• L’agriculture à la loupe
    https://tagrawlaineqqiqi.wordpress.com/2023/11/30/lagriculture-a-la-loupe

    Il y a mille choses qui m’inquiètent concernant l’avenir de notre #Agriculture, et pouvoir observer la manière dont sont structurées les exploitations ajoute des sujets d’inquiétudes supplémentaires. J’vous explique. Il existe plusieurs statuts possibles pour une exploitation agricole : l’exploitation micro-agricole (ça c’est que des bio débarqués de la ville), équivalent de la micro-entreprise, l’exploitation […]

    #Article #chroniques_agricoles #Ruralité #élevage #campagne
    https://0.gravatar.com/avatar/cd5bf583a4f6b14e8793f123f6473b33bb560651f18847079e51b3bcad719755?s=96&d=

  • La “geografia” della speculazione che fa il prezzo dei beni agricoli

    La guerra tra Ucraina e Russia non incide sul prezzo dei cereali, che dipende piuttosto dalla strategia dei grandi fondi che possiedono le aziende produttrici, controllano le Borse merci di tutto e scommettono sui rialzi

    Il prezzo dei cereali e in generale dei beni agricoli non dipende certo dal blocco del Mar Nero, come molto spesso si racconta, e neppure da altre circostanze troppo specifiche. La produzione mondiale di cereali, secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), si avvicina ai tremila milioni di tonnellate, di cui i cereali ucraini rappresentano poco più del 2%. Un’inezia rispetto al totale. Inoltre il grano ucraino si dirige in gran parte verso i Paesi limitrofi che hanno a più riprese minacciato e adottato misure protezionistiche, per evitare la concorrenza nei confronti dei propri grani. Alla luce di ciò i cereali del Mar Nero non sono certo in grado di determinare la fame in Africa né l’aumento dei prezzi.

    Considerazioni analoghe sono possibili per la produzione di patate e legumi che è, in media, vicina ai 500 milioni di tonnellate annue; considerata una popolazione mondiale di quasi otto miliardi, ciò significherebbe una disponibilità di 150 grammi per persona al giorno. Aggiungendo ai cereali, alle patate e ai legumi la produzione di tutto ciò che serve per realizzare pasti completi, tra cui sale, zucchero e semi oleaginosi, si arriva a una dotazione alimentare pro-capite di 1,5 chilogrammi al giorno. Appare chiaro allora che i prezzi non salgono perché esiste una condizione di carenza di offerta alimentare globale.

    Le difficoltà di approvvigionamento di vaste parti della popolazione del Pianeta dipendono invece da altro: dalla distribuzione profondamente diseguale delle produzioni complessive, dalla natura delle diete adottate, rispetto alle quali la carne sottrae un’enorme quantità di risorse, dalle dinamiche del commercio internazionale e soprattutto dalle modalità di determinazione dei prezzi.

    A tale riguardo occorre porsi una domanda ineludibile: da che cosa dipendono le periodiche impennate di prezzo dei generi agricoli che causano poi drammatiche crisi alimentari? Per rispondere a un simile quesito, bisogna in sintesi descrivere proprio come si formano tali prezzi. La loro determinazione avviene nelle grandi Borse merci del Pianeta, in particolare in quelle di Chicago, Parigi e Mumbai. Un primo elemento da tenere ben presente è a chi appartengono queste Borse; non si tratta infatti -a partire dal Chicago mercantile exchange (Cme)- di istituzioni “pubbliche”, ma di realtà private i cui principali azionisti sono i più grandi fondi finanziari globali. Nel caso di Chicago, i pacchetti più rilevanti sono in mano a Vanguard, BlackRock, JP Morgan, State Street Corporation e Capital International Investors.

    A questo dato se ne aggiunge un altro fondamentale. Soprattutto nelle Borse di Chicago e di Parigi la stragrande maggioranza degli operatori non è costituita da soggetti che producono e comprano realmente il grano, ma da grandi fondi finanziari e da quelli specializzati nel settore agricolo che, senza aver alcun contratto di compravendita dei beni, scommettono sull’andamento dei prezzi. In altre parole: per ogni contratto reale nelle Borse merci, i fondi finanziari operano centinaia di migliaia di scommesse che sono in grado di determinare poi i prezzi reali. Se le aspettative sono orientate all’aumento dei prezzi, scommettono al rialzo e trascinano così i prezzi a livelli insostenibili per intere popolazioni.

    All’origine dell’inflazione alimentare e della fame, si pongono quindi gli strumenti finanziari che sono prodotti dai fondi. Se prendiamo in esame chi sono questi “scommettitori”, troviamo di nuovo gli stessi soggetti (a partire da Vanguard e BlackRock) che sono, come appena ricordato, i “proprietari” delle Borse stesse. In estrema sintesi: pochissimi fondi sono azionisti del luogo dello scambio e sono i principali player di prezzo, pur non avendo nulla a che fare con la produzione e il commercio reali dei beni agricoli scambiati. Tuttavia, la finanziarizzazione di tali, vitali, processi di determinazione dei prezzi di beni essenziali per la sopravvivenza di intere comunità presenta un ulteriore elemento sconcertante.

    Come detto, nelle Borse, a fronte di tanti fondi finanziari, ci sono pochi produttori. Ma chi sono questi ultimi? Nel caso dei cereali si tratta di quattro grandi società: Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus. Le prime due in particolare sono possedute dai grandi fondi, Vanguard, BlackRock e State Street, che sono, appunto, i medesimi operatori finanziari nelle Borse merci di Parigi e Chicago. L’intera dinamica della formazione dei prezzi agricoli, su cui incidono molto poco le retribuzioni del lavoro contadino, strutturalmente molto basse, risulta pertanto nelle mani di colossi finanziari che controllano Borse, scommesse e produzione: un gigantesco monopolio mondiale rispetto al quale ogni altra variabile, persino quella dell’offerta complessiva di beni agricoli, appare decisamente secondaria.

    È superfluo dire che con l’inflazione “impazzita” le sole società di produzione dei beni agricoli hanno distribuito oltre 30 miliardi di dollari di dividendi in meno di due anni, destinati in larga parte ai fondi finanziari che le possiedono e che hanno sommato quei miliardi ai profitti giganteschi maturati dalla finanza delle scommesse. La narrazione costruita sulle chiusure del Mar Nero c’entra davvero poco mentre sarebbe utile ricordare quanto sostenuto a più riprese dalla Fao, secondo cui per ogni punto percentuale di aumento dei prezzi dei beni agricoli si generano dieci milioni di nuovi affamati.

    https://altreconomia.it/la-geografia-della-speculazione-che-fa-il-prezzo-dei-beni-agricoli
    #spéculation #alimentation #biens_agricoles #prix #céréales #Ukraine #blé #alimentation #pénurie #viande #commerce_international #bourses #Chicago_mercantile_exchange (#Cme) #fonds_financiers #inflation #famine #faim #Vanguard #BlackRock #financiarisation #Archer-Daniels_Midland #Bunge #Cargill #Dreyfus #prix_agricoles #dividendes #Mer_Noire

  • [Les ondes d’à côté] Le #pain qu’on Sème - Céréalités
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-ondes-d-a-cote/le-pain-quon-seme-cerealites

    Dans Le Pain qu’on Sème, Lou Chaussebourg et Noémie Maughan partent à la rencontre des acteurs et des actrices des filières belges du grain au pain. Elles mobilisent leurs propres recherches, celles écrites par d’autres, mais surtout les savoirs de celleux qui réinventent chaque jour les métiers de la boulangerie, de la meunerie, de la culture de semences et de #céréales pour ouvrir de nouveaux imaginaires nourriciers.

    Nous vous proposons d’écouter le premier épisode de cette série, épisode intitulé Céréalités.

    D’autres épisodes seront diffusés dans les prochaines semaines.

    Le Pain qu’on Sème est un #podcast inscrit dans une recherche financée par le FNRS.

    Supervision académique de la recherche : Kevin Maréchal (Labo. d’Eco. et Dvpt Rural, ULiège) Marjolein Visser (Labo. d’Agroécologie, ULB (...)

    #agriculture #recherche_action_participative #agriculture,podcast,pain,recherche_action_participative,céréales
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-ondes-d-a-cote/le-pain-quon-seme-cerealites_16642__1.mp3

  • Une critique très intéressante du livre Terre et Liberté d’Aurélien Berlan est parue l’année dernière dans la revue L’inventaire. Cette critique se situe dans la même perspective que celle de Berlan, qui a ses limites, qui à mon avis apparaissent mieux avec cette critique de Nicolas Gey. A lire absolument !

    Nicolas Gey, « Subsister », L’Inventaire , automne 2022

    https://lesamisdebartleby.wordpress.com/2023/05/24/nicolas-gey-subsister

    #agriculture #subsistance

    • Bah c’était déprimant @deun 😭

      s’il est légitime de décrier le calcul des aides que la politique agricole commune indexe à la surface de production, il faut s’exprimer (ce qu’on fait moins) sur la dimension énergétique de ces aides, dont le calcul dépend aussi de la valeur calorique des aliments produits. De sorte que le maraîchage et l’arboriculture sont nettement moins subventionnés que la production d’oléo-protéagineux (comme les appellent les agronomes). Un kilo de tomate, du fait de la main-d’œuvre nécessaire pour sa culture et sa récolte, dépasse souvent le prix de 1 kg de blé, mais sa valeur politique est à peu près nulle : on n’a jamais fait de révolution pour cause de pénurie de tomates.

      […]

      Jusqu’à preuve du contraire, et dans les conditions qui sont les nôtres (et qui n’ont guère de raison de devenir plus favorables), on peut donc affirmer qu’il n’existe, en Occident, aucun modèle agricole économiquement viable susceptible de récolter davantage d’énergie qu’il n’en consomme pour la produire

      […]

      Pour nous subsistantialistes, il ne suffit pas de suggérer qu’on pourrait toujours, le moment venu, se déplacer et labourer avec un animal de trait (21), battre les céréales au fléau, trier le grain avec un tarare, remettre en service des moulins à vent ou à eau, entretenir nous-mêmes les sentiers, les conduites d’eau, les routes pavées et les entrepôts, que sais-je ? N’oublions pas de poser ces questions, en apparence naïves : Qui fait quoi, et surtout quand ? En d’autres termes, qui s’y lance maintenant, avant les autres, au risque de l’épuisement moral et physique ? Qui accepte de commercer avec l’ensemble d’une population directement et indirectement mécanisée et subventionnée ? Qui accepte, en somme, de troquer l’or contre la pacotille ?

      […]

      Jusqu’à preuve du contraire, toutes les expérimentations «  permacoles  » (27) et «  agroécologiques  » non mécanisées des régions tempérées ont échoué à produire non seulement des légumes sur des terres généreusement amendées et paillées (souvent avec fumier et paille du commerce), mais suffisamment de calories pour nourrir, au minimum, les agriculteurs eux-mêmes.

      Dans certains cas, comme au mas de Beaulieu de feu Pierre Rabhi, l’expérimentation, sur un hectare, est loin d’égaler la modeste production maraîchère d’un jardin ouvrier (28). Ailleurs, à la Ferme du Bec-Hellouin (29), Perrine et Charles Hervé-Gruyer renouvellent quant à eux les trouvailles de Bouvard et Pécuchet (30) en terre normande. Là-bas, les cultures nourricières cèdent systématiquement le pas aux productions à forte valeur ajoutée, jusqu’à délaisser la pomme de terre ! Les amendements proviennent de haras voisins ; les résultats publiés sont avant tout financiers, proviennent pour bonne part de formations, et lorsque les volumes de production de certains fruits ou légumes sont annoncés, il n’est jamais question de calories. Or la Ferme Potemkine du Bec-Hellouin est censée apporter sa contribution (sinon la solution) au problème de l’autonomie alimentaire (individuelle, communale, régionale, nationale, etc.). En dépit de l’évidence, une succession de rapports de l’Inra-AgroParisTech conclut toutefois au succès de l’entreprise agroécologique (31).

      […]

      Ce que nombre de «  permaculteurs  » (plus ou moins survivalistes) et «  d’agroécologistes  » ne perçoivent pas lorsqu’ils tentent l’expérience de «  l’autonomie  » (mais ils finissent invariablement par délaisser l’agriculture au profit d’activités plus lucratives, comme la formation, l’accueil de touristes, les «  soins alternatifs  », etc.), c’est le caractère systémique d’une organisation paysanne. Les dimensions d’héritage culturel, de normes, de devoirs, d’effort et de temps sont généralement refoulées ou fantasmées plutôt qu’appréhendées dans leur complexité et leurs limites. S’il est évidemment impossible de répondre à tous ses besoins (de la mine à la forge, de la carrière au four à chaux, des champs de lin aux métiers à tisser, etc.), il l’est presque autant, sous nos latitudes surpeuplées (37), de répondre à ses besoins les plus vitaux, sans se soumettre aux lois de la physique bien sûr, mais aussi à l’autorité d’un groupe, sinon à l’un.e de ses représentant.e.s.

      #déprime #céréales ! #calories #alimentation #nutrition #mode_de_vie #paysannerie etc etc

    • Bah c’était déprimant @deun 😭

      Ah ça ! J’ai lu l’article il y une quinzaine de jours et j’avoue que ça m’a bien sonné ...

      Pourtant, il y a des positions chez Nicolas Gey qui me paraissent assez biaisées, genre :

      Si la dénonciation des effets dévastateurs de la mécanisation, de l’aliénation des agriculteurs, de l’irrigation par pompage, des engrais de synthèse et des pesticides est parfaitement légitime, il est en revanche assez malhonnête d’en déduire que cette agriculture industrielle n’aurait obtenu que des «  résultats minimes  ». Entre la fin de la Seconde Guerre mondiale et les années 1990, les rendements céréaliers moyens ont bel et bien été multipliés par 4 en France et par 3 en moyenne dans le monde. Puisque la surface cultivée totale est restée à peu près constante (la surface de champs urbanisés étant pour l’instant «  compensée  » par la conversion des pâturages et le défrichement accéléré des ultimes forêts primaires), la production a donc été multipliée par trois et la population mondiale, dont la frange la plus riche s’est mise à consommer de plus en plus de viande (9), par 2,5 (passant de 2,4 à 6 milliards d’individus).

      La question (subsidiaire) aurait pu être : mais pour combien de temps ?

      Et d’ailleurs arrive cette forme d’aveu concernant les limites de cette croissance productive :

      Depuis les années 1990, effectivement, les rendements du blé plafonnent et paraissent même, depuis 2016, amorcer leur déclin.

      Avec, en filigrane, ce sentiment qui est mien, à savoir que le dérèglement climatique et son cortège de nuisances pourrait bien y être pour quelques chose.

      Après, il y aurait un fastidieux travail de vérification des données techniques (entre autre le raisonnement qui s’appuie sur un bilan calories entre le travail à fournir et récolte obtenue) et économique (valeur de la chose produite rapportée à la quantité de travail nécessaire pour la produire)

      Or ce sont précisément les productions agricoles les plus riches en calories et en travail, fût-il mécanique, que les expériences subsistantialistes tendent à ajourner (14). Et pour cause : acheter des céréales, des légumineuses, des sucres, des huiles issues de la production mécanisée et subventionnée revient à acheter chaque jour, pour moins de 2 euros le kilo, une quantité de travail que nous refuserions de fournir à ce prix. Pour fixer les idées : l’équivalent d’une journée de travail de cinq à sept heures (15). Payé au smic de 2021, le coût du travail nécessaire pour produire 1 kg de blé sans tracteur, moissonneuse-batteuse ni subvention serait donc compris entre 50 et 70 euros. Dans ces conditions, qui d’entre nous, s’il ne possédait une rente d’au moins 1500 euros par mois (ce qui le rangerait indiscutablement du côté des puissants), pourrait encore acheter quotidiennement son kilo de farine équitablement subsistantialiste (ou son équivalent énergétique d’environ 2 500 kcal) ?

      Et l’auteur lui-même nous invite à remettre cette évaluation sur le métier dans la note 15 :

      Cette estimation m’est propre, et mérite sans doute discussion. Je suis parti du principe qu’il fallait en moyenne 5 à 10 m2 de terre pour fournir 1 kg de blé tendre dans des conditions «  subsistantialistes  », sans tracteur ni engrais de synthèse. Le calcul consiste simplement à additionner le temps passé à labourer (ou bêcher) cette surface de terre, avant de la semer et d’enterrer le semis (afin qu’il ne soit pas détruit par des étourneaux, des corneilles ou des pies), puis de la désherber (des gaillet, vulpin, folle avoine, rumex, chénopode, renouée, amarante et chardon, entre autres) et de l’amender, avant de la moissonner, d’en transporter les gerbes jusqu’à l’aire de battage, de battre les gerbes, d’en vanner le grain, de le moudre puis de bluter la mouture. Sans compter le travail de cuisine et de boulangerie, ni le temps passé à récolter du bois pour la cuisson.

      La modélisation des rendements énergétiques lié aux activités agricoles, ça a déjà dû être fait. Après, vérifier si tous les paramètres ont été inclus, c’est plus compliqué. En outre, l’anticipation des circonstances (dérèglements climatiques, bouleversements socio- et géopolitiques) qui pourraient influer sur la validité de ces paramètres voire en introduire de nouveaux, ça rajoute du « niveau ». Pas d’autre choix pour l’instant que de confier toutes ces tâches d’expertises à un groupe d’étude comme celui qui travaille sur l’évolution du climat.

    • Est-ce qu’il faut nécessairement envisager les choses comme le fait Nicolas Gey (et Aurélien Berlan peut-être je ne sais pas bien) ? C’est-à-dire penser que la seule alternative à la société industrielle ce sont des sociétés paysannes où tout est fait localement, donc forcément à la main puisque qu’il n’y a pas d’autres types d’énergie disponible sur place ?

      Le texte a tout de même le mérite de pointer le prisme habituel autour du maraîchage et des légumes, en laissant de côté ce que l’on appelle les « grandes cultures », c’est-à-dire comme il l’indique les aliments qui nourrissent vraiment d’un point de vue calorique.
      Encore que, à mon sens, les légumes sont indispensables pour la santé, non pas à cause de leur contenu calorique, mais en terme de vitamines par exemple.

      Plutôt que produire à la main du blé dans une contrée où c’est fait avec d’énormes machines énergivores, on peut aussi s’intéresser aux régions où l’agriculture est déjà sans machines, mais où de petites machines sont introduites à l’intérieur d’une organisation où le travail manuel est la norme.

      Par exemple pour en Afrique, des batteuses sont utilisées pour décortiquer les haricots. Elles peuvent être apportées dans les ferme derrière une moto (par exemple le modèle Imara tech Multi-crop). Ca coûte 700$.

      Actuellement, les femmes et les jeunes supportent la majeure partie de la charge du battage, et l’utilisation du battage mécanisé libère leur temps pour d’autres tâches plus gratifiantes. Un exemple de cela est fourni par l’utilisation de la batteuse multicultures Imara tech, qui prétend traiter les haricots 75 fois plus rapidement qu’à la main.

      https://taat-africa.org/wp-content/uploads/2022/02/Catalogue_Haricot_commun_FR.pdf

      En France toujours pour des haricots on parlera plutôt pour battre les haricots d’une machine à 130000€

      https://www.youtube.com/watch?v=UBc-2m2t5zw

      La deuxième chose c’est de considérer le problème de la mécanisation dans sa dynamique et dans son contexte marchand.
      C’est ce qui manque à la perspective de Bey - à la critique anti-industrielle en général ? Elle finit par rejoindre la perspective survivaliste, comme Bey le reconnaît :

      Autrement dit, qui peut prétendre subvenir à ses besoins, vivre substantiellement de sa production ? S’il existe quelques personnes ou communautés d’Europe de l’Ouest qui y parviennent, je serais ravi, sinon de les rencontrer, du moins d’entendre de quelle manière elles s’y prennent. De ce point de vue, il n’est pas nécessaire de partager les orientations politiques du courant survivaliste pour souscrire au tragique de ses analyses.

      ... comme si le but c’était de vivre de sa propre production. Bien-sûr ce but est évident pour le survivaliste puisqu’il se prépare à une rupture d’approvisionnement généralisé. Mais pour les révolutionnaires ?

    • ... Il y a quand même des erreurs dans le texte de Nicolas Gey. Il parle de la nécessité de produire annuellement 10 tonnes de céréales et 1 tonne d’oléagineux s’il ont est 10... il a confondu tonne et quintal.
      C’est donc, pour 10 personnes, 10 quintaux de céréales, soit 1 tonne, et 1 quintal d’oléagineux, soit 100 kg.

  • Moins on mange, plus ils encaissent : l’inflation gave les bourgeois
    https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

    C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les dividendes sont plus hauts que le ciel, et les milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde […]

    • Moins on mange, plus ils encaissent : l’#inflation gave les bourgeois

      C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les #dividendes sont plus hauts que le ciel, et les #milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde pas de plus près, on pourrait considérer comme paradoxale une situation qui est parfaitement logique. Pour accumuler les milliards, il faut accumuler les dividendes. Pour accumuler les dividendes, il faut accumuler les profits. Pour accumuler les profits, il faut appauvrir la population en augmentant les #prix et en baissant les #salaires réels. Ça vous parait simpliste ? Alors, regardons de plus près les chiffres.

      Selon l’INSEE, au premier trimestre de cette année, l’#excédent_brut_d’exploitation (#EBE) des entreprises de l’#industrie_agro-alimentaire (c’est-à-dire le niveau de profit que leur activité génère) a progressé de 18%, pour ainsi s’établir à 7 milliards d’euros. Les industriels se font donc de plus en plus d’argent sur le dos de leurs salariés et, plus globalement, sur celui des Français qui galèrent pour se nourrir correctement : les ventes en volume dans la #grande_distribution alimentaire ont baissé de 9% au premier trimestre 2023 par rapport à la même période l’année précédente. La #consommation en France est ainsi tombée en-dessous du niveau de 2019, alors que la population a grossi depuis de 0,3%. Selon François Geerolf, économiste à l’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques), cette baisse de la #consommation_alimentaire n’a aucun précédent dans les données compilées par l’Insee depuis 1980. Dans le détail, sur un an, on constate des baisses de volumes vendus de -6% l’épicerie, -3% sur la crèmerie, -1,6% pour les liquides, etc. Cela a des conséquences concrètes et inquiétantes : en avril dernier, l’IFOP montrait que presque la moitié des personnes gagnants autour du SMIC se privait d’un repas par jour en raison de l’inflation.

      Une baisse de la consommation pilotée par les industriels

      Comment les entreprises peuvent-elles se faire autant d’argent, alors que nous achetons de moins en moins leurs produits ? Tout simplement, car cette baisse de la consommation est pilotée par les industriels. Ils choisissent d’augmenter massivement leurs prix, en sachant que la majorité des gens accepteront malgré eux cette hausse, car ils considéreront qu’elle est mécaniquement liée à l’inflation ou tout simplement, car ces industriels sont en situation de quasi-monopole et imposent donc les prix qu’ils veulent (ce qu’on appelle le #pricing_power dans le jargon financier). Ils savent très bien que beaucoup de personnes n’auront par contre plus les moyens d’acheter ce qui leur est nécessaire, et donc que les volumes globaux qu’ils vont vendre seront plus bas, mais cette baisse de volume sera très largement compensée par la hausse des prix.

      Sur le premier trimestre 2023, en Europe, #Unilever et #Nestlé ont ainsi augmenté leurs prix de 10,7%, #Bonduelle de 12,7% et #Danone de 10,3 %, alors que l’inflation tout secteur confondu passait sous la barre des 7%. La quasi-totalité d’entre eux voient leurs volumes vendus chuter dans la même période. Les plus pauvres, pour lesquels la part de l’alimentaire dans la consommation est mécaniquement la plus élevée, ne peuvent plus se nourrir comme ils le souhaiteraient : la #viande et les #céréales sont particulièrement touchés par la baisse des volumes vendus. Certains foyers sautent même une partie des repas. Les #vols se multiplient, portés par le désespoir et les grandes enseignes poussent le cynisme jusqu’à placer des #antivols sur la viande et le poisson.

      Les hausse des profits expliquent 70% de la hausse des prix de l’alimentaire

      Comme nous avons déjà eu l’occasion de l’écrire, les hausses de profit des #multinationales sont déterminantes dans l’inflation que nous traversons. Même le FMI le dit : selon une étude publiée le mois dernier, au niveau mondial depuis 2022, la hausse des profits est responsable de 45 % de l’inflation. Le reste de l’inflation vient principalement des coûts de l’#énergie et des #matières_premières. Plus spécifiquement sur les produits alimentaires en France, d’après les calculs de l’institut La Boétie, « la hausse des prix de #production_alimentaire par rapport à fin 2022 s’explique à plus de 70 % par celle des profits bruts ». Et cela ne va faire qu’empirer : en ce début d’année, les prix des matières premières chutent fortement, mais les prix pratiqués par les multinationales poursuivent leur progression, l’appétit des actionnaires étant sans limites. L’autorité de la concurrence s’en inquiète : « Nous avons un certain nombre d’indices très clairs et même plus que des indices, des faits, qui montrent que la persistance de l’inflation est en partie due aux profits excessifs des entreprises qui profitent de la situation actuelle pour maintenir des prix élevés. Et ça, même la Banque centrale européenne le dit. », affirme Benoît Cœuré, président de l’Autorité de la concurrence, au Parisien.

      La stratégie des multinationales est bien rodée : augmenter massivement les prix, mais aussi bloquer les salaires, ainsi non seulement leur #chiffre_d’affaires progresse fortement, mais ils génèrent de plus en plus de profits grâce à la compression de la #masse_salariale. Les calculs sur longue période de l’Institut La Boétie donnent le vertige : « entre 2010 et 2023, le salaire brut horaire réel (c’est-à-dire corrigé de l’inflation) a baissé de 3,7 %, tandis que les profits bruts réels, eux, ont augmenté de 45,6 % ». Augmenter massivement les prix tout en maintenant les salaires au ras du sol permet d’augmenter le vol légal que les #actionnaires commettent sur les salariés : ce qu’ils produisent est vendu de plus en plus cher, et les patrons ne les payent par contre pas davantage.

      La Belgique a le plus bas taux d’inflation alors que les salaires y sont indexés

      L’une des solutions à cela est bien connue, et était en vigueur en France jusqu’en 1983 : indexer les salaires sur les prix. Aujourd’hui seul le SMIC est indexé sur l’inflation et la diffusion des hausses du SMIC sur les salaires plus élevés est quasi inexistante. Les bourgeois s’opposent à cette mesure en affirmant que cela risque de favoriser encore davantage l’inflation. Les statistiques prouvent pourtant le contraire : la Belgique est le pays affichant le plus bas taux d’inflation en avril 2023 (moins de 5% tandis qu’elle atteint 6,6% en France) alors que là-bas les salaires s’alignent automatiquement sur les prix. Il est urgent de mettre en œuvre ce genre de solutions en France. En effet, la situation devient de plus en plus intenable : la chute des #conditions_de_vies de la majorité de la population s’accélère, tandis que les bourgeois accumulent de plus en plus de richesses.

      Cela dépasse l’entendement : selon le magazine Challenges, le patrimoine professionnel des 500 plus grandes fortunes de France a progressé de 17 % en un an pour s’établir à 1 170 milliards d’euros cette année ! En 2009, c’était 194 milliards d’euros… Les 500 plus riches détiennent donc en #patrimoine_professionnel l’équivalent de presque la moitié de la #richesse créée en France par an, mesurée par le PIB. Et on ne parle ici que de la valeur des actions qu’ils détiennent, il faudrait ajouter à cela leurs placements financiers hors du marché d’actions, leurs placements immobiliers, leurs voitures, leurs œuvres d’art, etc.

      La #France au top dans le classement des gros bourges

      La fortune de #Bernard_Arnault, l’homme le plus riche du monde, est désormais équivalente à celle cumulée de près de 20 millions de Français et Françaises d’après l’ONG Oxfam. Sa fortune a augmenté de 40 milliards d’euros sur un an pour s’établir à 203 milliards d’euros. Ce type a passé sa vie à exploiter des gens, ça paye bien (à peine sorti de polytechnique, Bernard Jean Étienne avait pris la direction de l’entreprise de son papa). Au classement des plus grands bourges du monde, la France est donc toujours au top, puisque non seulement on a l’homme le plus riche, mais aussi la femme, en la personne de #Françoise_Bettencourt_Meyers (patronne de L’Oréal, 77 milliards d’euros de patrimoine professionnel). Mais il n’y a pas que le luxe de représenté dans ce classement, la grande distribution est en bonne place avec ce cher #Gérard_Mulliez (propriotaire des #Auchans notamment) qui détient 20 milliards d’euros de patrimoine ou #Emmanuel_Besnier, propriétaire de #Lactalis, le 1er groupe mondial de produits laitiers, qui émarge à 13,5 milliards.

      Les chiffres sont vertigineux, mais il ne faut pas se limiter à une posture morale se choquant de ces #inégalités sociales et appelant, au mieux, à davantage les taxer. Ces fortunes ont été bâties, et progressent de plus en plus rapidement, grâce à l’exploitation du travail. L’augmentation de valeur de leurs entreprises est due au travail des salariés, seul créateur de valeur. Tout ce qu’ils détiennent est ainsi volé légalement aux salariés. Ils doivent donc être pris pour cible des mobilisations sociales futures, non pas principalement parce qu’ils sont #riches, mais parce qu’ils sont les plus gros voleurs du monde : ils s’emparent de tout ce qui nous appartient, notre travail, notre vie, notre monde. Il est temps de récupérer ce qui nous est dû.

      https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

      #profit #économie #alimentation #chiffres #statistiques

  • La France, interdite d’exportations de céréales à partir du 25 avril  Keren Lentschner

    . . . . À partir du 25 avril, la France ne pourra plus exporter sa production céréalière en dehors d’Europe. À cette date, l’utilisation de phosphine, un insecticide, sera, en effet, interdite en France pour traiter les cargaisons de céréales dans les cales des bateaux. Or la fumigation de ce produit, utilisé en tablettes, est obligatoire dans de nombreux pays clients de l’Hexagone, à commencer par l’Afrique du nord, pour pouvoir débarquer la marchandise.

    Elle permet d’empêcher la propagation d’insectes d’un pays à l’autre. Sans cela, pas de certificat de traitement à l’arrivée au port. Et les grains risquent de repartir vers l’expéditeur... À la clef, 11,5 millions de tonnes de céréales sont concernées, selon L’Opinion qui a enquêté sur les coulisses de l’affaire. Les céréaliers sont vent debout. « Ces pays-là vont être en manque crucial d’alimentation », a réagi dimanche sur Sud Radio Éric Thirouin, président des producteurs de blé et céréaliers français, qui redoute le risque d’émeutes. « Dans le meilleur des cas, si je puis dire, c’est la Russie qui est le premier exportateur mondial qui les fournira ».

    La décision remonte à fin octobre 2022. Elle a été prise par l’Agence nationale de sécurité sanitaire alimentaire française (anses) qui a renouvelé l’autorisation de mise sur le marché du produit sauf au « contact direct avec les céréales ». En cas d’inhalation d’une dose importante, ce gaz à base de phosphure d’aluminium peut provoquer des troubles neurologiques ou respiratoires.

    Spécificité française
    Il n’empêche, cette décision de l’anses est une spécificité française, l’autorisation d’utilisation de la phosphine ayant été renouvelée ces derniers mois dans la plupart des pays européens voisins. « C’est une situation absurde alors même que l’utilisation de cet insecticide figure dans le cahier des charges des pays à qui la France vend ses céréales, déplore Guillaume Kasbarian, député Renaissance, président de la commission des Affaires économiques de l’Assemblée nationale, qui a saisi l’anses sur ce sujet. Cela interroge aussi sur la capacité de l’anses à prendre une décision de cette importance sans concertation avec le gouvernement et sans tenir compte du contexte européen ».

    Il semblerait, en effet, que le gouvernement et l’anses divergent sur ce sujet, les ministères de l’Agriculture et des Affaires étrangères plaidant pour l’application du règlement européen, qui autorise l’utilisation de phosphine. « Le risque est immédiat pour notre commerce extérieur et notre filière céréalière, une des filières agricoles excédentaires majeures à l’export (14,5 milliards d’euros en 2022), commente une source gouvernementale. C’est une menace aussi pour la sécurité alimentaire de ces pays dans le contexte international actuel ».

    Dans L’Opinion, l’anses rejette la responsabilité sur le principal fabricant de phosphine, le Néerlandais UPL Holdings, qui ne lui aurait pas transmis le dossier complet car il aurait lui-même renoncé à l’homologation du produit... Ce que le fabricant dément. À l’anses, personne n’était disponible ce lundi 10 avril pour répondre au Figaro.

    Filière stratégique
    « Ce serait un coup d’arrêt à l’export d’une filière stratégique pour la France, insiste le député qui rappelle que l’import dans l’Hexagone de céréales ayant été traitées par fumigation de phosphine est autorisé. On ne peut laisser les céréaliers sans solution. » Pour contourner cette interdiction, certains industriels pourraient être tentés de s’orienter vers des ports européens tels que Gênes ou Anvers pour expédier leurs céréales. Ce qui représenterait un coût supplémentaire et un impact carbone supérieur, déplore un proche du dossier. Une nouvelle audition pourrait être organisée à la Commission des affaires économiques de l’Assemblée dans les prochaines semaines. Les céréaliers, eux, appellent le gouvernement à « se saisir du sujet ».
    #céréales #alimentation #nourriture #faim #exportation #anses #bétise #mauvais à tout #france #administration

    Source : https://www.lefigaro.fr/economie/la-france-interdite-d-exportations-de-cereales-a-partir-du-25-avril-2023041

  • En France, des nappes phréatiques quasiment vides et toujours une agriculture intensive dédiée à une plante tropicale (le maïs).

    Ou de la rationalité du capitalisme en matière agricole.

    LE GOUVERNEMENT n’a pas fini de patauger dans les bassines. La dernière manif antimégabassines, qui a eu lieu ce week-end dans les Deux-Sèvres, a de nouveau fait le plein, avec près de 8 000 opposants remontés comme des coucous.

    L’occasion de se pencher sur le grand siphonnage de la flotte en France. Première surprise avec 3,5 milliards de mètres cubes pompés tous les ans dans les #nappes_phréatiques et les cours d’eau, nos agriculteurs sont parmi les moins assoiffés. Comptez 6 milliards de mètres cubes annuels pour l’eau potable et 15 milliards de mètres cubes soit la moitié du volume global siphonné chaque année rien que pour refroidir les centrales électriques. Tout irait donc pour le mieux dans les champs sans le #réchauffement_climatique. Selon les dernières projections des climatologues, le thermomètre va grimper particulièrement fort dans l’Hexagone, avec 4 °C de plus à la fin du siècle. De quoi s’éponger le front, vu qu’un degré supplémentaire c’est 7 % de flotte en plus dans l’atmosphère, ce qui fait autant d’eau en moins en surface et en sous-sol. Un gros pépin à venir pour les 10 % des terres cultivées qui ont besoin d’être irriguées à gogo, comme les grandes #cultures_intensives de #céréales, d’oléagineux et de protéagineux. De toutes ces plantes boit-sans-soif, la pire est le maïs, qui a besoin d’ eau en été, au plus mauvais moment. D’où la solution magique des mégabassines, prônée par la #FNSEA, syndicat agricole chantre du productivisme, avec le soutien du gou vernement. De gigantesques trous, dont la surface peut atteindre jusqu’à 8 ha, creusés dans les champs pour stocker l’eau pompée l’hiver dans les nappes phréatiques. Ces « réserves de substitution », comme on les appelle également, sont financées à 70 % par de l’argent public.

    Dans les Deux-Sèvres, la moitié de l’eau des deux #mégabassines prévues devrait ainsi servir a arroser le maïs. Et ce bien que le dé partement affiche des précipitations en moyenne deux fois inférieures à celles enregistrées dans le reste du pays. Comme le pointe un ingénieur agronome, « pour garder notre rang de premier producteur européen de maïs, dont on exporte 38 % de la production, on s’entête sur une culture inadaptée au #changement_climatique, alors que dans le même temps on importe 28 % de nos légumes et 71 % de nos fruits ». Les mauvaises langues écolos diront que c’est (méga)aberrant.

    (Le Canard Enchaîné)

    #agriculture #capitalisme

  • Les prix mondiaux du blé ont fortement chuté après des récoltes prolifiques Frédéric Mamaïs et Dominique Choffat - RTS
    https://www.rts.ch/info/economie/13697469-les-prix-mondiaux-du-ble-ont-fortement-chute-apres-des-recoltes-prolifi

    En 2022, la guerre en Ukraine a provoqué des hausses de prix, une pénurie de certains aliments de base et suscité des craintes de famine dans certains pays. Or actuellement, le prix des céréales sur les plateformes de négoce est en chute, grâce notamment à d’excellentes récoltes mondiales.

    Pas plus tard que vendredi, l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture (FAO) annonçait que 2022 avait été une année tristement record : le prix du blé et du maïs ont franchi des sommets, faisant bondir l’indice des produits de base de la FAO.

    Du jamais vu depuis 2011, une année tristement marquée par une crise alimentaire et des émeutes liées aux famines dans plusieurs pays d’Afrique.

    Mais désormais, la tendance s’inverse : les prix du blé sont en chute. Le marché digère les belles récoltes en Australie ou en Russie comme s’il n’y avait pas de guerre en Ukraine. Un baromètre : le contrat à terme de référence pour le blé tendre d’hiver, qui est tombé cette semaine à son plus bas niveau depuis plus de deux ans à la Bourse de Chicago.

    Des exportations russes flamboyantes
    La Russie, premier exportateur de blé au monde, affiche une excellente récolte avec plus de 100 millions de tonnes. La météo clémente de l’hiver lui a permis de prévoir des exportations « historiquement élevées », selon un observateur local. Et au diable les coûts de transports ou d’assurance qui prennent l’ascenseur pour naviguer en mer Noire.

    Moscou n’a pas non plus de problèmes pour vendre ses récoltes, notamment à l’Egypte, qui dépend fortement de ses importations russes. La situation y est particulièrement fragile en ce moment avec une devise qui a été dévaluée de moitié mercredi sur ordre du Fonds monétaire international. Et avec une augmentation de la facture d’importation de blé de plus d’un milliard de dollars l’année passée, la population égyptienne est littéralement prise à la gorge.

    La Russie exporte donc facilement son blé, mais elle n’est pas seule. L’Inde revient en force dans le marché mondial et l’Australie prévoit une saison record. Bref, il y a trop de blé dans le monde en ce moment, jugent les analystes.

    D’autant que la concurrence se joue aussi en Europe, où le blé russe est très bon marché face au blé américain, pénalisé par les effets de change. À la manœuvre, on retrouve les quatre grandes maisons de négoces de céréales, ADM, Bunge, Cargill et Louis Dreyfus, aussi connues sous le nom de « carré ABCD ».

    Phénomène « logique »
    Normalement, les niveaux actuels devraient perdurer même si la guerre se poursuit en Ukraine. Car l’Ukraine est un acteur secondaire sur le marché du blé, contrairement à celui du maïs, estime Philippe Chalmin, économiste à Paris Dauphine, jeudi dans le journal de 12h30.

    « Les produits agricoles ne sont pas touchés par quelque embargo que ce soit, les taux de fret ont plutôt diminué. Les primes d’assurance sont plutôt élevées, mais c’est une dimension plutôt marginale. Donc pour l’instant, le marché du blé réagit de manière assez logique aux récoltes céréalières mondiales, proches de niveaux historiques », résume-t-il.

    Ce spécialiste des matières premières agricoles rappelle également que durant toute l’année écoulée, « il n’y a jamais eu véritablement de problème de pénurie », la flambée des prix résultant essentiellement de la spéculation financière.

    Sujet et interview radio : Frédéric Mamaïs et Dominique Choffat
    Texte web : Pierrik Jordan

    #Blé #céréales #agriculture #guerre #Russie #Egypte #Inde

  • #Manger_autrement : L’#expérimentation

    À #Grossenzersdorf en #Autriche, dans un champ de 4 400 mètres carrés, les chercheurs ont entrepris de cultiver la totalité de ce que mange un Européen moyen : les #céréales, les #légumes et les #fruits d’une part, de l’autre le #fourrage destiné au #bétail produisant sa consommation d’origine animale. Il est rapidement apparu que les cultures fourragères et les produits importés occupaient deux fois plus de surface que les produits végétaux et locaux. L’#expérience a ainsi démontré que nous accaparons une #surface deux fois supérieure à celle dont nous disposons, et que notre #alimentation rejette autant de #gaz_à_effet de serre que l’automobile. Comment #se_nourrir_autrement ? Trois familles ont alors essayé de réduire leur part de surface cultivable en adoptant une alimentation plus responsable, moins riche en #viande et alignée sur la production locale et saisonnière.

    https://www.youtube.com/watch?v=vlHJeAFN-38


    #film #film_documentaire #documentaire
    #alimentation #géographie #espace #élevage

  • Ukraine, Russia to sign elusive grain deal in Turkey
    https://news.yahoo.com/un-chief-due-turkey-ukraine-082930577.html

    “The grain export agreement, critically important for global food security, will be signed in Istanbul (Friday) under the auspices of President (Recep Tayyip) Erdogan and UN Secretary General Mr. Guterres together with Ukrainian and Russian delegations,” the Turkish leader’s spokesman Ibrahim Kalin tweeted.

    Up to 25 million tonnes of wheat and other grain have been blocked in Ukrainian ports by Russian warships and landmines Kyiv has laid to avert a feared amphibious assault.

    #Ukraine

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

    #blé #prix #Ukraine #Russie #guerre_en_Ukraine #guerre_globale_du_blé #produits_essentiels #ressources_pédagogiques #Etats-Unis #USA #Inde #instabilité #marché #inflation #céréales #indice_alimentaire #spéculation #globalisation #mondialisation #production #Afrique #production_agricole #malnutrition #excédent #industrie_agro-alimentaire #agrobusiness #faim #famine #Ethiopie #Arabie_Saoudite #land_grabbing #accaparemment_des_terres #Soudan #Egypte #Corée_du_Sud #exportation #aide_alimentaire #Angola #alimentation #multinationales #pays_du_Golfe #Mali #Madagascar #Ghana #fonds_souverains #sanctions #marchés_financiers #ports #Odessa #Mikolaiv #Mariupol #assurance #élevage #sanctions #dépendance_énergétique #énergie #ouragan_de_faim #dépendance #Turquie #Liban #pac #politique_agricole_commune #EU #UE #Europe #France #Maroc #Algérie

  • COUSCOUS : LES GRAINES DE LA DIGNITÉ

    « Couscous : les graines de la dignité » est une invitation au débat ouvert, sérieux et collectif sur les politiques de #dépendance_alimentaire poursuivies par tous les gouvernements tunisiens depuis la fin de l’époque coloniale française jusqu’à aujourd’hui.
    Le film se concentre sur les conditions politiques, sociales, économiques et écologiques des #céréales et démontre comment la question de l’#alimentation est en fait au cœur de la question de la #dignité_humaine individuelle et collective, ainsi que de l’indépendance et de la #souveraineté_alimentaire locales et nationales.

    https://cmca-med.org/film/couscous-les-graines-de-la-dignite

    #film #documentaire #film_documentaire
    #Tunisie #indépendance_alimentaire #agriculture

  • 5 questions à Roland Riachi. Comprendre la #dépendance_alimentaire du #monde_arabe

    Économiste et géographe, Roland Riachi s’est spécialisé dans l’économie politique, et plus particulièrement dans le domaine de l’écologie politique. Dans cet entretien, il décrypte pour nous la crise alimentaire qui touche le monde arabe en la posant comme une crise éminemment politique. Il nous invite à regarder au-delà de l’aspect agricole pour cerner les choix politiques et économiques qui sont à son origine.

    https://www.carep-paris.org/5-questions-a/5-questions-a-roland-riachi
    #agriculture #alimentation #colonialisme #céréales #autosuffisance_alimentaire #nationalisation #néolibéralisme #Egypte #Soudan #Liban #Syrie #exportation #Maghreb #crise #post-colonialisme #souveraineté_nationale #panarabisme #militarisme #paysannerie #subventions #cash_crop #devises #capitalisme #blé #valeur_ajoutée #avocats #mangues #mondialisation #globalisation #néolibéralisme_autoritaire #révolution_verte #ouverture_du_marché #programmes_d'ajustement_structurels #intensification #machinisation #exode_rural #monopole #intrants #industrie_agro-alimentaire #biotechnologie #phosphates #extractivisme #agriculture_intensive #paysans #propriété_foncière #foncier #terres #morcellement_foncier #pauvreté #marginalisation #monoculture #goût #goûts #blé_tendre #pain #couscous #aide_humanitaire #blé_dur #durum #libre-échange #nourriture #diète_néolibérale #diète_méditerranéenne #bléification #importation #santé_publique #diabète #obésité #surpoids #accaparement_des_terres #eau #MENA #FMI #banque_mondiale #projets_hydrauliques #crise_alimentaire #foreign_direct_investment #emploi #Russie #Ukraine #sécurité_alimentaire #souveraineté_alimentaire

    #ressources_pédagogiques

    ping @odilon

  • #Gluten, l’ennemi public ?

    En abordant le sujet de l’explosion contemporaine d’#intolérance au gluten, ce film raconte en fait d’une bataille menée par certaines des sociétés les plus puissantes de la planète contre la science libre et notre #santé à nous tous. En jeu, en plus, est la survie de millions de petits agriculteurs, tout autour de la planète, qui risquent d’être chassés du marché. Comment ces choses peuvent être liées entre elles ?

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/62747_1
    #industrie_agro-alimentaire #gluten #film #documentaire #film_documentaire #blé #céréales #alimentation #gluten-free #allergie #intolérances_alimentaires #business #alimentation #blé #coeliaquie #industrie_chimique #CIMMYT #Fondation_Rockfeller #engrais #engrais_chimiques #Norman_Borlaug #Sonora_64 #révolution_verte #agriculture #industrialisation #glyphosate #ABCD (#Archer_Daniels_Midland, #Bunge, #Cargill, #Louis_Dreyfus_Company) #agriculture_intensive #OGM #Monsanto #herbicide #microbiome #roundup #OMC #barrières_non-tarifaires #protectionnisme #capitalisme

    voir aussi, via @odilon :
    https://seenthis.net/messages/911865

  • Terres suisses d’outre-mer

    Les traders domiciliés en Suisse possèdent de gigantesques territoires agricoles à l’étranger qu’ils cultivent souvent sans égard pour les populations locales et la nature.

    Des superficies de plantations équivalentes à près de sept fois les terres arables de la Suisse. C’est ce que quatorze des principaux négociants en matières premières basés en Helvétie contrôlent dans des pays du Sud, comme le Brésil, le Cameroun et le Laos. C’est le résultat d’une nouvelle enquête de Public Eye, ONG qui surveille de près depuis 2011 le secteur des matières premières, dont la Suisse est devenue la première place mondiale depuis une quinzaine d’années1. Ainsi, des traders qui opèrent principalement depuis Genève ou Zoug tels que Cargill, Cofco ou LDC ont la haute main sur au moins 2,7 millions d’hectares dans 561 plantations de 24 pays. Canne à sucre, huile de palme, céréales, oléagineux et caoutchouc tiennent le haut du pavé.

    Cette mainmise s’accompagne souvent de violations des droits humains, d’atteintes à l’environnement et prive les populations locales de leurs moyens de subsistance. « La concurrence pour la terre entre les multinationales de l’agro-industrie et les communautés locales augmente alors que ces dernières ont un besoin vital de ces ressources », détaille Silvie Lang, responsable du dossier chez Public Eye. Un accaparement des terres (land grabbing) qui a explosé depuis la crise financière de 2008 et qui est aussi régulièrement dénoncé pour sa dimension néocoloniale (lire ci-après).

    En tant qu’hôte de ces géants de l’agronégoce, la Suisse aurait une responsabilité toute particulière pour réglementer leurs activités dans ce secteur à risque, mais elle n’en prendrait pas le chemin. Publiée il y a quinze jours, l’ordonnance du Conseil fédéral sur l’application du contre-projet à l’initiative pour des multinationales responsables n’imposerait presque aucune obligation à ces dernières (lire ci-dessous).
    Dépossédés sans compensation

    Pourtant, expulsions de populations, déforestations illégales, dégâts environnementaux seraient légion autour des plantations contrôlées par les traders helvétiques. En coopération avec ses partenaires de la société civile locale, Public Eye a documenté dix cas problématiques dans neuf pays. Ils sont présentés sur une carte interactive constellée de petits drapeaux suisses où sont recensés de nombreux autres « territoires suisses d’outre-mer ».

    En Ouganda, les 4000 personnes expulsées de force il y a vingt ans pour faire place nette à une plantation de café aux mains du groupe allemand Neumann Kaffee (NKG) attendent toujours une indemnisation digne de ce nom. « La filiale suisse de NKG, qui gère non seulement le négoce de café vert mais aussi les plantations – y compris en Ouganda –, a une part de responsabilité à assumer », estime Public Eye.

    De même, 52 familles d’agricultrices et d’agriculteurs auraient perdu leurs moyens de subsistance sur le plateau du Boloven au Laos au bénéfice du trader Olam, qui dispose d’un de ses principaux départements de négoce en Suisse. Histoire similaire en Tanzanie, où nombre d’habitants assurent, selon l’association allemande Misereor, avoir été dépossédés de 2000 hectares par Olam qui cultive des caféiers sur leurs terres. En 2015, mille personnes œuvraient dans ces plantations dans des conditions de travail déplorables, privées d’accès à l’eau, à une nourriture décente, et exposées à l’épandage de pesticides dangereux, selon l’ONG.
    Une autorité de surveillance ?

    Au Brésil aussi, en plus de l’accaparement des terres, les pesticides posent des problèmes insolubles dans les plantations de canne à sucre. Le négociant Biosev, propriété jusqu’à peu du groupe suisse Louis Dreyfus, n’a toujours pas réparé les destructions environnementales occasionnées sur et autour de vastes étendues de terres qu’il exploitait illégalement dans la région de Lagoa da Prata.

    Au Cambodge, enfin, l’expulsion des autochtones qui a eu lieu en 2008 sous la responsabilité de Socfin pour y exploiter le caoutchouc n’aurait pas encore abouti à une réparation. Un processus de médiation entre la firme et les communautés, initié en 2017 et cofinancé par la Suisse, devait finalement permettre de trouver une solution à l’amiable. Mais « les personnes concernées sont insatisfaites de la procédure totalement opaque et globalement inutile », indique Public Eye, relayant les rapports de plusieurs autres ONG. Pain pour le prochain et Alliance Sud avaient pour leur part dénoncé en octobre les pratiques d’évasion fiscale agressive de Socfin au Cambodge à destination de Fribourg, qui privent ce pays de précieuses ressources3.

    Ce nouveau dossier donne toujours plus d’arguments à Public Eye pour réclamer une action déterminée des autorités fédérales. Les mannes financières apportées par les traders en Suisse entraîneraient une responsabilité correspondante : « Le Conseil fédéral reconnaît certes officiellement que le secteur des matières premières est confronté à des défis à prendre au sérieux, notamment en matière de droits humains, mais il continue de miser principalement sur la bonne volonté des entreprises à assumer leurs responsabilités. » Regrettant l’échec de l’initiative pour des multinationales responsables, l’ONG recommande à nouveau la création d’une autorité de surveillance du secteur des matières premières (Rohma), proposée en 2014 déjà. Celle-ci s’inspirerait de l’Autorité fédérale de surveillance des marchés financiers (Finma), créée en 2009 sous la pression internationale.

    –-

    Un accaparement ralenti mais prometteur

    Le phénomène de l’accaparement des terres a fait grand bruit au début des années 2010. Après la crise financière de 2008, on avait assisté à une ruée sur ce nouvel investissement estimé plus sûr et prometteur pour les détenteurs et détentrices de grands capitaux. Le tumulte s’est ensuite calmé avec le tassement progressif du nombre de terres achetées depuis. Entre 2013 et 2020, indique le dernier rapport de l’initiative de monitoring Land Matrix, qui dispose d’une base de données étendue sur l’accaparement dans les pays à revenus bas et moyens, seuls 3 millions d’hectares supplémentaires ont été enregistrés, sur un total de 30 millions. Le grand bon avait été réalisé entre 2006 (6 millions d’hectares environ) à 2013 (27 millions).

    Différentes raisons expliquent ce ralentissement, selon Land Matrix. D’abord, l’envolée attendue des prix dans la décennie 2010 des produits alimentaires, des agrocarburants et du pétrole n’aurait pas atteint les niveaux espérés. D’autre part, alertés par la société civile, certains Etats ont pris de mesures : « Citons, notamment, les moratoires sur les terres dans d’importants pays cibles, la diminution du soutien aux biocarburants de première génération et les restrictions sur la vente de terres aux investisseurs étrangers, dans certains cas », explique l’initiative.

    Les prix repartent à la hausse

    Mais la vapeur pourrait s’inverser sitôt la crise du Covid-19 passée, craint Land Matrix, d’autant que les prix reprennent l’ascenseur. « Certains pays, dont l’Indonésie et l’Inde, ont déjà libéralisé leurs marchés fonciers afin d’attirer les investissements étrangers. » Le Brésil représente également une plateforme florissant en matière agro-industrielle et connaît des évolutions favorables à un possible boom de l’accaparement des terres, indique un rapport en voie de publication de l’Université fédérale rurale de Rio de Janeiro (nous y reviendrons dans une prochaine édition.)

    Cette situation inquiète la société civile, qui souligne les conséquences souvent désastreuses du phénomène pour les populations paysannes, les autochtones, l’environnement et le climat. Certaines ONG, cependant, se focalisent parfois uniquement sur les violations des droits humains qui accompagnent le processus, sans remettre en cause sur le fond les dynamiques néocoloniales de l’accaparement et l’expansion du capitalisme foncier basé sur l’expropriation des communautés locales, regrettent certains observateurs : « Nous observons aujourd’hui un véritable processus d’enclosure (clôture des parcelles provenant de la division des terrains) à l’échelle mondiale », observe Michel Merlet, ex-directeur de l’Association pour l’amélioration de la gouvernance de la terre, de l’eau et des ressources naturelles (AGTER) en France. « Tout comme en Angleterre avant et pendant la révolution industrielle, ce phénomène se traduit par la dépossession des populations rurales, le développement d’un prolétariat rural, de nouvelles modalités de gestion des pauvres, une foi aveugle dans le progrès. » Une logique qui s’oppose de front à la terre en tant que bien commun.

    –-

    La Suisse, carrefour du land grabbing ?

    Difficile de connaître l’importance relative de la Suisse dans l’accaparement de terres dans le monde. Pour l’heure, aucune étude exhaustive n’existe. Observons pour commencer que le chiffre de 2,7 millions d’hectares contrôlés par des traders suisses est très élevé comparé au total de 30 millions d’hectares de territoires agricoles recensés par Land Matrix dans le monde (qui n’incluent pas les traders basés en Suisse recensés par Public Eye). Un indicateur à considérer avec prudence toutefois, car cette base de données est probablement loin d’être exhaustive, selon plusieurs sources.

    D’autres acteurs helvétiques possèdent-ils ou louent-ils sur une longue durée des terres ? Firmes, fonds de pension, banques, assureurs disposent-ils de ce type d’actifs ? Land Matrix a recensé 6,3 millions d’hectares contrôlés via des investissements de firmes helvétiques, incluant des territoires forestiers cette fois, en plus des terres agricoles. A noter toutefois que 5,9 millions de ces 6,3 millions d’hectares se trouvent en Russie et concernent des concessions forestières, via la société Ilim, domiciliée en Suisse (les fonds pourraient provenir de Russie, ou d’ailleurs).

    Autres pays concernés : la Tanzanie, le Cameroun, la Sierra Leone, le Paraguay, l’Argentine, le Brésil, etc. En tout sont impliquées une quarantaine d’entreprises suisses, dont Nestlé, Louis Dreyfus, Chocolats Camille Bloch, Novartis et Addax Bioenergy SA.

    Aucune information, en revanche, sur les acteurs purement financiers : « Nos données n’incluent pas de banques ou de fonds de pension suisses. Nous ne savons pas s’ils sont impliqués dans ce type d’affaires. Leur investissement n’est pas transparent. Beaucoup passent par des paradis fiscaux ou des hubs financiers, comme Chypre, Singapour, Hong-Kong et les île Vierges », détaille Markus Giger, coresponsable de Land Matrix et chercheur au Centre pour le développement et l’environnement de l’université de Berne.

    L’opacité règne donc. On sait par ailleurs que le secteur financier helvétique cible par exemple des investissements dans l’agriculture, surtout là où il y a de fortes opportunités de profits, et les proposent ensuite sous forme de fonds. Les entreprises financées de cette manière peuvent elles-mêmes être impliquées dans l’accaparement de terres.

    En tant qu’une des principales places financières du monde, la Suisse joue indéniablement un rôle dans les transactions opérées sur nombre de ces terres. Après avoir enquêté sur l’accaparement et la financiarisation des terres au Brésil, le chercheur Junior Aleixo a pu le constater : « De nombreux acteurs impliqués dans l’achat ou la location de terres passent par des intermédiaires suisses ou possèdent des comptes dans des banques helvétiques parce que la Suisse dispose de législations peu regardantes et permet l’évasion fiscale », a confié au Courrier l’universitaire, membre du Groupe d’étude sur les changements sociaux, l’agronégoce et les politiques publiques (GEMAP) de l’Université fédérale rurale de Rio de Janeiro. Le gouvernement suisse lui-même voit d’un bon œil ces investissements sur le principe : « Le Conseil fédéral est d’avis que des investissements privés effectués avec circonspection dans l’agriculture ont des répercussions positives, à condition que les standards sociaux et écologiques soient respectés », avait-il répondu en 2011 à une interpellation de la conseillère nationale verte Maya Graf. Le gouvernement prône des normes et des codes de nature volontaire pour réglementer ce négoce et éviter la spoliation des communautés locales.

    https://lecourrier.ch/2021/12/16/terres-suisses-doutre-mer
    #traders #matières_premières #terres #accaparement_des_terres #Suisse #plantations #Cargill #Cofco #LDC #Canne_à_sucre #huile_de_palme #céréales #oléagineux #caoutchouc #multinationales #industries_agro-alimentaires #colonialisme #néo-colonialisme #agronégoce #dépossession #Neumann_Kaffee (#NKG) #Laos #Boloven #Olam #Tanzanie #Brésil #Biosev #Louis_Dreyfus #Lagoa_da_Prata #Cambodge #Socfin #biocarburants #enclosure #prolétariat_rural #opacité

    • Agricultural Commodity Traders in Switzerland. Benefitting from Misery?

      Switzerland is not only home to the world’s largest oil and mineral traders; it is also a significant trading hub for agricultural commodities such as coffee, cocoa, sugar, or grains. The majority of the globally significant agricultural traders are either based here or operate important trading branches in the country.

      The sector is highly concentrated with ever fewer powerful companies who also control the production and processing stages of the industry. In low-income countries, where many of the commodities traded by Swiss-based companies are produced, human rights violations are omnipresent, ranging from the lack of living wages and incomes, to forced and child labour as well as occupational health and safety hazards. Moreover, the risk of tax dodging and corruption has been shown to be particularly high within agricultural production and trade.

      Public Eye’s 2019 report Agricultural Commodity Traders in Switzerland – Benefitting from Misery? sheds light on the opaque sector of agricultural commodity trade and the human rights violations related to activities in this business and also highlights Switzerland’s refusal to regulate the sector in ways that could address these issues, and it outlines ways to tackle the challenges at hand.

      https://www.publiceye.ch/en/publications/detail/agricultural-commodity-traders-in-switzerland

      #rapport #Public_Eye

    • La culture de l’iniquité fiscale

      Le groupe agroalimentaire #Socfin transfère des bénéfices issus de la production de matières premières vers Fribourg, un canton suisse à faible fiscalité. Au détriment de la population vivant dans les zones concernées en Afrique et en Asie.

      La culture de l’#iniquité_fiscale

      Le groupe agroalimentaire luxembourgeois Socfin transfère des bénéfices issus de la production de matières premières vers #Fribourg, un canton suisse à faible fiscalité. Cette pratique d’#optimisation_fiscale agressive équivaut à l’expatriation de bénéfices au détriment de la population vivant dans les zones concernées en Afrique et en Asie. Pour la première fois, un rapport rédigé par Pain pour le prochain, Alliance Sud et le Réseau allemand pour la #justice_fiscale met en lumière les rouages de ce mécanisme. La Suisse porte elle aussi une part de #responsabilité dans ce phénomène, car la politique helvétique de #sous-enchère en matière d’imposition des entreprises représente l’un des piliers de ce système inique.

      La société Socfin, dont le siège se trouve au #Luxembourg, s’est vu octroyer dans dix pays d’Afrique et d’Asie des #concessions d’une superficie supérieure à 380 000 hectares, soit presque l’équivalent de la surface agricole de la Suisse. Dans ses 15 plantations, le groupe produit du caoutchouc et de l’huile de palme qu’il écoule ensuite sur le marché mondial. Si l’entreprise est dotée d’une structure complexe, il apparaît toutefois clairement qu’elle commercialise une grande partie de son caoutchouc par l’intermédiaire d’une filiale établie à Fribourg, à savoir #Sogescol_FR. Et c’est une autre filiale elle aussi basée à Fribourg, #Socfinco_FR, qui se charge d’administrer les plantations et de fournir des prestations aux autres sociétés du groupe.

      En 2020, Socfin a enregistré un bénéfice consolidé de 29,3 millions d’euros. Le rapport, qui procède à une analyse du bénéfice par employé·e dans les différents pays où opère Socfin, met en évidence la distribution particulièrement inégale de ces revenus. Ainsi, alors que le bénéfice par employé·e avoisinait 1600 euros dans les pays africains accueillant les activités de Socfin, il en va tout autrement au sein des filiales helvétiques du groupe, où ce chiffre a atteint 116 000 euros l’année dernière, soit un montant près de 70 fois supérieur. En Suisse, le bénéfice par employé·e a même en moyenne dépassé les 200 000 euros entre 2014 et 2020.

      À faible #fiscalité, bénéfices élevés
      Comment expliquer ces écarts dans la distribution des bénéfices à l’intérieur d’un même groupe ? Selon le rapport publié par Pain pour le prochain, Alliance Sud et le Réseau allemand pour la justice fiscale, la réponse est à trouver dans la fiscalité des pays accueillant les activités de Socfin. En effet, c’est là où les impôts sont le plus bas que le bénéfice par employé·e de l’entreprise est le plus élevé. Dans les pays africains où Socfin est active, le taux d’impôt varie ainsi de 25 à 33 %, contre moins de 14 % en Suisse. Il s’agit là d’un schéma classique de transfert de bénéfices entre filiales à des fins d’optimisation fiscale agressive.

      Cette pratique très répandue parmi les sociétés multinationales n’est pas forcément illégale, mais elle n’en demeure pas moins en tout état de cause inique, car elle prive les pays producteurs de l’hémisphère sud des recettes fiscales indispensables à leur développement et creuse de ce fait les inégalités mondiales. Chaque année, environ 80 milliards d’euros de bénéfices réalisés dans des pays en développement sont ainsi expatriés vers des territoires peu taxés comme la Suisse, ce qui représente bien plus que la moitié des enveloppes publiques annuelles allouées à la coopération au développement à l’échelle mondiale.

      Le transfert de bénéfices au sein de #multinationales est généralement difficile à appréhender pour l’opinion publique (en raison de l’opacité qui l’entoure) et pour les administrations fiscales (faute de volonté en ce sens ou de moyens suffisants). Dans le cas de Socfin, en revanche, les rapports financiers ventilés par zone publiés par la société livrent des informations sur la structure et l’objet des transactions entre filiales. Qu’elles portent sur le négoce, des prestations de conseil, des licences ou des services d’autre nature, les opérations intragroupe délocalisent en Suisse une grande partie des revenus générés en Afrique et en Asie. Et seul un examen approfondi réalisé par des administrations fiscales permettrait de vérifier si ces prix de transfert sont, ainsi que l’affirme Socfin, conformes aux règles édictées par l’OCDE en la matière.

      La Suisse doit faire œuvre de plus de transparence
      La réalité des plantations dans l’hémisphère sud représente le revers de la médaille des juteux bénéfices enregistrés en Suisse. En effet, Socfin dispose dans ces pays de concessions extrêmement avantageuses, mais n’offre pas une compensation suffisante à la population touchée, ne rétribue le dur labeur des ouvriers·ères que par de modiques salaires et n’honore pas totalement ses promesses d’investissements sociaux. En dépit de ce contexte particulièrement favorable, certaines exploitations du groupe, comme la plantation d’#hévéas de #LAC au #Liberia, n’en affichent pas moins des pertes persistantes – ce qui, selon le rapport, vient encore appuyer l’hypothèse de transfert de bénéfices de l’Afrique vers le paradis fiscal helvétique.

      Et cette pratique profite aujourd’hui considérablement à la Suisse, ces transactions générant près de 40 % des recettes de l’impôt sur les bénéfices des entreprises à l’échelon cantonal et fédéral. Afin de lutter contre les abus qui en découlent, il est impératif que notre pays améliore la transparence de sa politique fiscale et rende publics les #rulings, ces accords que les administrations fiscales concluent avec les sociétés. Il en va de même pour les rapports que les multinationales sont tenues de déposer en Suisse dans le cadre de la déclaration pays par pays de l’OCDE et dont l’accès est actuellement réservé aux administrations fiscales. Avant toute chose, il est primordial que la Suisse promeuve un régime international d’imposition des entreprises qui localise la taxation des bénéfices dans les pays où ils sont générés et non sur les territoires à faible fiscalité.

      Mobilisation à Fribourg
      Ce matin, Pain pour le prochain mène une action de mobilisation devant le siège de Sogescol et de Socfinco à Fribourg afin d’exhorter Socfin à cesser ses pratiques immorales de transfert de bénéfices et d’optimisation fiscale au sein de ses structures. Il importe en outre que le groupe réponde aux revendications des communautés locales, restitue les terres litigieuses et garantisse à tous les ouvriers·ères des plantations le versement de salaires décents.

      https://www.alliancesud.ch/fr/politique/politique-fiscale-et-financiere/politique-fiscale/la-culture-de-liniquite-fiscale

      Pour télécharger le rapport (synthèse en français) :
      https://www.alliancesud.ch/fr/file/88274/download?token=32SEeILA

  • Les lobbies productivistes sapent l’ambition européenne d’une agriculture plus écologique - Page 1 | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/international/191021/les-lobbies-productivistes-sapent-l-ambition-europeenne-d-une-agriculture-

    Ce mardi 19 octobre après-midi, le #Parlement européen doit voter sur cette stratégie baptisée « De la ferme à la fourchette » (Farm to Fork) censée mettre l’agriculture européenne sur la voie d’une transition écologique. C’est l’un des grands chapitres du Pacte vert (Green Deal) lancé par la présidente Ursula von der Leyen depuis son arrivée aux manettes de l’exécutif européen, fin 2019.

    Pour la #production_alimentaire du continent, dominée jusqu’ici par le recours à la chimie de synthèse, une telle perspective serait une petite révolution. Mais c’est compter sans l’intense travail de lobbying effectué par les défenseurs du modèle existant : #lobbies de la #viande, de l’#agrochimie et des #céréales… et #Copa-Cogeca, dont fait partie la puissante fédération syndicale française #FNSEA.

    Le Copa-Cogeca est l’union, au niveau européen, du Comité des organisations professionnelles agricoles (c’est-à-dire les syndicats d’exploitants agricoles) et du Comité général de la coopération agricole (c’est-à-dire les coopératives). Et c’est la présidente de la FNSEA, Christiane Lambert, qui officie à la tête du #Copa.

    Mediapart, en collaboration avec le consortium de journalistes européens #Lighthouse_Reports, explique aujourd’hui comment, depuis plusieurs semaines, cette organisation ainsi que d’autres lobbies européens font tout pour couler l’ambition de la Commission européenne et en atténuer les objectifs. Avec pour principal outil une manipulation des savoirs scientifiques autour de cette feuille de route dont le but est de faire baisser les émissions de gaz à effet de serre (GES) de l’agriculture européenne et d’enrayer l’effondrement de la biodiversité.

    Même le ministre français de l’agriculture, Julien Denormandie, a repris à son compte les arguments avancés par les lobbies qui défendent à Bruxelles les intérêts de l’#agro-industrie.

  • Tous chasseurs cueilleurs !
    https://www.franceinter.fr/emissions/comme-un-bruit-qui-court/comme-un-bruit-qui-court-08-juin-2019

    Quand la civilisation menace l’#environnement... retour à la chasse et la cueillette. Entretien avec James C. Scott autour de son livre "#HomoDomesticus, une histoire profonde des premiers Etats".

    On a tous en tête des souvenirs d’école sur les débuts de l’Histoire avec un grand H. Quelque part entre le Tigre et l’Euphrate il y a 10 000 ans, des chasseurs-cueilleurs se sont peu à peu sédentarisés en domestiquant les plantes et les animaux, inventant dans la foulée l’#agriculture, l’écriture et les premiers Etats. C’était l’aube de la #civilisation et le début de la marche forcée vers le #progrès.

    Cette histoire, #JamesScott, anthropologue anarchiste et professeur de sciences politiques, l’a enseignée pendant des années à ses élèves de l’Université de Yale. Mais les découvertes archéologiques dans l’actuel Irak des dernières années l’ont amené à réviser complètement ce « storytelling » du commencement des sociétés humaines, et par là même remettre en question notre rapport au monde dans son dernier livre : Homo Domesticus, une histoire profonde des premiers Etats (Ed. La Découverte).

    Alors même que climat et biodiversité sont aujourd’hui plus que jamais menacés par les activités humaines, James C. Scott propose de réévaluer l’intérêt des sociétés d’avant l’Etat et l’agriculture. Car ces chasseurs-cueilleurs semi-nomades ont longtemps résisté face aux civilisations agraires, basées sur les céréales et qui, en domestiquant le monde, se sont domestiqués eux-mêmes, en appauvrissant leur connaissance du monde.

    Un reportage de Giv Anquetil.
    Les liens

    James C. Scott : « Le monde des chasseurs-cueilleurs était un monde enchanté » (Le grand entretien) par Jean-Christophe Cavallin, Diakritik

    Plutôt couler en beauté que flotter sans grâce, Réflexions sur l’effondrement, Corinne Morel Darleux, Editions Libertalia

    "Amador Rojas invite Karime Amaya" Chapiteau du Cirque Romanès - Paris 16, Paris. Prochaine séance le vendredi 14 juin à 20h.

    Homo Domesticus, une histoire profonde des premiers Etats, James C. Scott (Editions La Découverte)

    Eloge des chasseurs-cueilleurs, revue Books (mai 2019).

    HOMO DOMESTICUS - JAMES C. SCOTT Une Histoire profonde des premiers États [Fiche de lecture], Lundi matin

    Bibliographie de l’association Deep Green Resistance
    Programmation musicale

    "Mesopotamia"- B52’s

    "Cholera" - El Rego et ses commandos

    #podcast @cdb_77

    • Homo Domesticus. Une histoire profonde des premiers États

      Aucun ouvrage n’avait jusqu’à présent réussi à restituer toute la profondeur et l’extension universelle des dynamiques indissociablement écologiques et anthropologiques qui se sont déployées au cours des dix millénaires ayant précédé notre ère, de l’émergence de l’agriculture à la formation des premiers centres urbains, puis des premiers États.
      C’est ce tour de force que réalise avec un brio extraordinaire #Homo_domesticus. Servi par une érudition étourdissante, une plume agile et un sens aigu de la formule, ce livre démonte implacablement le grand récit de la naissance de l’#État antique comme étape cruciale de la « #civilisation » humaine.
      Ce faisant, il nous offre une véritable #écologie_politique des formes primitives d’#aménagement_du_territoire, de l’« #autodomestication » paradoxale de l’animal humain, des dynamiques démographiques et épidémiologiques de la #sédentarisation et des logiques de la #servitude et de la #guerre dans le monde antique.
      Cette fresque omnivore et iconoclaste révolutionne nos connaissances sur l’évolution de l’humanité et sur ce que Rousseau appelait « l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes ».


      https://www.editionsladecouverte.fr/homo_domesticus-9782707199232

      #James_Scott #livre #démographie #épidémiologie #évolution #humanité #histoire #inégalité #inégalités #Etat #écologie #anthropologie #ressources_pédagogiques #auto-domestication

    • Fiche de lecture: Homo Domesticus - James C. Scott

      Un fidèle lecteur de lundimatin nous a transmis cette fiche de lecture du dernier ouvrage de James C. Scott, (on peut la retrouver sur le blog de la bibliothèque fahrenheit) qui peut s’avérer utile au moment l’institution étatique semble si forte et fragile à la fois.
      « L’État est à l’origine un racket de protection mis en œuvre par une bande de voleurs qui l’a emporté sur les autres »
      À la recherche de l’origine des États antiques, James C. Scott, professeur de science politique et d’anthropologie, bouleverse les grands #récits_civilisationnels. Contrairement à bien des idées reçues, la #domestication des plantes et des animaux n’a pas entraîné la fin du #nomadisme ni engendré l’#agriculture_sédentaire. Et jusqu’il y a environ quatre siècles un tiers du globe était occupé par des #chasseurs-cueilleurs tandis que la majorité de la population mondiale vivait « hors d’atteinte des entités étatiques et de leur appareil fiscal ».
      Dans la continuité de #Pierre_Clastres et de #David_Graeber, James C. Scott contribue à mettre à mal les récits civilisationnels dominants. Avec cette étude, il démontre que l’apparition de l’État est une anomalie et une contrainte, présentant plus d’inconvénients que d’avantages, raison pour laquelle ses sujets le fuyait. Comprendre la véritable origine de l’État c’est découvrir qu’une toute autre voie était possible et sans doute encore aujourd’hui.

      La première domestication, celle du #feu, est responsable de la première #concentration_de_population. La construction de niche de #biodiversité par le biais d’une #horticulture assistée par le feu a permis de relocaliser la faune et la flore désirable à l’intérieur d’un cercle restreint autour des #campements. La #cuisson des aliments a externalisé une partie du processus de #digestion. Entre 8000 et 6000 avant notre ère, Homo sapiens a commencé à planter toute la gamme des #céréales et des #légumineuses, à domestiquer des #chèvres, des #moutons, des #porcs, des #bovins, c’est-à-dire bien avant l’émergence de sociétés étatiques de type agraire. Les premiers grands établissements sédentaires sont apparus en #zones_humides et non en milieu aride comme l’affirment les récits traditionnels, dans des plaines alluviales à la lisière de plusieurs écosystèmes (#Mésopotamie, #vallée_du_Nil, #fleuve_Indus, #baie_de_Hangzhou, #lac_Titicata, site de #Teotihuacan) reposant sur des modes de subsistance hautement diversifiés (sauvages, semi-apprivoisés et entièrement domestiqués) défiant toute forme de comptabilité centralisée. Des sous-groupes pouvaient se consacrer plus spécifiquement à une stratégie au sein d’un économie unifiée et des variations climatiques entraînaient mobilité et adaptation « technologique ». La #sécurité_alimentaire était donc incompatible avec une #spécialisation étroite sur une seule forme de #culture ou d’#élevage, requérant qui plus est un travail intensif. L’#agriculture_de_décrue fut la première à apparaître, n’impliquant que peu d’efforts humains.
      Les #plantes complètement domestiquées sont des « anomalies hyperspécialisées » puisque le cultivateur doit contre-sélectionner les traits sélectionnés à l’état sauvage (petite taille des graines, nombreux appendices, etc). De même les #animaux_domestiqués échappent à de nombreuses pressions sélectives (prédation, rivalité alimentaire ou sexuelle) tout en étant soumis à de nouvelles contraintes, par exemple leur moins grande réactivité aux stimuli externes va entraîner une évolution comportementale et provoquer la #sélection des plus dociles. On peut dire que l’espèce humaine elle-même a été domestiquée, enchaînée à un ensemble de routines. Les chasseurs-cueilleurs maîtrisaient une immense variété de techniques, basées sur une connaissance encyclopédique conservée dans la mémoire collective et transmise par #tradition_orale. « Une fois qu’#Homo_sapiens a franchi le Rubicon de l’agriculture, notre espèce s’est retrouvée prisonnière d’une austère discipline monacale rythmée essentiellement par le tic-tac contraignant de l’horloge génétique d’une poignée d’espèces cultivées. » James C. Scott considère la #révolution_néolithique récente comme « un cas de #déqualification massive », suscitant un #appauvrissement du #régime_alimentaire, une contraction de l’espace vital.
      Les humains se sont abstenus le plus longtemps possible de faire de l’agriculture et de l’élevage les pratiques de subsistance dominantes en raison des efforts qu’elles exigeaient. Ils ont peut-être été contraints d’essayer d’extraire plus de #ressources de leur environnement, au prix d’efforts plus intenses, à cause d’une pénurie de #gros_gibier.
      La population mondiale en 10 000 avant notre ère était sans doute de quatre millions de personnes. En 5 000, elle avait augmenté de cinq millions. Au cours des cinq mille ans qui suivront, elle sera multipliée par vingt pour atteindre cent millions. La stagnation démographique du #néolithique, contrastant avec le progrès apparent des #techniques_de_subsistance, permet de supposer que cette période fut la plus meurtrière de l’histoire de l’humanité sur le plan épidémiologique. La sédentarisation créa des conditions de #concentration_démographique agissant comme de véritables « parcs d’engraissement » d’#agents_pathogènes affectant aussi bien les animaux, les plantes que les humains. Nombre de #maladies_infectieuses constituent un « #effet_civilisationnel » et un premier franchissement massif de la barrière des espèces par un groupe pathogènes.
      Le #régime_alimentaire_céréalier, déficient en #acides_gras essentiels, inhibe l’assimilation du #fer et affecte en premier lieu les #femmes. Malgré une #santé fragile, une #mortalité infantile et maternelle élevée par rapport aux chasseurs-cueilleurs, les agriculteurs sédentaires connaissaient des #taux_de_reproduction sans précédent, du fait de la combinaison d’une activité physique intense avec un régime riche en #glucides, provoquant une #puberté plus précoce, une #ovulation plus régulière et une #ménopause plus tardive.

      Les populations sédentaires cultivant des #céréales domestiquées, pratiquant le commerce par voie fluviale ou maritime, organisées en « #complexe_proto-urbain », étaient en place au néolithique, deux millénaires avant l’apparition des premiers États. Cette « plateforme » pouvait alors être « capturée », « parasitée » pour constituer une solide base de #pouvoir et de #privilèges politiques. Un #impôt sur les céréales, sans doute pas inférieur au cinquième de la récolte, fournissait une rente aux élites. « L’État archaïque était comme les aléas climatiques : une menace supplémentaire plus qu’un bienfaiteur. » Seules les céréales peuvent servir de base à l’impôt, de part leur visibilité, leur divisibilité, leur « évaluabilité », leur « stockabilité », leur transportabilité et leur « rationabilité ». Au détour d’un note James C. Scott réfute l’hypothèse selon laquelle des élites bienveillantes ont créé l’État essentiellement pour défendre les #stocks_de_céréales et affirme au contraire que « l’État est à l’origine un racket de protection mis en œuvre par une bande de voleurs qui l’a emporté sur les autres ». La majeure partie du monde et de sa population a longtemps existé en dehors du périmètre des premiers États céréaliers qui n’occupaient que des niches écologiques étroites favorisant l’#agriculture_intensive, les #plaines_alluviales. Les populations non-céréalières n’étaient pas isolées et autarciques mais s’adonnaient à l’#échange et au #commerce entre elles.
      Nombre de #villes de #Basse_Mésopotamie du milieu du troisième millénaire avant notre ère, étaient entourées de murailles, indicateurs infaillibles de la présence d’une agriculture sédentaire et de stocks d’aliments. De même que les grandes #murailles en Chine, ces #murs d’enceinte étaient érigés autant dans un but défensif que dans le but de confiner les paysans contribuables et de les empêcher de se soustraire.
      L’apparition des premiers systèmes scripturaux coïncide avec l’émergence des premiers États. Comme l’expliquait #Proudhon, « être gouverné, c’est être, à chaque opération, à chaque transaction, à chaque mouvement, noté, enregistré, recensé, tarifé, timbré, toisé, coté, cotisé, patenté, licencié, autorisé, apostillé, admonesté, empêché, réformé, redressé, corrigé ». L’#administration_étatique s’occupait de l’#inventaire des ressources disponibles, de #statistiques et de l’#uniformisation des #monnaies et des #unités_de_poids, de distance et de volume. En Mésopotamie l’#écriture a été utilisée à des fins de #comptabilité pendant cinq siècle avant de commencer à refléter les gloires civilisationnelles. Ces efforts de façonnage radical de la société ont entraîné la perte des États les plus ambitieux : la Troisième Dynastie d’#Ur (vers 2100 avant J.-C.) ne dura qu’à peine un siècle et la fameuse dynastie #Qin (221-206 avant J.-C.) seulement quinze ans. Les populations de la périphérie auraient rejeté l’usage de l’écriture, associée à l’État et à l’#impôt.

      La #paysannerie ne produisait pas automatiquement un excédent susceptible d’être approprié par les élites non productrices et devait être contrainte par le biais de #travail_forcé (#corvées, réquisitions de céréales, #servitude pour dettes, #servage, #asservissement_collectif ou paiement d’un tribu, #esclavage). L’État devait respecter un équilibre entre maximisation de l’excédent et risque de provoquer un exode massif. Les premiers codes juridiques témoignent des efforts en vue de décourager et punir l’#immigration même si l’État archaïque n’avait pas les moyens d’empêcher un certain degré de déperdition démographique. Comme pour la sédentarité et la domestication des céréales, il n’a cependant fait que développer et consolider l’esclavage, pratiqué antérieurement par les peuples sans État. Égypte, Mésopotamie, Grèce, Sparte, Rome impériale, Chine, « sans esclavage, pas d’État. » L’asservissement des #prisonniers_de_guerre constituait un prélèvement sauvage de main d’œuvre immédiatement productive et compétente. Disposer d’un #prolétariat corvéable épargnait aux sujets les travaux les plus dégradants et prévenait les tensions insurrectionnelles tout en satisfaisant les ambitions militaires et monumentales.

      La disparition périodique de la plupart de ces entités politiques était « surdéterminée » en raison de leur dépendance à une seule récolte annuelle d’une ou deux céréales de base, de la concentration démographique qui rendait la population et le bétail vulnérables aux maladies infectieuses. La vaste expansion de la sphère commerciale eut pour effet d’étendre le domaine des maladies transmissibles. L’appétit dévorant de #bois des États archaïques pour le #chauffage, la cuisson et la #construction, est responsable de la #déforestation et de la #salinisation_des_sols. Des #conflits incessants et la rivalité autour du contrôle de la #main-d’œuvre locale ont également contribué à la fragilité des premiers États. Ce que l’histoire interprète comme un « effondrement » pouvait aussi être provoqué par une fuite des sujets de la région centrale et vécu comme une #émancipation. James C. Scott conteste le #préjugé selon lequel « la concentration de la population au cœur des centres étatiques constituerait une grande conquête de la civilisation, tandis que la décentralisation à travers des unités politiques de taille inférieure traduirait une rupture ou un échec de l’ordre politique ». De même, les « âges sombres » qui suivaient, peuvent être interprétés comme des moments de résistance, de retours à des #économies_mixtes, plus à même de composer avec son environnement, préservé des effets négatifs de la concentration et des fardeaux imposés par l’État.

      Jusqu’en 1600 de notre ère, en dehors de quelques centres étatiques, la population mondiale occupait en majorité des territoires non gouvernés, constituant soit des « #barbares », c’est-à-dire des « populations pastorales hostiles qui constituaient une menace militaire » pour l’État, soit des « #sauvages », impropres à servir de matière première à la #civilisation. La menace des barbares limitait la croissance des États et ceux-ci constituaient des cibles de pillages et de prélèvement de tribut. James C. Scott considère la période qui s’étend entre l’émergence initiale de l’État jusqu’à sa conquête de l’hégémonie sur les peuples sans État, comme une sorte d’ « âge d’or des barbares ». Les notions de #tribu ou de peuple sont des « #fictions_administratives » inventées en tant qu’instrument de #domination, pour désigner des #réfugiés politiques ou économiques ayant fuit vers la périphérie. « Avec le recul, on peut percevoir les relations entre les barbares et l’État comme une compétition pour le droit de s’approprier l’excédent du module sédentaire « céréales/main-d’œuvre ». » Si les chasseurs-cueilleurs itinérants grappillaient quelques miettes de la richesse étatique, de grandes confédérations politiques, notamment les peuples équestres, véritables « proto-États » ou « Empires fantômes » comme l’État itinérant de #Gengis_Kahn ou l’#Empire_Comanche, constituaient des concurrents redoutables. Les milices barbares, en reconstituant les réserves de main d’œuvre de l’État et en mettant leur savoir faire militaire au service de sa protection et de son expansion, ont creusé leur propre tombe.

      Dans la continuité de Pierre Clastres et de David Graeber, James C. Scott contribue à mettre à mal les récits civilisationnels dominants. Avec cette étude, il démontre que l’apparition de l’État est une #anomalie et une #contrainte, présentant plus d’inconvénients que d’avantages, raison pour laquelle ses sujets le fuyait. Comprendre la véritable origine de l’État c’est découvrir qu’une toute autre voie était possible et sans doute encore aujourd’hui.

      https://lundi.am/HOMO-DOMESTICUS-Une-Histoire-profonde-des-premiers-Etats
      #historicisation

  • Un monde obèse

    En 2030, on estime que la moitié de la planète sera obèse ou en surpoids, entraînant une explosion du diabète, des maladies cardio-vasculaires et de certains cancers. Enquête sur un fléau planétaire.

    Alors que l’obésité charrie son lot de clichés, des gènes tout-puissants aux volontés individuelles défaillantes, et que les industriels comme les autorités publiques continuent de pointer du doigt le manque d’activité physique ("Manger moins, bouger plus"), ce fléau ne serait-il pas le fruit d’un échec collectif mitonné dans nos assiettes ?
    Puis les des voix s’élèvent pour dénoncer les conséquences funestes de cette révolution, les multinationales de l’agroalimentaire, jamais rassasiées, dépensent des milliards en lobbying pour préserver leur pré carré, tout en répandant le poison de la malbouffe et des boissons sucrées à travers le globe.

    Il faut des citoyens engagés pour dresser un état des lieux édifiant de cette épidémie planétaire, qui constitue le problème de santé le plus grave au monde. Mais si les constats, étayés de chiffres, se révèlent effrayants, le documentaire en expose les causes de manière limpide, et explore des solutions pour stopper cette bombe à retardement.

    https://www.youtube.com/watch?v=LLsMeZFf5yA

    #obésité #choix #responsabilité #volonté_individuelle #volonté_personnelle #épidémie #industrie_agro-alimentaire #système_alimentaire #alimentation #exercice_physique #coca-cola #calories #culpabilité #culpabilisation #honte #métabolisme #graisse #sucre #céréales #produits_transformés #manipulation_des_ingrédients #aliments_artificialisés #hormones #déséquilibre_hormonal #insuline #glucides #satiété #flore_intestinale #microbiote #grignotage #multinationales #économie #business #prix #pauvres #désert_alimentaire #marketing #manipulation #publicité #santé_publique #diabète #suicide_collectif #prise_de_conscience

  • How the coronavirus disrupts food supply chains
    https://multimedia.scmp.com/infographics/news/world/article/3080824/covid19-disrupts-food-supply/index.html

    The coronavirus is putting each link of the food supply chain under immense stress. From agricultural production and transportation to supermarket sales, governments around the world face tough political decisions to stem rising food costs and the real possibility of economic and humanitarian crises.

    #datavis #cartographie_narrative #alimentation #mondialisation

  • Farine de teff : main-basse sur une tradition africaine

    Pendant plus de quinze ans, une société néerlandaise a fait prospérer un brevet qu’elle avait déposé en Europe sur la farine de teff, une céréale servant d’aliment de base en Éthiopie et en Érythrée depuis des siècles, en dépit des protestations de nombre d’ONG qui considèrent cette pratique comme un vol des cultures traditionnelles, notamment africaines. Enquête.

    C’est une crêpe épaisse couleur sable, sur laquelle les cuisinières dispersent les purées, les viandes mijotées, les ragoûts. Des lambeaux déchirés avec la pince des doigts servent à porter le repas à la bouche. Depuis des siècles, c’est ainsi que l’on mange en Éthiopie et en Érythrée : sur une injera, une grande galette spongieuse et acidulée fabriquée à base de teff, une graine minuscule aux propriétés nutritives exceptionnelles, riche en protéines et sans gluten. Depuis trois mille ans, on la récolte en épi dans des brassées de fines et hautes herbes vertes sur les hauts-plateaux abyssins.

    Mais une cargaison de teff expédiée en 2003 aux Pays-Bas a aussi fait la fortune d’une petite société privée néerlandaise. Dirigée par l’homme d’affaires Johannes « Hans » Turkensteen et le chercheur Jans Roosjen, cette structure baptisée à l’époque Soil & Crop Improvements (S&C) a en effet prospéré sur un brevet européen s’appropriant l’utilisation de cette « super céréale », alors que le marché du bio et des aliments sans gluten connaissait une expansion progressive.

    Un voyage d’affaires

    Tout avait commencé quelques mois plus tôt par un voyage de Hans Turkensteen à Addis-Abeba. Se prévalant du soutien de l’Université de sciences appliquées de Larenstein, l’homme d’affaires avait signé, en mars 2003, un mémorandum avec l’Organisation éthiopienne de la recherche agricole, l’EARO, accordant à sa société la livraison de 1 440 kg de graines de teff, prétendument destinées à l’expérimentation scientifique.

    « Turkensteen a fait croire à un accord mutuellement bénéfique pour toutes les parties : un meilleur rendement du teff pour les agriculteurs éthiopiens et un programme de lutte contre la pauvreté pour l’université, raconte le journaliste éthiopien Zecharias Zelalem, qui a mené sur le sujet une grande enquête pour le quotidien éthiopien Addis Standard. Il a même utilisé le prétexte de la grande famine de 1984 pour convaincre les signataires, affirmant que si les paysans éthiopiens avaient eu un meilleur teff à l’époque, le désastre n’aurait pas eu lieu. »

    Or, parallèlement, S&C a déposé auprès de l’agence néerlandaise des brevets une demande de protection des « méthodes de transformation » du teff ; un brevet finalement accordé le 25 janvier 2005, contraignant tous ceux qui souhaiteraient produire de la farine de teff ou des produits issus de la graine éthiopienne à obtenir une licence auprès d’eux, contre le paiement de royalties. Au bas du document figurait cette mention pour le moins étonnante pour une farine utilisée depuis des millénaires : « Inventeur : Jans Roosjen ».

    « Étonnement, les autorités éthiopiennes n’ont pas admis - ou n’ont pas voulu admettre - la supercherie, se désole Zecharias Zelalem. Même après que l’Université de Larenstein a exprimé des doutes et commandé un rapport d’enquête sur l’accord et même après que les Néerlandais ont reçu un "Captain Hook Award" [une récompense infamante baptisée d’après le pirate de dessin animé Capitaine Crochet et décernée chaque année par une coalition d’ONG, la Coalition contre la biopiratie, ndlr] en 2004, pour leur exploit en matière de biopiraterie. »

    Sans autres entraves que les protestations et la mauvaise publicité, les deux associés ont donc continué leur moisson de brevets. Les années suivantes, ils ont d’abord obtenu une licence auprès de l’Office européen des brevets, lui ouvrant le droit de faire des demandes auprès des agences de protection de la propriété intellectuelle d’Allemagne, d’Australie, d’Italie et du Royaume-Uni.

    « Les plus étonnant, explique l’avocat allemand Anton Horn, spécialiste de la propriété intellectuelle, est que le bureau européen des brevets leur aient accordé un brevet exactement tel qu’ils l’avaient demandé. C’est très rare. D’habitude, on fait une demande plutôt large au départ, afin que le périmètre puisse être réduit pendant son examen par le bureau des brevets. Là, non. Il a été accepté tel quel, alors que, pour ma part, il m’a suffi de trente minutes pour comprendre que quelque chose clochait dans ce brevet. » Du reste, ajoute-t-il, celui-ci a été refusé par les agences des États-Unis et du Japon.

    Treize années de bénéfices

    Pourtant, pendant les treize années suivantes, personne n’est venu s’opposer à ce que Zecharias Zelalem considère comme « un pillage des traditions éthiopiennes et un pur et simple vol des paysans éthiopiens ». C’est la curiosité de la presse éthiopienne qui a commencé à perturber des affaires alors florissantes.

    Toutefois, de faillites opportunes en changements de noms, la compagnie néerlandaise, rebaptisée entre-temps ProGrain International, a tout fait pour conserver les droits acquis par son tour de passe-passe juridique. Elle a continué à développer son activité, au point que Turkensteen a pu, par exemple, célébrer en grande pompe, en 2010, la production de sa millième tonne de farine de teff dans ses usines d’Espagne, de Roumanie et des Pays-Bas. À raison de 100 euros le kilo, selon le compte effectué en 2012 par l’hebdomadaire éthiopien Addis Fortune, son bénéfice a été considérable, alors que l’Éthiopie n’a touché, en tout en pour tout, qu’environ 4 000 euros de dividendes, selon l’enquête du journaliste Zecharias Zelalem.

    Mais l’aventure a fini par atteindre ses limites. Un jour de 2017, saisi par un ami éthiopien devenu directeur du Bureau éthiopien de la propriété intellectuelle, l’avocat Anton Horn a d’abord suggéré aux associés néerlandais de ProGrain International, par courrier, d’abandonner, au moins en Allemagne, leurs droits sur la farine de teff. Mais le duo néerlandais n’a pas répondu. Puis une société ayant acheté une licence à la société de Turkensteen et Roosjen a attaqué le brevet néerlandais devant un tribunal de La Haye, refusant dorénavant de lui payer des royalties. Pari gagné : le 7 décembre 2018, la justice lui a donné raison et « annulé » le brevet, estimant qu’il n’était ni « innovant » ni « inventif », tandis que, simultanément, sur ses propres deniers, Anton Horn a contesté le brevet en Allemagne devant les tribunaux et obtenu, là aussi, son annulation. Deux coups portés au cœur de la machine industrielle des Néerlandais, après quinze ans sans anicroche.

    Abandon progressif

    Sollicités par RFI, ni la société détentrice des brevets restants ni Hans Turkensteen n’ont souhaité donné leur version de l’histoire. Mais le duo néerlandais semble avoir abandonné la partie et renoncé à ses droits. Annulé aux Pays-Bas et en Allemagne, le brevet reste cependant valide aujourd’hui dans plusieurs pays européens. « Mais depuis août 2019, le non-paiement des frais de renouvellement du brevet devrait conduire logiquement, durant l’été 2020, à l’annulation de celui-ci dans tous les pays de l’espace européen », espère Anton Horn.

    Cette appropriation commerciale d’une tradition africaine par une société occidentale n’est pas un cas unique. En 1997, la société américaine RiceTec avait obtenu un brevet sur le riz basmati, interdisant de fait la vente aux États-Unis de riz basmati cultivé dans ses pays d’origine, l’Inde et le Pakistan. « En 2007, la société pharmaceutique allemande Schwabe Pharmaceuticals obtenait un brevet sur les vertus thérapeutiques de la fleur dite pélargonium du Cap, originaire d’Afrique du Sud et connue pour ses propriétés antimicrobiennes et expectorantes, ajoute François Meienberg, de l’ONG suisse ProSpecieRara, qui milite pour la protection de la diversité génétique et culturelle. Brevet finalement annulé en 2010 après une bataille judiciaire. Et c’est aujourd’hui le rooibos (un thé rouge, ndlr), lui aussi sud-africain, qui fait l’objet d’une bataille similaire. »

    Des négociations internationales ont bien été engagées pour tenter de définir un cadre normatif qui enrayerait la multiplication des scandales de vol de traditions ancestrales par des prédateurs industriels. Mais elles n’ont pour l’instant débouché sur rien de significatif. Le problème est que, d’une part, « tous les pays ne protègent pas les traditions autochtones de la même manière, explique François Meierberg. Les pays scandinaves ou la Bolivie, par exemple, prennent cette question au sérieux, mais ce sont des exemples rares. » L’autre problème est que nombre d’États industrialisés refusent d’attenter à la sainte loi de la « liberté du commerce ». Au prix, du coup, de la spoliation des plus démunis.

    http://www.rfi.fr/fr/afrique/20200212-farine-teff-main-basse-une-tradition-africaine
    #teff #farine #alimentation #céréale #céréales #agriculture #Afrique #tef #injera #Pays-Bas #brevet #industrie_agro-alimentaire #mondialisation #dynamiques_des_suds #ressources_pédagogiques #prédation #géographie_culturelle #culture #Hans_Turkensteen #Turkensteen #Jans_Roosjen #Soil_&_Crop_Improvements (#S&C) #brevet #propriété_intellectuelle #gluten #bio #EARO #licence #loyalties #Université_de_Larenstein #Captain_Hook_Award #biopiraterie #pillage #vol #ProGrain_International #justice #innovation #appropriation_commerciale #RiceTec #riz #riz_basmati #basmati #Inde #Pakistan #Schwabe_Pharmaceuticals #industrie_pharamceutique #big_pharma #multinationales #mondialisation #globalisation

    L’injera, plat cuisiné dans la #Corne_de_l'Afrique, notamment #Erythrée #Ethiopie :


    https://fr.wikipedia.org/wiki/Injera

    ping @reka @odilon @karine4 @fil @albertocampiphoto

  • Agriculture de conservation : quand le « sans-labour » gagne du terrain AFP - 13 Juin 2019 - ngu/im/tq/eb
    https://www.boursorama.com/actualite-economique/actualites/agriculture-de-conservation-quand-le-sans-labour-gagne-du-terrain-8ae226

    « A certains moments, la chimie ne marche plus. Qu’est-ce qu’on fait ? Il faut qu’on remette de l’agronomie dans notre système » : comme Stéphane Schoumacher, céréalier dans la Marne, de plus en plus d’agriculteurs tentent l’agriculture sans labour, pour réduire leurs charges et ramener de la vie dans les sols.


    Stéphane Schoumacher, céréalier à Cuchery, le 5 juin 2019 dans la Marne ( AFP / FRANCOIS NASCIMBENI )

    Abrités sous un hangar, alors que la pluie tombe dru sur les champs de blé et de colza de la Marne, une dizaine d’agriculteurs écoutent avec attention un ingénieur agronome, animateur du club Agrosol pour le compte de la coopérative Vivescia, leur expliquer comment modifier leurs pratiques et passer en agriculture de conservation des sols (ACS).
    Jean-Luc Forrler brandit des pieds de colza, attaqués par des charançons (coléoptères blottis dans les tiges qui éclatent, NDLR) : « Il faut nourrir vos plants, les insectes vont privilégier les colzas les plus chétifs », explique à ces paysans de tous âges M. Forrler, véritable « coach » des paysans.

    « Entre 1998 et 2000, les cours des céréales étaient très bas, il fallait trouver des moyens de baisser les charges », rappelle-t-il pour expliquer son engagement dans ces pratiques.
    Dans le viseur, la mécanisation, qui représente "plus de 50% des charges", selon Stéphane Schoumacher, hôte de ce tour de plaine.


    Stéphane Schoumacher, céréalier à Cuchery, le 5 juin 2019 dans la Marne ( AFP / FRANCOIS NASCIMBENI )

    Car ce type d’agriculture, qui repose sur trois leviers -suppression du labour, modification des rotations et couverts végétaux entre les cultures pour ne jamais laisser les parcelles à nu, vise aussi à « assurer un revenu correct sur l’exploitation », explique Savine Oustrain, de Vivescia.

    La moisson catastrophique de 2016 a, selon elle, agi comme un déclic : « Depuis trois ans, le club Agrosol est passé de 100 membres à 350 dans le Grand Est. Certains agriculteurs se sont rendu compte qu’il fallait peut-être changer de système ».
    Sous un ciel chargé de nuages gris, M. Schoumacher admire ses champs de blé d’un beau vert tendre, avant d’arracher une motte de terre pour montrer la qualité retrouvée de ses sols, dans lesquels on observe les restes de cultures précédentes, comme des résidus de maïs.
    « Les résidus se décomposent plus lentement et servent de garde-manger pour les vers de terre. Plus vous avez de résidus, plus vous avez de vie du sol », explique-t-il.

    Une aubaine pour le revenu... et le climat
    Mais ces techniques peuvent également servir contre le changement climatique : les couverts végétaux plantés entre les cultures, souvent des légumineuses comme le pois, captent l’azote de l’air pour le fixer dans le sol.


    Stéphane Schoumacher, céréalier à Cuchery, le 5 juin 2019 dans la Marne ( AFP / FRANCOIS NASCIMBENI )

    Outre cet apport d’azote, « les insecticides, ça fait quatre ans qu’on s’en passe en colza, dans les cultures céréalières, ça fait deux ans et demi, sans impact sur le rendement », assure Etienne Mignot, en école d’ingénieur, dont le père est engagé en agriculture de conservation depuis cinq ans.

    Mais, car il y a un « mais », « aujourd’hui, les plus grosses difficultés, c’est avec les herbicides, on n’arrive pas à faire sans », explique M. Mignot.
    Une fois par an, les agriculteurs en ACS recourent au glyphosate, cancérogène probable selon une agence internationale, pour nettoyer leur parcelle des couverts végétaux, afin que la culture qu’ils plantent puisse se développer.

    Sur la ferme familiale, assure Etienne Mignot, c’est 0,2, 0,3 litre par hectare, pas plus.
    En contrepartie, « on a moins de travail (superficiel) du sol. On est en moyenne à 40 à 50 litres de fioul à l’hectare. En système conventionnel, c’est 70 à 80 litres ».

    « Face à des incidents climatiques de plus en plus fréquents, et de plus en plus accentués, on est plus résilient », fait valoir M. Schoumacher, qui assure que « le fait de ne pas travailler les sols, ça protège votre sol du gros orage, de la sécheresse », car l’eau « va s’infiltrer plus vite », grâce aux vers de terre et aux racines qui aèrent le sol.
    « Toutes les charges phytosanitaires sont divisées par deux », ajoute-t-il. Il voit dans l’interdiction du glyphosate le seul frein potentiel au développement de cette pratique.
    Mais selon M. Forrler, pour les néophytes, « le problème est beaucoup plus psychologique que technique. La question qui revient le plus, c’est : +Je ne sais pas si je fais bien ?+. Du jour au lendemain, vous changez totalement de mode d’emploi. C’est là que la notion de groupe est importante ».
    ngu/im/tq/eb

    #fuel #carburant #engins_agricole #mécanisation de l’#agriculture #céréales #glyphosate #phytosanitaires #labourage #céréales #climat

  • L’idée selon laquelle le #petit_déjeuner est le #repas le plus important vient-elle d’un #lobby ?

    Que ce soit par nos parents ou les publicités, l’affirmation selon laquelle le petit-déjeuner est le repas le plus important de la journée est constamment répétée. Pourtant, encore aujourd’hui, les effets de ce repas sur la santé sont débattus.

    L’idée, très répandue, selon laquelle le petit-déjeuner est le repas le plus important de la journée apparaît la toute première fois au début du XXe siècle, sous la plume de Lenna F. Cooper, dans les pages d’un magazine de santé américain de l’époque nommé #Good_Health.

    « A bien des égards, le petit-déjeuner est le repas le plus important de la journée, car c’est le repas qui nous fait commencer la journée, écrit ainsi cette diététicienne dans les pages du mensuel publié en août 1917. Il ne devrait pas être consommé précipitamment, et toute la famille devrait y participer. Et surtout, il doit être composé d’aliments faciles à digérer, et équilibré de telle façon que les différents éléments qui le composent sont en bonnes proportions. Ça ne devrait pas être un repas lourd, il devrait contenir entre 500 et 700 calories ».

    Le journal dans lequel écrit Lenna F. Cooper n’est pas anodin. Good Health appartient à #John_Harvey_Kellogg, qui en est également le rédacteur en chef. Et Lenna F. Cooper est la protégée du Dr Kellogg.

    Une idée dans l’air du temps

    Cette idée ne sort pas de nulle part. Elle naît avec un changement des habitudes alimentaires au tournant du XXe siècle, alors que les pays occidentaux sont en pleine révolution industrielle, selon Alain Drouard, historien et sociologue de l’alimentation. C’est à cette période que naît le concept de petit-déjeuner tel qu’on le connaît aujourd’hui.

    « Avant cette période, dans les milieux ruraux, bien sûr les personnes avaient des prises alimentaires pour rompre le jeûne de la nuit, mais ce n’était pas ritualisé, explique le professeur Drouard. Les aliments qu’on associe maintenant au petit-déjeuner n’étaient pas encore répandus. »

    On consomme alors le matin ce qu’il restait dans le garde-manger ou les restes du dîner de la veille. Mais alors que de plus en plus de monde quitte la campagne et les champs pour se rendre en ville travailler dans des emplois sédentaires à l’usine ou dans des bureaux, beaucoup de travailleurs commencent à se plaindre d’indigestion. Leur régime est inadapté.

    « A cette même époque, un discours d’inspiration scientifique fleurit. Des médecins commencent à se lever contre l’industrialisation de l’alimentation, aux Etats-Unis comme en France, pour préconiser un retour à une alimentation riche en céréales, et généralement plus saine et naturelle », explique Alain Drouard.

    Le docteur, inventeur et nutritionniste John H. Kellogg est très investi dans cette recherche du meilleur mode de vie possible, ce qu’il appelle « #biologic_living » (« mode de vie biologique »). Directeur du #sanatorium de #Battle_Creek dans le Michigan, il dispense aux personnes aisées des traitements allant de la #luminothérapie à l’#hydrothérapie, selon les principes de #santé (physique et morale) de l’#Eglise_adventiste_du_septième_jour. Il prescrit à ses patients des régimes à base d’aliments fades, faibles en gras et en viande. C’est dans ce contexte-là qu’en 1898, le docteur Kellogg invente les #cornflakes, les pétales à base de farine de maïs, à l’origine un moyen pour lui de combattre l’#indigestion.

    Son frère, #Will_Keith_Kellogg, voit le potentiel commercial dans les cornflakes et en 1907 il décide de la commercialiser pour le grand public. Les #céréales Kellogg’s sont nées. Et le petit-déjeuner, soutenu par les thèses de nutritionnistes comme Kellogg, prend son essor, alors même que les céréales de petit-déjeuner envahissent le marché.

    Il faut toutefois attendre 1968 pour que la #multinationale s’installe en France et y commercialise ses céréales.

    Cent ans après une idée qui persiste via la recherche

    Cent ans après l’affirmation de Lenna F. Cooper, l’idée selon laquelle le petit-déjeuner est le repas le plus important de la journée persiste. Elle est toujours très présente dans le milieu de la recherche en nutrition. De nombreuses études ont été menées depuis cette époque qui lient la prise régulière d’un petit-déjeuner à une bonne santé, à une perte de poids ou même à de plus faibles risques de problèmes cardiaques ou de diabète.

    Mais les méthodes utilisées dans ces recherches ne sont pas toujours très convaincantes. Une étude américaine de 2005 établit par exemple un lien entre le fait de manger un petit-déjeuner et le fait d’avoir un faible #indice_de_masse corporelle (#IMC). Mais il ne s’agit pas ici d’étudier les résultats provoqués par un changement d’habitudes alimentaires. L’étude compare simplement deux groupes aux habitudes différentes. Ce faisant, toutes les variables qui entrent en jeu pour déterminer si la cause du faible ICM est la prise régulière d’un petit-déjeuner, ne sont pas prises en compte. L’étude établit donc une corrélation, un lien entre ces deux facteurs, mais pas un véritable un lien de causalité. De nombreuses études utilisent des méthodes similaires.

    En janvier, une méta-analyse, c’est-à-dire une étude compilant les données de beaucoup d’autres études, a été publiée sur le sujet. Et les chercheurs concluent n’« avoir trouvé aucune preuve soutenant l’idée que la consommation d’un petit-déjeuner promeut la perte de poids. Cela pourrait même avoir l’effet inverse ».

    Tout cela ne veut pas dire que le petit-déjeuner est mauvais pour la santé. Plusieurs recherches ont par exemple prouvé que manger un petit-déjeuner était bénéfique dans le développement de l’enfant. Mais trop de variables entrent en jeu pour pouvoir affirmer que prendre un petit-déjeuner est effectivement une pratique essentielle à notre bonne santé. La définition même de ce qui constitue un petit-déjeuner varie grandement selon les études, car l’heure à laquelle ce repas est pris ou sa composition peut beaucoup changer entre les sujets observés.
    Beaucoup d’études… financées par les géants du secteur

    Il existe un autre problème. « Beaucoup, si ce n’est presque toutes, les études qui démontrent que les personnes qui mangent un petit-déjeuner sont en meilleure santé et maîtrisent mieux leur poids que ceux qui n’en mangent pas sont sponsorisées par Kellogg’s ou d’autres compagnies de céréales », explique la nutritionniste Marion Nestle sur son blog Food Politics.

    Par exemple, une étude française du Crédoc (Centre de recherche pour l’étude et l’observation des conditions de vie) citée en 2017 par Libération, qui soulignait le fait que « le petit-déjeuner est en perte de vitesse, sauf le week-end », était entièrement financée par Kellogg’s. Une revue systématique de 2013 sur les bienfaits du petit-déjeuner pour les enfants et les adolescents, financée par Kellogg’s, relevait que sur les quatorze études qu’ils analysaient, treize avaient été financées par des compagnies de céréales.

    Une autre méta-analyse a été lancée en 2018 par une équipe de recherche internationale, The International Breakfast Research Initiative (Ibri). Composée de chercheurs de plusieurs pays, l’équipe cherche à analyser les différents types de petits-déjeuners et leurs apports en nutriments grâce à des données récoltées dans tous les pays respectifs des chercheurs, dans le but de déterminer des recommandations nutritionnelles précises pour le plus grand nombre.

    Ce travail est financé par le groupe Cereal Partners Worldwide, une coentreprise spécialisée dans la distribution de céréales créée en 1991 par Nestlé et Général Mills, le sixième groupe alimentaire mondial qui commercialise entre autres 29 marques de céréales (qui finance d’ailleurs directement le versant canadien et américain de l’étude).

    Toutes ces recherches peuvent ultimement servir à la publicité de Kellogg, de Nestlé et d’autres marques. « Et quelle est la source principale d’information des Français en matière de nutrition ? C’est la publicité. Qui détient les budgets publicitaires les plus importants ? Les groupes alimentaires. Il y a encore quelques années, ça dépassait le milliard d’euros », remarque Alain Drouard.

    En résumé : L’idée selon laquelle le petit-déjeuner est le repas le plus important de la journée est effectivement liée à l’industrie des produits de petits-déjeuners, et notamment des céréales. Si depuis le développement de cette idée de nombreuses recherches ont été menées pour prouver cette affirmation, beaucoup de ces études montrent moins une véritable cause entre la prise régulière d’un petit-déjeuner et une bonne santé, que des liens, parfois contradictoires. Et une grande part de ces recherches sont sponsorisées par de grands groupes agroalimentaires comme #Kellogg's ou #Nestlé.

    https://www.liberation.fr/checknews/2019/06/09/l-idee-selon-laquelle-le-petit-dejeuner-est-le-repas-le-plus-important-vi
    #alimentation #idée_reçue #imaginaire

    • La vie moderne ne respecte rien des besoins des personnes : ni sommeil, ni bouffe, ni repos, ni socialisation, rien.
      Le truc est de nous transformer en robots, de peur de leur laisser la place.

      J’avais fait des expériences sur moi à la fin de l’adolescence et début de l’âge adulte. Un bon repas salé dans l’heure qui suit le lever est ce qu’il y a de plus efficient.
      Le mieux a été l’inversion des repas français : diner le matin et petit dej le soir. Ni lourdeur, ni coup de pompe, de l’énergie et un poids idéal sans y penser.