• Il campo di #Nea_Kavala nel nord della Grecia

    Dove «le persone non hanno spazio per esistere»

    Il Nord della Grecia è spesso dimenticato ma, non meno delle isole, è un luogo in cui si consuma l’ipocrisia europea dei campi come strumento di gestione del fenomeno migratorio. Un esempio è ciò che accade nel campo di Nea Kavala, vicino a Polykastro, a nord di Salonicco, nonostante la situazione sia critica ovunque.

    Durante l’estate 2023, come in altri stati europei, gli arrivi di persone in movimento si sono moltiplicati. Ad ora, secondo l’UNHCR 2, la popolazione migrante ufficialmente in ingresso in Grecia è stata di 42.343 persone, quando l’anno scorso gli arrivi ufficiali registrati sono stati di poco meno di 20.000 in tutto l’anno. Inoltre la Grecia, sotto pressione per le alluvioni avvenute a inizio Settembre, ha dovuto svuotare campi inizialmente pensati per richiedenti asilo per poter far stare la popolazione greca senza più un’abitazione, come ad esempio è avvenuto nel campo di Klidi Sintiki.

    Di conseguenza, da inizio Luglio 2023 la popolazione del campo di Nea Kavala 3 è aumenta drasticamente, raggiungendo quasi la massima capacità di più di 1.500 persone distribuite in 280 container. Nonostante il governo greco stia affrontando il fenomeno migratorio da diversi anni, viene sempre considerato come un’emergenza e le soluzioni governative adottate sono precarie e non rispettose dei diritti umani. Non solo vengono messi fino a otto persone, incuranti delle nazionalità, negli stessi container di 24 mq pensati per massimo 6 persone, ma vengono anche mischiate persone sane con malate, famiglie con uomini singoli… ovviamente alimentando tensioni che si potrebbero evitare.

    Vivere in un campo in Grecia non è una questione temporanea di qualche giorno, ma possono volerci mesi e anni in base a quante decisioni negative si ricevono, e in base alla propria nazionalità e un po’ a fortuna, dato che la modalità di esaminare le richieste di asilo in Grecia presenta molte carenze e incongruenze. Le persone vedono la Grecia come passaggio, il loro obiettivo finale non è quello di rimanere, ma di ottenere i documenti di viaggio per poter chiedere asilo in un altro paese europeo, evitando così di percorrere la rotta balcanica. Nonostante gli accordi di Dublino, le persone spesso riescono a essere poi accolte in altri paesi europei in quanto riescono a dimostrare che le condizioni di vita nei campi greci sono inumane e degradanti.

    Per descrivere com’è il campo di Nea Kavala mi risuonano le parole di Shahram Khosravi in Io sono confine:

    «E’ il campo stesso a produrre il profugo, o la sua condizione (…) Nessuna delle mie esperienze passate- la fustigazione, il carcere, un anno di vagabondaggi illegali- era riuscita a privarmi della mia dignità. E’ stato il campo a togliermela. Fino ad allora avevo perso uno stato di riferimento con i suoi diritti di cittadinanza, ma non avevo perso la voglia di vivere, la forza di volontà e il coraggio. ll campo mi ha tolto tutto questo».

    Tra i vari effetti collaterali del sovraffollamento c’è stato anche il mancato inizio della scuola. Mentre a Settembre i bambini greci hanno iniziato a frequentarla, per chi vive nel campo di Nea Kavala si è dovuto aspettare fino a fine Ottobre. Oltre ad essere una discriminazione, i bambini nel campo non fanno nulla. Le ONG presenti sul territorio cercano di offrire lezioni e spazi gioco, ma non è abbastanza per coprire il bisogno e per poter garantire continuità educativa.

    Il campo è comunque pensato per non essere visto dalla popolazione, per essere lontano. 6 km lo separano dal centro di Polykastro in cui si trovano tutti i servizi (guardia medica, supermercato, fermata del bus, scuole…) e non c’è un servizio di trasporto pubblico disponibile. L’unica possibilità è utilizzare un taxi o una bicicletta, ma nel primo caso è costoso, nel secondo, la domanda è così alta che non ce ne sono abbastanza per tutti, nonostante l’ONG Open Cultural Center offra un servizio di noleggio 4.

    Il campo è circondato da un muro di cemento alto 3 metri (intervallato da porte di metallo), telecamere e sicurezza che controlla in entrata e in uscita e sembra più simile ad una prigione che ad un rifugio. Ma il problema non è solo questo, è la stessa esistenza e la funzione dei campi.

    Da Settembre il governo greco ha iniziato a impedire l’entrata al campo a chi avesse ottenuto i documenti o a chi, dopo 3 decisioni negative, avrebbe dovuto lasciare la Grecia. In Grecia, quando la richiesta di asilo viene accolta in modo positivo, si ottengono documenti che permettono di viaggiare in Europa e si finisce di ricevere alcuni benefici riservati ai richiedenti asilo, come ad esempio il pocket money o il cibo.

    I programmi che aiutano l’inclusione sono pochi o inesistenti, quindi le persone si ritrovano spaesate e senza sapere cosa fare. Fino a prima di Settembre, alle persone veniva almeno lasciata la possibilità di rimanere nel campo per qualche settimana in più, in modo da potersi organizzare per muoversi in un altro paese o per cercare un’ altra soluzione abitativa in Grecia.

    Attualmente invece, non solo si nega la possibilità di restare nel campo per qualche tempo, ma l’impossibilità di rientrare nel campo è comunicata senza preavviso, e senza dare l’opportunità di entrare per prendere i propri beni personali. Sono appena tornata da qualche mese lì, e nonostante diverse volte ho assistito a scene di totale disrispetto dei diritti umani fuori dal campo, ne ho una stampata in testa. Perché si tratta di persone.

    Quel pomeriggio avevamo organizzato una caccia al tesoro con i bambini che vengono al centro dell’ONG, era stato molto bello e divertente per tutti. Come ogni giorno, a fine giornata, i bambini risalgono sul pullman che Open Cultural Center mette loro a disposizione per tornare al campo di Nea Kavala. Appena arrivati tutti scendono di corsa, i più grandi si mettono in autonomia in fila per i controlli mentre i più piccoli corrono in braccio ai genitori che li aspettano e si preparano a rientrare insieme. Mi fermo a scambiare due chiacchiere con Said, perchè è il primo giorno che la piccola Nura è venuta al centro, e discutiamo di come sia andata. Lo saluto, lui si gira, fa per rientrare e la security controlla il documento ma dice no, non siete più nella lista, non potete entrare. Ma come, ci deve essere un errore, sono uscito 10 minuti fa per prendere la bambina. No, avete ottenuto i documenti e non avete più diritto a star qui.

    In realtà Said e Sana, sua moglie, hanno i documenti, ma non hanno ancora lasciato la Grecia perchè la piccola Roya, appena nata, non li ha. E’ quindi impossibile per loro andarsene. Said cerca di spiegarlo alla security ma niente da fare. Gli viene anche detto che potrebbero lasciarlo entrare, ma ci sono telecamere e se qualcuno dovesse vedere poi l’operatore della security perderebbe il posto di lavoro.

    Nel frattempo Nura intuisce qualcosa e inizia a piangere, perché la mamma e la sorella son dentro, ma niente da fare li han lasciati fuori dal campo. Fra l’altro Said è in infradito e maniche corte, nonostante faccia freddo, perchè pensava di essere uscito per soli 5 minuti, non per sempre. In tutto ciò io guardo la scena, cerco di supportare Said ma sono abbastanza scioccata, non ci credo che quello che vedo sta succedendo davvero.

    Alla fine Said, impotente, decide di passare la notte in un Hotel a Polykastro, nonostante sia costoso, perchè fa già tanto freddo per dormire all’aperto nei prati vicino al campo, soprattutto con una bambina di 4 anni. Prima di salutarci, lui che per tutto il tempo era stato fermo e deciso e sorridente per non far preoccupare la piccola, inizia a piangere e mi dice, ma lo sai che in Afghanistan facevo il traduttore per l’esercito greco? È per questo che me ne sono dovuto andare quando sono arrivati i Talebani.

    Lascio Said, Sana e Nura quando ormai si è fatto buio. Io, con il mio carico di privilegio bianco ed europeo e il passaporto in tasca, torno a casa, sono disgustata.

    Mi chiedo per quanto ancora le politiche EU e i governi continueranno a violare sistematicamente i diritti e la dignità delle persone in movimento. Mi chiedo fino a che punto sapranno spingersi, fino a quando sarà così buio.

    https://www.meltingpot.org/2023/12/il-campo-di-nea-kavala-nel-nord-della-grecia

    #Grèce #camps_de_réfugiés #réfugiés #asile #migrations #Polykastro #containers

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • Get out ! Zur Situation von Geflüchteten in Bulgarien
    (publié en 2020, ajouté ici pour archivage)

    „Bulgaria is very bad“ ist eine typische Aussage jener, die auf ihrer Flucht bereits etliche Länder durchquert haben. Der vorliegende Bericht geht der Frage nach, warum Bulgarien seit Langem einen extrem schlechten Ruf unter den Geflüchteten genießt.

    Hierzu wird kenntnisreich die massive Gewalt nachgezeichnet, die Bulgarien im Zuge sogenannter „Push-Backs“ anwendet. Auch auf die intensive Kooperation mit der Türkei beim Schutz der gemeinsamen Grenze wird eingegangen. Da die Inhaftierung von Geflüchteten in Bulgarien obligatorisch ist, werden überdies die rechtlichen Hintergründe hierfür und die miserablen Haftbedingungen beschrieben. Weiterhin wird das bulgarische Asylsystem thematisiert und auf die besondere Situation von Geflüchteten eingegangen, die im Rahmen der Dublin-Verordnung nach Bulgarien abgeschoben wurden. Das bulgarische Integrationskonzept, das faktisch nur auf dem Papier existiert, wird ebenfalls beleuchtet.

    https://bordermonitoring.eu/berichte/2020-get-out
    #migrations #asile #réfugiés #frontières #rapport #Bulgarie #push-backs #refoulements #pull-backs #violence #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #milices #extrême_droite #enfermement #Dublin #renvois_Dublin #droit_d'asile #encampement #camps

  • A Calais et à Dunkerque, plusieurs camps de migrants évacués par la police
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/30/a-calais-et-a-dunkerque-plusieurs-camps-de-migrants-evacues-par-la-police_62

    A Calais et à Dunkerque, plusieurs camps de migrants évacués par la police
    La préfecture du Pas-de-Calais a fait valoir la nécessité de mettre à l’abri les personnes à l’approche de l’hiver. Les associations dénoncent des « expulsions forcées ».
    Le Monde avec AFP
    Des centaines de candidats à l’exil ont été à nouveau évacués, jeudi 30 novembre à l’aube, de plusieurs lieux de vie autour de Calais et de Dunkerque, où ils campent dans des conditions exécrables avec l’espoir de se rendre au Royaume-Uni. L’association Utopia 56 a dénoncé sur X une « expulsion d’une ampleur jamais vu », rapportant des cas de personnes « forcées de monter dans des bus et expulsées vers l’ensemble du territoire français ».
    A Loon-Plage près de Dunkerque (Nord), comme dans les campements près de Calais (Pas-de-Calais), des bus ont été mobilisés pour emmener les migrants vers des abris d’urgence à l’écart du littoral. La préfecture du Pas-de-Calais a fait valoir la nécessité de mettre à l’abri les personnes à l’approche de l’hiver. Dans les campements détrempés par les pluies diluviennes de novembre, les températures sont actuellement négatives la nuit. « On va avoir plusieurs jours et probablement plusieurs semaines où il fera très froid, par conséquent la situation de vie sur les camps est extrêmement précaire », a souligné François-Xavier Bieuville, sous-préfet de Dunkerque. « L’objectif est de sauver les vies », a-t-il ajouté, alors que les tentatives de traversées se poursuivent malgré les conditions météo.
    Deux personnes ont péri dans la Manche le 22 novembre, lorsque leur embarcation a fait naufrage à quelques centaines de mètres du rivage, deux ans presque jour pour jour après le drame qui avait coûté la vie à vingt-sept migrants en 2021.Les associations dénoncent quant à elles des « expulsions forcées », voyant dans ces opérations récurrentes une volonté d’épuiser les personnes en transit.
    L’évêque d’Arras, Mgr Olivier Leborgne, qui s’est rendu sur place, a souligné que les évacuations se font sans prévenir, ni faire de diagnostic social, déplorant que « la seule porte d’entrée est sécuritaire ». « Est-ce qu’elle pourrait être humanitaire ? D’abord est-ce qu’on peut respecter le droit ? », a-t-il lancé, rappelant les propos du pape à Marseille sur le risque de « naufrage de civilisation » dans la peur et l’indifférence opposées au phénomène migratoire.A Calais, 400 à 800 personnes ont été délogées, a indiqué le Secours catholique, dénonçant des « expulsions forcées » car certaines de ces personnes ont été poursuivies, voire contraintes de monter dans des bus. Véronique Devise, présidente du Secours catholique qui était sur place jeudi, a demandé « une ouverture du plan Grand Froid de façon plus souple », pour héberger les migrants sans les expulser.
    Le Secours catholique appelle également à multiplier les lieux d’accueil de jour – alors qu’ils sont seuls à gérer un lieu de ce type actuellement –, pour faciliter l’accès au droit des migrants, ainsi qu’à augmenter le nombre des lieux d’hébergement d’urgence et à mieux protéger l’enfance. Après le passage des forces de l’ordre, des équipes de nettoyage mobilisées par l’Etat ont vidé des tentes installées dans un bosquet sur le campement de la rue de Judée. (...) Selon une militante de l’association d’aide aux exilés Calais Food Collective, « on a réussi à arriver avant la police et à réveiller des personnes, mais ils n’ont pas forcément pu rassembler leurs affaires ». Une grande tranchée fraîchement creusée borde le terrain, pour empêcher les distributions alimentaires, selon le collectif. Un des campements évacués, celui de la Turquerie, près de Calais, avait déjà été évacué le 10 octobre, ainsi qu’en mai et en juin derniers.

    #Covid-19#migrant#migration#france#calais#dunkerque#campement#expulsion#og#humanitaire#hebergement#migrationirreguliere

  • L’agriculture à la loupe
    https://tagrawlaineqqiqi.wordpress.com/2023/11/30/lagriculture-a-la-loupe

    Il y a mille choses qui m’inquiètent concernant l’avenir de notre #Agriculture, et pouvoir observer la manière dont sont structurées les exploitations ajoute des sujets d’inquiétudes supplémentaires. J’vous explique. Il existe plusieurs statuts possibles pour une exploitation agricole : l’exploitation micro-agricole (ça c’est que des bio débarqués de la ville), équivalent de la micro-entreprise, l’exploitation […]

    #Article #chroniques_agricoles #Ruralité #élevage #campagne
    https://0.gravatar.com/avatar/cd5bf583a4f6b14e8793f123f6473b33bb560651f18847079e51b3bcad719755?s=96&d=

  • Les #expulsions ont des conséquences délétères sur la vie des #enfants

    L’Observatoire des expulsions des lieux de vie informels dénonce, dans son rapport annuel, des opérations qui compromettent la #scolarité des enfants et le #suivi_médical des #femmes_enceintes, à cause de l’#errance forcée qu’elles provoquent.

    Des femmes enceintes qui ne peuvent pas bénéficier d’un suivi médical continu, des enfants brutalement retirés de l’école, des mineur·es isolé·es démuni·es et traumatisé·es : les conséquences des expulsions des personnes occupant des lieux de vie informels sont multiples et délétères.

    C’est la conclusion du cinquième rapport annuel de l’Observatoire des expulsions de lieux de vie informels (#squats, #bidonvilles et #campements, #caravanes, #voitures ou camions) publié mardi 28 novembre. Il regroupe huit associations indépendantes, parmi lesquelles le Collectif national droits de l’homme Romeurope, la Fondation Abbé Pierre ou encore Médecins du monde.

    Elles ont recensé, entre le 1er novembre 2022 et le 31 octobre 2023, date du début de la trêve hivernale, 1 111 expulsions sur le territoire national, dont 729 pour le littoral nord (Calais, Pas-de-Calais, Dunkerque dans le Nord).

    Si les expulsions sur le littoral nord ont diminué de 58 %, elles ont augmenté de 24 % en un an sur le reste du territoire, outremer inclus, et concerné en moyenne 74 personnes chaque jour.

    85 % de ces expulsions sont dites « sèches », car elles n’ont donné lieu à aucune solution d’hébergement ou de relogement. 14 % ont donné lieu à des mises à l’abri pour au moins une partie des habitant·es. 1 % seulement ont donné lieu à un dispositif d’insertion, un hébergement stable ou un logement, pour au moins une partie des habitant·es, détaille l’Observatoire.

    L’organisme explique qu’il est difficile d’avoir des données précises sur les enfants mais compte cette année 5 531 enfants expulsés (contre 3 212 l’année précédente). Ce chiffre est très largement sous-estimé, a-t-il précisé lors de la conférence de presse de présentation du rapport.
    Le suivi compromis des grossesses

    Cette année, l’Observatoire s’est focalisé sur les conséquences concrètes des expulsions sur la vie des enfants et de leurs mères. Il rappelle que « la précarité, et en particulier l’absence de logement, est depuis longtemps identifiée par la littérature scientifique comme un facteur de risque lors de la grossesse ».

    Les chiffres sont éloquents. Une femme enceinte devrait avoir accès à sept consultations prénatales et à trois échographies au moins, rappelle Médecins du monde.

    Or, plus d’une femme enceinte sur trois rencontrées par les équipes des programmes fixes de Médecins du monde en France en 2022 présente un retard de suivi de grossesse, comme la quasi-totalité des femmes enceintes rencontrées par le programme de médiation en santé du Comité pour la santé des exilés (Comede) en Île-de-France. Un écart majeur avec la population générale, parmi laquelle moins de 5 % des personnes enceintes sont dans ce cas.

    Les associations soulignent que les suivis médicaux et de grossesse sont déjà erratiques d’ordinaire. Notamment parce que l’ouverture de droits à une couverture maladie exige une domiciliation administrative. Les démarches, surtout avec la barrière de la langue, peuvent être délicates. Certaines personnes peuvent aussi perdre des papiers dans la cohue des expulsions impromptues.

    Ces dernières insécurisent aussi les futures mères, qui cherchent « en premier lieu à répondre à des besoins de stricte survie », quitte à sacrifier leur santé.

    « Il y a des personnes qu’on va perdre de vue à la suite des expulsions. Elles vont se réinstaller beaucoup plus loin, dans une autre commune, à l’autre bout d’une métropole, a détaillé Antoine Bazin, coordinateur Médecins du monde à Toulouse, devant la presse. Et les suivis par les PMI [centres de Protection maternelle et infantile – ndlr] de secteur, par exemple, pour les femmes enceintes, les suivis par des médecins traitants si on peut en avoir, ou par des centres de santé, vont être rendus plus compliqués parce que les personnes vont être isolées. »

    Les expulsions compliquent aussi le suivi de pathologies. Dans son rapport, l’Observatoire rapporte comment une opération de dépistage de la tuberculose dans un bidonville du Val-d’Oise, au printemps 2023, après la découverte d’un cas sur le lieu de vie et quatre hospitalisations d’enfants, a été compromise par des expulsions successives.

    Même chose pour les campagnes de vaccination ou le repérage des cas de saturnisme, dus à une exposition au plomb pouvant affecter le développement psychomoteur des enfants.

    Par ailleurs, la vie quotidienne d’un enfant vivant dans un lieu de vie informel est aussi bouleversée par l’instabilité provoquée par les expulsions. La scolarité de ces enfants mais aussi leur équilibre mental et psychique sont ébranlés. En 2022, l’Unicef avait déjà alerté sur l’état de santé mentale dégradé des enfants sans domicile.

    Les expulsions sont de plus en plus violentes (voir l’opération « Wuambushu » à Mayotte), dénonce l’Observatoire. Antoine Bazin, de Médecins du monde, explique que les enfants sont les « acteurs passifs » de ces événements et vont vivre la violence intrinsèque au déroulement des opérations d’expulsions. En « vraies éponges », ils vont en conserver des souvenirs qui peuvent avoir des conséquences sur leur construction psychique.

    Julie Bremont, représentante du Comité de pilotage interassociatif MNA Nord-Littoral, confirme : « Les expulsions sont en elles-mêmes un moment très générateur d’anxiété et de peur pour les jeunes. Déjà, de par la violence du dispositif, avec des dizaines de camions de CRS et des policiers en uniforme. Ces opérations d’expulsion sont très souvent accompagnées de violences verbales et physiques. »
    Décrochages scolaires

    De son côté, Célia Mougel, coordinatrice de l’Observatoire des expulsions, souligne que 77 % des expulsions recensées (en dehors du Nord littoral) ont eu lieu pendant l’année scolaire, ce qui, évidemment, produit des décrochages, des déscolarisations, notamment quand on sait que pour réinscrire un enfant, il faut au moins six mois. Si les municipalités coopèrent, ce qui n’est pas toujours le cas.

    Contraindre ces familles à quitter leur lieu de vie et leur point d’ancrage entraîne des effets à long terme sur les enfants. Ils rencontrent alors des difficultés dans la continuité pédagogique, un sentiment d’exclusion ou encore des problèmes d’apprentissage.

    Le cas d’un collégien, Alex, raconté dans le rapport, le prouve. Le garçon aura vécu trois expulsions qui lui auront fait perdre une année scolaire entière. Aujourd’hui, à 12 ans, Alex et sa famille dorment sous un pont en Seine-Saint-Denis et il n’est plus scolarisé.

    Pour toutes ces raisons, l’Observatoire enjoint aux pouvoirs publics de suspendre les expulsions pendant l’année scolaire, pour éviter l’exclusion scolaire et le décrochage des enfants en cours d’année. Manuel Domergue, de la Fondation Abbé Pierre, considère qu’il faudrait aussi déployer davantage de médiateurs scolaires dans ces lieux de vie informels.

    Le reste du temps, les associations estiment qu’aucune expulsion ne devrait avoir lieu sans qu’un diagnostic social préliminaire (l’instruction du 25 janvier 2018 qui le recommandait n’est pas respectée), un accompagnement social global et des solutions de relogement dignes, adaptées et pérennes n’aient été mis en place. Cela pour permettre « une sortie des bidonvilles par le haut ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/281123/les-expulsions-ont-des-consequences-deleteres-sur-la-vie-des-enfants
    #enfance #mineurs #statistiques #chiffres #2022 #expulsions_sèches #santé_mentale #SDF #sans-abrisme #sans-abris #déscolarisation

  • LA CONDITION DES PERSONNES EXILÉES A PARIS : 8 ANNÉES DE VIOLENCES POLICIÈRES ET INSTITUTIONNELLES

    Trois ans après l’expulsion brutale d’un campement de 500 tentes #place_de_la_République, nous vous partageons le premier #rapport du #CAD (#Collectif_Accès_au_Droit), qui documente les violences policières envers les personnes exilées à Paris et dans sa proche périphérie.

    Ce travail, basé sur le recueil de 448 #témoignages recensés depuis 2015 et sur une enquête flash réalisée ces dernières semaines auprès de 103 personnes exilées, démontre que ces violences constituent depuis 8 ans la condition des personnes exilées à Paris.

    https://collectifaccesaudroit.org/rapport

    #sans-papiers #migrations #France #violences_policières #harcèlement #violence #violence_systémique #violences_institutionnelles #campement #destruction #nasse #nasse_mobile #Paris

    ping @isskein @karine4

  • Chez Yvette
    https://tagrawlaineqqiqi.wordpress.com/2023/11/25/chez-yvette

    Mon boulot d’en ce moment consiste à arpenter les exploitations agricoles pour faire du recueil de données chiffrées à visée statistique. Je vais donc de ferme en ferme, je pose des questions à base d’hectares, de tracteurs, de labour et de gestion des déchets et c’est super-rigolo. Pas tant les hectares, les tracteurs et le […]

    #Agriculture #Portrait #Ruralité #vaches #Bretagne #campagne #portrait
    https://0.gravatar.com/avatar/cd5bf583a4f6b14e8793f123f6473b33bb560651f18847079e51b3bcad719755?s=96&d=

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

    • Le Pakistan déclenche une vague d’abus contre les Afghans

      Les nouveaux efforts déployés par les autorités pakistanaises pour « convaincre » les Afghans de retourner en Afghanistan peuvent se résumer en un mot : abus.

      La police et d’autres fonctionnaires ont procédé à des #détentions_massives, à des #raids nocturnes et à des #passages_à_tabac contre des Afghans. Ils ont #saisi_des_biens et du bétail et détruit des maisons au bulldozer. Ils ont également exigé des #pots-de-vin, confisqué des bijoux et détruit des documents d’identité. La #police pakistanaise a parfois harcelé sexuellement des femmes et des filles afghanes et les a menacées d’#agression_sexuelle.

      Cette vague de #violence vise à pousser les réfugiés et les demandeurs d’asile afghans à quitter le Pakistan. Les #déportations que nous avons précédemment évoquées ici sont maintenant plus nombreuses – quelque 20 000 personnes ont été déportées depuis la mi-septembre. Les menaces et les abus en ont chassé bien plus : environ 355 000.

      Tout cela est en totale contradiction avec les obligations internationales du Pakistan de ne pas renvoyer de force des personnes vers des pays où elles risquent clairement d’être torturées ou persécutées.

      Parmi les personnes expulsées ou contraintes de partir figurent des personnes qui risqueraient d’être persécutées en Afghanistan, notamment des femmes et des filles, des défenseurs des droits humains, des journalistes et d’anciens fonctionnaires qui ont fui l’Afghanistan après la prise de pouvoir par les talibans en août 2021.

      Certaines des personnes menacées s’étaient vu promettre une réinstallation aux États-Unis, au Royaume-Uni, en Allemagne et au Canada, mais les procédures de #réinstallation n’avancent pas assez vite. Ces gouvernements doivent agir.

      L’arrivée de centaines de milliers de personnes en Afghanistan « ne pouvait pas arriver à un pire moment », comme l’a déclaré le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés. Le pays est confronté à une crise économique durable qui a laissé les deux tiers de la population dans le besoin d’une assistance humanitaire. Et maintenant, l’hiver s’installe.

      Les nouveaux arrivants n’ont presque rien, car les autorités pakistanaises ont interdit aux Afghans de retirer plus de 50 000 roupies pakistanaises (175 dollars) chacun. Les agences humanitaires ont fait état de pénuries de tentes et d’autres services de base pour les nouveaux arrivants.

      Forcer des personnes à vivre dans des conditions qui mettent leur vie en danger en Afghanistan est inadmissible. Les autorités pakistanaises ont déclenché une vague d’#abus et mis en danger des centaines de milliers de personnes. Elles doivent faire marche arrière. Rapidement.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/11/29/le-pakistan-declenche-une-vague-dabus-contre-les-afghans
      #destruction #harcèlement

  • ★ Il n’est de juste guerre que la guerre de classe (OCL nov. 2022)

    « Lorsque deux impérialismes s’affrontent, grande est la tentation de choisir son camp.
    Il y a ceux qui le font clairement en fonction de leurs options idéologiques et de leur intérêt (ou de ce qu’ils croient être leur intérêt). Il y a ceux qui hésitent, qui pèsent le pour et le contre, qui essayent de mesurer ce qu’il y a à gagner dans la victoire de l’un ou la défaite de l’autre et qui se refusent à condamner de manière identique et claire les deux camps : il y aurait, au bout du compte, un agresseur et un agressé.
    Parmi celles et ceux qui se rangent en temps de paix dans le camp anticapitaliste, anarchistes ou marxistes, on entend souvent l’argument consistant à dire que les grands principes anti-impérialistes sont valables en général, mais que cette fois-ci la situation est particulière. Cet argument, on l’a lu et entendu en 1914, en 1939, au moment de la guerre en Yougoslavie, de la guerre du Golfe ou de la guerre en Ukraine aujourd’hui. Eh oui, c’est une évidence, chaque situation est différente d’une autre ! Mais chaque grève aussi est différente d’une autre par son contexte, ses enjeux, ses acteurs, et cela ne veut pas dire qu’il est possible de choisir le camp des patrons ! Ou, sans aller jusque-là, de trouver quelque vertu à des alliances (temporaires, juré craché !) avec l’ennemi de classe… et de même, pour ce qui nous occupe ici, avec l’un des impérialistes (...)
     »

    ▶ Lire la suite... https://oclibertaire.lautre.net/spip.php?article3401

    #guerres #impérialisme #campisme #anticapitalisme #antiétatisme #antimilitarisme #internationalisme #Anarchisme

  • En Ile-de-France, un rapport dénonce des violences policières quasi systématiques sur les migrants lors des évacuations - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/53429/en-iledefrance-un-rapport-denonce-des-violences-policieres-quasi-syste

    Actualités
    L’évacuation du campement de Saint-Denis, où dormaient près de 200 migrants, le 22 juillet 2021. Crédit : @enfants_afghan
    En Ile-de-France, un rapport dénonce des violences policières quasi systématiques sur les migrants lors des évacuations
    Par Louis Chahuneau Publié le : 24/11/2023
    Dans un rapport publié jeudi, le collectif inter-associatifs « Accès au droit » documente la récurrence des violences verbales et physiques commises à l’encontre des migrants lors des démantèlements de campements informels par les forces de l’ordre, en Île-de-France. Une stratégie qui viserait à décourager définitivement les exilés de s’installer dans la rue, à l’approche des Jeux olympiques 2024.
    Des évacuations de campements toujours plus violentes. C’est le constat qui ressort du rapport publié jeudi 23 novembre par le collectif inter-associatif Accès au droit (CAD) sur les violences « policières et institutionnelles » à l’encontre des migrants, à Paris et sa région.Créé en 2023, ce collectif, qui rassemble des bénévoles d’associations, des juristes et chercheurs spécialisés, a documenté les violences verbales ou physiques associées aux évacuations de campements de migrants en Île-de-France depuis 2015. Selon ses travaux sur les principaux lieux de vie informels parisiens, le constat est sans appel : sur les 93 exilés interrogés, 81% déclarent avoir été victimes de violences policières, à plusieurs reprises dans 66% des cas.
    Le collectif a recensé 448 témoignages de violences policières en huit ans, dont 88 % résultent de « situations d’évictions, de dispersions dans l’espace public ». Un tiers des témoignages (30 %) rassemblés concernent des violences physiques, du simple coup de pied au passage à tabac, et un autre tiers (33 %) des confiscations ou destructions de biens. Cela va du « coup de pied » ou « de matraque » à un exilé prié de rassembler ses affaires plus vite, jusqu’à de rares cas de « passages à tabac bien documentés », indique à l’AFP un responsable de l’observatoire, requérant l’anonymat en raison de ses fonctions dans une institution publique.
    Le rapport précise que « l’immense majorité de ces violences s’est déroulée dans le nord-est de Paris, dans le 18, 19, 20e arrondissement et les communes limitrophes du 93 ». Ces violences restent « très largement sous-documentées car elles se produisent dans des lieux isolés, à des heures ’invisibles’, rendant difficile le recueil de preuves pour envisager d’entreprendre un recours. »
    Par ailleurs, les exilés vont rarement porter plainte après avoir été victimes de violences, « considérant tout recours inutile notamment à cause d’un faible niveau de confiance envers les forces de l’ordre ».
    « Cette violence policière constitue une troisième violence après celle du départ et du parcours migratoire » Les membres du projet ont décidé de lancer ce travail de documentation après l’évacuation violente du campement informel place de la République (10e arrondissement de Paris) où dormaient près de 500 migrants, en grande majorité afghans, le 24 novembre 2020. (...) Face à la violence des images, et au tollé politique, le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin avait même évoqué des « faits inacceptables » et annoncé l’ouverture de deux enquêtes pour « violences par personne dépositaire de l’autorité publique ». De son côté, le président de la République Emmanuel Macron avait promis « des sanctions » à l’encontre des policiers fautifs. Mais d’après le collectif Accès au droit, les violences policières sur les campements de migrants n’ont fait que s’amplifier depuis cet épisode. « Cette violence policière constitue une troisième violence après celle du départ et du parcours migratoire », rappelle le collectif qui estime que l’imminence des Jeux olympiques 2024 (26 juillet-11 août 2024) motive les autorités à repousser les migrants hors de Paris pour faire place nette.
    Début mars, une vidéo rendue publique par l’association Utopia 56, membre du collectif, montre un CRS diffuser plusieurs jets de gaz lacrymogène sur un matelas dans un campement de fortune sous le métro aérien. L’affaire avait provoqué l’ouverture d’une enquête administrative des CRS et fait l’objet d’un signalement à l’IGPN.
    « Si le système est pensé pour disperser, il est très efficace »
    Depuis le début de l’année 2023, la préfecture d’Île-de-France a procédé à 33 opérations de « mises à l’abri », selon l’AFP. « On constate qu’il y a quasiment une ’mise à l’abri’ par semaine, explique Paul Alauzy, coordinateur à Médecins du monde et bénévole du CAD, joint par InfoMigrants. Il y a trois SAS régionaux qui libèrent 50 places par semaine, donc la cadence des évacuations augmente. Dès qu’un campement atteint 100 ou 200 personnes, on le démantèle. »
    Sur les huit dernières années, le CAD estime que la préfecture d’Île-de-France a procédé à 369 opérations d’évacuation de campement impliquant 80 000 migrants. Une cadence infernale qui n’est pas sans conséquences sur la santé mentale des exilés : « Il peut y avoir un épuisement psychique énorme, un sentiment d’insécurité constant parce qu’ils sont toujours en état d’alerte. Concrètement, cela provoque des insomnies, des cauchemars, et un comportement d’évitement vis-à-vis des forces de police », témoigne à InfoMigrants Leticia Bertuzzi, psychologue et coordinatrice santé mentale chez Médecins sans frontières (MSF).Ces dernières années, lorsqu’un campement était démantelé, les migrants éligibles à un hébergement provisoire (comme les demandeurs d’asile) étaient mis à l’abri en région parisienne, tandis que les autres étaient contraints de reformer un plus petit campement ailleurs. Mais la donne a changé depuis la création des SAS régionaux en 2023 : « Si le système est pensé pour disperser il est très efficace, s’il est pensé pour loger et accueillir dans de bonnes conditions, il fonctionne mal », résume Paul Alauzy. Sollicités par InfoMigrants au sujet du rapport, la préfecture d’Île-de-France et le ministère de l’Intérieur n’ont, pour l’instant, pas répondu à nos sollicitations.

    #Covid-19#migrant#migration#france#paris#jeuxolympiques#evacuation#sante#santementale#campement#demandeurdasile#violencepoliciere#violenceinstitutionnelle#police

  • Escalation in North-West Syria: Civilian Areas Hit in Renewed Attacks

    With all eyes turned towards events in Israel and Gaza over the past two months, a significant escalation in the long running conflict in Syria has failed to gain front-page attention.

    More than 15 cities, towns and villages across North-West Syria — including in Idlib province, known as the last rebel stronghold — have been targeted with shelling.

    Bellingcat analysed footage and images of recent shelling and identified the use of incendiary weapons, cluster munitions and Grad rockets in close proximity or directly impacting civilian infrastructure including mosques, schools and camps for Internally Displaced Persons (IDPs).

    Since the initial four day period, further shelling has been carried out across the country by different groups, leading UN official Paulo Pinheiro to describe it as: “the largest escalation of hostilities in Syria in four years.”

    What Happened?

    The initial shelling was reportedly carried out in response to a drone strike on a Syrian government military academy in Homs on October 5 that killed at least 80 people.

    On October 5 at around noon local time, a drone attack struck a graduation ceremony at the Homs Military Academy, here: 34.752382, 36.687726.

    No group immediately claimed responsibility for the attack. Syria’s Defence Minister reportedly attended the graduation but left minutes before the attack.

    Syria’s defence ministry stated that it would respond “with full force” to the attack. Later the same day the government forces carried out heavy bombing of opposition-held areas in North-West Syria.

    The shelling of Idlib province and the countryside of Aleppo continued for several consecutive days.

    Despite media reports that shelling in North-West Syria was a response to the attack on the military academy, we couldn’t independently verify who was responsible for the shelling outlined below.
    Use of Incendiary Weapons in Darat Izza

    Between October 6 and October 7, videos emerged on social media showing incendiary weapons and other artillery alongside claims it was being dropped on Darat Izza, a town located about 25km west of Aleppo.

    Bellingcat’s preliminary analysis suggests that 122mm 9M22S Grad Rockets were used to shell the town of Darat Izza in early October.

    The earliest footage we found was posted on X (formerly Twitter) at 9:10 pm local time on October 6, alongside the claim that artillery strikes were taking place in Darat Izza, Termanin and Towama.

    While earlier posts mentioned artillery fire, later posts showed explosions near the ground accompanied by a rain of flares, likely activated after the impact of rockets, as seen in the gif below.

    The series of videos from October 6 were filmed at night. With no further information on the location, we looked at the urban landscape features revealed by the explosions’ flashes and cross referenced them with other open source information to match it to Darat Izza.

    Based on the approximate location of explosions and flares seen in the videos, we determined that the respective cameras were pointing towards southwest Darat Izza and that the explosions likely took place in a valley located in a sector in proximity to an IDP camp, here: 36.280114, 36.861183 (we’ll return to this location later). By October 8, rocket remnants and damage to civilian infrastructure was also reported in that area by The White Helmets — a volunteer civil defence and humanitarian organisation operating in Syria.

    The White Helmets said that 9M22S Grad rockets were used in Darat Izza during the early October attack and claimed the rockets were packed with ML-5 submunitions filled with thermite mixture – a flammable material designed to cause fires. We analysed footage captured by The White Helmets after the early October shelling, showing remnants of a possible 9M22S Grad Rocket here, 36.274441, 36.855304.
    The Unusual Features of the Incendiary Weapon

    Human Rights Watch describes incendiary weapons as weapons that contain flammable substances that ignite, they can be dropped from the air or fired from the ground in rockets or artillery shells. Incendiary weapons often start fires and can inflict severe injuries.

    The use of incendiary weapons in Syria has been well documented. Typically, an incendiary weapon explodes in the air and then thermite submunitions are dispersed downwards, falling like rain over a particular area. You can see an example of this here:

    https://www.youtube.com/watch?v=hMvF7YNRc8A&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.bellingcat.com%

    However, in the early October attack on Darat Izza not all the explosions seem to occur in the air. Additionally, the incendiary elements seem to be projected upwards.

    Here’s a reminder of how it looked:

    We spoke to Petro Pyatakov, a retired colonel of the Armed Forces of Ukraine and former Deputy Head of the Faculty of Missile Forces and Artillery of the Academy of Ground Forces who told us: explosions, followed by a hail of flares – as seen in the footage from Darat Izza – is consistent with incendiary weapons. He added that the explosions observed on October 6 could be caused by the explosion of a 122mm 9M22S Grad rocket either in the air or upon impacting the surface — depending on how the rocket was set to detonate before it was launched.

    There seems to be limited footage or other examples from Syria showing weapons projecting incendiary elements upwards after the point of explosion. Further analysis is needed to identify the exact type of weapon and incendiary elements used in Darat Izza on October 6.
    Additional Evidence from Darat Izza

    North-West Syria is already home to more than two million IDPs and at least 120,000 more were displaced in the October shelling according to the UN Office for Coordination of Humanitarian Affairs.

    On October 7 – the day after footage of incendiary weapons was posted online and we geolocated it near an IDP camp in Darat Izza- Abdulkafi Alhamdo, a teacher, activist and reporter, posted a video on Facebook reporting a “burning and cluster bomb” attack had taken place near an IDP camp in Darat Izza. We located the impacted IDP camp where Alhamdo was filming to the same place we had geolocated the night before, at these coordinates: 36.280114, 36.861183. According to Alhamdo, although the attack did not cause damage to the camp, it did force the IDPs to leave the camp in fear.

    Separately, CCTV footage posted by The White Helmets allegedly filmed the night of October 7, showed what appear to be incendiary flares scattered on the roofs of houses. We geolocated these houses to a sector in the south of Darat Izza at coordinates: 36.274918, 36.851466.

    This humanitarian organisation also posted a drone video on October 8 showing damage to buildings and vehicles in Darat Izza. The video also features at least two munition remnants encrusted in the road, here: 36.274441, 36.855304 and here: 36.274934, 36.852089. At least one ordinance appears to be consistent with a 9М22S Grad rocket, mentioned above but further analysis is required to confirm this.

    For comparison, here is another example of a 9M22S Grad rocket, from Ukraine.

    https://twitter.com/DPSU_ua/status/1540029482228137995

    We located residential areas including a mosque, a school and the IDP camp within a 1,000 metre radius to the rocket remnant.
    Use of Cluster Munitions in Termanin

    Based on Bellingcat’s analysis it appears that several different kinds of weapons, including at least two cluster munitions, hit the small town of Termanin – located 30km due west of Aleppo- over a period of a few days in early October.

    We geolocated an image of a 9M27K cluster munition cargo section posted on X next to a school in the town of Termanin at coordinates 36.226206, 36.818707. In addition to the cluster munition cargo section, we also identified and geolocated an 9N235 submunition within a 100 metre radius of the same school at 36.226054, 36.818162.

    The image of the 9N235 submunition seen in the White Helmets’ video appears to be consistent with the reference tool provided by Mark Hiznay, Associate Arms Director at Human Rights Watch (HRW) and corresponds to 9N235 submunition which can be delivered by Uragan or Smerch cluster rockets.

    In addition, we also identified another 9M27K cluster munition cargo section in a video posted on X on October 7. However, given that the video provides very limited view of the surroundings, it was not possible to geolocate this munition remnant based on this information alone.

    Comparing the cargo section from the video posted on X with imagery provided by The White Helmets, we geolocated the additional cluster munition cargo section to 36.231684, 36.813705, close to a post office according to information on Google Maps.

    According to a report from The White Helmets, one more cluster munition remnant landed at coordinates 36.232028, 36.818756. However, there are no images or videos available to confirm this.

    Both of the geolocated cluster munition cargo sections seem to be consistent with the cargo section of the 9M27K cluster munition, as outlined below — using a reference tool shared by Mark Hiznay. The 9M27K rocket has a range of between 10km and 35km.

    In addition to identifying the use of cluster munitions and incendiary weapons, we were also able to identify additional incidents of the shelling of civilian infrastructure other towns and cities.

    This included the shelling of an IDP camp in Idlib and a residential area and mosque in Ariha.
    IDP Camp Hit in Idlib

    Footage posted on X on October 8 showed large clouds of white smoke rising above the camp in broad daylight as residents can be seen running and grabbing their belongings.

    Bellingcat verified that at least two of these videos were filmed on the northern outskirts of Idlib, a sector with residential buildings, university facilities, schools as well as an IDP camp with people living in tents scattered over an area of approximately 1.5 square kilometres. We also found images of a shell remnant inside the camp.

    We examined a series of videos. In video 1 explosions are heard and smoke is seen rising from behind buildings and near a mosque, in video 2 people run and clouds of dust move across the camp. In video 3, posted by The White Helmets, the alleged aftermath of the attack is shown. Several dead animals can be seen near what appears to be a Grad rocket remnant.

    Comparing the three videos, we verified they were all filmed in a sector occupied by the IDP camp at coordinates 35.942382, 36.630046.

    This is not the first time IDP camps in Idlib and the surrounding areas have been shelled. In November last year, the UN noted that shelling had killed civilians and damaged tents.
    School Damaged in Al-Bara

    The town of Al-Bara — located less than 30km south of Idlib — was also allegedly shelled on October 5 damaging a school.

    Bellingcat geolocated imagery from social media showing damage to the school, here 35.683940, 36.540628. There was no recent Google Earth imagery available of the area, so we were not able to identify the damage in the satellite imagery but we were able to use it to help geolocate the site.

    Residential Areas Hit in Ariha

    The October 5 bombardment of Ariha — a town located about 15km south of the city of Idlib — was filmed from a number of angles. Footage and images of the shelling and its aftermath circulated on social media in the days after the attack.

    Bellingcat geolocated five videos from that day, showing the shelling of Ariha from different angles. With this footage we were able to establish residential areas of Ariha were shelled.

    We geolocated one of the damaged buildings to 35.811865, 36.604708, which matched the area that was shelled the day before. In a photo of the damaged building we can see a washing line on a balcony with clothes hanging from it. Available open source visual evidence indicates this was a residential building.

    Further shelling was reported on October 7, two days after the initial attack. We identified additional damage to residential buildings, including a mosque, located here: 35.812983, 36.613567.

    We were able to geolocate damaged buildings by matching features in footage posted on social media by The White Helmets with Google Earth satellite imagery. The most recent Google Earth imagery of the area was from October last year, so we were not able to identify the damage in the imagery but we were able to use it to help geolocate the site.

    Despite ample evidence of shelling in North-West Syria and the damage it caused, it has received little media coverage.

    In fact, a recent investigation by Bellingcat on misinformation circulating about Israel and Gaza found that footage of previous strikes on Ariha had been misrepresented as depicting strikes on Gaza.

    The death toll from the early October shelling varies, the UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs reported that more than 70 people have been killed in North-West Syria since the escalation on October 5, more than a third of them children.

    At least 349 people have been injured and more than 120,000 people have been newly displaced.

    Since the shelling of early October, the situation in Syria has continued to deteriorate with further shelling, by a variety of groups across the country. Meanwhile, humanitarian groups have warned about the increasing hardships facing more than two million internally displaced people in North-West Syria this winter.

    https://www.bellingcat.com/news/2023/11/24/escalation-in-north-west-syria-civilian-areas-hit-in-renewed-attacks
    #Syrie #guerre #conflits #Idlib #IDPs #déplacés_internes #camps_de_réfugiés #villes #architecture_forensique #Darat_Izza #Termanin

  • L’occupazione storica della Palestina e chi la nega: Pappé risponde a Travaglio

    Lo storico israeliano e direttore dello European centre for Palestine studies dell’Università di Exeter ha replicato a un editoriale del direttore de Il Fatto Quotidiano che puntava il dito contro presunti “errori storici” nell’appello degli accademici italiani per un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza

    All’inizio di novembre un gruppo di accademiche e accademici italiani ha rivolto un appello al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, alla ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, e alla Conferenza dei rettori (Crui) per chiedere un’azione urgente per un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza e il rispetto del diritto umanitario internazionale. Si chiedeva alle università una forma di boicottaggio accademico: interrompere immediatamente le collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane, “fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale e umanitario, cessati i crimini contro la popolazione civile palestinese da parte dell’esercito israeliano e, quindi, fino a quando non saranno attivate azioni volte a porre fine all’occupazione coloniale illegale dei territori palestinesi e all’assedio di Gaza”.

    Un appello cui, a oggi, hanno aderito quasi 4.500 docenti universitari da tutta Italia. Due settimane dopo il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, ha dedicato l’editoriale di prima pagina (dal titolo “Errata corrige“) ai contenuti dell’appello, evidenziando presunti errori nella ricostruzione storica del testo. “Possibile -si è chiesto provocatoriamente Travaglio- che tra i quattromila prof non ce ne sia uno di Storia?”. Critiche a cui i promotori dell’iniziativa hanno deciso di replicare: “Ci ha colpiti e offesi l’accusa di ignoranza storica e logica nel trattare gli eventi del conflitto palestinese -si legge nel testo di replica-. Ironicamente, si chiedeva se tra di noi vi fossero degli storici. Possiamo confermare che tra le persone che hanno firmato vi siano”.

    E per rafforzare ulteriormente la validità dei propri argomenti e delle posizioni sostenute nell’appello, hanno chiesto di commentare le affermazioni di Travaglio a “un illustre collega e storico israeliano”, docente presso l’Università di Exeter, nel Regno Unito, ovvero Ilan Pappé: “Ha fondato e guidato l’Istituto per la Pace a Givat Haviva (Israele) tra il 1992 e il 2000, e ha ricoperto la cattedra dell’Istituto Emil Touma per gli Studi palestinesi di Haifa (2000-2008). Attualmente è direttore dello European centre for Palestine studies a Exeter”. Di seguito, d’accordo con le promotrici e i promotori dell’appello, pubblichiamo la traduzione dell’intervento di replica del professor Ilan Pappé.

    La richiesta di boicottaggio accademico è giunta dalla società civile palestinese, rappresentata da 150 Ong: non si tratta di un’iniziativa italiana. Essa si basa su chiare prove della complicità delle università israeliane nell’oppressione dei palestinesi ed è fortemente ispirata al richiamo al boicottaggio accademico contro l’apartheid in Sudafrica.

    Chiunque voglia organizzare una petizione contro altre istituzioni accademiche è il benvenuto, ma gli Stati menzionati nell’editoriale (da Travaglio, ovvero Iran, Siria, Arabia Saudita e Qatar, ndr) non stanno cercando di presentarsi come democrazie (a differenza di Israele), e quindi c’è un sufficiente dibattito pubblico sulla moralità dei contatti bilaterali con questi Paesi.

    L’Israele riconosciuto nella Risoluzione 181 non includeva le aree assegnate allo Stato arabo in quel documento, che Israele occupò nel 1948. Per 75 anni diverse parti della Palestina storica sono state sottoposte a diverse forme di oppressione in periodi differenti. Come menzionato, una parte della Palestina araba dell’Onu fu presa da Israele. Successivamente, la minoranza palestinese all’interno di Israele fu sottoposta a un regime militare di oppressione. Israele occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel 1967 e trasferì in quei luoghi il brutale regime militare, sostituito nel 1981 da un’amministrazione civile altrettanto spietata, che violò gli Accordi di Oslo del 1993 dando mano libera all’esercito e agli insediamenti per gestire la vita di milioni di palestinesi ogni volta che lo desiderassero.

    Israele ha compiuto una pulizia etnica di 300mila palestinesi durante la guerra del giugno del 1967 e di oltre 600mila da allora fino a oggi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo è il contesto storico. A questo possiamo aggiungere l’assedio a Gaza dal 2007, che ha trasformato quel territorio in un ghetto, bombardato quattro volte dall’aria, causando la morte di migliaia di palestinesi, molti dei quali bambini.

    Il più grande crimine israeliano contro l’umanità è la pulizia etnica del 1948 della metà della popolazione della Palestina, la demolizione di metà dei suoi villaggi e della maggior parte delle sue città. Nonostante le Nazioni Unite abbiano ordinato a Israele di permettere ai rifugiati di tornare, questo ha rifiutato di farlo. La lotta palestinese era inizialmente per il ritorno dei rifugiati e dopo il 1967 per la liberazione della loro patria colonizzata e occupata.

    Israele ha reso la Striscia di Gaza un enorme campo profughi nel 1948, ecco perché non l’ha occupata (non si è “ritirata” da Gaza, non l’ha occupata) e ha dato la Cisgiordania alla Giordania in cambio di un ruolo giordano limitato nel tentativo arabo di salvare i palestinesi da ulteriori pulizie etniche.

    È l’Organizzazione per la liberazione dalla Palestina (Olp) che ha fatto una grande concessione volendo negoziare solo sul 22% della Palestina storica, ma la “giudaizzazione” della Cisgiordania e della Striscia di Gaza iniziata nel 1967 e il disonesto desiderio israeliano di continuare a governare su tutta la Palestina storica, offrendo ai palestinesi di vivere in un “bantustan” (termine che nel Sudafrica dell’apartheid indicava i territori in cui furono costretti a trasferirsi diversi gruppi etnici neri, ndr) non poteva essere accettato dal movimento di liberazione palestinese e di conseguenza la lotta continua fino ad oggi.

    Quindi gli oltre quattromila professori conoscono molto bene la storia e dovrebbero essere lodati per rifiutarsi di negare la Nakba del 1948 -farlo è grave tanto quanto negare l’Olocausto- e la Nakba in corso. In realtà, i palestinesi sono stati già oggetto di pulizia etnica negli anni Venti del Novecento, ma sicuramente la loro terra è stata colonizzata, sono stati cacciati, oppressi e negati i diritti fondamentali dal 1948 fino a oggi. Negare ciò è ignoranza o cancellazione intenzionale e cinica della storia.

    https://altreconomia.it/loccupazione-storica-della-palestina-e-chi-la-nega-ilan-pappe-risponde-

    #Ilan_Pappé #Gaza #Palestine #à_lire #7_octobre_2023 #université #ESR #boycott #histoire #Israël #nettoyage_ethnique #1948 #réfugiés #occupation #camp_de_réfugié #encampement #Jordanie #bantustan #apartheid #OLP #Nakba

    L’appel des académicien·nes italien·nes:
    Appel des universitaires italien·nes: cessez-le-feu immédiat et respect du droit humanitaire international à Gaza
    https://academia.hypotheses.org/53494

  • Ouf, Julian Röpcke, reporter pour Bild et spécialiste de la guerre en Ukraine, est « soulagé » : ceux-là étaient des journalistes qui méritaient d’être assassinés.
    https://twitter.com/JulianRoepcke/status/1726910300400611442

    Was shocked after the first tweet and relieved after the second.

    Almayadeen channel is Hezbollah’s house propaganda channel and has nothing to do with journalism. These reporters were probably embedded with the Lebanese terror group, attacking northern Israel on behalf of Iran.

    Its reporters were present at many terrorist attacks against Israel over the past six weeks. I don’t see journalists here.

  • ★ Une chambre avec vue ? | Le blog de Floréal

    Le documentaire « Goulag(s) », de Michaël Prazan et Assia Kovrigina, diffusé à la télévision en 2019, présente, entre autres intérêts, l’avantage de nous faire ressouvenir que dans l’immédiat après-guerre nombre de militants communistes, certains d’entre eux anciens résistants et déportés dans les camps nazis, nièrent sans désemparer l’existence des camps de concentration de l’Union soviétique. C’était l’époque où quiconque osait critiquer le grand pays tant aimé se voyait illico insulté et calomnié dans les colonnes des divers organes de presse dont disposait alors un Parti communiste français au mieux de sa forme (...)

    #URSS #stalinisme #campsdeconcentration #goulag #PCF #négationnisme

    https://florealanar.wordpress.com/2019/04/02/une-chambre-avec-vue

  • #Istanbul, vitrine du #technonationalisme électoral de l’AKP
    https://metropolitiques.eu/Istanbul-vitrine-du-technonationalisme-electoral-de-l-AKP.html

    En #Turquie, le président Erdoğan a été réélu pour un troisième mandat en mai 2023. Revenant sur la dernière campagne électorale à Istanbul, Yohanan Benhaïm montre comment le « technonationalisme » et son déploiement dans l’espace urbain sont devenus un outil électoral pour l’AKP, le parti islamo-conservateur au pouvoir. En Turquie, malgré la crise économique et le tremblement de terre de février 2023, les #élections des 14 et 28 mai 2023 ont vu la coalition du Peuple (Cumhur Ittifakı) conserver sa majorité au #Terrains

    / Istanbul, Turquie, #politique, élections, #mégapole, #industrie_de_défense, technonationalisme, campagne (...)

    #campagne_électoral
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_benhaim.pdf

  • « Les autorités n’ont pas de places pour eux » : à Mayotte, des centaines de demandeurs d’asile occupent un stade faute de mieux - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/53160/les-autorites-nont-pas-de-places-pour-eux--a-mayotte-des-centaines-de-

    Grand angle. Plus de 200 migrants, dont des femmes et des enfants, occupent depuis cet été le stade Cavani, à Mayotte, dans des conditions insalubres. Ces demandeurs d’asile, originaires d’Afrique des Grands Lacs, n’ont accès ni à l’eau ni à l’électricité. Leur statut de demandeurs d’asile leur permet pourtant de prétendre à un logement, le temps du traitement de leur dossier.
    Autour du stade Cavani, à Mamoudzou, des dizaines de tentes se dressent sur les talus qui surplombent le terrain. Des abris de fortune faits de bâches usées, de tissus troués et de morceaux de pagne délabrés, ramassés dans les poubelles de Mayotte. Un peu plus bas, des vêtements sont suspendus sur les grillages qui délimitent le terrain.
    C’est ici que depuis cet été des migrants ont élu domicile. Au fil des semaines, le camp de fortune n’a cessé de grossir : d’une dizaine au départ, ils sont aujourd’hui plus de 200 à dormir dans ce stade. Parmi eux, une soixantaine d’enfants et de femmes, dont certaines enceintes, selon la presse locale. L’une d’entre elles, croisée jeudi 9 novembre par le référent de la Ligue des droits de l’Homme (LDH) sur l’île , Daniel Gros, arrive presque à terme. La majorité de ces exilés sont arrivés à Mayotte ces derniers mois et attendent la réponse à leur demande d’asile. Ils sont originaires de la République démocratique du Congo (RDC), du Rwanda ou encore de Somalie.
    (...) L’accès à l’eau est aussi une gageure dans ce département français confronté depuis des mois à une pénurie d’eau potable. « J’essaye de trouver de l’aide mais je n’y arrive pas », souffle Salma. « Et puis, tout est cher ici ». Les demandeurs d’asile bénéficient chaque mois d’un bon de 30 euros par personne (et 10 euros pour chaque enfant), une somme dérisoire au vu des prix élevés à Mayotte. Pour se procurer de l’eau, les migrants en récupèrent à même le sol, dans les caniveaux et les cours d’eau. Pour se nourrir, ils fouillent les poubelles, mais ne parviennent pas tous les jours à manger à leur faim. Le manque d’hygiène est criant : les exilés font leur besoin dans des sacs plastiques et les jettent à la poubelle. Le lieu n’est pas équipé de latrines, de douches ou encore d’électricité.
    (...) Selon Daniel Gros de la LDH, une centaine de migrants s’agglutinent là, au bord de la route. Le stade de Cavani est en fait l’extension de ce campement informel. « Dans le stade, on a plus de place et on est protégés des violences », témoigne Ferdinand. « Alors que dans la rue, les voitures passent juste à côté de nos tentes, on risque d’avoir des accidents. Et puis, certains habitants nous agressent dans la nuit : ils prennent notre nourriture, arrachent les téléphones, nous frappent et fouillent nos affaires. Ils nous disent qu’on n’est pas les bienvenus et qu’on doit rentrer chez nous. Au stade, on est un peu plus cachés ». Ces centaines de demandeurs d’asile n’ont pas d’autres choix que de vivre dehors : ils n’ont pas obtenu de logement au sein du réseau d’accueil de l’île, malgré leur statut qui leur donne droit à un hébergement le temps de la procédure. Solidarité Mayotte dispose de 400 places, en appartement, pour loger cette population. Un nombre insuffisant, d’après les associations. « Il y a tellement de monde que les autorités n’ont pas de places pour eux », déplore Daniel Gros.
    Toutes les personnes interrogées s’accordent à dire que ces campements n’ont « aucun lien » avec l’opération Wuhambushu du ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin. Lancée en avril dernier, cette grande action vise à détruire 1 000 bangas – les cases en tôles qui constituent les bidonvilles – d’ici la fin de l’année. Mais les exilés du stade ne constituent pas, d’après les humanitaires et les officiels, la même population que les habitants de ces bidonvilles.
    Début novembre, le ministre délégué chargé des Outre-Mer, Philippe Vigier, s’est rendu à Cavani, que la presse locale qualifie de premier camp de migrants à Mayotte. « La situation ne peut pas durer. Les gens en situation irrégulière n’ont pas vocation à rester sur le sol français », a-t-il déclaré aux journalistes présents lors de la visite. « Pour les autres, il faudra voir comment on trouvera des solutions d’hébergement. Mais on ne peut pas laisser s’instaurer au milieu de la commune une zone de non-droit ». Reste que pour Charline Ferrand-Pinet, si l’accès à l’hébergement est une problématique majeure, elle n’est pas la seule. « On peut ouvrir des centaines de places supplémentaires mais si on accélère par le traitement des demandes d’asile et l’obtention de document d’identité pour les réfugiés, et qu’on n’intègre pas mieux les statutaires, le problème ne sera pas réglé », insiste-t-elle. En effet, parmi les migrants qui vivent dans les rues de Mamoudzou, on compte de plus en plus de personnes ayant obtenu une protection, mais qui ne trouvent pas de logements dans le parc privé.

    #Covid-19#migrant#migration#france#mayotte#refugie#camp#hebergement#migrationirreguliere#accueil#sante#droit

  • Émigration clandestine : Khalifa Ababacar Sall pointe une « responsabilité collective »
    https://www.seneweb.com/news/Politique/emigration-clandestine-khalifa-ababacar-_n_425266.html

    Émigration clandestine : Khalifa Ababacar Sall pointe une « responsabilité collective »
    Par : Seneweb-News - Seneweb.com | 09 novembre, 2023 à
    La recrudescence de l’émigration clandestine par voie maritime, ces dernières semaines est source de profonde inquiétude. Il est essentiel de reconnaître notre responsabilité collective, celle de l’État en particulier, souligne Khalifa Ababacar Sall, candidat déclaré, à la présidentielle de 2024. Dans un message posté sur sa page X ancien Twitter, le leader de Taxawu Senegal relève qu’il lui est difficile de trouver le qualificatif adéquat, pour exprimer ce qu’il ressent face aux images qui montrent de jeunes Sénégalais qui empruntent des embarcations de fortune, bravant les fureurs océanes, dans l’espoir de trouver un mieux vivre.
    Selon Khalifa Ababacar « le Sénégal regorge de potentialités.
    Le développement du secteur primaire, pris dans son ensemble (agriculture, pêche, mines…) peut constituer une réponse adéquate apportée au chômage des jeunes ». L’ancien maire de Dakar est d’avis « qu’une agriculture étalée dans le temps et accompagnée d’une bonne commercialisation des produits permettra, assurément, d’atténuer l’exode ».L’autre levier sur lequel nous devons agir est selon lui l’éducation. « Il faut procéder à des réformes hardies du secteur de l’éducation, orienter, très tôt, les élèves, vers l’enseignement professionnel » a-t-il préconisé. « Entendons les jeunes. Répondons à leurs appels car c’est à l’aune du profil de sa population que l’on mesure le dynamisme et les capacités d’un pays à affronter l’avenir », suggère t-il. Auteur : Seneweb-News - Seneweb.com

    #Covid-19#migration#senegal#emigration#fluxmigratoire#migrationirreguliere#jeunesse#chomage#agriculture#education#campagnepresidentielle

  • Crise capitaliste au moyen orient | Guillaume Deloison
    https://guillaumedeloison.wordpress.com/2018/10/08/dawla-crise-capitaliste-au-moyen-orient

    ISRAËL ET PALESTINE – CAPITAL, COLONIES ET ÉTAT

    Le conflit comme Histoire

    A la fin des guerres napoléoniennes, certaines parties du Moyen-Orient se retrouvèrent envahies par le nouveau mode de production capitaliste. Dans cette région, l’industrie textile indigène, surtout en Egypte, fut détruite par les textiles anglais bon marché dans les années 1830. Dès les années 1860, les fabricants britanniques avaient commencé à cultiver le coton le long du Nil. En 1869, on ouvrit le canal de Suez dans le but de faciliter le commerce britannique et français. Conformément à cette modernisation, on peut dater les origines de l’accumulation primitive en #Palestine à la loi de l’#Empire_ottoman de 1858 sur la #propriété_terrienne qui remplaçait la propriété collective par la propriété individuelle de la terre. Les chefs de village tribaux se transformèrent en classe de propriétaires terriens qui vendaient leurs titres aux marchands libanais, syriens, égyptiens et iraniens. Pendant toute cette période, le modèle de développement fut surtout celui d’un développement inégal, avec une bourgeoisie étrangère qui prenait des initiatives et une bourgeoisie indigène, si l’on peut dire, qui restait faible et politiquement inefficace.

    Sous le #Mandat_britannique, de nombreux propriétaires absentéistes furent rachetés par l’Association de colonisation juive, entraînant l’expulsion de métayers et de fermiers palestiniens. Étant donné que les dépossédés devaient devenir #ouvriers_agricoles sur leurs propres terres, une transformation décisive des relations de production commençait, conduisant aux premières apparitions d’un #prolétariat_palestinien. Ce processus eut lieu malgré une violente opposition de la part des #Palestiniens. Le grand tournant dans une succession de #révoltes fut le soulèvement de #1936-1939. Son importance réside dans le fait que « la force motrice de ce soulèvement n’était plus la paysannerie ou la bourgeoisie, mais, pour la première fois, un prolétariat agricole privé de moyens de travail et de subsistance, associé à un embryon de classe ouvrière concentrée principalement dans les ports et dans la raffinerie de pétrole de Haïfa ». Ce soulèvement entraîna des attaques contre des propriétaires palestiniens ainsi que contre des colons anglais et sionistes. C’est dans le même temps que se développa le mouvement des #kibboutz, comme expérience de vie communautaire inspiré notamment par des anarchistes comme Kropotkine, s’inscrivant dans le cadre du sionisme mais opposées au projet d’un état.

    La Seconde Guerre mondiale laissa un héritage que nous avons du mal à imaginer. L’implantation des juifs en Palestine, déjà en cours, mais de faible importance entre 1880 et 1929, connaît une augmentation dans les années 1930 et puis un formidable élan dans l’après-guerre ; de ce processus naquit #Israël. Le nouvel Etat utilisa l’appareil légal du Mandat britannique pour poursuivre l’expropriation des Palestiniens. La #prolétarisation de la paysannerie palestinienne s’étendit encore lors de l’occupation de la Cisjordanie et de la Bande de Gaza en 1967. Cette nouvelle vague d’accumulation primitive ne se fit pas sous la seule forme de l’accaparement des #terres. Elle entraîna aussi le contrôle autoritaire des réserves d’#eau de la Cisjordanie par le capital israélien par exemple.

    Après la guerre de 1967, l’Etat israélien se retrouvait non seulement encore entouré d’Etats arabes hostiles, mais aussi dans l’obligation de contrôler la population palestinienne des territoires occupés. Un tiers de la population contrôlée par l’Etat israélien était alors palestinienne. Face à ces menaces internes et externes, la survie permanente de l’Etat sioniste exigeait l’unité de tous les Juifs israéliens, occidentaux et orientaux. Mais unir tous les Juifs derrière l’Etat israélien supposait l’intégration des #Juifs_orientaux, auparavant exclus, au sein d’une vaste colonie de travail sioniste. La politique consistant à établir des colonies juives dans les territoires occupés est un élément important de l’extension de la #colonisation_travailliste sioniste pour inclure les Juifs orientaux auparavant exclus. Bien entendu, le but immédiat de l’installation des #colonies était de consolider le contrôle d’Israël sur les #territoires_occupés. Cependant, la politique de colonisation offrait aussi aux franges pauvres de la #classe_ouvrière_juive un logement et des emplois qui leur permettaient d’échapper à leur position subordonnée en Israël proprement dit. Ceci ne s’est pas fait sans résistance dans la classe ouvrière Israélienne, certain s’y opposaient comme les #Panthéres_noire_israélienne mais l’#Histadrout,« #syndicat » d’Etat et employeur important s’efforçait d’étouffer les luttes de la classe ouvrière israélienne, comme par exemple les violents piquets de grève des cantonniers.

    En 1987, ce sont les habitants du #camp_de_réfugiés de Jabalya à Gaza qui furent à l’origine de l’#Intifada, et non l’#OLP (Organisation de Libération de la Palestine) composé par la bourgeoisie Palestinienne, basée en Tunisie et complètement surprise. Comme plus tard en 2000 avec la seconde intifada, ce fut une réaction de masse spontanée au meurtre de travailleurs palestiniens. A long terme, l’Intifada a permis de parvenir à la réhabilitation diplomatique de l’OLP. Après tout, l’OLP pourrait bien être un moindre mal comparée à l’activité autonome du prolétariat. Cependant, la force de négociation de l’OLP dépendait de sa capacité, en tant que « seul représentant légitime du peuple palestinien », à contrôler sa circonscription, ce qui ne pouvait jamais être garanti, surtout alors que sa stratégie de lutte armée s’était révélée infructueuse. Il était donc difficile pour l’OLP de récupérer un soulèvement à l’initiative des prolétaires, peu intéressés par le nationalisme, et qui haïssaient cette bourgeoisie palestinienne presque autant que l’Etat israélien.

    Quand certaines personnes essayèrent d’affirmer leur autorité en prétendant être des leaders de l’Intifada, on raconte qu’un garçon de quatorze ans montra la pierre qu’il tenait et dit : « C’est ça, le leader de l’Intifada. » Les tentatives actuelles de l’Autorité palestinienne pour militariser l’Intifada d’aujourd’hui sont une tactique pour éviter que cette « anarchie » ne se reproduise. L’utilisation répandue des pierres comme armes contre l’armée israélienne signifiait qu’on avait compris que les Etats arabes étaient incapables de vaincre Israël au moyen d’une guerre conventionnelle, sans parler de la « lutte armée » de l’OLP. Le désordre civil « désarmé » rejetait obligatoirement « la logique de guerre de l’Etat » (bien qu’on puisse aussi le considérer comme une réaction à une situation désespérée, dans laquelle mourir en « martyr » pouvait sembler préférable à vivre dans l’enfer de la situation présente). Jusqu’à un certain point, le fait de lancer des pierres déjouait la puissance armée de l’Etat d’Israël.

    D’autres participants appartenaient à des groupes relativement nouveaux, le #Hamas et le #Jihad_Islamique. Pour essayer de mettre en place un contrepoids à l’OLP, Israël avait encouragé la croissance de la confrérie musulmane au début des années 1980. La confrérie ayant fait preuve de ses sentiments anti-classe ouvrière en brûlant une bibliothèque qu’elle jugeait être un » foyer communiste « , Israël commença à leur fournir des armes.

    D’abord connus comme les « accords Gaza-Jéricho », les accords d’Oslo fit de l’OLP l’autorité palestinienne. Le Hamas a su exploiter ce mécontentement tout en s’adaptant et en faisant des compromis. Ayant rejeté les accords d’Oslo, il avait boycotté les premières élections palestiniennes issues de ces accords en 1996. Ce n’est plus le cas désormais. Comme tous les partis nationalistes, le Hamas avec son discours religieux n’a nullement l’intention de donner le pouvoir au peuple, avec ou sans les apparences de la démocratie bourgeoise. C’est d’ailleurs ce qu’il y a de profondément commun entre ce mouvement et l’OLP dans toutes ses composantes : la mise en place d’un appareil politico-militaire qui se construit au cours de la lutte, au nom du peuple mais clairement au-dessus de lui dès qu’il s’agit de prendre puis d’exercer le pouvoir. Après plusieurs années au gouvernement, le crédit du Hamas est probablement et selon toute apparence bien entamé, sans que personne non plus n’ait envie de revenir dans les bras du Fatah (branche militaire de l’OLP). C’est semble-t-il le scepticisme, voire tout simplement le désespoir et le repli sur soi, qui semblent l’emporter chaque jour un peu plus au sein de la population.

    Le sionisme, un colonialisme comme les autres ?

    Dans cette situation, la question de déterminer les frontières de ce qui délimiterait un État israélien « légitime » est oiseuse, tant il est simplement impossible : la logique de l’accaparement des territoires apparaît inséparable de son existence en tant qu’État-nation. S’interroger dans quelle mesure l’État israélien est plus ou moins « légitime » par rapport à quelque autre État, signifie simplement ignorer comment se constituent toujours les États-nations en tant qu’espaces homogènes.

    Pour comprendre la situation actuelle il faut appréhender la restructuration générale des rapports de classes à partir des années 1970. Parallèlement aux deux « crises pétrolières » de 1973-74 et 1978-80, à la fin du #nationalisme_arabe et l’ascension de l’#islamisme, la structure économique et sociale de l’État d’Israël change radicalement. Le #sionisme, dans son strict sens, fut la protection et la sauvegarde du « travail juif », soit pour le capital israélien, contre la concurrence internationale, soit pour la classe ouvrière contre les prolétaires palestiniens : ce fut en somme, un « compromis fordiste » post-1945, d’enracinement d’une fraction du capital dans dans un État-nation. Le sionisme impliquait qu’il donne alors à l’État et à la société civile une marque de « gauche » dans ce compromis interclassiste et nationaliste. C’est ce compromis que le Likoud a progressivement liquidé ne pouvant plus garantir le même niveau de vie au plus pauvres. Pourtant la définition d’Israël comme « État sioniste » résiste. Agiter des mots comme « sioniste », « lobby », etc. – consciemment ou pas – sert à charger l’existence d’Israël d’une aire d’intrigue, de mystère, de conspiration, d’exceptionnalité, dont il n’est pas difficile de saisir le message subliminal : les Israéliens, c’est-à-dire les Juifs, ne sont pas comme les autres. Alors que le seul secret qu’il y a dans toute cette histoire, c’est le mouvement du capital que peu regardent en face. La concurrence généralisé, qui oppose entre eux « ceux d’en haut » et aussi « ceux d’en bas ». L’aggravation de la situation du prolétariat israélien et la quart-mondialisation du prolétariat palestinien appartiennent bien aux mêmes mutations du capitalisme israélien, mais cela ne nous donne pour autant les conditions de la moindre « solidarité » entre les deux, bien au contraire. Pour le prolétaire israélien, le Palestinien au bas salaire est un danger social et de plus en plus physique, pour le prolétaire palestinien les avantages que l’Israélien peut conserver reposent sur son exploitation, sa relégation accrue et l’accaparement des territoires ».

    La #solidarité est devenue un acte libéral, de conscience, qui se déroule entièrement dans le for intérieur de l’individu. Nous aurons tout au plus quelques slogans, une manifestation, peut-être un tract, deux insultes à un flic… et puis tout le monde rentre chez soi. Splendeur et misère du militantisme. Entre temps, la guerre – traditionnelle ou asymétrique – se fait avec les armes, et la bonne question à se poser est la suivante : d’où viennent-elles ? Qui les paye ? Il fut un temps, les lance-roquettes Katioucha arrivaient avec le « Vent d’Est ». Aujourd’hui, pour les Qassam, il faut dire merci à la #Syrie et à l’#Iran. Il fut un temps où l’on pouvait croire que la Révolution Palestinienne allait enflammer le Tiers Monde et, de là, le monde entier. En réalité le sort des Palestiniens se décidait ailleurs, et ils servirent de chair à canon à l’intérieur des équilibres de la #Guerre_Froide. Réalité et mythe de la « solidarité internationale ».

    Nous savons trop bien comment la #religion peut être « le soupir de la créature opprimée, le sentiment d’un monde sans cœur » (Karl Marx, Contribution à la critique de la philosophie du droit de Hegel). Mais cette généralité vaut en Palestine, en Italie comme partout ailleurs. Dans le Proche et Moyen-Orient, comme dans la plupart des pays arabes du bassin méditerranéen, l’islamisme n’est pas une idéologie tombée du ciel, elle correspond à l’évolution des luttes entre les classes dans cette zone, à la fin des nationalisme arabe et la nécessité de l’appareil d’état pour assurer l’accumulation capitaliste. Le minimum, je n’ose même pas dire de solidarité, mais de respect pour les prolétaires palestiniens et israeliens, nous impose tout d’abord d’être lucides et sans illusions sur la situation actuelle ; de ne pas considérer le prolétariat palestinien comme des abrutis qui se feraient embobiner par le Hamas ni comme des saints investi par le Mandat du Ciel Prolétarien ; de ne pas considérer le prolétariat israélien comme des abruti qui serait simplement rempli de haine envers les palestinien ni comme des saint dont la situation ne repose pas sur l’exploitation d’autres. L’#antisionisme est une impasse, tout comme l’#antimondialisme (défense du #capital_national contre le capital mondialisé), ou toutes les propositions de gestion alternative du capital, qui font parties du déroulement ordinaire de la lutte des classe sans jamais abolir les classes. Sans pour autant tomber dans un appel à la révolution globale immédiate pour seule solution, il nous faut partir de la réalité concrètes et des divisions existantes du mode de production, pour s’y attaquer. Le communisme n’est pas le fruit d’un choix, c’est un mouvement historique. C’est avec cette approche que nous cherchons à affronter cette question. Il en reste pas moins que désormais – à force de réfléchir a partir de catégories bourgeoises comme « le droit », « la justice » et « le peuple » – il n’est pas seulement difficile d’imaginer une quelconque solution, mais il est devenu quasi impossible de dire des choses sensées à cet égard.

    (version partiellement corrigée de ses erreurs typo et orthographe par moi)

  • Tempête
    https://tagrawlaineqqiqi.wordpress.com/2023/11/03/tempete

    22h30Oui, bon, ça souffle, mais on a vu pire.0H00 OK, je ne suis pas certaine d’avoir déjà vu pire, même pas les orages en montagne.3H30 Wow putain. La toiture ne va jamais tenir. La cabane de la vache doit déjà être par terre. Pourvu qu’il n’y ait plus personne en mer. Pourvu qu’il n’y ait […]

    #campagne
    https://0.gravatar.com/avatar/cd5bf583a4f6b14e8793f123f6473b33bb560651f18847079e51b3bcad719755?s=96&d=

    • Et si chez vous tout est électrique, y compris les volets, à vrai dire, comme j’ai mauvais esprit, le seul truc qui me vienne en tête, c’est : mouarf.

      Justement, j’avais laissé toute les issues du rez-de-chaussée volets (électriques) ouverts : je me souviens trop de ce qui s’est passé à La Faute-sur-Mer en 2010 lors de la tempête Xynthia ...

      Ceci dit, là où j’ai vraiment flippé, c’était en 1999, avec Lothar puis (surtout) Martin. Pas dormi de la nuit. Poste radio transistor avec piles pour rester informé de l’évolution de la situation pendant que la charpente de la maison poussait des gémissement de vieille bête à l’agonie.

  • « Voici la France. Pendant ce temps Madame Braun-Pivet campe à Tel-Aviv pour encourager le massacre. Pas au nom du peuple français ! »

    ...ce « campe » intrigue. Un bref retour sur l’histoire s’impose. Dans La Dernière Bataille, Edouard Drumont − le pape de l’antisémitisme à la française − écrit, en 1890 : « La race juive ne peut vivre dans aucune société organisée, c’est une race de nomades et de Bédouins ; quand elle a installé quelque part son campement, elle détruit tout autour d’elle. »
    Plus tard, au moment du Front populaire, Maurice Bedel soutient, dans son livre Bengali (1937) composé d’articles publiés par Candide, journal antisémite [publié entre 1924 et 1944], que Léon Blum est « le président du Conseil venu d’une race errante camper en Ile-de-France par un hasard qui l’eût aussi bien mené à New York ».

    Plus tard encore, le 2 juillet 1954, Aspects de la France, l’autre organe royaliste antisémite, écrit au sujet de Pierre Mendès France, alors président du Conseil : « Il est, de tous les Mendès, celui qui campe présentement entre Atlantique et Pyrénées. » Toujours ce « campe » qui revient comme un leitmotiv ; autant de juifs d’Etat dévoués à l’intérêt public qui campent, ici ou là, selon les circonstances.

    Décidément, ce « campe » plonge dans une longue histoire qu’il conviendrait de retracer plus soigneusement, tant elle a à voir avec le mythe du juif errant au campement provisoire − mythe propagé sans cesse par les populismes d’extrême droite mais aussi, fréquemment, d’extrême gauche, à travers l’histoire mouvementée des guerres franco-françaises. Ce « campe », étrange et incompréhensible, ne cesse de nous bouleverser tant il risque de faire resurgir les tragiques fêlures qui ont déchiré la nation dans un passé encore tout proche.

    https://archive.ph/cW0Dk

    https://seenthis.net/messages/1022811
    @mad_meg @biggrizzly @fsoulabaille @fitzlombard

    #histoire #antisémitisme #antisémitisme_de_gauche #gauche

  • Greek data watchdog to rule on AI systems in refugee camps

    A forthcoming decision on the compliance of surveillance and security systems in Greek refugee camps could set a precedent for how AI and biometric systems are deployed for ‘migration management’ in Europe

    Greece’s data protection watchdog is set to issue a long-awaited decision on the legality of controversial high-tech surveillance and security systems deployed in the country’s refugee camps.

    The Greek Data Protection Authority’s (DPA) decision, expected by the end of the year, concerns in part a new multimillion-euro Artificial Intelligence Behavioural Analytics security system, which has been installed at several recently constructed refugee camps on the Aegean islands.

    The system – dubbed #Centaur and funded through the European Union (EU) – relies on algorithms and surveillance equipment – including cameras, drones, sensors and other hardware installed inside refugee camps – to automatically detect purported threats, alert authorities and keep a log of incidents. Hyperion, another system that relies on biometric fingerprint data to facilitate entry and exit from the refugee camps, is also being examined in the probe.

    Centaur and #Hyperion came under investigation in March 2022, after several Greek civil society organisations and a researcher filed a complaint to the Greek DPA questioning the legality of the programs under Greek and European laws. The Greek DPA’s decision could determine how artificial intelligence (AI) and biometric systems are used within the migration management context in Greece and beyond.

    Although the data watchdog’s decision remains to be seen, a review of dozens of documents obtained through public access to documents requests, on-the-ground reporting from the islands where the systems have been deployed, as well as interviews with Greek officials, camp staff and asylum seekers, suggest the Greek authorities likely sidestepped or botched crucial procedural requirements under the European Union’s (EU) privacy and human rights law during a mad rush to procure and deploy the systems.

    “It is difficult to see how the DPA will not find a breach,” said Niovi Vavoula, a lecturer at Queen Mary University of London, who petitioned the Greek DPA alongside Greek civil society organisations Homo Digitalis, The Hellenic League for Human Rights, and HIAS Greece.

    She said “major shortcomings” identified include the lack of appointment of a data protection officer at the Greek Migration Ministry prior to the launch of its programs.

    Security systems a hallmark of new EU camps

    Centaur and Hyperion are hallmarks of Greece’s newest migrant facilities, also known as Closed Controlled Access Centres (CCACs), which began opening in the eastern Aegean in 2021 with funding and supervision from the European Commission (EC). Greek authorities have lauded the surveillance apparatus at the revamped facilities as a silver-bullet solution to the problems that plagued previous makeshift migrant camps in Greece.

    The Centaur system allows authorities to monitor virtually every inch of the camps’ outdoor areas – and even some indoor spaces – from local command and control centres on the islands, and from a centralised control room in Athens, which Greece’s former migration minister Notis Mitarachi unveiled with much fanfare in September 2021.

    “We’re not monitoring people. We’re trying to prevent something bad from happening,” Anastasios Salis, the migration ministry’s director general of ICT and one of the self-described architects of the Centaur system, told me when I visited the ministry’s centralised control room in Athens in December 2021. “It’s not a prison, okay? It’s something different.”

    Critics have described the new camps as “prison-like” and a “dystopian nightmare”.

    Behind closed doors, the systems have also come under scrutiny by some EU authorities, including its Fundamental Rights Agency (FRA), which expressed concerns following a visit to one of the camps on Samos Island in May 2022.

    In subsequent informal input on Greece’s refugee camp security measures, the FRA said it was “concerned about the necessity and proportionality of some of the measures and their possible impact on fundamental rights of residents” and recommended “less intrusive measures”.

    Asked during the control room tour in 2021 what is being done to ensure the operation of the Centaur system respects privacy laws and the EU’s General Data Protection Regulation (GDPR), Salis responded: “GDPR? I don’t see any personal data recorded.”

    ‘Spectacular #experimentation’

    While other EU countries have experimented with myriad migration management and surveillance systems, Greece’s refugee camp deployments are unique.

    “What we see in Greece is spectacular experimentation of a variety of systems that we might not find in this condensed way in other national contexts,” said Caterina Rodelli, a policy analyst at the digital rights non-profit Access Now.

    She added: “Whereas in other European countries you might find surveillance of migrant people, asylum seekers … Greece has paved the way for having more dense testing environments” within refugee camps – particularly since the creation of its EU-funded and tech-riddled refugee camps.

    The #Samos facility, arguably the EU’s flagship camp, has been advertised as a model and visited by officials from the UK, the US and Morocco. Technology deployments at Greece’s borders have already been replicated in other European countries.

    When compared with other Mediterranean states, Greece has also received disproportionate funding from the EU for its border reinforcement projects.

    In a report published in July, the research outfit Statewatch compared commission funds to Greece between 2014 and 2020 and those projected to be paid between 2021 and 2027, finding that “the funding directed specifically towards borders has skyrocketed from almost €303m to more than €1bn – an increase of 248%”.

    Greece’s Centre for Security Studies, a research and consulting institution overseen by the Greek minister of citizen protection, for example, received €12.8m in EU funds to develop border technologies – the most of any organisation analysed in the report during an eight-year period that ended in 2022.

    Surveillance and security systems at Greek refugee camps are funded through the EU’s Covid recovery fund, known formally as the European Commission’s Recovery and Resilience Facility, as well as the Internal Security Fund.
    Early warnings

    At the heart of the Greek DPA probe are questions about whether Greece has a legal basis for the type of data processing understood to be required in the programs, and whether it followed procedures required under GDPR.

    This includes the need to conduct data protection impact assessments (DPIAs), which demonstrate compliance with the regulation as well as help identify and mitigate various risks associated with personal data processing – a procedure the GDPR stipulates must be carried out far in advance of certain systems being deployed.

    The need to conduct these assessments before technology deployments take place was underscored by the Greek DPA in a letter sent to the Greek migration ministry in March 2022 at the launch of its probe, in which it wrote that “in the case of procurement of surveillance and control systems” impact studies “should be carried out not only before their operation, but also before their procurement”.

    Official warnings for Greece to tread carefully with the use of surveillance in its camps came as early as June 2021 – months before the opening of the first EU-funded camp on Samos Island – when the FRA provided input on the use of surveillance equipment in Greek refugee camps, and the Centaur project specifically.

    In a document reviewed by Computer Weekly, the FRA wrote that the system would need to undergo “a thorough impact assessment” to check its compatibility with fundamental rights, including data protection and privacy safeguards. It also wrote that “the Greek authorities need to provide details on the equipment they are planning to use, its intended purpose and the legal basis for the automated processing of personal data, which to our understanding include sensitive biometric data”.
    A botched process?

    However, according to documents obtained through public record requests, the impact assessments related to the programs were only carried out months after the systems were deployed and operational, while the first assessments were not shared with the commission until late January 2022.

    Subsequent communications between EU and Greek authorities reveal, for the first time, glaring procedural omissions and clumsy efforts by Greek authorities to backpedal into compliance.

    For example, Greece’s initial assessments of the Centaur system covered the use of the CCTV cameras, but not the potentially more sensitive aspects of the project such as the use of motion analysis algorithms and drones, a commission representative wrote to Greek authorities in May 2022. The representative further underscored the importance of assessing “the impact of the whole project on data protection principles and fundamental rights”.

    The commission also informed the Greek authorities that some areas where cameras were understood to have been placed, such as common areas inside accommodation corridors, could be deemed as “sensitive”, and that Greece would need to assess if these deployments would interfere with data protection, privacy and other rights such as non-discrimination or child rights.

    It also requested more details on the personal data categories being processed – suggesting that relevant information on the categories and modalities of processing – such as whether the categories would be inferred by a human or an algorithm-based technology – had been excluded. At the time, Greek officials had reported that only “physical characteristics” would be collected but did not expand further.

    “No explanation is provided on why less intrusive measures cannot be implemented to prevent and detect criminal activities,” the commission wrote, reminding Greece that “all asylum seekers are considered vulnerable data subjects”, according to guidelines endorsed by the European Data Protection Board (EDPB).

    The FRA, in informal input provided after its visit to the Samos camp in May 2022, recommended basic safeguards Greece could take to ensure camp surveillance systems are in full compliance with GDPR. This included placing visible signs to inform camp residents and staff “about the operation of CCTV cameras before entering a monitored area”.

    No such signs were visible in the camp’s entry when Computer Weekly visited the Samos camp in early October this year, despite the presence of several cameras at the camp’s entry.

    Computer Weekly understands that, as of early October, procedural requirements such as impact assessments had not yet been finalised, and that the migration ministry would remain in consultation with the DPA until all the programs were fully GDPR-compliant.

    Responding to Computer Weekly’s questions about the findings of this story, a Greek migration ministry spokesperson said: “[The ministry] is already in open consultation with the Greek DPA for the ‘Centaur’ and ‘Hyperion’ programs since March 2022. The consultation has not yet been completed. Both of these programs have not been fully implemented as several secondary functions are still in the implementation phase while the primary functions (video surveillance through closed circuit television and drone, entry – exit through security turnstiles) of the programs are subject to continuous parameterisation and are in pilot application.

    “The ministry has justified to the Greek DPA as to the necessity of implementing the measure of installing and operating video surveillance systems in the hospitality structures citing the damage that the structures constantly suffer due to vandalism, resulting in substantial damage to state assets … and risking the health of vulnerable groups such as children and their companions.”

    The commission wrote to Computer Weekly that it “do[es] not comment on ongoing investigations carried out by independent data protection authorities” and did not respond to questions on the deployment of the systems.

    Previous reporting by the Greek investigative outlet Solomon has similarly identified potential violations, including that the camp programs were implemented without the Greek ministry of migration and asylum hiring a data protection officer as required under the GDPR.
    Lack of accountability and transparency?

    The commission has said it applies all relevant checks and controls but that it is ultimately up to Greece to ensure refugee camps and their systems are in line with European standards.

    Vavoula, the researcher who was involved in the Greek DPA complaint, said the EU has been “funding … these initiatives without proper oversight”.

    Saskia Bricmont, a Belgian politician and a Member of the European Parliament with the Greens/European Free Alliance, described unsuccessful efforts to obtain more information on the systems deployed at Greece’s camps and borders: “Neither the commission nor the Greek authorities are willing to share information and to be transparent about it. Why? Why do they hide things – or at least give the impression they do?”

    The European Ombudsman recently conducted a probe into how the commission ensures fundamental rights are being respected at Greece’s EU-funded camps. It also asked the commission to weigh in on the surveillance systems and whether it had conducted or reviewed the data protection and fundamental rights impact assessments.

    The commission initially reported that Greece had “completed” assessments “before the full deployment of the surveillance systems”. In a later submission in August, however, the commission changed its wording – writing instead that the Greek authorities have “drawn up” the assessments “before the full deployment” of the tools.

    The commission did not directly respond to Computer Weekly’s query asking it to clarify whether the Greek authorities have “completed” or merely “drawn up” DPIAs, and whether the commission’s understanding of the status of the DPIAs changed between the initial and final submissions to the European ombudsman.

    Eleftherios Chelioudakis, co-founder of the Greek digital rights organisation Homo Digitalis, rejected the suggestion that there are different benchmarks on deployment. “There is no legal distinction between full deployment of a system or partial deployment of a system,” he said. “In both cases, there are personal data processing operations taking place.”

    Chelioudakis added that the Greek DPA holds that even the mere transmission of footage (even if no data is recorded/stored) constitutes personal data processing, and that GDPR rules apply.
    Check… check… is this camera on?

    Greek officials, initially eager to show off the camps’ surveillance apparatus, have grown increasingly tight-lipped on the precise status of the systems.

    When visiting the ministry’s centralised control room at the end of 2021, Computer Weekly’s reporter was told by officials that three camps – on Samos, Kos and Leros islands – were already fully connected to the systems and that the ministry was working “on a very tight timeframe” to connect the more than 30 remaining refugee camps in Greece. During a rare press conference in September 2022, Greece’s then-migration minister, Notis Mitarachi, said Centaur was in use at the three refugee camps on Samos, Kos and Leros.

    In October 2022, Computer Weekly’s reporter was also granted access to the local control room on Samos Island, and confirmed that monitoring systems were set up and operational but not yet in use. A drone has since been deployed and is being used in the Samos camp, according to several eyewitnesses.

    Officials appear to have exercised more caution with Hyperion, the fingerprint entry-exit system. Computer Weekly understands the system is fully set up and functioning at several of the camps – officials proudly demonstrated its functions during the inauguration of the Kos camp – but has not been in use.

    While it’s not yet clear if the more advanced and controversial features of Centaur are in use – or if they ever will be – what is certain is that footage from the cameras installed on several islands is being fed to a centralised control room in Athens.

    In early October, Computer Weekly’s reporter tried to speak with asylum seekers outside the Samos camp, after officials abruptly announced the temporary suspension of journalist access to this and other EU-funded camps. Guards behind the barbed wire fence at the camp’s gate asked the reporter to move out of the sight of cameras – installed at the gate and the camp’s periphery – afraid they would receive a scolding call from the migration ministry in Athens.

    “If they see you in the cameras they will call and ask, ‘Why is there a journalist there?’ And we will have a problem,” one of the guards said. Lawyers and others who work with asylum seekers in the camp say they’ve had similar experiences.

    On several occasions, Computer Weekly’s reporter has asked the Greek authorities to provide proof or early indications that the systems are improving safety for camp residents, staff and local communities. All requests have been denied or ignored.

    Lawyers and non-governmental organisations (NGOs) have also documented dozens of incidents that undermine Greek officials’ claims of increased safety in the tech-riddled camps.
    Unmet promises of increased security

    In September 2022, a peaceful protest by some 40 Samos camp residents who had received negative decisions on their asylum claims escalated into a riot. Staff evacuated the camp and police were called in and arrested several people.

    Lawyers representing those accused of instigating the brawl and throwing rocks at intervening police officers said they were struck by the absence of photographic or video evidence in the case, despite their clients’ request to use the footage to prove their innocence.

    “Even with all these systems, with all the surveillance, with all the cameras … there were no photographs or video, something to show that those arrested were guilty,” said Dimitris Choulis, a lawyer with the Human Rights Legal Project on Samos.

    Asked about the incident, the Samos camp director at the time explained that the system has blind spots and that the cameras do not cover all areas of the camp, a claim contrary to other official statements.

    Choulis’s organisation and the legal NGO I Have Rights have also collected testimonies from roughly a dozen individuals who claim they were victims of police brutality in the Samos CCAC beginning in July 2022.

    According to Nikos Phokas, a resident of Leros Island, which houses one of the EU-funded facilities, while the surveillance system has proven incapable of preventing harm on several occasions, the ability it gives officials in Athens to peer into the camps at any moment has shifted dynamics for camp residents, staff and the surrounding communities. “This is the worst thing about this camp – the terror the surveillance creates for people. Everyone watches their backs because of it.”

    He added the surveillance apparatus and the closed nature of the new camp on Leros has forced some camp employees to operate “under the radar” out of fear of being accused of engaging in any behaviour that may be deemed out-of-line by officials in Athens.

    For example, when clothes were needed following an influx of arrivals last summer, camp employees coordinated privately and drove their personal vehicles to retrieve items from local volunteers.

    “In the past, it was more flexible. But now there’s so much surveillance – Athens is looking directly at what’s happening here,” said Catharina Kahane, who headed the NGO ECHO100PLUS on Leros, but was forced to cut down on services because the closed nature of the camp, along with stricter regulations by the Greek migration ministry, made it nearly impossible for her NGO to provide services to asylum seekers.

    Camp staff in one of the island facilities organised a protest to denounce being subjected to the same monitoring and security checks as asylum seekers.

    Residents of the camps have mixed views on the surveillance. Heba*, a Syrian mother of three who lodged an asylum claim in Samos and was waiting out her application, in early October said the cameras and other security measures provided a sense of safety in the camp.

    “What we need more is water and food,” said Mohammed*, a Palestinian asylum seeker who got to Samos in the midst of a recent surge in arrivals that brought the camp’s population to nearly 200% capacity and has led to “inhumane and degrading conditions” for residents, according to NGOs. He was perplexed by the presence of high-tech equipment in a refugee camp that has nearly daily water cuts.

    https://www.computerweekly.com/feature/Greek-data-watchdog-to-rule-on-AI-systems-in-refugee-camps
    #camps_de_réfugiés #surveillance #AI #IA #intelligence_artificielle #Grèce #asile #migrations #réfugiés #camps_de_réfugiés #biométrie #algorithmes

  • Ceux qui sont restés là-bas

    « Il aurait fallu rester jusqu’à la fin. Il aurait fallu mourir. Avoir quitté les lieux avant les autres, c’est être coupé de l’Histoire. Je suis entré dans le noir qu’on appelle la #survie. Je n’ai pas vu de mes yeux jusqu’au bout, je n’ai pas payé de ma vie comme les autres. Cependant, si l’enfance détermine tout, alors je suis un enfant des camps. »
    1978. Narang a six ans. Il fuit le Cambodge avec sa mère. Comme une foule d’autres #rescapés, tous deux tentent de rejoindre la Thaïlande. Épuisés par des jours de marche, harassés par la faim et la soif, ils sont parqués dans un #camp à leur arrivée. Cela aurait pu être la fin de leur tragédie. Mais ça ne sera que le début d’une autre. Fulgurante, celle-ci. #Jeanne_Truong restitue avec force et pudeur l’horreur du cauchemar cambodgien. Elle revient sur un épisode méconnu de cette période sanglante. Le récit de Narang, habité par les obsessions qui hantent les survivants, est saisissant de vérité et d’humanité.

    https://www.librairie-gallimard.com/livre/9782072888045-ceux-qui-sont-restes-la-bas-jeanne-truong
    #Cambodge #génocide #massacre #histoire #Thaïlande #réfugiés_cambodgiens #livre

    • Citations :

      « En 1978, le sort nous a tirés des cabanes de la mort. On doit avoir pitié de ceux qui n’ont pas vécu cette apocalypse jusqu’au bout, de ceux qui ont réussi à partir et qui n’ont pas partagé cette souffrance. Cette souffrance manquée est un trou qu’on ne peut combler. Ceux qui en ont réchappé ont le sentiment d’avoir été exclus de l’histoire. Pourtant la honte d’avoir évité le pire devrait leur signaler qu’ils sont aussi les enfants de cette tragédie qu’on ne peut désigner. »

      (p.13)

      –-

      « Ainsi étaient ces morts, Marxime, Prolétariat, Parti communiste… Lénine et Marx étaient des noms de dieux inconnus qui nous donnaient le tournis par leur étrangeté, aussi étranges pour nous que les Vishnu et Shiva aux oreilles d’un Européen. On peut dire qu’on nous a terrorisés par des sons inédits, par des sons difficiles et rocailleux. Ces mots n’étaient pas faits pour nos oreilles ni pour nos estomacs. Ils étaient là pour les blesser. Nous sommes morts pour ces mots indigestes. […] Nous sommes vraiment morts pour des mots que nous n’avons même pas compris, dont nous n’avons pas reconnu la couleur, ni la matière, ni l’odeur. Ces mots que Pol Pot a importés après son séjour en France. Il est revenu avec ces mots qui terrorisent, agenouillent, parce que notre peuple s’était déjà agenouillé devant les écoles, les administrations, la langue des étrangers. La terreur, il en avait lu le mode d’emploi dans les livres d’histoire. Il a importé la terreur de la Révolution française. Lui, le fils de son peuple, avait bien sûr le droit plus que les autres de l’asservir. Il a décrété que les siens étaient des attardés, qu’ils n’avaient pas encore la lumière, que le communisme, la dictature du prolétariat, la science, la méthode allaient la leur apporter, et ranimer cette populace abrutie d’idiotie, de mentalité corrompue. Et nous, qui dormions tranquillement dans nos campagnes et nos villes, noirs et languissants, cherchant à traverser nos souffrances, nous avons été brutalement réveillés par la ferraille cacophonique, la ferraille coupante des armes, par l’ère de l’acier, nous qui n’étions qu’à l’âge de pierre, du bois, des feuilles et des fleurs. »

      (p.15-16)

      –-

      « Les Américains n’étaient pourtant pas les premiers à s’installer chez nous. Les premiers nous avaient fait connaître leur langue, leur dieu et leur hymne. Leur histoire n’avait plus aucun secret pour nous. A leur arrivée, ils nous avaient tué nos guerriers, nos musiciens, nos poètes. Puis les territoires qu’ils avaient conquis, ils les avaient baptisés d’un nom mythique, empreint de nostalgie : Indochine. Chez eux, les plus empathiques d’entre eux parlaient de nos terres amoureusement. Sans y avoir mis les pieds, ils pensaient à nos sols comme à leurs plus tendres terroirs. Pendant ce temps, nous apprenions leur langue. Mais nous n’étions que des indigènes. Le sommeil nous gagnait dans les salles de classe, nos yeux se fermaient, nos têtes chanchelaient sous le regard de nos maîtres qui suaient abondamment dans leurs robes épaisses. »

      (pp.21-22)

      –-

      « Nous comprîmes que pour ces lointains envahisseurs, nous étions vraiment des animaux, et que les animaux étaient moins que des pierres. Ils ne savaient pas que nous étions des êtres sensibles, doués de la même intelligence, que nous avions les mêmes groupes sanguins, les mêmes gènes. Vus de haut, de leurs appareils, nous étions des insectes. Ils faisaient exploser leurs bombes sur nos têtes comme ils auraient écrasé de simples cafards »

      (p.24)

      –-

      « Avec le temps, moi, Narang, je sais qu’en réalité, les génocidaires ne soutiennent aucun idéal, en croient en aucune idéologie. Ils ne poursuivent que leur but trivial, leur intérêt criminel, leur logique froide et mécanique. Le bien, le mal n’existent pas pour eux. Il n’y a ni homme, ni frère, ni mère, ni père. Il n’y a que des unités, des entités abstraites sur lesquelles ils appliquent leur solution systématique et globale. Pour Pol Pot, cette solution s’est appelée dictature du prolétariat. Elle s’est appelée Angkar. Elle aurait pu tout aussi bien prendre un autre nom. L’expérience me dit que la justice, l’amour, la compassion n’ont aucune bannière. Ce sont des valeurs qui appartiennent à la seule conscience éveillée. »

      (pp.235-235)

  • Bangladesh : « Ce qui frappe dans les camps de réfugiés de Rohingya, c’est l’abandon d’un peuple et la déstructuration sociale »

    L’annonce faite par Emmanuel Macron lors de son voyage au Bangladesh, le 11 septembre, d’augmenter d’un million d’euros la contribution française aux activités du Programme alimentaire mondial dans les camps de Rohingya de ce pays est-elle à la hauteur de la situation ?

    Rappelons-nous. Il y a six ans, des centaines de milliers de Rohingya quittaient l’Etat de Rakhine [Arakan] au #Myanmar, l’ex-Birmanie. Ils fuyaient les massacres, les viols, les incendies de leurs maisons commis pendant l’offensive militaire lancée en août 2017. A la fin de cette même année, plus de 700 000 nouveaux réfugiés étaient arrivés dans le district de #Cox’s_Bazar, dans le sud-est du #Bangladesh. Ils rejoignaient les 200 000 réfugiés rohingya issus de déplacements antérieurs.

    Pour accueillir ces populations, un camp entre jungle et rizières est sorti de terre. #Kutupalong-Balukhali est aujourd’hui le plus grand camp de réfugiés au monde. Il se compose de plusieurs sites contigus dont les artères centrales en brique et en ciment débouchent sur des ruelles étroites. Là, les familles vivent dans de petites habitations faites de bambou et de bâches.

    Toute une série de restrictions

    Certaines sont posées à flanc de colline et donc exposées aux glissements de terrain, conséquence des pluies diluviennes qui peuvent s’abattre pendant la mousson. Les points d’#eau_potable, certes nombreux, ne sont ouverts que quelques heures par jour, et il est fréquent de voir des disputes s’y dérouler. Quelle ironie dans cette région parmi les plus humides au monde. Parfois, on surprend le long des frontières du camp les barbelés qui nous rappellent qu’il s’agit d’un bidonville semi-fermé.

    Si le Bangladesh a ouvert ses portes aux réfugiés, il les soumet à toute une série de restrictions. Les boutiques rohingya qui fleurissent le font selon le bon vouloir de la police qui peut les fermer au motif qu’elles n’ont pas été autorisées. Les déplacements à l’intérieur de Kutupalong, même d’un camp à l’autre, sont extrêmement limités. Il est en outre interdit aux Rohingya de travailler, bien qu’un grand nombre d’entre eux le fassent.
    Ils sont alors à la merci de la #police, des #bakchichs et des #arrestations. L’éducation est par ailleurs très encadrée. De multiples obstacles sont posés à l’enregistrement des naissances. L’approche du gouvernement à l’égard des camps est un mélange ambigu de tolérance et de prohibition : cette élasticité laisse les Rohingya dans un état d’incertitude perpétuelle.

    Le #contrôle_social auquel sont soumis les réfugiés est aussi le fait des groupes politico-criminels rohingya qui pullulent dans le camp et dont la présence, ces dernières années, s’est faite plus intense. Ces groupes sont en conflit ouvert pour le contrôle du trafic de yaba. Ce mélange de méthamphétamine et de caféine est principalement produit au Myanmar, et le Bangladesh est l’un des principaux marchés où circule cette drogue.

    Viols et violences

    Le déploiement humanitaire est impressionnant, mais l’engagement des donateurs s’amenuise. Le mois dernier, le « Plan de réponse conjoint » 2023 élaboré par les Nations unies et le gouvernement n’était financé qu’à hauteur de 30 %. Entre mars et juin, les allocations alimentaires mensuelles – des paiements en espèces reçus sur une carte SIM – sont passées de 12 à 8 dollars par personne.

    Cette réduction a pour conséquence d’entraver la capacité des réfugiés d’acheter des produits frais sur le marché et des vêtements. Il faut trouver de quoi manger, coûte que coûte, ce qui amène les réfugiés à se livrer à des activités illicites – cambriolages et trafics en tout genre.

    Les conséquences du sous-investissement par les bailleurs de fonds sont aussi médicales et viennent s’ajouter à celles de l’augmentation de la population dans un espace qui, lui, ne s’accroît pas. Chaque année, y naissent entre 30 000 et 35 000 #bébés. Du fait de la densité des lieux et de la faiblesse des services sanitaires, il est estimé que 40 % de la population du camp souffre de la #gale. La fermeture de certains services de #santé a pour effet d’engorger les structures qui se maintiennent.

    Les #femmes seules, comme les personnes âgées et handicapées, sont parfois contraintes de payer des services pour des tâches qu’elles n’ont pas la possibilité d’accomplir seules : réparer leur maison, porter la bouteille de gaz du point de distribution jusque chez elles en dépit de l’existence d’une assistance prévue pour combler une partie de ces besoins spécifiques. Les femmes sont vulnérables aux #viols et aux violences – les cas sont nombreux et loin d’être mis au jour.

    Un « facteur d’attraction »

    Il est difficile d’imaginer que l’engagement présidentiel français modifiera la donne. Cela nécessite un tout autre investissement. La survie d’un peuple, condamné à vivre dans ces conditions de nombreuses années encore, relève du génie. Ce qui frappe dans les camps de réfugiés rohingya de Cox’s Bazar, ce sont moins les limites du système de l’aide que l’abandon d’un peuple et sa conséquence : la déstructuration sociale.

    La plupart des réfugiés espèrent retourner au Myanmar, une étape qui ne pourra être franchie que lorsque leurs terres et leur nationalité, dont ils ont été privés en 1982, leur seront restituées. Certains se résolvent malgré tout à rentrer clandestinement au Myanmar où ils s’exposent aux violences commises par les autorités birmanes.
    Quelques-uns ont bénéficié de rares opportunités de réinstallation dans d’autres pays, comme le Canada ou les Etats-Unis, mais le gouvernement bangladais a suspendu le programme de réinstallation en 2010, arguant qu’il agirait comme un « facteur d’attraction ». Les initiatives récentes visant à relancer le processus ont été timides.
    Une possibilité est la traversée risquée vers la #Malaisie, un pays qu’un nombre croissant de Rohingya à Kutupalong considère comme une voie de salut. Pour la très grande majorité des réfugiés, il ne semble n’y avoir aucun avenir à moyen terme autre que celui de demeurer entre deux mondes, dans ce coin de forêt pétri de #dengue et de #trafics en tout genre.

    Michaël Neuman est directeur d’études au Centre de réflexion sur l’action et les savoirs humanitaires (Crash) de la Fondation Médecins sans frontières.
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/31/bangladesh-ce-qui-frappe-dans-les-camps-de-refugies-de-rohingya-c-est-l-aban

    Massacre des Rohingya : « Facebook a joué un rôle central dans la montée du climat de haine » en Birmanie
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2022/09/29/massacre-des-rohingya-facebook-a-joue-un-role-central-dans-la-montee-du-clim
    https://archive.ph/DMWO8

    Au Bangladesh, l’exil sans fin des Rohingya
    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/12/16/au-bangladesh-l-exil-sans-fin-des-rohingya_6154745_3210.html
    https://archive.ph/xKPyh

    #camp_de_réfugiés #Birmanie #Rohingya #réfugiés #musulmans #barbelés #drogues #déchéance_de_nationalité #aide_humanitaire #Programme_alimentaire_mondial

  • Confirming a Strike on #Jabalia Refugee Camp as Israeli Forces Approach Gaza City

    A strike on Jabalia Refugee Camp north of #Gaza_City killed dozens on Tuesday, as the #Israel_Defense_Forces (#IDF) continued advancing into the Gaza Strip. Video and satellite analysis by Bellingcat has confirmed a strike on the Jabalia Refugee Camp, and identified several points where IDF forces have gathered on the outskirts of Gaza’s largest city.
    Jabalia Strike Highlights Concerns of Civilian Harm

    Reports began to appear online about 2:30 pm local time that an airstrike had hit the Jabalia Refugee Camp in the northern Gaza Strip.

    Videos and images have also appeared in various Telegram channels showing widespread destruction as well as injured and dead civilians at a location that Bellingcat was able to geolocate to the following coordinates in Jabalia, here: 31.53271, 34.49815.

    Three distinct buildings in the background of a photograph taken by Palestinian photojournalist Anas al-Sharif match up with satellite imagery taken on October 30.

    A Reuters live stream filming towards Jabalia and Gaza City appears to have captured a large explosion at approximately 2:24pm local time, consistent with the earliest reports of the strike on Jabalia.

    By using a technique called intersection, where known points in a view are aligned, we can identify that this explosion matches exactly with the location of the impact at Jabalia.

    At least 40 people were reportedly killed in the strike.

    The IDF confirmed an airstrike was carried out on Jabalia, stating, “The strike damaged Hamas’s command and control in the area, as well as its ability to directly military activity against IDF soldiers operating throughout the Gaza Strip.”

    Asked about civilian casualties on CNN, International IDF spokesman Lt Col Richard Hecht reiterated calls for civilians to “move south” and said the IDF is “doing everything we can to minimise” civilian casualties.

    The UN has urged Israel to reconsider its evacuation order with both humanitarian and medical organisations working in Gaza outlining that it is not possible for all civilians in northern Gaza to evacuate south, as Israel has repeatedly ordered them to do.

    The Jabalia Refugee Camp has been hit by multiple airstrikes in the past month, resulting in scores of casualties. An October 9 airstrike killed 60, an October 19 airstrike killed 18, and an October 22 airstrike killed 30.

    ”More than two million people, with nowhere safe to go, are being denied the essentials for life — food, water, shelter and medical care — while being subjected to relentless bombardment,” said UN Secretary-General António Guterres on October 29, two days prior to the latest strike. “I urge all those with responsibility to step back from the brink.”

    In Gaza City, civilians have also been struggling to access food and basic necessities. A video posted on TikTok on Sunday, October 29 showed a long queue at a bakery in Gaza. Bellingcat confirmed the location of the bakery as the New Sharq Bakery in the Jabalia refugee camp (31.5356, 34.5038).
    Attack on a Vehicle on Salah al-Din Road

    Separately, a video posted Monday morning on Instagram by Youssef Al Saifi, a Palestinian journalist, appears to show an IDF tank firing at a station wagon on Salah al-Din road. Salah al-Din had previously been identified by the IDF as a safe evacuation route for civilians within Gaza City.

    The video was geolocated by Benjamin den Braber, a Senior Investigator at the Centre for Information Resilience, to these coordinates: (31.470545, 34.432676) and independently verified by Bellingcat. The vehicle is travelling north on Salah al-Din road before encountering an IDF tank and an IDF armoured bulldozer. As the vehicle attempts a three-point turn, the tank fires at it.

    The armoured bulldozer in the video appears to be building a roadblock across Salah al-Din road. Bellingcat contacted the IDF Press Office, but they did not respond to a request for comment prior to publication. An IDF spokesperson was previously asked specifically about the tanks at a briefing and declined to give more information.

    Satellite Imagery Reveals Beginnings of a Ground Invasion

    The vehicle attack and camp strike follow an increasing presence of IDF ground troops in the Gaza Strip, which first entered the territory on October 27, according to Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu. Since then, satellite imagery shows the IDF have entered from at least three places: two along the territory’s northern border, and one to the southeast of Gaza City.

    Satellite imagery taken on October 30 reveals more than 50 armoured military vehicles and extensive demolition in the Al-Karama area, located approximately three to five kilometres southwest of the Gaza border.

    Israel’s ground movements have come more slowly than expected. Military specialists told Reuters on Monday that the IDF is possibly proceeding this way to draw Hamas fighters out of tunnels and densely populated areas, while also allowing for more time to negotiate for the release of hostages taken by militants during the October 7 attacks. Other reports have noted some of Israel’s allies, including the US, have advised the country to delay a full invasion.
    Approaching Gaza from the North and South

    Starting on Sunday, October 29, images began to appear on social media showing IDF vehicles and troops in northern Gaza.

    A video showed IDF soldiers raising an Israeli flag over a building geolocated inside Gaza approximately three kilometres south of the border. The geolocation was shared on X by the Geoconfirmed account, and independently confirmed by Bellingcat.

    As Israeli soldiers and vehicles have entered Gaza, some of their activities are visible on satellite imagery.

    One neighbourhood that appears to have been heavily bombed, prior to the ground invasion, was full of IDF vehicles as of October 30.

    Low-resolution satellite imagery reveals at least three major entry points for Israeli ground troops: one along Gaza’s northern border near the Mediterranean Sea, one near the Erez border crossing north of Beit Hanoun, and one southeast of Gaza City.

    Along Gaza’s northern border, imagery from October 26 showed vehicle tracks approximately 1km from the Mediterranean Sea. These tracks were joined on October 28 by a second set of tracks, closer to the sea, stretching 3km south. Satellite imagery on October 30 showed a third set of tracks, 7km to the east near the Erez border crossing towards Beit Hanoun.

    Additional tracks can be seen south-southeast of Gaza City and north of Wadi Gaza in October 28 imagery.

    The latest footage and satellite imagery shows the situation in Gaza continues to deteriorate for civilians, particularly for those located in the northern part of the territory, which remains the focus of Israeli strikes and now the ground invasion.

    Bellingcat will continue to monitor the latest war in Israel-Palestine with the aim of documenting civilian harm.

    https://www.bellingcat.com/news/2023/10/31/confirming-a-strike-on-jabalia-refugee-camp-as-israeli-forces-approach-g
    #Gaza #camp_de_réfugiés #Palestine #Israël #images_satellites #images_satellitaires #destruction #architecture_forensique #armée_israélienne #bombardements #visualisation #cartographie #Al-Karama