres termes, les représentations de la criminalité et de l’ »anarchie » et, plus généralement, la diffamation et la dégradation de l’université publique, propagées par les médias et le gouvernement de droite, aident ce dernier à légitimer la domination du dogme de la « loi et de l’ordre » tout en parachevant la réalisation de son programme néolibéral de privatisation de l’enseignement supérieur.
      Remarques conclusives : Quelle université voulons-nous ?

      Comme l’a fait valoir le professeur Costas Douzinas, de Birkbeck University, ce qui fait défaut dans toutes les discussions contemporaines sur l’enseignement supérieur en Grèce et à l’étranger, c’est la question fondamentale de savoir quelles universités nous voulons.

      L’université vise essentiellement à assurer la liberté totale de penser, de critiquer, de contester, de rechercher et de faire circuler les idées dans une recherche constante de la « vérité ». Elle vise à approfondir la démocratie, y compris la démocratie cognitive, en fournissant une pluralité de savoirs, de pédagogies et de méthodologies pour comprendre le monde qui nous entoure. En tant que tel, l’enseignement universitaire a une valeur en soi, qui ne peut être instrumentalisée à une simple finalité professionnelle. En effet, le savoir dispensé par les universités vise à l’épanouissement de l’âme et de l’esprit humains en façonnant constamment une compréhension de la condition humaine, de notre moi individuel, du monde et de nos sociétés, ce qui constitue une « valeur humaine absolue » en soi (Carr 2009:14). De cette façon, les étudiant∙es seront plus tard en mesure de contribuer non seulement à l’économie mais aussi à la démocratie.

      Lorsque l’université devient simplement une institution de formation professionnelle — tendance que nous voyons prospérer dans le monde et qui est sans doute aussi l’objectif de la loi grecque sur l’éducation qui entend dévaloriser les universités publiques et criminaliser l’action sociopolitique — elle cesse alors d’être un lieu de culture de la connaissance, mais une simple banque d’informations ; une marchandise qui, si l’on y investit, fournira les compétences nécessaires à la production d’un apprenant/ consommateur/travailleur « discipliné » pour servir uniquement les besoins de la croissance économique de chaque nation (Drummond, 2003). L’université perd ainsi son essence émancipatrice et démocratique et le lien organique qu’elle noue avec les luttes sociales. Le professeur Boaventura de Sousa Santos démontre avec force ce qui est en jeu au niveau mondial si nous continuons à suivre cette tendance :

      « Où que vous soyez, il y a toujours des gens qui luttent contre l’oppression, et vous devriez vraiment essayer de travailler avec eux si vous êtes à l’université. Sinon, l’université sera bientôt une entreprise capitaliste comme une autre, dont la valeur marchande est définie par les classements, les étudiant∙es seront des consommateur∙trices et les enseignant∙es, des travailleursou des travailleuses ou, pour mieux dire, des collaborateurs ou collaboratrices. Si nous abandonnons notre responsabilité sociale, l’université telle que nous la connaissons n’aura pas d’avenir ».

      Cet article est un appel contre un tel avenir sombre qui nous affectera tous globalement et localement et qui pourrait mettre en péril l’avenir de la démocratie et de la liberté académique telles que nous les connaissons.

      https://academia.hypotheses.org/31734

      ping @etraces

  • #Police attitude, 60 ans de #maintien_de_l'ordre - Documentaire

    Ce film part d´un moment historique : en 2018-2019, après des affrontements violents entre forces de l´ordre et manifestants, pour la première fois la conception du maintien de l´ordre a fait l´objet de très fortes critiques et d´interrogations insistantes : quelle conception du maintien de l´ordre entraîne des blessures aussi mutilante ? N´y a t-il pas d´autres manières de faire ? Est-ce digne d´un État démocratique ? Et comment font les autres ? Pour répondre à ces questions, nous sommes revenus en arrière, traversant la question du maintien de l´ordre en contexte de manifestation depuis les années 60. Pas seulement en France, mais aussi chez nos voisins allemands et britanniques, qui depuis les années 2000 ont sérieusement repensé leur doctrine du maintien de l´ordre. Pendant ce temps, dans notre pays les autorités politiques et les forces de l´ordre, partageant la même confiance dans l´excellence d´un maintien de l´ordre « à la française » et dans le bien-fondé de l´armement qui lui est lié, ne jugeaient pas nécessaire de repenser la doctrine. Pire, ce faisant c´est la prétendue « doctrine » elle-même qui se voyait de plus en plus contredite par la réalité d´un maintien de l´ordre musclé qui devenait la seule réponse française aux nouveaux contestataires - lesquels certes ne rechignent pas devant la violence, et c´est le défi nouveau qui se pose au maintien de l´ordre. Que nous apprend in fine cette traversée de l´Histoire ? Les approches alternatives du maintien de l´ordre préférées chez nos voisins anglo-saxons ne sont sans doute pas infaillibles, mais elles ont le mérite de dessiner un horizon du maintien de l´ordre centré sur un rapport pacifié aux citoyens quand nous continuons, nous, à privilégier l´ordre et la Loi, quitte à admettre une quantité non négligeable de #violence.

    https://www.dailymotion.com/video/x7xhmcw


    #France #violences_policières
    #film #film_documentaire #Stéphane_Roché #histoire #morts_de_Charonne #Charonne #répression #mai_68 #matraque #contact #blessures #fractures #armes #CRS #haie_d'honneur #sang #fonction_républicaine #Maurice_Grimaud #déontologie #équilibre #fermeté #affrontements #surenchère #désescalade_de_la_violence #retenue #force #ajustement_de_la_force #guerilla_urbaine #CNEFG #Saint-Astier #professionnalisation #contact_direct #doctrine #maintien_de_l'ordre_à_la_française #unités_spécialisées #gendarmes_mobiles #proportionnalité #maintien_à_distance #distance #Allemagne #Royaume-Uni #policing_by_consent #UK #Angleterre #Allemagne #police_militarisée #Irlande_du_Nord #Baton_rounds #armes #armes_à_feu #brigades_anti-émeutes #morts #décès #manifestations #contestation #voltigeurs_motoportés #rapidité #23_mars_1979 #escalade #usage_proportionné_de_la_force #Brokdorf #liberté_de_manifester #innovations_techniques #voltigeurs #soulèvement_de_la_jeunesse #Malik_Oussekine #acharnement #communication #premier_mai_révolutionnaire #Berlin #1er_mai_révolutionnaire #confrontation_violente #doctrine_de_la_désescalade #émeutes #G8 #Gênes #Good_practice_for_dialogue_and_communication (#godiac) #projet_Godiac #renseignement #état_d'urgence #BAC #brigades_anti-criminalité #2005 #émeutes_urbaines #régime_de_l'émeute #banlieue #LBD #flashball #lanceur_de_balles_à_distance #LBD_40 #neutralisation #mutilations #grenades #grenade_offensive #barrage_de_Sivens #Sivens #Rémi_Fraisse #grenade_lacrymogène_instantanée #cortège_de_tête #black_bloc #black_blocs #gilets_jaunes #insurrection #détachement_d'action_rapide (#DAR) #réactivité #mobilité #gestion_de_foule #glissement #Brigades_de_répression_des_actions_violentes_motorisées (#BRAV-M) #foule #contrôle_de_la_foule #respect_de_la_loi #hantise_de_l'insurrection #adaptation #doctrine #guerre_civile #défiance #démocratie #forces_de_l'ordre #crise_politique

  • Migration : la #France et l’#Italie déploieront des #navires et des #avions pour alerter la Tunisie sur le départ des migrants

    Le ministre français de l’Intérieur, #Gérald_Darmanin, est attendu, ce weekend, en visite en Tunisie pour de décisives discussions dans la foulée de l’attentat contre la basilique de Nice commis par un migrant illégal tunisien, qui a fait trois morts. Une visite qui intervient aussi dans un climat de plus en plus tendu en France dont le gouvernement et le président de la République, Emmanuel Macron, s’emploient à restreindre au maximum les flux migratoires à travers la Méditerranée.

    A la veille de cette visite, le ministre français de l’Intérieur, qui se trouve ce vendredi à Rome , envisage avec son homologue italienne, #Luciana_Lamorgese, de déployer des navires ou des avions pour alerter la Tunisie du départ de #bateaux clandestins transportant des migrants vers les côtes italiennes, comme le jeune Tunisien qui est le principal suspect d’une attaque à l’arme blanche dans une église française la semaine dernière, a déclaré vendredi la ministre italienne.

    A l’issue d’une entrevue entre les deux ministres, Gerald Darmanin s’est gardé de critiquer l’Italie pour sa gestion du suspect tunisien, qui a débarqué sur l’île italienne de Lampedusa en septembre, a été mis en quarantaine en vertu du protocole sanitaire relatif à la pandémie et reçu des papiers d’expulsion des autorités italiennes avant de gagner la France en octobre.

    « A aucun moment, je n’ai pensé qu’il y avait quelque chose de défectueux » dans la façon dont l’Italie a géré l’affaire, a déclaré Darmanin, en réponse à une question posée lors d’une conférence de presse avec Lamorgese après leurs entretiens. Il a plutôt remercié Lamorgese et les services de renseignement italiens pour l’échange d’informations dans les jours qui ont suivi l’#attentat de #Nice.

    Les Tunisiens qui fuient une économie dévastée par les effets du virus, constituent le plus grand contingent de migrants débarqués en Italie cette année, et ils arrivent directement de Tunisie dans des bateaux assez solides pour ne pas avoir besoin de secours, souligne le Washington Post, rappelant que, ces dernières années, la majorité des migrants qui ont atteint les côtes méridionales de l’Italie venaient d’Afrique subsaharienne et traversaient la Méditerranée dans des embarcations de fortune , donc en mauvais état pour la plupart, et opérées par des trafiquants en Libye.

    Lamorgese a déclaré qu’elle avait discuté avec Darmarin d’un #plan prévoyant le déploiement de « moyens navals ou aériens qui pourraient alerter les autorités tunisiennes d’éventuels départs » et les aider à intercepter les bateaux, « dans le respect de leurs souveraineté et autonomie que nous ne voulons pas violer ».

    Selon ce plan, il n’y aurait « qu’une #alerte que nous donnerions aux autorités tunisiennes pour faciliter le #traçage des navires qui partent de leur territoire pour rejoindre les côtes italiennes », a déclaré la ministre italienne. « Il est évident que cela suppose la #collaboration des autorités tunisiennes ».

    La France aurait-elle son « #Patriot_Act ?

    Après sa réunion du matin à Rome, Darmarin a déclaré qu’il se rend en Tunisie, en Algérie et à Malte, pour discuter des questions de migration et de #terrorisme.

    « La France et l’Italie doivent définir une position commune pour la lutte contre l’immigration clandestine au niveau européen », a-t-il déclaré.

    Il a été demandé à Darmarin si, à la suite des récents attentats terroristes en France, le gouvernement français devrait adopter une loi comme le « USA Patriot Act » promulgué après les attentats du 11 septembre 2001 pour intensifier les efforts de détection et de prévention du terrorisme.

    « Plus qu’un Patriot Act, ce qu’il faut, c’est un #acte_européen », a répondu Darmarin. « La France ne peut pas lutter seule contre la politique islamiste ».

    La Tunisie est l’un des rares pays à avoir conclu un accord de rapatriement avec l’Italie. Mais avec des milliers de Tunisiens arrivés par mer récemment et moins de 100 migrants expulsés et renvoyés dans le pays par voie aérienne chaque semaine, la priorité est donnée aux personnes considérées comme dangereuses, indique le Washington Post. Selon Lamorgese, rien n’indique que l’agresseur de Nice, Ibrahim Issaoui, 21 ans, constituait une menace.

    Les deux ministres se sont rencontrés un jour après que le président français Emmanuel Macron ait déclaré que son pays renforcera ses contrôles aux frontières après les multiples attaques de cet automne.

    L’Italie et la France lancent, sur une base expérimentale de six mois, des #brigades_mixtes de forces de sécurité italiennes et françaises à leurs frontières communes pour renforcer les contrôles, a déclaré Lamorgese aux journalistes.

    #externalisation #asile #réfugiés #migrations #frontières #surveillance_frontalière #Tunisie #militarisation_des_frontières #Darmanin #accord_de_réadmission

    ping @isskein @karine4

    • Union européenne – Tunisie : l’illusion d’une coopération équilibrée

      Dans la nuit de vendredi 12 au samedi 13 février, 48 personnes de différentes nationalités africaines sont parties de Sidi Mansour, dans la province de Sfax en Tunisie, direction les côtes italiennes. La marine tunisienne est intervenue à une centaine de kilomètres au nord-ouest de Lampedusa lorsque les passagers naviguaient dans une mer agitée. Tandis que 25 personnes ont pu être secourues, une personne est décédée et 22 autres sont déclarées « disparues », comme des milliers d’autres avant elles [1]. Cet énième naufrage témoigne des traversées plus importantes au cours des derniers mois depuis la Tunisie, qui sont rendues plus dangereuses alors que l’Union européenne (UE) renforce ses politiques sécuritaires en Méditerranée en collaboration avec les États d’Afrique du Nord, dont la Tunisie.

      Au cours de 2020, plus de 13 400 personnes migrantes parties de Tunisie ont été interceptées par les garde-côtes tunisiens et plus de 13 200 autres sont parvenues à rejoindre les côtes européennes [2]. Jamais les chiffres n’ont été aussi élevés et depuis l’été 2020, jamais la Tunisie n’a été autant au centre de l’attention des dirigeant·e·s européen·ne·s. A l’occasion d’une rencontre dans ce pays le 17 août 2020, l’Italie et la Tunisie ont ainsi conclu un accord accompagné d’une enveloppe de 11 millions d’euros pour le renforcement des contrôles aux frontières tunisiennes et en particulier la surveillance maritime [3]. Le 6 novembre 2020, à l’issue d’une réunion à Rome, la ministre italienne de l’Intérieur et son homologue français ont également décidé de déployer au large des côtes tunisiennes des « moyens navals ou aériens qui pourraient alerter les autorités tunisiennes d’éventuels départs » [4].

      Cette attention a été redoublée au lendemain de l’attentat de Nice, le 29 octobre 2020. Lors d’une visite à Tunis, le ministre français, jouant de l’amalgame entre terrorisme et migration, faisait du contrôle migratoire le fer de lance de la lutte contre le terrorisme et appelait à une coopération à l’échelle européenne avec les pays d’Afrique du Nord pour verrouiller leurs frontières. Suivant l’exemple de l’Italie qui coopère déjà de manière étroite avec la Tunisie pour renvoyer de force ses ressortissant·e·s [5], la France a demandé aux autorités tunisiennes la délivrance automatique de laissez-passer pour faciliter les expulsions et augmenter leurs cadences.

      Cette coopération déséquilibrée qui met la Tunisie face à l’UE et ses États membres, inlassablement dénoncée des deux côtés de la Méditerranée par les associations de défense des droits, n’est pas nouvelle et s’accélère.

      Alors qu’a augmenté, au cours de l’année 2020, le nombre d’exilé·e·s en provenance d’Afrique subsaharienne et quittant les côtes tunisiennes en direction de l’Italie [6], les dirigeant·e·s européen·ne·s craignent que la Tunisie ne se transforme en pays de départ non seulement pour les ressortissant·e·s tunisien·ne·s mais également pour des exilé·e·s venu·e·s de tout le continent. Après être parvenue à réduire les départs depuis les côtes libyennes, mais surtout à augmenter le nombre de refoulements grâce à l’intervention des pseudo garde-côtes libyens en Méditerranée centrale (10 000 rien qu’en 2020) [7], l’UE et ses États membres se tournent de plus en plus vers la Tunisie, devenue l’une des principales cibles de leur politique d’externalisation en vue de tarir les passages sur cette route. Dès 2018, la Commission européenne avait d’ailleurs identifié la Tunisie comme candidate privilégiée pour l’installation sur son sol de « plateformes de débarquement » [8], autrement dit des camps de tri externalisés au service de l’UE, destinés aux exilé·e·s secouru·e·s ou intercepté·e·s en mer. Le plan prévoyait également le renforcement des capacités d’interception des dits garde-côtes tunisiens.

      Si à l’époque la Tunisie avait clamé son refus de devenir le hotspot africain et le garde-frontière de l’Europe [9], Tunis, sous la pression européenne, semble accepter peu à peu d’être partie prenante de cette approche [10]. Le soutien que la Tunisie reçoit de l’UE pour surveiller ses frontières maritimes ne cesse de s’intensifier. Depuis 2015, Bruxelles multiplie en effet les programmes destinés à la formation et au renforcement des capacités des garde-côtes tunisiens, notamment en matière de collecte de données personnelles. Dans le cadre du programme « Gestion des frontières au Maghreb » [11] lancé en juillet 2018, l’UE a prévu d’allouer 24,5 millions d’euros qui bénéficieront principalement à la Garde nationale maritime tunisienne [12]. Sans oublier l’agence européenne Frontex qui contrôle les eaux tunisiennes au moyen d’images satellite, de radars et de drones [13] et récolte des données qui depuis quelques mois sont partagées avec les garde-côtes tunisiens [14], comme cela se fait déjà avec les (soi-disant) garde-côtes libyens [15]. Le but est simple : détecter les embarcations au plus tôt pour alerter les autorités tunisiennes afin qu’elles se chargent elles-mêmes des interceptions maritimes. Les moyens de surveillance navals et aériens que l’Italie et la France veulent déployer pour surveiller les départs de Tunisie viennent compléter cet édifice.

      Les gouvernements européens se félicitent volontiers des résultats de leur stratégie des « #refoulements_par_procuration » [16] en Libye. Cette stratégie occulte cependant les conséquences d’un partenariat avec des « garde-côtes » liés à des milices et des réseaux de trafiquants d’êtres humains [17], à savoir le renvoi des personnes migrantes dans un pays non-sûr, qu’elles tentent désespérément de fuir, ainsi qu’une hécatombe en mer Méditerranée. A mesure que les autorités européennes se défaussent de leurs responsabilités en matière de recherche et de secours sur les garde-côtes des pays d’Afrique du Nord, les cas de non-assistance et les naufrages se multiplient [18]. Alors que la route de la Méditerranée centrale est l’une des mieux surveillées au monde, c’est aussi l’une des plus mortelles du fait de cette politique du laisser-mourir en mer. Au cours de l’année 2020, près de 1 000 décès y ont été comptabilisés [19], sans compter les nombreux naufrages invisibles [20].

      Nous refusons que cette coopération euro-libyenne, dont on connaît déjà les conséquences, soit dupliquée en Tunisie. Si ce pays en paix et doté d’institutions démocratiques peut à première vue offrir une image plus « accueillante » que la Libye, il ne saurait être considéré comme un pays « sûr », ni pour les migrant·e·s, ni pour ses propres ressortissant·e·s, de plus en plus nombreux·ses à fuir la situation socio-économique dégradée, et aggravée par la crise sanitaire [21]. Les pressions exercées par l’UE et ses États membres pour obliger la Tunisie à devenir le réceptacle de tou·te·s les migrant·e·s « indésirables » sous couvert de lutte contre le terrorisme sont inacceptables. La complaisance des autorités tunisiennes et le manque de transparence des négociations avec l’UE et ses États membres le sont tout autant. En aucun cas le combat contre le terrorisme ne saurait justifier que soient sacrifiées les valeurs de la démocratie et du respect des droits fondamentaux, tels que la liberté d’aller et venir et le droit de trouver une véritable protection.

      De part et d’autre de la Méditerranée, nos organisations affirment leur solidarité avec les personnes exilées de Tunisie et d’ailleurs. Nous condamnons ces politiques sécuritaires externalisées qui génèrent d’innombrables violations des droits et ne font que propager l’intolérance et la haine.

      –—

      Notes :

      [1] « En Tunisie, 22 migrants sont portés disparus après le naufrage d’un bateau », La Presse.ca, 13 février 2021

      [2] Rapport du mois de décembre 2020 des mouvements sociaux, suicides, violences, et migrations, n°87, Observatoire social tunisien, FTDES

      [3] Quel est le contenu du récent accord entre la Tunisie et l’Italie ? Réponses aux demandes d’accès introduit par ASGI, FTDES et ASF, Projet Sciabaca & Oruka, 7 décembre 2020

      [4] « Migration : la France et l’Italie déploieront des navires et des avions pour alerter la Tunisie sur le départ des migrants », African Manager, 6 décembre 2020

      [5] Chaque semaine, deux charters partent de Sicile pour renvoyer une centaine de migrant·e·s tunisien·ne·s. En 2019, selon les chiffres du FTDES, 1 739 ressortissant·e·s tunisien·ne·s ont été expulsé·e·s d’Italie via ces vols. En 2020, ceux-ci étaient encore affrétés malgré la crise sanitaire.

      [6] Rapport du mois d’octobre 2020 des mouvements sociaux, suicides, violences, et migrations, n°85, Observatoire social tunisien, FTDES

      [7] Le nombre de migrant·e·s ayant été intercepté·e·s par les pseudo garde-côtes libyens en 2019 est estimé à 9 000 selon Alarmphone (voir : Central Mediterranean Regional Analysis 1 October 2019-31 December 2019, 5 janvier 2020).

      [8] Migration : Regional disembarkation arrangements - Follow-up to the European Council Conlusions of 28 June 2018

      [9] « Tri, confinement, expulsion : l’approche hotspot au service de l’UE », Migreurop, 25 juin 2019

      [10] « Comment l’Europe contrôle ses frontières en Tunisie ? », Inkyfada, 20 mars 2020

      [11] Programme du Fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique, mis en œuvre par l’ICMPD et le Ministère italien de l’intérieur - Document d’action pour la mise en œuvre du programme Afrique du Nord, Commission européenne (non daté)

      [12] Réponse de la Commission européenne à une question parlementaire sur les programmes de gestion des frontières financés par le Fonds fiduciaire d’urgence, 26 octobre 2020

      [13] « EU pays for surveillance in Gulf of Tunis », Matthias Monroy, 28 juin 2020

      [14] Réponse question parlementaire donnée par la Haute représentante/Vice-présidente Borrell au nom de la Commission européenne sur le projet Seahorse Mediterraneo 2.0, 7 mai 2020

      [15] « A Struggle for Every Single Boat- Central Mediterranean Analysis, July - December 2020 », Alarm Phone, 14 janvier 2021

      [16] « MARE CLAUSUM - Italy and the EU’s undeclared operation to stem migration across the Mediterranea » ; Forensic Oceanography, Forensic Architecture agency, Goldsmiths, Université de Londres, Mai 2018

      [17] « Migrants detained in Libya for profit, leaked EU report reveals », The Guardian, 20 novembre 2019

      [18] « Carnage in the Mediterranean is the direct result of European state policies », MSF 13 novembre 2020

      [19] Selon les chiffres de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) en Méditerranée : https://missingmigrants.iom.int/region/mediterranean?migrant_route%5B%5D=1376

      [20] « November Shipwrecks - Hundreds of Visible and Invisible Deaths in the Central Med », Alarmphone, 26 novembre 2020

      [21] « Politiques du non-accueil en Tunisie : des acteurs humanitaires au service des politiques sécuritaires européennes », Migreurop, FTDES juin 2020

      https://www.migreurop.org/article3028.html

    • La Tunisia come frontiera esterna d’Europa: a farne le spese sono sempre i diritti umani

      Migreurop, FTDES e EuroMed Rights lanciano un appello congiunto contro la riproposizione del “modello libico” in Tunisia.

      La Tunisia è divenuta negli ultimi anni uno degli interlocutori principali per le politiche securitarie europee basate sull’esternalizzazione delle frontiere. Il governo tunisino si presta, in modo sempre più evidente, a soddisfare le richieste dell’Unione europea e dei suoi paesi membri, Italia e Francia in particolare, che mirano a bloccare nel paese i flussi migratori, ancor prima che possano raggiungere il territorio europeo.

      Ma la situazione non può essere sostenibile sul lungo termine: una grande quantità di denaro viene investita nel finanziamento e supporto alla Guardia costiera tunisina e alle forze di polizia, che controllano i confini marittimi e riportano indietro le persone intercettate in mare, in quelli che sono stati definiti “respingimenti per procura” di cui le autorità europee non vogliono farsi carico, per non dover rispondere degli obblighi internazionali in materia di protezione e asilo.

      Intanto, nel paese imperversa una crisi socio-economica molto grave, che sta smorzando l’entusiasmo nei confronti della giovane democrazia tunisina, unico esperimento politico post-2011 ad aver resistito finora alle spinte autocratiche. Al malessere della popolazione, che nelle ultime settimane ha manifestato nelle strade di diverse città, lo Stato sembra saper rispondere solo con la forza e la repressione.
      La precarietà della situazione economica e sociale non farà che alimentare le partenze dalla Tunisia, che avevano registrato numeri consistenti durante il 2020.

      La guardia costiera, seppure ben equipaggiata e addestrata, non può rappresentare un vero deterrente per chi non ha nulla da perdere: e infatti negli ultimi giorni sono sbarcate a Lampedusa complessivamente più di 230 persone provenienti dall’area di Sfax, attualmente isolati nell’hotspot dell’isola. Altri arrivano invece a Pantelleria, situata a pochi chilometri dalle coste della capitale [1].

      Ma nel Mediterraneo si continua anche a morire: l’ultimo episodio noto che ha coinvolto la Tunisia è avvenuto tra il 12 e il 13 febbraio, quando un’imbarcazione in difficoltà è stata soccorsa dalla marina tunisina al largo di Lampedusa. Secondo le informazioni disponibili, la barca era partita da Sidi Mansour, nella provincia di Sfax, e le 48 persone a bordo erano di varie nazionalità africane. Il maltempo aveva spinto la marina tunisina a interrompere le operazioni di soccorso: delle 48 persone a bordo, 25 sono state tratte in salvo e ricondotte in Tunisia, una è morta e le altre 22 sono state dichiarate “disperse” [2].

      Sono numerose, ma ancora ampiamente inascoltate, le voci che contestano l’approccio del governo tunisino in tema di emigrazione nei rapporti con i paesi a nord del Mediterraneo. Un comunicato congiunto pubblicato il 17 febbraio da Migreurop, del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali e di EuroMed Rights, dal titolo “Unione europea - Tunisia: l’illusione di una cooperazione equilibrata” [3], denuncia la complicità delle autorità tunisine nell’assecondare le politiche securitarie europee, che rende sempre più preoccupante la situazione per chi tenta di raggiungere l’Europa dalla Tunisia. Lo Stato tunisino non è in grado di difendere i diritti dei propri cittadini o di chi, in generale, parte dalle proprie coste, di fronte alle pressioni europee che perseguono imperterrite delle politiche emergenziali insostenibili sul lungo periodo.

      Il comunicato esprime la propria contrarietà alla riproposizione in Tunisia del tristemente noto modello libico, basato sulla delegazione alle forze locali dei controlli frontalieri europei, sui respingimenti collettivi e sulla criminalizzazione delle persone migranti. Il 2020 è stato un anno cruciale per l’inasprimento dei controlli alle frontiere nel paese: l’aumento delle partenze dalle coste tunisine a causa della crisi economica, e l’attacco di Nizza ad opera di un cittadino tunisino hanno comportato una maggiore attenzione dei governi europei al paese nordafricano, con conseguente aumento dei finanziamenti destinati al controllo frontaliero. A farne le spese, nel caso tunisino come in quello libico, saranno ancora una volta le persone che vedranno violati i loro diritti:

      “Con le autorità europee che si sottraggono alle loro responsabilità in materia di ricerca e di soccorso in mare, affidandole alle guardie costiere dei paesi nordafricani, i casi di mancata assistenza sono in aumento e i naufragi proliferano. Benché la rotta del Mediterraneo centrale sia una delle più controllate al mondo, è anche una delle più mortali, a causa di questa politica di lasciar morire la gente in mare. Durante il 2020, sono stati registrati quasi 1.000 morti, senza contare i casi di naufragi invisibili.

      Ci rifiutiamo di lasciare che il modello di cooperazione euro-libica venga riproposto in Tunisia, con le conseguenze che già conosciamo. Se questo paese, in pace e con istituzioni democratiche, può a prima vista offrire un’immagine più «accogliente» della Libia, non può però essere considerato un paese «sicuro», né per le persone migranti né per i suoi stessi cittadini, che fuggono dal deterioramento della situazione socio-economica, aggravata dalla crisi sanitaria.

      La pressione esercitata dall’Ue e dai suoi Stati membri per costringere la Tunisia a diventare un rifugio per tutti/e i/le migranti «indesiderabili» con il pretesto della lotta al terrorismo è inaccettabile. La connivenza delle autorità tunisine e la mancanza di trasparenza nei negoziati con l’Ue e i suoi Stati membri sono altrettanto inaccettabili. In nessun caso la lotta contro il terrorismo può giustificare il sacrificio dei valori della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali, come la libertà di movimento e il diritto a una vera protezione.”

      https://www.meltingpot.org/La-Tunisia-come-frontiera-esterna-d-Europa-a-farne-le-spese.html?var_mod

      #Tunisie #asile #migrations #réfugiés #frontières #modèle_libyen #externalisation

    • Unmanned surveillance for Fortress Europe

      The agencies #EMSA and Frontex have spent more than €300 million on drone services since 2016. The Mediterranean in particular is becoming a testing track for further projects.

      According to the study „Eurodrones Inc.“ presented by Ben Hayes, Chris Jones and Eric Töpfer for Statewatch seven years ago, the European Commission had already spent over €315 million at that time to investigate the use of drones for border surveillance. These efforts focused on capabilities of member states and their national contact centres for #EUROSUR. The border surveillance system, managed by Frontex in Warsaw, became operational in 2014 – initially only in some EU Member States.

      The Statewatch study also documented in detail the investments made by the Defence Agency (EDA) in European drone research up to 2014. More than €190 million in funding for drones on land, at sea and in the air has flowed since the EU military agency was founded. 39 projects researched technologies or standards to make the unmanned systems usable for civilian and military purposes.

      Military research on drone technologies should also benefit border police applications. This was already laid down in the conclusions of the “ First European High Level Conference on Unmanned Aerial Systems“, to which the Commission and the EDA invited military and aviation security authorities, the defence industry and other „representatives of the European aviation community“ to Brussels in 2010. According to this, once „the existing barriers to growth are removed, the civil market could be potentially much larger than the military market“.

      Merging „maritime surveillance“ initiatives

      Because unmanned flights over land have to be set up with cumbersome authorisation procedures, Europe’s unregulated seas have become a popular testing ground for both civilian and military drone projects. It is therefore not surprising that in 2014, in the action plan of its „Maritime Security Strategy“, the Commission also called for a „cross-sectoral approach“ by civilian and military authorities to bring together the various „maritime surveillance initiatives“ and support them with unmanned systems.

      In addition to the military EDA, this primarily meant those EU agencies that take on tasks to monitor seas and coastlines: The Maritime Safety Agency (EMSA) in Lisbon, founded in 2002, the Border and Coast Guard Agency (Frontex) in Warsaw since 2004, and the Fisheries Control Agency (EFCA) in Vigo, Spain, which followed a year later.

      Since 2009, the three agencies have been cooperating within the framework of bi- and trilateral agreements in certain areas, this mainly concerned satellite surveillance. With „CleanSeaNet“, EMSA has had a monitoring system for detecting oil spills in European waters since 2007. From 2013, the data collected there was continuously transmitted to the Frontex Situation Centre. There, they flow into the EUROSUR border surveillance system, which is also based on satellites. Finally, EFCA also operates „Integrated Maritime Services“ (IMS) for vessel detection and tracking using satellites to monitor, control and enforce the common EU fisheries policy.

      After the so-called „migration crisis“ in 2015, the Commission proposed the modification of the mandates of the three agencies in a „set of measures to manage the EU’s external borders and protect our Schengen area without internal borders“. They should cooperate more closely in the five areas of information exchange, surveillance and communication services, risk analysis, capacity building and exchange. To this end, the communication calls for the „jointly operating Remotely Piloted Aircraft Systems (drones) in the Mediterranean Sea“.

      Starting in 2016, Frontex, EMSA and EFCA set out the closer cooperation in several cooperation agreements and initially carried out a research project on the use of satellites, drones and manned surveillance aircraft. EMSA covered the costs of €310,000, and the fixed-wing aircraft „AR 5 Evo“ from the Portuguese company Tekever and a „Scan Eagle“ from the Boeing offshoot Insitu were flown.

      EMSA took the lead

      Since then, EMSA has taken the lead regarding unmanned maritime surveillance services. The development of such a drone fleet was included in the proposal for a new EMSA regulation presented by the Commission at the end of 2015. Drones were to become a „complementary tool in the overall surveillance chain“. The Commission expected this to provide „early detection of migrant departures“, another purpose was to „support of law enforcement activities“.

      EMSA initially received €67 million for the new leased drone services, with further money earmarked for the necessary expansion of satellite communications. In a call for tenders, medium-sized fixed-wing aircraft with a long range as well as vertical take-off aircraft were sought; as basic equipment, they were to carry optical and infrared cameras, an optical scanner and an AIS receiver. For pollution tracking or emission monitoring, manufacturers should fit additional sensors.

      From 2018, EMSA awarded further contracts totalling €38 million for systems launching either on land or from ships. Also in 2018, the agency paid €2.86 million for quadrocopters that can be launched from ships. In the same year, EMSA signed a framework contract worth €59 million for flights with the long-range drone „Hermes 900“ from Israeli company Elbit Systems. In 2020, for €20 million, the agency was again looking for unmanned vertical take-off aircraft that can be launched either on land or from ships and can stay in the air for up to four hours.

      In addition to the „Hermes 900“, the EMSA drone fleet includes three fixed-wing aircraft, the „AR5 Evo“ from Tekever (Portugal), the „Ouranos“ from ALTUS (Greece) and the „Ogassa“ from UAVision (Portugal). The larger helicopter drones are the „Skeldar V-200“ from UMS (Sweden) and the „Camcopter S-100“ from Schiebel GmbH (Austria), as well as the „Indago“ quadrocopter from Lockheed Martin (USA).

      EMSA handles flights with different destinations for numerous EU member states, as well as for Iceland as the only Schengen state. Due to increasing demand, capacities are now being expanded. In a tender worth €20 million, „RPAS Services for Maritime Surveillance with Extended Coastal Range“ with vertically launched, larger drones are being sought. Another large contract for „RPAS Services for Multipurpose Maritime Surveillance“ is expected to cost €50 million. Finally, EMSA is looking for several dozen small drones under 25 kilograms for €7 million.

      Airbus flies for Frontex

      As early as 2009, the EU border agency hosted relevant workshops and seminars on the use of drones and invited manufacturers to give demonstrations. The events were intended to present marketable systems „for land and sea border surveillance“ to border police from member states. In its 2012 Work Programme, Frontex announced its intention to pursue „developments regarding identification and removing of the existing gaps in border surveillance with special focus on Unmanned Aircraft Systems“.

      After a failed award in 2015, Frontex initially tendered a „Trial of Remotely Piloted Aircraft System (RPAS) for long endurance Maritime Aerial Surveillance“ in Crete and Sicily in 2018. The contract was awarded to Airbus (€4.75 million) for flights with a „Heron 1“ from Israel Aeronautics Industries (IAI) and Leonardo (€1.7 million) with its „Falco Evo“. The focus was not only on testing surveillance technology, but also on the use of drones within civilian airspace.

      After the pilot projects, Frontex then started to procure its own drones of the high-flying MALE class. The tender was for a company that would carry out missions in all weather conditions and at day and night time off Malta, Italy or Greece for €50 million. The contract was again awarded to the defence company Airbus for flights with a „Heron 1“. The aircraft are to operate in a radius of up to 250 nautical miles, which means they could also reconnoitre off the coasts of Tunisia, Libya and Egypt. They carry electro-optical cameras, thermal imaging cameras and so-called „daylight spotters“ to track moving targets. Other equipment includes mobile and satellite phone tracking systems.

      It is not yet clear when the Frontex drones will begin operations, nor does the agency say where they will be stationed in the central Mediterranean. However, it has announced that it will launch two tenders per year for a total of up to 3.000 contracted hours to operate large drones.

      Drone offensive for „pull backs“

      So since 2016, EMSA and Frontex have spent more than €300 million on drone services. On top of that, the Commission has spent at least €38 million funding migration-related drone research such as UPAC S-100, SARA, ROBORDER, CAMELOT, COMPASS2020, FOLDOUT, BorderUAS. This does not include the numerous research projects in the Horizon2020 framework programme, which, like unmanned passenger transport, are not related to border surveillance. Similar research was also carried out during the same period on behalf of the Defence Agency, which spent well over €100 million on it.

      The new unmanned capabilities significantly expand maritime surveillance in particular and enable a new concept of joint command and control structures between Frontex, EMSA and EFCA. Long-range drones, such as those used by EMSA with the „Hermes 900“ and Frontex with the „Heron 1“ in the Mediterranean, can stay in the air for a whole day, covering large sea areas.

      It is expected that the missions will generate significantly more situational information about boats of refugees. The drone offensive will then ensure even more „pull backs“ in violation of international law, after the surveillance information is passed on to the coast guards in countries such as Libya as before, in order to intercept refugees as quickly as possible after they set sail from the coasts there.

      https://digit.site36.net/2021/04/30/unmanned-surveillance-for-fortress-europe
      #drones

    • Le texte de l’appel :

      Nous sommes nombreuses, nous sommes nombreux : nous sommes tant et tant à penser et éprouver que ce système a fait son temps. Mais nos voix sont dispersées, nos appels cloisonnés, nos pratiques émiettées. Au point que quelquefois nous doutons de nos forces, nous succombons à la détresse de l’impuissance. Certes, parfois cette diffraction a du bon, loin des centralisations et, évidemment, loin des alignements. Il n’empêche : nous avons besoin de nous fédérer. Sans doute plus que jamais au moment où une crise économique, sociale et politique commence de verser sa violence sans faux-semblant : gigantesque et brutale. Si « nous sommes en guerre », c’est bien en guerre sociale. D’ores et déjà les attaques s’abattent, implacables : le chantage à l’emploi, la mise en cause des libertés et des droits, les mensonges et la violence d’État, les intimidations, la répression policière, en particulier dans les quartiers populaires, la surveillance généralisée, la condescendance de classe, les discriminations racistes, les pires indignités faites aux pauvres, aux plus fragiles, aux exilé-es. Pour une partie croissante de la population, les conditions de logement, de santé, d’alimentation, parfois tout simplement de subsistance, sont catastrophiques. Il est plus que temps de retourner le stigmate contre tous les mauvais classements. Ce qui est « extrême », ce sont bien les inégalités vertigineuses, que la crise creuse encore davantage. Ce qui est « extrême », c’est cette violence. Dans ce système, nos vies vaudront toujours moins que leurs profits.

      Nous n’avons plus peur des mots pour désigner la réalité de ce qui opprime nos sociétés. Pendant des décennies, « capitalisme » était devenu un mot tabou, renvoyé à une injonction sans alternative, aussi évident que l’air respiré – un air lui-même de plus en plus infecté. Nous mesurons désormais que le capitalocène est bien une ère, destructrice et mortifère, une ère d’atteintes mortelles faites à la Terre et au vivant. L’enjeu ne se loge pas seulement dans un néolibéralisme qu’il faudrait combattre tout en revenant à un capitalisme plus « acceptable », « vert », « social » ou « réformé ». Féroce, le capitalisme ne peut pas être maîtrisé, amendé ou bonifié. Tel un vampire ou un trou noir, il peut tout aspirer. Il n’a pas de morale ; il ne connaît que l’égoïsme et l’autorité ; il n’a pas d’autre principe que celui du profit. Cette logique dévoratrice est cynique et meurtrière, comme l’est tout productivisme effréné. Se fédérer, c’est répondre à cette logique par le collectif, en faire la démonstration par le nombre et assumer une opposition au capitalisme, sans imaginer un seul instant qu’on pourrait passer avec lui des compromis.

      Mais nous ne sommes pas seulement, et pas d’abord, des « anti ». Si nous n’avons pas de projet clé en mains, nous sommes de plus en plus nombreuses et nombreux à théoriser, penser mais aussi pratiquer des alternatives crédibles et tangibles pour des vies humaines. Nous avons besoin de les mettre en commun. C’est là d’ailleurs ce qui unit ces expériences et ces espérances : les biens communs fondés non sur la possession mais sur l’usage, la justice sociale et l’égale dignité. Les communs sont des ressources et des biens, des actions collectives et des formes de vie. Ils permettent d’aspirer à une vie bonne, en changeant les critères de référence : non plus le marché mais le partage, non plus la concurrence mais la solidarité, non plus la compétition mais le commun. Ces propositions sont solides. Elles offrent de concevoir un monde différent, débarrassé de la course au profit, du temps rentable et des rapports marchands. Il est plus que jamais nécessaire et précieux de les partager, les discuter et les diffuser.

      Nous savons encore que cela ne suffira pas : nous avons conscience que la puissance du capital ne laissera jamais s’organiser paisiblement une force collective qui lui est contraire. Nous connaissons la nécessité de l’affrontement. Il est d’autant plus impérieux de nous organiser, de tisser des liens et des solidarités tout aussi bien locales qu’internationales, et de faire de l’auto-organisation comme de l’autonomie de nos actions un principe actif, une patiente et tenace collecte de forces. Cela suppose de populariser toutes les formes de démocratie vraie : brigades de solidarité telles qu’elles se sont multipliées dans les quartiers populaires, assemblées, coopératives intégrales, comités d’action et de décision sur nos lieux de travail et de vie, zones à défendre, communes libres et communaux, communautés critiques, socialisation des moyens de production, des services et des biens… Aujourd’hui les personnels soignants appellent à un mouvement populaire. La perspective est aussi puissante qu’élémentaire : celles et ceux qui travaillent quotidiennement à soigner sont les mieux à même d’établir, avec les collectifs d’usagers et les malades, les besoins quant à la santé publique, sans les managers et experts autoproclamés. L’idée est généralisable. Nous avons légitimité et capacité à décider de nos vies – à décider de ce dont nous avons besoin : l’auto-organisation comme manière de prendre nos affaires en mains. Et la fédération comme contre-pouvoir.

      Nous n’avons pas le fétichisme du passé. Mais nous nous souvenons de ce qu’étaient les Fédérés, celles et ceux qui ont voulu, vraiment, changer la vie, lui donner sens et force sous la Commune de Paris. Leurs mouvements, leurs cultures, leurs convictions étaient divers, républicains, marxistes, libertaires et parfois tout cela à la fois. Mais leur courage était le même – et leur « salut commun ». Comme elles et comme eux, nous avons des divergences. Mais comme elles et comme eux, face à l’urgence et à sa gravité, nous pouvons les dépasser, ne pas reconduire d’éternels clivages et faire commune. Une coopérative d’élaborations, d’initiatives et d’actions donnerait plus de puissance à nos pratiques mises en partage. Coordination informelle ou force structurée ? Ce sera à nous d’en décider. Face au discours dominant, aussi insidieux que tentaculaire, nous avons besoin de nous allier, sinon pour le faire taire, du moins pour le contrer. Besoin de nous fédérer pour mettre en pratique une alternative concrète et qui donne à espérer.

      Dès que nous aurons rassemblé de premières forces, nous organiserons une rencontre dont nous déciderons évidemment ensemble les modalités.

      #le_monde_d'après #convergence #résistance #convergence_des_luttes #se_fédérer #détresse #impuissance #diffraction #guerre_sociale #inégalités #capitalisme #capitalocène #néolibéralisme #égoïsme #autorité #profit #productivisme #collectif #alternative #alternatives #bien_commun #commun #commons #partage #solidarité #marché #concurrence #compétition #rapports_marchands #affrontement #auto-organisation #autonomie #démocratie #brigades_de_solidarité #mouvement_populaire #fédération #contre-pouvoir #alternative

  • Comment vont fonctionner les « brigades sanitaires » anti-coronavirus ?
    https://www.zinfos974.com/Comment-vont-fonctionner-les-brigades-sanitaires-anti-coronavirus_a154023
    https://www.youtube.com/watch?v=1rXPqWW3cD4&feature=share

    Pourquoi ces brigades ?

    Les « brigades sanitaires », dont la création a été annoncée mardi par le Premier ministre, seront chargées d’enquêter sur l’entourage des malades pour repérer les personnes potentiellement contaminées et les inviter à se faire tester.

    Il s’agira de « brigades d’anges gardiens, parce qu’elles vont venir au contact des malades et des personnes potentiellement malades, pour assurer leur propre protection », a expliqué samedi le ministre de la Santé Olivier Véran.

    Le dispositif, déjà testé par certains hôpitaux de l’AP-HP, vise à identifier le plus grand nombre possible de personnes infectées, qu’elles soient symptomatiques ou asymptomatiques. L’objectif final est de « casser » les chaînes de contamination.

    Qui va y participer ?

    Les brigades seront composées principalement de salariés de l’Assurance maladie. Des employés de Centres communaux d’action sociale (CCAS), de conseils départementaux ou d’organismes comme la Croix-Rouge pourraient également les intégrer.

    Au total, 3 à 4.000 personnes seront mobilisées. « Nous aurons 2.500 collaborateurs supplémentaires prêts à venir immédiatement en renfort si nécessaire », a toutefois assuré le directeur de l’Assurance maladie, Nicolas Revel, au journal Les Échos.

    Les « brigades sanitaires » seront par ailleurs intégrées dans un dispositif plus large, impliquant notamment le personnel de santé et les services municipaux. Selon Jean-François Delfraissy, président du conseil scientifique, 30.000 personnes au total pourraient être mobilisées.

  • Contre l’humanitaire, solidarité populaire – ACTA
    https://acta.zone/contre-lhumanitaire-solidarite-populaire

    Nous relayons ce texte envoyé par un brigadiste du Nord de Paris.

    À chacune de ses occurrences, la crise s’impose comme le fond sur lequel, tous et toutes, nous sommes sommé.e.s d’organiser nos expériences. Le confinement, les rues désertes des arrondissements les plus riches, les queues interminables devant les supermarchés de nos quartiers, les patrouilles et les contrôles de police : tout cela rend tangible une condition commune et donne à la crise actuelle un paysage auquel chacun peut se rapporter. Chaque soir, l’annonce du nombre de morts à la télévision, sinistre thème d’un morceau joué pour nous, par d’autres, supplante par une angoisse abstraite et froide un deuil qui devrait être collectif, partagé. Le pouvoir d’État tente bien de canaliser cette émotion pour l’absorber sous le prisme d’une nation indivisible, faisant du corps des soignants une image de l’ensemble du corps social. Cette instrumentalisation n’a pas manqué de susciter des résistances de la part des soignants eux-mêmes qui hurlent chaque fois que les métaphores d’État transfigurent les soignants en héros pour mieux sacrifier leurs corps – abandonnés et nus – sur une ligne de front fantasmée par quelque cabinet de conseil en charge de la gestion de crise. Ils savent le mépris dans lequel ils sont tenus. Ils savent combien c’est la raison d’être de leur activité que cet ordre détruit jusqu’à la racine, combien c’est l’idée même de soin, de solidarité et de commun qu’il s’agit pour cet ordre d’abolir.

    Face à cette situation, nous étions nombreux à ressentir avec colère l’impuissance à laquelle nous étions condamnés. La généralisation du rituel des applaudissement de 20h constitue le symptôme le plus saillant de ce sentiment de dénuement général auquel nous devions faire face dans le silence de nos appartements confinés. Les mots d’ordre diffusés en boucle de la communication gouvernementale n’ont pas suffi à nous convaincre du plus grand des sophismes qui consistait à nous faire dire que « ne rien faire, c’est sauver des vies. » Si certains ont trouvé dans cette formule une justification pour leur indifférence chronique à l’égard du reste du corps social, d’autres ont vite compris que le virus, qui fait de tout contact avec l’autre, de toute forme d’empathie, une menace pour la survie de l’espèce, était la plus parfaite justification de l’individualisme néo-libéral. Cette « idéologie zombie » cent fois déclinée par les productions culturelles de masse, trouve aujourd’hui sa meilleure mise en scène dans la réalité : survivre en temps d’épidémie c’est renoncer à tous les liens affectifs, sociaux et politiques qui régissent la vie en communauté. Et soudain l’indifférence devint vertu…

    Pourtant quelque chose résiste. Un sentiment de rage se répand au moins aussi vite que le virus et cherche les moyens matériels d’affirmer au contraire l’urgence de reconstruire la possibilité d’une emprise sur le monde. [...]

    L’autonomie qu’elles revendiquent n’est pas une posture de principe mais la condition politique et matérielle de leur apparition en même temps que la garantie de leur survie dans l’espace antagonique des métropoles. [...]

    La séquence à venir devra être consacrée à construire une autonomie politique offensive, qui fasse de ce nouvel outil une béquille pour marcher autant qu’un bâton pour frapper.

    #Brigades_de_solidarité populaire #solidarité_populaire #crise_sanitaire #autonomie

  • Corona Chroniques, #Jour47 - davduf.net
    http://www.davduf.net/corona-chroniques-jour47

    12h, une poignée de volontaires des #Brigades_de_Solidarité_Populaire gagne la place du marché Croix de Chavaux à #Montreuil. Dans leurs cageots, des invendus de Rungis, qu’ils sont allés chercher hier, des fruits qu’ils ont triés, et des légumes qu’ils distribuent à une centaine de pauvres parmi les pauvres, les confinés de TOUT ; geste simple et magnifique, geste barrière suprême, « élan solidaire et autogestionnaire », comme ils disent ; une solidarité pensée, qui doit plus à l’Après qu’à l’Avant, à l’autodéfense qu’à la charité. Depuis le #Corona, le camion des BSP (création italienne, depuis internationale) maraude dans les quartiers populaires, un camion fait des tournées en continu, deux cantines mitonnent des repas prêts pour ceux qui n’ont même pas de cuisine.

    Mais 13h20, les voitures de police qui pimponnent. Mais 13h20, les motos des voltigeurs qui débarquent. Mais 13h20, #Lallement qui fait sonner la troupe. C’est brigades contre brigades, braves contre #BRAV (Brigades de Répression de l’Action Violente Motorisées). La distribution gratuite de denrées est interrompue. On nasse, on verbalise, pour manifestation non déclarée. Aux Brigadistes de rue — gantés, masqués, gelés — qui se plaignent d’être contrôlés comme Avant, sans précautions sanitaires ni distance d’aucune sorte, les Brigadistes de #préfecture rétorquent comme dans un aveu de l’Ordre imbécile : « Vous n’avez rien à dire, vos masques ne sont pas aux normes. »

    • Outre le suivi de la journée par Paris luttes ci-dessus. Des aperçus (avec photos et vidéo) de ce qui s’est passé à #Montreuil où la journée a commencée vers 13H30 par l’intervention d’une quarantaine de « BRAV » (voltigeurs de la police) pour mettre fin à une distribution de nourriture à Croix de Chavaux.

      1/ La Halle du marché, c’est un peu comme la vie
      https://twitter.com/Paroleerrante/status/1256184386824921088

      Ce matin un marché rouge était organisé, avec distribution de nourriture et tracts des #Brigades_de_solidarité_populaire. Une cinquantaine de personnes ont été nassées par la police (les « BRAV » voltigeurs) ss la halle du marché Croix de Chavaux, solidarité !!

      #délit_de_solidarité : Distribution de légumes à +ou-100 personnes, chorale, banderoles. Puis la milice du capital arnachée comme pas 2 vient nasser et distribue une cinquantaine de PV, y compris à des personnes simplement venues récupérer de quoi manger

      Le poulet au légumes du #PremierMai, nature morte, 2020.

      2/ Haut Montreuil
      https://twitter.com/Paroleerrante/status/1256208489766105088

      Après la nasse de Croix de Chavaux, avec la pullulation policière qui continue à la mairie

      En ce moment : une petite manif qui descend de la Boissière vers Mairie en occupant la route !

      3/ dernier fil, à la lecture du Parisien libéré
      https://twitter.com/Paroleerrante/status/1256288161673740288

      ce vendredi, les signes avant coureur de l’agitation à venir se faisaient sentir dans le centre-ville de Montreuil : une vingtaine de cars de CRS Le Parichien empêtré

      Mairie

      Un des lieux de retrouvailles, repos et de débriefing :)
      Si pas de muguet de Mai, dansons la capucine.

    • Pour les oubliés du confinement - Son, chant, images, hier au marché à Croix de chavaux, avant l’arrivée des BRAV

      Montreuil, place du Marché. 1er mai. Autodéfense populaire. Distribution de fruits & légumes avec une #chorale. Là où l’État n’est présent que par sa police, nous nous organisons pour répondre à des besoins nécessaire et vitaux.

      https://twitter.com/carlier_anna/status/1256555127139377152

    • 1er mai à Montreuil : la Boissière deter et révolutionnaire !
      https://paris-luttes.info/1er-mai-a-montreuil-la-boissiere-13931

      Nous vous livrons un petit CR à chaud et euphorique de la manif de la Boissière à Montreuil (93). Pour résumer rapidement : nous avons pu mener une manif sauvage de 1h30 entre le carrefour bd de la Boissière / bd Aristide Briand jusqu‘à Paul Signac puis jusqu‘à la lisière de la mairie de Montreuil, et retour par la rue de Romainville aux Trois Communes pour finir devant l‘hôpital André Grégoire. On voulait rejoindre la mairie, mais on a préféré éviter la nasse géante.

      Plein de gens aux fenêtres nous ont salué·e·s, acclamé·e·s et quelques voisin·e·s sont carrément descendu·e·s pour manifester avec nous ! Big up aux automobilistes qui ont voulu aller se garer pour nous rejoindre, à celleux qui ont mis l‘Internationale à fond dans leur appart pour qu‘on l‘entende, celleux qui nous ont offert un miniconcert à leur fenêtre avec tambour et accordéon, aux deux qui ont brandi un drapeau rouge à faucille et marteau à notre passage, à cette maman qui est descendue nous faire un coucou avec ses deux enfants déguisées en princesses, à ce gars en voiture qui nous a demandé quelles étaient nos revendications et a levé le pouce quand on lui a dit : « LA RÉVOLUTION ! ».

      Nous avons pu nous lâcher sur les slogans et la bonne humeur en n‘étant presque pas dérangé·e·s par les keufs (ni par la pluie !) : on a compté un camion de flics qui a fait demi-tour en nous voyant arriver, et une voiture de la police municipale devant l‘hôpital, peu avant le point de dispersion. Les deux municipaleux étaient totalement démunis, ont essayé de nous suivre, de faire demi-tour, l‘un d‘eux a même contrôlé au pif un pauvre automobiliste qui passait par là pour se donner de la contenance, et avant que leurs renforts n‘arrivent, tout le monde était dispersé et en sécurité (a priori).

      On était armé·e·s d‘attestations en bonne et due forme, de masques, de gestes barrière et surtout de 2 banderoles de ouf (qui sont elles aussi en sécurité) : une « Fermez les CRA » et une « Contre le Macronavirus, la Boissière révolutionnaire » avec un serpent magnifiquement vénère.

      On est encore tout.es retourné·e·s de la réaction des voisin.es aux balcons, aux fenêtres et dans la rue, l‘ambiance était si chaleureuse et solidaire ! C‘était en soi une sauvage toute tranquille avec des enfants et des petits moments de danse, mais c‘est surtout une manif du 1er mai 2020 qui s‘est déroulée sans accroc, dans un quartier particulièrement touché par le harcèlement policier et les violences policières, et ça c‘est ouf et ça fait du bien.

      Stratégiquement, on peut en déduire qu‘effectivement, surprendre les keufs et compagnies en manifestant dans des endroits inattendus, de manière mobile, spontanée et décentralisée, ça marche bien. Nous n‘étions qu‘un petit groupe, une vingtaine qui est devenue une trentaine, et on n‘a pas pu inviter et mobiliser toutes les personnes avec qui on aurait aimé manifester. Depuis le début du confinement, on s’organise dans notre quartier, on en est fier·ère·s et on va pas s’arrêter là. Aujourd’hui, c‘était un modèle de manif de quartier, avec ses avantages et ses inconvénients, qui nous a fait grave plaisir et nous a permis de montrer aux compas et au quartier que le confinement ne signifie pas la fin de la rébellion et des luttes !

      Un dernier mot : toute notre solidarité à celleux qui ont pris des amendes aujourd‘hui ou les jours précédents, ailleurs à Montreuil ou Paris. À la Boissière, les flics nous alignent pour rien, du coup notre petite balade sonnait comme une minirevanche. On va essayer de s‘organiser pour que les amendes soient prises en charge collectivement et on vous invite à faire de même !

      La Boissière, déter, et révolutionnaire !

      [...]
      _Suit une liste de #slogans_

  • Les #Brigades_Solidaires sont nées en Italie, en voici une belle vidéo napolitaine :
    https://www.facebook.com/BrigadesSolidaritePopulaire/videos/1117337091964564

    Mais elles existent maintenant en France :

    Le boom des #Brigades_de_Solidarité_Populaire pour politiser l’aide aux plus précaires
    Stéphane Ortega, Rapports de Force, le 29 avril 2020
    https://rapportsdeforce.fr/pouvoir-et-contre-pouvoir/le-boom-des-brigades-de-solidarite-populaire-pour-rendre-politique-l

    L’activité des brigades ne souhaite pas se cantonner à une intervention humanitaire. Outre leur volonté de s’organiser avec des gens en lutte pour sortir du rapport aidant-aidés, ses membres désirent allier réponse immédiate, pour couvrir les besoins matériels, et réponses politiques. Par exemple, à travers les distributions des masques : « il y avait un enjeu sur les conditions de travail dans les entreprises. Cela a été l’occasion de discuter du droit de retrait et de la grève avec les travailleurs que l’on allait voir », se remémore Julia. Une forme d’intervention politique dans la continuité des trois mois de mobilisation contre la réforme des retraites, arrêtés par le coronavirus.

    #coronavirus #solidarité #France #Italie

    Voir compile des effets délétères indirects de la pandémie :
    https://seenthis.net/messages/832147

  • ★ • Brigades Solidarité Populaire
    https://www.brigades.info/fr

    104203 masques
    Nous offrons des masques et des gants aux plus précarisé.e.s et aux plus exposé.e.s.
    1111 gels
    Du fait de la pénurie, nous produisons, empaquetons et distribuons notre gel hydroalcoolique.
    10827 repas
    Les Brigades distribuent quotidiennement des repas froids ou chauds aux personnes dans le besoin.
    12199 colis alimentaires
    Nous distribuons également des denrées alimentaires pour que les personnes préparent leurs propres repas.
    466 heures pédagogiques
    Notre mission inclut le soutien pédagogique des élèves en difficulté scolaire.

    47 brigades
    Les Brigades de Solidarité Populaire fédèrent des groupes d’action partout dans le monde.
    Rejoignez nous !

    Les Brigades de Solidarité sont un réseau de groupes d’aide mutuelle auto-organisés agissant pour une auto-défense pour le peuple par le peuple. Nous opérons partout dans le monde. Les Brigades se sont formées lors de la pandémie COVID-19 qui nous a tou.te.s frappé.e.s.
    Nous savons que les gouvernements ne sont pas une solution à la crise sanitaire. Ils sont au service d’un système basé sur le profit et l’intérêt privé qui est à l’origine du désastre que nous connaissons et de la situation dramatique dans laquelle se trouvent les services de soins publics.

    Nous savons qu’il nous faudra compter sur nos propres forces. Notre auto-organisation doit générer des solidarités concrètes, sur une base territoriale afin de venir en aide aux plus précaires : travailleur.euse.s, migrant.e.s, personnes sans domicile fixe, personnes âgées, isolées…

    Mais ce réseau de solidarité doit aussi s’attacher à une mise en accusation des politiques néo-libérales, dont la situation actuelle, partout dans le monde, démontre une fois de plus la nature criminelle et à l’élaboration de nouvelles formes d’organisation collective.

    Formons des Brigades de Solidarité Populaire !

    #Brigades_de_Solidarité_Populaire

    • Distribution de masques et de nourriture, aide aux devoirs : qui sont les brigades de solidarité populaire ?
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2020/05/03/distribution-de-masques-et-de-nourriture-aide-aux-devoirs-qui-sont-les-briga

      S’inspirant de l’exemple milanais, militants d’extrême gauche et sans-papiers veulent créer en France « une solidarité immédiate et concrète » .

      Certains de leurs militants ont été verbalisés le 1er mai, pour non-respect des règles de confinement, alors qu’ils distribuaient de la nourriture à Montreuil (Seine-Saint-Denis). Réunissant des personnes engagées issues de l’antifascisme, de l’autonomie mais aussi les sans-papiers du collectif des « gilets noirs » , les brigades de solidarité populaire se définissent comme « un réseau de groupes d’aide mutuelle auto-organisés agissant pour une autodéfense pour le peuple par le peuple, formé lors de la pandémie » due au coronavirus. Sur le site Acta (proche de l’Action antifasciste Paris-banlieue), on peut ainsi lire : « Ce dont l’Etat est capable, c’est tout au plus de gérer le désastre. Il nous faut apprendre à compter sur nos propres forces. »

      [...] Les brigades se rendent également dans les foyers de travailleurs immigrés. « On travaille avec quarante-trois foyers, explique Bakary, membre de ce collectif [Gilets Noirs] rendu célèbre par son occupation du Panthéon, en juillet 2019. On distribue nourriture et médicaments. En ce moment, on réfléchit à la manière d’organiser l’iftar [rupture du jeûne lors du ramadan] dans les foyers. » Une gageure en temps de distanciation sociale.

      [...] Si les militants italiens se sont rapprochés d’une grosse ONG en lien avec la mairie de Milan, les Franciliens préfèrent l’auto-organisation. Ils revendiquent d’avoir créé un « comité sanitaire » avec des professionnels de santé [un des résultats des luttes de soignants, ndc] pour former aux gestes barrières, à la bonne utilisation des masques pour éviter d’être vecteurs de propagation du virus lors des distributions ou lors des maraudes. [...]

  • Barbagia Rossa
    https://barbagiarossa.wordpress.com/barbagia-rossa

    Di Massimiliano Musina

    Tutti i testi sono di proprietà dell’autore e protetti da una licenza Creative Commons “Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia“.
    INDICE

    01) Introduzione
    02) Marzo 1978. La prima comparsa di Barbagia Rossa
    03) Novembre 1978. L’agguato alla stazione radar di Siamanna
    04) Gennaio 1979. Si apre la campagna contro la militarizzazione dell’isola
    05) Dicembre 1979. C’è un filo conduttore nella malavita sarda?
    06) Dicembre 1979. Il conflitto a “Sa Janna Bassa”
    07) Febbraio 1980. L’udienza sui fatti di “Sa Janna Bassa”
    08) Febbraio 1980. Il conflitto alla stazione di Cagliari
    09) Giugno 1981. La requisitoria sulla sparatoria a Cagliari
    10) Giugno 1981, L’errato attentato mortale a Natalino Zidda
    11) Agosto 1981. L’attentato mortale a Santo Lanzafame
    12) Febbraio 1982. Le confessioni di Savasta e la scomparsa di Barbagia Rossa

    01) Introduzione

    Barbagia Rossa era un’organizzazione militante di estrema sinistra che ha operato tra il 1978 e il 1982 in Sardegna.
    Si proponeva di diventare il punto di riferimento politico e militare per tutto il proletariato sardo.
    Un elemento importante della sua azione è stato quello di contrastare la forte militarizzazione dell’isola che in quegli anni vede aumentare il numero di basi militari, probabilmente anche a causa dei sempre più numerosi agguati e sequestri di persona.
    L’organizzazione instaurò anche un forte legame con le Brigate Rosse fungendo a volte da appoggio per alcune operazioni svolte dalle BR nell’isola.

    I suoi dirigenti erano Pietro Coccone, Antonio Contena, Caterina Spano, Davide Saverio Fadda.

    02) Marzo 1978. La prima comparsa di Barbagia Rossa

    La sigla Barbagia Rossa fa la sua prima apparizione il 30 dicembre del 1977, quando viene dato fuoco alla porta laterale del tribunale di Nuoro con un ordigno incendiario a innesco chimico.
    Nella rivendicazione, un volantino trovato su una cabina telefonica, i “GABR” (Gruppi Armati Barbagia Rossa) affermano di voler colpire l’istituzione carceraria nel suo complesso.

    Ma in quegli anni la cronaca cittadina ha a che fare con varie sigle e gruppi più o meno fantasiosi che rivendicano puntualmente ogni azione militante.

    GABR acquista una certa credibilità solo dopo il secondo attentato.
    Sabato 25 marzo 1978 viene dato fuoco a un cellulare adibito al trasporto detenuti.
    Anche in questo caso si fa uso di particolari sostanze presupponendo delle buone e preoccupanti conoscenze in ambito chimico.
    Questa volta la rivendicazione arriva telefonicamente lunedì 27 marzo e Barbagia Rossa, sottolineando l’intenzione di colpire l’istituzione carceraria nel suo complesso, chiede anche la liberazione di tutti i detenuti di “Badu ‘e carros”, il supercarcere di Nuoro.

    03) Novembre 1978. L’agguato alla stazione radar di Siamanna

    Dopo alcuni mesi di apparente inattività, un nuovo attentato richiama l’attenzione delle forze politiche dell’isola.
    Giovedì 2 novembre 1978, verso mezzanotte, viene assalita la stazione radar di Siamanna, in provincia di Oristano.
    La stazione, un groviglio di antenne e cavi nella pianura oristanese, è sorvegliata da quattro militari di leva (Giovanni Melis di Senorbì, Antonio Cabras di Sant’Antioco, Luigi Madeddu di Iglesias, Sebastiano Bassallu di Santulussurgiu). Uno di loro, durante la ronda notturna, viene assalito da tre malviventi a volto coperto e lo obbligano a portarli all’interno della stazione.
    I quattro militari vengono immobilizzati.

    Gli aggressori non causano nessun danno alla strumentazione, limitandosi a prelevare i quattro fucili Garand dei soldati, 150 proiettili e alcune bombe a mano.
    Prima di andare via si rivolgono ai giovani di leva dicendo “Scusateci, non ce l’abbiamo con voi ma con lo Stato. Siamo del gruppo di Barbagia Rossa”.

    Il fatto che non sia stato fatto nessun danno alla strumentazione militare evidenzia che l’aggressione ebbe come unico fine quello di prelevare le armi.
    Inoltre un dato interessante è che i fucili Garand (di fabbricazione americana) hanno un peso di circa 8 kg e una lunghezza di oltre un metro; essendo poco maneggevoli sono poco quotati nel mercato clandestino. Però sono armi di altissima precisione e lunga portata (hanno un tiro utile di circa 1200 metri) per questo si può ipotizzare un uso in campo terroristico.

    02 – La stazione radar assaltata a Siamanna (Oristano)

    04) Gennaio 1979. Si apre la campagna contro la militarizzazione dell’isola

    Dal gennaio del 1979 Barbagia Rossa porta avanti una “Campagna contro la militarizzazione del territorio” compiendo numerosi attentati a Nuoro e dintorni (Lula e Orani).

    Nei documenti di rivendicazione l’organizzazione si presenta così:
    “Barbagia Rossa, in quanto avanguardia politico-militare espressa nel territorio, si fa carico del progetto strategico della lotta armata per il comunismo:
    – cercando di superare la fase spontanea ed episodica degli attacchi;
    – mirando alla creazione di una organizzazione che sia in grado di intervenire ed operare all’interno di qualsiasi contraddizione, in ogni situazione reale del territorio;
    – proponendosi di diventare punto di riferimento politico-militare per tutto il proletariato sardo”.

    Un altro fatto interessante accade il 28 gennaio ’79.
    A Torino viene effettuata un’operazione anti terroristica per sgominare una cellula delle brigate rosse.
    Vengono scovati due covi con armi e denaro e arrestati Maria Rosaria Biondi, Nicola Valentino e Ingeborg Keiznac.
    Inoltre vengono arrestate tre persone sarde, precisamente di Orani (paese a pochi chilometri da Nuoro): le sorelle Carmela e Claudia Cadeddu e Andrea Boi.
    I “tre sardi” sono tutti emigrati che lavorano da tempo fuori dall’isola.
    Tutta la comunità di Orani non crede a un legame dei compaesani con i brigatisti, si pensa invece a un inspiegabile errore giudiziario.

    03 – I tre sardi arrestati nel corso delle indagini sui covi delle Brigate Rosse scoperti a Torino

    05) Dicembre 1979. C’è un filo conduttore nella malavita sarda?

    Il 14 dicembre viene trovato un piccolo arsenale in una campagna di Illorai, vicino al ponte “Iscra” sul fiume Tirso.
    Tra le armi, coperte da fitta vegetazione e cespugli, è presente anche un fucile automatico che era stato rubato il 23 settembre ad un cacciatore nuorese, Giovanni Loria, a cui i malviventi dissero di appartenere al movimento “Barbagia Rossa”.

    Ma si tratta solo di un piccolo avvenimento; il dicembre del ’79 è teatro di più importanti e ingarbugliate vicende.
    Le forze dell’ordine cercano di trovare un filo conduttore tra le varie azioni malavitose del banditismo sardo e i sempre più numerosi attentati a sfondo politico.

    Sono in corso i sequestri di Fabrizio De Andrè e sua moglie Dori Ghezzi (catturati il 27 agosto ’79 per poi essere liberati dopo circa quattro mesi, il 20 dicembre lei e il 22 dicembre lui) nonché il più discreto, e quindi più preoccupante, rapimento Schild.
    Per polizia e carabinieri un filo conduttore esiste e sarebbe di sfondo politico, da ricercare nelle azioni militanti dei gruppi di estrema sinistra che si sono inseriti prepotentemente nelle scene sarde.

    Il 18 dicembre ’79 a Sassari viene bloccata un auto con quattro giovani (Angelo Pascolini, Luciano Burrai, Carlo Manunta, Antonio Solinas).
    L’auto, che si trova in via Luna e Sole, zona periferica della città abitata da molte persone facoltose, aveva dato nell’occhio e giungono alcune volanti della polizia per un controllo.
    All’alt delle forze dell’ordine uno dei quattro risponde tentando di lanciare una bomba a mano, ma viene bloccato da uno degli agenti.
    Successivamente partono gli arresti per i quattro giovani.

    Durante la perquisizione si scopre che l’auto era equipaggiata con molte armi e libri di natura politica. Viene trovata una cartolina di un brigatista rinchiuso nel carcere dell’Asinara e scoperto un covo. Si trovano anche le prove di un tentativo di sequestro ai danni di un politico isolano.
    I quattro vengono accusati di associazione a fini eversivi, tentato omicidio plurimo, porto e detenzione abusiva di armi (un mitra, sei pistole, circa tremila cartucce) e tentato sequestro di persona.

    04 – Angelo Pascolini, Luciano Burrai e in basso Carlo Manunta e Antonio Solinas. I quattro giovani catturati nell’auto-arsenale alla periferia di Sassari

    05 – Angelo Pascolini, il giovane romano arrestato sull’auto trasformata in arsenale, esce dalla questura di Sassari

    06) Dicembre 1979. Il conflitto a “Sa Janna Bassa”

    Ma l’avvenimento che segna maggiormente la cronaca di questo intenso dicembre del ’79, è il sanguinoso conflitto a fuoco di “Sa Janna Bassa” a Orune.

    Il 17 dicembre il capitano dei carabinieri Enrico Barisone esce con due carabinieri al seguito per il solito giro di perlustrazione notturna.
    Quando si trovano nei pressi dell’ovile di Carmelino Coccone, vicino Orune, sono attirati da insoliti movimenti e intimano l’alt a delle persone che si trovano fuori dall’ovile, ma questi rispondono aprendo il fuoco e ferendo il capitano.
    Nasce un sanguinoso conflitto a fuoco in cui restano uccisi due pastori: Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti.

    Nel frattempo arrivano i rinforzi; alcuni malviventi scappano mentre otto vengono arrestati: Carmelino Coccone, Sebastiano e Pietro Masala, Pietro Malune, Antonio Contena, Mario Calia, Mauro Mereu e Melchiorre Deiana.
    I carabinieri sostengono di aver interrotto una specie di “summit” del banditismo isolano, una “cena di lavoro” in cui si sarebbero prese importanti decisioni.
    Si ipotizza anche di aver smantellato l’intera banda legata ai sequestri De Andrè/Ghezzi o Schild.

    Un importante fatto che caratterizza i fatti di “Sa Janna Bassa” è che in due giacche rinvenute nell’ovile teatro della sparatoria, sono stati trovati dei volantini appartenenti alle Brigate Rosse; in particolare nelle giacche di Giovanni Maria Bitti, morto durante la sparatoria, e di Pietro Coccone (nipote di Carmelino Coccone), dirigente di Barbagia Rossa riuscito a scappare durante l’agguato dei carabinieri.

    Tutti questi elementi mettono alla luce eventuali risvolti politici e collegamenti tra banditismo sardo e organizzazioni eversive.

    06 – L’ovile di Coccone teatro della sanguinosa sparatoria

    07 – I corpi dei banditi vengono trasportati a Nuoro; sullo sfondo l’ovile teatro del conflitto

    08 – Giudici, inquirenti e imputati osservano il soffitto dell’ovile

    09 – Una parte delle armi trovate addosso ai fuorilegge uccisi e nella zona dove si è svolto il conflitto a fuoco

    10 – I due banditi uccisi, Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti

    07) Febbraio 1980. L’udienza sui fatti di “Sa Janna Bassa”

    Il 2 febbraio si tiene l’udienza per il processo sui fatti di “Sa Janna Bassa”.
    I giudici della Corte d’Assise rimangono in camera di consiglio tre ore esatte, dalle 9:45 alle 12:45.
    In un’aula gremita di parenti, conoscenti e curiosi, vengono condannati Carmelino Coccone (15 anni), Pietro Malune, Mauro Mereu, Pietro e Sebastiano Masala (11 anni), il giovanissimo Melchiorre Deiana (4 anni).
    Tutti e sei sono ritenuti responsabili di concorso nel tentato omicidio del capitano Barisone, di porto e detenzione di armi comuni e da guerra, di favoreggiamento e resistenza aggravata.

    Per i giudici quella nell’ovile di Carmelino Coccone era una vera è propria banda riunita in una “cena di lavoro”, mentre Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti (uccisi) facevano la guardia all’esterno insieme ad un’altra persona che è riuscita a scappare.
    Antonio Contena e Pietro Coccone (quest’ultimo latitante), entrambi dirigenti di Barbagia Rossa, devono invece rispondere di associazione a delinquere davanti al tribunale nuorese.

    11 – Carmelo Coccone, Mauro Mereu, Melchiorre Deiana, Sebastiano e Pietro Masala e Pietro Malune in Corte d’Assise

    12 – Il capitano dei carabinieri Enrico Barisone durante il sopralluogo eseguito dalla Corte d’Assise d’appello di Cagliari a Sa Janna Bassa (Orune)

    08) Febbraio 1980. Il conflitto alla stazione di Cagliari

    Collegamenti tra Barbagia Rossa e le Brigate Rosse trovano un’ulteriore conferma il 15 febbraio 1980.

    Sono le 16:00, alla stazione ferroviaria di Cagliari due agenti della polizia, il brigadiere Fausto Goddi e la guardia Stefano Peralta, si avvicinano a un gruppo di cinque giovani chiedendo loro i documenti per un controllo; gli agenti contattano la centrale.
    A Giulio Cazzaniga e Mario Pinna, entrambi nuoresi, viene chiesto di seguirli in questura per degli accertamenti.
    Gli altri tre vengono lasciati liberi.
    Due di loro, sedicenti Camillo Nuti ed Emilia Libera, si spostano verso la sala d’attesa della stazione (sono incensurati), l’altro, Mario Francesco Mattu, si allontana in altra direzione (su di lui sussistono dei precedenti, ma non gravi in quell’occasione).

    Mentre il brigadiere e i due fermati si dirigono in auto verso la questura, viene dato ordine di tornare indietro e catturare anche gli altri.
    Vengono rintracciati vicino ai binari solo due dei tre, l’uomo e la donna.
    Questi seguono gli agenti fino all’uscita della stazione.
    A quel punto l’uomo abbraccia la sua compagna, tira fuori una pistola e inizia a sparare all’impazzata per coprirsi la fuga.
    Nasce una vera e propria sparatoria al centro di Cagliari, le pallottole ad altezza d’uomo colpiscono alcune auto posteggiate, ma per fortuna nessun passante.
    La donna in fuga viene ferita alla fronte, un poliziotto al piede.

    Nelle ore successive la città è assediata da oltre quattrocento uomini delle forze dell’ordine, ma dei due fuggitivi nessuna traccia.
    Inizialmente si pensa che la donna colpita sia Marzia Lelli, nota brigatista; dell’uomo invece non sono disponibili informazioni.

    Più tardi si scopre che Giulio Cazzaniga e Mario Pinna, fermati prima del conflitto, appartengono al gruppo di Barbagia Rossa e vengono arrestati per detenzione abusiva di arma da guerra e partecipazione ad azione sovversiva.
    Ai due si aggiunge il quinto elemento che si era allontanato dalla stazione, Mario Francesco Mattu di Bolotana.
    Anche lui appartenente a Barbagia Rossa, viene arrestato durante la notte tra il 15 e il 16 febbraio ’80 a casa della sua ragazza a Cagliari dove viene trovata anche una pistola “Luger” calibro 9.
    Vengono catturati anche cinque giovani che al momento dell’arresto di Mattu si trovano nella stessa casa (dopo alcuni mesi di carcere preventivo, verranno rilasciati perché effettivamente non esiste nessun tipo di legame diretto o indiretto con gli arrestati).

    Nei giorni seguenti continuano in maniera serrata le ricerche dei due fuggiaschi.
    Pinna e Cazzaniga si dichiarano “prigionieri politici”, Mattu viene interrogato.
    Inizialmente si pensa che i cinque della stazione stessero organizzando un attentato ai danni del capitano Enrico Barisone, ma dopo i primi accertamenti anche questa ipotesi viene scartata.

    A cinque giorni dalla sparatoria, in tutta la città si vive uno stato d’assedio.
    I grandi porti e aeroporti dell’isola vengono controllati sistematicamente per evitare eventuali spostamenti dei due banditi, ma per la polizia è certo che stiano contando su un appoggio a Cagliari.

    Intanto proseguono le indagini.
    Inizialmente si è creduto che la donna in fuga fosse Marzia Lelli, nota brigatista, ma indiscrezioni indicherebbero che si trova in Brasile.

    La polizia prende quindi un’altra strada partendo dai documenti forniti al controllo del brigadiere Goddi alla stazione.
    La carta d’identità della donna era a nome di una certa Emilia Libera, infermiera romana che la Criminalpol non riesce a rintracciare nella Capitale.
    La polizia ora sostiene che il suo documento è autentico, quindi da adesso è Emilia Libera la ricercata.
    Si tratta di un’indiziata sopra ogni sospetto poiché, oltre ad aver partecipato a un collettivo al Policlinico di Roma, Libera non è una militante conosciuta.
    I documenti forniti dall’uomo erano invece fasulli, a nome di Camillo Nuti, ingegnere romano che dopo vari interrogatori non ha avuto difficoltà a provare che non si è mai mosso dalla capitale.

    Un’ipotesi accreditata sulla visita in Sardegna di Emilia Libera e del “fasullo” Camillo Nuti (partiti da Roma a Cagliari con un aereo giovedì 14 febbraio ’80) è quella per cui fossero stati incaricati dalla direzione delle Brigate Rosse di valutare e rendersi conto dell’efficienza e del grado di preparazione alla guerriglia dei membri di Barbagia Rossa.
    Si crede in effetti che l’organizzazione sarda stia consolidando le proprie posizioni.
    Stando alle indiscrezioni, alcuni esponenti dell’organizzazione sarda (secondo la Digos una quindicina) avrebbero preso contatti con delinquenti comuni e bande legate all’anonima sequestri. Pare che si stesse anche perfezionando l’acquisto di un grosso stock di armi.
    Insomma Barbagia Rossa, sempre stando alle indiscrezioni, si preparerebbe per entrare grintosamente nel panorama del terrorismo nazionale.

    Il 21 febbraio ’80 viene identificato l’uomo in compagnia di Eliana Libera.
    Si tratta di Antonio Savasta, romano ventiquattrenne, brigatista di recentissima immatricolazione ma praticamente incensurato. Si è arrivati alla sua identificazione scavando nella vita di Eliana Libera, infatti Savasta era, fino a poco tempo fa, il suo compagno.

    I due fuggitivi hanno adesso un nome e un volto, ma risultano svaniti nel nulla.
    Dopo due settimane non c’è ancora nessuna traccia di loro.
    Si è scoperto che subito dopo la sparatoria alla stazione un’ignara signora li ha ospitati per un’ora nella sua abitazione. Si sono presentati come due ragazzi tranquilli e simpatici che avevano bisogno del bagno.
    Ora si presume che siano nascosti in barbagia, ma si tratta di ipotesi.

    13 – Gli accertamenti della Scientifica in piazza Matteotti subito dopo la sparatoria

    14 – I tre giovani arrestati subito dopo la sparatoria: Marco Pinna, Giulio Cazzaniga, Mario Francesco Mattu

    15 – Mario Francesco Mattu dopo un interrogatorio

    16 – Antonio Savasta e il suo identikit ricostruito dalla polizia

    17 – L’auto dentro la quale Savasta sparò alla stazione di Cagliari

    18 – Rinaldo Steri e Carlo Cioglia, aiutarono Savasta e Libera a scappare dopo il conflitto

    09) Giugno 1981. La requisitoria sulla sparatoria a Cagliari

    Dopo più di un anno dalla sparatoria, nessuna traccia dei brigatisti Savasta e Libera.
    Dalle indagini si è scoperto che dopo essere andati via dalla casa della signora, sono stati assistiti da Rinaldo Steri e Carlo Cioglia (entrambi cagliaritani).
    Sarebbero loro ad essersi preoccupati della ricerca di rifugi e nascondigli per scappare ai rastrellamenti.
    I banditi inizialmente furono portati in una casa cagliaritana in via San Mauro, successivamente in un’abitazione di viale Fra Ignazio, poi in un casotto al Poetto, quindi in una villetta in costruzione.
    Dopodiché sono stati trasferiti in un rifugio brigatista a Torre delle Stelle, 20 km a est di Cagliari.
    Durante la settimana di permanenza in questo rifugio, Ciogli si sarebbe preoccupato di trovare un camion che portò Savasta e Libera a Porto Torres da dove presero un traghetto per poi far perdere ogni traccia.

    Il 18 giugno ’81, dopo un anno e quattro mesi dalla sparatori di Cagliari, il pubblico ministero depone la sua requisitoria su tutta la vicenda indicando 27 persone come protagoniste delle vicende tra cui, ovviamente, Antonio Savasta, Emilia Libera, Mario Pinna, Mario Francesco Mattu, Rinaldo Steri e Carlo Cioglia. Gli altri sono studenti universitari, artigiani e vecchi sessantottini.
    Giulio Cazzaniga viene invece prosciolto dalle accuse per infermità mentale.

    19 – Riepilogo delle accuse

    10) Giugno 1981, L’errato attentato mortale a Natalino Zidda

    Ma più che per i fatti di natura giudiziaria, il giugno del 1981 verrà ricordato per un nuovo spargimento di sangue che fa riprofondare l’isola nel dolore.
    Barbagia Rossa intensifica le sue azioni contro la militarizzazione del territorio e lo fa in maniera più violenta e decisa.

    Martedì 9 giugno, Orune. Nicolino Zidda (insegnante della colonia penale di Mamone) è in compagnia del brigadiere Salvatore Zaru, sono seduti sull’uscio della casa di Zidda.
    Alle 23:00 il tipico rumore di un caricatore di arma da fuoco rompe il silenzio della notte.
    Il brigadiere, sicuramente sensibile a certi rumori, si ripara immediatamente buttandosi verso l’interno della casa.
    Immediatamente arriva la scarica rabbiosa e violenta di un mitra.

    Vengono esplosi circa 30 proiettili che uccidono Nicolino Zidda.

    La rivendicazione è di Barbagia Rossa e arriva la mattina seguente con una telefonata anonima alla redazione cagliaritana dell’Ansa.
    Viene spiegato che si è trattato di un errore, che il vero obiettivo dell’attentato non era Zidda ma il brigadiere Zaru.
    Viene altresì comunicato che è iniziata la campagna contro le forze di repressione.

    La morte di Zidda è accolta con sgomento da tutta la comunità orunese e barbaricina.

    20 – Nicolino Zidda, l’insegnante ucciso a Orune

    21 – Mesto pellegrinaggio nella casa della vittima a Orune

    22 – Il procuratore della Repubblica Francesco Marcello (a sinistra) e alti ufficiali dei carabinieri nella zona del delitto

    11) Agosto 1981. L’attentato mortale a Santo Lanzafame

    Questo è il mese che segnerà in modo significativo tutta la comunità sarda e in particolare quella barbaricina.

    Fino all’agguato di Nicolino Zidda l’organizzazione armata di Barbagia Rossa si era limitata ad azioni intimidatorie con bombe, incendi o altri attacchi di natura prettamente dimostrativa.

    Già l’agguato mortale a Zidda aveva messo in luce un evoluzione dell’organizzazione terroristica.
    Anche se la morte dell’insegnante è stato un errore, si voleva colpire a morte il brigadiere Salvatore Zaru che si è salvato solo per la sua prontezza di riflessi.

    Il 31 luglio 1981 alle ore 22:40 un’alfetta blu dei carabinieri si dirige verso il Monte Ortobene per gli usuali giri di perlustrazione.
    Al suo interno si trovano il carabiniere sassarese Baingio Gaspa (alla guida) e l’appuntato Santo Lanzafame, 40 anni di Reggio Calabria, sposato con Giovanna Piras di Lodè e padre di cinque figli (la più grande di dieci anni).

    L’auto prende la strada per il monte e, a duecento metri dalla chiesetta della Solitudine (che si trova all’uscita del centro abitato, proprio ai piedi dell’Ortobene), si appresta ad affrontare la prima curva, quella di Borbore.
    Si tratta di una curva a gomito molto ampia che nella carreggiata opposta è costeggiata da un piccolo muretto a secco al di sotto del quale si trova il sentiero che porta a Valverde.

    Proprio da dietro il muretto in pietra compare all’improvviso una figura che senza esitazione scarica una micidiale scarica di mitra verso l’alfetta blu.
    Gaspa resta fortunatamente illeso mentre Lanzafame viene colpito alla testa.
    Il malvivente scompare nel nulla lasciando sul posto l’arma.

    Le condizioni di Lanzafame appaiono da subito tragiche.
    Subisce numerosi interventi all’ospedale San Francesco di Nuoro, i medici riescono a stabilizzarlo anche se le condizioni restano molto gravi.

    I carabinieri sostengono che l’arma sia stata abbandonata come segno per far capire che, anche dopo gli arresti che ha subito il terrorismo isolano, Barbagia Rossa non è stata battuta e anzi si riorganizza e alza il tiro.
    Si tratta infatti di un potentissimo mitra inglese “Sterling”, mai usato dalla malavita sarda, con una micidiale cadenza di colpi (fino a 550 proiettili in un minuto), un’arma molto maneggevole.

    Il mattino seguente, il 1 agosto ’81, Barbagia Rossa rivendica l’attentato terroristico con una telefonata anonima fatta alla redazione locale dell’Ansa.
    Viene riferito che solo per un caso fortuito i due carabinieri non sono stati uccisi.

    Il 4 agosto ’81 i terroristi di Barbagia Rossa si fanno vivi per iscritto recapitando un ciclostilato alla redazione nuorese de L’unione Sarda.
    Nel documento si ribadisce la paternità dell’attentato a Lanzafame e Gaspa.
    Viene inoltre riconfermato che l’omicidio dell’insegnante Nicolino Zidda è stato un errore, il vero obiettivo era il brigadiere Salvatore Zaru, che si trovava in sua compagnia.

    Intanto Lanzafame subisce interventi a Nuoro e Cagliari e si prospetta la guarigione, infatti l’appuntato aveva ripreso conoscenza e riconosciuto la moglie e altre persone a lui vicine.
    Ma il 5 agosto ’81 viene ritrasferito con urgenza a Cagliari per un altro delicatissimo intervento alla testa; il liquido, non riuscendo a drenare, esercita una pericolosa pressione sulla corteccia cerebrale.
    L’intervento eseguito dal professore Francesco Napoleone riesce perfettamente, ma le condizioni del carabiniere risultano comunque molto gravi.

    Alle ore 13:00 del 6 agosto 1981 Santo Lanzafame muore all’ospedale di Cagliari dopo un ultimo e disperato intervento.

    Il finale tragico dell’attentato fa sprofondare tutta la comunità barbaricina nell’ombra.
    In effetti è la prima volta che Barbagia Rossa, l’organizzazione eversiva più importante dell’isola, porta a termine una diretta azione di morte.

    Il 7 agosto si celebra il funerale.
    La chiesa di Santa Maria della Neve a Nuoro è gremita ma c’è un irreale silenzio rotto solo dalle urla di disperazione di Giovanna Piras all’arrivo della salma del marito.
    Andrea Pau, sindaco di Nuoro, proclama il lutto cittadino chiedendo a tutti gli esercizi pubblici di restare chiusi.

    La notizia della morte di Santo Lanzafame colpisce tutti; nonostante si conoscessero le sue gravi condizioni di salute, la tragica conferma ha gettato la città e tutta l’isola in un’atmosfera preoccupante di paura, rabbia, indignazione e sconforto.

    Intanto le indagini proseguono senza nessun risultato.
    Vengono arrestati preventivamente tre giovani di Orune (in realtà non è chiara quale accusa gli viene mossa), inoltre si segue una pista che, partendo dal mitra Sterling, si perde in Liguria.

    23 – Santo Lanzafame, il carabiniere ucciso a Nuoro

    01 – Nuoro, 31 luglio 1981. L’alfetta dei carabinieri su cui si trovava l’appuntato Santo Lanzafame al momento dell’agguato mortale

    24 – Agenti della polizia e carabinieri nel luogo dell’attentato di venerdì notte presso il curvone di Borbore

    25 – Un mitra Sterling uguale a quello che è stato usato a Nuoro per l’attentato

    26 – La bara del brigadiere assassinato lascia l’istituto di medicina a Cagliari per la celebrazione del funerale a Nuoro

    12) Febbraio 1982. Le confessioni di Savasta e la scomparsa di Barbagia Rossa

    Nel 1982 viene catturato Antonio Savasta che passa nelle file del “pentitismo”.
    Le sue rivelazioni investono anche la Sardegna dove partono immediatamente nuovi arresti e indagini.
    Nei primi dieci giorni di febbraio vengono arrestate e accusate di costituzione di banda armata otto persone: Pierino Medde (27 anni, Nuoro), Roberto Campus (28 anni, Nuoro), Gianni Canu (24 anni, Nuoro), Giovanni Meloni (26 anni, Siniscola), Antonio Contena (28 anni, Orune), Mario Meloni (28 anni, Mamoiada), Mario Calia (28 anni, Lodè), Giuliano Deroma (25 anni, Porto Torres).
    Tra loro possiamo ricordare Antonio Contena, presente durante il conflitto di Sa Janna Bassa nel dicembre ’79, e Pietro Medde, già indagato per Barbagia Rossa e in libertà provvisoria.

    La confessione-fiume di Antonio Savasta continua e apre nuove indiscrezioni sui movimenti terroristici in Sardegna.
    Ora è certo che nel dicembre del ’79 a “Sa Janna Bassa”, era in corso un vertice tra alcuni esponenti delle Brigate Rosse e di Barbagia Rossa per discutere sull’eventuale costituzione di una colonna sarda delle BR.
    Inoltre, sempre grazie alle indicazioni del pentito, viene trovato tra il Montalbo e Monte Pitzinnu (nel territorio di Lula) un fornitissimo deposito di armi da guerra di proprietà delle Brigate Rosse.
    L’arsenale comprende cinque razzi di fabbricazione americana per bazooka, un missile anticarro sovietico capace di sfondare agevolmente un muro di un metro, due missili terra-aria di fabbricazione francese che possono essere lanciati a chilometri di distanza con la certezza di colpire il bersaglio, trenta chili di esplosivo al plastico, otto bombe a mano di fabbricazione americana, sei mitra inglesi “Sterling” (lo stesso usato nell’attentato dove morì Santo Lanzafame), un centinaio di cartucce per mitra.
    L’arsenale era probabilmente sotto custodia di Barbagia Rossa e forse doveva servire per un attentato al supercarcere di Badu ‘e Carros a Nuoro.
    Gli investigatori, sempre indirizzati da Savasta, provano anche che i terroristi stavano progettando dei clamorosi sequestri di persona di leader politici isolani.

    Le confessioni di Antonio Savasta seguite dagli arresti e le indagini che queste provocarono, probabilmente diedero un duro colpa all’organizzazione di Barbagia Rossa.
    L’unica cosa certa è che dopo l’attentato mortale all’appuntato Lanzafame e dopo questi ultimi avvenimenti provocati dal pentito Savasta la sigla Barbagia Rossa non fece più la sua comparsa.

    #sardegne #Br #brigate_rosse #BR #BarbagiaRossa #terrorisme #otan

    • Peut-on confondre la lutte armée avec le terrorisme ? Pas si on considère que la particularité du terrorisme est de s’en prendre à des populations civiles de manières indiscriminée par des attentats aveugles (et destinés à aveugler), des #attentats_massacres dont la collusion active de secteurs de l’extrême-droite avec les service secrets italiens a montré l’exemple en Italie dès 1969 avec l’attentat de la Piazza Fontana à Milan (1er d’une série avec 17 morts et 85 blessés, faussement attribué par la police à des anarchistes pourtant quasi inexistants en termes organisationnels à ce moment là en Italie), puis de nombreuses fois ensuite (dont les 85 morts et les centaines de blessés de la gare de Bologne en 1980).
      Certes, du côté de cette gauche extra-parlementaires, il y eu des jambisations, puis des meurtres (...), mais c’est faire un amalgame que de légitimer de quelque façon que ce soit l’expression « années de plomb » pour désigner cette période en Italie en présentant les mouvements révolutionnaires comme des criminels barbares alors que la violence politique à prétention révolutionnaire a infiniment moins tuée que celle d’un État qui faisait encore régulièrement tirer à balles sur les grévistes durant les années soixante, a sciemment mis en oeuvre la #stratégie_de_la_tension au moyen d’attentats-massacres et n’avait pas hésité à occuper militairement Bologne au moyen de blindés équipés de mitrailleuses en 1977.

      #lutte_armée_pour_le_communisme et plus on va vers le sud : #prolétariat_extra_légal

    • À la Cantine des pyrénées, c’est pas sûr qu’il y ait besoin de monde pour aider en ce moment, la disponibilité est grande et les précautions sanitaires adoptées contraignantes. À moins peut-être de s’occuper des nombreuses récup de bouffe (commerce divers, amaps, Rungis) qui alimentant la confection de repas, à la Cantine des pyrénées et ailleurs). À voir avec eux. En tout cas ça vaut le coup de passer, c’est une expérience politique superbe. Ils ont, par exemple, organisé dès le début de l’épidémie la distribution de milliers de masques aux soignants de Tenon qui ’en avaient pas.

      En revanche, pour qui aurait trois sous disponibles, il y a un appel à soutien financier
      https://seenthis.net/messages/837667

      Pour mémoire, avant d’être expulsée, la #cantine fut d’abord dans un immeuble occupé
      https://seenthis.net/messages/294140

      Un #livre : La Cantine des Pyrénées en lutte
      http://editionsrepas.free.fr/editions-repas-livre-la-cantine-des-pyrenees-en-lutte.html

      #Cantine_des_Pyrénées #auto-organisation #luttes #solidarité #militance #Brigades_de_solidarité_populaire

    • Premier bilan de la Cantine des Pyrénées pendant le confinement

      Bonjour à toutes et à tous,

      Il y a trois semaines nous avons lancé un appel à dons, voici un premier retour sur l’action de la Cantine depuis le confinement, ou encore : voilà où passe votre argent.

      La fermeture de l’atelier Cantine le 14 mars, en même temps que les autres lieux de restauration, a été une décision lourde à prendre. Nous avons pris du recul pour réfléchir à une réouverture avec une organisation différente exposant le moins possible les personnes qui font vivre le lieu.

      Face à une situation exceptionnelle : nous avons donc opté pour un format de distribution gratuite et inconditionnelle de produits alimentaires et d’hygiène de première nécessité, 7 jours sur 7, en fonctionnant avec des équipes réduites.
      La question du financement est centrale en ce moment. Nous n’avons plus aucune des rentrées d’argent habituelles. Nous avons demandé une suspension de loyer à notre bailleur afin de dégager de la trésorerie pour les achats les plus urgents.

      Nous avons décidé d’appeler à la solidarité du plus grand nombre.

      Nous avons choisi de privilégier les dons monétaires plutôt que matériels afin de centraliser les achats, et de ne pas provoquer plus de déplacement que nécessaire, dans l’idée de ne pas mettre en danger celles et ceux désirant nous aider.
      La réponse à cet appel est d’une ampleur qui nous surprend encore et nous donne encore plus de forces chaque jour pour continuer notre action. Preuve que la solidarité est vivante et en bonne santé malgré tout.

      Au moment où nous écrivons ces quelques lignes, nous avons reçu 22 000 euros de dons, que cela soit directement sur notre compte en banque, via la plateforme Helloasso (lien en bas du mail) ou la plateforme Kisskissbankbank. Cette solidarité, incroyable pour nous, est à la hauteur des besoins que nous rencontrons chaque jour. Nous avons pour l’heure, sur les 4 semaines d’ouverture, dépensé 10000 euros en denrées alimentaires, contenants à distribuer aux personnes qui en ont besoin, produits d’hygiène, essence pour le camion, Ces dépenses continuent d’augmenter …. Nous pouvons compter sur l’aide précieuse, entre autres, des cuisiniers et des bénévoles de la protection civile qui fournit chaque jour de 80 à 120 sacs repas que nous pouvons distribuer à la soixantaine de personnes (des sans-domiciles, des sans-papiers, des personnes âgées, des personnes avec des pépins de santé, des familles, des gens qui bossaient sans être déclaré) qui se présente chaque jour à la Cantine. Ce nombre est malheureusement en constante augmentation.
      Nous nous préparons à ce que cette crise ne s’arrête pas au déconfinement et plus que jamais nous avons besoin de votre soutien pour continuer ce que nous avons entrepris ici : répondre collectivement à l’urgence que vivent de plus en plus de personnes.

      Merci à vous toutes et tous qui avez participé, à toutes celles et ceux qui nous soutiennent sans pouvoir participer financièrement mais nous soutiennent par leurs encouragements, par leurs prêt de voiture, les lavages de torchons, les bouches à oreilles, et ci-dessous un merci particulier aux restaurateur·ices, associations, …….

      Nous attendons avec une immense impatience de réouvrir dans des conditions plus habituelles afin de partager un bon repas avec vous. Prenez soin de vous !

      Merci à toutes les personnes qui se sont proposées pour assurer les distributions et la logistique. Merci à l’Atelier Fratelli, au salarié·e·s et bénévoles de la Protection Civile, aux AMAP des Hauts de Belleville et Gambetta , à l’Association Autremonde pour le camion et l’accès au local, à Vaisselle Vintages-Options pour le prêt de camion, La Mutinerie, Le Faitout et Rond pour la proposition de prêt de chambre froide, au personnel soignant de l’Hôpital Trousseau AP-HP, à l’Agence du Don en Nature, aux Brigades de Solidarité Populaire de Place des Fêtes et celle du 20ème, à l’équipe du Carrefour City de la rue des Pyrénées, le bistrot Quartier Rouge, le Le Dorothy, BMG Cycles sport, les Marmoulins, la ferme les jardins de l’oppidum à Grizy, La Tete dans les Masques, toutes celles qui nous ont apporté des masques maison. A toutes et tous les donateur·ices des différentes cagnottes, et une pensée et des mercis par milliers pour Le Zorba.

      Si vous souhaitez soutenir financièrement nos activités pendant le confinement :
      - https://www.helloasso.com…/les-pieds-…/formulaires/4/widget
      - notre IBAN (le plus rapide pour nous)
      titulaire du compte : les pieds sur la table
      IBAN FR76 1027 8060 4900 0206 6220 111
      BIC : CMCIFR2A