• 🛑 ☠️ ☢️ « LE NUCLÉAIRE, C’EST L’INDÉPENDANCE ÉNERGÉTIQUE »...

    L’uranium qui sert de combustible aux centrales nucléaires ne pousse pas dans les arbres. La France est totalement dépendante des pays qui possèdent ce minerais dans leur sol. C’est le premier mensonge des nucléocrates : « l’indépendance énergétique » n’a jamais existé. La totalité de l’uranium servant aux 56 réacteurs nucléaires françaises vient de l’étranger, importé du Niger, du Kazakhstan, d’Australie… ou de la Russie. Macron, qui veut relancer la filière nucléaire, rendrait donc la France encore toujours plus tributaire des aléas géopolitiques (...)

    🛑 ☠️ ☢️ 🌍 #Niger #néocolonialisme #écologie #environnement #contamination #pollution #uranium #radioactivité #nucléaire #nucléocratie #capitalisme #danger... #antinucléaire !

    🏴 ★ #Anticapitalisme #antiproductivisme #décroissance #anarchisme

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    ▶️ https://contre-attaque.net/2023/08/01/le-nucleaire-cest-lindependance-energetique
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  • 🛑 « LA RAISON » 683 (juillet-août 2023) - FNLP

    Le retour des nervis ?

    Nervi : dictionnaire Larousse : Homme de main, tueur.

    Le fascisme, ce n’est pas une idéologie, c’est avant tout des bandes de nervis armés.
    Depuis plusieurs années, la Libre Pensée est l’objet de menaces, d’agressions et d’intimidations en raison de ses succès juridiques pour faire respecter l’article 28 de la loi de 1905. Cela émane de groupes ultra-catholiques comme Civitas à l’association sablaise « touche pas à ma statue ». Tags, bris de vitre, manifestations devant le siège.
    Parmi les tags hostiles apposés sur les murs de notre librairie, figurent la croix celtique (emblème traditionnel de l’extrême-droite en France), la croix de Jérusalem ou des croisés (pas moins), les inscriptions « Je déteste l’antéchrist » et « vive le christ roi ». On se croirait dans « les rivières pourpres » ou dans « le Da Vinci code » tant cela fleure bon le moyen âge et l’Inquisition. La Libre Pensée est assimilée à l’antéchrist, c’est-à-dire au démon. Ce serait comique si ce n’était pas menaçant (...)

    🛑 #obscurantisme #religion #cléricalisme #fascisme #fascismereligieux #extrêmedroite #intégrisme #catholicisme #violence #menaces

    #LibrePensée #rationalisme #antifascisme

    ⏩ Lire l’éditorial complet...

    ▶️ https://www.fnlp.fr/2023/06/26/la-raison-683-juillet-aout-2023-arrive

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  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis

  • Paderborn : les évêques négligents face aux abus cloués au pilori Maurice Page - cath.ch

    Dans la crypte de la cathédrale de Paderborn, en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, est posé un panneau avec le texte suivant : « Les archevêques inhumés ici ont commis pendant leur mandat, du point de vue actuel, de graves erreurs dans leur gestion des abus sexuels. Trop souvent, ils ont fait passer la protection et la réputation de l’institution et des coupables avant la souffrance des personnes touchées ». Le texte a été formulé par le chapitre métropolitain et adopté par la représentation des victimes a expliqué l’archevêché, au site katholisch.de .

    Le porte-parole des associations de victimes, Reinhold Harnisch, a déclaré que les responsables de l’archevêché avaient « rapidement » approuvé cette proposition. Selon lui, il y a toujours des membres du clergé à Paderborn qui occultent la thématique des abus et ne veulent pas en parler. C’est aussi pour cette raison que les représentants des victimes avaient demandé un panneau explicatif.


    La crypte de la cathédrale de Paderborn dans laquelle sont ensevelis les évêques | DR

    Le signe d’un dialogue
    L’archevêché prévoit en outre d’apposer un code QR qui mènera à un site Internet encore en cours d’élaboration. « Ce site Internet présentera non seulement les manquements des deux anciens archevêques de Paderborn, mais aussi des informations sur leur vie et leur œuvre », a déclaré une porte-parole de l’évêché. En combinaison avec le panneau d’information, cette solution est le « signe d’un bon dialogue » et une « forme appropriée de confrontation avec les fautes commises ». 
    Depuis 2020, deux historiennes ont mené une enquête sur les abus commis de 1941 à 2002, sous les épiscopats de Mgr Lorenz Jaeger et Mgr Johannes Joachim Degenhardt. Un premier résultat intermédiaire atteste que les anciens archevêques ont commis de graves erreurs dans leur gestion des auteurs d’abus, en protégeant les accusés et en manquant de sollicitude envers les victimes.

    Faut-il punir les morts ?
    La décision de l’archidiocèse de désigner ainsi nommément des coupables à tous les visiteurs de la crypte n’a pas manqué de faire bondir d’indignation certaines personnes. « Pilate avait rédigé un écriteau qu’il fit placer sur la croix ; il était écrit : ‘Jésus le Nazaréen, roi des Juifs’. (Jn,19,20) Cette association m’est inévitablement venue à l’esprit lorsque j’ai lu avec horreur la décision de poser cette prétendue plaque d’abus », écrit ainsi Sœur Anna Mirijam Kaschner, secrétaire générale de la Conférence des évêques des pays nordiques.

    « Comme les évêques sont soustraits à la justice séculière par leur mort, il faut bien les « punir » ultérieurement d’une manière ou d’une autre »
    Sœur Anna Mirijam Kaschner

    Pour la religieuse originaire de Paderborn, une démarche de clarification est peut-être utile, « mais une clarification n’implique-t-elle pas que les personnes accusées puissent s’expliquer, prendre position et demander pardon ? Tout cela n’est malheureusement pas possible pour les deux cardinaux. Et comme ils se sont soustraits à la justice séculière par leur mort, il faut bien les ‘punir’ ultérieurement d’une manière ou d’une autre – même si c’est par une ‘plaque d’abus’. »

    Une question de foi
    « On peut toutefois se demander pourquoi, en bonne logique, on ne trouve pas de telles plaques de culpabilité sur chaque tombe d’un père de famille pédophile, de chaque violeur, de chaque enseignant qui battait ses élèves il y a 50 ans et sur chaque tombe d’une mère qui a avorté un ou plusieurs enfants ? » poursuit Sœur Anna Mirijam. Les cimetières deviendrait des forêts de panneaux d’accusation.

    Pour la religieuse, il y a fondamentalement une question de foi chrétienne : « Je crois en un Dieu juste, qui ne jugera pas seulement les vivants, mais aussi les morts. Ainsi, le panneau des abus dans la crypte de la cathédrale de Paderborn, sur la tombe des deux cardinaux, n’est finalement rien d’autre qu’un signe d’une profonde incrédulité selon laquelle Dieu n’est précisément pas juste et ne demandera pas de comptes aux deux cardinaux. » Sœur Anna Mirijam appelle dès lors l’archidiocèse, le chapitre cathédral et chaque visiteur à reprendre en mains cette question.

    Prisonnière d’une Église coupable
    Le porte-parole du conseil des victimes auprès de la Conférence des évêques allemands, Johannes Norpoth, a réagi avec « une horreur sans nom » au commentaire de Sœur Anna Mirijam Kaschner. Dans une lettre ouverte, il lui reproche « non seulement l’ignorance de la recherche en la matière, mais aussi le manque d’approche sensible aux traumatismes des personnes touchées. Dans son texte, elle exprime une attitude « qui a conduit notre Église exactement là où elle se trouve actuellement : dans une crise existentielle ».

    « Sœur Anna-Mirijam est prisonnière du système de pouvoir de cette Église constituée de manière absolutiste ».
    Johannes Norpoth

    En tant que victime, Johannes Norpoth se dit consterné par les comparaisons et les relativisations qui se trouvent dans l’argumentation. Selon lui, le lien entre avortement et abus sexuels sur des enfants est faux et ne tient pas compte de la complexité de ces questions.

    Il rappelle en outre que les reproches formulés à l’encontre des évêques décédés de Paderborn ne sont pas de vagues suppositions ou des accusations unilatérales de victimes, mais des constatations issues de l’enquête diocésaine.

    « Abstenez-vous de tenir des propos aussi dénués d’empathie et de sens »
    Johannes Norpoth reproche à la religieuse d’être prisonnière « du système de pouvoir de cette Église constituée de manière absolutiste ». Son horreur est d’autant plus grande quand il sait que la secrétaire générale des évêques nordiques participera au synode mondial cet automne avec un droit de vote, contrairement aux victimes de violences sexuelles.

    Le représentant des victimes met en garde Sœur Anna Mirijam contre la poursuite du « système du mensonge » au sein de « l’organisation coupable qu’est l’Eglise » et contre le mépris qu’elle témoigne ainsi aux milliers de victimes de violences sexuelles. « Si vous ne pouvez pas reconnaître et accepter tout cela, accordez-moi au moins une requête : à l’avenir, abstenez-vous de tenir des propos aussi dénués d’empathie et de sens », conclut-il.

    L’archevêché ne veut pas de polémique
    Contacté par katholisch.de , l’archevêché de Paderborn n’a pas souhaité s’exprimer sur la polémique. « En règle générale, l’archevêché ne répond pas aux lettres ouvertes, aux lettres de lecteurs ou aux commentaires. Chacun et chacune peut et doit exprimer son opinion. Il y a des points de vue différents », a expliqué la porte-parole.

    A l’occasion de la célébration des festivités de saint Liboire (évêque du Mans au IVe siècle) patron de la cathédrale de Paderborn, l’administrateur diocésain Mgr Michael Bredeck a reconnu, le 23 juillet 2023, que la mise en place d’un panneau d’information dans la crypte épiscopale était controversée. « Mais nous sommes convaincus qu’elle est un signe important de dialogue, et ce délibérément dans la crypte, lieu où l’histoire, le présent et l’avenir de notre archevêché se rejoignent ». (cath.ch/katholisch.de/mp)

    #Abus_sexuels #archevêque #Cathédrale #Paderborn #Allemagne #pouvoir #église_catholique #religion #QR #crimes_sexuels

    Source : https://www.cath.ch/newsf/paderborn-les-eveques-negligents-face-aux-abus-cloues-au-pilori

    • 44 millions d’euros de bénéfice pour le diocèse allemand de Paderborn

      L’archidiocèse allemand de Paderborn a clôturé ses comptes 2015 avec un bénéfice de 44,2 millions d’euros. Ce montant représente une augmentation d’environ 3 millions d’euros (9%) par rapport à l’année précédente, a indiqué le diocèse le 25 octobre 2016.

      Les rentrées de l’impôt ecclésiastique se sont montées à 396 millions d’euros en augmentation de 20 millions d’euros. Les revenus totaux de l’archidiocèse ont atteint 514 millions d’euros. Quant à la fortune, elle se monte à 4,16 milliards d’euros . L’archidiocèse de Paderborn est ainsi le deuxième plus riche d’Allemagne après Munich (6,26 milliards) et devant Cologne (3,52 milliards).
      . . . . .
      L’archidiocèse de Paderborn en Rhénanie du Nord-Westphalie compte 1,55 million de catholiques sur une population globale de 4,8 mios d’habitants pour un territoire de 14’745 km2. Il regroupe 703 paroisses dans lesquelles sont actifs 1’711 agents pastoraux dont 683 prêtres. Il compte 19 écoles et 498 jardins d’enfants. (cath.ch-apic/kna/mp)

      #richesse #argent #fric #impôt_ecclésiastique #argent

      Source : https://www.cath.ch/newsf/44-millions-deuros-de-benefice-diocese-allemand-de-paderborn

  • Vous voyez cette carte ?
    https://piaille.fr/@charles@akk.de-lacom.be/110808035782655614

    Elle représente le trafic maritime tel qu’il était il y a quelques minutes (source : marinetraffic.com).
    L’immense majorité de ces bateaux tourne aux fossiles.
    Et vous voyez les rouges ?
    Ils servent à transporter des carburants fossiles 🤷


    #climat

    #transport_maritime #carte #carburant #énergies_fossiles

  • #Cartographie. #Al-Zaatari, le #camp_de_réfugiés devenu la douzième ville de #Jordanie

    Il y a onze ans, près de la frontière syrienne, ce camp commençait à accueillir des réfugiés syriens. Aujourd’hui, il compte toujours plus de 80 000 habitants, dont près de 60 % ont moins de 18 ans. Voici le #plan de cette véritable ville, avec ses écoles et ses marchés. Un plan à retrouver dans notre hors-série “L’Atlas des migrations”, en vente chez votre marchand de journaux.

    https://www.courrierinternational.com/grand-format/cartographie-al-zaatari-le-camp-de-refugies-devenu-la-douziem

    #réfugiés #migrations #asile #villes #urban_refugees #camps_de_réfugiés #visualisation

    • Merci de signaler cette carte, presque parfait du point de vue de la terminologie en légende. Ça n’a plus de sens aujourd’hui de mentionner les « séparatistes », ils sont totalement intégrés dans les troupes russes et il y a en plus d’autres unités (Wagner, l’es bataillons tic toc tchétchènes, etc... le mot « Russes » ou « Troupes russes » suffirait amplement. « Villes contestées » n’est pas très approprié non plus, d’une part parce que les fronts urbains évoluent plus ou moins vite et les villes et villages passent d’un camp à l’autre et ne sont plus « contestés », et par ailleurs parce que le mot « contesté » induit que les deux parties en conflit sont aussi légitime l’une que l’autre, ce qui n’est bien sur pas le cas. Il vaudrait mieux mettre dans ce cas « âpres combats » ou quelque chose de ce genre. Dans son bouquin limite scandaleux, (Russie un vertige de puissance), Radvanyi n’a pas jugé utile (alors que j’en avais fait la demande) de changer la terminologie des cartes où les territoires envahit et occupés avec la brutalité et la cruauté que l’on sait sont mentionnés systématiquement comme « territoires contestés », et ce choix est loin d’être neutre (comme celui de représenter la Crimée d’une couleur différente de l’Ukraine, ou d’oublier de mentionner que les territoires envahit et occupés par les Russes sont selon le droit international des territoires ukrainiens, et pire sans doute bien que pas très cartographique, citer les propagandistes criminels du Kremlin genre Soloviov ou Simonian comme si c’était des points de vue pertinents et présentables). Sinon pour le reste de la carte, je me réjouis qu’une terminologie appropriée ait été adoptée (en particulier ne ne pas voir guerre"russo-ukrainienne" mais plutôt « invasion russe »)

    • Par contre rien à dire de l’OTAN, des occidentaux qui sont en guerre officielle contre la Russie ??? Ces gauchistes, antifas et autres qui ont soutenu les bombardements en Ukraine, contre la population de l’Est dite séparatiste, des milliers de morts et destructions en ne parlant pas UNE SEULE fois des ingérences graves de l’Occident, l’ OTAN ...L’hypocrisie de votre texte me donne la nausée ! Même jusqu’a mentir sur la nature fasciste, nazie du régime de l’actuelle Ukraine et ce depuis 2014 ; TORCH-LIT MARCH IN KIEV BY UKRAINE’S RIGHT-WING SVOBODA PARTY - BBC NEWS
      https://www.youtube.com/watch?v=tHhGEiwCHZE

      Continuez les gens se dégoutent des collabos du régime Otanien et des collabos de Bandera .

      .https://www.youtube.com/watch?v=5SBo0akeDMY

  • « Prévenir les cancers implique de taxer, limiter et surtout interdire des substances aussi pathogènes que rentables »

    Arrêter de fumer, réduire sa consommation d’alcool, manger plus équilibré… Pour prévenir les cancers, l’incitation à changer les comportements ne suffit pas. Elle doit s’accompagner d’une réglementation stricte et de la suppression des produits industriels cancérigènes, affirment, dans une tribune au « Monde », quatre spécialistes universitaires.

    A l’heure où Santé publique France et l’Institut national du cancer (INCa) révèlent que l’incidence des cancers a doublé en trente ans, la question se pose de savoir si ce gouvernement et ceux qui l’ont précédé ont conduit une politique préventive à la hauteur de ce problème majeur de santé publique.
    Parmi ces cancers, quatre sur dix sont évitables, autrement dit n’apparaîtraient pas si l’exposition aux facteurs de risque connus était prévenue, aux premiers rangs desquels le tabac, l’alcool et l’obésité, soit 153 000 nouveaux cas par an en France. L’exemple de la lutte antitabac illustre deux grandes stratégies préventives mises en œuvre : l’une visant à informer le public, et l’autre s’attaquant à l’agent cancérigène.
    Lutte contre le tabagisme, et lutte contre le tabac : quand les deux stratégies sont associées, des résultats tangibles sont observés. Les campagnes d’information, la loi Evin et les mesures qui ont suivi ont permis une réduction significative du tabagisme, même si aujourd’hui 12 millions de Français fument encore quotidiennement.

    Les limites de l’information
    Force est de constater qu’en matière de cancers évitables c’est surtout la première stratégie qui est le plus largement mobilisée par les pouvoirs publics. Arrêter de fumer, réduire sa consommation d’alcool, manger plus équilibré sont les messages les plus diffusés pour diminuer les trois principaux facteurs de risque identifiés à ce jour.
    On connaît pourtant les limites de cette approche. Quelle est la portée du message « bien manger, bien bouger » du ministère de la santé et de la prévention quand il s’inscrit en petites lettres au pied d’images publicitaires vantant les qualités gustatives d’aliments ultratransformés dont on sait qu’ils augmentent les risques d’obésité et de cancer ?
    Est-il vraiment surprenant de constater un doublement du nombre de personnes obèses en vingt-cinq ans quand les gouvernements successifs ont été aussi peu enclins à réglementer l’offre industrielle en aliments obésogènes ? Les consommateurs sont avertis, mais cela exonère-t-il les pouvoirs publics de leurs responsabilités ? On peut le craindre en entendant les propos tenus par le président de la République, déclarant le 4 février 2021 que « 40 % des cancers pourraient être évités par des comportements plus vertueux ».

    L’importance des cancers professionnels
    Aussi vertueux que vous soyez, comment éviterez-vous d’être exposés à la pollution de l’air, de l’eau et des sols à l’origine de 10 % des cancers en Europe ? Comment vous protégerez-vous contre la dissémination des perturbateurs endocriniens et des polluants organiques persistants ? Faut-il rappeler le niveau alarmant de contamination par des molécules chimiques indestructibles appelées polyfluoroalkylés (PFAS) – révélé le 23 février par Le Monde et le « Forever Pollution Project » –, dont certaines cancérigènes probables, avec près de 1 000 sites pollués répertoriés sur notre territoire ? Que dire de l’exposition généralisée des Français aux pesticides ?

    L’autre sujet occulté par l’appel aux qualités morales individuelles est celui des cancers professionnels. Plus de 11 % des salariés dont 34 % des ouvriers qualifiés sont exposés à au moins une substance reconnue comme cancérigène dans le cadre de leur travail. Environ 4 % des cancers seraient d’origine professionnelle, un chiffre certainement sous-estimé car la contribution de seulement un cinquième des cancérigènes certains a pu être étudiée par les épidémiologistes faute de données robustes.

    Les cancers professionnels constituent la première cause de mortalité due au travail en Europe. Serait-ce, là aussi, une question de vertu et de prévention individuelle ? Nous serions en droit d’attendre que les pouvoirs publics affirment par leurs arbitrages la primauté de la santé publique sur la profitabilité des industries chimique, phytosanitaire et agroalimentaire.

    L’environnement le grand impensé du plan cancer
    Or, l’histoire du combat contre le tabac, l’amiante ou le chlordécone a montré la puissance et l’efficacité des lobbies industriels pour fabriquer du doute sur la validité des données scientifiques et obtenir des gouvernements qu’ils repoussent l’interdiction des produits toxiques qu’ils commercialisent.
    Le cas des nitrites, ces additifs alimentaires utilisés en charcuterie et qui, selon une publication de 2018 de l’Organisation mondiale de la santé (OMS) provoqueraient chaque année en France 3 880 cancers du côlon et 500 cancers de l’estomac, est un exemple de plus d’un choix politique permissif aux intérêts économiques d’une filière industrielle. Il n’est, en effet, plus question de bannir ces composés comme le prévoyait la proposition de loi déposée en décembre 2021 par le député (MoDem) Richard Ramos, mais d’appeler les citoyens à limiter leur consommation de charcuterie tout en évoluant vers une baisse des doses maximales utilisables.

    L’un des objectifs prioritaires de la Stratégie décennale de lutte contre les cancers (2021-2030) dont s’est doté notre pays est de réduire de 60 000 cas le nombre de cancers évitables annuels d’ici à 2040. Pour atteindre ce but ambitieux, ce plan recense une série de dispositifs incitatifs pour favoriser les changements de comportement individuels, en priorité vis-à-vis du tabac, de l’alcool et des modes de vie obésogènes. Cependant, comme le soulignait une chronique de Stéphane Foucart dans Le Monde du 28 février 2021, « l’environnement est le grand impensé de ce plan cancer ».

    Classes sociales et cancer
    Car s’il existe bien des actions prévues pour agir sur les facteurs de risque environnementaux et les cancers professionnels, elles seront inefficaces si elles ne s’accompagnent pas d’une intervention résolue de la puissance publique à l’échelle nationale, mais aussi européenne, pour taxer, limiter et surtout interdire des substances qui sont aussi pathogènes que rentables.

    La lutte contre ce fléau passe aussi par la réduction des inégalités sociales de santé puisque le cancer tue deux à trois fois plus les ouvrières et les ouvriers que celles et ceux appartenant à des classes sociales plus favorisées.
    En matière de cancer, une politique de santé publique réellement responsable doit s’appuyer sur deux jambes pour être efficace : une politique préventive visant à informer la population et une politique de réglementation stricte et de suppression des produits industriels cancérigènes. C’est à cette aune que devra être mesurée la détermination du gouvernement à lutter contre les cancers évitables.

    Les signataires de la tribune : Marc Billaud, directeur de recherche, CNRS ; Marie Castets, chargée de recherche, Inserm, responsable de l’équipe « Mort cellulaire & Cancers pédiatriques » ; Pierre Sujobert, hématologue, professeur des universités et praticien hospitalier ; Alain Trautmann, directeur de recherche émérite en immunologie, CNRS.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/07/29/prevenir-les-cancers-implique-de-taxer-limiter-et-surtout-interdire-des-subs

    #cancer #pathogènes #cancers_évitables #santé_publique #travail

  • [France travail is coming] Dans l’Yonne, les allocataires du RSA déjà soumis à la pression, Faïza Zerouala

    Ainsi Thomas assure-t-il ressentir une pression quasi quotidienne alors qu’il considère n’être pas le mieux outillé pour faire face au monde du #travail et ses exigences. Un simple exemple : personne ne semble tenir compte du fait que les entretiens auxquels il est si souvent convoqué se déroulent à plusieurs kilomètres de chez lui, alors qu’il ne possède ni permis de conduire ni voiture. En zone rurale, où les bus sont rares, impossible de faire sans.

    Le quadragénaire n’a pas les moyens de se payer un ticket de TER et se refuse à frauder, par peur d’être contrôlé. Il ne lui reste donc qu’à marcher sur le bord de la route en essayant de gratter quelques kilomètres en stop. Plusieurs fois, il a rempli des demandes d’aide pour passer le permis, mais son dossier n’a jamais été retenu.
    Depuis des années, l’homme enchaîne les missions en pointillé. Et sans parler de l’éloignement géographique, cela se passe parfois mal : une de ces missions s’est arrêtée au bout de quelques jours : « Quand je suis revenu dans l’entreprise, ils avaient embauché quelqu’un d’autre à ma place, sans prévenir ! »

    Quant à Julie, depuis la perte de son emploi, personne ne lui a proposé de poste en rapport avec son importante expérience professionnelle. Le conseiller qui la suit lui a proposé de devenir aide à domicile, mais elle n’en a ni l’envie, ni, estime-t-elle, les compétences. Le conseil départemental lui a aussi demandé de suivre des formations de métiers administratifs, elle qui a travaillé plus de vingt ans dans le secteur. Julie en soupire encore.
    L’automne dernier, la jeune femme s’est rendu compte sur Internet que son allocation était notée comme suspendue, en rouge. Elle s’est rapprochée de la #CAF, qui lui a expliqué qu’elle était privée de RSA pour deux mois car elle n’avait pas répondu à un contrôle de situation. « J’ai donc été suspendue de mes droits, sans qu’on me prévienne par mail ou par un coup de téléphone », souligne-t-elle. Un courrier papier lui avait été envoyé un mois et demi plus tôt. Or sans domicile fixe, difficile pour Julie de recevoir du courrier…
    Elle garde un souvenir cuisant de son échange téléphonique avec l’agent·e de la CAF : « La personne m’a dit : “C’est la seule façon de vous faire bouger, dès qu’on vous coupe les vivres, vous vous manifestez !” On dirait qu’on est vraiment des numéros, des objets. »
    Ses problèmes ne se sont pas arrêtés là. Elle a aussi été convoquée pour une audience par le #département, au motif qu’elle n’avait pas établi de projet personnalisé pour retrouver un emploi, comme la loi l’impose. Selon son récit, l’entretien avec plusieurs interlocuteurs s’est mal passé. « Personne ne m’avait rien expliqué, mais ils cherchent la faille, ils cherchent à culpabiliser. Vous avez un devoir, mais aucun droit, en gros. C’est ça, le message. Le plus dur, c’était de ne pas répondre et de rester zen. »

    Il aurait aussi été demandé [par MJ consulting qui sous traite le suivi pour le compte du département] à Thomas d’être joignable par téléphone « 24 heures sur 24 », sous peine de voir son allocation suspendue. Mais l’homme a parfois des soucis de connexion à cause d’un réseau capricieux. Réponse du consultant : « Ce n’est pas possible au XXIe siècle. »
    https://www.mediapart.fr/journal/france/300723/dans-l-yonne-les-allocataires-du-rsa-deja-soumis-la-pression
    https://justpaste.it/dfhv0

    #Yonne #MJ_Consulting #RSA #métiers_en_tension #coupure_de_revenu #revenu

  • ★ Gestion verte pour petits bourgeois éclairés - OCL - Organisation Communiste Libertaire

    Si, comme on l’entend souvent dire, avoir été maire d’une grande ville est un atout important pour postuler à un destin national en ce que cet exercice confère à l’impétrant à la magistrature suprême une expérience importante qui lui servira de boussole et de modèle, alors il n’est pas inutile de faire un tour dans la gestion municipale des nouveaux élus Vert de quelques cités d’importance pour avoir une idée de la sauce à laquelle nous allons être mangés si, par inadvertance, l’une ou l’un d’entre eux était élu au sommet de l’État (...)

    #écologie #capitalisme #anarchisme #anticapitalisme #antiétatisme...

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  • Le retour du travail des enfants est le dernier signe du déclin des Etats-Unis Steve Fraser

    En 1906, un vieux chef amérindien visitait New York pour la première fois. Il était curieux de la ville et la ville était intéressée à lui. Un journaliste d’un magazine demande au chef amérindien ce qui l’a le plus surpris dans ses déplacements en ville. « Les petits enfants qui travaillent », répondit le visiteur.

    Le travail des enfants aurait pu choquer cet étranger, mais il n’était que trop banal à l’époque dans les Etats-Unis urbains et industriels (et dans les fermes où il était habituel depuis fort longtemps). Plus récemment, cependant, il est devenu beaucoup plus rare. La loi et la pratique l’ont presque fait disparaître, supposent la plupart d’entre nous. Et notre réaction face à sa réapparition pourrait ressembler à celle de ce chef : choc, incrédulité.


    Mais nous ferions mieux de nous y habituer, car le travail des enfants revient en force. Un nombre impressionnant d’élus entreprennent des efforts concertés ( The New Yorker , « Child Labor is on the Rise », 4 juin 2023 sur le site) pour affaiblir ou abroger les lois qui ont longtemps empêché (ou du moins sérieusement freiné) la possibilité d’exploiter les enfants.

    Reprenez votre souffle et considérez ceci : le nombre d’enfants au travail aux Etats-Unis a augmenté de 37% entre 2015 et 2022. Au cours des deux dernières années, 14 États ont introduit ou promulgué des lois annulant les réglementations qui régissaient le nombre d’heures pendant lesquelles les enfants pouvaient être employés, réduisaient les restrictions sur les travaux dangereux et légalisaient les salaires minimums pour les jeunes.

    L’État de l’Iowa autorise désormais les jeunes de 14 ans à travailler dans des blanchisseries industrielles. A l’âge de 16 ans, ils peuvent occuper des emplois dans les domaines de la toiture, de la construction, de l’excavation et de la démolition et peuvent utiliser des machines à moteur. Les jeunes de 14 ans peuvent même travailler de nuit et, dès l’âge de 15 ans, ils peuvent travailler sur des chaînes de montage. Tout cela était bien sûr interdit il n’y a pas si longtemps.
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    Les élus donnent des justifications absurdes à ces entorses à des pratiques établies de longue date. Le travail, nous disent-ils, éloignera les enfants de leur ordinateur, de leurs jeux vidéo ou de la télévision. Ou encore, il privera le gouvernement du pouvoir de dicter ce que les enfants peuvent ou ne peuvent pas faire, laissant aux parents le contrôle – une affirmation déjà transformée en fantasme par les efforts visant à supprimer la législation sociale protectrice et à permettre aux enfants de 14 ans de travailler sans autorisation parentale formelle.

    En 2014, l’Institut Cato, un groupe de réflexion de droite, a publié « A Case Against Child Labor Prohibitions » (Un cas contre les interdictions du travail des enfants), arguant que de telles lois étouffaient les perspectives pour l’avenir des enfants pauvres, et en particulier les enfants noirs. La Foundation for Government Accountability (Fondation pour l’obligation du gouvernement de rendre des comptes), un groupe de réflexion financé par une série de riches donateurs conservateurs, dont la famille DeVos [Betsy DeVos, secrétaire d’Etat à l’Education sous l’administration Trump], a été le fer de lance des efforts visant à affaiblir les lois sur le travail des enfants, et Americans for Prosperity, la fondation milliardaire des frères Koch [très engagés dans les investissements pétroliers], s’est jointe à eux.

    Ces attaques ne se limitent pas aux États rouges (républicains) comme l’Iowa ou ceux du Sud. La Californie, le Maine, le Michigan, le Minnesota et le New Hampshire, ainsi que la Géorgie et l’Ohio, ont également été l’objet d’interventions dans ce sens. Au cours des années de pandémie, même le New Jersey a adopté une loi, augmentant temporairement les heures de travail autorisées pour les jeunes de 16 à 18 ans.


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    La vérité toute crue est que le travail des enfants est rentable et qu’il est en train de devenir remarquablement omniprésent. C’est un secret de Polichinelle que les chaînes de restauration rapide emploient des mineurs depuis des années et considèrent simplement les amendes occasionnelles comme faisant partie du coût de fonctionnement. Dans le Kentucky, des enfants d’à peine 10 ans ont travaillé dans de tels centres de restauration et d’autres, plus âgés, ont dépassé les limites horaires prescrites par la loi. En Floride et au Tennessee, les couvreurs peuvent désormais avoir 12 ans.

    Récemment, le Département du Travail a découvert plus de 100 enfants âgés de 13 à 17 ans travaillant dans des usines de conditionnement de viande et des abattoirs du Minnesota et du Nebraska. Et il ne s’agissait pas d’opérations véreuses. Des entreprises comme Tyson Foods et Packer Sanitation Services – qui appartient au fonds d’investissement BlackRock, la plus grande société de gestion d’actifs au monde [voir l’article sur ces fonds publié sur ce site le 7 juillet 2023] – figuraient également sur la liste.

    A ce stade, la quasi-totalité de l’économie est remarquablement ouverte au travail des enfants. Les usines de vêtements et les fabricants de pièces automobiles (qui fournissent Ford et General Motors) emploient des enfants immigrés, parfois pendant des journées de travail de 12 heures. Nombre d’entre eux sont contraints d’abandonner l’école pour ne pas être pénalisés. De la même manière, les chaînes d’approvisionnement de Hyundai et de Kia dépendent des enfants qui travaillent en Alabama.

    Comme l’a rapporté le New York Times en février dernier (« Alone and Exploited, Migrant Children Work Brutal Jobs Across the U.S. » par Hannah Dreier, 25 février 2023) – contribuant à faire connaître le nouveau marché du travail des enfants – des enfants mineurs, en particulier des migrants, travaillent dans des usines d’emballage de céréales et des usines de transformation alimentaire. Dans le Vermont, des « illégaux » (parce qu’ils sont trop jeunes pour travailler) font fonctionner des machines à traire. Certains enfants participent à la confection de chemises J. Crew [grande firme de prêt-à-porter] à Los Angeles, préparent des petits pains pour Walmart [le plus grand distributeur des Etats-Unis] ou travaillent à la production de chaussettes Fruit of the Loom [firme très connue]. Le danger guette. Les Etats-Unis sont un environnement de travail notoirement dangereux et le taux d’accidents chez les enfants travailleurs est particulièrement élevé, avec un inventaire effrayant de colonnes vertébrales brisées, d’amputations, d’empoisonnements et de brûlures défigurantes.

    La journaliste Hannah Dreier a parlé d’une « nouvelle économie de l’exploitation », en particulier lorsqu’il s’agit d’enfants migrants. Un instituteur de Grand Rapids, dans le Michigan, observant la même situation difficile, a fait la remarque suivante : « Vous prenez des enfants d’un autre pays et vous les mettez presque en servitude industrielle. »

    Il y a longtemps, aujourd’hui
    Aujourd’hui, nous pouvons être aussi stupéfaits par ce spectacle déplorable que l’était ce chef amérindien au tournant du XXe siècle. Nos ancêtres, eux, ne l’auraient pas été. Pour eux, le travail des enfants allait de soi.

    En outre, les membres des classes supérieures britanniques qui n’étaient pas obligés de travailler dur ont longtemps considéré le travail comme un tonique spirituel capable de réfréner les impulsions indisciplinées des classes inférieures. Une loi élisabéthaine de 1575 prévoyait l’affectation de fonds publics à l’emploi d’enfants en tant que « prophylaxie contre les vagabonds et les indigents ».

    Au XVIIe siècle, le philosophe John Locke [1632-1704, auteur de l’ Essai sur l’entendement humain , un des principaux acteurs de la Royal African Company, pilier de la traite négrière], alors célèbre « défenseur de la liberté », soutenait que les enfants de trois ans devaient être inclus dans la force de travail. Daniel Defoe, auteur de Robinson Crusoé , se réjouissait que « les enfants de quatre ou cinq ans puissent tous gagner leur propre pain ». Plus tard, Jeremy Bentham [1748-1832, précurseur du libéralisme], le père de l’utilitarisme, optera pour quatre ans, car sinon, la société souffrirait de la perte de « précieuses années pendant lesquelles rien n’est fait ! Rien pour l’industrie ! Rien pour l’amélioration, morale ou intellectuelle. »

    Le rapport sur l’industrie manufacturière publié en 1791 par le « père fondateur » états-unien Alexander Hamilton [1757-1804, secrétaire au Trésor de 1789 à 1795] notait que les enfants « qui seraient autrement oisifs » pourraient au contraire devenir une source de main-d’œuvre bon marché. L’affirmation selon laquelle le travail à un âge précoce éloigne les dangers sociaux de « l’oisiveté et de la dégénérescence » est restée une constante de l’idéologie des élites jusqu’à l’ère moderne. De toute évidence, c’est encore le cas aujourd’hui.


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    Lorsque l’industrialisation a effectivement commencé au cours de la première moitié du XIXe siècle, les observateurs ont noté que le travail dans les nouvelles usines (en particulier les usines textiles) était « mieux fait par les petites filles de 6 à 12 ans ». En 1820, les enfants représentaient 40% des travailleurs des usines dans trois Etats de la Nouvelle-Angleterre. La même année, les enfants de moins de 15 ans représentaient 23% de la main-d’œuvre manufacturière et jusqu’à 50% de la production de textiles de coton (« Child Labor in the United States », Robert Whaples, Wake Forest University).

    Et ces chiffres ne feront qu’augmenter après la guerre de Sécession [1861-1865]. En fait, les enfants d’anciens esclaves ont été ré-esclavagisés par le biais d’accords d’apprentissage très contraignants. Pendant ce temps, à New York et dans d’autres centres urbains, les padroni italiens ont accéléré l’exploitation des enfants immigrés tout en les traitant avec brutalité. Même le New York Times s’est offusqué : « Le monde a renoncé à voler des hommes sur les côtes africaines pour kidnapper des enfants en Italie. »

    Entre 1890 et 1910, 18% des enfants âgés de 10 à 15 ans, soit environ deux millions de jeunes, ont travaillé, souvent 12 heures par jour, six jours par semaine.Leurs emplois couvraient le front de mer – trop littéralement puisque, sous la supervision des padroni , des milliers d’enfants écaillaient les huîtres et ramassaient les crevettes. Les enfants étaient également des crieurs de rue et des vendeurs de journaux. Ils travaillaient dans des bureaux et des usines, des banques et des maisons closes. Ils étaient « casseurs » et « ouvreurs de portes en bois permettant l’accès d’air » dans les mines de charbon mal ventilées, des emplois particulièrement dangereux et insalubres. En 1900, sur les 100 000 ouvriers des usines textiles du Sud, 20 000 avaient moins de 12 ans.

    Les orphelins des villes sont envoyés travailler dans les verreries du Midwest. Des milliers d’enfants sont restés à la maison et ont aidé leur famille à confectionner des vêtements pour des ateliers clandestins. D’autres emballent des fleurs dans des tentes mal ventilées. Un enfant de sept ans expliquait : « Je préfère l’école à la maison. Je n’aime pas la maison. Il y a trop de fleurs. » A la ferme, la situation n’est pas moins sombre : des enfants de trois ans travaillent à décortiquer des baies.

    Dans la famille
    Il est clair que, jusqu’au XXe siècle, le capitalisme industriel dépendait de l’exploitation des enfants, moins chers à employer, moins capables de résister et, jusqu’à l’avènement de technologies plus sophistiquées, bien adaptés aux machines relativement simples en place à l’époque.


    En outre, l’autorité exercée par le patron était conforme aux principes patriarcaux de l’époque, que ce soit au sein de la famille ou même dans les plus grandes des nouvelles entreprises industrielles de l’époque, détenues en grande majorité par des familles, comme les aciéries d’Andrew Carnegie. Ce capitalisme familial a donné naissance à une alliance perverse entre patron et sous-traitants qui a transformé les enfants en travailleurs salariés miniatures.

    Pendant ce temps, les familles de la classe ouvrière étaient si gravement exploitées qu’elles avaient désespérément besoin des revenus de leurs enfants. En conséquence, à Philadelphie, au tournant du siècle, le travail des enfants représentait entre 28% et 33% du revenu des familles biparentales nées dans le pays Monthly Labor Review, « History of child labor in the United States—part 1 : little children working », January 2017) . Pour les immigrés irlandais et allemands, les chiffres étaient respectivement de 46% et 35%. Il n’est donc pas surprenant que les parents de la classe ouvrière se soient souvent opposés aux propositions de lois sur le travail des enfants. Comme l’a noté Karl Marx, le travailleur n’étant plus en mesure de subvenir à ses besoins, « il vend maintenant sa femme et son enfant, il devient un marchand d’esclaves ».

    Néanmoins, la résistance commence à s’organiser. Le sociologue et photographe Lewis Hine a scandalisé le pays avec des photos déchirantes d’enfants travaillant dans les usines et dans les mines. (Il put accéder à à ces lieux de travail en prétendant qu’il était un vendeur de bibles.) Mother Jones [1837-1930], la militante syndicaliste, a mené une « croisade des enfants » en 1903 au nom des 46 000 ouvriers du textile en grève à Philadelphie. Deux cents délégués des enfants travailleurs se sont rendus à la résidence du président Teddy Roosevelt [1901-1909] à Oyster Bay, Long Island, pour protester, mais le président s’est contenté de renvoyer la balle, affirmant que le travail des enfants relevait de la compétence des Etats et non de celle du gouvernement fédéral.

    Ici et là, des enfants tentent de s’enfuir. En réaction, les propriétaires ont commencé à entourer leurs usines de barbelés ou à faire travailler les enfants la nuit, lorsque leur peur de l’obscurité pouvait les empêcher de s’enfuir. Certaines des 146 femmes qui ont péri dans le tristement célèbre incendie de la Triangle Shirtwaist Factory en 1911 dans le Greenwich Village de Manhattan – les propriétaires de cette usine de confection avaient verrouillé les portes, obligeant les ouvrières prises au piège à sauter vers la mort depuis les fenêtres des étages supérieurs – n’avaient pas plus de 15 ans. Cette tragédie n’a fait que renforcer la colère grandissante à l’égard du travail des enfants.
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    Un comité national sur le travail des enfants a été créé en 1904. Pendant des années, il a fait pression sur les Etats pour qu’ils interdisent, ou du moins limitent, le travail des enfants. Les victoires, cependant, étaient souvent à la Pyrrhus, car les lois promulguées étaient invariablement faibles, comportaient des dizaines d’exemptions et étaient mal appliquées. Finalement, en 1916, une loi fédérale a été adoptée qui interdisait le travail des enfants partout. En 1918, cependant, la Cour suprême l’a déclarée inconstitutionnelle.

    En fait, ce n’est que dans les années 1930, après la Grande Dépression, que les conditions ont commencé à s’améliorer. Compte tenu de la dévastation économique, on pourrait supposer que la main-d’œuvre enfantine bon marché aurait été très prisée. Cependant, face à la pénurie d’emplois, les adultes, et en particulier les hommes, ont pris le dessus et ont commencé à effectuer des tâches autrefois réservées aux enfants. Au cours de ces mêmes années, le travail industriel a commencé à incorporer des machines de plus en plus complexes qui s’avéraient trop difficiles pour les jeunes enfants. Dans le même temps, l’âge de la scolarité obligatoire ne cessait de s’élever, limitant encore davantage le nombre d’enfants travailleurs disponibles.
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    Plus important encore, l’air du temps a changé. Le mouvement ouvrier insurrectionnel des années 1930 détestait l’idée même du travail des enfants. Les usines syndiquées et les industries entières étaient des zones interdites aux capitalistes qui cherchaient à exploiter les enfants. En 1938, avec le soutien des syndicats, l’administration du New Deal du président Franklin Roosevelt a finalement adopté la Fair Labor Standards Act qui, du moins en théorie, a mis fin au travail des enfants (bien qu’elle ait exempté le secteur agricole dans lequel ce type de main-d’œuvre restait courant).

    En outre, le New Deal de Roosevelt a transformé les mentalités à l’échelle du pays. Un sentiment d’égalitarisme économique, un nouveau respect pour la classe ouvrière et une méfiance sans bornes à l’égard de la caste des entreprises ont rendu le travail des enfants particulièrement répugnant. En outre, le New Deal a inauguré une longue ère de prospérité, avec notamment l’amélioration du niveau de vie de millions de travailleurs et travailleuses qui n’avaient plus besoin du travail de leurs enfants pour joindre les deux bouts.

    Retour vers le passé
    Il est d’autant plus étonnant de découvrir qu’un fléau, que l’on croyait banni, revit. Le capitalisme états-unien est un système internationalisé, ses réseaux s’étendent pratiquement partout. Aujourd’hui, on estime à 152 millions le nombre d’enfants au travail dans le monde. Bien sûr, tous ne sont pas employés directement ou même indirectement par des entreprises états-uniennes. Mais ces millions devraient certainement nous rappeler à quel point le capitalisme est redevenu profondément rétrograde, tant chez nous qu’ailleurs sur la planète.

    Les vantardises sur la puissance et la richesse de l’économie des Etats-Unis font partie du système de croyances et de la rhétorique des élites. Cependant, l’espérance de vie aux Etats-Unis, mesure fondamentale de la régression sociale, ne cesse de diminuer depuis des années. Les soins de santé sont non seulement inabordables pour des millions de personnes, mais leur qualité est devenue au mieux médiocre si l’on n’appartient pas au 1% supérieur. De même, les infrastructures du pays sont depuis longtemps en déclin, en raison de leur âge et de décennies de négligence.

    Il faut donc considérer les Etats-Unis comme un pays « développé » en proie au sous-développement et, dans ce contexte, le retour du travail des enfants est profondément symptomatique. Même avant la grande récession qui a suivi la crise financière de 2008, le niveau de vie avait baissé, en particulier pour des millions de travailleurs mis à mal par un tsunami de désindustrialisation qui a duré des décennies. Cette récession, qui a officiellement duré jusqu’en 2011, n’a fait qu’aggraver la situation. Elle a exercé une pression supplémentaire sur les coûts de la main-d’œuvre, tandis que le travail devenait de plus en plus précaire, de plus en plus dépourvu d’avantages sociaux et non syndiqué. Dans ces conditions, pourquoi ne pas se tourner vers une autre source de main-d’œuvre bon marché : les enfants ?

    Les plus vulnérables d’entre eux viennent de l’étranger, des migrants du Sud, fuyant des économies défaillantes souvent liées à l’exploitation et à la domination économiques états-uniennes. Si ce pays connaît aujourd’hui une crise frontalière – et c’est le cas – ses origines se trouvent de ce côté-ci de la frontière [et non pas avant tout en Amérique centrale ou au Mexique].

    La pandémie de Covid-19 de 2020-2022 a créé une brève pénurie de main-d’œuvre, qui est devenue un prétexte pour remettre les enfants au travail (même si le retour du travail des enfants est en fait antérieur à la pandémie). Il faut considérer ces enfants travailleurs au XXIe siècle comme un signe distinct de la pathologie sociale présente. Les Etats-Unis peuvent encore tyranniser certaines parties du monde, tout en faisant sans cesse étalage de leur puissance militaire. Mais chez eux, ils sont malades.

    #capitalisme #profits #travail des #enfants #exploitation #usa #Etats-Unis #élites #esclavage #ouvrières #ouvriers #migrants #Lewis_Hine

    Source originale : Tom Dispatch https://tomdispatch.com/caution-children-at-work
    Traduit de l’anglais par A l’encontre https://alencontre.org/ameriques/americnord/usa/le-retour-du-travail-des-enfants-est-le-dernier-signe-du-declin-des-etat

  • Lecture d’un extrait du livre « Sucre, journal d’une recherche » de Dorothée Elmiger (traduction de l’allemand par Marina Skalova et Camille Luscher), paru aux Éditions Zoé, en 2023.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/sucre-journal-d-une-recherche-de-dorothee-elmiger

    Dorothee Elmiger compose son récit par petits bouts sous la forme d’un journal de recherche d’une obsession, celle du sucre. Ces fragments provenant de différentes sources (citations, observations, réflexions, rêves, fiction biographique et faits historiques) sont agencés dans un apparent désordre, suivant un long cheminement de pensée et d’enquête, et selon des points de vue variés qui explorent le sujet sans jamais l’aborder frontalement, en se focalisant sur ce qu’il évoque ou provoque.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Langage, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Histoire, #Désir, #Colonisation, #Capitalisme, #Sucre (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_le_sucre_dorothe_e_elmiger.mp4

    http://www.editionszoe.ch/livre/sucre-journal-d-une-recherche

  • Indopacifique : l’impérialisme français manœuvre
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/07/26/indopacifique-limperialisme-francais-manoeuvre_725787.html

    Le 24 juillet, Macron a atterri en Nouvelle-Calédonie, première étape d’une tournée qui devait l’emmener au Vanuatu et en Papouasie-Nouvelle-Guinée, une tournée qualifiée d’ historique dans cette région du monde appelée maintenant #Indopacifique.

    La présence dans cette région est devenue une priorité stratégique de l’État français. Alors que la tension monte entre les #États-Unis et la #Chine, que les uns et les autres cherchent à enrôler les pays de la région dans des alliances économiques et militaires, l’impérialisme de second rang qu’est la France veut pouvoir jouer son propre jeu. En s’appuyant sur ses #colonies du #Pacifique, en particulier la Nouvelle-Calédonie et la #Polynésie, il se présente comme un acteur régional et une « puissance d’équilibre », à distance des États-Unis et de la Chine.

    Cette posture lui permet d’avoir l’oreille de certains États, comme l’Inde et l’Indonésie, qui ne veulent pas apparaître comme trop inféodés aux États-Unis, ce qui met les Dassault et autres Thales en bonne position pour vendre leurs armes. Ainsi Macron a reçu à l’Élysée le 14 juillet le président indien Modi au moment où son pays annonçait l’achat de 26 Rafale. De son côté, l’#Indonésie a acheté en 2022 des Mirage d’occasion, tout en s’engageant pour 42 Rafale. Au-delà des ventes d’armes, la possession de ces #territoires_d’Outre-mer permet à la France de s’intégrer à différents traités et forums du Pacifique, et d’obliger les États-Unis à lui faire une petite place dans leurs manœuvres militaires et diplomatiques.

    La #Nouvelle-Calédonie est donc pour l’#impérialisme français une pièce majeure. Outre les abondantes réserves de #nickel et sa vaste zone maritime, elle abrite une base militaire sur la route commerciale à destination de l’Australie et de la Nouvelle-Zélande, d’où partent les navires et avions militaires qui participent aux opérations conjointes avec les États-Unis. Ainsi celles du 19 juillet sur l’#île_de_Guam, baptisées #Elephant_Walk, ont rassemblé États-Unis, #Royaume-Uni, Canada, Australie, Japon et France.

    Il n’est donc pas dans les intentions de l’État français de relâcher ses liens avec ce qui lui reste de colonies. La présence de #Sonia_Backès, anti-indépendantiste caldoche, présidente de la province Sud, la plus riche de l’archipel, au gouvernement de Macron comme secrétaire d’État à la Citoyenneté, est plus qu’un symbole. Mardi 25 juillet, plusieurs dizaines de militants #kanaks se sont rassemblés pour dénoncer la colonisation de leur archipel et s’opposer à la modification du corps électoral, qui donnerait encore plus de poids aux #Caldoches, les colons et descendants de colons de métropole.

    Après avoir reçu les uns et les autres et leur avoir fait moultes promesses, Macron s’envolera vers le Vanuatu, un archipel devenu un enjeu entre États-Unis et Chine, où celle-ci construit de nombreuses infrastructures. Pour riposter, les États-Unis ont annoncé début avril l’ouverture d’une ambassade. Tout le #Pacifique_Sud est devenu le théâtre de cette rivalité croissante. En 2022, le ministre chinois des Affaires étrangères y a fait une tournée, proposant aux États insulaires des millions de dollars d’aides, un projet d’accord de libre-échange, des pactes de sécurité, comme celui passé avec les #îles_Salomon. Les États-Unis quant à eux rouvrent des ambassades et négocient des accords militaires.

    La #Papouasie-Nouvelle-Guinée, ancienne colonie australienne, pays parmi les plus pauvres du monde, était la dernière étape de Macron. En même temps, le secrétaire d’État américain devait se rendre aux Tonga voisines. Le #Pacifique est un nouvel enjeu pour les pays impérialistes. L’#impérialisme_français veut être de la partie.

  • L’eau : un bien commun pollué par le profit
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/07/26/leau-un-bien-commun-pollue-par-le-profit_725770.html

    Partout dans le monde, les pénuries d’eau, les rivières à sec, les nappes phréatiques vidées, les plaintes des agriculteurs et les déclarations lénifiantes des gouvernements mettent à la une le problème de l’approvisionnement en eau.

    En France, l’utilisation de l’eau se répartit ainsi : 57 % pour l’agriculture, 26 % pour l’#eau_potable, 12 % pour le refroidissement des centrales électriques et 5 % pour les industriels. Mais derrière ces chiffres se cachent d’autres réalités. Si nourrir la population est évidemment une priorité, près de la moitié de l’eau utilisée pour l’irrigation est destinée aux champs de maïs, un maïs dont les #trusts_agroalimentaires de France et d’Europe ont besoin dans le cadre de leur compétition mondiale.

    Au pompage des #nappes_phréatiques qu’opère ainsi l’#agriculture_capitaliste s’ajoute le rejet anarchique de toute une partie des #déchets animaliers, chimiques et autres, qui aboutit à la pollution dramatique des eaux. On le voit en Bretagne avec la #pollution de l’eau par les nitrates et en conséquence la prolifération des #algues_vertes.

    Le prix de l’eau n’est pas le même pour les agriculteurs et les industriels, d’un côté, et les particuliers de l’autre. L’eau d’irrigation, celle-là même qui assèche rivières et nappes phréatiques, revient entre 0,18 centimes et au maximum 2,13 centimes le mètre cube, suivant les moyens de captage utilisés. Le particulier, en revanche, paie un prix moyen qui varie entre 3,70 et 4,30 euros le mètre cube, auquel s’ajoutent de multiples taxes qui peuvent faire doubler le prix final. L’#eau à usage domestique revient donc 500 à 800 fois plus cher que celle dirigée vers l’irrigation ou des utilisations industrielles. Ainsi la dépollution des eaux contaminées par l’agriculture, mais aussi par les industriels, est en grande partie assurée par les compagnies privées délégataires de la fourniture d’eau potable. Elle est presque quasi exclusivement payée par les usagers individuels.

    Tout cela est à l’image d’une société pourrie par la recherche du profit à tout prix, l’irresponsabilité et l’incurie généralisées. Le bien public dont les uns et les autres osent se prévaloir est une offense à la simple vérité.

    #capitalisme

  • Les déchets d’emballages plastiques augmenteront de 46 % en Europe d’ici à 2030

    L’Union européenne a pourtant fixée pour objectif de réduire les déchets plastiques de 15 % d’ici à 2040 et adopté des directives concernant les plastiques à usage unique et les emballages.

    Les Nations unies ont [pourtant] adopté une résolution visant à mettre fin à la #pollution_plastique et à parvenir à un accord contraignant d’ici à 2024.

    (Les Échos)

    Bref : réglementation ou pas, c’est toujours le capital qui décide et a le dernier mot. Qu’on se le dise si on a encore des illusions réformistes.

    #capitalisme #réformisme

  • 3eme guerre mondiale : les préparatifs vont bon train

    27 milliards d’euros d’#exportations_d’armes françaises en 2022, selon un rapport annuel au Parlement consulté par l’AFP. Une performance historique comparée aux 11,7 milliards d’euros de l’année précédente, qui doit son succès à la hausse des #budgets_militaires et aux ventes de Rafale. Durant une année marquée par la guerre en Ukraine, les #dépenses_militaires des Etats n’ont jamais été aussi grandes depuis la guerre froide, selon l’Institut international de recherche sur la paix de Stockholm. En 2022, le budget militaire des Etats s’est élevé à 2 240 milliards de dollars (2,2 % du PIB mondial).

    (Libération)

    Plus généralement, les dépenses militaires mondiales n’ont jamais été aussi importantes depuis trente ans et la fin de la Guerre froide, selon l’Institut international de recherche sur la paix de Stockholm (Sipri).
    Dans un contexte international marqué par la guerre en Ukraine, les dépenses des Etats pour leurs armées et équipements se sont élevées à 2.240 milliards de dollars, soit 2,2 % du PIB mondial.

    (Les Échos)

    #militarisation #guerre #capitalisme

  • TikTok, le roi de l’économie de l’attention
    https://lesechos.fr/tech-medias/medias/tiktok-le-roi-de-leconomie-de-lattention-1965285

    […] Un public captif et captivé de plus d’un milliard d’utilisateurs mensuels actifs qui, sans être aussi valorisé par les annonceurs qu’une audience plus mûre au pouvoir d’achat supérieur, est prisé pour sa capacité à façonner les tendances de demain. « #TikTok est devenu le point de destination d’une génération sur Internet, souligne Alexandre Mahé, de Fabernovel. De toutes les plateformes, il reste celle où l’on peut toucher l’audience la plus jeune. » Les annonceurs apprécieront cette statistique : 46 % des sondés par Kantar affirment « ne pas se laisser distraire » lorsqu’ils sont sur TikTok.

    « Temps de cerveau humain disponible »

    Car le dernier-né des réseaux a réussi une véritable prouesse : capter l’intérêt des usagers dans un univers ultra-concurrentiel dans lequel « l’abondance d’informations crée une rareté de l’#attention », comme le théorisait, en 1971, le psychologue et économiste américain Herbert A. Simon. Le concept d’« économie de l’attention » n’est pas né d’hier. En 2004, Patrick Le Lay, PDG du groupe TF1, avait déjà reconnu que son métier consistait à « vendre à Coca-Cola du temps de cerveau humain disponible ». Les géants du numérique ont encore professionnalisé l’opération.

    « Si les plateformes ont des usages multiples et proposent des fonctionnalités distinctes, leur modèle économique est sensiblement le même : il consiste à transformer le temps que nous y passons en revenus publicitaires, expose Arthur Grimonpont dans ’#Algocratie, vivre libre à l’heure des #algorithmes', paru en 2022 chez Actes Sud. De là naît une compétition redoutable pour se partager une ressource rare et précieuse : notre #temps_d'attention. »

    Et TikTok exploite mieux que quiconque ce « nouveau pétrole » grâce à son algorithme, aussi mystérieux que surperformant, qui génère un flux infini de recommandations en rapport avec les centres d’intérêt de chaque usager à partir de ses « scrolls » passés, de ses interactions, des vidéos regardées jusqu’au bout ou même visionnées plusieurs fois, etc. […]

    (Les Échos)

    #capitalisme #capitalisme_de_surveillance

  • Extreme heat in North America, Europe and China in July 2023 made much more likely by climate change – World Weather Attribution
    https://www.worldweatherattribution.org/extreme-heat-in-north-america-europe-and-china-in-july-2023

    In line with what has been expected from past climate projections and IPCC reports these events are not rare anymore today. North America, Europe and China have experienced heatwaves increasingly frequently over the last years as a result of warming caused by human activities, hence the current heat waves are not rare in today’s climate with an event like the currently expected approximately once every 15 years in the US/Mexico region, once every 10 years in Southern Europe, and once in 5 years for China. 
    Without human induced climate change these heat events would however have been extremely rare. In China it would have been about a 1 in 250 year event while maximum heat like in July 2023 would have been virtually impossible to occur in the US/Mexico region and Southern Europe if humans had not warmed the planet by burning fossil fuels. 
    In all the regions a heatwave of the same likelihood as the one observed today would have been significantly cooler in a world without climate change. Similar to previous studies we found that the heatwaves defined above are 2.5°C warmer in Southern Europe, 2°C warmer in North America and about 1°C in China in today’s climate than they would have been if it was not for human-induced climate change. 
    Unless the world rapidly stops burning fossil fuels, these events will become even more common and the world will experience heatwaves that are even hotter and longer-lasting. A heatwave like the recent ones would occur every 2-5 years in a world that is 2°C warmer than the preindustrial climate.
    Heat action plans are increasingly being implemented across all three regions and there is evidence that they lead to reduced heat-related mortality. Furthermore, cities that have urban planning for extreme heat tend to be cooler and reduce the urban heat island effect. There is an urgent need for an accelerated roll-out of heat action plans in light of increasing vulnerability driven by the intersecting trends of climate change, population ageing, and urbanisation.

    #climat #pollution #vagues_de_chaleur #canicule #capitalocène

  • Half of U.S. beaches are contaminated with poop
    https://www.zmescience.com/science/news-science/half-of-u-s-beaches-are-contaminated-with-poop

    Thankfully, steps are being taken to address the issue. In 2021, Congress passed the Infrastructure Investment and Jobs Act, also referred to as the bipartisan infrastructure law. This significant legislation allocates nearly $25 billion toward sewage and stormwater projects aimed at protecting our water. However, it may not be enough. To put this into perspective, the Environmental Protection Agency (EPA) estimates that the actual requirement for wastewater infrastructure is a substantial $271 billion.

    #états-unis #plages #caca

  • A propos de modélisation du changement climatique, sujet abordé un peu ici : https://seenthis.net/messages/1010710
    Un gros dossier proposé par Christophe Cassou (directeur de Recherche @CNRS, climatologue, auteur principal 6e rapport #GIEC/@IPCC_CH 2017-22)

    Thread by cassouman40 on Thread Reader App – Thread Reader App
    https://threadreaderapp.com/thread/1682449327787069443.html

    Nous ne vivons pas QUE le #ChangementClimatique (CC) dû aux activités humaines.
    Ns vivons le CC➕la variabilité interne (fluctuations spontanées du climat).
    Parlons variabilité interne dans ce long🧵afin de mieux comprendre les #records 🥵actuels régionalement&globalement !
    (1/70)

    C’est technique mais bien expliqué et avec de bonnes illustrations. Je l’ai juste survolé mais je laisse « l’intelligence collective » de ST s’en faire une idée plus précise. Perso, j’y reviendrai dans la journée.

    #changement_climatique #variabilité_interne #causes_anthropiques

  • Gerhard Seyfrieds Deutschlandkarte 1990
    http://gerhardseyfried.de/shop/plakat-deutschlandkarte

    Voici un précurseur de la cartographie radicale.

    ArtNr.: 1003


    Rest- und Rost-Berlin, Bankfurt, Paderborniert – jeder Ort auf der alternativen Deutschlandkarte von Gerhard Seyfried hat seinen richtigen Namen verpasst bekommen. Und wenn schon was mit Deutschland im Zimmer hängen muss, dann diese Karte, denn über die kann man herzlich lachen. Gezeichnet 1990, direkt nach der Wiedervereinigung, ist sie passend mit »Neues Deutschland« betitelt. Mittlerweile ein echter Klassiker. Format DIN A1, leicht in der Höhe beschnitten. Druck einfarbig schwarz auf 135g Bilderdruckpapier. Geliefert wird sie gerollt.
    €18,00 zzgl. Versand
    inkl. 7% MwSt.

    #Allemagne #cartographie_radicale

  • Geldpolitische Mythen
    https://www.jungewelt.de/artikel/455239.geldpolitische-mythen.html

    Le récit monétariste sur les raisoms de l’inflation est une série de mensonges qui servent à justifier une politique qui nous appauvrit et fait augmenter les profits des propriétaires de commerces et de l’imdustrie.

    21.7.2023 von Raphaël Schmeller - Vor genau einem Jahr hat die EZB eine Kehrtwende gemacht: Nach elf Jahren beendete sie ihre lockere Geldpolitik und erhöhte die Zinsen. Nach einer ganzen Reihe weiterer Erhöhungen liegt der Leitzins inzwischen bei satten vier Prozent. Offiziell sollte auf diese Weise der Preisauftrieb bekämpft werden. Aber ein Jahr nach der Zinswende ist die Inflation mit 5,5 Prozent in der Euro-Zone weiter hoch – die straffe Geldpolitik ist also alles andere als erfolgreich.

    Dafür sind die Nebenwirkungen deutlich spürbar. Weil sich Investitionen verteuern, werden sie drastisch zurückgefahren. Und so wird aktuell etwa viel zuwenig gebaut, um die Nachfrage nach günstigem Wohnraum zu bedienen.

    Warum trotz dieser Zwischenbilanz weiter an Zinserhöhungen festgehalten wird? Weil die bürgerliche Ökonomie auf geldpolitischen Mythen beruht. Da wird etwa behauptet, die Inflation sei darauf zurückzuführen, dass eine allzu große Geldmenge im Umlauf sei. Man müsse diese durch höhere Zinsen reduzieren. Zahlreiche Beispiele zeigen jedoch, dass Inflation gerade kein »intrinsisch monetäres Phänomen« ist und auch nicht generell durch die Geldpolitik kontrolliert werden kann. Man könnte hier Japan zwischen 1994 und 2007 anführen, wo sich die Geldmenge um mehr als 200 Prozent erhöhte, der Leitzins von zwei auf null Prozent fiel, die Verbraucherpreise aber um drei Prozent sanken. Auch die expansive Geldpolitik der EZB zwischen 2015 und 2019 hat keinesfalls verhindert, dass die Inflation unter dem offiziellen Zielwert von zwei Prozent blieb.

    Was die Irrlehren der Ökonomie verschleiern: In Wahrheit ist die Inflation profitgetrieben. Eine kürzlich veröffentlichte Studie aus Frankreich zeigt, dass die Lebensmittelinflation dort im ersten Quartal 2023 zu 70 Prozent auf die Erhöhung von Profitmargen zurückzuführen war. Konzerne mit Marktmacht nutzen einfach die Gunst der Stunde für Krisengewinne durch sonst nicht erklärbare Preiserhöhungen. Selbst der IWF hat diese »Profit-Preis-Spirale« in einer Notiz Ende Juni bestätigt.

    Eine weitere dreiste Lüge führender Ökonomen ist, dass Lohnerhöhungen genau wie staatliche Entlastungspakete oder Investitionen die Inflation immer nur weiter anheizen würden. Das Gegenteil ist der Fall. Seit Inkrafttreten des 750 Milliarden Dollar schweren »Inflation Reduction Act« in den USA ist die Teuerung dort stark zurückgegangen. Auch der Blick in die Euro-Zone zeigt: Wo größere Entlastungspakete geschnürt wurden, fiel die Inflation deutlicher, in Spanien etwa unter zwei Prozent. In Ländern, in denen es weniger Unterstützung gab, blieb die Teuerungsrate weiter hoch, ein Beispiel wäre die BRD mit 6,4 Prozent.

    Bei den Zinserhöhungen der EZB geht es weniger um den Kampf gegen Inflation. In erster Linie helfen sie, Sozialkürzungen zu rechtfertigen und von naheliegenden Lösungen abzulenken wie der Besteuerung von Profiten oder der Erhöhung von Löhnen.

    #capiralisme #inflation