• L’ultima spiaggia dell’unione Europea

      Nel Nord della Francia tra Calais e Dunkirk centinaia di persone tentano ogni giorno di attraversare la manica e raggiungere le coste dell’Inghilterra.

      I fratelli di Mohamed hanno corso durante tutta la marcia e una volta arrivati di fronte alla spiaggia si sono precipitati verso le dune di sabbia per raccoglierne a manciate e gettarsele addosso. A pochi metri di distanza, poco più di 50 persone disposte a semicerchio, commemorano il loro fratello minore, Mohamed, morto a soli dieci mesi, e #Dina_Al_Shaddadi, entrambe vittime della frontiera tra Francia e Inghilterra. Sono state le famiglie dei due a organizzare una “marche blanche” a Calais (la città francese più prossima all’Inghilterra). Hanno chiesto ai partecipanti di vestirsi di nero e portare dei fiori, e così è stato fatto.

      Mohamed è morto alla Caritas per un arresto cardiaco, un giorno dopo il rientro da un tentativo di attraversamento della frontiera. Dina invece è morta in mare.

      Il 27 di luglio si era aperta una finestra di passaggio per tentare la traversata. Il vento era buono, il tempo pure e Dina Al Shaddadi e la sua famiglia avevano deciso di provare per la quinta volta. Dina e sua sorella, Nour, sono salite per prime sulla barca, erano sicure di avercela fatta, l’Inghilterra era a un passo. Il gommone ha cominciato in fretta a riempirsi di persone che pur non avendo comprato un biglietto sono salite. Nour e Dina sono state schiacciate dalla massa di persone accalcate sull’imbarcazione. Nour ha provato a richiamare l’attenzione, a suggerire a chi era con loro di chiamare i soccorsi, ha cercato di impedire che si avviasse il motore e si arrivasse al largo. Solo quando il volto di Dina è sbiancato e il collo è diventato blu le persone intorno a lei hanno capito che la situazione era grave e hanno chiamato il 112. Era troppo tardi.

      Dalla Brexit il numero di persone che hanno tentato di attraversare per mare il confine è aumentato notevolmente, così come è cresciuto il numero di vittime. Non ci sono abbastanza barche per tutti, il viaggio ha un costo molto alto – si parla di duemila euro per un tragitto che per vie legali costerebbe 40£ – e chi non paga un biglietto ai “passeur” (i trafficanti) prova a saltare all’ultimo dentro la barca, come è successo a Dina e Nour, compromettendo la sicurezza di tutti, anche la propria.

      Per contrastare gli “sbarchi irregolari” i governi di Francia e Inghilterra hanno avviato degli accordi bilaterali per bloccare le partenze dalle Coste francesi: il litorale di Calais è altamente militarizzato, il porto è circondato da filo spinato e le pattuglie della polizia monitorano le spiagge di Boulogne, Calais e Grand Synthe.

      Di notte migranti e polizia giocano a nascondino: i primi si confondono nelle dune di sabbia e tra la vegetazione, quando non vedono uomini in divisa all’orizzonte corrono portando in alto il gommone, una volta entrati in acqua accendono il motore e salgono, molto velocemente, per partire e godere dell’immunità: la polizia in acqua non li può toccare.

      Ma l’attenzione della polizia non riguarda soltanto la costa, tocca anche la città di Calais. Dopo lo smantellamento della giungla nel 2016, dove abitavano circa 10.000 persone, i campi si sono dispersi e frammentati in diversi luoghi della città. Ogni 48 ore almeno venti –ma spesso molti di più – uomini della Police Nationale in tenuta anti-sommossa operano degli sfratti nei campi: portano via alcune tende, al cui interno si trovano spesso i pochi averi di chi vive in quei rifugi di fortuna, a volte arrestano qualcuno, e poi passano al campo successivo.

      Una mattina mentre la polizia sta sgomberando il campo cosiddetto “Unicorn”, accanto all’ospedale di Calais, Nassim (nome di fantasia) li guarda e dice: «Io ero come loro». Sua madre è siriana, suo padre turco, dopo il 2011 è scappato da Damasco, ha attraversato il confine ad Ovest ed è andato a vivere con la sua famiglia nella città natale del padre, vicino a Gaziantep nella Turchia dell’Est. Lì ha deciso di arruolarsi nell’esercito: «Ho cominciato il periodo di addestramento e mi hanno spedito a presidiare il confine con la Siria, ma non ho resistito, sono dovuto scappare via non potevo sopportare il modo in cui il corpo militare turco agiva su quel confine».

      Così è andato via, ha attraversato l’Europa a piedi lungo la rotta balcanica per arrivare in Germania dove ha imparato il tedesco e ha cominciato un processo di integrazione. Dopo un anno il governo tedesco gli ha fatto sapere che la sua domanda d’asilo non era stata accettata, Nassim se n’è dovuto andare da un posto che aveva cominciato appena a chiamare casa per la terza volta.

      È partito per Calais all’inizio di luglio, nel campo si annoia, dice che non c’è nulla da fare, vuole andare in Inghilterra e ricominciare la sua vita che è in pausa da mesi. Lui, a differenza di altri che arrivano a Calais e decidono di restare in Francia, è certo di dover partire. In poco più di un mese ha tentato sette volte la traversata senza mai riuscirci. A volte è colpa del tempo, quando piove o c’è troppo vento è bene non avventurarsi in mare; altre volte è stata la polizia a fermarlo. L’ultimo tentativo lo ha sfiancato, è tornato al campo stanco e insofferente, e nonostante di norma sfoderasse un inglese perfetto ha preferito usare Google traduttore per parlare con i volontari. Ha detto: «Sono troppo stanco per pensare». La polizia aveva sorpreso lui e altri compagni sulla spiaggia all’alba mentre trasportavano un gommone, che è stato subito confiscato, e in seguito alle proteste di alcuni di loro gli agenti della Police Nationale hanno usato gas e manganelli.

      Quando il gruppo è tornato al campo si sono fatti vedere curare le ferite da alcuni studenti di medicina inglesi volontari a Calais, poi sono spariti nella boscaglia, dove avevano lasciato le tende. Alcuni le hanno trovate al loro posto, Nassim no. Ne aveva bisogno per riposarsi in vista del giorno successivo, quando avrebbe tentato di nuovo, l’Inghilterra per lui è l’unica soluzione.

      https://scomodo.org/lultima-spiaggia-dellunione-europea
      #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #frontières #décès #Calais #France #Manche #marche_blanche #campement #Unicorn

  • Où a disparu le mouvement pacifiste ?
    https://italienpcf.blogspot.com/2024/08/ou-disparu-le-mouvement-pacifiste.html?m=1

    par Heribert Prantl

    Quarante ans plus tard. Il y a un silence, un grave silence. Des missiles de croisière Tomahawk, des missiles SM-6 et des missiles hypersoniques sont déployés en Allemagne, le pays reste silencieux, l’Europe est silencieuse. Pas de protestations, pas de manifestations

    Il Manifesto 21 août 2024

    Il y a un silence, un silence de pierre. Des missiles de croisière Tomahawk, des missiles SM-6 et des missiles hypersoniques sont déployés en Allemagne, le pays reste silencieux, l’Europe est silencieuse. Pas de protestations, pas de manifestations.

    L’Allemagne est le seul pays d’Europe auquel ces systèmes d’armes américains sont destinés. Ils sont dirigés contre la Russie.

    Pourquoi est-ce si calme ? Est-ce l’été, est-ce les vacances ? Pourquoi la déclaration américano-allemande sur le déploiement est-elle si incroyablement concise et sèche ? Elle ne fait que neuf lignes. Le silence a-t-il quelque chose à voir avec le fait qu’il semble y avoir encore du temps ? Après tout, le déploiement ne commencera pas avant 2026. Ou est-ce parce que l’on est convaincu que ces missiles « n’apporteront que la paix » ?

    À l’avenir, seule la paix sortira du sol allemand" : telle est la promesse faite par les deux États allemands en 1990 avec le traité « Deux plus quatre ». La RDA et la République fédérale étaient les deux ; les quatre étaient la France, l’Union soviétique, la Grande-Bretagne et les États-Unis. Ce traité a ouvert la voie à la réunification de l’Allemagne. La paix viendra-t-elle donc de ces nouveaux missiles, qui pourraient être équipés d’armes nucléaires ? Ou bien cette promesse a-t-elle pris un autre sens après la guerre en Ukraine, parce que la dissuasion est désormais plus importante que le désarmement ? Les temps sont-ils devenus tellement guerriers que parler de désarmement n’a plus de sens ? Le mot « paix » a-t-il perdu de son attrait ? Derrière ces points d’interrogation se cache le silence.

    Le président russe Vladimir Poutine a annoncé qu’il réagirait en miroir. Lorsque l’on répond à une action menaçante par une menace encore plus grande et que les adversaires ont des contre-réactions qui se nourrissent les unes des autres, on parle d’escalade. L’escalade signifie que les missiles à longue portée, qui peuvent être dotés de l’arme nucléaire en théorie, le seront également en pratique. Bertold Brecht a mis en garde contre cette course au réarmement il y a plusieurs décennies. La grande Carthage, écrivait-il en 1951, a mené trois guerres. Après la première, elle était encore puissante, après la deuxième, elle était encore habitable. Après la troisième, elle était introuvable". Dans une troisième guerre mondiale, l’Europe serait comme Carthage, ou pire. Les cavaliers de l’apocalypse sont désormais dotés d’armes nucléaires.

    Le chancelier allemand Olaf Scholz a qualifié la décision d’installer les nouveaux missiles américains en Allemagne de « très bonne décision ». Doit-il dire cela parce que, dans son serment, il a promis d’éviter de nuire au peuple allemand ? Quelle est l’ampleur du risque de voir l’Allemagne devenir un champ de bataille ? C’est la crainte qui a marqué les manifestations contre le réarmement dans les années 1980, lorsque les missiles Pershing II ont été installés en République fédérale.

    La guerre nucléaire, disait-on à l’époque, devenait « plus précise et plus contrôlable » avec les missiles Pershing ; le seuil d’inhibition à leur utilisation serait alors abaissé. Les Tomahawk actuellement déployés méritent vraiment le qualificatif de « précis ». Et, contrairement aux Pershing, ils peuvent atteindre Moscou. Cela augmente-t-il ou diminue-t-il le risque que Moscou tente d’éliminer ces missiles de manière préventive ?

    Le silence est tel en Allemagne que l’on peut encore entendre les échos des anciennes manifestations, celles de l’époque, lorsqu’il y avait un mouvement pacifiste dans toute l’Europe. C’était il y a quarante ou quarante-cinq ans. À l’époque, des millions de personnes sont descendues dans la rue avec le slogan « Non à la mort nucléaire » et ont protesté contre la « double décision » de l’OTAN d’installer des missiles et d’entamer des négociations avec Moscou. En Allemagne, ce fut le thème central des protestations, avec la manifestation pacifiste au Hofgarten de Bonn en octobre 1981, suivie des nombreux blocages contre les transports de missiles à Mutlangen. Parmi ceux qui ont barré la route aux missiles, on trouve des écrivains comme Günther Grass et Heinrich Böll, des hommes et des femmes d’église, des artistes et des universitaires, puis de grandes masses de personnes anonymes.

    À cette époque, à l’heure des mouvements pacifistes, le désarmement atteint également le système judiciaire allemand : en 1995, la Cour constitutionnelle fédérale juge que les blocages effectués par les sit-in ne constituent pas des actes de violence. Les jugements prononcés à l’encontre de ceux qui avaient bloqué les missiles ont donc dû être annulés. C’était il y a longtemps. Mais en 2010, le Bundestag a décidé à une large majorité que le gouvernement Merkel devait faire campagne « vigoureusement » pour le retrait de toutes les armes nucléaires américaines d’Allemagne. C’était également il y a longtemps. Les missiles Tomahawk d’aujourd’hui sont-ils moins dangereux parce qu’ils sont plus précis et plus rapides que les missiles Pershing d’autrefois ? Ou bien la situation mondiale est-elle si dangereuse que nous devons accepter de vivre avec la crainte que, si le pire devait arriver, il ne resterait pas une seule pierre debout en Allemagne ?

    Aujourd’hui, la peur paralyse. À l’époque, elle alimentait les protestations, mais aujourd’hui, elle absorbe leur énergie. Beaucoup de gens s’éteignent complètement lorsqu’il s’agit de guerre, d’armement et d’armes, parce qu’ils ont l’impression d’être face à une montagne qu’ils ne peuvent pas voir parce qu’elle est de plus en plus haute. C’est ce qu’on appelle le désespoir. Et certains évitent de lutter pour le désarmement parce qu’ils ne veulent pas être considérés comme des amis de Poutine.

    Le ministre de la défense, Boris Pistorius, affirme qu’il existe un « déficit de capacités » pour justifier le renforcement des forces armées. Mais le mouvement pacifiste souffre également d’un « déficit de capacité ». Il a perdu la capacité de protester au nom de l’espoir.

    En Europe, nous devons réapprendre ce qu’est la paix. Il n’y a pas de sécurité avec encore plus de dépenses militaires, encore plus de chars ou encore plus d’ogives nucléaires. La sécurité ne double pas si l’on double les dépenses militaires et les armes. Elle ne sera pas réduite de moitié si les dépenses et les armes sont réduites de moitié. Elle augmentera si les deux adversaires apprennent à se regarder l’un l’autre. C’est ainsi que nous pourrons réapprendre à faire la paix.

    –-

    Heribert Prantl est chroniqueur au journal allemand Süddeutsche Zeitung.

    #Allemagne #histoire #pacifisme

    • La Russie de Poutine a envahi plusieurs pays, a rasé la Tchetchenie.
      Poutine doit être dissuadé de nuire par des armes de dissuasion.

      Il n’y a aucun parallèle à faire avec les Palestiniens qui subissent une occupation de plus de 70 ans et qui actuellement, subissent un génocide.

    • La dissuasion fonctionne bien et depuis longtemps.

      Maintenant ce sont les populations des états non nucléarisés qui se font massacrer par les états nucléarisés.

      L’Ukraine a eu le grand tort de rendre ses armes nucléaires ...

    • La dissuasion unilatérale, à la façon dont les occidentaux l’envisagent nous mène à une nouvelle course aux armements. Les occidentaux ont sapé tous les outils de déconflictuation mis en place au cours de la guerre froide pour éviter un holocauste nucléaire impromptu.

      Annoner « poutine, poutine, poutine » n’y changera pas grand chose ; à une autre époque, c’était « sadam sadam sadam », ou « kadafikadafikadafi ». Faire comme si la désintégration des outils internationaux de déconflictuation (ONU, Convention de Genève...), du fait en premier lieu des occidentaux eux mêmes, telle qu’elle a lieu en Israël, d’une façon si éloquente et odieuse, ou telle qu’elle a lieu en Arménie, ou telle qu’elle a eu lieu en Syrie ou telle qu’elle a eu lieu en Irak, faire comme si ces actes de tyrannie et d’ultra-violence étaient tous séparés les uns des autres, et tous imputables à quelques diables de circonstance, quand la source est unique et aveuglante (les occidentaux/le capitalisme), ce n’est pas à proprement parler une façon de faire avancer les choses.

      Les pacifistes sont aujourd’hui criminalisés dans nos contrées des « Lumières ». Tout est lié.

    • C’est cela : les pacifistes sont en prison et les missiles sont partout. Les instances de domination de l’occident global ont appris à se « bunkeriser » et des conflits à dominante nucléaire les impacteront très peu. Cela sera aussi, selon leur vision, une opportunité pour éliminer quelques milliards de surnuméraires, les fameux « animaux humains ».

    • Pour nous faire une idée de la question si une comparaison entre l’Ukraine et Gaza est possible, et si on doit y livrer des armes, rappellons nous de ce qu’est l’Ukraine.

      Voilà onze points qu’on peut considérer comme confirmés malgré le brouillard de guerre .

      1. Dans le courant de la dissolution de l’URSS les oligarques régionaux s’emparent de la Crimée et des riches terres qui ont plus ou moins constitué l’Ukraine historique. Ces exploiteurs dominent le peuple dit ukrainien dépourvu de pouvoir réel.

      2. Ces gens puissants s’arrangent pour s’enrichir sur le dos du peuple déshérité et transforment l’état d’Ukraine en celui avec la population la plus pauvre d’Europe.

      3. Un jour les habitants de la Crimée en ont ras le bol et optent pour le retour à la Russie plus prospère et culturellement plus proche. Manque de bol, ce n’est pas prévu dans la loi internationale, mais c’est possible quand même à cause de la convergence d’intérêts avec le pouvoir russe dit « Poutine ».

      4. Une alliance plus ou moins ouverte entre une fraction des oligarques d’Ukraine et leurs confrères aux États Unis (la bande à Biden ;-) destitue le président du pays par un coup d’état et fait élire un candidat plus incliné à la cause « occidentale ».

      5. Commence une guerre des nationalistes ukrainiens contre la population du Donbas envieuse des habitants de la Crimée désormais rattachée à la Russie prospère.

      6. Les ukrainiens portent au pouvoir un comédien qui promet de régler leurs problèmes. Pourtant la pauvreté et le régne des oligarques persistent, et le nouveau président sous influence « occidentale » fait tout pour saboter le processus de paix connu sous le nom protocole et accord de Minsk.

      7. Suite au refus de l’Ouest de retirer ses missiles et d’en finir avec l’expansion de l’OTAN vers l’Est la Russie invahit l’Ukraine.

      8. La majorité des Ukraniens ne comprend pas qu’ils ne sont depuis la dissolution de l’URSS que des pions sur le grand échequier de Zbigniew Brzeziński et ses apprentis sorciers. Aveuglé par les discours nationalistes ils se lancent dans une guerre perdue d’avance qui sert d’abord à l’impérialisme états-unien. Ces impérialistes occidentaux gèrent la stratǵie et la tactique ukrainienne, alimentent ses amées et en ce faisant profitent du sang versé. Les oligarques d’outre-mer et d’Ukraine continuent à se remplir les poches.
      J’observe tous les jours à Berlin les grosses bagnoles de luxe des sbires d’oligarques ukrainiens qui y complètent leurs fins de mois avec le « Bürgergeld » , qui est une sorte d’argent de poche de +/- €1000 mensuels que l’Allemagne leur paye sans condition. Tout le monde sait qu’il n’y a pas de petit bénéfice .

      9. Le peuple d’Ukraine meurt s’il n’a pas réussi de fuir les combats. Les rescapés d’Ukraine construiront leur avenir en Allemagne ou en France où le patronat leur a souhaité la bienvenue comme « immigration de qualité ». Je suis d’accord avec ce point du vue car il faudra bien quelqu’un qui paie ma retraite qui ne sera assurée ni par les allemands autochtones ni par les réfugiés peu qualifiés d’Afrique.

      10. Une fois la guerre terminée l’Ukraine appartiendra ou à la Russie (d’une manière ou d’une autre) ou aux États Unis qui s’empareront des terres fertiles du pays pour se faire rembourser les frais de la guerre provoquée par eux mêmes.

      11. Cette guerre a déjà détruit l’Ukraine à un point où une reconstruction suivant l’exemple allemand ( Wirtschaftswunder ) est exclue. Les peuples d’Ukraine ont tout perdu et les habitants du pays ne récupèreront quoi que ce soit uniquement s’ils font déjà maintenant partie des profiteurs de cette guerre absurde.

      Conclusion : On ne peut pas comparer la guerre contre Gaza et la guerre en Ukraine car les palestiniens n’ont pas d’Allemagne pour les acceuillir. Du point de vue d’Israel il faut donc ĺes éliminer pour se débarasser de la menace arabe.

      Dans l’absolu la guerre en Ukraine est plus déstructive et meurtrière que celle contre l’état palestinien in statu nascendi mais la brutalité de la politique et des forces armées juives dépasse de loin celle de la campagne militaire russe.

      Alors l’unique point commun des conflits est le fait qu’on assassine des êtres humains pour s’emparere de la terre qui devrait leur appartenir.

      Alors est-ce qu’on doit soutenir un des partis belligerants en Ukraine par des livraisons d’armes ? Je pense que ce n’est pas justifiable quand on se place du côté des populations souffrantes. Les livraisons d’armes ne sont justifiées que du point de vue de celui qui par espoir de gains matériels se rallie aux instigateurs des conflits.

      C’est ce que fait le gouvernement bourgeois allemand. Ses membres misent sur le succès de son partenaire d’outre-mer et essaient d’ecarter toute voix dissédente. Je considère donc les membres de ce gouvernement comme des criminels responsables pour l’hécatombe en Ukraine.

      Le temps est loin quand les représentants du camp bourgeois modéré comme Heribert Prantl pouvaient se rallier à la cause pacifiste. Aujourd’hui il n’y a plus que le peuple même pour se montrer solidaire avec les victimes des guerres des riches. Voilà l’explication pour la disparition du mouvement pacifiste reconnu.

      A vous de choisir votre camp.

      #Ukraine #Gaza #Russie #Israel #guerre #pacifisme

    • Oh, apparemment je me suis mal exprimé. Malheureusement le sujet de la guerre interdit chaque forme d’ironie alors qu’il est insupportable sans y ajouter une prise d’humour. Alors continuons sur un ton sachlich .

      D’abord je m’attendais un peu au reproche malhonnête de poutinisme vu qu’actuellement chaque voix susceptible de pacifisme se fait traiter ainsi.

      Pour le dire clairement - on ne peut que diffcilement nier le fait que l’Ukraine et ses population soient un pion sur l’échequier états-unien. Ceci est vrai aussi pour l’Allemagne et d’autres pays même si les pions se montrent parfois réticents aux ordres du joueur d’outre mer.

      Argument

      Au moment de l’invasion russe le gouvernement d’Ukraine avait le choix entre la guerre totale et la solution gaulliste. Au lieu de s’exiler à Londre il a opté pour le sacrifice de son peuple, qui l’a naturellement suivi .

      Je comprend les simples gens qui pensent défendre leur pays alors qu’ils ne défendent que les intérêts de leurs exploiteurs. Les gouvernements et les intellectuels de tous les pays belligérants par contre devraient le savoir, et à mon avis ils le savent pertinemment. C’est une tromperie qu’on pratique partout pour entraîner les peuples dans les guerres, en Ukraine, en Russie, aux États Unis et ailleurs.

      Opinion

      Vivement qu’on nous épargne la mobilisation générale en Europe de l’Ouest.

      Argument

      Je sais aussi qu’il y un courant idéologique qui prend le gouvernment de Russie pour une bande d’impérialistes qui ont déclenché la guerre afin de faire avancer leur projet de rétablissement d’une grande russie, un peu comme le gouvernement turc sous Erdogan qui aimerait rétablir l’Empire ottoman.Si on part de cette position chaque voix qui n’est pas pour la guerre contre la Russie se ressent comme une voix de traitre. Mais ceci n’a pas d’importance pour mon argument.

      Opinion (du point de vue de classe prolétaire)

      Dans une guerre entre pays capitalistes on ne peut que s’opposer aux meurtres et se prononcer pour la fin immédiate des hostilités, le cas échánt pour la désertion ou la révolte contre le gouvernement de son propre pays.

      Opinion (du point de vue humain)

      Il est déjà inacceptable que les puissants d’un pays gâchent sa richesse pour la production d’armes. Soutenir leur export équivaut à la participation aux boucheries.

      J’espère avoir éclairci mon point de vue.

      #propagande_de_guerre

    • Oui c’est plus clair....

      Au moment de l’invasion russe le gouvernement d’Ukraine avait le choix entre la guerre totale et la solution gaulliste. Au lieu de s’exiler à Londre il a opté pour le sacrifice de son peuple, qui l’a naturellement suivi .

      C’est vrai que laisser son peuple se faire envahir par la Russie de Poutine c’est pas du tout un sacrifice. Faut demander aux biélorusses ce qu’ils en pensent tiens...

    • Opinion (du point de vue de classe prolétaire)

      Anatole France (qui avait réussi à s’extirper de sa condition de prolétaire en devenant un « intellectuel engagé » pour son époque) avait déjà compris bien des choses :
      https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k4004637/f1.item.texteImage.

      En fait, on en revient toujours au même : si tu ne prends pas fait et cause pour un camp, tu deviens automatiquement un « traître ».

      #campisme #bellicisme

    • Les accords de Minsk I et II n’ont pas été appliqués par la partie Ukrainienne. C’est un fait, pas un complot ni une vue de l’esprit.

      L’armée Ukrainienne préparait la reprise en main du Donbass fin 2021, sous la supervision des occidentaux et de l’Otan, c’est un fait, confirmé par deux signataires des accords de Minsk I et II, Merkel et Hollande. Ces deux là ont confirmé qu’ils ont signé ces accords pour gagner du temps et qu’il n’était pas question de faire le moindre compromis avec les habitants du Donbass.

      Ces compromis, l’application des accords de Minsk, qui consistaient en une fédéralisation de l’Ukraine, auraient permis d’éviter la guerre que l’on a aujourd’hui.

      Mais on continue de faire comme si cette guerre n’avait qu’un seul fautif.

    • Les accords de Minsk I et II n’ont pas été appliqués par la partie Ukrainienne. C’est un fait, pas un complot ni une vue de l’esprit.

      Oui et le Hamas a attaqué Israël le 7 octobre donc Israël a bien le droit de mener la guerre qui est menée (puisque apparemment on peut faire ce genre de parallèles, pourquoi se priver).

      Mais sinon les Russes ont vachement bien respecté le truc aussi ? Et attendez, ça venait d’où déjà ce besoin d’avoir des accords de Minsk ? Ce serait pas la Russie qui aurait financé des barbouzes (et non « les habitants du Donbass ») pour conquérir des territoires ukrainiens (et même envoyé ses propres militaires, ce qu’elle a reconnu ultérieurement) ?

      Petit conseil : arrêtez de lire le diplo sur le sujet car ils sont ridicules.

      Les dirigeant ukrainiens sont probablement critiquables, à peu près autant que les notre. Les dirigeants Russes actuels sont un peu un cran au dessus, entre les camps d’internement et les assassinats politiques mon choix est vite fait de préférer un Zelensky à Poutine. L’armée Russe enlève des enfants ukrainiens pour les emmener en Russie, pour les « rééduquer », rien que ce fait doit glacer le sang et amener à réagir.

      Le pacifisme, ça a du sens quand 2 pays (enfin surtout leurs bourgeoisies) à peu près égaux veulent se mettre sur la gueule en utilisant les prolos comme chair à canon. Quand il y a un agresseur à l’idéologie mortifère qui veut conquérir ses voisins, je pense que ça mérite d’y réfléchir à 2 fois avant de demander la paix, et on a quand même quelques exemples dans l’histoire (et encore actuellement).

    • Sur mes réseaux Mastodon, j’ai pleins de gens toute la journée, qui publient les éléments de langage pour voter pour Harris. Et toute la journée, tu constates que le parti Démocrate continue de soutenir le génocide de Gaza. Mais si tu es un bon petit occidental qui sait que Poutine est méchant, alors, tu sais que Trump est méchant, et qu’il faut lui préférer Harris. Ou Biden. Ou un autre. Peu importe. Il est démocrate et pro-occidental. Donc il est gentil. Et comme tu le dis « ça doit glacer le sang et amener à réagir ». En votant et se mobilisant pour Harris. Du camp des génocidaires. Avec des boussoles de ce genre, forcément, on finit tous dans les poubelles de l’Histoire sans crier gare.

    • L’inventaire des horreurs des uns et des autres ne suffit pas à expliquer comment on en est arrivé à une situation

      Oui c’est vrai parce que, comme cela a été dit, expliquer c’est excuser hein.

      Mais sinon je trouve ça assez cocasse de venir pleurnicher des accusations de traîtrise après avoir dit que les ukrainiens auraient soit disant mieux fait de se laisser envahir et en même temps de sous-entendre que les discours anti-poutine viendraient plus ou moins de gens qui sont pro-génocide israélien (pourtant Poutine est un bon pote de Netanyahou, c’est à n’y rien comprendre).

    • Poutine, bon pote de Netanyahou ? Arrête ton délire @alexcorp ...
      De toute façon, ton analyse est biaisée depuis le départ avec ton soutien indéfectible de l’Ukraine corrompue contre la Russie autocratique et autoritaire (oui, la Russie est un état dirigée par un autocrate mafieux mais Zelensky qui ne passe pas encore pour un autocrate est lui aussi passé maître en matière de corruption).

      Pour rappel, le pacifisme n’est pas se coucher devant un adversaire belliqueux (être « munichois ») mais surtout permettre aux parties belligérantes de se rencontrer pour négocier un arrêt des hostilités. D’aucuns nomment cela « diplomatie ». Cette notion est cruellement absente des confrontations de ce premier quart du 21e siècle, chacun préférant montrer ses muscles et pousser du menton virilement en prouvant aux médias qu’il aboie le plus fort. Fin de la blague.

    • Ah si, un dernier truc : qui était derrière la « révolution orange » et le mouvement Maïdan en 2013-2014 ?
      Du coup, Poutine a entrepris la « dénazification » de la Crimée et a encouragé la sédition dans le Donbass. C’est con, hein ?

    • @sombre https://www.lopinion.fr/international/le-lien-personnel-entre-poutine-et-netanyahu-permet-de-sauver-la-relation-r

      Les Israéliens n’appliquent pas, pour l’instant, de sanctions à l’égard de la Russie et ne fournissent pas l’Ukraine en armes. Les relations économiques restent modestes, mais ont progressé pour atteindre 2,7 milliards de dollars en 2023. Le lien personnel entre Vladimir Poutine et Benjamin Netanyahu, bien qu’ils aient réduit leurs échanges, permet de sauver la relation russo-israélienne et d’éviter les dérapages.

      Poutine et Netanyahu sont du même moule et s’entendent fort bien.

      D’aucuns nomment cela « diplomatie ». Cette notion est cruellement absente des confrontations de ce premier quart du 21e siècle, chacun préférant montrer ses muscles et pousser du menton virilement en prouvant aux médias qu’il aboie le plus fort. Fin de la blague.

      Ah mais je suis tout à fait d’accord, le problème c’est quand l’autre en face ne veut pas négocier, tu fais comment ? Et ça vaut pour Poutine et Netanyahu (là y avait 200 000 personnes dans les rues d’Israël lui demandant de négocier, il s’en fout complètement).

      Ah si, un dernier truc : qui était derrière la « révolution orange » et le mouvement Maïdan en 2013-2014 ?

      Faut pas faire du suspens comme ça, tu peux donner ta version des faits.

    • @sombre je l’avais lu à l’époque, je signale quand même que Berruyer est connu pour relayer le narratif russe (en point d’orgue, il avait été invité par Lavrov en 2019 à l’ambassade de Russie) et ce qui est clairement absent de son analyse c’est justement toutes les manipulations russes en arrière plan (et au passage, ça parle beaucoup de l’extrême droite ukrainienne, à raison hein, mais quid de l’extrême droite russe ? (qui, rappelons le, est en grande partie au pouvoir ou dans des forces paramilitaires type Wagner)).

      Bref, Maïdan est parti du fait que les russes ont mis la pression sur l’Ukraine pour qu’elle ne se rapproche pas de l’UE. En gros ça faisait 5 ans que l’Ukraine négociait un accord, les états membres de l’UE se mettant enfin d’accord (on peut être pour ou contre c’est pas la question, et les points soulevés par Berruyer sont pas déconnants), tout d’un coup t’as le président ukrainien qui dit « euh non en fait je veux plus, on va bosser avec les russes » (tiens donc...). Cela a abouti au renversement d’un président vu comme une marionnette des russes et les ukrainiens ont commencé à flipper de se retrouver dans un truc à la biélorusse (le mouvement est massif, c’est pas juste des fachos qui s’excitent). Suite à cela le président suivant (Porochenko) a signé l’accord avec l’UE. Ensuite la Russie a financé des barbouzes dans l’est de l’Ukraine et envahi la Crimée (je suppose bêtement que ça devait être la menace qui avait fait reculer le président renversé). Maintenant, évidemment que tout un tas de capitalistes trouvent un intérêt à cette guerre, en premier lieu l’industrie d’armement des Etats-Unis (mais ça n’a échappé à personne que depuis très longtemps les Etats-Unis aiment fourrer leur nez dans les affaires des autres, surtout si ça emmerde un de leurs ennemis).

    • Les pressions américaines sur Nord Stream 1 et 2 datent de bien avant 2014. Mais tout est bien qui finit bien, les américains vendent enfin leur gaz de schiste sous forme de GNL à l’Europe.

      Les magouilles entre capitalistes russes et américains pour prendre pied en Ukraine datent de bien avant 2014, d’où les instabilités de pouvoir dans ce pays, et les manœuvres choquantes, de part et d’autres.

      Tu as un article cette semaine qui évoque le fait que les affrontements entre capitalistes sont à l’origine des instabilités du monde. Et d’ailleurs, tu pourras constater que dès que Milei est arrivé au pouvoir, il s’est empressé de faire revenir le FMI et tous les fonds vautours, qui œuvraient depuis 20 ans pour un retour aux affaires, depuis qu’ils avaient été mis à la porte par quelques gauchistes, dont les gens bien centristes comme il faut savent t’expliquer comment et pourquoi ces gauchistes n’ont pas su se montrer suffisamment doués pour garder le pouvoir (on a les mêmes partout, ils parviennent systématiquement à t’expliquer que les gauchistes sont des nuls, et que les gens de droite sont méchants, ok, mais bon, y-a pas le choix ; sérieux les centristes, vous fatiguez).

    • @klaus : même si @alexcorp est prompt à dégainer un argumentaire « ad poutinum », je me réserve le droit de continuer à « ferrailler » avec lui parce qu’il en va de l’intelligence collective où « intelligence » signifie traitement pertinent de l’information dans ce cas précis. Bon mais là maintenant, j’ai pas trop le temps ...

    • @sombre après 30+ ans d’internet je ne vois plus beaucoup d’intelligence collective (Wisdom of Crowds cf. https://en.wikipedia.org/wiki/The_Wisdom_of_Crowds) sauf pour les spider #AI qui collectent la connerie des foules afin de nous construire les nouveaux mondes à la con.

      J’aime les échanges ouverts avec des gens qui ne sont pas forcément d’accord avec moi surtout quand elles /ils me font découvrir des choses. La découverte de parti pris et d’arguments ad hominem n’en font pas partie. Pourtant je ne m’en fache pas. Lors ce que tu te prononces sur la toile, tu sais ce que tu fais ;-)

    • Il y a parfois un certain relativisme vis à vis du régime russe (ou au moins une minimisation du problème) qu’on ne retrouve pas quand il s’agit de parler des américains ou des israéliens (le meilleur exemple mainstream sur le sujet étant Mélenchon et sa clique, ce premier ayant par exemple dit que la Russie faisait du « bon boulot » en Syrie). Bon, j’aurais quand même lu ici que les Ukrainiens auraient mieux fait de se laisser envahir... (et c’est moi le troll...)

      Heureusement le NPA ou UCL ont des positions un peu plus réfléchies (cf par exemple ce communiqué au moment de l’invasion russe : https://www.unioncommunistelibertaire.org/?Ukraine-Retrait-immediat-des-troupes-d-occupation )

    • Oh ben tiens ! Je me permets une petite digression qui n’en est pas vraiment une en l’occurrence :

      La disputatio est une méthode ancienne qui présente de nombreux avantages. Parmi les missions de l’Institut Ethique et Politique, il en est une qui est de cultiver le doute face aux certitudes et de valoriser la liberté de chacun à penser différemment, sans qu’aucun point de vue ne soit présenté comme définitif. Il est vrai que grande est la tentation de rechercher le consensus par le ralliement à une position majoritaire pour mettre un terme à la discorde. De premier abord, cela nous semble le prix à payer pour garantir l’unité. Pourtant il serait dommage de faire taire ou d’étouffer l’expression d’opinions peut-être plus réconciliables qu’il n’y parait..

      https://www.ethique-politique.fr/disputatio-debat-contradictoire

      Maintenant concernant l’interprétation d’@alexcorp sur un soit-disant assentiment à l’invasion russe de l’Ukraine dans cette discussion :

      Bon, j’aurais quand même lu ici que les Ukrainiens auraient mieux fait de se laisser envahir...

      je répondrai en premier lieu par cette sorte d’oracle :
      « Ce n’est pas quand quand on a chié dans les draps qu’il faut commencer à serrer les fesses ».

    • @sombre
      C’est par rapport à cette phrase que je disais ça, je ne trouve pas que mon interprétation est si dingue :

      Au moment de l’invasion russe le gouvernement d’Ukraine avait le choix entre la guerre totale et la solution gaulliste. Au lieu de s’exiler à Londre il a opté pour le sacrifice de son peuple, qui l’a naturellement suivi .

  • #Charlotte_Delbo et les #femmes du convoi 31000 : enquête sur les #traces d’un #camp_nazi oublié

    Le taxi s’engagea sur un chemin juste à côté de la route principale qui partait du musée d’Auschwitz vers le sud et passa devant une rangée de bungalows avec des jardins un peu en pagaille en ce mois de novembre. Il s’arrêta devant une paire de grilles rouillées, à moitié ouvertes, dont le cadenas pendait. À l’intérieur, on pouvait apercevoir des serres délabrées et envahies par la végétation.

    En sortant du taxi, j’ai poussé les grilles et je suis entrée. Je me suis approchée des serres, en essayant d’imaginer les travailleurs du camp de concentration et d’extermination nazi d’Auschwitz-Birkenau, situé à proximité, qui ont construit et travaillé de force à cet endroit à partir de 1943.

    Il s’agissait des vestiges du sous-camp de #Rajsko, l’un des 40 #camps_de_concentration satellites d’#Auschwitz.

    Ce fut autrefois une #station_botanique expérimentale nazie destinée à soutenir l’usine #IG_Farben en cultivant et en extrayant le #latex d’une espèce de #pissenlit russe (#Taraxacum_kok-saghyz afin de répondre aux besoins de plus en plus importants des nazis en matière de #caoutchouc de guerre. Le camp était l’enfant rêvé de #Heinrich_Himmler, l’un des principaux architectes des programmes génocidaires d’Hitler.

    Malgré les intentions de Himmler, Rajsko ne produisit pas de caoutchouc et fut liquidé par les nazis en 1945. La station botanique s’est dégradée avant d’être transformée en jardinerie commerciale privée. Elle a été largement oubliée et il était très difficile d’en retrouver l’emplacement – même le personnel du service clientèle auquel j’ai parlé au musée d’Auschwitz n’en avait aucune connaissance.

    Une grande partie du village de Rajsko a été déboisée pour permettre aux SS d’établir cette station de recherche botanique ainsi qu’un SS #Hygiene_Institut. Il s’agissait d’une clinique où l’on examinait le sang et d’autres fluides corporels pour y déceler les signes du #typhus (une des principales causes de mortalité dans les camps), du #paludisme et de la #syphilis.

    Plus tard, le célèbre médecin nazi #Josef_Mengele, qui s’intéressait à la #génétique_raciale, a mené des expériences sur des jumeaux roms et sinti à l’Institut d’hygiène SS. À partir de mai 1944, les sujets des expériences de Mengele ont également été prélevés sur les rampes de déchargement d’Auschwitz.

    Malgré ce passé, il n’y avait pas de panneaux indicateurs, de guides ou de centres d’accueil à Rajsko. Ce camp de concentration a été largement oublié en tant que site historique. Il n’a pas été facile de le retrouver. Après être entrée, je suis tombée sur les deux vieux propriétaires de la #jardinerie, penchés sur des brouettes et des pots de fleurs. Comme je ne parle pas polonais et qu’ils ne parlent pas anglais, nous avons communiqué par l’intermédiaire de leur fils anglophone, que la femme a appelé sur son portable.

    J’ai expliqué ce que je recherchais et, par son intermédiaire, j’ai pu jeter un coup d’œil. Le fils, un homme d’une trentaine d’années, est arrivé peu de temps après, de retour de son service de nuit et prêt à se coucher. Je n’ai pas retenu son nom, mais il a eu la gentillesse de m’emmener, à travers un mur de buissons envahissants, jusqu’au bâtiment central du site, à partir duquel les serres s’étendent en rangées ordonnées vers le nord et le sud. Le bâtiment est fermé à clé et inaccessible.

    Là, une #plaque écrite en polonais est apposée sur le mur, masquée par les arbres. Il s’agit de la seule information et #commémoration de Rajsko en tant que #camp_de_travail_forcé nazi. On peut y lire :

    « De 1942 à 1945, le #jardin_de_Rajsko a été un lieu de #travail_forcé pour les prisonniers et les prisonnières du camp de concentration d’Auschwitz. »

    La chasse au #convoi 31000

    Je me suis rendue à Rajsko à la fin de l’année 2023 dans le cadre d’un voyage de recherche doctorale aux archives d’Auschwitz. J’étais sur la piste du #convoi_31000. Il s’agit du seul transport vers Auschwitz-Birkenau composé uniquement de 230 femmes déportées de France pour leur #activisme_politique, et non en tant que juives.

    Mais seuls des instantanés ont été conservés dans les archives.

    Ce que nous savons, c’est que le groupe était composé de femmes issues de toute la société, parmi lesquelles des enseignantes, des étudiantes, des chimistes, des écrivaines, des couturières et des femmes au foyer. Il y avait une chanteuse de l’Opéra de Paris, une sage-femme et une chirurgienne-dentiste. Ces femmes courageuses ont distribué des tracts antinazis, imprimé des journaux subversifs, caché des résistants et des Juifs, transporté des armes et transmis des messages clandestins.

    La plus jeune était #Rosie_Floch, une écolière de 15 ans qui avait griffonné « V » comme victoire sur les murs de son école, tandis que la plus âgée, une veuve sexagénaire nommée #Marie_Mathilde_Chaux, avait hébergé des membres de la Résistance française. La Gestapo et la police française ont traqué toutes ces femmes et les ont emprisonnées au #Fort_de_Romainville, dans la banlieue de Paris, avant de les mettre dans un train – le convoi 31000 – à destination d’Auschwitz en 1943.

    Je cherchais en particulier des traces des personnes et des lieux que Charlotte Delbo mentionne dans sa littérature. Delbo était une participante non juive à la Résistance française et fait l’objet de ma recherche doctorale, qui examine comment les représentations vestimentaires de Delbo révèlent toutes sortes d’histoires extraordinaires et oubliées sur l’expérience des femmes pendant l’occupation de la France et l’Holocauste.

    Née en 1913 dans la banlieue de Paris au sein d’une famille ouvrière d’origine italienne, Delbo a travaillé comme assistante du célèbre directeur de théâtre et acteur Louis Jouvet et s’est inscrite aux #Jeunesses_communistes. Pendant les premières années de l’occupation nazie de la France, elle a aidé son mari #Georges_Dudach à produire des textes clandestins et à traduire des émissions radiophoniques en provenance du Royaume-Uni et de Russie.

    Delbo et son mari ont été arrêtés par une division spéciale de la police française en mars 1942, et son mari a été exécuté par la #Wehrmacht à #Paris en mai de la même année. Elle a été détenue dans deux prisons à Paris avant d’être déportée à #Auschwitz-Birkenau en janvier 1943, puis transférée à Rajsko en août de la même année, avant d’être finalement transférée au camp de concentration de #Ravensbrück dans le nord de l’Allemagne en janvier 1944.

    Delbo a été évacuée par la Croix-Rouge suédoise en avril 1945 et rapatriée à Paris où elle a passé les 40 années suivantes à écrire sur son expérience et sur d’autres périodes d’oppression, ainsi qu’à travailler comme traductrice pour l’ONU et pour le sociologue Henri Lefebvre. Elle est décédée en mars 1985.

    L’œuvre de Delbo comprend de la prose, de la poésie et du théâtre, ainsi que des textes documentaires. Elle est importante parce que son langage attire l’attention sur des histoires négligées ou cachées, notamment celle des déportés non juifs à Auschwitz. Elle s’intéresse à des lieux peu connus comme Rajsko, aux femmes membres de la Résistance française et à la façon dont les enfants vivent l’héritage de la guerre.

    Elle est l’un des auteurs les plus brillants et les plus stimulants à avoir survécu à Auschwitz, mais la plupart de ses écrits restent relativement méconnus.

    Son ouvrage le plus célèbre est Auschwitz et après, qui donne un aperçu de son séjour à Rajsko. Dans un autre ouvrage, Le Convoi du 24 janvier, Delbo écrit la biographie de chaque femme du convoi. Il s’agit d’une compilation de souvenirs, de recherches et de correspondances menée par une équipe de survivantes. Les histoires racontées mettent en évidence l’hétérogénéité des femmes du convoi, les destructions causées à la vie des femmes elles-mêmes et de leurs familles et la complicité de la police française avec les nazis. Dans un passage du Convoi du 24 janvier, Delbo écrit :

    « Sur les 230 qui chantaient dans les wagons au départ de Compiègne le 24 janvier 1943, quarante-neuf sont revenues après vingt-sept mois de déportation. Pour chacune, un miracle qu’elle ne s’est pas expliqué. »

    Les mensonges nazis dans les archives d’Auschwitz

    Le matin suivant ma visite à Rajsko, j’étais assise dans l’un des baraquements en briques surplombant la tristement célèbre porte « Arbeit Macht Frei » (« Le travail rend libre ») d’Auschwitz I. C’est là que se trouvent les archives du musée d’Auschwitz, et l’archiviste Szymon Kowalski m’a présenté l’histoire de la collection.

    Depuis le Royaume-Uni, j’avais commandé à l’avance des documents concernant Delbo et d’autres membres de son convoi auprès de Wojciech Płosa, responsable des archives. Je n’avais aucune idée du nombre de jours de travail qu’il me faudrait pour parcourir ce matériel et le relier aux textes de Delbo. J’espérais avoir suffisamment de temps pendant ma visite de quatre jours.

    J’ai été stupéfaite d’apprendre de la bouche de Kowalski qu’à peine 5 % des archives du système d’Auschwitz ont survécu, dont seulement 20 à 30 % concernent des femmes. Des recherches antérieures ont également mis en évidence la question des #trous_noirs dans les #archives.

    La perte de 95 % des archives est due à deux systèmes politiques différents qui ont tenté successivement de contrôler l’information sur le passé nazi. Tout d’abord, les SS ont détruit des tonnes de documents à l’approche de l’Armée rouge soviétique en janvier 1945. Ensuite, les Soviétiques ont confisqué les documents après la libération du camp et les ont ramenés à Moscou. Certains ont été remis en circulation dans les années 1990 pendant la perestroïka, mais les autres sont restés en Russie.

    Quelle chance avais-je alors de retrouver Delbo et les femmes dont elle parle dans ses livres si un pourcentage aussi infime des dossiers contenait des références à des femmes ?

    Heureusement pour moi, Płosa avait déjà commencé à affiner ma recherche. Une grande pile de registres pesait sur le bureau devant moi, chacun avec des signets aux pages pertinentes.

    Les archives contenaient deux références à Delbo et les deux mentions attestaient de sa présence à Rajsko. La première mention plaçait Delbo à l’infirmerie de Rajsko entre le 4 et le 8 juillet 1943, souffrant d’une « magen gryppe » (grippe intestinale). En revanche, je n’ai pas pu lire la seconde mention. Elle semblait faire référence à des tests biologiques subis par Delbo à l’Institut d’hygiène SS, mais le volume se trouvait dans le département de conservation et n’était pas disponible pour consultation.

    Pourtant, j’ai vu sur la liste du Dr Płosa que ce volume indisponible contenait également les dossiers de 11 autres femmes du convoi de Delbo, dont certaines étaient membres du groupe de travail envoyé à Rajsko.

    Après avoir creusé un peu plus, j’ai commencé à tirer des conclusions de ces 12 mentions dans le registre de l’Institut d’hygiène SS. La proximité des numéros de page contenant des références à ces femmes suggère que des tests de routine ont été effectués sur elles pendant qu’elles étaient en quarantaine à Auschwitz-Birkenau avant leur transfert à Rajsko. Les SS ne voulaient que des femmes en bonne santé pour travailler avec les précieux pissenlits dans les serres et les laboratoires de Rajsko (dans l’intérêt de la santé des plantes, pas de celle des travailleuses).

    Plus tard, à mon hôtel, j’ai recoupé les noms des femmes figurant dans le registre de l’Institut d’hygiène SS avec l’affirmation de Delbo selon laquelle toutes les femmes du convoi 31000 transférées d’Auschwitz-Birkenau à Rajsko ont survécu à la guerre. La plupart des prisonnières qui ont été contraintes de rester à Birkenau y sont mortes quelques semaines après leur arrivée en janvier 1943. En fait, au mois d’août de cette année-là, il ne restait plus que 57 prisonnières en vie sur les 230 présentes à l’origine. Seules 17 furent transférées à Rajsko. Parmi elles, cinq semblent être mortes avant la fin de leur séjour en quarantaine. Les 12 autres, dont Delbo, ont survécu à Rajsko.

    Delbo attribue la survie de son groupe au transfert à Rajsko et à la période de quarantaine qui l’a précédé. Ce sous-camp dans lequel les travailleurs forcés étaient exécutés semblait, paradoxalement, sauver des vies.

    Retrouver #Raymonde_Salez

    Le lendemain, j’ai examiné le registre des certificats de décès des prisonnières et j’ai vu qu’un membre du convoi de Delbo, Raymonde Salez, était enregistrée comme décédée le 4 mars 1943 à 10h20 de « grippe bei körperschwäche » (grippe et faiblesse générale du corps), le certificat étant signé par un certain « Dr Kitt ». Kowalski m’avait déjà expliqué que les dates, heures et causes de décès étaient fabriquées sur les certificats de décès et qu’aucune mention d’Auschwitz n’était faite afin de dissimuler au grand public la raison d’être du camp.

    N’ayant pas le droit de prendre des photos, j’ai noté avec diligence tous les détails du certificat de décès de Raymonde Salez, au cas où ils seraient utiles. Bien que ce nom ne me soit pas familier, je savais que Delbo avait consigné les noms et surnoms de toutes les femmes de son convoi dans Le Convoi du 24 janvier, ainsi que dans certains de ses autres ouvrages, et je voulais voir si le nom de Salez était mentionné quelque part. De retour à mon hôtel plus tard dans la soirée, j’ai commencé ma recherche de Raymonde Salez.

    J’ai sursauté lorsque j’ai réalisé que Salez était une femme que j’ai appris à connaître grâce à la pièce de Delbo Les Hommes et à ses monologues de survivants Mesure de nos jours. Dans ces textes, Delbo désigne Salez par son nom de guerre, « Mounette », mais la biographie qu’elle consacre à cette femme dans Le Convoi du 24 janvier indique que son vrai nom est Raymonde Salez.

    La pièce de Delbo, Les Hommes, se déroule dans un autre site moins connu de l’Holocauste, le camp de détention de la Gestapo du Fort de Romainville, en banlieue parisienne. C’est là que les femmes du Convoi 31000 ont été détenues juste avant leur déportation à Auschwitz-Birkenau. Dans cette pièce, #Mounette apparaît comme une jeune femme blonde, jolie, les joues roses, qui porte de la lingerie luxueuse en soie framboise empruntée pour jouer dans un spectacle de théâtre que les prisonnières montent dans le camp de détention. Elle est décrite comme « tout à fait mignonne » et son fiancé la voit « avec des anglaises et des petits nœuds dans ses beaux cheveux ».

    Jeune, jolie et dynamique, Mounette s’engage dans la Résistance française et est arrêtée en juin 1942. Elle est déportée à Auschwitz avec le reste du convoi 31000 le 24 janvier 1943. Six semaines plus tard, la voici dans les archives. Morte.

    J’ai pleuré en réalisant qui était vraiment cette personne. Je connaissais si bien le personnage de Mounette, mais la découverte des archives l’a fait revivre.

    Mais lorsque j’ai comparé l’acte de décès de Salez avec le texte de Delbo, j’ai constaté une divergence : Delbo indique que la mort de Mounette est survenue le 9 mars à la suite d’une dysenterie, alors que les nazis ont enregistré la mort de Salez le 4 mars, à la suite d’une grippe et d’un épuisement. Delbo a expliqué comment les détenus se souvenaient de dates et de détails clés à Auschwitz afin de pouvoir témoigner plus tard. Cette divergence semblait être la preuve des mensonges nazis (rappelons que dissimuler leurs crimes et supprimer les preuves était une procédure opérationnelle standard).

    En même temps, bien que le certificat de décès de Salez semble contenir des informations falsifiées, il est important car c’est la seule trace documentée à Auschwitz-Birkenau de sa présence, car il n’existe pas de photographie d’elle en prisonnière.

    https://www.youtube.com/watch?v=6iIHqGjpzYg

    Il reste donc des questions sans réponse perdues dans les archives et ces lacunes attirent l’attention sur la façon dont Salez et tant d’autres personnes ont perdu la vie et ont disparu sans laisser de traces. Néanmoins, cette trace historique est précieuse, étant donné qu’il ne reste qu’un faible pourcentage de documents sur les femmes à Auschwitz.

    Les références à Mounette et à Salez se trouvent dans les ruines des archives et démontrent à quel point le #musée_d’Auschwitz est inestimable, à la fois pour sauvegarder l’histoire et pour mettre en lumière la corruption de celle-ci par les nazis.

    L’examen des références à Mounette dans la littérature de Delbo a permis de mettre en lumière cette ambiguïté. La littérature de Delbo contient également des instantanés de Mounette, qui autrement aurait disparu sans laisser de traces ; elle enregistre des fragments non seulement de son incarcération et de sa mort, mais aussi de sa vie avant qu’elle ne soit consumée par l’Holocauste. Comme l’écrit Delbo :

    « Chère petite Mounette, comme elle est fine, comme elle est douée, si curieuse de tout, avide de tout apprendre. »

    Le bloc de la mort

    Le troisième jour de mon voyage, j’ai visité le centre d’extermination et le camp de travail forcé d’#Auschwitz-Birkenau. J’ai été bouleversée par l’ampleur du site, les rangées de baraquements qui semblaient interminables. J’ai été stupéfaite par le nombre considérable et incompréhensible de victimes d’Auschwitz-Birkenau, par l’étendue de leur anonymat, par l’énorme absence qui remplit l’endroit.

    Ma visite s’est concentrée, non pas sur les chambres à gaz où les juifs entrants ont été assassinés, mais sur les baraquements où les femmes du convoi de Delbo ont été logées : les blocs 14 et 26 de la zone BIa.

    Au bloc 26, j’ai été confrontée à l’horreur : le bloc 25 adjacent était le bloc de la mort. C’est là que les femmes mouraient de faim. Le bloc 26 voisin de Delbo avait une rangée de fenêtres donnant sur l’unique cour fermée du bloc de la mort, ce qui signifie qu’elle et ses camarades de baraquement ont été témoins des personnes laissées pour mortes, criant au secours, empilées à la fois mortes et vivantes dans des camions pour être transportées vers les fours crématoires.

    Le bloc de la mort figure dans de nombreux chapitres très durs d’Aucun de nous ne reviendra, le premier volume d’Auschwitz et après, de façon particulièrement choquante dans « Les Mannequins » et de façon plus touchante peut-être dans « La jambe d’Alice ». Elle y décrit la mort de sa camarade, la chanteuse d’opéra parisienne Alice Viterbo, qui portait une prothèse de jambe.

    Lors d’une « sélection » au début du mois de février 1943, quelques jours seulement après l’arrivée des femmes et au cours de laquelle elles étaient forcées de courir, Alice a fait partie des femmes qui sont tombées et elle a été abandonnée par ses camarades. Elle est alors emmenée au bloc de la mort. À travers la fenêtre grillagée, Alice supplie qu’on lui donne du poison. Alice meurt le 25 ou le 26 février, Delbo ne sait pas exactement, mais elle sait que « La plus longue à mourir a été Alice ». Sa prothèse de jambe est restée dans la neige derrière le bloc pendant plusieurs jours.

    #Alice_Viterbo, une Italienne née en Égypte en 1895, était chanteuse à l’Opéra de Paris jusqu’à ce qu’elle perde une jambe dans un accident de voiture, après quoi elle a quitté la scène et ouvert une école de chant et d’expression orale. Delbo rapporte que la raison de l’arrestation de Viterbo est inconnue mais qu’elle pourrait avoir été impliquée dans un réseau de résistance. Viterbo a fait un effort « surhumain » pour courir lors de la sélection d’Auschwitz-Birkenau, étant déjà debout à l’appel depuis 3 heures du matin.

    Combien d’autres femmes attendent d’être redécouvertes ?

    Il m’a suffi de quatre jours pour découvrir l’existence de Salez, de Rajsko et des mensonges nazis à propos du camp et de ces travailleuses. Qui sait combien d’autres femmes sont oubliées, leur histoire attendant d’être retrouvée ?

    Mon voyage dans les ruines du complexe du camp d’Auschwitz renforce encore la valeur de la littérature de Delbo. Elle apporte un témoignage sur des personnes, des lieux et des expériences qui se sont perdus dans l’histoire. Elle met également en évidence les lacunes et les mensonges de l’histoire. Et elle nous rappelle celles qui, comme Salez, ont disparu sans laisser de traces, leur mort n’ayant pas été commémorée par une tombe. En représentant ces oubliées, la littérature de Delbo se souvient de leur existence. Les quelques fragments qui restent de leur vie sont précieux et soulignent encore plus ce que nous avons perdu avec leur disparition.

    https://www.youtube.com/watch?v=69iCBeHQ0Sw

    En visitant les lieux dont parle Delbo dans sa littérature saisissante et dépouillée, j’ai pris conscience de l’horreur de ce qu’elle et les autres femmes de son convoi ont vécu, du décalage entre ce qu’elles ont vécu et #ce_qui_reste sur le site, et du défi que représente la manière de le représenter par des mots ; d’essayer de combler le fossé d’incompréhension avec tous ceux d’entre nous qui n’étaient pas là.

    C’est une lacune que Delbo a elle-même ressentie, comme elle l’a exprimé dans Auschwitz et après :

    Ce point sur la carte
    Cette tache noire au centre de l’Europe
    cette tache rouge
    cette tache de feu cette tache de suie
    cette tache de sang cette tache de cendres
    pour des millions
    un lieu sans nom.
    De tous les pays d’Europe
    de tous les points de l’horizon
    les trains convergeaient
    vers l’in-nommé
    chargés de millions d’êtres
    qui étaient versés là sans savoir où c’était
    versés avec leur vie
    avec leurs souvenirs
    avec leurs petits maux
    et leur grand étonnement
    avec leur regard qui interrogeait
    et qui n’y a vu que du feu,
    qui ont brûlé là sans savoir où ils étaient.
    Aujourd’hui on sait
    Depuis quelques années on sait
    On sait que ce point sur la carte
    c’est Auschwitz
    On sait cela
    Et pour le reste on croit savoir.

    https://theconversation.com/charlotte-delbo-et-les-femmes-du-convoi-31000-enquete-sur-les-trace
    #WWII #seconde_guerre_mondiale #déboisement #oubli #déportation

  • @resistenze_in_cirenaica a publié 5 « carnets de Cyrène » (I quaderni di Cirene), publiés par #Resistenze_in_Cirenaica (https://resistenzeincirenaica.com).
    #Cyrène, du nom d’une ville de Cyrénaïque, en Libye actuelle...

    Les cahiers sont peuvent être achetés sur ce site : https://openddb.it/case-editrici/ric

    Moi, je les ai achetés lors d’un événement qu’ils ont organisés à Bologne en mai 2024 :
    https://resistenzeincirenaica.com/2024/05/14/24-e-25-maggio-due-giorni-di-ibridazioni-in-cirenaica
    (https://seenthis.net/messages/1053726)

    https://resistenzeincirenaica.com/category/i-quaderni-di-cirene

  • Néoruraux : comment les classes dominantes transforment les campagnes
    https://www.frustrationmagazine.fr/neoruraux

    Depuis l’épidémie de Covid, l’arrivée de sous-bourgeois et bourgeois Parisiens dans des petites et moyennes villes rurales enthousiasme autant qu’elle inquiète. Ces municipalités attirent, contribuant au développement de nouveaux services, mais éloignent et excluent encore un peu plus la classe laborieuse locale de son centre et de ses onéreux commerces. Ces néoruraux, pour l’essentiel issus […]

  • Colonialism shaped the British countryside, but this history still remains hidden

    I walked through rural Britain and revealed deep ties to the empire that profoundly changed the landscape and its people.

    The British countryside is deeply tied to the empire — a history that has largely remained hidden with little having being revealed about its colonial links. British rural history has often been presented as a domestic story, one in which agricultural labourers had their wages suppressed and rioted over food shortages, while Lancashire cotton workers laboured in mills and William Wordsworth wrote a poem about daffodils.

    Yet imperial activity greatly affected those who lived and worked in our countryside during Britain’s four colonial centuries. In fact, a third of National Trust properties have historical ties to the British empire, as I discovered researching a 2020 report.

    Knowing of the vast profits generated from colonial trade, investment, taxation, raw material extraction and transatlantic slavery — and as a historian who loves green spaces — I went on 10 walks through England, Scotland and Wales to learn how far that imperial wealth had penetrated the British countryside. They feature in my new book, Our Island Stories: Country Walks Through Colonial Britain. All the themed walks — sugar, wool, tobacco, cotton, enclosure, copper and more — revealed that rural Britain was profoundly changed by colonial activity.

    I took a route through the Lake District, my so-called “opium walk”. It begins in the village of Grasmere and passes through landscapes loved by Wordsworth and his sister Dorothy, encircling Rydal Water and returning to the poet’s grave at St Oswald’s church near the walk’s starting point. The father of romanticism, Wordsworth wrote much of his poetry in and around Grasmere, which nestles beneath dramatic mountains. Discovering that William’s brother, John, was an East India Company captain, I pieced together the family’s entanglement with the opium trade.

    William lacked the money to concentrate wholly on writing, so John came up with a plan. He would seek the captaincy of an East India Company voyage from England to Bengal to buy opium. From there he’d sail to Canton, China, receiving opium payments in silver, which he’d use to buy tea for English customers. The siblings invested in John’s voyage in the hope of receiving good returns — William even wrote to a friend saying that he anticipated dedicating more time to his poetry upon his brother’s return from Canton.

    In 1805, this plan went drastically wrong. In one of Britain’s worst maritime disasters, John Wordsworth’s ship sank just off Weymouth. He was drowned alongside most of his passengers — and the money William and Dorothy had invested.

    As I explore in my book, many ordinary people in Britain similarly tried, and sometimes failed, to make money from the British empire. People invested in the slavery business through stocks and shares, while many farmworkers and impoverished people sought posts as plantation managers (including the poet Robbie Burns) or as soldiers in the East India Company, choosing to live more comfortable lives while profiting from the misery of an opium addiction epidemic in China.

    Another aspect of colonial profiteering was land ownership. I took a walk through Norfolk’s Earsham Hall, which in the 1770s was owned by the family of the then governor of Jamaica, John Dalling, who’d bought the lucrative plantation of Donington Castle estate. Soon after inheriting Earsham Hall, his heir, Sir William Windham Dalling, started spending the family wealth — mostly profits from slavery — expanding his new rural estate through two parliamentary acts.

    This centuries-long process of land privatisation, known as enclosure, has often been presented as a very British story, one in which landless people gradually lost their right of access to common land where they’d grazed their livestock for generations. But in the 18th and 19th centuries, the influx of colonial wealth gave imperial figures such as Dalling the money to pay lawyers and commissioners who authorised the planting of hedges and erection of fences around so-called “unproductive wasteland”, thereby depriving local people of their right to use it.

    Moving north, and intrigued by the East Lancashire story of cotton, I walked across the moorland above the milltown of Darwen. Lancashire mills in the 19th century used cotton made by enslaved people in America’s southern states. But when the American civil war broke out in 1860, the supply of slave-produced cotton dried up. Lancashire’s mills ground to a halt and unemployed millworkers survived on ever-deteriorating diets. Around this time, Darwen’s factories began importing Indian cotton.

    They’d later be hit by the Indian independence movement’s boycott of British goods. In the 1930s, Mahatma Gandhi came to Britain for independence talks with the British government and visited Darwen to see how the boycott of Lancashire (or “Manchester”) cotton cloth was affecting millworkers. At the time it was reported that Gandhi persuaded mill owners and workers alike that India’s independence quest made the cotton boycott worth supporting. The lives of colonised people may have felt remote to Britain’s millworkers and agricultural labourers, but they were closely connected.

    Locals in the 18th and 19th centuries would have seen the countryside change in ways that affected their daily lives, but these histories are more distant to us now and have largely been forgotten. My 10 walks show that we have so many more undiscovered stories to explore.

    Successive governments have failed to teach these hidden colonial histories in schools. Meanwhile, the heritage sector, rural organisations and historic housing associations are yet to fully take on the responsibility to explore their own local histories of empire and make them known to locals and visitors alike. Without knowing these stories, we cannot fully acknowledge our colonial histories, or even address them.

    https://hyphenonline.com/2024/07/30/colonialism-shaped-the-british-countryside-but-this-history-still-rema
    #colonialisme #héritage_colonial #UK #Angleterre #campagne #paysage
    #géographie_culturelle #ressources_pédagogiques

    • Our Island Stories. Country Walks through Colonial Britain

      The countryside is cherished by many Britons. There is a depth of feeling about rural places, the moors and lochs, valleys and mountains, cottages and country houses. Yet the British countryside, so integral to our national identity, is rarely seen as having anything to do with British colonialism. Where the countryside is celebrated, histories of empire are forgotten. In Our Island Stories, historian #Corinne_Fowler brings rural life and colonial rule together with transformative results. Through ten country walks, roaming the island with varied companions, Fowler combines local and global history, connecting the Cotswolds to Calcutta, Dolgellau to Virginia, and Grasmere to Canton.

      Empire transformed rural lives for better and for worse: whether in Welsh sheep farms or Cornish copper mines, it offered both opportunity and exploitation. Fowler shows how the booming profits of overseas colonial activities, and the select few who benefited, directly contributed to enclosure, land clearances and dispossession. These histories, usually considered separately, continue to shape lives across Britain today.

      To give an honest account, to offer both affection and criticism, is a matter of respect: we should not knowingly tell half a history. This new knowledge of our island stories, once gained, can only deepen Britons’ relationship with their beloved landscape.

      https://www.penguin.co.uk/books/448060/our-island-stories-by-fowler-corinne/9780241561638

      #livre
      #identité #identité_nationale #nationalisme

  • Grèce : Amnesty international dénonce les « détentions arbitraires et illégales » des migrants du camp fermé de Samos - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/58805/grece--amnesty-international-denonce-les-detentions-arbitraires-et-ill

    Grèce : Amnesty international dénonce les « détentions arbitraires et illégales » des migrants du camp fermé de Samos
    Par Leslie Carretero Publié le : 30/07/2024
    Dans un nouveau rapport publié mardi, Amnesty international dénonce « les arrestations arbitraires et illégales » des migrants, enfermés à leur arrivée dans une structure du centre fermé de Samos. L’ONG exhorte l’Union européenne à ne pas prendre ce camp en modèle pour la construction d’autres centres - prévus dans le cadre du Pacte migratoire récemment adopté.
    Amnesty international publie, mardi 30 juillet, un nouveau rapport au vitriol sur les conditions de vie des migrants dans le centre fermé de l’île de Samos (CCAC pour « centre fermé à accès contrôlé »), en Grèce. Dans ce document, qui s’intitule « Samos : ‘Nous nous sentons en prison sur l’île’ », l’ONG s’insurge notamment de la manière dont les demandeurs d’asile sont pris en charge à leur arrivée dans le camp.
    « Sous prétexte d’enregistrer et d’identifier les personnes, les autorités grecques détiennent de facto tous les résidents à leur arrivée, y compris les personnes en situation de vulnérabilité, en violation de leurs droits », rapporte Amnesty international, qui a effectué une visite à Samos en décembre 2023. « Les autorités soumettent systématiquement les demandeurs d’asile à une détention illégale et arbitraire », insiste l’organisation.
    Lorsqu’ils ont traversé la mer Égée et atteint l’île de Samos, les exilés sont transférés par les autorités dans le centre pour migrants de l’île. Là, ils sont enfermés dans une partie de la structure - en attendant leur identification - pour une durée maximum de 25 jours, où ils sont « soumis à des ordres de ‘restriction de liberté’ ». Ils ne peuvent pas sortir du camp, sauf pour des « raisons graves ».
    « Ces restrictions sont systématiquement appliquées sans évaluation individuelle. Cela va au-delà de ce qui peut être considéré comme une restriction légitime de la liberté de mouvement et équivaut à une détention illégale », affirme encore Amnesty international.
    L’ONG évoque aussi la surpopulation et ses conséquences. Lorsque le centre est saturé - 4 850 personnes hébergées en octobre 2023 pour une capacité de 3 650 places -, les migrants sont contraints de vivre dans « des espaces non résidentiels tels que les cuisines et les salles de classe (…) dans des conditions inadéquates », peut-on lire dans le rapport.Une situation qui exacerbe les problèmes déjà existants, comme l’absence de médecin permanent ou l’accès à l’eau. « Quand nous sommes arrivés au camp, il y avait de l’eau trois heures par jour. Les gens ne pouvaient pas prendre de douche en même temps. Nous mettions de l’eau dans une carafe. Nous prenons des douches, comme il y a 70 ans », raconte un Syrien cité par l’ONG.
    « Les conditions de vie des résidents, notamment en période de surpopulation dans le centre, peuvent être considérées comme inhumaines et dégradantes, en violation de l’interdiction des mauvais traitements », signale encore Amnesty international.
    Ce centre de Samos a pourtant été érigé en modèle lors de son ouverture en septembre 2021. Présenté comme ultra-moderne, en comparaison aux hotspots des îles de la mer Égée, il est présenté par l’Union européenne (UE) comme un exemple à suivre dans d’autres États membres - la Commission a investi 43 millions d’euros pour bâtir ce camp.
    Mais dès sa création, les humanitaires avaient fait part de leurs critiques. Des propos réitérés dans le rapport d’Amnesty international. « L’UE avait promis que ces centres seraient conformes aux ‘normes européennes’. Au lieu de cela, nous avons découvert un cauchemar dystopique [...] créant un environnement ‘carcéral’ », déplore l’ONG.Le site est ultra-sécurisé : barbelés permettant de délimiter le lieu, caméras de surveillance sur le site, portails métalliques de sécurité avec reconnaissance digitale et tourniquets à l’entrée, horaire de sortie autorisée entre 8h et 20h...
    « [Quand on arrive dans le camp] c’est le choc. On pense que l’on va trouver une situation agréable, mais c’est tout le contraire. C’est la prison. On dit que l’Europe c’est la liberté, mais ce n’est pas comme ça », témoigne dans le rapport Tasneem, une Soudanaise.
    « La Grèce est depuis longtemps un terrain d’essai pour des politiques migratoires de l’UE fondées sur l’exclusion (...). Les conclusions relatives à Samos montrent que ce modèle est punitif, coûteux et favorise les abus », dénonce Deprose Muchena, directeur général de l’Impact régional sur les droits humains à Amnesty International, cité dans le communiqué.L’ONG s’inquiète que la structure de Samos ne soit dupliquée dans d’autres pays européens, dans le cadre du Pacte sur l’asile et la migration. L’UE a adopté à la mi-mai une vaste réforme qui durcit le contrôle de l’immigration dont l’entrée en application est prévue mi-2026. Le texte prévoit notamment la construction de centres fermés aux frontières extérieures de l’UE. « Samos ouvre une fenêtre sur l’avenir du Pacte et offre une occasion cruciale à l’UE et à ses États membres de changer de cap. Les règles grecques en matière d’asile sur les ‘restrictions de liberté’ doivent être abrogées de toute urgence [...] », a déclaré Deprose Muchena. « Ne pas [les abroger] porterait gravement atteinte aux normes européennes en matière de droits fondamentaux, mais augmenterait aussi considérablement les traumatismes et les souffrances humaines aux frontières. »

    #Covid-19#migrant#migration#grce#samos#asile#politiquemigratoire#UE#camp#hotspot#sante#santementale

  • « Il ne faut pas que les touristes nous voient… »
    Les JO et l’invisibilisation des personnes migrantes à la rue
    https://lestempsquirestent.org/fr/numeros/numero-2/il-ne-faut-pas-que-les-touristes-nous-voient-les-jeux-de-paris-2

    Les #expulsions de #campement, avec ou sans proposition d’#hébergement, et les envois hors d’Île-de-France des personnes #migrantes sans-domicile, perdurent depuis neuf ans avec des variations de dispositifs, de fréquence et d’intensité. La concentration des pratiques de régulation sur certains lieux mettent en évidence des enjeux de disparition ou d’invisibilisation des campements aux abords des chantiers puis des sites des Jeux. À l’approche de l’ouverture des #JOP 2024, on observe une systématisation des départs en région des personnes migrantes #sans-abri et l’intensification des expulsions de campements et de squats. L’organisation de ce méga-événement constitue une opportunité pour les autorités d’accélérer la mise en œuvre de mesures pré-existantes.

    Les évolutions récentes de certaines pratiques et politiques publiques, et les tâtonnements issus des résistances qu’elles ont occasionnées, ont poussé les autorités à reconfigurer leur organisation. Elles deviennent plus discrètes qu’auparavant. L’invisibilisation ne concerne plus seulement uniquement les personnes migrantes sans-abri, mais également les pratiques préfectorales et policières qui s’exercent sur elles. Une invisibilisation à plusieurs niveaux qui va dans le sens d’un « spectacle sécuritaire » contenu et non-conflictuel.

    Au-delà de l’accélération et de l’intensification de certaines pratiques des autorités dues à l’organisation des Jeux, la poursuite des régulations par l’(auto-)expulsion au cours de ces presque dix dernières années souligne le caractère routinier et limité du modèle de gestion du sans-abrisme des populations migrantes en Île-de-France par les pouvoirs publics. Si une petite partie seulement de l’énorme attention médiatique internationale que les Jeux suscitent pouvait être détournée vers ce problème, le spectacle n’aurait pas été totalement en vain. C’est l’ambiguïté de ce genre d’événement : il doit plus qu’à l’ordinaire cacher pour faire voir, mais il peut aussi se retrouver à faire voir ce qu’on cherche ordinairement à cacher. Du moins peut-on toujours l’espérer.

  • Alla ricerca di litio nei pozzi della #valle_di_Baccano

    I vecchi siti geotermici individuati da #Enel nel #Lazio potrebbero contenere importanti quantità del materiale critico fondamentale per la transizione. Due aziende australiane hanno già ottenuto i permessi di ricerca nonostante lo status di area protetta della zona. Promettendo un’estrazione a zero emissioni e impatti. Ma i dubbi sulla sostenibilità ambientale ed economica del progetto rimangono

    “Ecco, qui siamo al centro della valle. L’acqua non è presente, ma se facciamo una buca a neanche due metri troviamo la prima falda”, racconta Alessandro Mecali, geologo consulente del Parco di Bracciano-Martignano nel Lazio, facendo strada a piedi tra la vegetazione della valle di Baccano, chiusa a cerchio dalle colline.

    Siamo nel punto più basso di una conca che nasconde una potenziale miniera, un vecchio cratere vulcanico che fino al XIX secolo ospitava un lago, prosciugato dalla famiglia Chigi nel 1838. L’area è compresa nel Comune di Campagnano, 20 chilometri a Nord dal Grande Raccordo Anulare. L’intera valle è soggetta a vincolo paesaggistico ed è compresa tra due parchi regionali protetti: il Parco di Veio e quello di Bracciano-Martignano, appunto.

    Avanziamo tra le sterpaglie alla ricerca di qualche vecchio pozzo geotermico. Dopo un’ora di cammino, riusciamo a individuare quello che il ministero dell’Ambiente e sicurezza energetica denomina “Pozzo Cesano 8″. Mecali è raggiante: “Non avevo mai visto questi pozzi perché, quando sono stati realizzati, ero piccolissimo”. Un quadrato in cemento, quattro metri per quattro, immerso tra canne e arbusti secchi. Un pozzo anonimo, ma che potrebbe nascondere un tesoro.

    Negli anni Settanta del Novecento, l’Enel qui era impegnata con ricerche sull’energia geotermica. Gli studi rivelarono una forte concentrazione di litio in serbatoi d’acqua ad alte temperature sepolti nelle viscere della valle. Il progetto fu abbandonato, il litio geotermico ritenuto non troppo degno di nota e i vecchi pozzi furono cementati in attesa del domani. Quel domani è arrivato.

    Oggi il litio è chiamato “oro bianco”. È elencato tra le 34 materie critiche fondamentali alla transizione ed è uno dei materiali più ricercati al mondo poiché serve, tra altre cose, a immagazzinare energia nelle batterie delle auto elettriche. Basti pensare che nel 2022 è stato venduto per oltre 80mila dollari alla tonnellata.

    Proprio nel 2022 uno studio dell’Istituto di geoscienze e georisorse di Pisa (Igg) ha elencato le aree più promettenti per il litio geotermico in Italia. “Questo argomento è diventato molto attuale -spiega Andrea Dini, primo ricercatore dell’Igg-. Il nostro è un inventario. Non di miniere, perché quelle vengono aperte quando si sa che c’è un giacimento, ma delle zone più promettenti per il litio”.

    Il luogo che stiamo visitando, la caldera di Baccano, è appunto tra queste. “Siamo usciti con questo studio che ha smosso un po’ le acque. Ma l’argomento era già nell’aria”, commenta Dini. Tanto che questa valle ha attirato attenzione su di sé persino da oltreoceano.

    Due gruppi estrattivi australiani, la Vulcan Energy e l’Altamin, hanno ottenuto tra il 2021 e il 2022 permessi di ricerca di litio geotermico nella valle di Baccano. In particolare, la Vulcan ha già siglato contratti di fornitura con gruppi automobilistici e avviato una collaborazione con Enel green power, che detiene i dati delle vecchie ricerche ed è leader globale nella geotermia. Le società richiedenti stanno valutando i dati d’archivio senza esplorazioni geofisiche.

    Nel Lazio sono state approvate licenze di ricerca anche in altre località. “Nella richiesta presentata all’Ente parco, c’era una planimetria con una vasta area che andava da Sutri, Monterosi, Nepi, Campagnano, Formello e arrivava fino a Cesano”, racconta Marsilio Gregori, geometra del Parco di Veio. Lo incontriamo nella sede di Sacrofano, uno dei luoghi per i quali è stato chiesto un permesso di ricerca.

    Permessi che a volte suscitano dubbi. Nella valle di Baccano, in particolare, la Regione Lazio ha concesso due licenze contigue, stabilendo che non comportano interferenze con l’ambiente. Eppure, sono in molti a non fidarsi. “Non siamo per niente contenti di questa storia”. “Siamo contrari. Dovranno pur fare un sondaggio tra la popolazione”. “Da quanto ho capito, se vogliono espropriano”. “Io abito qui dietro. Non possiamo nemmeno collegarci alla rete del gas, perché siamo in area vincolata, e quelli pensano alla miniera di litio”. Sono gli umori raccolti tra i residenti della valle mentre, seduti al bar “Il Baccanale”, prendiamo un caffè prima di incamminarci. Ma il timore è fondato?

    Il sindaco di Campagnano, Alessio Nisi, dice che “per come viene descritto il modello di estrazione del litio in Italia e Germania, si tratta di una tecnica sostenibile che non impatta sull’ambiente”. Il progetto Zero carbon lithium si basa su una metodologia sperimentale, la Direct lithium extraction, e cioè la produzione di litio da acque geotermiche. Rispetto ai metodi tradizionali, ha un basso impatto ambientale e non produce emissioni. Quando si parla di estrazione di litio, viene in mente l’estensione delle cave australiane o le distese desertiche cilene. Un impatto inaccettabile in una zona come questa, con ampie aree protette.

    Per Dini, il ricercatore dell’Igg, non è così: “È un metodo molto meno impattante rispetto a quanto si vede nel deserto di Atacama, in Cile. Lì, l’impatto è enorme. Basta andare su Google Earth e ci si rende conto”. Qui si tratterebbe invece di individuare il giacimento in profondità e portare l’acqua ricca di litio in superficie con pozzi profondi a circuito chiuso. “L’acqua calda si fa passare attraverso un impianto industriale dove si estrae il litio in maniera selettiva. Rimane un fluido esausto che non viene rilasciato nell’ambiente, ma reimmesso in profondità nel giacimento per ricaricare il sistema”, conclude Dini.

    Il geologo Alessandro Mecali aggiunge una considerazione: “Quando si fa sperimentazione è fondamentale il monitoraggio continuo e verificare se ci sono abbassamenti del terreno. Altro discorso è l’impianto. Devono essere adottate tecniche innovative anche lì, visto che siamo dentro a un parco”. In teoria, la ricerca scientifica sembra escludere effetti negativi nell’uso di questa tecnica. Ma resta ancora tutto da vedere.

    “A oggi, si parla solo di ricerca, non di nuovi fori -riprende il geometra del Parco di Veio durante la nostra visita a Sacrofano-, c’è un vincolo di interesse paesistico nella valle di Baccano, ma con parere speciale delle autorità è aggirabile. In più, siamo tra due parchi. Secondo l’articolo 8, legge regionale 29/97, nelle aree protette è vietata l’estrazione”. Cerchiamo di capire che cosa potrebbe succedere se si dovesse passare a una fase estrattiva in zone protette. Per ragioni di pubblica utilità, la giunta regionale può autorizzare deroghe alle misure di salvaguardia, prescrivendo le modalità per tutelare i luoghi. La giunta potrebbe, cioè, approvare, a condizione che vengano rispettati limitazioni e controlli a spese del proponente. Ma il decreto legge sulle materie prime critiche del 25 giugno 2024, che adegua la normativa nazionale alle disposizioni europee, supera queste considerazioni: dalla data in cui la Commissione europea li riconosce come strategici, i progetti assumono la qualità di pubblico interesse nazionale e gli interventi necessari alla realizzazione sono “indifferibili e urgenti”.

    Il sindaco di Campagnano propone di individuare soluzioni a lungo termine, in un quadro di partenariato pubblico-privato, così da coinvolgere i Comuni interessati. “Che impatti positivi si vogliono immaginare per Campagnano? Se un’area ha una data risorsa, facciamo in modo di utilizzarla coinvolgendo il territorio in un percorso virtuoso”. Già perché la domanda latente sulla bocca di tutti è sempre la stessa: chi beneficerà di questa risorsa? Sarà equo il corrispettivo previsto a favore delle comunità locali? O forse le società minerarie dovranno ricorrere a incentivi pubblici per far fronte alla concorrenza globale? Ma, soprattutto, quanto litio si può estrarre da qui? Su questo risponde Alessandro Mecali di ritorno dall’escursione: “Dipende dalle dimensioni del serbatoio. Ci sono stratigrafie, i dati dell’Enel, si può calcolare”. Quindi occorre considerare costi-benefici e la durata operativa dell’impianto. “È quanto stanno valutando queste società”, conclude.

    Restano ancora molti nodi da sciogliere prima di vedere se l’oro della valle luccicherà davvero. Non ultima la questione del prezzo. Il formidabile crollo dei prezzi nel 2023 (circa -80%), e il protrarsi del ribasso nel 2024, è forse indicativo di una tendenza? L’offerta del minerale è stata così alta da aver superato la domanda. Si parlerà ancora di oro bianco?

    https://altreconomia.it/alla-ricerca-di-litio-nei-pozzi-della-valle-di-baccano
    #lithium #matières_premières #extractivisme #Italie #Baccano #Critical_raw_material_act (#Crma) #terres_rares #Latium #transition_énergétique #Parco_di_Veio #Parco_di_Bracciano-Martignano #Pozzo_Cesano_8 #caldera_di_Baccano #Vulcan_Energy #Altamin #Enel_green_power #licences #Alessio_Nisi #Campagnano #Direct_lithium_extraction #Zero_carbon_lithium #environnement #géothermie

  • À Paris, ultime cycle d’expulsions avant les JO
    https://listmonk.collectifaccesaudroit.org/campaign/8b2c6b62-b99d-41fb-886e-fd85f804dded/b5729fae-81e6-436c-b953-c18f57cd3d30

    Depuis mai 2023, plus de 12.500 personnes ont été expulsées de leur lieu de vie, afin de faire place nette pour accueillir les JOP2024. La semaine dernière, nous avons documenté la situation d’une dizaine de campements dans le Nord-Est parisien et la Seine Saint-Denis. Ces lieux de vie informels ont été expulsés et les personnes qui y vivaient se sont vues proposer une prise en charge exceptionnelle d’un mois, le temps de la compétition, sans aucune garantie pour la suite. Leurs tentes ont été remplacées par des bornes vélib, des tables de pique-nique ou encore des blocs de béton afin d’empêcher toute réinstallation de campement. Du jamais vu dans un temps si court ! Source : Collectif accès au (...)

  • #ENTRE_DEUX_MONDES

    Ce polar est monstrueusement humain, « forcément » humain : il n’y a pas les bons d’un côté et les méchants de l’autre, il y a juste des peurs réciproques qui ne demandent qu’à être apaisées.
    Bouleversant

    Fuyant un régime sanguinaire et un pays en guerre, Adam a envoyé sa femme Nora et sa fille Maya à six mille kilomètres de là, dans un endroit où elles devraient l’attendre en sécurité. Il les rejoindra bientôt, et ils organiseront leur avenir.
    Mais arrivé là-bas, il ne les trouve pas. Ce qu’il découvre, en revanche, c’est un monde entre deux mondes pour damnés de la Terre entre deux vies. Dans cet univers sans loi, aucune police n’ose mettre les pieds.
    Un assassin va profiter de cette situation.
    Dès le premier crime, Adam décide d’intervenir. Pourquoi ? Tout simplement parce qu’il est flic, et que face à l’espoir qui s’amenuise de revoir un jour Nora et Maya, cette enquête est le seul moyen pour lui de ne pas devenir fou.

    Bastien est un policier français. Il connaît cette zone de non-droit et les terreurs qu’elle engendre. Mais lorsque Adam, ce flic étranger, lui demande son aide, le temps est venu pour lui d’ouvrir les yeux sur la réalité et de faire un choix, quitte à se mettre en danger.

    http://www.michel-lafon.fr/livre/1921-Entre_deux_mondes.html
    #migrations #asile #réfugiés #Calais #Jungle #campement #livre #polar #Olivier_Norek #violence

    • Citation :

      - Bon, je crois qu’on est d’accord pour dire que tous ces types dans la Jungle fuient la guerre ou la famine. On n’est pas sur une simple migration économique mais sur un exil forcé. Ce serait un peu inhumain de leur coller une procédure d’infraction à la législation sur les étrangers et de les renvoyer chez eux. On passerait pour qui ? Mais d’un autre côté, c’est plutôt évident que personne ne veut se soucier de leur accueil puisqu’on les laisse dans une décharge aux limites de la ville. Alors on leur a créé le statu de ‘#réfugiés_potentiels’.
      – C’est la première fois que j’entends ça, concéda Bastien en enfournant un euro dans la machine à café du palier.
      – Cherchez pas, ça n’existe nulle part ailleurs et dans aucun texte de loi. C’est du fait maison Calais, spécialité locale. En gros, avec ce statut bâtard, on ne eut pas les interpeller. Logique, si on refuse de les intégrer en France, ce n’est pas pour les faire rentrer dans le système judiciaire. Mais on ne leur donne pas non plus la qualité complète de réfugiés, sinon, il faudrait s’en occuper. Donc avec cette appellation de réfugiés potentiels, ni on ne les arrête, ni on ne les aide. On les laisse juste moisir tranquilles en espérant qu’ils partiront d’eux-mêmes.

      (pp.108-109)
      Voilà un nouveau mot à ajouter à la liste de #mots pour désigner les personnes en migration : « réfugiés potentiels »
      –—

      ajouté à la métaliste sur les mots de la migration :
      https://seenthis.net/messages/414225
      #vocabulaire #terminologie #mots

  • Paris : en trois jours, près de 500 migrants ont été évacués de leurs campements - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/58551/paris--en-trois-jours-pres-de-500-migrants-ont-ete-evacues-de-leurs-ca

    Paris : en trois jours, près de 500 migrants ont été évacués de leurs campements
    Par Marlène Panara Publié le : 18/07/2024
    Les exilés installés sur les bords des canaux de l’Ourcq et de Saint-Denis, ainsi que sur les quais de Seine du Pont Marie à Paris, ont tous été évacués de leurs lieux de vie informels entre le 16 et le 18 juillet. Des « mises à l’abri » saluées par les associations, qui déplorent dans le même temps une accélération du « nettoyage social » avant les JO.
    Des démantèlements en série en région parisienne. Ce jeudi matin, une centaine de jeunes migrants - des mineurs en recours, qui en attendant une décision du juge pour enfants se retrouvent à la rue - réfugiés sous le pont Marie, à Paris, ont été délogés par la police. Une quarantaine d’entre eux a accepté le transfert proposé par les autorités vers le centre d’accueil et d’examen de la situation (CAES) de Melun, à 65 km de Paris. Trop loin pour les 60 autres, qui « par obligation administrative, ou parce qu’ils suivent des cours de français dans la capitale, ne peuvent se permettre d’aller en Seine-et-Marne », explique Antoine de Clerck, membre du collectif Revers de la médaille, qui alerte sur l’expulsion des populations précaires de Paris en amont des Jeux olympiques de Paris.
    Mercredi 17 et mardi 16 juillet déjà, 401 autres exilés ont été évacués et pris en charge par les autorités. Hier matin, les forces de l’ordre sont intervenues pour démanteler deux campements regroupant respectivement 150 et 80 migrants dans le nord de Paris : l’un au niveau du pont de Flandres, dans le XIXe arrondissement, l’autre vers le pont de Stains, le long du canal Saint-Denis dans le nord parisien. D’après la préfecture d’Ile-de-France, 209 de ces personnes ont été mises à l’abri dans des centres situés dans la région. Selon des témoins, l’évacuation s’est déroulée dans « le calme ».
    La veille, mardi, les autorités ont évacué les occupants d’un autre campement, cette fois-ci le long du canal de l’Ourcq, où résidaient selon les associations environ 200 à 250 personnes. D’après la préfecture d’Ile-de-France, 192 ont été prises en charge, dont 173 en Île-de-France, et un mineur à Paris. « Ces personnes pourront bénéficier avec leur accord d’une évaluation de leur situation administrative et d’un accompagnement social et sanitaire », détaille encore la préfecture dans un communiqué. La plupart des migrants évacués ces deux derniers jours ont été transférés dans des CAES franciliens. Une décision bienvenue pour les associations, qui s’étonnent en revanche de cette soudaine disponibilité. « Avant, il fallait répondre à des conditions drastiques pour y accéder. Et là, tout le monde pouvait, a commenté Paul Alauzy, coordinateur de Médecins du Monde et l’un des porte-parole du Revers de la médaille. Avant les Jeux, c’est vraiment une logique de ‘on donne des solutions temporaires dans la région parisienne pour être sûr de bien vider les rues’ ». « Ils ont vraiment parachevé le grand nettoyage social juste avant le commencement des JO ».
    « Comment cela se fait-il que ces places soient libres maintenant ? Alors que jusqu’ici cette année, on nous disait toujours que c’était plein, d’où les transferts en SAS régionaux, s’interroge aussi Antoine de Clerck. Évidemment, ces ’mises à l’abri’ c’est une bonne chose pour les exilés, on ne le nie pas. Mais ça donne vraiment l’impression que les autorités se sont gardés les CAES d’Ile-de-France sous le coude, juste avant les JO, pour vider les quais juste à temps ». De son côté, la préfecture rappelle dans son communiqué que « ces deux mises à l’abri s’inscrivent dans le cadre de la mobilisation constante de l’État pour accompagner les personnes les plus vulnérables ». Elle assure par ailleurs que « 2 500 personnes ont été mises à l’abri depuis des campements situés dans l’espace public à Paris en 2024 ». « Ces interventions viennent compléter le système de droit commun organisé par l’État, permettant l’hébergement chaque nuit en Ile-de-France d’environ 120 000 personnes en situation de précarité », ajoute-t-elle. Pour Antoine de Clerck, « cette communication nous laisse très amers ». « Certains camps démantelés le long des canaux parisiens existent depuis trois ans, rappelle-t-il. Si on voulait vraiment mettre les gens ‘à l’abri’, on l’aurait fait avant ».
    Lors des évacuations, la préfecture a également proposé aux migrants d’être transférés dans un SAS de Besançon, à l’est de la France. Sur les 401 personnes prises en charge au total, « seuls trois ont accepté », affirme Antoine de Clerck. Créés en mars 2023 à l’initiative du président de la République, les SAS régionaux ont pour objectif de répartir les primo-arrivants sur le territoire français, l’hébergement en région parisienne étant régulièrement saturé. Mais ce type de structures a depuis montré ses limites : les migrants ne retrouvent pas partout le même tissu associatif que celui qui émaille la capitale, ou la communauté de leur pays d’origine, souvent source d’aide et de solidarité. D’autant plus que la durée d’hébergement dans le SAS n’excède pas trois semaines. Après ce laps de temps, de nombreux exilés, sans solution, se retrouvent une fois de plus à la rue. « Il y a un an on m’a emmené à Bordeaux, j’ai dormi dans un logement cinq jours, puis à la rue, donc je suis revenu à Paris parce que j’y connaissais des gens », a raconté à l’AFP Nassir, 34 ans, arrivé en France en 2017 du Soudan. « Monter dans un bus pour ne rester que quelques jours ça me sert à rien, je ne vais pas trouver du travail. » Certains migrants délogés ont quant à eux préférés partir par leurs propres moyens. « Je ne suis pas monté dans le bus parce que dans 15 jours on nous remettra à la rue. On a besoin d’un logement stable pour faire les démarches ou suivre des cours de français », a expliqué Hassem, 27 ans, Soudanais, qui avait élu domicile sous le Pont de Flandres voici deux mois.
    Jamal Ahmed, 30 ans, originaire lui aussi du Soudan, s’était installé il y a deux ans au même endroit. « Je suis déjà monté dans le bus pour aller à Ris-Orangis [Essonne, au sud de Paris], j’ai été logé un mois. Puis on m’a dit dehors ! Alors je suis revenu ici car je savais qu’il y avait de la place ».

    #Covid-19#migrant#migration#france#JO#campement#CAES#mineur#sante

  • 16-21 Luglio: Stop ai mega bacini per la difesa della acqua
    https://radioblackout.org/2024/07/16-21-luglio-stop-ai-mega-bacini-per-la-difesa-della-acqua

    La mobilitazione dei #Soulevaments_de_la_terre, alleanza di centinaia tra comitati ambientalisti collettivi e sindacati, che ha visto l’anno scorso portare più di 30.000 persone a Saint-Soline per contestare l’esistenza e la creazione di ulteriori Mega Bacini idrici nelle zone rurali della #francia, torna quest’anno a Poitou. Si vedranno infatti migliaia di manifestanti confluire […]

    #L'informazione_di_Blackout #acqua_bene_comune #agro_business #agroindistria #Bassines_non_merci #campeggio #elezioni_in_francia #lotte_ecologiste #mobilitazioni
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/07/16-21LuglioSoulevaments.mp3

  • Accueil d’étudiant∙es gazaoui∙es. Un timide début à saluer
    https://academia.hypotheses.org/57235

    Mise en place d’un dispositif de 7 bourses « #Palestine » en soutien aux étudiant·es et aux jeunes chercheur.euses affecté·es par la situation humanitaire tragique à #Gaza Version .pdf Faisant suite à une grande mobilisation des étudiant.es de l’ENS de … Continuer la lecture →

    #Actualités_/_News #Asie #Gouvernance_de_l'ESR #World_-_Ailleurs_dans_le_monde #Affaires_étrangères #Campus_France #ENS_de_Lyon

  • Les centres italiens pour migrants en Albanie sont prêts

    Symbole de la politique migratoire de Giorgia Meloni, le projet inquiète les habitants, mais est soutenu par l’Exécutif albanais.
    Des #préfabriqués gris protégés par des grilles métalliques prennent le soleil à côté des chalutiers qui mouillent dans l’Adriatique. Avec ses écriteaux en italien, le tout nouveau centre d’identification détonne dans le port de #Shëngjin, situé à 60 km au nord de Tirana. « Le centre est prêt à accueillir les migrants », assure Sander Marashi, le directeur du port. « Après leur débarquement, les personnes seront prises en charge par nos partenaires italiens. Dans ce centre, leurs données personnelles seront enregistrées et elles recevront une assistance médicale avant d’être acheminées vers le centre de #Gjadër. »

    Signé en novembre 2023, l’accord bilatéral d’une durée de cinq ans prévoit le transfert vers l’Albanie de migrants secourus en Méditerranée par les navires italiens. Une résidence albanaise « temporaire » pour des personnes « non vulnérables », le temps de traiter leur demande d’asile, avant un possible renvoi vers leur pays d’origine. Près de 36’000 personnes par an pourraient séjourner dans deux centres albanais, selon les termes de l’accord. Gérés par les autorités italiennes, ces centres devraient ouvrir au 1ᵉʳ août.

    Une dette envers l’Italie

    La transformation de Shëngjin en « hotspot » de la question migratoire inquiète la plupart des habitants. Avec son front de mer bordé de pins maritimes et ses plages de sable, la cité balnéaire fait figure de poumon économique de la région. Chaque été, elle attire des dizaines de milliers de touristes, notamment les Albanais du Kosovo et la diaspora suisse. Les restaurateurs sont largement opposés au projet, mais personne n’ose critiquer ouvertement les choix du premier ministre albanais.

    Soutien fidèle du projet de Meloni, Edi Rama a répété sa « fierté de pouvoir apporter notre aide » et mis en avant une « dette » albanaise envers l’Italie. Une référence à l’arrivée de l’autre côté de l’Adriatique de centaines de milliers de ses compatriotes fuyant la misère et le chaos politique qui ont suivi l’effondrement de la dictature stalinienne en 1991. L’évocation de ces années douloureuses fait mouche dans une société marquée par l’émigration.

    « Quand je vois les réfugiés aujourd’hui, ça me rappelle mes débuts en Italie en 93 », raconte Besnik Sulaj, 63 ans, qui tient un hôtel familial à quelques pas du port. « Des années difficiles : je ne connaissais pas la langue et je n’avais pas à manger, rien. Et des Italiens m’ont aidé. L’arrivée des réfugiés ne me dérange pas et je ne crains rien pour mon business. D’ailleurs, on accueille déjà des réfugiés afghans depuis des années. Le peuple albanais ne fait pas de divisions religieuses, et on n’est pas racistes. On accueille tous les types d’immigrés ! »

    Crainte de la population

    Le ton se fait moins optimiste dans le village de Gjadër, situé à une vingtaine de kilomètres plus au nord. Depuis quelques semaines, le bruit des tractopelles résonne en continu, et des grilles et des barrières surveillées ont été installées le long de la rivière. C’est au milieu des champs de cette Albanie déshéritée que Giorgia Meloni esquisse un pan crucial de sa politique migratoire. Mais le centre de rétention pour migrants que la présidente du Conseil italien fait construire crispe les habitants de ce village aux maisons modestes et aux jardins vivriers.

    « Personne ne nous a demandé notre avis. L’État décide tout seul, et il se fiche de l’avis du peuple », s’agace Armando, 31 ans. « Mais qu’est-ce qu’on a à gagner avec ces camps ? Tout le village est inquiet. Notre premier ministre n’est pas capable de nous aider, mais il veut aider des Africains et des gens du monde entier. Mais l’Italie n’a pas de terrains pour faire ça chez elle ? Elle en a plein ! »

    Projet contesté

    Giorgia Meloni présente déjà comme un modèle cette externalisation de l’asile dans un pays non membre de l’Union européenne. Pourtant, le projet albanais de la cheffe d’extrême droite est contesté. De nombreuses questions techniques et juridiques sur sa faisabilité restent en suspens, et le coût de sa mise en œuvre pourrait dépasser les 620 millions de francs avancés par les autorités italiennes.

    À la tête du Parti socialiste albanais, Edi Rama est critiqué par la gauche européenne pour son appui aux projets de la droite radicale. Mais pour l’opposition locale, le premier ministre cherche surtout à faire oublier les accusations de collusion avec le crime organisé qui se multiplient contre son Exécutif. Récemment encore, des médias italiens présentaient l’Albanie comme un « narco-État ». « L’ensemble des institutions et des gens très proches du premier ministre sont impliqués dans le trafic de drogue », accuse Gjin Gjoni, le responsable du Parti démocratique de la région de Lezhë. « Les scandales s’accumulent, et c’est dans l’intérêt du gouvernement d’offrir tout ce qu’il peut aux partenaires étrangers pour assurer son maintien au pouvoir. »

    Des ONG et de nombreux experts ont affirmé que cette externalisation de l’asile en Albanie n’était pas conforme au droit européen. Mais plusieurs gouvernants brandissent déjà cet accord, afin de prôner un nouveau durcissement de la politique migratoire de l’UE.

    https://www.tdg.ch/albanie-les-centres-italiens-pour-migrants-sont-prets-378676069954

    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Italie

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    • En Albanie, les centres italiens de rétention de migrants n’ont pas l’adhésion du peuple

      L’Italie construit depuis quelques mois des centres de rétention de migrants en Albanie. Giorgia Meloni en a fait un #symbole de sa politique contre l’immigration. Mais sur place, une partie de la population n’apprécie pas la collaboration du pouvoir albanais avec l’extrême droite italienne.

      Signé en novembre 2023, un accord bilatéral d’une durée de cinq ans prévoit le transfert de l’autre côté de la mer Adriatique de migrants secourus en Méditerranée par les navires italiens, le temps de traiter leurs demandes d’asile, avant un possible renvoi vers leurs pays d’origine.

      Exploités par les autorités italiennes elles-mêmes, ces centres de rétention devraient accueillir 36’000 personnes par année. Cette « externalisation de l’asile » dans un pays non-membre de l’Union européenne est une première sur le continent.

      « Personne ne nous a demandé notre avis »

      Le gouvernement albanais soutient l’accord au nom d’une relation historique particulière avec l’Italie. Le Premier ministre #Edi_Rama, un néolibéral souvent décrit comme autoritaire, a mis en avant la « #dette » de son pays : dans les années 90, l’Italie a accueilli des centaines de milliers d’Albanais fuyant le chaos politique et la misère.

      Mais ce discours ne fait pas l’unanimité. Dans le modeste village de Gjadër, au milieu des champs du nord-ouest de l’Albanie, la construction de l’un de ces futurs camps irrite les habitants. « Personne ne nous a demandé notre avis », s’agace l’un d’eux dans l’émission Tout un monde. « L’Etat décide tout seul et se fiche de l’avis du peuple. Mais nous, qu’est-ce qu’on a à gagner avec ces #camps ? L’Italie a plein de terrains chez elle ! »

      « Cet accord, ça me fait surtout du mal pour les réfugiés »

      À 20km du village, le port de Shëngjin se prépare au transit de ces exilés. Des bâtiments préfabriqués gris protégés par des grilles métalliques ont déjà été installés à côté des chalutiers. Cette cité balnéaire, avec son front de mer bordé de pins maritimes et ses plages de sable, est un centre économique de la région. Les restaurateurs sont largement opposés au projet, mais personne ne critique ouvertement les choix du Premier ministre.

      « Quand je vois les réfugiés aujourd’hui, ça me rappelle ma vie quand je suis arrivé en Italie en 1993. Des années difficiles : je ne savais pas la langue, je n’avais pas à manger, rien. Des Italiens m’ont aidé », témoigne le gérant d’un hôtel proche du port.

      « Cet accord avec l’Italie, ça me fait surtout du mal pour les réfugiés. Mais ça ne va rien changer pour moi ni pour mon business », poursuit cet homme de 63 ans. « Le peuple albanais est le seul qui ne fait pas de divisions religieuses. On n’est pas racistes, on accueille tous les immigrés », ajoute-t-il.

      Perte de #souveraineté de l’Albanie

      Pour l’activiste Arlinda Lleshi, ces centres en Albanie ne sont que « pure #propagande_électorale ». « Ce serait évidemment plus facile et bien moins cher pour l’Italie de s’occuper de ces personnes sur son territoire », estime-t-elle.

      La jeune femme de 27 ans a notamment organisé des manifestations pour dénoncer la perte de souveraineté de son pays. « Pourquoi devrions-nous accepter que l’Albanie soit toujours un vassal des pays étrangers en faisant le jeu de responsables politiques qui veulent rester au pouvoir ? », lance-t-elle. « C’est un accord qui n’a pas de sens et dont nous, les Albanais, n’avons aucun intérêt à tirer ! »

      Critiques humanitaires

      À la tête du Parti socialiste albanais, Edi Rama est aussi critiqué par la gauche européenne pour son soutien à l’agenda de l’extrême droite italienne. Pour l’opposition, le Premier ministre cherche surtout à faire oublier les accusations de collusion avec le crime organisé qui se multiplient contre son administration et à consolider son pouvoir en donnant des gages à des partenaires étrangers.

      Selon de nombreux experts, cette politique de déportation des migrants ne respecte pas le droit international. Mais une quinzaine d’Etats membres de l’UE ont déjà proposé de multiplier ce type d’accord. En Suisse aussi, le Parlement a accepté en juin une motion du PLR qui souhaite qu’un tel « #accord_de_transit » soit conclu avec un pays tiers pour pouvoir y expulser les requérants d’asile érythréens déboutés.

      https://www.rts.ch/info/monde/2024/article/en-albanie-les-centres-italiens-de-retention-de-migrants-n-ont-pas-l-adhesion-du

    • A Gjadër, in Albania, slitta l’apertura dei centri di detenzione dei migranti

      Reportage dai luoghi dove il governo italiano aveva assicurato l’apertura di hotspot e Cpr prima a fine maggio e poi a inizio agosto. I lavori, pur su turni sfiancanti, devono ancora terminare. I residenti intanto si interrogano sull’impatto su una comunità di 200 anime, che a volte è senz’acqua ed elettricità. Tra speranze di lavoro e disagio per il destino di migliaia di persone.

      Nella città costiera di Shëngjin, in Albania, la stagione estiva è nel pieno. I resort e gli hotel adagiati lungo la costa stanno infatti vivendo il picco. Il Rafaelo Resort, una delle strutture ricettive più grandi e lussuose della città, è zeppo di persone che frequentano bar, ristoranti, centri benessere.

      Il personale di sicurezza, ben visibile all’ingresso, è lì per garantire la sicurezza di tutti gli ospiti, compresi i rifugiati afghani che entrano ed escono dai cancelli del resort. Sono migliaia le persone che, in fuga dal regime dei Talebani, dall’agosto 2021, sono state ospitate temporaneamente nella struttura in attesa del rilascio dei visti per gli Stati Uniti.

      Questo spirito di ospitalità nell’accogliere i rifugiati afghani non sarà riservato, invece, per quelli che verranno portati dalle autorità italiane nel centro di prima accoglienza per migranti, compresi minori, donne e persone vulnerabili, all’interno del porto di Shëngjin, che funzionerà da hotspot. Lì i migranti saranno sottoposti alle procedure di screening prima di essere caricati su furgoni e rinchiusi nei centri di detenzione di Gjadër, a venti chilometri da Shëngjin.

      Da quando la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni ha inaugurato l’hotspot il 5 giugno 2024, ai giornalisti e ai non addetti ai lavori è severamente vietato entrare nel porto per visitarlo. Un muro di sette metri cinge le strutture prefabbricate della struttura per nasconderlo agli occhi di turisti e residenti mentre le telecamere installate ai bordi controllano quello che succede lungo il perimetro esterno. L’hotspot all’interno del porto è circondato da edifici residenziali e da un grande luna park sul lato sinistro.

      Nelle scorse settimane, dopo gli annunci del governo italiano dell’imminente apertura, i titoli dei giornali si sono rincorsi con la notizia dell’apertura dell’hotspot il primo agosto, nonostante la costruzione dei centri di detenzione a Gjadër sia ancora lontana dall’essere terminata.

      “Pensate davvero che gli italiani porteranno i migranti ora in mezzo a tutti i turisti? Nessuno arriverà qui fino alla fine della stagione estiva”, dice Altin, nome di fantasia di un anziano seduto in un bar accanto al porto. Ha ricevuto questa informazione da un amico ingegnere che lavorava a Gjadër.

      “Ho sentito che stanno lavorando 24 ore su 24 per finire tutto in due o tre settimane. Le cabine sono situate nel porto di Shëngjin e hanno una capacità di 260 persone, ma chissà, forse questo accordo avrà lo stesso destino del piano Ruanda (del governo inglese, ndr)”, aggiunge.

      A fine maggio il ministero dell’Interno italiano ha pubblicato una gara d’appalto da 13,5 milioni di euro per il noleggio di un’unità navale in grado di coprire la distanza “da 15/20 miglia nautiche a Sud/Sud-Ovest dall’isola di Lampedusa, al porto di Shëngjin in Albania”, a partire da metà settembre 2024.

      “Un mio amico lavora vicino al porto -spiega un altro residente- e mi ha raccontato di una nave italiana ancorata lì, che sta misurando la distanza per trovare la rotta più adatta per le navi per far sbarcare i migranti”. Poi indica il Rafaelo Lake Resort, un hotel inaugurato a fine luglio, che dovrebbe ospitare il personale italiano e si trova un chilometro più a Sud del porto, insieme ad altri hotel vicino al lago Këndall.

      L’uomo ci accompagna in un vecchio negozio vicino al porto per presentarci un’anziana signora che ha dei conoscenti che lavorano proprio a Gjadër. “Lo sposo sta lavorando lì, sta installando telecamere e internet, ma che cos’altro sappiamo? Chi ci dice niente?”, sospira facendo eco alla frustrazione di molti nella comunità.

      Più tardi incontriamo Dorian Pali, avvocato e residente a Lezhë. Fa parte di un gruppo di attivisti che protesta contro l’accordo fin dal suo annuncio e ha espresso profonda preoccupazione per la privazione della libertà di tutti i migranti interessati dall’accordo. “Mi oppongo a questo accordo perché tutte le infrastrutture militari dovrebbero rimanere all’esercito e la base non può essere ceduta in questo modo per costruire centri di detenzione”, spiega.

      La base aerea di Gjadër, considerata uno dei siti militari più segreti al mondo, è stata infatti costruita su una collina brulla a venti chilometri da Shëngjin, nel Nord dell’Albania, durante l’era comunista. All’inizio degli anni Novanta la Cia la usava per svolgere missioni di spionaggio nelle ex Repubbliche federali di Jugoslavia. L’ultimo jet è decollato da Gjadër nel 2004 e la base, con la sua ricca storia, è rimasta in gran parte inutilizzata dall’esercito albanese.

      Per raggiungere Gjadër da Shëngjin è necessario noleggiare un’auto perché non ci sono mezzi pubblici. Prenotare un taxi costa circa venti euro per mezz’ora di viaggio. Quando ci avviciniamo alla strada dove si trova la base militare, all’orizzonte appaiono le strutture prefabbricate accatastate. Nonostante le temperature roventi, gli operai locali lavorano instancabilmente per terminare la costruzione. “Ci lavorano circa venti uomini di Gjadër”, dice un ragazzo che serve al bar del villaggio.

      Una guardia di sicurezza di stanza al cantiere di Gjadër, che ha chiesto di rimanere anonima, racconta di come i lavori siano andati a rilento a causa dei disaccordi dell’esercito albanese con il protocollo. “La costruzione non è iniziata ed è rimasta ferma per un mese perché l’esercito non ha dato il permesso, poi concesso dopo molte difficoltà”.

      In quest’area si stanno costruendo tre diverse strutture per i migranti in cui, secondo le promesse fatte dalla cooperativa sociale Medihospes, l’ente italiano che si è aggiudicato l’appalto da oltre 133 milioni di euro per gestire i centri, si svolgeranno numerose attività, laboratori, e sarà addirittura possibile guardare Sky e Dazn. La prima struttura, con 880 posti, dovrebbe ospitare i richiedenti asilo sottoposti alla procedura di frontiera, la cui detenzione dovrebbe durare al massimo 28 giorni. La seconda, con 144 posti, dovrebbe avere invece la funzione di Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr). La terza, con 20 posti, sarà di fatto un carcere e verrà utilizzato per l’applicazione di misure di custodia cautelare nei confronti di cittadini stranieri arrestati o detenuti.

      L’esodo delle giovani generazioni in cerca di migliori opportunità ha trasformato Gjadër, che ora sconta l’inquietante silenzio di una città fantasma. Le strade e i parchi sono vuoti, con solo qualche uomo che passeggia o si siede al bar dell’ingresso.

      “A volte esco per strada e questo silenzio mi fa venire i brividi. Una volta non era così, ma i giovani sono senza speranza e se ne vanno”, dice una signora che pulisce il tavolo in uno dei pochi bar della piccola cittadina. “Qui vivono solo 200 famiglie e la maggior parte degli abitanti rimasti sono anziani”, aggiunge Don Alberto Galimberti, parroco italiano che fa parte della missione cattolica di Blinisht e Gjadër.

      Per coloro che sono rimasti nella comunità l’attenzione si è spostata sui centri per i migranti, visti come un’opportunità di lavoro. Alcuni aspettano aggiornamenti da settimane. “Delle donne della sartoria mi hanno detto che quando i centri apriranno, gli italiani cercheranno operatori sanitari. Il compenso offerto è di circa 1.200 euro”, spiega la commessa del mercato vicino all’ingresso della città. Racconta che, saputo dell’apertura dei centri, si è precipitata dall’amministratore del villaggio per dare il suo nome insieme al marito per lavorare lì, ma non hanno ricevuto risposta e nessuno li ha informati sulle procedure di assunzione.

      Nelle scorse settimane sul sito di Medihospes, la “regina dell’accoglienza” in Italia con quasi 160 milioni di euro di fatturato nel 2023, sono apparse ben 379 posizioni lavorative aperte per i centri albanesi, tra cui mediatori, tecnici di laboratorio, medici, psicologi e assistenti sociali. Un esercito di persone ricercate anche tra i “locali”: gli annunci, infatti, sono scritti anche in albanese. Fa riflettere il fatto che la durata del contratto proposto sia di soli tre mesi.

      Gimi, un residente locale seduto al bar, condivide il suo punto di vista sull’accordo. “Non ho paura dei migranti che verranno a Gjadër. Perché? Perché avere paura? Noi stessi abbiamo cercato rifugio e siamo stati picchiati e tenuti in prigione”. I pochi abitanti del bar hanno espresso le loro preoccupazioni per la mancanza di elettricità e di acqua nel villaggio, che deve far fronte a carenze quotidiane. Tuttavia c’è un barlume di speranza: alcuni credono che gli operai che installano le linee idriche e fognarie nei centri italiani potrebbero giovare anche al villaggio e risolvere la carenza di elettricità e acqua. “Spero che il centro non apra le porte -aggiunge Gimi poco prima di andarsene dal bar-. Sono prigioni e spero che nessuno venga trattenuto lì”.

      https://altreconomia.it/a-gjader-in-albania-slitta-lapertura-dei-centri-di-detenzione-dei-migra

  • Un féminisme de la décroissance
    https://laviedesidees.fr/Genevieve-Pruvost-Quotidien-politique

    Pour transformer le quotidien, il est nécessaire non seulement de défaire les rapports de classe, de sexe et de race, mais aussi de renouer avec la matière et la ruralité. L’entre-subsistance permet de fissurer le système capitaliste et patriarcal.

    #Société #féminisme #écologie #campagne
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240710_pruvost.pdf

  • Dunkerque : une plainte déposée à la suite de la découverte d’un liquide bleu dans une cuve d’eau potable à destination des migrants
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/06/21/dunkerque-une-plainte-deposee-a-la-suite-de-la-decouverte-d-un-liquide-bleu-

    Dunkerque : une plainte déposée à la suite de la découverte d’un liquide bleu dans une cuve d’eau potable à destination des migrants
    L’association britannique Roots a déposé plainte après avoir découvert de l’eau souillée dans une citerne destinée aux exilés du campement de Loon-Plage.
    Le Monde avec AFP
    Une plainte a été déposée après la découverte d’un liquide bleu dans une cuve d’eau potable mise à disposition des migrants par une ONG dans un campement de Loon-Plage, près de Dunkerque, a appris l’Agence France-Presse vendredi 21 juin auprès d’associations. Ce liquide a été retrouvé le 14 juin, a fait savoir l’ONG britannique Roots, qui vient en aide aux migrants présents sur le littoral du nord de la France dans l’attente d’une tentative de traversée vers l’Angleterre, confirmant une information de Libération. L’association a porté plainte. Roots précise avoir donné aux gendarmes un échantillon du liquide pour qu’il soit analysé. Christopher, un bénévole de Roots, évoque une odeur chimique et mentholée, comme celle d’un produit ménager.
    « C’était un acte volontaire, dont on ne connaît pas la finalité mais, dans tous les cas, l’intention était de nuire », assène auprès de Libération Thomas Chambon, chargé de mission des maraudes sur le littoral pour l’association Utopia 56. La cuve est placée à l’écart du camp, à la jonction de deux routes de campagne. Pour la remplir, il faut se hisser et dévisser un gros bouchon au sommet de la citerne de 1 000 litres, selon nos confrères. Les membres de Roots avaient déjà retrouvé la citerne percée à coups de couteau.
    Médecins du monde explique à Libé qu’« on voit beaucoup des cas de gale. Des femmes présentent des infections urinaires, surtout l’été. Elles limitent leur consommation d’eau, en lien avec l’absence de toilettes dignes et sécurisées. » Sans compter l’impossibilité de se laver correctement.
    D’après Claire Millot de l’association Salam, qui distribue des repas aux exilés dans ce secteur, 300 à 400 personnes vivent actuellement sur ce vaste campement. Un point d’eau y a été installé par la communauté urbaine de Dunkerque à la suite de la grève de la faim d’un bénévole de l’association à la fin de 2023. L’amélioration de l’accès à l’eau des migrants était l’une des revendications, mais, selon Claire Millot, d’autres points d’eau qui devaient être installés ne l’ont pas été. L’association Roots, non mandatée par l’Etat, dispose et remplit des cuves d’eau potable sur le campement pour permettre aux migrants de boire, cuisiner et se laver.« Là, c’était un liquide bleu, donc les gars ne l’ont pas bu mais cela aurait été incolore et un poison, même un poison pas très violent qui donne juste mal au ventre, dans les conditions sanitaires dans lesquelles ils vivent, cela aurait pu être dramatique », s’alarme Mme Millot. Ce type d’actes sur le campement de Loon-Plage est, selon elle, « une première », mais elle craint que ce type de faits ne « se multiplient ».
    A Calais, une cuve d’eau de l’organisation Calais Food Collective avait été retirée par la mairie en août 2023, les associations dénonçant une nouvelle tentative d’« entrave à l’aide humanitaire ». L’énième épisode d’une guerre d’usure de longue date menée par la ville dirigée par la maire Natacha Bouchart (Les Républicains) contre les « points de fixation » des personnes exilés. En 2021, Calais Food Collective dénonçait le harcèlement quasi quotidien des services de la ville, de la préfecture et de la police : « 3 février, cuve enlevée par la police ; 8 février, cuve volée par police (…) ; 13 juin, de l’essence est répandue autour de la cuve (…) 21 août, cuve détruite au même moment qu’une opération de CRS ; (…) 4 septembre, urine et bris de verre sur une cuve ».
    L’association Utopia 56 souligne, pour sa part, que l’accès à l’eau est un droit fondamental et que deux personnes migrantes sont mortes noyées, en 2022 et 2023, « dans un canal en souhaitant se laver par manque d’accès à l’eau sur le campement [de Loon-Plage] ». L’Organisation mondiale de la santé (OMS) estime qu’il faut entre 50 et 100 litres d’eau par personne et par jour pour répondre aux besoins de base. A Calais, selon un rapport conjoint du collectif d’ONG Coalition eau et de l’association Solidarités International, datant de 2022, les exilés sur place disposaient en moyenne d’à peine 4,9 litres par jour.

    #Covid-19#migrant#migration#france#calais#humanitaire#campement#sante

  • Dans les camps. Hospitalité française
    http://anarlivres.free.fr/pages/nouveau.html#camps

    Le 23 février 1939 paraissait dans « Le Libertaire » un article de Maurice Doutreau sur le camp de concentration de Saint-Cyprien dans les Pyrénées-Orientales qui « accueillait » les républicains espagnols, fuyant l’avancée des troupes franquistes. Les premiers camps sont situés en bord de mer, sur la plage, où il n’y a rien pour les accueillir, à part les barbelés, les gardes mobiles et les troupes coloniales. Séparés de leur famille, les hommes sont parqués dans le froid, sans soins et sans hygiène. Le journaliste dénonce ces conditions de vie inhumaine, l’hypocrisie des politiques et le rôle de ses confrères de la presse bourgeoise chargés de faire accepter l’inacceptable (...)

    #GuerreEspagne #anarchisme #libertaire #camps #médias #Saint-Cyprien

  • Les écoles privées attirent les étudiants étrangers sans master en quête de titre de séjour
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/05/24/les-ecoles-privees-seduisent-les-etudiants-etrangers-sans-master-en-quete-de

    Les écoles privées attirent les étudiants étrangers sans master en quête de titre de séjour
    Par Anjara Andriambelo
    Publié le 24 mai 2024 à 18h37, modifié le 25 mai 2024 à 08h30
    Poursuivre ses études en France, après une licence, est souvent source d’anxiété pour les étudiants étrangers. Et pour cause : l’acceptation dans une formation permet à l’autorité préfectorale d’apprécier le caractère réel et sérieux des études lors du renouvellement de leur titre de séjour. « C’est un parcours du combattant », témoigne Aline (les personnes citées par leurs prénoms souhaitent rester anonymes), 22 ans. Dans l’attente fébrile des résultats de la plate-forme nationale Mon master, rendus publics le 4 juin, l’étudiante chinoise, inscrite en licence d’écogestion à l’université Paris-Saclay, redoute de voir ses craintes se concrétiser et sa situation administrative compromise, en cas de rejet de ses quinze candidatures. Pour ces étrangers, qui représentent 14 % des étudiants inscrits dans l’enseignement supérieur français, l’enjeu est de taille. A ce jour, ni Campus France, l’établissement public chargé de la promotion de l’enseignement supérieur français, ni le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche ne sont en mesure de chiffrer le nombre d’étudiants de nationalité étrangère recalés. Campus France dit « ne pas s’être penché sur le sujet ».
    Le manque de suivi « est une réalité à dénoncer », déplore Emile Albini, chargé de travaux dirigés en droit administratif à l’université d’Orléans, et vice-président de l’association Voix des étudiants étrangers, dont la mission est d’accompagner ceux-ci gratuitement dans leurs démarches auprès des préfectures depuis 2023. Il dit suivre plusieurs dizaines de cas d’étudiants non affectés, redoutant, dans le pire des cas, une obligation de quitter le territoire français.
    Conscientes de cette vulnérabilité, les écoles privées intéressent ces candidats déçus. Ce qui n’est pas sans risque pour eux. La diversité actuelle de l’offre de formation peut créer de la confusion, entre grades, visas, établissement d’enseignement supérieur privé d’intérêt général, titres inscrits au répertoire national des certifications professionnelles (RNCP) ou encore le label décerné par le ministère du travail Qualiopi.
    D’après le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche « cette multiplicité a fini par créer un paysage peu lisible, permettant à certains acteurs de jouer sur le flou en prétendant un niveau de reconnaissance par l’Etat qu’ils ne possèdent pas ». (...)
    En 2018, la loi dite « pour la liberté de choisir son avenir professionnel » a engendré un véritable essor de l’alternance qui a séduit notamment de plus en plus les étudiants étrangers, grâce à l’argument de l’employabilité, vendu par les écoles. Selon Emile Albini, cette attractivité s’explique par l’espoir, à terme, de pouvoir plus facilement basculer dans le marché du travail et d’obtenir un titre de séjour salarié auprès de la préfecture.
    Pour ces étudiants, l’apprentissage apporte la garantie d’une meilleure insertion sur le marché du travail. En France, 852 000 nouveaux contrats ont été signés en 2023, ce qui a permis de franchir la barre symbolique du million de jeunes en apprentissage, selon les derniers chiffres publiés par la Direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques. Les entreprises reçoivent jusqu’à 6 000 euros de subventions de l’Etat par apprenti. Un marché attractif pour de nombreuses écoles privées.
    (...)
    « Tout étranger victime de pratiques frauduleuses est légitime à porter plainte pour les faits qui le concernent directement », rappelle le ministère de l’intérieur et des outre-mer. Mais « certains étudiants sont découragés de le faire parce qu’ils peuvent être sous la menace d’une obligation de quitter le territoire français. Ils obtiennent rarement une réponse, et la procédure met l’étudiant qui témoigne dans une situation compliquée », explique le porte-parole de l’association Voix des étudiants étrangers.
    Selon une enquête de la direction générale de la concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes en 2022, plus de 30 % des établissements contrôlés se sont révélés être en anomalie en matière de pratiques commerciales trompeuses, usant de mentions valorisantes sans justification vérifiable, comme « mastère, diplôme équivalent master 1, Master of Science, MBA… »
    Le ministère de l’intérieur et des outre-mer déclare collaborer avec le ministère de l’enseignement supérieur et le ministère du travail, dans la mise en place d’un label, en vue d’une meilleure information des étudiants nationaux et internationaux souhaitant entreprendre un cursus d’études dans un établissement privé. « L’objectif est qu’il soit plus simple à lire pour les jeunes et leur famille. Il aura également pour conséquence de limiter les abus liés pouvant parfois apparaître autour du flou sur la reconnaissance de certaines formations », assure le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche. Le nouveau label, initialement attendu au printemps, est désormais annoncé pour cet été.

    #Covid-19#migrant#migration#france#etudiantetranger#universite#OQTF#campusfrance#titredesejour#sante

  • #campi_bisenzio (FI). Manifestazione antimilitarista alla #leonardo
    https://radioblackout.org/2024/05/campi-bisenzio-fi-manifestazione-antimilitarista-alla-leonardo

    Il 24 maggio maggio, data simbolica per il militarismo italiano, l’Assemblea Antimilitarista #toscana ha indetto una manifestazione alla sede della Leonardo di Campi Bisenzio. Di seguito il loro appello: “Venerdì 24 maggio 2024 manifestazione presidio antimiilitarista per la conversione produttiva della Leonardo da fabbrica di armi di morte a fabbrica di beni di vita. ore […]

    #L'informazione_di_Blackout #antimilitarismo #assemblea_antimilitarista #firenze #guerra
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/2023-05-21-vincenzo-campi-bisenzio.mp3

  • Kenneth Stern, juriste américain : « Notre définition de l’antisémitisme n’a pas été conçue comme un outil de régulation de l’expression »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/05/21/kenneth-stern-juriste-americain-notre-definition-de-l-antisemitisme-n-a-pas-

    L’universitaire new-yorkais déplore, dans un entretien au « Monde », l’utilisation du concept d’antisémitisme à des fins politiques dans le cadre de la guerre Israël-Hamas.
    Propos recueillis par Valentine Faure

    Le juriste américain Kenneth Stern est directeur du Center for the Study of Hate de l’université de Bard (New York) et auteur de The Con­flict Over the Con­flict : The Israel/​Palestine Cam­pus Debate (University of Toronto Press, 2020, non traduit). Il a été le principal rédacteur du texte sur la définition de l’#antisémitisme de l’Alliance internationale pour la mémoire de l’Holocauste (IHRA), utilisée dans de nombreux pays, dont la France, où elle a été adoptée en 2019 par l’Assemblée nationale en tant qu’« instrument d’orientation utile en matière d’éducation et de formation et afin de soutenir les autorités judiciaires et répressives dans les efforts qu’elles déploient pour détecter et poursuivre les attaques antisémites ». Depuis plusieurs années, il s’élève contre le détournement de cette définition à des fins politiques, pour faire taire les propos critiques envers la politique du gouvernement israélien.

    Vous avez été le principal rédacteur de la définition de l’antisémitisme adoptée en 2016 par l’IHRA, une organisation intergouvernementale basée à Stockholm. Dans quel contexte est-elle née ?

    Après la deuxième Intifada [2000-2005], nous avons observé une nette résurgence de l’antisémitisme en Europe. Chargé de rédiger un rapport, l’Observatoire européen des phénomènes racistes et xénophobes [EUMC] a identifié un problème : ceux qui collectaient les données dans différents pays d’Europe n’avaient pas de point de référence commun sur ce qu’ils devaient inclure ou exclure de leurs enquêtes. Ils travaillaient avec une définition temporaire qui décrivait l’antisémitisme comme une liste d’actes et de stéréotypes sur les #juifs. Les attaques liées à #Israël – lorsqu’un juif est visé en tant que représentant d’Israël – étaient exclues du champ de l’antisémitisme si l’agresseur n’adhérait pas à ces stéréotypes.

    En avril 2004, une école juive de Montréal a été incendiée en réaction à l’assassinat par Israël d’un dirigeant du Hamas. J’ai profité de l’occasion pour interpeller publiquement le directeur de l’EUMC sur le fait que, selon leur définition temporaire, cet acte n’était pas considéré comme antisémite. L’American Jewish Committee, où j’étais expert en matière d’antisémitisme, a pris l’initiative de travailler avec l’EUMC pour élaborer une nouvelle définition, dans le but principal d’aider les collecteurs de données à savoir ce qu’il faut recenser, à travers les frontières et le temps. Le texte liste onze exemples contemporains d’antisémitisme, parmi lesquels « la négation du droit du peuple juif à l’autodétermination » et l’application d’un traitement inégalitaire à Israël, à qui l’on demande d’adopter des comportements qui ne sont ni attendus ni exigés d’une autre nation. Les exemples reflètent une corrélation entre ces types de discours et le niveau d’antisémitisme. Il ne s’agit cependant pas de dire qu’il y a un lien de cause à effet, ou que toute personne tenant de tels propos devrait être qualifiée d’antisémite.

    Aujourd’hui, vous regrettez l’usage qui a été fait de ce texte. Pourquoi ?

    Depuis 2010, des groupes de la #droite_juive américaine ont tenté de s’approprier cette définition, de la marier aux pouvoirs conférés par le Title VI (la loi de 1964 sur les droits civils, qui protège contre la discrimination fondée sur la race, la couleur et l’origine nationale) et de l’utiliser pour tenter de censurer les discours propalestiniens sur les campus. En 2019, Donald Trump a signé un décret exigeant que le gouvernement analyse les plaintes pour antisémitisme en tenant compte de cette définition. Une violation du Title VI peut entraîner le retrait des fonds fédéraux aux établissements d’enseignement supérieur. Au moment de l’adoption de ce décret, Jared Kushner, le gendre de Trump, a clairement indiqué son objectif dans une tribune au New York Times : qualifier tout #antisionisme d’antisémitisme.

    Or, notre définition n’a pas été conçue comme un outil de régulation de l’expression. Sur les campus universitaires, les étudiants ont le droit absolu de ne pas être harcelés ou intimidés. Mais il est acceptable d’être dérangé par des idées. Nous ne voudrions pas que la définition du #racisme utilisée sur les campus inclue l’opposition à la discrimination positive ou à Black Lives Matter, par exemple. L’université est censée être un lieu où les étudiants sont exposés à des idées, où ils apprennent à négocier avec la contradiction, etc. Nous devons être en mesure de répondre et d’argumenter face à ces discours.

    Lors de son témoignage au Congrès sur l’antisémitisme, dans le contexte de manifestations propalestiniennes sur les campus américains, à la question de savoir si « appeler au génocide des juifs violait le règlement sur le harcèlement à Harvard », Claudine Gay, qui était alors présidente de cette université, a répondu que « cela peut, en fonction du contexte ». Comment comprendre cette réponse ?

    Les universités, publiques comme privées, sont tenues de respecter le premier amendement, qui garantit la #liberté_d’expression. La distinction générale du premier amendement est la suivante. Je peux dire : « Je pense que tous les “X” devraient être tués » ; je ne peux pas crier cela si je suis avec un groupe de skinheads brandissant des battes et qu’il y a un « X » qui marche dans la rue à ce moment-là. La situation doit présenter une urgence et un danger. Il y a une distinction fondamentale entre le fait d’être intimidé, harcelé, discriminé, et le fait d’entendre des propos profondément dérangeants. David Duke [homme politique américain, néonazi, ancien leader du Ku Klux Klan] a été vilipendé, mais pas sanctionné, lorsque, étudiant dans les années 1970, il disait que les juifs devraient être exterminés et les Noirs renvoyés en Afrique, et qu’il portait même un uniforme nazi sur le campus. S’il avait été renvoyé, il serait devenu un martyr du premier amendement.

    La suspension de certaines sections du groupe des Students for Justice in Palestine [qui s’est illustré depuis le 7 octobre 2023 par ses messages de soutien au Hamas] est profondément troublante. Les étudiants doivent pouvoir exprimer des idées, si répugnantes soient-elles. La distinction que j’utilise ne se situe pas entre les mots et l’acte, mais entre l’expression (qui peut se faire par d’autres moyens que les mots) et le harcèlement, l’intimidation, les brimades et la discrimination, qui peuvent se faire par des mots également – de vraies menaces, par exemple. En d’autres termes, oui, cela dépend du contexte. Claudine Gay [qui a démissionné depuis] avait donc raison dans sa réponse, même si elle s’est montrée sourde au climat politique.

    Comment analysez-vous la décision de la présidente de Columbia, suivie par d’autres, d’envoyer la police pour déloger les manifestants propalestiniens ?

    La décision de faire appel à la police aussi rapidement n’a fait qu’enflammer la situation. Les campements ont probablement violé les règles qui encadrent le droit de manifester sur le campus. Mais faire appel à la police pour arrêter des étudiants devrait être, comme lorsqu’un pays entre en guerre, la dernière mesure prise par nécessité. D’autres #campus qui connaissent des manifestations similaires ont abordé le problème différemment, déclarant que, tant qu’il n’y a pas de violence ou de harcèlement, ils ne feront pas appel à la #police.

    Vous parlez de « zone grise » de l’antisémitisme. Qu’entendez-vous par là ?

    Dans sa forme la plus dangereuse, l’antisémitisme est une théorie du complot : les juifs sont considérés comme conspirant pour nuire aux non-juifs, ce qui permet d’expliquer ce qui ne va pas dans le monde. Mais voici une question plus difficile : « Où se situe la limite entre la critique légitime d’Israël et l’antisémitisme ? » Cette question porte davantage sur notre besoin de délimitations que sur ce que nous voulons délimiter. Nous voulons simplifier ce qui est complexe, catégoriser un propos et le condamner. L’antisémitisme, pour l’essentiel, ne fonctionne pas ainsi : on peut être « un peu » antisémite ou, plus précisément, avoir des opinions qui se situent dans la zone grise.

    La question la plus épineuse à cet égard demeure celle de l’antisionisme.

    Moi-même sioniste convaincu, je souffre d’entendre dire qu’Israël ne devrait pas exister en tant qu’Etat juif. Je comprends les arguments de ceux qui assurent qu’une telle conception est antisémite : pourquoi les juifs devraient-ils se voir refuser le droit à l’autodétermination dans leur patrie historique ? Mais l’opposition à l’idée d’un #Etat_juif est-elle intrinsèquement antisémite ? Imaginez un Palestinien dont la famille a été déplacée en 1948. Son opposition au sionisme est-elle due à une croyance en un complot juif ou au fait que la création d’Israël lui a porté préjudice, à lui et à ses aspirations nationales ? Et si vous êtes une personne qui s’identifie à la gauche et qui a décidé d’embrasser la cause palestinienne, est-ce parce que vous considérez que la dépossession des #Palestiniens est injuste, parce que vous détestez les juifs et/ou que vous voyez le monde inondé de conspirations juives, ou quelque chose entre les deux ?

    Certains #étudiants juifs sionistes progressistes se plaignent d’être exclus d’associations (de groupes antiracistes et de victimes de violences sexuelles, par exemple) par des camarades de classe qui prétendent que les sionistes ne peuvent pas être progressistes. Or il y a eu de nombreuses annulations d’intervenants perçus comme conservateurs et n’ayant rien à voir avec Israël ou les juifs, comme Charles Murray [essayiste aux thèses controversées] ou Ann Coulter [polémiste républicaine]. Le militant sioniste est-il exclu parce qu’il est juif ou parce qu’il est considéré comme conservateur ? L’exclusion peut être une forme de maccarthysme, mais n’est pas nécessairement antisémite. A l’inverse, certaines organisations sionistes, sur les campus et en dehors, n’autorisent pas des groupes comme Breaking the Silence ou IfNotNow – considérés comme trop critiques à l’égard d’Israël – à s’associer avec elles.

    La complexité du conflit israélo-palestinien, dites-vous, devrait en faire un exemple idéal de la manière d’enseigner la pensée critique et de mener des discussions difficiles…

    Pensez à l’articulation entre distorsion historique, antisionisme et antisémitisme. Le lien ancien entre les juifs et la terre d’Israël est un fondement essentiel du sionisme pour la plupart des juifs. Est-ce une distorsion historique que d’ignorer cette histoire, de considérer que le sionisme a commencé dans les années 1880 avec Herzl et l’#immigration de juifs européens fuyant l’antisémitisme et venant en Palestine, où les Arabes – et non les juifs – étaient majoritaires ? S’agit-il d’antisémitisme, au même titre que le déni de la Shoah, lorsque les antisionistes font commencer cette histoire à un point différent de celui des sionistes, à la fin du XIXe siècle, et omettent une histoire que de nombreux juifs considèrent comme fondamentale ? Un collègue de Bard, qui s’inquiétait de voir les étudiants utiliser des termes tels que « #colonialisme_de_peuplement », « #génocide », « sionisme », a décidé de mettre en place un cours qui approfondit chacun de ces termes. Je réserve le terme « #antisémite » aux cas les plus évidents. En fin de compte, la tentative de tracer des lignes claires ne fait qu’obscurcir la conversation.

  • Bulgaria : Road to Schengen. Part One : the EU’s external border.

    On the 31st of March, Bulgaria - alongside Romania - joined Schengen as a partial member by air & sea. The inclusion of land crossings for full accession of these countries was blocked by an Austrian veto over concerns(1) that it would lead to an increase in people wanting to claim asylum in the EU.

    What is significant about Bulgaria becoming a Schengen member is that, what has been seen in the lead up, and what we will see following accession, is a new precedent of aggressively fortified borders set for the EU’s external Schengen borders. Which in turn may shape EU wide standards for border management.

    The EU’s external border between Bulgaria and Turkey has become infamous for a myriad of human rights violations and violence towards people who are forced to cross this border ‘illegally’. People continually face the violence of these crossings due to the lack of safe and legal routes allowing people to fulfill their right to seek asylum in Europe.

    In 2022 it was along this border that live ammunition(2) was first used against people seeking asylum in the EU. Shot by the Bulgarian authorities. In the same year it was reported(3) that people were illegally detained for up to 3 days in a cage-like structure attached to the police station in the border town of Sredets. It was also known that vehicles belonging to the European border force Frontex - who are responsible for border management and supposedly upholding fundamental rights - were present in the vicinity of the cages holding detained people.

    The EU’s illegal border management strategy of pushbacks are also well documented and commonplace along this border. Testimonies of pushbacks in this region are frequent and often violent. Within the past year Collective Aid has collected numerous testimonies from survivors of these actions of the state who describe(4) being stripped down to their underwear, beaten with batons and the butts of guns, robbed, and set on by dogs. Violence is clearly the systematic deterrence strategy of the EU.

    Similar violence occurs and is documented along Bulgaria’s northern border with Serbia. During an assessment of the camps in Sofia in March, outside of the Voenna Rampa facility, our team spoke to an Afghan man who, 6 months prior, was beaten so badly during a pushback that his leg was broken. Half a year later he was still using a crutch and was supported by his friends. Due to the ordeal, he had decided to try and claim asylum in Bulgaria instead of risking another border crossing.

    Despite the widespread and well documented violations of European and international law by an EU member state, at the beginning of March Bulgaria was rewarded(5) with its share of an 85 million Euro fund within a ‘cooperation framework on border and migration management’. The money within this framework specifically comes under the Border Management and Visa Instrument (BMVI) 2021 – 2027, designed to ‘enhance national capabilities at the EU external borders’. Within the instrument Bulgaria is able to apply for additional funding to extend or upgrade technology along its borders. This includes purchasing, developing, or upgrading equipment such as movement detection and thermo-vision cameras and vehicles with thermo-vision capabilities. It is the use of this border tech which enables and facilitates the illegal and violent practices which are well documented in Bulgaria.

    Close to the town of Dragoman along the northern border with Serbia, we came across an example of the kind of technology which used a controlled mounted camera that tracked the movement of our team. This piece of equipment was also purchased by the EU, and is used to track movement at the internal border.

    The cooperation framework also outlines(6) a roadmap where Frontex will increase its support of policing at Bulgaria’s border with Turkey. In late February, in the run up to Bulgaria becoming a Schengen member, on a visit to the border with Turkey, Hans Leijtens - Frontex’s executive director - announced(7) an additional 500 - 600 additional Frontex personnel would be sent to the border. Tripling the numbers already operational there.

    Meanwhile Frontex - who have been known(8) to conceal evidence of human rights violations - are again under scrutiny(9) for their lack of accountability in regards to the upholding of fundamental rights. Two days prior to the announcement of additional Frontex staff an investigation(10) by BIRN produced a report from a Frontex whistleblower further highlighting the common kinds of violence and rights violations which occur during pushbacks at this border. As well as the fact that Frontex officers were intentionally kept away from ‘hot spots’ where pushbacks are most frequent. The investigation underlines Frontex’s inability to address, or be held accountable for, human rights violations that occur on the EU’s external borders.

    The awarded money is the next step following a ‘successful’ pilot project for fast-track asylum and returns procedures which was started in March of the previous year. The project was implemented in the Pastrogor camp some 13km from the Turkish border which mostly houses people from the Maghreb region of northwest Africa. A 6 month project report(11) boasts a 60% rejection rate from around 2000 applicants. In line with the EU’s new migration pact, the project has a focus on returns whereby an amendment to national legislation has been prepared to allow a return decision to be made and delivered at the same time as an asylum rejection. As well as the launch of a voluntary return programme supported by the 2021-2027 Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF). Through which cash incentives for voluntary returns will be increased across the board. These cash incentives are essentially an EU funded gaslighting project, questioning the decisions of people to leave their home countries based on their own survival and safety.

    Our team visited the former prison of the Pastrogor camp in March. Which at the time held only 16 people - some 5% of its 320 capacity.

    The implementation of this pilot project and the fortification of the border with Turkey have been deemed a success by the EU commision(12) who have praised both as indicators of Bulgaria’s readiness to join the Schengen area.

    Unsurprisingly, what we learn from Bulgaria’s accession to becoming a Schengen member is that the EU is not only deliberately ignoring Bulgaria’s dire human rights history in migration and border management. But, alongside the political and economic strengthening brought with Schengen accession, they are actively rewarding the results of such rights violations with exceptional funding that can sustain the state’s human rights infringements. All while the presence of Frontex validates the impunity enjoyed by Bulgaria’s violent border forces who show no respect for human rights law. In early April the European Commision gave a positive report(13) on the results from EU funding which support this border rife with fundamental rights abuses. In a hollow statement Bulgaria’s chief of border police stated: “we are showing zero tolerance to the violation of fundamental rights”.

    What the changes in border management strategies at the EU’s external border to Turkey- in light of Bulgaria’s entry to the Schengen - mean in reality is that people who are still forced to make the crossing do so at greater risk to themselves as they are forced deeper into both the hands of smuggling networks and into the dangerous Strandzha national park.

    The Strandzha national park straddles the Bulgarian-Turkish border. It is in this densely forested and mountainous area of land where people are known to often make the border crossing by foot. A treacherous journey often taking many days, and also known to have taken many lives - lighthouse reports identified 82 bodies of people on the move that have passed through three morgues in Bulgaria. Many of whom will have died on the Strandzha crossing.

    It is reported(14) that morgues in the towns of Burgas and Yambol - on the outskirts of the Strandzha national park - are having difficulty finding space due to the amount of deaths occurring in this area. So much so that a public prosecutor from Yambol explained this as the reason why people are being buried without identification in nameless graves, sometimes after only 4 days of storage. It is also reported that families who tried to find and identify the bodies of their deceased loved ones were forced to pay cash bribes to the Burgas morgue in order to do so.

    Through networks with families in home countries, NGOs based nearby make efforts to alert authorities and to respond to distress calls from people in danger within the Strandzha national park. However, the Bulgarian state makes these attempts nearly impossible through heavy militarisation and the associated criminalisation of being active in the area. It is the same militarisation that is supported with money from the EU’s ‘cooperation framework’. Due to these limitations even the bodies that make it to morgues in Bulgaria are likely to be only a percentage of the total death toll that is effectively sponsored by the EU.

    Local NGO Mission Wings stated(15) that in 2022 they received at most 12 distress calls, whereas in 2023 the NGO stopped counting at 70. This gives a clear correlation between increased funding to the fortification of the EU’s external border and the amount of lives put in danger.

    People are also forced to rely more on smuggling networks. Thus making the cost of seeking asylum greater, and the routes more hidden. When routes become more hidden and reliant on smuggling networks, it limits the interaction between people on the move and NGOs. In turn, testimonies of state violence and illegal practices cannot be collected and violations occur unchallenged. Smuggling networks rely on the use of vehicles, often driving packed cars, vans, and lorries at high speed through the country. Injuries and fatalities of people on the move from car crashes and suffocating are not infrequent in Bulgaria. Sadly, tragic incidents(16) like the deaths of 18 innocent people from Afghanistan in the back of an abandoned truck in February last year are likely only to increase.

    https://www.collectiveaidngo.org/blog/2024/5/3/bulgaria-road-to-schengen-part-one-the-eus-external-border
    #Bulgarie #frontières #Schengen #migrations #frontières_extérieures #asile #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #violence #Turquie #Sredets #encampement #Frontex #droits_humains #Serbie #Sofia #Voenna_Rampa #Border_Management_and_Visa_Instrument (#BMVI) #aide_financière #technologie #Dragoman #Pastrogor #camps_de_réfugiés #renvois #expulsions #retour_volontaire #Asylum_Migration_and_Integration_Fund (#AMIF) #Strandzha #Strandzha_national_park #forêt #montagne #Burgas #Yambol #mourir_aux_frontières #décès #morts_aux_frontières #identification #tombes #criminalisation_de_la_solidarité #morgue

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    Europe’s Nameless Dead
    https://seenthis.net/messages/1029609

  • Campi di lavoro e lavoro nei campi

    Dall’agosto 1940 e fino alla fine del 1945 vennero internati, in numerosi campi sparsi sull’insieme del territorio ticinese, mediamente circa un migliaio di soldati stranieri, i quali rappresentarono una categoria specifica dell’insieme dei profughi accolti durante la Seconda guerra mondiale. Si trattò in gran parte di soldati polacchi, ma nei campi allestiti in Ticino risiedettero per periodi di tempo variabili pure francesi, italiani, tedeschi, austriaci, sovietici, indiani e vietnamiti, nonché un contingente di combattenti provenienti dal continente africano. Chi erano questi uomini? A quale regime furono sottoposti e perché? Dove sorsero i campi in cui furono confinati? Come trascorrevano le loro giornate? Quali furono i rapporti con la popolazione locale? Quale memoria della loro presenza si è sedimentata in Ticino? Attingendo a fonti archivistiche sinora poco sfruttate, il volume analizza e approfondisce il tema dell’internamento militare sul piano regionale, facendolo costantemente dialogare in senso verticale con quello nazionale. La pluralità degli approcci adottati e dei punti di vista considerati ha consentito di fare emergere alcune specificità ticinesi e, in altri casi, di fare luce su aspetti finora poco studiati dell’internamento militare nel suo insieme. Colmando una lacuna storiografica e fornendo un quadro esaustivo delle coordinate geografiche e temporali dell’internamento militare, il libro si presta a fungere da strumento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la tematica della presenza di internati militari in Ticino ed eventualmente approfondirla sul piano locale.

    #livre
    #camps_de_travail #Tessin #Suisse #histoire #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_polonais #Pologne #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #WWII #mémoire

    • Polish Army in Insubrica region: the case study of Polish internees in Losone

      During the German campaign in the West, in June 1940, 2nd Polish Infantry Division under command of Bronisław Prugar-Ketling (1891-1948) was sent to the French region of Belfort to support 8th French army. After being cut off from supply, approximately 12,000 to 13,000 Polish soldiers of this Infantry Division, crossed the Swiss border on 19-20 June 1940, south of Ajoie, avoiding thus the German capture.

      The soldiers were interned in Switzerland according to the Hague Convention. After a failed attempt to concentrate all Pole servicemen in only one camp in Büren an der Aare, Polish soldiers were dispersed throughout Switzerland. From 1941, barrack camps were set up in all Switzerland, where these Poles soldiers were interned until December 1945. In the Insubrica region, many Polish soldiers were gathered and managed in Losone, nearby Locarno and Ascona.

      These interned Poles soldiers made mainly group-wise work assignments for the Swiss national defence works, related to the national infrastructure like constructions of roads and bridges, drainage of swamps as well as general works in the agriculture. A total of 450 kilometers in paths, bridges and canals were built alone in Ticino by these servicemen. At present, monuments and commemorative plaques commemorate the involuntary stay of these Polish soldiers people throughout the Ticino region. After the war, around 500 Poles were able to settle down in Switzerland, obtaining the Swiss citizenship.

      In addition to building and paving roads between Arcegno and Golino in the Canton Ticino, the Polish army soldiers, interned in the Losone camp during 1941-1945, worked hard to reclaim approximately 100 hectares of the land in the municipality of Losone between “Saleggi” and “Gerre”. This hard work reshaped radically the landscape of the region in the mid of the 1940s.

      Thanks to the intervention of Polish soldiers, a large amount of uncultivated agricultural areas in Ticino could be developed and, later, transformed in tourist and industrial zones.

      A hard work of Polish prisoners allowed a creation of a very important agricultural zone in Losone that persisted for many years until a construction of the famous 18 holes Golf place (shown in the centre of the map that can be seen above).

      Further in the North, in the 1980’s, an important industrial settlement called “Zandone” was created (on the left side of the above shown map). The Polish work allowed to erect a large camping in Melezza and the “Scuderia delle cavalli delle Gerre” in the area of Zandone. Between Arcegno and Golino, Polish soldiers managed to pave a road, that is named today “strada dei polacchi” (in English: Polish road).

      Polish soldiers were interned also in other parts of Switzerland and left unmistakable traces of their hard work. There are several so-called Polenweg‘s, which are roads that were built by Polish soldiers during the Second World War in Switzerland.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2018/04/16/polish-army-in-insubrica-region-case-of-losone
      #Losone

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      Gli internati polacchi nel Locarnese e Valle Maggia

      Avevamo già scritto nell’aprile 2018 su Insubrica Historica un breve contributo sugli internati polacchi nella regione Insubrica. Durante dei lavori di ricerca per un imminente pubblicazione di Insubrica Historica sul Locarnese, abbiamo ritrovato ulteriori dettagli, che valgono la pena di essere condivisi.

      La presenza degli internati polacchi in Ticino e soprattutto nel Locarnese è legata soprattutto alla caserma di Losone posta nella località Piana di Arbigo, la quale ospitò ben oltre la fine del conflitto un ingente numero di soldati polacchi, circa un migliaio. Da questa caserma vennero impiegati per diversi lavori di bonifica. La loro presenza viene ricordata nel Locarnese per la Strada dei Polacchi da Arcegno a Golino, o ancora ad Orselina per la cappella della Madonna di “Ostra Brama”.

      Vi erano però diversi altri campi di lavoro distribuiti nella regione, i quali ospitavano anche loro soldati polacchi. In particolare grazie ad un recente articolo di Fabio Cheda Gli internati polacchi a Maggia, vi sono alcuni dettagli di questi campi nella Valle Maggia.

      I campi erano distribuiti nella maniera seguente: ai Ronchini di Aurigeno (15-30 militi), a Bignasco (10-15 militi), a Cevio (40-50 militi), a Linescio (30-35 militi), presso l’edificio “Cortao di Bonitt” a Maggia (30-35 militi), al Piano di Peccia (fino a 15 militi) e a San Carlo (100-200 militi). Nella sola Valle Maggia vi era circa il 15% (n=200) del totale dei soldati polacchi internati in Svizzera (n=12’000) durante la guerra. La maggior parte di loro erano entrati in Svizzera nella regione del Giura Francese, duranta la disfatta dell’esercito francese nell’estate del 1940.

      L’ubicazione di alcuni di questi campi e località di lavoro come a Lodano, lascia dedurre che l’impiego di questi soldati non era confinato al solo settore agricolo ma soprattutto anche nel disboscamento delle superfici forestali della Valle.

      «Questi baldi giovanotti facevano girare spesso la testa alle ragazze e alle mogli locali, tenendo in considerazione che gran parte degli uomini del paese erano impegnati nel servizio militare. È appurato che i Polacchi abbiano lasciato il segno: una donna si presentò un giorno ai capi responsabili mostrando il ventre gonfio…» (Fabio Cheda, A tu per tu, Dicembre 2020)

      Sempre secondo Fabio Cheda, il rapporto dei soldati polacchi con la popolazione era esemplare. Molto positivo, soprattutto con le signorine della Valle, tanto che vennero celebrati anche dei matrimoni.

      Non tutti i soldati polacchi ebbero la pazienza di restare fino alla fine del conflitto, oppure di ritornare in Pologna. Ve ne sono alcuni che riuscirono anche a fuggire da questi campi di lavoro prima e dopo il conflitto, i quali pur essendo controllati da soldati dell’esercito Elvetico, non sottostavano a rigida disciplina, come invece si ebbe in altri campi soprattutto della Svizzera tedesca.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2021/09/30/gli-internati-polacchi-nel-locarnese-e-valle-maggia
      #internement #internés

    • Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento

      Un’analisi storica sulla presenza degli internati militari polacchi in Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale vuole essere un momento prezioso per una riflessione su noi stessi e sulla nostra terra elvetica: terra di transito in cui i nostri orizzonti hanno potuto incontrarsi, per pochi anni, con un popolo straordinario, che nel dolore, nella perdita e nella sofferenza del conflitto ha saputo dare, oltre che il suo sudore del lavoro - fondamentale per il nostro Paese - durante l’internamento, un esempio unico di dignità, di comunanza e di fratellanza.
      Al di là della politica e delle vicissitudini belliche, gli uomini hanno saputo ritrovarsi, anche soltanto per un istante.

      https://www.editore.ch/shopvm/varia/internati-polacchi-in-svizzera-tra-guerra-lavoro-e-sentimento-detail.html

  • Un article comparant les mérites respectifs, pour les mouvements anti-génocide sur les campus US, de la stratégie BDS et de la stratégie du désinvestissement centrée sur les entreprises

    Student protests will shape a generation of Americans’ thinking on social justice
    Hussein Ibish
    https://www.thenationalnews.com/opinion/comment/2024/05/03/student-protests-will-shape-a-generation-of-americans-thinking-on-s

    For all the rhetoric about the appalling war, Israel’s brutality and the virtually unimaginable number of Palestinian civilians, particularly children, who have been wantonly killed in Gaza, the divestment movement will probably emerge as the next phase of a protracted campaign on US campuses. When anti-apartheid fervour gripped campuses in the 1980s, many universities adopted rules prohibiting their own investment in entities that do business with those practicing apartheid, without limiting the ban to South Africa only.

    The opportunity for student activists, and the nightmare universities will struggle to manage in coming years even without the Gaza war, is built-into those policies. After all, it is difficult to look at the social, economic and political system enforced by Israel’s occupation army, particularly in East Jerusalem and the West Bank, and argue with a straight face that it cannot accurately be described as “apartheid”.
    [...]
    Students may find themselves on rock solid ground in coming years in asking why their universities persist with investments in such a system, or companies with any sort of presence in, or business with, the Israeli settlement project in the West Bank. The pro-Israel and right-wing backlash will be hysterical and reflective of great power, but counterarguments at the universities themselves will be factually hamstrung and intellectually weak.

    The rhetoric of the anti-Gaza war protests has been shaped and informed almost entirely by the boycott, divestment and sanctions (BDS) movement, and these protests in turn have galvanised and breathed new life into the BDS project on American universities.

    But BDS proponents will be on much shakier ground whenever it insists on breaking ties with Israeli universities and especially refusing to deal with Jewish Israeli faculty. Suddenly, they will find, the moral and intellectual equation flips against them, as they will be painting with far too broad a brush and playing into the hands of those would accuse them of anti-Semitism.

    But, especially insofar as they avoid academic and intellectual boycotts and stick to divestment from Israel, and especially anything to do with the occupation and settlements, this coming student movement should prove enduring and potent. It has been operating on the margins of US campuses for the past two decades, meeting with limited success among student structures but virtually none institutionally.

    The main legacy of the current organising against the Gaza war is very likely to be a greatly empowered campus divestment movement regarding Israel that, despite pressure from the same pro-Israel parents, donors and politicians, university administrations will find increasingly unmanageable, effective and possibly irresistible.

    #boycott #divestment #désinvestissement #campus

  • Faschismus: »Sie wurden zunächst nicht als Opfer anerkannt«
    https://www.jungewelt.de/artikel/473799.faschismus-sie-wurden-zun%C3%A4chst-nicht-als-opfer-anerkannt.html


    Gezeichnet: Häftlinge im Konzentrationslager Sachsenhausen (19.12.1938)

    22.4.2024 von Barbara Eder - Jahrestage der Befreiung von Konzentrationslagern: Auch an die Verfolgung sogenannter Asozialer wird erinnert. Ein Gespräch mit Helga Amesberger

    Sie forschen seit Jahren zur Verfolgung sogenannter Asozialer zwischen 1933 und 1945. Wie wurde diese Personengruppe definiert?

    »Asoziale« wurden als sogenannte Arier kategorisiert, die aber nicht in das Bild des sogenannten Herrenmenschen passten. Dabei handelte es sich zum einen um Frauen und Männer, die mit Strafgesetzen in Konflikt gerieten; zum anderen um Menschen, denen »Arbeitsscheu« oder ein unsittlicher Lebenswandel unterstellt wurde. Auch alkoholkranke und Drogen gebrauchende Menschen wurden in der Nazizeit als »Asoziale« stigmatisiert. In den Konzentrationslagern mussten sie den schwarzen Winkel tragen.

    Worin besteht das Spezifikum dieser Opfergruppe?

    Eine gesetzlich geregelte Definition, wer als »asozial« einzustufen ist, gab es nicht. Die Behörden agierten auf Basis von Erlässen und Verordnungen; sie konnten daher sehr willkürlich vorgehen. Der wichtigste war der Grunderlass von 1937 zur Vorbeugehaft, der es ermöglichte, Personen ohne vorangegangene Straftat zu inhaftieren. Dazu kamen unterschiedliche fürsorgerechtliche Bestimmungen, welche die Einweisungen sowohl in Arbeitsanstalten als auch in Konzentrationslager ermöglichten. Die Richtlinie zur Umsetzung des Gesetzes zur »Verhütung erbkranken Nachwuchses« war dahingehend ebenso relevant. In Allianz von Fürsorge, Arbeitsämtern und Medizin war die Polizei dazu angehalten, dem sogenannten Asozialen-Problem ein Ende zu machen. Begonnen hat dies bereits mit der Machtübernahme der Nazis, die Übergänge waren fließend. Auch vor 1933 bzw. 1938 gab es staatliche Maßnahmen gegen gesellschaftlich Marginalisierte. Betonen möchte ich, dass vorwiegend die verarmten Bevölkerungsschichten von der Bekämpfung des »Asozialen«-Problems betroffen waren.

    Gab es eigene Lager für diese Menschen?

    Personen, die als »Asoziale« verfolgt wurden, wurden zunächst oft in sogenannte Arbeits- oder Arbeitserziehungslager gebracht. In Österreich befanden sich solche für Frauen etwa am Steinhof in Wien, in Znaim und in Klosterneuburg, in Bayern war es der »Wanderhof« Bischofsried. Die inhaftierten Frauen und Männer mussten für Firmen, in der Landwirtschaft oder im Lager selbst Zwangsarbeit verrichten. »Asoziale« wurden jedoch auch in Konzentrationslager deportiert. Junge Frauen im Alter zwischen 15 und 21 Jahren kamen etwa ins Jugend-KZ Uckermark – im Nazijargon euphemistisch als »Erziehungslager« für Mädchen bezeichnet. Viele von ihnen waren davor in einem »Arbeitserziehungslager«.

    »Asoziale« sind eine Opfergruppe ohne nennenswerte Lobby. Wie verlief der Weg zur Entschädigung nach 1945?

    Nach 1945 haben sich die fürsorgerechtlichen Bestimmungen und der gesellschaftspolitische Blick auf diese Verfolgtengruppe nicht maßgeblich verändert. Diesbezüglich gibt es eine starke Kontinuität, dies spiegelt sich auch in der Anerkennungspolitik: »Asoziale« Menschen wurden nicht als Opfer des Nationalsozialismus anerkannt, außer sie konnten einen Nachweis erbringen, dass sie beispielsweise auch rassistisch oder politisch verfolgt wurden. In Österreich kam es zu einer schrittweisen Anerkennung mit der Gründung des Nationalfonds für die Opfer des Nationalsozialismus im Jahr 1995. Im österreichischen Opferfürsorgegesetz wurden aber erst 2005 entsprechende Novellierungen vorgenommen. Nach einer Initiative von Nachkommen von Überlebenden und Wissenschaftlerinnen und Wissenschaftlern beschloss auch der Deutsche Bundestag im Februar 2020 die Anerkennung von als »Asoziale« oder »Berufsverbrecher« verfolgten Personen. Es dauerte also fünf bzw. acht Jahrzehnte, bis der Unrechtsgehalt der NS-Maßnahmen gegen diese Opfergruppen erstmals hinterfragt wurde. Niemand war zu Recht im KZ – ganz egal, wie das Vorleben einer Person war, ob sie kriminell wurde oder ob sie sich ein anderes Vergehen zuschulden hat kommen lassen. Konzentrationslagerhaft steht immer außerhalb des Rechts und der Gerichtsbarkeit.

    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Helga_Amesberger

    #Allemagne #Autriche #histoire #nazis #camps #asociaux