• Olivier Berruyer Twitter

    Enfin la GLOIRE pour BHL : l’unique représentation new-yorkaise de sa pièce affiche complet ! Mais il ne dit pas que la capacité de la salle est de 272 places, soit une salle de cinéma... LOOKING FOR PUBLIC Bref, il va falloir attendre encore un peu pour "un espoir pour l’Europe

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    Source : https://twitter.com/OBerruyer/status/1051453383972974593

    #bhl #europe #théâtre #comédie

    • Nell’ex fabbrica di penicillina, un #ghetto di Roma

      Oggi viene presentata la seconda edizione di “Fuori campo”, il rapporto di Medici Senza Frontiere sulla marginalità, secondo il quale “sono almeno 10.000 le persone escluse dall’accoglienza, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche”. Una cinquantina gli insediamenti mappati dall’organizzazione in tutta Italia, 3500 le persone che vivono in occupazioni, baracche e “ghetti” nella sola Roma. Open Migration è entrata dentro il “gran ghetto” della capitale: un’ex fabbrica di penicillina in cui le condizioni di vita sono estreme.

      Appena finisce di spaccare le cassette della frutta e il legname di recupero, Alecu Romel entra nella casa in cui vive con la moglie Maria. Nella stanza d’ingresso, una luce fioca illumina il fornello, collegato ad una bombola a gas. A destra, in un locale spoglio, la coppia tiene una bicicletta e dei passeggini, riadattati per raccogliere ferrivecchi e oggetti abbandonati per strada. Sulla sinistra, una porta rossa separa dalla zona notte: una camera con due letti, la televisione e stampe colorate appese alle pareti.

      “Viviamo in questo appartamento da cinque anni e cerchiamo di tenerlo sempre in ordine”, dice Maria. A cedere loro lo spazio, un altro cittadino della Romania, che dentro la Ex-Penicillina, una delle più grandi aree industriali dismesse di Roma, si era inventato un angolo di intimità arredando alcuni dei locali più piccoli, che un tempo erano probabilmente uffici. In cinque anni di vita fra i capannoni scrostati, Alecu e Maria hanno visto cambiare l’insediamento. “Prima eravamo più rumeni e ci sono state anche famiglie italiane”, continua la donna, “mentre adesso gli abitanti sono cresciuti, e quasi tutti sono africani”.

      Oggi, come allora, il sogno di ricongiungersi con i due figli, affidati ai nonni in Romania, appare lontano: “questo non è un posto per bambini, ci sono topi e sporcizia, non ci si sente sicuri, ma almeno quei pochi soldi che guadagnamo ci permettono di mantenerli a casa, di fargli fare una vita migliore della nostra”, conclude Maria, la voce rassegnata.
      Fra i capannoni del “grande ghetto”

      Sempre più sogni si infrangono dietro la facciata del complesso, che costeggia via Tiburtina, una delle arterie più trafficate della città. Qui i cantieri per il raddoppio della carreggiata vanno avanti da anni: “finite ‘sti lavori!! più che una consolare sembra una via Crucis” è l’urlo che i cittadini hanno affidato ai cartelli affissi sui muri. Siamo all’altezza della periferia operaia di San Basilio, oggi nota alle cronache anche come base per lo spaccio di stupefacenti.

      Rifugiati e richiedenti asilo, arrivati in Italia negli ultimi anni e usciti dal sistema d’accoglienza, hanno infatti trovato qui un riparo precario, aprendo un nuovo capitolo nella storia del complesso, un tempo orgoglio dell’industria italiana. Aperta come Leo – Industrie Chimiche Farmaceutiche Roma, la Ex-Penicillina è stata la prima fabbrica italiana a produrre antibiotici. Una storia complessa, intrecciata ai piani di investimento del secondo dopoguerra, supportati dagli Usa, e alle speculazioni edilizie che avrebbero cambiato il volto della capitale.

      All’inaugurazione dell’impianto, nel 1950, fu invitato lo stesso sir Alexander Fleming, scopritore della penicillina. Un graffito, nello scheletro esterno della struttura, lo ritrae pensieroso: “ti ricordi quando eravamo i più grandi?”, recita la scritta. Il quotidiano “L’Unità” aveva dedicato un paginone all’evento, col titolo “la più grande fabbrica di penicillina d’Europa inaugurata a Roma”. Dagli oltre 1300 operai degli anni Sessanta, si passò però presto a poche centinaia, fino all’abbandono totale dell’attività, alla fine degli anni Novanta. Un altro sogno, quello di una cordata di imprenditori, che volevano demolirla per fare spazio a un maxi-albergo di alta categoria, si infranse di fronte ai costi per lo smaltimento di rifiuti chimici e amianto, tuttora presenti nell’area.

      “Questo posto lo chiamano il grande ghetto”, ci dice Ahmad Al Rousan, coordinatore per Medici senza frontiere dell’intervento nei campi informali, mentre entriamo dentro uno degli stabilimenti con una torcia, perché qui manca tutto, anche l’elettricità. Camminiamo tra spazzatura, escrementi e resti della vecchia fabbrica: ampolle, fiale, scatole di medicinali su cui c’è ancora la bolla di accompagnamento. “C’è un posto qui vicino, il piccolo ghetto, qui ci sono circa 500 persone, lì 150”, aggiunge. “Non solo chiamano questi luoghi ghetti, ma chi ci vive si sente anche ghettizzato”.

      In questa area industriale abbandonata ci sono persone che arrivano da diverse parti del mondo: nord Africa, Sub Sahara, Pakistan, Afghanistan, Romania, e c’è anche un italiano. La maggior parte sono titolari di protezione internazionale, altri in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale che dovrà decidere sulla richiesta d’asilo, altri ancora hanno il permesso di soggiorno scaduto. Tutti sono fuori dall’accoglienza per qualche motivo.
      Il rapporto di Medici Senza Frontiere

      Come denuncia “Fuori campo”, l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere, in tutta Italia ci sono almeno 10 mila persone in questa condizione, alloggiate in insediamenti informali con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche. Nella capitale la maggior parte si concentra proprio qui, nella zona est, tra la Tiburtina e la Casilina, passando per Tor Cervara. Edifici abbandonati, ex fabbriche e capannoni, sono diventati la casa di centinaia tra migranti e rifugiati. Che ci vivono da invisibili in condizioni disumane, senza acqua, luce e gas, spesso a ridosso di discariche abusive.

      Da novembre 2017, l’Ong ha avviato un intervento con un’unità mobile composta da un medico, uno psicologo e un mediatore culturale, e da qualche settimana il camper è arrivato anche all’ex Leo. Quella di Msf è l’unica presenza esterna negli spazi dell’occupazione: gli operatori vengono qui una volta alla settimana, dal primo pomeriggio alla sera, per portare assistenza medica e psicologica agli abitanti. Un piccolo gazebo allestito nella parte esterna degli edifici fa da ambulatorio, la sala d’attesa è, invece, lo spazio antistante, un tavolino da campeggio, qualche sedia pieghevole e una lampada. Per chi abita qui questo momento è diventato un rito, c’è chi viene per la prima volta, chi torna per un controllo, chi viene solo per chiacchierare.

      Un ragazzo si avvicina con aria timida: “they rescued me”, ci dice, raccontando di aver riconosciuto il logo di Msf sul gazebo, lo stesso visto sulla pettorina delle persone che lo avevano soccorso nel mezzo del Mediterraneo, nel 2016. Ora, due anni dopo l’approdo in Italia, è sbarcato anche lui all’ex fabbrica della penicillina. Entra e inizia la sua prima visita: lamenta mal di testa frequenti. La dottoressa misura la pressione e compila una scheda.

      “I problemi di salute qui sono legati soprattutto alle condizioni di vita: non ci sono servizi igienici e c’è solo una presa d’acqua fredda, per centinaia di persone”, spiega Al Rousan. La patologia più comune, aggiunge “è quella respiratoria dovuta al freddo o all’aria che respirano; l’unico modo che hanno per scaldarsi è accendere il fuoco, con tutti i rischi connessi: qualche giorno fa abbiamo assistito una persona completamente ustionata, in modo grave. Ha aspettato il nostro arrivo, non ha voluto andare a farsi vedere in un ospedale”. Di incendi qui ce ne sono stati diversi, come rivelano i muri anneriti di interi spazi. L’ultimo, a fine gennaio 2018, ha richiesto l’intervento dei vigili del fuoco, dopo l’esplosione di una bombola del gas. Quando cala la sera, le luci dei fuochi accesi e le fiammelle delle candele spezzano il buio totale degli edifici.

      “Questo è un posto estremo, dove l’esclusione è totale”, sottolinea Al Rousan. Dopo aver subito vari traumi nel viaggio e poi in Libia, trovarsi in questa condizione significa vedere infranto il sogno di potersi integrare, di costruirsi una nuova vita. Lavoro da tanti anni in situazioni simili, ma non ho mai visto una cosa del genere. E non pensavo potesse esserci un posto così a Roma”.
      La normalità dell’esclusione

      La fabbrica è occupata da diversi anni, e come in tutti gli insediamenti informali, gli abitanti hanno ricostruito una parvenza di normalità. Lamin, che viene dal Gambia, gestisce un piccolo market all’ingresso di uno dei capannoni principali. I prodotti li acquista al mercato di piazza Vittorio, dove si trovano i cibi di tutto il mondo. Qui vende aranciata, farina, zucchero, fagioli, candele e i dadi marca Jumbo, indispensabili – ci dice – per preparare qualsiasi piatto africano.

      Ha poco più di vent’anni e prima di arrivare qui viveva a via Vannina, in un altro stabile occupato, poco lontano. Nel violento sgombero del giugno 2017, è volato giù dalle scale e ancora, dice, “ho dolori frequenti alle ossa”. La fabbrica è diventata la sua nuova casa.

      Victor, 23 anni, è arrivato invece all’ex Penicillina dopo un periodo trascorso in un centro di accoglienza a Lecce, mentre era in corso la sua domanda d’asilo. Ottenuto lo status di rifugiato ha deciso di spostarsi a Roma per cercare lavoro, ma non parla neanche una parola di italiano. Il suo sogno è fare il giornalista. Nel suo paese, la Nigeria, ha studiato Comunicazione: “sono grato al governo italiano per quanto ha fatto per me”, dice, “ma non pensavo che una volta arrivato in Italia mi sarei trovato in questa situazione: quando sono arrivato a Roma ho vissuto un periodo alla stazione Termini. Faceva freddo e la temperatura di notte arrivava quasi allo zero. Un connazionale mi ha parlato di questo posto, mi ha detto che qui almeno potevo farmi una doccia. Invece, una volta arrivato ho scoperto che c’era solo una fontanella per l’acqua”. Come tutti, spera di andarsene presto. “Questo luogo cambia le persone, rallenta ogni aspirazione e io, invece, il mio sogno lo vorrei realizzare”, ci dice con uno sguardo vivace.

      Nel reticolo di capannoni, corridoi e cortili, ci sono altri piccoli bar e negozi: l’ultimo è stato aperto pochi giorni fa. Sulla facciata troneggia la bandiera giallorossa della squadra di calcio della Roma. Raffigura la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo: qui è quasi un paradosso, quell’immagine simbolo di mamma Roma, patria dell’accoglienza.


      http://openmigration.org/analisi/nellex-fabbrica-di-penicillina-il-grande-ghetto-di-roma
      #Rome

    • Il sistema di accoglienza italiano verso il default organizzativo e morale

      Sono pubblicate da tempo le relazioni della Commissione di inchiesta della Camera dei deputati sui Centri per stranieri. Relazioni che censuravano l’utilizzo degli Hotspot come strutture detentive e chiedevano la chiusura del mega CARA di Mineo. Ma il governo e le prefetture non hanno svolto quel lavoro di pulizia con la estromissione del marcio che risultava largamente diffuso da nord e sud. Una operazione che sarebbe stata doverosa per difendere i tanti operatori e gestori dell’accoglienza che fanno il proprio dovere e che avrebbe permesso di rintuzzare uno degli argomenti elettorali più in voga nella propaganda politica delle destre, appunto gli sprechi e gli abusi verificati da tutti ormai all’interno dei centri di accoglienza, soprattutto in quelli appaltati direttamente dalle prefetture, i Centri di accoglienza straordinaria (CAS), la parte più consistente del sistema di accoglienza italiano.

      https://www.a-dif.org/2018/02/27/il-sistema-di-accoglienza-italiano-verso-il-default-organizzativo-e-morale

    • Ventimiglia. Prima della neve. Un report del gruppo di medici volontari del 27 febbraio scorso tratto dal blog Parole sul Confine

      Sabato 27 febbraio è stata una giornata di lavoro intenso sotto al ponte di via Tenda.

      Avremmo fatto almeno 40 visite.

      Rispetto alla scorsa estate ci sono più persone che vivono sotto al ponte del cavalcavia lungo al fiume, con un numero senza precedenti di donne e bambini anche molto piccoli.

      L’insediamento sembra sempre più stabile, con baracche costruite con pezzi di legno e teli di plastica. Le persone che vivono lì sono prevalentemente eritree e sudanesi. Al momento, tutte le donne sole e le madri sono eritree.

      Le persone che abbiamo visitato erano giovanissime. Tantissime affette da scabbia. Spesso con sovra-infezioni molto importanti. Grazie alla nostra disponibilità di farmaci e grazie alle scorte di indumenti stivati presso l’infopoint Eufemia abbiamo potuto somministrare il trattamento anti scabbia a molte persone, dopo esserci assicurati che avessero compreso come eseguire correttamente tutta la procedura.

      http://www.meltingpot.org/local/cache-vignettes/L440xH294/parole-sul-confine-tende-ponte-roia-3ad5b.png?1520066845
      http://www.meltingpot.org/Ventimiglia-Prima-della-neve.html
      #froid #hiver

    • Purgatory on the Riviera

      Ventimiglia is idyllic. It sits just across the Italian border from the French Riviera. The piercingly blue waters of the Mediterranean churn against its rocky beaches, and its buildings, painted in earthy pastels, back up against the foothills of the Alps. On Fridays, the normally quiet streets are bustling with French tourists who cross the border by car, train, and bicycle to shop in its famous markets where artisans and farmers sell clothes, leather items, fresh produce, truffles, cheeses and decadent pastries. Families with young children and elderly couples stroll along the streets and sit at sidewalk cafes or eat in one of the many restaurants along the shore.


      https://www.irinnews.org/special-report/2017/12/04/purgatory-riviera

    • Ex Penicillina. Dall’evacuazione alla bonifica: 4 mosse per uscire dal ghetto

      La proposta degli abitanti per evitare lo sgombero coatto, più volte annunciato dal ministro Salvini. All’interno circa 200 persone, tra cui alcuni italiani. “Va data a tutti un’alternativa e la fabbrica bonificata e riconsegnata alla città”


      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/606113/Ex-Penicillina-Dall-evacuazione-alla-bonifica-4-mosse-per-uscire-da

    • Nell’ex fabbrica di penicillina, un ghetto di Roma

      Oggi viene presentata la seconda edizione di “Fuori campo”, il rapporto di Medici Senza Frontiere sulla marginalità, secondo il quale “sono almeno 10.000 le persone escluse dall’accoglienza, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche”. Una cinquantina gli insediamenti mappati dall’organizzazione in tutta Italia, 3500 le persone che vivono in occupazioni, baracche e “ghetti” nella sola Roma. Open Migration è entrata dentro il “gran ghetto” della capitale: un’ex fabbrica di penicillina in cui le condizioni di vita sono estreme.

      Appena finisce di spaccare le cassette della frutta e il legname di recupero, Alecu Romel entra nella casa in cui vive con la moglie Maria. Nella stanza d’ingresso, una luce fioca illumina il fornello, collegato ad una bombola a gas. A destra, in un locale spoglio, la coppia tiene una bicicletta e dei passeggini, riadattati per raccogliere ferrivecchi e oggetti abbandonati per strada. Sulla sinistra, una porta rossa separa dalla zona notte: una camera con due letti, la televisione e stampe colorate appese alle pareti.

      “Viviamo in questo appartamento da cinque anni e cerchiamo di tenerlo sempre in ordine”, dice Maria. A cedere loro lo spazio, un altro cittadino della Romania, che dentro la Ex-Penicillina, una delle più grandi aree industriali dismesse di Roma, si era inventato un angolo di intimità arredando alcuni dei locali più piccoli, che un tempo erano probabilmente uffici. In cinque anni di vita fra i capannoni scrostati, Alecu e Maria hanno visto cambiare l’insediamento. “Prima eravamo più rumeni e ci sono state anche famiglie italiane”, continua la donna, “mentre adesso gli abitanti sono cresciuti, e quasi tutti sono africani”.

      Oggi, come allora, il sogno di ricongiungersi con i due figli, affidati ai nonni in Romania, appare lontano: “questo non è un posto per bambini, ci sono topi e sporcizia, non ci si sente sicuri, ma almeno quei pochi soldi che guadagnamo ci permettono di mantenerli a casa, di fargli fare una vita migliore della nostra”, conclude Maria, la voce rassegnata.
      Fra i capannoni del “grande ghetto”

      Sempre più sogni si infrangono dietro la facciata del complesso, che costeggia via Tiburtina, una delle arterie più trafficate della città. Qui i cantieri per il raddoppio della carreggiata vanno avanti da anni: “finite ‘sti lavori!! più che una consolare sembra una via Crucis” è l’urlo che i cittadini hanno affidato ai cartelli affissi sui muri. Siamo all’altezza della periferia operaia di San Basilio, oggi nota alle cronache anche come base per lo spaccio di stupefacenti.

      Rifugiati e richiedenti asilo, arrivati in Italia negli ultimi anni e usciti dal sistema d’accoglienza, hanno infatti trovato qui un riparo precario, aprendo un nuovo capitolo nella storia del complesso, un tempo orgoglio dell’industria italiana. Aperta come Leo – Industrie Chimiche Farmaceutiche Roma, la Ex-Penicillina è stata la prima fabbrica italiana a produrre antibiotici. Una storia complessa, intrecciata ai piani di investimento del secondo dopoguerra, supportati dagli Usa, e alle speculazioni edilizie che avrebbero cambiato il volto della capitale.

      All’inaugurazione dell’impianto, nel 1950, fu invitato lo stesso sir Alexander Fleming, scopritore della penicillina. Un graffito, nello scheletro esterno della struttura, lo ritrae pensieroso: “ti ricordi quando eravamo i più grandi?”, recita la scritta. Il quotidiano “L’Unità” aveva dedicato un paginone all’evento, col titolo “la più grande fabbrica di penicillina d’Europa inaugurata a Roma”. Dagli oltre 1300 operai degli anni Sessanta, si passò però presto a poche centinaia, fino all’abbandono totale dell’attività, alla fine degli anni Novanta. Un altro sogno, quello di una cordata di imprenditori, che volevano demolirla per fare spazio a un maxi-albergo di alta categoria, si infranse di fronte ai costi per lo smaltimento di rifiuti chimici e amianto, tuttora presenti nell’area.

      “Questo posto lo chiamano il grande ghetto”, ci dice Ahmad Al Rousan, coordinatore per Medici senza frontiere dell’intervento nei campi informali, mentre entriamo dentro uno degli stabilimenti con una torcia, perché qui manca tutto, anche l’elettricità. Camminiamo tra spazzatura, escrementi e resti della vecchia fabbrica: ampolle, fiale, scatole di medicinali su cui c’è ancora la bolla di accompagnamento. “C’è un posto qui vicino, il piccolo ghetto, qui ci sono circa 500 persone, lì 150”, aggiunge. “Non solo chiamano questi luoghi ghetti, ma chi ci vive si sente anche ghettizzato”.

      In questa area industriale abbandonata ci sono persone che arrivano da diverse parti del mondo: nord Africa, Sub Sahara, Pakistan, Afghanistan, Romania, e c’è anche un italiano. La maggior parte sono titolari di protezione internazionale, altri in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale che dovrà decidere sulla richiesta d’asilo, altri ancora hanno il permesso di soggiorno scaduto. Tutti sono fuori dall’accoglienza per qualche motivo.
      Il rapporto di Medici Senza Frontiere

      Come denuncia “Fuori campo”, l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere, in tutta Italia ci sono almeno 10 mila persone in questa condizione, alloggiate in insediamenti informali con limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche. Nella capitale la maggior parte si concentra proprio qui, nella zona est, tra la Tiburtina e la Casilina, passando per Tor Cervara. Edifici abbandonati, ex fabbriche e capannoni, sono diventati la casa di centinaia tra migranti e rifugiati. Che ci vivono da invisibili in condizioni disumane, senza acqua, luce e gas, spesso a ridosso di discariche abusive.

      Da novembre 2017, l’Ong ha avviato un intervento con un’unità mobile composta da un medico, uno psicologo e un mediatore culturale, e da qualche settimana il camper è arrivato anche all’ex Leo. Quella di Msf è l’unica presenza esterna negli spazi dell’occupazione: gli operatori vengono qui una volta alla settimana, dal primo pomeriggio alla sera, per portare assistenza medica e psicologica agli abitanti. Un piccolo gazebo allestito nella parte esterna degli edifici fa da ambulatorio, la sala d’attesa è, invece, lo spazio antistante, un tavolino da campeggio, qualche sedia pieghevole e una lampada. Per chi abita qui questo momento è diventato un rito, c’è chi viene per la prima volta, chi torna per un controllo, chi viene solo per chiacchierare.

      Un ragazzo si avvicina con aria timida: “they rescued me”, ci dice, raccontando di aver riconosciuto il logo di Msf sul gazebo, lo stesso visto sulla pettorina delle persone che lo avevano soccorso nel mezzo del Mediterraneo, nel 2016. Ora, due anni dopo l’approdo in Italia, è sbarcato anche lui all’ex fabbrica della penicillina. Entra e inizia la sua prima visita: lamenta mal di testa frequenti. La dottoressa misura la pressione e compila una scheda.

      “I problemi di salute qui sono legati soprattutto alle condizioni di vita: non ci sono servizi igienici e c’è solo una presa d’acqua fredda, per centinaia di persone”, spiega Al Rousan. La patologia più comune, aggiunge “è quella respiratoria dovuta al freddo o all’aria che respirano; l’unico modo che hanno per scaldarsi è accendere il fuoco, con tutti i rischi connessi: qualche giorno fa abbiamo assistito una persona completamente ustionata, in modo grave. Ha aspettato il nostro arrivo, non ha voluto andare a farsi vedere in un ospedale”. Di incendi qui ce ne sono stati diversi, come rivelano i muri anneriti di interi spazi. L’ultimo, a fine gennaio 2018, ha richiesto l’intervento dei vigili del fuoco, dopo l’esplosione di una bombola del gas. Quando cala la sera, le luci dei fuochi accesi e le fiammelle delle candele spezzano il buio totale degli edifici.

      “Questo è un posto estremo, dove l’esclusione è totale”, sottolinea Al Rousan. Dopo aver subito vari traumi nel viaggio e poi in Libia, trovarsi in questa condizione significa vedere infranto il sogno di potersi integrare, di costruirsi una nuova vita. Lavoro da tanti anni in situazioni simili, ma non ho mai visto una cosa del genere. E non pensavo potesse esserci un posto così a Roma”.
      La normalità dell’esclusione

      La fabbrica è occupata da diversi anni, e come in tutti gli insediamenti informali, gli abitanti hanno ricostruito una parvenza di normalità. Lamin, che viene dal Gambia, gestisce un piccolo market all’ingresso di uno dei capannoni principali. I prodotti li acquista al mercato di piazza Vittorio, dove si trovano i cibi di tutto il mondo. Qui vende aranciata, farina, zucchero, fagioli, candele e i dadi marca Jumbo, indispensabili – ci dice – per preparare qualsiasi piatto africano.

      Ha poco più di vent’anni e prima di arrivare qui viveva a via Vannina, in un altro stabile occupato, poco lontano. Nel violento sgombero del giugno 2017, è volato giù dalle scale e ancora, dice, “ho dolori frequenti alle ossa”. La fabbrica è diventata la sua nuova casa.

      Victor, 23 anni, è arrivato invece all’ex Penicillina dopo un periodo trascorso in un centro di accoglienza a Lecce, mentre era in corso la sua domanda d’asilo. Ottenuto lo status di rifugiato ha deciso di spostarsi a Roma per cercare lavoro, ma non parla neanche una parola di italiano. Il suo sogno è fare il giornalista. Nel suo paese, la Nigeria, ha studiato Comunicazione: “sono grato al governo italiano per quanto ha fatto per me”, dice, “ma non pensavo che una volta arrivato in Italia mi sarei trovato in questa situazione: quando sono arrivato a Roma ho vissuto un periodo alla stazione Termini. Faceva freddo e la temperatura di notte arrivava quasi allo zero. Un connazionale mi ha parlato di questo posto, mi ha detto che qui almeno potevo farmi una doccia. Invece, una volta arrivato ho scoperto che c’era solo una fontanella per l’acqua”. Come tutti, spera di andarsene presto. “Questo luogo cambia le persone, rallenta ogni aspirazione e io, invece, il mio sogno lo vorrei realizzare”, ci dice con uno sguardo vivace.

      Nel reticolo di capannoni, corridoi e cortili, ci sono altri piccoli bar e negozi: l’ultimo è stato aperto pochi giorni fa. Sulla facciata troneggia la bandiera giallorossa della squadra di calcio della Roma. Raffigura la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo: qui è quasi un paradosso, quell’immagine simbolo di mamma Roma, patria dell’accoglienza.

      https://openmigration.org/analisi/nellex-fabbrica-di-penicillina-il-grande-ghetto-di-roma

  • #Tel_Aviv_On_Fire

    Israël / Palestine, aujourd’hui. Salam, un charmant Palestinien de 30 ans vivant à Jérusalem, travaille comme stagiaire sur le feuilleton populaire palestinien « Tel Aviv on Fire », produit à Ramallah. Chaque jour, pour rejoindre les studios de télévision, Salam doit passer par un check-point israélien plutôt difficile. Il y rencontre le commandant du poste de contrôle, Assi, dont la femme est une grande fan du feuilleton. Afin de lui faire plaisir, Assi met la pression sur Salam pour changer la fin du feuilleton. Salam se rend vite compte que les idées d’Assi pourraient lui valoir une promotion en tant que scénariste. La carrière créative de Salam est soudainement en ébullition, jusqu’à ce qu’Assi et les producteurs et financiers du feuilleton soient en désaccord sur la façon dont il devrait se terminer. Coincé entre un colonel de l’armée et les soutiens arabes, Salam ne peut résoudre ses problèmes qu’avec un coup de maître final.

    http://www.artemisproductions.com/fr/films/Tel_Aviv_On_Fire
    #Israël #Palestine

    On m’a recommandé ce #film (#comédie)... que je ne sais pas si un jour j’arriverai à voir, mais je partage ici au cas où quelqu’un à l’occasion de le voir

  • « Phil » | Making of

    Je suis heureux de vous présenter le Making of de « Phil » réalisé par Quentin Herlemont, qui est venu avec son équipe capter Laurenzaccio à Poissy en mai dernier. J’espère pouvoir vous présenter son œuvre dans un avenir proche. Pour le moment il s’agit des coulisses du tournage de « Phil »... https://www.philippepillavoine.com/leblog/2018/09/21/phil-making-of

    #cinéma #making_of #Quentin_Herlemont #court_métrage #Phil #2014 #Thilbault_Gilles #acteur #comédien #Philippe_Pillavoine #Pillavoine

  • Map-archive of Europe’s migrant spaces

    The project of an interactive map-archive of ‘migrant spaces’ of transit, border enforcement and refuge across Europe stems from a workshop organised in London in November 2016 by researchers working on migration and based in different European countries.

    The goal of this collective project, is to bring to the fore the existence and the stories of ephemeral spaces of containment, transit, and struggle, that are the outcome of border enforcement politics and of their spatial effects, as well as of their impact on migrant lives.
    What we want to represent

    We do not represent on the map official detention centres or reception camps, but rather unofficial (but visible) spaces that have been produced as an effect of migration and border policies as well as of migrants’ practices of movement. Some well-known examples are the Jungle of Calais, or the Hellenic’s airport in Athens, which represent the output of the relation between the border enforcement policies with the autonomous movements of migrant subjects across Europe. Moreover, spaces of transit like the rail station of Milan will be represented, which have then become places of containment – such as Ventimiglia, Como, and the Brenner after the suspension of Schengen in such border areas. Several structures have been build in such transit knots, being characterized by their humanitarian element that intertwine the dimension of control with that of help and care. Finally, some of these places are zones inside European cities that have played the twofold role of spaces-refuge and area

    controlled by the police, and then have been evicted as dwelling places where migrants found a temporary place to stay – like Lycée Jean-Quarré in Paris, La Chapelle. Others are self-managed places, like Refugee City Plaza Hotel, or square and public spaces that had been sites of migrant struggles for some time – as Orianenplatz in Berlin.
    The three dimensions

    The complexity of the processes that get intertwined in these places can be represented through three dimensions that we aimed to represent, although they cannot be exhaustively of the complexity of this phenomenon.

    Border enforcement/ border control: by border control we understand all the operations, measures and actions put into place by the police for enhancing national borders and obstructing migrants’ movements and presence.

    Humanitarian enforcement: by humanitarian enforcement we understand all the operation/action and structures deployed by those humanitarian actors involved in managing migrants. Being ‘humanitarianism’ a blurry and contested category, we understand it as a continuum with the two endpoints of humanitarian control and humanitarian support. The first endpoint refers to all these actions, operations and structures that aim to control migrants and contain their mobilities. The second endpoint refers to all these actions, operation and structures that aim to support migrants and their movements avoiding deploying control measures.

    Migrant struggles: by ‘struggles’ we understand both self-organized struggles with a declared political claim, and everyday struggles such as the transits mobilities and the ‘everyday resistance’ (Scott, 1985) practices collectively enacted by migrants, that can be visible or remaining under the threshold of visibility.
    Temporality and spatiality

    A crucial feature of this map is the focus on temporality rather than spatiality. Indeed, this map cis an archive of those fleeting and ephemeral spaces that do no longer exist and that have changed their function over time, as frontiers or as spaces of refuge and struggle. The focus on temporality allows us to go beyond the mainstream representations of migrants routes offered by those official actors managing migration such as Fontex, European Union, IOM and the UNHCR.

    We do not want to represent those informal places that are still existing in order to avoid shedding more light on them that could bring some problem to the people dwelling and transiting through those places. The idea of archive is related to that ethical/political topic: we do not want to trace the still existing place where people are struggling, but rather we aim to keep a record and a memory of such ephemeral spaces that do not exist any-more but nevertheless have contributed to the production of a Europe not represented in the mainstream debate. Therefore, we represent only those places still existing where the border and humanitarian enforcement come to the fore, in order to keep an ongoing monitoring gaze.
    The aim

    The aims of this map-archive are: a) to keep memory of these spaces that have been visible and have been the effect of border enforcement policies but that then had been evicted, or ‘disappeared’ ; b) to produce a new map of Europe, that is a map formed by these spaces of transit, containment, and refuge, as result of politics of border enforcement and of migration movements; c) to shed light on the temporality of migration as a crucial dimension through which understand and interpret the complexity of social processes related to migration towards and within Europe and the consequent border enforcement.

    To be continued

    Since Europe externalizes its borders beyond its geopolitical frontiers, we would like to add also spaces of transit and containment that are located in the so called ‘third countries’ – for instance, in Tunisia, Turkey and Morocco – as the map wants also to represent a different image of the borders of Europe, looking also at sites that are the effects of EU borders externalisation politics.


    http://cherish-de.uk/migrant-digitalities/#/2011/intro
    #cartographie #cartographie_radicale #cartographie_critique #frontières #frontière_sud-alpine #visualisation #migrations #asile #réfugiés #conflits #contrôle_humanitaire #militarisation_des_frontières #Europe

    On peut faire un zoom sur la #frontière_sud-alpine :


    #Vintimille #Côme #Brenner #Briançon #Menton

    cc @reka

    • Migration: new map of Europe reveals real frontiers for refugees

      Since the EU declared a “refugee crisis” in 2015 that was followed by an unprecedented number of deaths in the Mediterranean, maps explaining the routes of migrants to and within Europe have been used widely in newspapers and social media.

      Some of these maps came out of refugee projects, while others are produced by global organisations, NGOs and agencies such as Frontex, the European Border and Coastguard Agency, and the International Organisation for Migration’s project, Missing Migrants. The Balkan route, for example, shows the trail along which hundred of thousands of Syrian refugees trekked after their towns and cities were reduced to rubble in the civil war.

      However, migration maps tend to produce an image of Europe being “invaded” and overwhelmed by desperate women, men and children in search of asylum. At the same time, migrants’ journeys are represented as fundamentally linear, going from a point A to a point B. But what about the places where migrants have remained stranded for a long time, due to the closure of national borders and the suspension of the Schengen Agreement, which establishes people’s free internal movement in Europe? What memories and impressions remain in the memory of the European citizens of migrants’ passage and presence in their cities? And how is this most recent history of migration in Europe being recorded?

      Time and memory

      Our collective project, a map archive of Europe’s migrant spaces, engages with with these questions by representing border zones in Europe – places that have functioned as frontiers for fleeing migrants. Some of these border zones, such as Calais, have a long history, while other places have become effective borders for migrants in transit more recently, such as Como in Italy and Menton in France. The result of a collaborative work by researchers in the UK, Greece, Germany, Italy and the US, the project records memories of places in Europe where migrants remained in limbo for a long time, were confronted with violence, or found humanitarian aid, as well as marking sites of organised migrant protest.

      All the cities and places represented in this map archive have over time become frontiers and hostile environments for migrants in transit. Take for instance the Italian city of Ventimiglia on the French-Italian border. This became a frontier for migrants heading to France in 2011, when the French government suspended Schengen to deter the passage of migrants who had landed in Lampedusa in Italy in the aftermath of the Tunisian revolution in 2011.

      Four years later in 2015, after border controls were loosened, Ventimiglia again became a difficult border to cross, when France suspended Schengen for the second time. But far from being just a place where migrants were stranded and forced to go back, our map archive shows that Ventimiglia also became an important place of collective migrant protest.

      Images of migrants on the cliffs holding banners saying “We are not going back” circulated widely in 2015 and became a powerful slogan for other migrant groups across Europe. The most innovative aspect of our map-archive consists in bringing the context of time, showing the transformations of spaces over time into a map about migration that explains the history of border zones over the last decade and how they proliferated across Europe. Every place represented – Paris, Calais, Rome, Lesbos, Kos, and Athens, for example – has been transformed over the years by migrants’ presence.
      Which Europe?

      This archive project visualises these European sites in a way that differs from the conventional geopolitical map: instead of highlighting national frontiers and cities, it foregrounds places that have been actual borders for migrants in transit and which became sites of protest and struggle. In this way the map archive produces another image of Europe, as a space that has been shaped by the presence migrants – the border violence, confinement and their struggle to advance.

      The geopolitical map of Europe is transformed into Europe’s migrant spaces – that is, Europe as it is experienced by migrants and shaped by their presence. So another picture of Europe emerges: a space where migrants’ struggle to stay has contributed to the political history of the continent. In this Europe migrants are subjected to legal restrictions and human rights violations, but at the same time they open up spaces for living, creating community and as a backdrop for their collective struggles.

      It is also where they find solidarity with European citizens who have sympathy with their plight. These border zones highlighted by our map have been characterised by alliances between citizens and migrants in transit, where voluntary groups have set up to provide food, shelter and services such as medical and legal support.

      So how does this map engage with debate on the “migrant crisis” and the “refugee crisis” in Europe? By imposing a time structure and retracing the history of these ephemeral border zone spaces of struggle, it upends the image of migrants’ presence as something exceptional, as a crisis. The map gives an account of how European cities and border zones have been transformed over time by migrants’ presence.

      By providing the history of border zones and recording memories of citizens’ solidarity with migrants in these places, this map dissipates the hardline view of migrants as invaders, intruders and parasites – in other words, as a threat. This way, migrants appear as part of Europe’s unfolding history. Their struggle to stay is now becoming part of Europe’s history.

      But the increasing criminalisation of migrant solidarity in Europe is telling of how such collaboration disturbs state policies on containing migrants. This map-archive helps to erode the image of migrants as faceless masses and unruly mobs, bringing to the fore the spaces they create to live and commune in, embraced by ordinary European citizens who defy the politics of control and the violent borders enacted by their states.


      https://theconversation.com/migration-new-map-of-europe-reveals-real-frontiers-for-refugees-103
      via @isskein